Figli di padri rinnegati

di Evali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il villaggio Bliaint ***
Capitolo 3: *** Amanti ***
Capitolo 4: *** Il peccato originale ***
Capitolo 5: *** Specchio ***
Capitolo 6: *** Siamo nati per essere come siamo ***
Capitolo 7: *** Mandragora ***
Capitolo 8: *** La vita è solo dei viventi ***
Capitolo 9: *** Sacrificio ***
Capitolo 10: *** Come topi ***
Capitolo 11: *** Fino alla morte ***
Capitolo 12: *** Avrò il tuo nome con me, tra le mie labbra e nei miei occhi ***
Capitolo 13: *** Veleno ***
Capitolo 14: *** Agnelli e lupi ***
Capitolo 15: *** A morte l'eretico a morte lo stregone ***
Capitolo 16: *** Rivolta ***
Capitolo 17: *** Arley Arley ***
Capitolo 18: *** Trasmutazione ***
Capitolo 19: *** Carne della mia carne, sangue del mio sangue ***
Capitolo 20: *** Epidemia ***
Capitolo 21: *** Fame ***
Capitolo 22: *** Angelo e Bestia ***
Capitolo 23: *** Il giudizio ***
Capitolo 24: *** L'albero della conoscenza del bene e del male ***
Capitolo 25: *** Dolorosi addii, inaspettati ritorni ***
Capitolo 26: *** Snaturata ***
Capitolo 27: *** Oh, Dio, non di salvezza ma di dolore, chi ti presterà la vita, o chi prenderà da altri per dartela ancora? ***
Capitolo 28: *** Gli otto vizi capitali (parte 1) ***
Capitolo 29: *** Gli otto vizi capitali (parte 2) ***
Capitolo 30: *** Gli otto vizi capitali (parte 3) ***
Capitolo 31: *** La maledizione di Imogene ***
Capitolo 32: *** Il mistero delle Strigi ***
Capitolo 33: *** Portami con te, Lucifero ***
Capitolo 34: *** Confessione d'amore ***
Capitolo 35: *** Incubus e Succubus ***
Capitolo 36: *** Anima spezzata ***
Capitolo 37: *** Otto atti per raggiungere la Geenna ***
Capitolo 38: *** Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur ***
Capitolo 39: *** Rivelazioni ***
Capitolo 40: *** Che sia giusto che sia sbagliato ***
Capitolo 41: *** Vetri rotti, sogni lucidi, amori spiranti ***
Capitolo 42: *** Lascito ***
Capitolo 43: *** Eros e Agape ***
Capitolo 44: *** Sensazioni ***
Capitolo 45: *** Vanitas vanitatum ***
Capitolo 46: *** Assassina ***
Capitolo 47: *** La fuga dell'innocente ***
Capitolo 48: *** Da mozzare il fiato ***
Capitolo 49: *** Apoteosi ***
Capitolo 50: *** Gli déi siamo noi ***
Capitolo 51: *** Liberazione ***
Capitolo 52: *** Beltane ***
Capitolo 53: *** L'origine di tutti i mali ***
Capitolo 54: *** Mi dissolverò come il vento, poichè io ti vedo ma tu non vedi me ***
Capitolo 55: *** I peccati dei nostri padri ***
Capitolo 56: *** Il primo amore ***
Capitolo 57: *** Il messaggero da Bliaint ***
Capitolo 58: *** Cuore non duole ***
Capitolo 59: *** Io, che prima ero la mia propria padrona ***
Capitolo 60: *** Flagello di Dio ***
Capitolo 61: *** Anche questo passerà ***
Capitolo 62: *** Verità ***
Capitolo 63: *** Un diamante in un mare di vetro ***
Capitolo 64: *** Il Dio Sanguinario ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
- Padre nostro, sia santificato il tuo nome, sia fatta la tua volontà! Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal peccato!
Padre nostro, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal peccato!
Liberaci dal peccato!
Liberaci dal peccato! – La voce chiara e tremante della ragazza fece vibrare le pareti della cattedrale.
I palmi delle mani uniti tra loro e alzati sopra la testa, le ginocchia puntate sulle mattonelle fredde, gli occhi neri sgranati e lucidi, il fiato corto.
Ripeté la preghiere per altre sette volte, fin quando un monaco non la raggiunse.
Il vecchio le poggiò le mani sulle spalle e si accovacciò accanto a lei, rivolgendole uno sguardo affranto e compassionevole. – Mia cara … hai fatto abbastanza.
- No, padre, posso pregare ancora, devo pregare ancora! – sussurrò con voce rotta.
- Basta così. Ti consumerai la voce e le ginocchia. Il nostro Signore ti ascolterà e valuterà se perdonare i tuoi peccati.
A ciò, la ragazza si voltò a guardarlo, folgorandolo con i suoi penetranti e grandi occhi di pece. – Credete che sia talmente imperdonabile ciò che ho fatto …?  Rimarrò una peccatrice per il resto della mia vita?
 Morirò come una peccatrice?
Il vecchio abbassò lo sguardo e prese un bel respiro. – Il palco è già stato preparato, figliola. Ti stanno venendo a prendere.
La ragazza sbiancò.
- Il rogo. Il rogo è per me …?
- Sì, cara. Solamente con la purificazione del fuoco la tua anima giungerà a Dio, redenta – le disse lasciandole un bacio sulla fronte. – Trova la tua pace, Bernadette Livian.
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Il villaggio Bliaint ***


Il villaggio Bliaint
 
Il bambino seduto sopra le gambe della sua balia muoveva avanti e indietro i piedini per la gioia.
I suoi occhioni che tanto somigliavano a due tondi e brillanti lapislazzuli osservavano attenti e vivaci l’intruglio che stava prendendo forma e consistenza sotto le mani esperte della donna, mentre muoveva la testolina facendo ondeggiare la sua selvaggia chioma castana.
- Ora aggiungiamo delle foglie di felce. Ne hai raccolte quante te ne avevo chieste? – gli domandò affettuosa, continuando a mischiare l’intruglio giallognolo nella ciotola di legno.
 - Lungo il fiume ho contato dodici felci, ognuna di loro aveva tra i venti e i venticinque steli. Su ogni stelo c’erano trentotto foglie. Non potevo scegliere tra più di undicimila foglie, ci avrei messo troppo. Allora ho preso mezzo stelo di una pianta più giovane, e mezzo di una pianta più adulta, in modo che avresti potuto scegliere tra entrambe – spiegò il bambino con disinvoltura, continuando ad osservare le mani scure della donna sgretolare del muschio bianco e unirlo al miscuglio.
- Buon Dio, Blake, sei davvero bravo con i numeri! – esclamò la balia stupita. – Se fossi brava come te riuscirei a tenere a mente le dosi giuste per gli intrugli molto meglio.
- Posso farlo io per te.
La donna sorrise in risposta. - Presto diventerai bravo anche con le lettere, vedrai.
In quello so cavarmela. Ricordo come si scrivono tutti i nomi delle varietà di piante, di cristalli, di radici, di rocce e degli intrugli che mia madre mi ha insegnato e che ho creato io.
- Vuol dire che riuscirai anche a portarmi dei libri dalla biblioteca del villaggio per insegnarmi? – le domandò speranzoso il piccolo, voltandosi a guardarla con le sue biglie luminose.
- Ci proverò, promesso. Dobbiamo solo stare attenti a non farci scoprire da tua madre. Sai che i tuoi genitori non approvano che impari a leggere e a scrivere.
- Giuro che non mi farò scappare una parola.
- Bravo il mio bambino. Intanto posso iniziare insegnandoti a scrivere il tuo nome oggi, che ne dici? – gli propose dandogli un buffetto col dito sul nasino leggermente all’insù.
Egli annuì soddisfatto, ritornando poi a guardare le mani della balia maneggiare il composto che aveva iniziato ad emettere un odore pungente e piacevole.
Chiuse gli occhi cercando di fissarlo nella sua memoria, come faceva con tutto ciò che voleva imprimere tanto indelebilmente nella sua testa da riuscire a ricordarselo in ogni momento, senza fatica.
- Come si chiama questo intruglio? – le domandò dopo un po’.
- Aimanlokran – gli rispose ella.
- Aimanlokran. E tu invochi il potere del nostro Signore ogni volta che ne prepari uno?
- Certo. Dobbiamo farlo tutti.
- Sennò non avrà l’effetto che volete abbia?
 - Esatto. E per ringraziarlo per il suo dono.
In quel momento, la porta della casetta si aprì, rivelando la figura di una ragazza dai folti capelli ricci e lo sguardo serio e turbato. – Myriam, che stai facendo? Cosa stai insegnando a mio figlio? – irruppe precipitandosi accanto ai due, prendendo il bambino in braccio e facendolo scendere dalle gambe della giovane balia.
- Stavo solo preparando un rimedio per la tosse. Ultimamente i venti si sono fatti più freddi e Blake ha cominciato a tossire, perciò …
- So io cosa serve a Blake. Ti ho già ripetuto più volte di non preparare quelle pozioni davanti a lui – la rimproverò interrompendola, per poi voltarsi verso il bambino. – E tu, vuoi spiegarmi cos’è questo?? – gli chiese tirando fuori dalla tasca della sua lunga sottana un cencioso quadernino, aprendolo dinnanzi a lui.
-  È il mio quadernino.
- È il tuo quadernino?? Il tuo quadernino di cosa? È stracolmo di un’infinità di numeri e di strani segni. Che cosa vuol dire??
- Niente.
- Non ti serve a nulla tenere un quaderno per gli scarabocchi. Sai che non approvo queste perdite di tempo.
- Invece mi serve! E poi voglio imparare a leggere, lo userò anche per quello!
- Non urlarmi contro, Even Blake! Cos’è, vuoi diventare un mercante?? Rispondimi!
- No.
- Bene, allora lascia perdere i numeri, perché quelli servono solo ai mercanti.
E dimmi, vuoi diventare un monaco?
- No.
- Allora non ti serve neanche imparare a leggere e a scrivere, tuo padre e io viviamo benissimo anche senza!
Devi concentrarti sul lavoro pratico, sul mantenere la tua famiglia, sullo specializzarti nel mestiere che tuo padre porta avanti! Un giorno andrai a lavorare anche tu nella galleria!
- Io non voglio andare a lavorare nella galleria.
- E invece ci andrai, perché è un onore portare avanti gli scavi nella galleria, estrarre nuovi metalli, nuove pietre preziose e redditizie! È un mestiere prestigioso e che in molti vorrebbero avere l’opportunità di fare, che richiede impegno, pratica, parsimonia e dedizione!
Questo dobbiamo fare, Blake! Lo capisci o no?? Il tuo compito è quello di assistere me e tuo padre, aiutarci, ascoltarci e pregare il nostro Signore.
Nient’altro o ti caccerai in grossi guai.
Mi hai capito??
Detto ciò, gettò il quadernino nelle scoppiettanti fiamme che alimentavano il caminetto.
 
 
DIECI ANNI DOPO
 
  
La ragazza che portava il nome completo di Arley Judith, camminava per le strade fangose del villaggio stringendosi nel suo mantello borgogna, più scuro dei suoi capelli, ma che si intonava perfettamente alla sua lunga chioma cremisi.
Era uno dei pochi regali che le avevano fatto, e se lo teneva ben stretto, perché anche se oramai aveva ben imparato a sopportare il freddo, una protezione in più era sempre ben gradita.
Sapeva che i monaci che l’avevano cresciuta avevano ottenuto quel colore così acceso, denso e particolare mischiando diversi pigmenti ottenuti dai petali delle rose che crescevano vicino al fiume, da alcuni cristalli che utilizzavano anche per scolpire i diamanti dei gioielli che indossavano gli uomini di culto come loro, e del sangue di gatto selvatico, il più corposo e luminoso, dicevano.
Gli abitanti dei villaggi vicini al loro li invidiavano e ammiravano, nutrendo un sentimento contrastante di timore e rispetto nei loro confronti. Tuttavia, era inappropriato parlare di villaggi vicini.
Bliaint si ergeva tra due radure, ad un’altitudine notevole, in uno spazio arieggiato e isolato rispetto agli altri centri abitati,  una grande porzione di verde tutta per loro.
Nonostante l’ampiezza del villaggio, non erano in troppi ad occuparlo, difatti non avevano mai rischiato il sovraffollamento grazie al controllo delle nascite.
D’estate e in primavera vi erano venti caldi ad allietarli dai freddi e ostili inverni, il sole splendeva su di loro,  nonostante l’aria soffiasse impetuosa come sempre era solita fare, smuovendo vestiti e capelli.
Ma la stagione migliore era l’autunno. In quei mesi dell’anno le piogge animavano quasi incessantemente le notti, portando nebbia e pace durante il giorno, insieme ad un clima temperato e ad una strana e suggestiva atmosfera, in grado di animare i corpi e le menti.
Tuttavia, non vi erano solo boschi e verdi campi a Bliaint, ma anche diverse paludi, specialmente dove scorreva il fiume, nel punto più in alto.
Camminando sin oltre la radura, sorpassando i confini del villaggio, vi era anche uno splendido lago, sede di maledizioni e leggende, evitato da chiunque preferiva rimanere al suo posto e non cacciarsi in situazioni spiacevoli.
Soprattutto da chi cercava di rifuggire la magia e tutto ciò che portava con sé.
Il lago era spesso frequentato da streghe e stregoni, per praticare i loro riti in tranquillità, circondati dal silenzio, dalla luce e dall’aura immacolata della natura.
Era sempre stato ambiguo e indefinito il rapporto che sussisteva tra la chiesa e la magia.
O meglio, tra una chiesa e l’altra.
Frequentemente Judith si sentiva gli occhi puntati addosso, ma sapeva che fosse solo una sua impressione, poiché in pochi erano a conoscenza di chi fosse sua madre e di che fine avesse fatto.
Non che i roghi non fossero frequenti nel loro villaggio, soprattutto in quel periodo, nel quale erano notevolmente aumentati per svariati motivi; tuttavia, quando Bernadette Livian era stata arsa viva dinnanzi a tutti gli abitanti di Bliaint, non fu come le altre volte.
Judith aveva solo sei anni quando accadde, ma sapeva che sua madre avesse sbagliato come nessun altro avesse sbagliato prima di allora. Nonostante ciò, era troppo piccola per capirne appieno le motivazioni.
Quando, dopo l’esecuzione, era andata a vivere nella cattedrale poiché non aveva altri parenti in vita, era successo qualcosa di molto grave, aveva agito nel modo in cui aveva agito, benché sapesse di non poterselo permettere, nella sua delicata situazione.
Eppure, era stata risparmiata dall’infinita misericordia dei monaci, i quali, invece di farla giustiziare, l’avevano mandata nella cattedrale del credo opposto.
Quando aveva udito il racconto che veniva narrato a tutti i bambini di Bliaint in tenera età, la storia riguardo le origini del loro villaggio e dei loro due credi, era rimasta molto incuriosita dal tutto.
Sentire delle tremende calamità che avevano improvvisamente colpito e quasi sterminato gli antichi abitanti del loro villaggio, molte generazioni prima, nonostante la loro fede salda e incrollabile, l’aveva sorpresa.
Quando il salvatore, il monaco Allister Chaim, sull’orlo della esasperazione e della perdita della ragione per la loro condizione, aveva ipotizzato che tale punizione non fosse stata inflitta dal Dio che tanto deditamente servivano, ma dal Diavolo che tanto disprezzavano, poiché il primo dei traditori e dei bugiardi, l’angelo caduto dal cielo e rinnegato, gli abitanti del villaggio avevano iniziato a riflettervi su.
E ricordava che, udendo quella storia, anche lei avesse pensato lo stesso, chiedendosi perché i suoi antenati non ci fossero arrivati prima.
D’altronde, anche il Diavolo era un dio ormai, in seguito alla sua ribellione. Egli doveva aver acquisito eguali poteri al Creatore, aveva il suo esercito di angeli e dominava il suo regno, solamente, invece che in cielo, governava sottoterra.
Per questo aveva riversato tutta la sua ira sul loro villaggio, perché i suoi abitanti non lo riconoscevano come divinità.
Da quel momento in poi, Bliaint era stato diviso in due: metà abitanti servivano un signore, e la rimanente l’altro, per non provocare l’ira né dell’uno, né dell’altro.
Non fu facile, inizialmente, far abituare gli uomini all’idea di servire qualcuno che avevano sempre rigettato, disprezzato come il male peggiore al mondo.
Per questo dovevano trovare un valido criterio per effettuare un’equa divisione.
Fu sempre Allister Chaim a proporre la giusta soluzione: essendo risaputo che il Diavolo fosse stato il più bello tra tutti gli angeli del Creatore, e che spesso usasse questa dote per indurre in tentazione i seguaci del suo eterno rivale, l’unico criterio adatto da utilizzare sarebbe stato quello basato sull’aspetto fisico dei singoli.
I più belli, simbolo di tentazione, di un’esteriorità seducente e incantatrice quanto di un’anima impura che anela a macchiarsi, avrebbero servito il Diavolo; mentre, coloro più sgradevoli alla vista, possessori di un’apparenza repellente quanto di un’anima immacolata, perfetta e incontaminabile, avrebbero servito il Creatore.
Quando iniziarono ad esservi i primi ribelli tra la fazione del villaggio selezionata come di bell’aspetto, condannata a rinnegare il loro credo, cominciarono anche i primi roghi con delle vittime diverse dalla streghe. I rivoltosi, tramite la loro sfiducia e la loro cieca ostinazione ai decreti di Allister Chaim, dimostrarono che il criterio utilizzato fosse corretto, e che fossero esattamente gli abitanti avvenenti a possedere una bellezza solo effimera, con un’anima priva di nobiltà e di spirito di sacrificio.
Ebbero persino il coraggio di accusare il salvatore di aver imposto tale criterio perchè egli possedeva un aspetto ripugnante e voleva continuare a tutti i costi a servire il Creatore.
In seguito alla soppressione delle prime rivolte, tutti gli abitanti si abituarono alla nuova condizione, a frequentare due chiese differenti, a servire un signore diverso, a mutare i segni di fede, le preghiere, a rivolgersi solo ai monaci che adoravano il loro stesso dio, a sposarsi e a riprodursi solo tra coloro che appartenevano al proprio culto.
Ogni violazione delle leggi divenne punibile con il rogo.
Le sembrava strano pensare che, prima di allora, la situazione fosse diversa, che non vi fosse alcuna divisione e tutti servissero lo stesso dio, ma soprattutto, che fuori dai confini di Bliaint, nessuno seguisse le loro leggi.
Come quasi ogni abitante di Bliaint, non era mai uscita dal confini del villaggio, e ciò era sicuramente attribuibile alla loro forte territorialità.
In ogni caso, ripensandovi su, eccetto che per l’enorme distanza nell’aspetto fisico, sembrava non esservi quasi differenza tra i servitori dei due signori, né discriminazione tra loro.  
Senza contare i momenti dedicati alla preghiera e alla pratica del culto, socializzavano con tranquillità, senza mai sorpassare i confini consentiti dalla legge che imponeva di intrattenere rapporti sessuali e sposarsi solo con i fedeli dello stesso credo.
Judith sapeva che, negli altri villaggi, girassero diverse dicerie riguardo la straordinaria bellezza di metà degli abitanti di Bliaint, e che in molti desiderassero visitarlo solo per poter vedere con i propri occhi e constatare quanto fossero vere quelle voci.
Chissà perché il tremendo aspetto dell’altra metà non fosse altrettanto noto.
Sì, eccetto quel visibilissimo dettaglio, non vi erano quasi differenze.
“Quasi” perché, in realtà, una divergenza sostanziale c’era, ma tutti preferivano non farne parola, semplicemente ignorarla, nonostante fosse oramai una questione totalmente accettata e naturalizzata.
Tale differenza consisteva nella legittimità e libertà delle pratiche magiche e stregonesche.
Prima di Allister Chaim e della divisione, ogni strega, nonché servitrice del Diavolo, era punita con il rogo.
Tuttavia, dopo il cambiamento, tutti coloro che appartenevano alla fazione dei servitori del Diavolo vennero esonerati nell’utilizzo della magia, sia bianca che nera.
Ognuno di loro poteva esercitare liberamente quelle pratiche, a patto che evocasse e ringraziasse il suo signore per averglielo concesso, come facevano per ogni cosa.
Ed era in quel contesto che si collocava l’anormalità del peccato che aveva commesso sua madre Livian dieci anni prima.
Ella era stata scoperta ad esercitare pratiche non riconosciute e categorizzate come “magiche” senza evocare l’aiuto o il potere di alcun signore.
Nessuno era mai riuscito ad utilizzare quelle facoltà senza il potere ultraterreno del Diavolo in prestito, da quel che era noto.
Judith si era domandata molte volte come sua madre vi fosse riuscita e perché lo avesse fatto, ma non era ancora stata in grado di indagare abbastanza a fondo.
D’altronde, aveva ancora tanto tempo e modo per farlo, nonostante i monaci che l’avevano cresciuta, appartenenti al credo opposto al suo, si raccomandassero sempre con lei di non ficcare il naso in giro, di tenere i suoi occhi e la sua curiosità a posto.
Malgrado tutto ciò che le era accaduto in quei sedici anni di vita, non poteva lamentarsi degli anni vissuti.
I monaci le avevano insegnato a leggere e a scrivere egregiamente, un lusso che non veniva concesso a nessuno che non volesse diventare un uomo di culto; inoltre le permettevano di usufruire dell’enorme biblioteca del villaggio, e l’avevano istruita nell’arte del canto, facendola entrare nei cori che allietavano le orecchie dei fedeli durante le funzioni.
La vestivano bene e le davano prelibatezze da mangiare, trattandola come una figlia, una protetta.
Non era difficile abitare nella cattedrale dei servitori del Creatore, e, al contempo, servire il Diavolo.
Le bastava abitare lì, ma andare nell’altra cattedrale ogniqualvolta volesse pregare e assistere alle funzioni.
Tuttavia, non era raro che i monaci con cui viveva le chiedessero di dar loro una mano durante i riti e di sostituirli talvolta nelle confessioni dei loro fedeli.
Non era considerato tradimento, né infedeltà nei confronti del suo signore, poiché i suoi aiuti consistevano in impieghi pratici, i quali non richiedevano che la sua sfera emotiva e privata venisse coinvolta.
All’inizio era stato strano essere la persona più bella presente nella cattedrale, soprattutto durante le funzioni, quando quel luogo si riempiva di fedeli che la fissavano senza tregua, ed ella non sapeva come interpretare quegli sguardi persistenti.
No, non la più bella, bensì l’unica presenza bella.
Si fermò dinnanzi ad una bancarella che vendeva cristalli di diverso tipo e colore, osservandoli attentamente.
Gli occhi dal taglio affilato e dalle iridi buie e nere come sommerse da un mare di ossidiana, si mossero sulle varie pietruzze di fattura ancora grezza.
Fece uscire un braccio dal mantello e si tolse un guanto di tessuto nero e sottile, lasciando la sua mano aggraziata, bianca e dalle delicate dita affusolate, libera e vacante.
Sfiorò il materiale duro e tagliente di cui erano composti i cristalli, notando che la pietra color ametista incastonata nell’anello che indossava sul dito medio, oltre a contrastare notevolmente con la tonalità della propria pelle, formava un bel connubio anche avvicinata a determinati cristalli esposti, tra quelli dotati di pigmentazioni calde e tenui.
- Ve ne intendete di colori, signore? – domandò distrattamente, alzando lo sguardo verso il venditore al di là della bancarella.
Si rese conto solo in quel momento che l’uomo avesse abbassato lo sguardo ingenuamente imbarazzato e cercasse quasi disperatamente di non posarle gli occhi addosso.
Judith accennò un sorriso involontario, provando tenerezza, come la provava ogni volta che si trovava davanti a qualcuno dei servitori del Creatore.
- Signore? – richiamò gentilmente la sua attenzione inclinando lievemente il volto di lato.
A ciò, questo sembrò prendere coraggio e alzare gli occhi su di lei. – Sì, signorina …?
- Ho chiesto se ve ne intendete di colori. Vorrei acquistare uno di questi cristalli. Sapete per caso se vengono dal fiume, dalla galleria o da fuori il villaggio?
- Vengono dalla galleria, signorina.
- Buon Dio. Vorrei avere l’opportunità di andare là sotto almeno una volta per vedere con i miei occhi quali altre gemme e tesori vi si nascondono – commentò prendendo uno dei tanti cristalli con le dita, portandoselo vicino al viso per osservarlo meglio.
- Credo che quello si intoni bene con i vostri occhi e i con i guanti, signorina. E anche con la collana che indossate – le rivelò l’uomo.
- Credete? – rispose ella regalandogli un lieto sorriso.
Effettivamente, il colore di quel cristallo era uno di quelli che preferiva: un misto tra grigio platino e grigio perla. La collana che le circondava il collo sottile ed elegante che il venditore aveva evidentemente notato, consisteva in una striscia di leggero velluto color avorio, semplice e aderente alla circonferenza.
- Grazie per il consiglio. Credo che lo prenderò. Tuttavia, non mi serve per indossarlo: lo userò per realizzare un bellissimo candelabro – gli disse tirando fuori dalla tasca del suo mantello un sacchettino colmo dei monete d’argento.
L’uomo prese il denaro senza neanche sfiorare le dita della ragazza, riabbassando immediatamente lo sguardo inconsciamente intimidito.
Judith sorrise, prese il cristallo e gli augurò buona giornata, per poi ricominciare a camminare nella strada fangosa cosparsa di persone che, proprio come lei, passeggiavano godendosi quel magico e rinvigorente vento autunnale.
 
Il giovane prete camminò nella strada fangosa che l’avrebbe condotto alla casetta che corrispondeva alla sua destinazione, appena giunto in quel villaggio tanto decantato e diverso dal suo.
Si strinse la sua fidata bibbia sottobraccio e cercò di affilare lo sguardo per vedere la strada dinnanzi a sé nonostante la fitta nebbia serale.
Lungo il viale vi erano posizionate diverse lanterne che illuminavano i dintorni di una fioca e discreta luce, ma non riuscì comunque a notare nessuno che fu in grado di attirare la sua attenzione in quanto ad aspetto fisico, né in un opposto né nell’altro.
Essendo calato il tramonto già da un po’, vi erano pochi individui ancora in giro per il villaggio, poiché dovevano esser tutti già rincasati per la cena, pensò il prete.
Sì, la sua curiosità riguardo quel luogo quasi leggendario scalpitava, nonostante cercasse di nasconderlo e sapesse bene di non essere stato inviato lì per studiare gli usi e i costumi degli abitanti di Bliaint, ma per ben altre faccende.
Tuttavia, di certo Dio non lo avrebbe punito per un po’ di sana curiosità.
Baciò il crocefisso che portava sempre appeso al collo e si fermò dinnanzi alla casa che risultava sulla mappa fornitagli dal parroco che lo aveva inviato in quel villaggio, la quale gli era stata consegnata a sua volta da un visitatore che aveva avuto modo di mappare Bliaint con misurata precisione.
Bussò alla porta e attese che qualcuno aprisse, rileggendo il nome segnato sul foglio.
Attese diversi minuti, stringendosi nella giacca pesante, cercando di non far battere i denti per l’aria sempre più fredda che gli stava penetrando nei vestiti.
Non appena decise che avrebbe bussato una seconda volta, vide la porta dinnanzi a sé aprirsi e rivelare la figura di una bellissima donna, forse con qualche anno più di lui.
Ella possedeva una rigogliosa chioma di splendidi ricci color cioccolato, la pelle chiara, tondi occhi azzurri, delle labbra che parevano quasi disegnate e le guance rosee.
Non aveva mai visto una donna tanto bella in vita sua, né si sarebbe mai sognato di vederla, neanche da lontano.
Il giovane prete abbassò spontaneamente lo sguardo quando ella gli rivolse un’espressione confusa e sorpresa.
 - Questa è la casa in cui abita il signor Dun Rolland? – trovò il coraggio di domandarle.
- È mio marito, sì. Chi lo cerca?
- Sono padre Craig, provengo dal villaggio Armelle, sotto la vallata. Mi è stato detto di raggiungere la vostra casa e che voi mi avreste ospitato per questo breve soggiorno nel vostro villaggio.
A ciò, ella sgranò gli occhi mortificata. – Oh, siete voi il nostro ospite?? Perdonate il mio sgomento, ero così presa nel preparare la cena da aver temporaneamente dimenticato il vostro arrivo. Che sbadata! Entrate, prego! Io e mio marito abbiamo già preparato una camera per voi – lo incoraggiò sorridendogli gentilmente, spostandosi di lato per farlo entrare.
Padre Craig ricambiò il sorriso ed entrò, godendosi il tepore caldo della casetta immersa nel fuoco del caminetto. Si asciugò le scarpe nel tappetino all’entrata e si guardò intorno, notando immediatamente quanto l’ambiente fosse pulito e accogliente.
- Rolland! Rolland, è arrivato il nostro ospite! – la donna richiamò suo marito, attendendo che rispondesse, voltandosi ogni tanto a guardare lo sconosciuto e a sorridergli. – Siamo davvero felici che siate qui. A noi abitanti di Bliaint non capita spesso di avere visitatori.
A dire il vero quasi mai.
È bello confrontarsi con qualcuno di diverso ogni tanto – lo disse con una sincerità nella voce che scaldò il cuore del giovane prete.
- Ne sono molto lieto anche io, signora.
Mi hanno parlato molto del vostro villaggio, non vedevo l’ora di avere l’occasione di visitarlo.
- Spero vi troverete bene qui.
- Ne sono certo, signora … - le rispose bloccandosi, rendendosi conto di non conoscere ancora il nome della bellissima donna che aveva di fronte.
- Oh, perdonate nuovamente la mia maleducazione! Alma Heloisa. Mi chiamo Alma Heloisa.
- Anche voi con il doppio nome come vostro marito. Lo avete tutti?
- Sì, padre.
- Affascinante. E con quale dei due preferite che vi chiami?
- Oh, sicuramente con il secondo, padre! – gli rispose sorridendo lievemente imbarazzata, come se le avesse posto una domanda scontata.
- Rolland, mi hai udita? Padre Craig è qui! – lo richiamò nuovamente, stavolta vedendolo sbucare quasi subito da una delle porte chiuse, raggiungendoli.
Anche nel trovarsi dinnanzi ad un uomo che sicuramente ogni donna avrebbe trovato notevolmente avvenente, il giovane prete non riuscì a fare a meno di sentirsi intimorito.
 Delle piccole rughe ergevano nel suo viso spigoloso nei punti giusti, ma non inficiavano assolutamente nell’eleganza e nell’equilibrio di quei lineamenti, anzi, non facevano che aumentarne la gradevolezza, esaltando un tipo di disturbante fascino che non faceva altro che avvilire il giovane prete, facendolo sentire una sorta di piccolo mostriciattolo dinnanzi a lui.
Come se non bastasse, solo quando Dun Rolland si avvicinò a lui riuscì ad accorgersi di quanto fosse realmente alto: un uomo di quella statura non si era mai visto nel luogo in cui era nato e cresciuto.
- Oh caro, eccoti finalmente!
- Perdonatemi, stavo riposando in seguito all’impegnativa giornata di lavoro – gli disse Rolland puntando i suoi intensi occhi chiari ed autoritari su di lui. – Spero non siate infastidito da questa breve attesa.
- Oh no, assolutamente no, signor Rolland!
- Ma prego, toglietevi pure il vostro cappotto, in modo che mia moglie possa metterlo ad asciugare davanti al fuoco. Avete proprio scelto il periodo sbagliato per giungere a Bliaint: le sere d’autunno sono spesso movimentate da forti piogge.
- Mi abituerò all’umidità senza problemi, signor Rolland – gli rispose cortese, porgendo il suo cappotto ad Heloisa. – Inoltre, quest’aria densa che vi è all’esterno, fresca, pulita e pregna di nebbia, mi piace.
Udì Heloisa sorridere in risposta, mentre si spostava sul bancone della cucina, e dava loro le spalle.
- Quando uno straniero viene qui a Bliaint, finisce per amare spropositatamente o per provare un odio repellente nei confronti del nostro villaggio. Non credo vi sia una via di mezzo – gli disse Rolland rivolgendogli un sorriso affabile mentre si sedeva al tavolo, invitandolo a fare lo stesso.
- Allora, padre Craig. Sono stato informato del vostro arrivo giusto questa mattina da un monaco della nostra cattedrale. Purtroppo le lettere e le comunicazioni provenienti dagli altri villaggi ci giungono in ritardo.
Siamo abbastanza isolati qui. Tuttavia, sono lieto di ospitarvi nella mia casa.
Ho saputo che siete stato mandato qui per studiare i metalli della nostra galleria.
- Già. Mi siete stato indicato voi perché la vostra famiglia è custode della galleria di Bliaint da generazioni, siete voi che gestite i lavoratori che scavano al suo interno.
- Sì, è così. La galleria ci ha sempre portato enormi soddisfazioni. Dal suo interno abbiamo estratto oro, argento, rame e moltissimi altri metalli.
- Metalli di cui noi non conosciamo neanche l’esistenza, signor Rolland. Questo luogo è una riserva di tesori - commentò il giovane prete. – I costruttori e alcuni compratori sono interessati al commercio con Bliaint.
Al termine del mio soggiorno qui potremo prendere accordi nel caso in cui accetterete la nostra proposta di dare inizio ad un rapporto di scambio tra noi e altri villaggi adiacenti.
A ciò, Rolland gli rivolse un sorriso indefinibile, uno di quelli che, padre Craig ne era certo, erano in grado di fargli stranamente gelare le viscere.
- Siamo indubbiamente lusingati dalla vostra proposta, padre. Tuttavia, i nostri cristalli e i nostri metalli hanno un valore inestimabile per noi.
Spero possiate comprenderlo.
- Certo. Certo, certo che lo comprendo – gli rispose, facendo fatica a non balbettare.
- Madre, posso mangiare qualcosa prima di dormire? – si intromise una vocina soffice, tenue, proveniente da una delle porte semiaperte.
Padre Craig alzò lo sguardo e da essa vide sbucare fuori un bambino di forse sette o otto anni, con dei sottili capelli biondi, la pelle tanto chiara da sembrare cadaverica e il corpicino forse sin troppo magro per la sua età.
- No, Ioan, lo sai che dopo aver preso le medicine non puoi più mangiare. Torna a letto – lo esortò amorevolmente Heloisa.
Ma il bambino neanche l’aveva udita, poiché aveva immediatamente catapultato lo sguardo curioso sul nuovo arrivato. – Chi siete voi? – aveva domandato il piccolo avvicinandosi a piedi scalzi.
- Ioan, ma che modi sono?? – lo rimproverò suo padre.
- No, non fa niente – rispose padre Craig rasserenando Rolland, per poi rivolgersi al bambino. – Piacere di conoscervi, io sono padre Craig – gli disse sorridendogli.
- Christofer Ioan – rispose egli ricambiando con un dolce riso. – E perché siete in casa nostra? – continuò a domandargli con tutta l’innocenza del mondo negli occhi.
- Oh, perdonate davvero mio figlio, padre, ha preso alcune cattive maniere da suo fratello – si scusò bonariamente Rolland prendendo il ragazzino e ponendoselo seduto sopra le proprie gambe.
- Avete anche un altro figlio? – chiese sorpreso il giovane prete.
- Sì. Due figli maschi, ci credete? Forse il sogno di qualsiasi uomo, ma ascoltate me: sono praticamente ingestibili. Soprattutto se si alleano insieme – gli disse Rolland smuovendo delicatamente i capelli del piccolo, maneggiandolo quasi come fosse un fiore sul punto di appassire.
- Blake sarà qui a momenti. Anche lui sapeva del vostro arrivo, e per quanto irresponsabile sia, sa che deve farsi trovare qui prima di cena, e lo farà.
Altrimenti sarà peggio per lui – commentò Heloisa con palese agitazione nella voce, cessando di tagliare le patate e voltandosi verso di loro.
- Arriverà, cara, non preoccuparti.
Presto sarà qui.
Non essere troppo severa con lui.
- Non essere troppo severa?? – ripeté infastidita Heloisa verso suo marito.
- Avete nominato delle medicine poco fa – interruppe il loro confronto padre Craig, cercando di calmare gli animi. – Come vi trovate, per quanto concerne le cure mediche?
- Oh, padre, possediamo le migliori cure mediche in circolazione in tutto l’altopiano – si vantò Rolland.
- Davvero? Noi ne siamo un po’ carenti ultimamente.
Prima che Heloisa o Rolland potessero rispondergli, la porta della casa scricchiolò, aprendosi, attirando la loro attenzione.
Da essa entrò un giovane ragazzo prestante, di alta statura, ma che non dimostrava più di diciassette, o massimo diciotto anni.
Se padre Craig era rimasto atterrito non appena aveva visto Heloisa e Rolland, ora che si trovava davanti Blake provava davvero l’istinto prorompente di nascondersi sotto qualche sedia e rimanervi fino alla fine del suo soggiorno, poiché il ragazzo era più bello della madre e del padre messi insieme e la sua presenza era più intimidatoria di quella del padre, in maniera del tutto differente.
Ciò non aveva tanto a che fare con il suo corpo, ma con l’energia famelica dei suoi occhi, con l’aura che emanava.
- Blake! – esclamò Ioan scendendo immediatamente dalle gambe di suo padre e fiondandosi ad abbracciare il fratello, il quale fece immediatamente deviare i suoi vividi occhi blu verso padre Craig, scrutandolo.
- Che cos’hai portato?? – riattirò la sua attenzione Ioan sporgendosi verso il cesto che Blake reggeva in mano, il cui contenuto era coperto da un telo bianco.  
- Alla buon’ora! – commentò Heloisa avvicinandosi a lui a sua volta, con le braccia conserte. – Dove sei stato fino a quest’ora?
- Mi date il tempo di mettere piede in casa? – rispose il ragazzo guardando prima l’una, poi l’altro, per poi accovacciarsi dinnanzi a quest’ultimo e aprire il cesto.
- Guarda cosa ti ho portato – gli disse infilando la mano dentro il telo bianco e tirando fuori un piccolo contenitore pieno di grandi fragole rossissime, le più grandi che il giovane prete avesse mai visto.
- Per me?? Grazie! – esclamò Ioan prendendo il suo dono e rivolgendogli un sorriso a settantadue denti,  mentre suo fratello gli scompigliava amorevolmente i capelli.
- Guardati, hai preso tutta la pioggia, il tuo mantello è umido. Dammelo o ti infreddolirai – lo esortò Heloisa venendo totalmente ignorata, mentre Blake aiutava il suo fratellino a sistemare le fragole su una delle dispense della cucina.
- Lo sai che Ioan non può mangiare frutti troppo dolci, i monaci dicono che gli zuccheri gli fanno male - continuò Heloisa.
- Padre Craig, questo è Even Blake, il mio primogenito – lo presentò Rolland guardandolo, vedendolo riavvicinarsi e fare un cenno con la testa all’ospite, in segno di rispetto.
- Mi stai ascoltando? Che cosa hai fatto fino ad ora? – gli ridomandò Heloisa affiancandolo.
- Buonasera anche a te, madre – la degnò finalmente di attenzione il ragazzo, voltandosi verso di lei e mostrandole il contenuto del cesto, colmo di verdure fresche. - Ho raccolto le carote per il tuo stufato.
A ciò, Heloisa lo prese in disparte per cercare di dare meno spettacolo possibile davanti al loro ospite.
- Non puoi averci impiegato tutto questo tempo, non prendermi per stupida come fai sempre.
Sono stanca delle risposte spicciole e di questa tua aria di sufficienza, Even! – gli sussurrò spazientita, ma non abbastanza piano da non venire udita anche dagli altri.
In risposta, Blake le sorrise candidamente, senza dire una parola, come per indispettirla maggiormente.
- Sono confuso. Signora Heloisa, poco fa non mi avevate detto che utilizzate solo il secondo nome? - domandò ingenuamente incuriosito il giovane prete, facendo spostare l’attenzione di madre e figlio su di lui.
- Il primo nome può essere utilizzato solo dai pochi intimi della persona in questione, padre, se questi lo desiderano – gli spiegò Blake avvicinandosi. – Cosa vi porta qui? – gli domandò poi, poggiandosi con il fianco al tavolo, in attesa.
- Come ho detto a vostro padre poco fa, provengo dal villaggio Armelle e mi hanno mandato qui per studiare i metalli e i cristalli di vostra produzione. Anche voi lavorate nella galleria della vostra famiglia, Blake?
- Sfortunatamente.
A tale risposta, Rolland si lasciò andare ad una grossa risata. – Il solito melodrammatico! In realtà, sono più le volte in cui non si presenta e rimane alla luce del sole, vero, figliolo? Ormai la sua presenza nella galleria è un’allucinazione dal cielo! – esclamò Rolland, provocando un involontario brivido lungo la schiena del giovane prete a quelle ultime parole, facendogli ritornare alla mente a quale dei due credi del villaggio appartenesse la famiglia che lo stava ospitando.
Come se la sua agitazione potesse avere un malizioso ruolo in tutto ciò, il suo sguardo si posò altrettanto involontariamente sul crocefisso appeso al contrario sulla parete dietro le spalle di Blake.
Represse con tutto se stesso il forte istinto di farsi il segno della croce e di baciare il suo di crocefisso, appeso nel verso giusto intorno al suo collo.
Blake ovviamente si accorse del suo disagio e affilò lo sguardo, in silenzio. – Siete qui perché la nostra famiglia possiede la galleria da generazioni, certo, ma, guarda caso, siamo anche una delle famiglia che servono il Diavolo.
Siete sicuro che voi e i vostri colleghi di Armelle non siate stati spinti più dalla curiosità, che dall’odore di affari?
- Blake! Buon Dio, perdonatelo! – si scusò per lui Heloisa, asciugandosi la fronte con la pannella, mentre suo figlio non batteva ciglio e continuava a guardare fisso il loro ospite.
- Beh, sarei un ipocrita se negassi di nutrire dell’interesse nel conoscere qualcosa riguardo il vostro credo e la coraggiosa decisione che hanno preso i vostri avi nel dividere il villaggio per combattere la calamità, rendendolo servo di due signori - rispose padre Craig prendendo coraggio.  
- Beh, speriamo che rimanga interesse e non si tramuti in ossessione.
Non è bene scavare troppo in un passato che non vi riguarda – disse Blake in quello che gli sembrò una sorta di monito, o forse una fredda raccomandazione.
Le mani del giovane prete, oramai fuori dal controllo del loro proprietario, si mossero di nuovo, raggiungendo il suo petto coperto dalla tunica, esattamente nel punto in cui, sotto il tessuto, si trovava il ciondolo del crocefisso.
- Potete baciare il crocefisso e farvi il segno della croce, se volete.
Siamo molto liberi a riguardo. Ognuno di noi può rivolgere segni di rispetto e adorazione al proprio signore o pregarlo apertamente, anche dinnanzi a chi non serve lo stesso dio – lo rassicurò Blake.
- Ma questa, ma questa è casa vostra … sarebbe irrispettoso se …
- Padre, come vi ha detto nostro figlio, siamo molto liberi a riguardo – lo interruppe Rolland, ponendo fine al balbettio del suo ospite. – Potete anche pregare il vostro signore in questa casa, se lo desiderate.
- Assolutamente, padre – confermò Heloisa con il massimo rispetto. – E se il nostro crocefisso posto al contrario vi disturba, potrei …
- No, ci mancherebbe, signora Heloisa. Non proponetelo neanche. Sono io ad essere ospite in casa vostra, non mi permetterei mai di chiedervi di toglierlo per me.
Cerco e voglio sempre rispettare i culti altrui, differenti dal mio – la bloccò padre Craig, accennandole un mortificato sorriso.
- Beh, che cosa volete sapere riguardo il nostro credo? Chiedete pure! – lo spronò Rolland.
- Ammetto di essere rimasto parecchio colpito non appena sono entrato in questa casa e vi ho conosciuti - ammise padre Craig abbassando lo sguardo.
- A causa delle voci che girano sul nostro aspetto fisico? – domandò Heloisa.
- Sì. Insomma, sono davvero colpito.  
Non mi è ancora capitato di vedere dei servitori del Creatore in questo villaggio, ma, a questo punto, vorrei sapere se sono ripugnanti come dicono.
- Starà a voi giudicarlo, padre.
Noi oramai siamo abituati alle differenze estetiche tra noi e loro – rispose Rolland.
- Ciò che mi stavo chiedendo è: e se dovesse nascere un figlio di bell’aspetto da un uomo e una donna che servono il Creatore o viceversa, cosa accadrebbe?
- Ciò non può accadere – rispose categorico Rolland. – A meno che un uomo e una donna non appartenenti allo stesso credo non si riproducano, il che sarebbe una violazione alla leggi punibile con il rogo – aggiunse.
- Beh, ma non potrebbe capitare comunque?
- Forse sarebbe potuto accadere agli inizi, alle prime generazioni vissute dopo la divisione, quelle immediatamente successive ad Allister Chaim. Ovviamente la prima generazione non presentava una grande distanza tra l’aspetto dei servitori del Creatore e del Diavolo, essendo ancora tutti figli di donne e uomini misti – intervenne Heloisa.
- È stato lo stesso Allister Chaim a scegliere gli abitanti da disporre in un credo e nell’altro – aggiunse Rolland.
- Ma non credete che la bellezza fisica sia un criterio soggettivo di valutazione? – domandò padre Craig.
- Non proprio, padre. In realtà vi sono delle caratteristiche estetiche che l’occhio gradisce maggiormente ed estesamente, linee, colori, forme che provocano piacere e riescono ad esaltare i sensi, nonostante i gusti dei singoli varino tra loro.
Sicuramente non sarà stato facile per lo stesso salvatore operare la divisione della prima generazione - rispose Rolland.
- Ma dalla seconda in poi, la differenza divenne sempre più visibile, con il passar del tempo: la bellezza ha prodotto altra bellezza, mentre … - Heloisa non continuò la frase, per rispetto verso i servitori del Creatore.
- Capisco – rispose padre Craig, riflettendovi su. – Beh, dunque, se ciò accadesse, che da due genitori avvenenti nasca un figlio che non lo è affatto, e viceversa, sarebbe un segno di cattivo presagio, giusto? Uscirebbe dalla sfera del possibile – dedusse il giovane prete.
- Oppure sarebbe frutto di un incantesimo di una strega – disse Rolland attirando l’attenzione del suo primogenito su di sé, il quale era rimasto in silenzio e senza esprimersi per diversi minuti.
- Ad ogni modo, noi lasciamo libero ogni abitante del nostro villaggio di scegliere la propria strada, padre: una volta raggiunta la maggior età, ogni ragazzo e ragazza possono scegliere se battezzarsi o no – riprese Rolland.
- Davvero? Non li battezzate da neonati?
- Oh, certo che no! Che senso avrebbe? – disse Heloisa.
- Dunque i vostri figli hanno la libertà di scegliere se servire il Diavolo o il Creatore? – domandò il giovane prete confuso.
- No, quello ovviamente no, padre – rispose Rolland come se il suo ospite avesse appena bestemmiato.
- No, non sia mai, padre! – commentò sarcastico Blake, distaccandosi dal tavolo. – Non parlerete sul serio! Un figlio che sceglie quale dio servire?? Non esiste né in cielo né in terra!
- Perdonate l’irriverenza di nostro figlio, padre, è solo agitato perché oramai ha sedici anni ed è arrivato il momento anche per lui di fare la sua scelta – rispose Rolland guardando suo figlio con un sorriso sghembo.
- In cosa consisterebbe dunque, tale scelta? – chiese curioso padre Craig.
- Nel decidere se battezzarmi al Diavolo o non battezzarmi affatto e auto esiliarmi da Bliaint, non mettendovi più piede – rispose Blake. – E il bello è che nessuno, assolutamente nessuno, in questo villaggio, ci minaccia di scegliere il più in fretta possibile – aggiunse il ragazzo nuovamente ironico.
- Ovviamente nessuno sceglie l’auto esilio, padre. Blake sta semplicemente temporeggiando, ed è solo leggermente esasperato da questa situazione, perché ama vittimizzarsi e andare contro a qualsiasi consiglio, raccomandazione, suggerimento gli venga dato. È nella sua natura. Deve rivoltarsi contro tutto e tutti, altrimenti non è soddisfatto  - commentò Heloisa.
- Mi sorprendo che a soli sedici anni i ragazzi raggiungano la maturità qui a Bliaint – rivelò padre Craig, attirandosi gli sguardi sorpresi di tutti.
- Perché, ad Armelle a che età la raggiungono?
- Beh, non abbiamo un’età precisa, ma, ad esempio, nonostante io abbia quasi trent’anni, sono considerato uno dei preti più giovani nel mio villaggio.
I tre non poterono fare a meno di sorridere. – Oh, padre, non burlatevi di noi! Non potete parlare sul serio! - esclamò Heloisa.
A tale reazione, padre Craig non seppe se sarebbe stato il caso di offendersi o fare finta di nulla. – Sono serio.
- Buon Dio! Che strano! Qui a Bliaint alcune ragazze decidono quale sarà il loro sposo a quattordici anni e i ragazzi a quindici. Per noi non è strano cominciare a mettere su famiglia prima dei diciotto – gli rispose Rolland, facendo comprendere al suo ospite il motivo per cui trovasse lui e sua moglie troppo giovani per avere già due figli di quell’età.
- È permesso ad un servitore entrare nel luogo di culto del credo opposto? – domandò ancora padre Craig.
- Sì, l’importante è che non rivolga alcun gesto di adorazione all’altro dio. La pena per l’infedeltà al proprio signore è il rogo.
- Dunque non vi è mai alcuna occasione in cui i fedeli di entrambi i culti, nonché tutti gli abitanti del villaggio, si riuniscano in una sola cattedrale?
- Solo per il battesimo accade. Quando un ragazzo o una ragazza vengono battezzati, i membri di entrambe le fedi devono essere presenti, per testimoniare di aver preso visione dell’atto sacro e della cessione della vita e dell’anima del singolo ad uno dei due signori – detto ciò, Rolland si rivolse a suo figlio. - Hai terminato di calcolare la contabilità di questo mese, Blake? – chiese alzandosi in piedi e avvicinandoglisi.
- Sì, ho appuntato tutto, insieme a qualche previsione per il prossimo mese.
A proposito, Tyron mi ha detto che servirebbe anche a lui un po’ di aiuto con la contabilità – rispose il ragazzo.
- Se andrai a fare il buon samaritano con troppe persone e a sbandierare in giro le tue abilità non richieste, la gente penserà che non ti dedichi alle giuste pratiche e che trascuri il lavoro alla galleria – gli rispose Rolland.
- Siete abile con i numeri, Blake? – domandò spontaneamente padre Craig. – Ad Armelle non abbiamo nessuno che ci sappia fare davvero, con i conti – aggiunse, per poi tirare fuori il suo blocchetto di appunti, il suo fidato carboncino e cominciare a scrivere svariate informazioni udite, tra quelle che gli sembrarono più interessanti da appuntare.
- Sfortunatamente lo è anche sin troppo, padre. Quei dannati numeri li scrive ovunque e a volte li pronuncia anche nel sonno – rispose Rolland sbuffando bonariamente.
- Possiamo evitare di parlare di tutto ciò a tavola? Il mio stufato è quasi pronto – annunciò Heloisa, mentre Blake fece vagare fugacemente gli occhi sulle parole che il carboncino dello straniero tracciarono sulla carta.
Il ragazzo distolse lo sguardo dai fogli dopo qualche secondo, attirato dalla voce del suo fratellino proveniente da una delle camere.
Padre Craig lo scorse con la coda dell’occhio, ma sapeva anche che a Bliaint nessuno imparava a leggere e a scrivere a meno che non fosse richiesto dalla sua professione, perciò non c’era rischio o pericolo che qualche componente di quella famiglia leggesse i suoi appunti e rimanesse offeso o infastidito dalle sue parole, che, per inciso, non contenevano nulla di offensivo.
- Christofer! Christofer, vieni qui! – lo richiamò Blake, attendendo che il bambino aprisse la porta, mentre Rolland raggiungeva sua moglie in cucina e padre Craig continuava a scrivere.
- Non si scrive così – udì improvvisamente la voce calma di Blake dietro le sue spalle e, prima che potesse voltarsi, il dito del ragazzo si poggiò sul nome del proprio padre scritto sul foglio. – È “Rolland”. Con due elle.
Dopo di che, tornò a concentrarsi sul suo fratellino, lo prese in braccio e si sedette, poggiandoselo sulle gambe, lasciando il giovane prete perplesso e intento ad aggiungere immediatamente una elle in mezzo alle lettere che componevano il nome del capo famiglia.
- Sapete leggere …? – domandò a Blake, nonostante conoscesse già la risposta.
- Non dovrebbe, ma sì, sa anche leggere e scrivere, perché, come le ho già detto, non riesce mai a tenere la testa a posto e a fare quello che gli si chiede di fare – rispose con una punta di esasperazione Heloisa, dalla cucina.
- Che cosa scrivete in quel vostro blocchetto scarabocchiato, padre? – gli domandò incuriosito Rolland, avvicinandosi a lui e osservando quelli che, ai suoi occhi, dovevano sembrare solo incomprensibili segni. - Preferite non dircelo? - insistette l’uomo.
- Nulla di importante, signor Rolland, solo qualche appunto.
- Se è solo qualche appunto, perché non ce lo rivelate, dunque? – scherzò l’uomo, senza l’intenzione di provocarlo o innervosirlo.
- Smettila di muoverti, Christofer, mi stai tranciando le gambe. Se devi continuare così scendi – si udì la voce di Blake discutere giocosamente con suo fratello in sottofondo, mentre Rolland sembrava non avere alcuna intenzione di spostarsi dalla sua posizione, restando in piedi a fissare il foglio scritto.
- Non potete leggerci neanche una delle frasi che avete scritto su di noi?
- Hai finito di metterlo a disagio con la tua insistenza? – disse Blake a suo padre, andando in aiuto del povero prete. – Sei molesto e pressante. Dagli tregua – lo rimproverò.
- Tu hai letto quello che ha scritto, vero, Blake? Parla bene di noi? – domandò Rolland, quasi come fosse un bambino con il solo scopo di averla vinta.
- Ha solamente scritto i nostri nomi, ha elogiato la nostra pulizia, l’ospitalità e ha accennato al nostro culto, alla galleria e al clima del villaggio. Contento? – gli rispose il ragazzo rifilandogli un’occhiata seccata, per poi ritornare a concentrarsi su Ioan.
Ed era vero. Era stato fugace, ma preciso nel riferirgli i contenuti con cui, in quei pochi minuti, padre Craig aveva avuto modo di riempire un foglio del suo blocchetto.
Il giovane prete si chiese come avesse fatto a leggere tutto tramite quelle poche e brevi occhiate lanciate alla pagina.
Trascorsero altri dieci minuti in cui Rolland decise di affidare a Blake il compito di fare da guida al loro ospite nei giorni avvenire, in modo da poter implicitamente controllare suo figlio, poiché ciò lo avrebbe tenuto impegnato e gli avrebbe impedito di dilettarsi in attività che lui e sua moglie non approvavano.
Dopo di che, Heloisa richiamò suo marito per aiutarla in cucina con lo stufato ormai quasi pronto e Ioan si addormentò sulle gambe di Blake.
A ciò, il ragazzo si alzò per poggiare suo fratello sulla poltrona dinnanzi al caminetto, poco lontana dal tavolo, per farlo dormire più comodo e al caldo. Poi, tornò a sedersi di fronte al giovane prete, rimanendo in silenzio.
- Ha già cenato? – ruppe la calma padre Craig, sentendo l’esigenza di intavolare una conversazione col ragazzo. – Vostro fratello, intendo.
- Sì, lo avevo capito. Non ha bisogno di mangiare spesso.
Percependo un velo di tristezza nella sua voce nel parlare di tale argomento, decise di non approfondire per il momento.
- Sapete, mio padre avrebbe voluto almeno una femmina – fu il ragazzo a rompere il silenzio questa volta.
- Come fate a dirlo? Io non credo sia così.
- Invece sì. Una figlia sarebbe stata meno impegnativa e più “gestibile” – disse sorridendo, continuando ad osservare suo fratello a distanza, virgolettando l’ultima parola con un gesto delle dita.
- Probabilmente anche voi speravate in ciò, prima di giungere qui – aggiunse il ragazzo in tono provocatorio questa volta.
- Oh, no, assolutamente. Io sono fedele a Dio, e a Dio soltanto.
- Guardare e apprezzare non è peccato, padre – rispose zittendolo. – Lo dice anche uno dei nostri monaci.
- Ah sì?
- Discordate con le sue parole?
- No, non disapprovo.
- Eppure, vi è andata comunque bene, o sbaglio? Vi ho visto gradire – disse facendo volgere le sue luminose iridi blu verso la cucina, in direzione di sua madre.
Il giovane prete guardò verso la cucina a sua volta, deglutendo.
- Sì, ho apprezzato – sussurrò, non riuscendo a fare a meno di sentirsi colpevole in qualche modo, anche non avendo fatto nulla.
Capì che parlare con quel ragazzo lo destabilizzava e lo costringeva e tenere sempre la guardia alta.
Riportò gli occhi sul piccolo Ioan che dormiva beato sulla poltrona, con le palpebre abbassate, le ciglia bionde che gli sfioravano le guance, le labbra chiare dischiuse e i capelli sottili che gli accarezzavano il volto magro, ma dolce e fanciullesco.
- Vostro fratello sembra un angelo sceso dal cielo quando dorme – commentò padre Craig senza rendersene conto.
Blake sorrise, osservandolo a sua volta. – Lo so. Se ve lo state chiedendo, è malato, sì – gli rivelò con sua grande sorpresa.
- Mi dispiace. È curabile?
- È così da quando è nato.
Mangia poco perché la maggior parte di ciò che ingurgita lo vomita, è molto debole, riesce a malapena a correre, ha bisogno di dormire almeno quindici ore a notte, e se non prende le sue medicine giornalmente viene colpito da violenti spasmi che lo fanno tremare come una foglia.
Ogni anno che passa è sempre peggio, si indebolisce costantemente.
I monaci dicono che non c’è cura.
- In questo villaggio sono i monaci che si occupano di queste faccende? – quella domanda attirò lo sguardo attento del ragazzo su di lui, facendolo scattare.
- Formalmente sì.
In realtà, sono le streghe che preparano gli intrugli e riconoscono le malattie.
Quelle parole non lo sorpresero, ma riuscirono comunque a far scorrere un lungo brivido freddo sulla schiena del giovane prete.
- So bene che in questo villaggio la stregoneria e la magia sono accettate, se praticate da voi servitori del Diavolo.
- Già, dovrete abituarvici, padre.
- E ditemi, le streghe e gli stregoni riescono a …?
- Ho provato di tutto – rispose Blake interrompendolo, abbandonandosi con la schiena poggiata alla sedia, guardando un punto nel vuoto. – Magia bianca, magia nera, pozioni istantanee, incantesimi temporanei, riti di purificazione.
La magia non funziona.
- Dunque anche voi praticate arti magiche?
A tale domanda, Blake riportò gli occhi su padre Craig, mostrandogli un sorriso intenerito, di quelli che si rivolgono ai bambini o ai mendicanti lungo la strada.
- Padre, dovrete imparare molto su questo posto, nei pochi giorni che avete a disposizione.
È raro trovare un servitore del Diavolo che non abbia mai usufruito della stregoneria, in questo villaggio.
Nonostante tutti cerchino di evitare l’argomento come la lebbra, come se parlarne potesse riportare alla luce vecchi fantasmi, tutti ne fanno uso in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente.
Ditemi, ad Armelle, invece, chi si occupa dei malati? – lo sorprese con quella domanda, avvicinando di poco il volto, puntando i gomiti sul tavolo.
- Per lo più levatrici e balie.
- Tuttavia, ho letto che ad Armelle avete trovato delle cure miracolose ad alcune malattie, in passato.
- Dove lo avete letto?
- In uno dei libri della biblioteca di Bliaint. Posso portarvi a fare un giretto anche lì, se lo desiderate.
È chiusa al pubblico, ma so come entrare.
- Beh, chiamarle cure miracolose forse è un po’ esagerato. Tuttavia, sì, vi confermo che alcuni uomini hanno ottenuto dei rimedi utilizzando delle tecniche naturali.
- Calore. Calore e raffreddamento. Ebollizione e ibernazione. Hanno utilizzato anche dei fumi ottenuti dalla fusione di metalli? – gli domandò il ragazzo, sommergendolo di tutte quelle parole che non si aspettava di udire seduti su un tavolino in attesa della cena, alcune delle quali risultavano sconosciute persino alle sue orecchie.
- No, non che io sappia. Ma potrei sbagliarmi o non essermi informato quanto voi – gli rispose sinceramente.
- Potrebbero anche aver usato dei minerali, aver ricreato artificialmente delle proprietà contenute in cristalli, piante e fiori che non conosciamo. Hanno sicuramente sperimentato, sperimentato molto su delle cavie, magari animali di piccola taglia. Si sono appuntati tutti i passaggi e hanno ritentato con tempistiche e dosi differenti.
Mentre lo osservava esporgli tutto ciò, capì che Blake fosse uno di quei rari ragazzi talmente svegli e acuti
da rendere impossibile agli altri stargli dietro, ed era quello che stava accadendo a lui in quel momento.
Si chiese come fosse possibile rimanere illesi dinnanzi ad un tale vulcano di idee in eruzione, di sete di conoscenza, di energia viva e densa.
Quando terminò di parlare, il giovane prete restò a guardarlo, rimanendo in silenzio, prima di porgli una domanda totalmente fuori contesto. – Ditemi, Blake, in seguito a ciò che è accaduto ai tempi di Allister Chaim, si è mai ripetuta la tremenda calamità che ha colpito, stravolto e decimato il vostro villaggio, dopo la divisione?
A ciò, Blake gli rivolse un’espressione indecifrabile. – Ovviamente no. Altrimenti, a cosa sarebbe servito costringerci a continuare a vivere tale sadica tortura?
Non seppe che cosa volle dire con quella risposta, quale intenzione e significato celasse, ma padre Craig preferì non indagare.
- Mia madre sta arrivando con lo stufato, padre.
Spero possiate godervi la cena e che, durante il vostro soggiorno qui, il Signore sia con voi.
Il vostro, certamente.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Amanti ***


Amanti
 
La ragazza venne trascinata sul soppalco da due grossi  monaci, i quali la strattonarono con forza, legandole le mani dietro il palo disposto in mezzo alla struttura con una spessa corda, mentre ella piangeva e pregava.
- Oh Signore, mio Signore, perdonami!!
Abbi misericordia di me!
Proteggimi da queste fiamme!
Lascia che mi purifichino dai miei peccati!
Lasciami avvicinarmi a te!!
Lasciami unirmi a te, oh mio Signore! – urlò dimenandosi, mentre uno dei monaci accendeva una fiaccola e la alzava in alto, dinnanzi agli abitanti del villaggio che erano giunti ad assistere all’esecuzione.
- La donna qui presente, servitrice del Diavolo, che porta il nome di Clarine Helga, è condannata alla pena capitale!  - esclamò a gran voce uno dei monaci. – Le vostre ultime parole? – domandò voltandosi verso la malcapitata, nel silenzio spettrale di quella fredda mattina autunnale.
A ciò, la ragazza smise di piangere, tornò seria e guardò tutti i presenti che la fissavano da sotto il soppalco, uno per uno.
- Salvami, mio Signore.
Salvami, poiché io questa sofferenza non la merito.
In seguito, il monaco gettò la fiaccola sulla paglia sparsa attorno ai piedi di Clarine Helga, infiammandola.
Dopo i primi lamenti sommessi, cominciarono le vere e proprie atroci urla di sofferenza, un sottofondo sin troppo familiare alle orecchie degli abitanti di Bliaint.
L’intero corpo della ragazza venne avvolto dalle lingue di fuoco che si alzarono sopra la sua testa, inghiottendo e consumando la sua pelle, fino a quando non rimasero solo le ossa carbonizzate.
Padre Craig la guardò spegnersi fino all’ultimo istante, baciò il suo crocefisso appeso al collo facendosi il segno della croce, dopo di che, vide sbucare il sole da dietro le nuvole.
Blake alzò gli occhi al cielo, socchiudendo le palpebre non appena le sue iridi si scontrarono con i raggi di sole che avvolsero il suo viso. – Esattamente alla fine di ogni esecuzione, quando il condannato emette l’ultimo respiro, spunta sempre il sole – disse il ragazzo.
Padre Craig si voltò a guardarlo. – Ogni volta?
- Ogni volta.
- Chi lo avrebbe immaginato. La prima cosa di Bliaint che mi avete mostrato è stato un rogo – gli disse, vedendolo distogliere lo sguardo dal sole e portarlo su di lui, per poi voltarsi e cominciare a camminare, allontanandosi dal soppalco oramai sfollato.
Padre Craig lo seguì.
- Non ero a conoscenza che stamani ve ne sarebbe stato un altro, padre. È stato un caso.
- “Un altro”? A quanti roghi siete solito assistere? – domandò il giovane prete.
- Nell’ultimo anno quattro o cinque al mese, all’incirca.
- Sono davvero molti. Ad Armelle la soluzione del rogo è poco utilizzata.
- Abbiamo trovato qualcos’altro a cui dovrete abituarvi, padre.
- Che peccato aveva commesso la povera malcapitata?
- Credo abbia compiuto atti dissoluti o abbia avuto una condotta indecorosa. Sono i peccati più frequenti.
- Con “condotta indecorosa” cosa intendete? Ha per caso intrattenuto rapporti sessuali con un servitore del Creatore?
Blake si fermò dinnanzi ad una bancarella di mele, comprandone due, per poi voltarsi verso di lui e lanciargliene una, che il giovane prete afferrò al volo.
Quest’ultimo si stupì dei propri ottimi riflessi.
- No, padre, quello non accade mai – gli rispose Blake continuando a camminare e a dare la schiena a padre Craig, addentando la mela.
- Perché non accade mai?
- Perché nessun servitore del Diavolo guarderebbe mai con desiderio un servitore del Creatore, ma solo viceversa.
E non era affatto difficile da credere. Ora che passeggiavano per le vie affollate di metà mattinata, padre Craig poté constatare quanto tutte quelle generazioni di accoppiamenti strettamente controllati avesse influito anche sui servitori del Creatore, ovviamente non giovando loro affatto, al contrario dell’altra metà del villaggio.
Aveva avuto modo di incrociarne almeno una decina lungo la strada e li aveva ovviamente riconosciuti subito, poichè la differenza con i servitori del Diavolo era a dir poco spaventosa: per lo più erano omuncoli bassi, tarchiati, con i lineamenti del viso che parevano informi per quanto sgraziati, con pochi capelli in testa e una struttura corporea che non aveva quasi nulla di proporzionato; mentre le donne erano lievemente più piacevoli alla vista, solamente perché, in più degli uomini, possedevano una discreta quantità di capelli e delle curve quantomeno femminee.
Il giovane prete non poté fare a meno di pensare che, per quanto avesse risparmiato loro maledizioni e calamità, la divisione aveva tuttavia condannato tutti i servitori del Creatore sotto l’aspetto puramente carnale.
- Posso ben crederci – si decise a rispondere il giovane prete, cercando di tenere il passo spedito del ragazzo, per poi continuare. - Tuttavia, non è mai capitato che qualcuno andasse oltre l’aspetto esteriore?
- Non è solo una questione di aspetto esteriore, padre. La punizione per la violazione di quella legge è il rogo. Non ne vale la pena.
- È solo per voi che non ne vale la pena, o per tutti i servitori del Diavolo?
A quelle parole, Blake arrestò il suo cammino, facendo temere al giovane prete di aver azzardato troppo con le parole.
Il ragazzo si voltò a guardarlo con un sorriso fintamente ferito. – Mi state implicitamente dando del superficiale o dello spocchioso, padre?
Non era quello che voleva insinuare, ma il giovane prete si rese conto che quella fosse proprio l’impressione che la sua domanda aveva dato. – No, non volevo offendervi.
- Se mi state chiedendo se potrebbe accadermi o se io vi abbia mai pensato almeno una volta, la risposta è no, ma tutto può succedere. Non ho avuto molte occasioni di scambiare più di due parole con ragazze che servono il Creatore.
- È palese che loro siano intimoriti da voi.
- I servi del Creatore? E perché mai? Per come appariamo noi e per come appaiono loro? Date troppa importanza all’aspetto fisico, padre. Non appena vi abituerete a stare qui, farete molto meno caso a ciò.
- Allora, se non per questo, quali sono le leggi inviolabili per cui vale la pena rischiare il rogo? – domandò il giovane prete raggiungendo il vivo della questione.
A ciò, Blake gli si avvicinò, senza togliersi dal volto quello snervante sorriso. – Le violazioni che valgono il rogo coinvolgono la pratica eccessiva e sconsiderata della magia nera.
- E in cosa consisterebbe tale pratica eccessiva e sconsiderata? – domandò padre Craig, sperando con tutto il cuore di non pentirsene un secondo dopo.
- Perché date per scontato che io lo sappia, padre?
A tale risposta, il giovane prete ammutolì, guardando Blake voltarsi e dargli nuovamente le spalle, riprendendo a camminare.
- Che cosa volete fare oggi? – gli domandò il ragazzo, tranquillizzandolo cambiando discorso.
- Non so, mi affido totalmente a voi.
- Non avete alcuna preferenza? Non avete detto di essere giunto a Bliaint per sapere di più riguardo la galleria? – lo colse di nuovo in fallo il ragazzo. – Oppure preferite soddisfare prima altri tipi di curiosità – continuò Blake fermandosi nuovamente.
- Ovviamente il mio interesse primario riguarda lo studio dei metalli della vostra galleria – confermò padre Craig facendo risultare la sua voce più ferma e decisa di quanto non fosse.
- Bene, allora incamminiamoci. La galleria è dall’altra parte del villaggio, impiegheremo un bel po’ ad arrivare.  
Quando finalmente giunsero nei pressi dell’entrata della galleria sotterranea che si dispiegava nel sottosuolo per almeno un chilometro, in una porzione isolata del villaggio, padre Craig si sorprese di quanto calmo e silenzioso fosse quell’angolo di terra deserta.
Non vi era anima viva fuori dalla galleria, se non per l’unica presenza di una bambina che attendeva paziente seduta a terra, intenta a giocare con un bastoncino.
Padre Craig osservò il suo vestitino sgualcito sporco di terriccio, i capelli biondi spettinati e il bel volto abbandonato distrattamente sul palmo della manina, incurante di essersi rovinata gli abiti, incurante della natura funerea e raggelante intorno a sé.
Il giovane prete comprese immediatamente che gli abitanti di Bliaint avessero un modo unico e tutto loro di rapportarsi e comunicare con l’ambiente e con la natura.
Ne rimase incuriosito.
- Buongiorno, Bonnie – la salutò Blake sorridendole teneramente.
- Buongiorno, Blake! – esclamò ella ricambiando con un enorme sorriso, alzandosi in piedi. – Chi è l’uomo che è con te?
- Lui è padre Craig, viene da un altro villaggio, resterà con noi per qualche giorno.
Sei già andata a pregare?
- Sì, qualche ora fa. Ora aspetto che mio padre finisca di lavorare – disse spostando i suoi occhioni verso l’entrata della galleria.
- Da quanto tempo è dentro?
- Tre ore forse.
- Gli serve fare una pausa per respirare aria pulita. Vado dentro a dirgli che gli do il cambio e porto anche padre Craig con me.
- D’accordo, Blake. Ma il tuo torno non inizia a mezzogiorno? – domandò la piccola, sorprendendo il giovane prete, il quale si voltò verso la sua guida, attonito.
- Avevate messo in conto di venire qui, a prescindere da me e dalle mie preferenze su cosa fare oggi, vero? – gli domandò conoscendo già la risposta.
Il ragazzo gli sorrise in risposta, porgendogli dei vestiti malandati, sporchi di terra e di chissà cos’altro, insieme ad un telo nelle stesse condizioni, recuperati da un sacco disposto accanto all’entrata. – Esatto, padre. Devo farmi vivo ogni tanto, inoltre, il lavoro qui alla galleria non mi disturba tanto quanto vi ho fatto credere, tutt’altro. Lo trovo molto produttivo – gli disse, cominciando a togliersi il mantello e ad infilarlo in un altro sacco, evidentemente contenente i vestiti puliti. – Siete mai stato sottoterra, padre?
- No, mai.
- Allora sarà dura la prima volta. Se non volete sporcarvi la vostra bella tunica, infilatevi questi.
Il telo dovete legarvelo intorno a naso e bocca, per evitare di respirare meno polveri possibili e altre sostanze, alcune sono velenose e molto dannose per la salute. Purtroppo non possiamo proteggere anche gli occhi.
- Velenose …? – ripeté il prete cominciando già a sudare freddo. – Non mi avevate informato di ciò …
- Mi sarà passato di mente. Non fate quella faccia, vi basterà respirare il meno possibile quando sarete là sotto. Trattenete il fiato per almeno trenta secondi ogni due minuti, legatevi bene il telo intorno a naso e bocca, e seguite me. Per il resto, non dovete preoccuparvi.
Oh, un’altra cosa: là dentro incontrerete un buio che non avete mai visto prima, un nero totalizzante che non ha nulla a che vedere con un paesaggio notturno. Dovrete orientarvi grazie al tatto e alle piccole lanterne che porteremo con noi – concluse prendendo una delle boccette disposte ordinatamente in una cassa e accendendola con facilità, per poi porgerla a padre Craig, il quale si era già infilato i vestiti sporchi sopra la tunica.
Quando anche Blake terminò di prepararsi, questo si accovacciò dinnanzi alla bambina e le sorrise. – Hai trovato un sasso appuntito per me, Bonnie? – le domandò.
Bonnie annuì e infilò la manina nella tasca della sottanella per prenderlo, ma, inaspettatamente, non lo trovò. – Dov’è finito? – si lamentò. – Ricordo di averlo messo proprio qui…
- Aspetta, so io dov’è – la rassicurò Blake infilando la mano nella sua di tasca, e tirando fuori esattamente il sasso che Bonnie riconobbe.
- Come hai fatto a …?
A ciò, il ragazzo chiuse la mano destra a pugno con il sasso dentro, poi avvicinò l’altra mano all’orecchio di Bonnie, la mosse come per afferrare qualcosa, e vi tirò fuori lo stesso sasso, il quale era miracolosamente scomparso dall’interno  della mano destra.
Padre Craig sgranò gli occhi, così come Bonnie, la quale batté le manine entusiasta. – Come hai fatto?? Mi piace questo nuovo trucchetto!
- Ne sono lieto. Dopodomani te ne mostrerò un altro – le promise il ragazzo sorridendole ancora, per poi legarsi il telo intorno a bocca e naso, afferrare una delle boccette luminose dalle mani di padre Craig e dirigersi verso l’entrata della galleria.
- Sudate sempre così spesso, padre?
- Come avete fatto a … far scomparire il sasso in quel modo?
- È solo un banale trucchetto – lo liquidò il ragazzo abbassandosi per infilarsi nella bassa e stretta entrata, facendo strada al suo ospite.
Non appena mise piede in quel buco nero, che sembrava senza fine, il giovane prete provò un insopportabile sensazione di soffocamento, insieme alla prorompente esigenza di tossire fino a consumarsi il petto.
Camminò cauto, alla cieca, seguendo i contorni della figura slanciata e lievemente illuminata di Blake.
Alzò la boccetta luminosa all’altezza della sua testa per scorgere l’ambiente intorno a sé, trovando solamente pareti di terra nere, umide e imperniate di un odore quasi nauseante per quanto intenso.
Guardandosi intorno mentre camminava e si abituava all’aria consumata, al caldo, al sudore e alla vista offuscata, si accorse che quella galleria fosse molto più ampia di quanto si aspettava: in larghezza, sarebbero potuti entrare in tre o quattro e proseguire affiancati. In altezza invece, era piuttosto opprimente, poiché il “soffitto” era lontano solo qualche spanna dalla testa di padre Craig, mentre si distanziava appena uno o due dita da quella di Blake.
Nel cammino incrociarono altri lavoratori al suo interno, i quali continuarono a scavare con dedizione come se nulla fosse quando li sorpassarono.
Quando finalmente il ragazzo arrestò le sue falcate, per poco il giovane prete non gli andò a sbattere contro la schiena.
- Blake, possiamo tornare indietro per oggi? Mi sta cominciando a mancare l’aria … - provò a comunicare con lui padre Craig, ormai sul punto di cedimento.
Gli girava la testa a causa delle polveri che stava respirando, ne era certo.
Tuttavia, il ragazzo parve quasi non udirlo, poiché alzò la boccetta all’altezza della sua testa e cominciò a cercare qualcosa con gli occhi, fin quando non individuò un punto preciso.
A ciò, iniziò a scavare su quella leggera rientranza con solo l’ausilio delle mani, spostando la terra con cura e precisione, come se si trattasse di una rara e leggera polvere.
Padre Craig si concentrò sul movimento delle sue mani, per non pensare alle sue vie respiratorie intoppate di chissà quale sostanza velenosa.
Trascorso qualche minuto a scavare, Blake tirò fuori dalla terra un cristallo che quasi accecò la vista del giovane prete, nonostante fosse parzialmente ancora celato dal terriccio.
Il ragazzo cercò di pulirlo il più possibile con le dita, avvicinandolo al giovane padre, il quale fissò quella pietra luminosa quasi ipnotizzato.
Era grezza e informe, scandagliata e sicuramente tagliente, di un colore misto tra il rosa vivo e il bianco.
- Tenetela – gli disse Blake porgendogliela, per poi tirare fuori dalla tasca il sasso appuntito che gli aveva dato Bonnie, e sporgersi verso la parete piana e terrosa che li affiancava, cominciando a tracciare dei solchi piccoli e precisi che, solo dopo qualche secondo e affilando la vista, padre Craig riconobbe come numeri e altri segni matematici.
Ma non appena gli occhi del giovane prete misero a fuoco l’intera superficie della parete sulla quale Blake stava scrivendo, spalancò gli occhi scuri: era totalmente colma di operazioni matematiche rimaste incise lì, sul terreno, chissà da quanto.
- Blake … - sussurrò perplesso, non riuscendo a staccare gli occhi dal ragazzo intento ad arricchire ancora quell’immenso quadro di segni. – Avete scritto voi tutte queste … annotazioni? Che cosa? Che cosa significano tutte queste operazioni?
- Siamo distanti 57 piedi dall’entrata della galleria, inclinati leggermente ad Est.
In questa posizione ho trovato 38 cristalli sepolti nel terreno, ad una distanza media di circa 4/5 pollici ognuno, disposti in profondità differenti – spiegò il ragazzo continuando a scrivere numeri su numeri.
- Non avete ancora risposto alla mia domanda. Questa parete è colma di misure.
Blake non gli rispose, terminò di tracciare le sue operazioni, poi si allontanò un po’ per osservare le sue aggiunte a distanza.
Solo allora, si voltò verso il giovane prete.
– Lo faccio ogni volta che trovo un nuovo cristallo o un nuovo metallo.
In realtà, lo faccio per quasi tutto.
È difficile da spiegare in due parole, padre, ma è più forte di me.
Mi serve per stilare delle previsioni – gli rispose semplicemente mentre il giovane prete si avvicinava alla parete e osservava il tutto da vicino.
- Il vostro è un dono? – gli domandò improvvisamente, voltandosi a guardarlo.
Il ragazzo, prima di rispondergli, si abbassò il telo scoprendo naso e bocca, inspirando a pieni polmoni.
- Non direi.
Alcuni lo ritengono un flagello.
 
Arley Judith sistemò le ultime pergamene nel ripiano dedicato ad una delle decine di sezioni presenti.
Oramai era quasi notte inoltrata e la biblioteca del monastero era ancor più vuota di quanto lo fosse di solito.
Percorse gli ultimi scalini della scala di legno utilizzata per raggiungere i ripiani più alti, tenendo il candelabro per in equilibrio sulla mano destra e i libri sulla sinistra.
Non appena mise piede a terra, si accorse che le fossero cadute delle pergamene a terra nel riordinare.
A ciò, si abbassò, le raccolse e le aprì per verificarne catalogazione.
Sfogliando le prime due, riconobbe immediatamente su che sezione andassero disposte, ma quando aprì la terza e cominciò a leggerne il contenuto, sbiancò.
Avvicinò il candelabro a la carta ingiallita e all’inchiostro sbiadito, ma non appena si rese conto che quella lettera fosse troppo lunga per essere letta in piedi, scese la scalinata che l’avrebbe condotto alla sala lettura e prese posto su una delle sedie.
Il rumore dei tacchi che cozzavano con il pavimento di marmo rimbombava per tutto l’edificio.
“Mio Signore,
ti scrivo questa lettera perché non ho nessuno con cui confessarmi e sento che le preghiere che ti rivolgo non bastano, poiché la mia mente è troppo colma e io sempre troppo stanca per ricordarmi tutto ciò che vorrei dirti.
Ho deciso di unirmi a questo monastero, divenendo una tua servitrice in ogni aspetto della mia vita, ma ora sto cominciando ad avere dei ripensamenti.
Per me è indescrivibilmente difficile imprimere queste parole su carta, poiché l’amore che nutro per te ha sempre superato e supera ancora ogni cosa, mio Dio e Creatore.
Tuttavia, devo farlo proprio per il profondo ardore che mi lega a te.
Ho peccato, Padre.
Ho commesso un peccato che merita il rogo.
Tuttavia, non ho potuto farne a meno.
Mi strapperei i capelli e le membra se potessi, ma la tortura non rientra nelle tue misericordiose punizioni.
Sento che c’è qualcosa che non va, Padre, ma non posso parlarne con nessuno, neanche con lui.
Si chiama Ailean Michel, l’ho conosciuto due mesi fa, quando è entrato in questo monastero nonostante fosse del credo opposto, per assistere ad un battesimo.
Non parlo mai con i servitori del Diavolo, Padre, perché vivo qui dentro, e questo non è posto per loro.
Ma quel giorno lui si è sentito male, io l’ho visto, perciò l’ho accompagnato fuori, lontano dalla folla, senza disturbare la funzione.
Non riesco a pentirmene, Padre, ed è questo ciò che mi fa stare peggio.
Perché siamo condannati a servire due signori differenti? Qual è il dio giusto da adorare?
Com’è possibile che tu o il Diavolo non disapproviate questo trattamento, ricevere solo una parte delle anime del villaggio, dividendole con qualcun altro?
Come potete accettare di venire amati a metà?
Io credo in te, Padre, ma rispetto anche il suo, di credo.
Quel giorno, fuori dal monastero, abbiamo parlato molto.
Era un vero tentatore, Padre, come lo sono molti di loro, ma non in senso meschino o malsano.
Non era solo la sua bellezza, ma anche il suo modo di parlarmi.
Mi attraeva come una calamita, e, per qualche motivo, mi trovava affine a lui, una persona con la quale parlare, parlare per ore, ridere, trascorrere del tempo senza secondi fini.
Ha cominciato a visitare il monastero per venire a trovarmi e portarmi a passeggiare per il villaggio, e, con l’andar del tempo, è accaduto qualcosa.
Vederlo è diventata un’esigenza alla quale non riesco a fare a meno, ho cominciato a trovare ogni tipo di scusa per visitare la cattedrale dei servitori del Diavolo, per aver modo di incontrarlo almeno lì, nel luogo adatto a lui.
L’amore non è qualcosa che può sottostare al nostro controllo. Accade e basta.
Per questo mi resta ancora più difficile capire come possa essere giusto venire costretti a servire un padrone piuttosto che un altro, forzando il proprio cuore ad amare qualcuno che, altrimenti, non avrebbe ricevuto nulla da noi.
Io ti amo, Padre, più di qualsiasi altra cosa.
Ma amo anche lui, nonostante non dovrei. Non dovrei perché sono una monaca, e perché serviamo due signori differenti.
Non ho ancora ceduto ai peccati della carne, Padre, ma sento di essere oramai particolarmente debole sotto questo aspetto.
La tentazione è diventata insopportabile.
Perché deve essere una tentazione? Perché non potrebbe essere solamente un puro desiderio di donare il proprio corpo e di ricevere quello dell’altro?
A noi non importa del nostro aspetto esteriore, poiché, anche se fossimo stati fisicamente del tutto diversi, sono certa sarebbe accaduto lo stesso e nessuno mi toglierà questa convinzione.
Come molti altri, è uno stregone.
L’ho visto fare cose che avrebbero spaventato buona parte degli abitanti del villaggio, soprattutto tra i tuoi servitori, come lo sono io.
Tuttavia, non ha spaventato me, anzi.
Ha compiuto rituali di magia nera dinnanzi ai miei occhi, un giorno si è fatto un lungo taglio per tutto l’avambraccio con un pugnale, ha rivoltato gli occhi e la testa all’indietro e ha cominciato ad urlare in una lingua che non conosco.
Eppure, mentre lo osservavo fare tutto ciò, senza distogliere mai lo sguardo, così come è accaduto molte altre volte, non desideravo altro che restargli accanto per tutto il tempo che mi rimane.
È davvero così sbagliato?
È davvero così sbagliato scegliere di spontanea volontà?
Io ti amo, Padre.
Ti amo, ma non sono più certa che tutto ciò sia giusto.
Ho come un magone, un male allo stomaco che non vuole darmi tregua, quando penso a tutto questo.
Forse l’unico rimedio al mio malessere è confessare tutto ed essere punita.
D’altronde, è quello che merito.
Non rimarrò una peccatrice impunita.
Madre Florence Kayce”
Judith rilesse quelle ultime frasi più e più volte, rendendosi conto di aver trattenuto il fiato per quasi tutto il tempo della lettura.
Improvvisamente, un moto di realizzazione e di curiosità la invase da capo a piedi.
Si alzò e si diresse verso l’uscita della biblioteca per poi raggiungere quella del monastero e prendere un po’ d’aria; ma non appena mise piede nell’immensa sala d’ingresso, notò una sola figura incappucciata presente, nel silenzio e nel buio dell’edificio.
Un brivido di aspettativa le corse lunga la schiena, mentre si avvicinava a quella presenza, la quale attese pazientemente che gli fu dinnanzi.
Judith gli sorrise, alzando il candelabro tra i loro volti. – Siete qui per un motivo in particolare, signore? – gli domandò come aveva già fatto decine di volte prima di quella notte, per evitare di non destare sospetti nel caso qualcuno dei monaci li stesse spiando.
Il ragazzo di fronte a lei, senza scoprirsi ancora il volto dal cappuccio, le rispose. – Vorrei confessarmi, signorina Judith.
La ragazza annuì e si avviò per prima verso una delle salette confessionali, come faceva sempre.
Entrò nella porticina che l’avrebbe condotta nel lato del confessore e attese che anche il fedele prendesse posto di fronte a lei, al di là della rete lievemente oscurante.
Quando anche il ragazzo incappucciato si fu accomodato, Judith parlò, pronunciando le solite parole di rito. - In assenza dei monaci del monastero in cui vi trovate, sarò io il vostro confessore, ufficialmente incaricato dai padri di questa cattedrale.
Ditemi, fedele, qual è il vostro nome?
- Van Naren – rispose il ragazzo facendosi il segno della croce.
- Ditemi, Van Naren, qual è il peccato che volete confessare? – gli domandò in un sussurro.
- Mi sono innamorato di una donna.
Una donna del credo opposto.
- Siete sicuro di essere innamorato di lei? Potrebbe essere solo un’infatuazione? Un attimo di debolezza?
Il fedele fece trascorrere alcuni interminabili secondi prima di risponderle, nei quali si tolse il cappuccio, scoprendo il volto, ma mantenendo lo sguardo basso. Egli era un ragazzo con la testa tonda, un grosso naso a patata, una rada barbetta bionda, la bocca piccola e sottile, degli occhi chiari e sporgenti, e pochi capelli schiacciati e lucidi.
- No, non è infatuazione, né debolezza – rispose.
- Siete sicuro che ella non vi abbia sedotto con l’inganno, solo grazie al sua bellezza? – gli chiese alzando lo sguardo, osservando ogni suo più piccolo movimento e cambiamento di espressione attraverso la rete, poi continuò. – Le servitrici del Diavolo sono bellissime, a differenza di quelle del Creatore. È per tale motivo che non avete scelto una delle vostre donne? È per questo che avete guardato lei, invece di guardare coloro che potevate e potete avere?
Il ragazzo deglutì e tremò, facendo trascorrere un’altra lunga pausa prima di fornire una risposta.
- No, non è quello.
Ella è la donna più bella che abbia mai visto, anche tra le stesse serve del Diavolo.
Ai miei occhi, nessuna creatura al mondo sarebbe in grado di raggiungere neanche metà della perfezione che Dio ha donato a lei.
Tuttavia, non l’amo per il suo aspetto.
L’amo perché è dieci, anzi cento volte più intelligente di me.
A tali parole, Judith accennò un dolce sorriso.
- L’amo perché è coraggiosa, non ha bisogno che qualcuno la difenda, è benissimo in grado di farlo da sé.
L’amo perché, nonostante sia molto giovane, è totalmente indipendente e non permette che nessuno violi i suoi spazi.
L’amo perché è raffinata e sfrontata insieme, non teme i giudizi altrui, è furba e allo stesso tempo altruista.
L’amo perché la sua voce soave, melodiosa ed energica è linfa per le mie povere orecchie.
L’amo perché, malgrado i miei numerosi difetti, malgrado il mio aspetto orribile, lei, miracolosamente, ricambia i miei sentimenti, e i suoi occhi sono solo per me, nonostante ella potrebbe avere chiunque.
L’amo perché quando sono con lei, solo quando sono con lei, vedo la luce del mio Signore.
Solo quando sono con lei raggiungo l’immortalità promessa – detto ciò, per la prima volta da quando era entrato nella cattedrale, alzò gli occhi verso di lei, trovando la forza di guardarla e di reggere il suo sguardo.
- Questo è un peccato imperdonabile, Van Naren. Ve ne rendete conto? – gli rispose Judith con un tono di voce più distaccato e duro di quanto avrebbe voluto.
- Sì, me ne rendo conto.
- Qual è il nome di questa donna? – gli domandò vedendolo vacillare, trattenersi con tutte le sue forze per continuare a mantenere il contatto visivo con lei, per restare seduto su quella sedia, senza cedere alla tentazione.
A ciò, per incoraggiarlo, Judith avvicinò maggiormente il volto alla rete, bucando quell’ostacolo metallico che li separava con il suo sguardo penetrante di pura ossidiana, muovendo lentamente le labbra grandi e umide per ripetergli la stessa domanda, ma molto più lentamente rispetto alla prima volta. – Qual è il nome della donna, Van Naren?
In seguito a quell’ennesima provocazione, ogni stralcio di volontà del ragazzo venne meno, facendogli muovere il corpo con una velocità e una foga senza eguali.
Uscì dal suo lato della cabina e si fiondò nell’altro, sfondando la tenda rossa che copriva quasi totalmente la figura della sua amata, afferrandole le cosce celate dal lungo abito che indossava, saggiandone la consistenza morbida e soda, per poi prenderla in braccio, trascinandosela addosso mentre divorava la sua dolcissima bocca incantatrice, mordendole le carnose labbra tumide come se da esse scorresse il nettare più buono del mondo.
Dal canto suo, Judith ricambiò la sua adorazione e dedizione baciandolo passionalmente, offrendogli il suo bel corpo sinuoso e curvilineo, lasciandogli libero accesso, permettendogli di saggiarla e toccarla in qualsiasi modo gradisse.
Percepì le mani del ragazzo percorrerla ovunque, strisciare sul tessuto leggero del vestito con impetuose carezze, riscoprendola come faceva quasi ogni notte, come fosse la prima.
Quando la foga del momento passò e Judith riuscì a placare quel bisogno intenso e febbricitante che avvolgeva l’amato, con le sue ardenti, lente e rassicuranti attenzioni da donna, Van Naren si calmò a sua volta, trasformando quella violenta frenesia in passionali e profonde effusioni, prendendosi tutto il suo tempo per perdersi nel profumo, nel sapore e nella sostanza di quel corpo che con tanta insistenza e premura invadeva i suoi sogni ogni notte. Immerse il viso nei lunghi e voluminosi capelli rossi di Arley Judith, ispirandone l’essenza con respiri regolari e a pieni polmoni, chiudendo gli occhi, godendosi le dita della ragazza che danzavano sulle sue spalle, la stretta nella quale il suo busto era imprigionato dalle cosce che lo tenevano ancorato a lei.
Fece strisciare la mano su tutta la curva della sua schiena e poggiò l’altra sul collo niveo e in tensione, tenendolo fermo con tutta la delicatezza possibile mentre faceva scorrere la bocca e la lingua sulle ossa sporgenti della gola e delle clavicole.
Tuttavia, quando le dita di Van Naren si infiltrarono inconsciamente bisognose sotto la stoffa del vestito di Arley Judith, risalendo la gamba verso l’altro, quest’ultima lo bloccò.
- Van, fermo – gli disse gentilmente, prendendogli il polso con la mano e allontanandolo. – Stai andando troppo oltre …
- Oh, scusami … - rispose egli mortificato, alzando il volto per guardarla. – Non ho saputo controllarmi, cercherò di stare attento.
- Non preoccuparti – lo rassicurò ella.
- Quanto sei bella, amore mio … - sussurrò adorante il ragazzo, sentendola sorridere piano. – Non ne hai neanche vagamente idea … - continuò.
- Abbassa la voce – lo spronò lei con dolcezza, lasciandogli lenti baci sulla tempia.
- Oh, Arley … non riesco più a resistere senza vederti per un’intera giornata.
Potrei morire un giorno o l’altro … - sibilò stringendola ancora a sé, quasi sull’orlo delle lacrime.
- Shhh, andrà tutto bene, Van – lo consolò abbracciandolo forte.
- Non possiamo andare avanti così. Non possiamo continuare a vederci  di nascosto. I monaci potrebbero scoprirci …
- Vivo qui da dieci anni, Van, conosco bene i loro orari. A quest’ora dormono tutti.
- Non è questo, Arley. Sono sull’orlo dell’esasperazione. Vorrei urlare ai quattro venti quanto ti amo, vorrei sposarti e avere dei figli con te perché non vedo altro che te, dovunque io mi volti, vedo te, sempre – le disse guardandola con gli occhi lucidi.
Judith gli accarezzò le guance, prendendo un profondo respiro per non cedere a sua volta alle lacrime.
Erano mesi che andavano avanti così, silenziosi e discreti come due insetti in uno scantinato, prudenti, previdenti, in maniacale allerta per sfuggire ad occhi indiscreti, pena il rogo nella piazza.
Anche lei era stanca, sfinita da quella situazione.
Non lo avevano deciso loro.
Era accaduto e basta.
A ciò, le tornò in mente qualcosa di importante, qualcosa che l’abituale visita notturna e il piacevole assalto del suo amato le avevano temporaneamente fatto dimenticare.
- Ho letto una lettera, poco prima che arrivassi, mentre riordinavo in biblioteca. Una vecchia lettera – gli disse continuando a calmarlo accarezzandogli il volto e i radi capelli.
Il ragazzo la guardò interrogativo, in attesa che continuasse.
- Non so come ci sia finita lì, sicuramente la monaca che l’ha scritta ha vissuto e servito per anni in questo monastero e l’ha ben nascosta, indecisa se consegnarsi o no alle autorità.
- Consegnarsi per cosa?
- Colei che l’ha scritta, una servitrice del Creatore, era innamorata di un servitore del Diavolo.
Van Naren sgranò gli occhi in risposta.
- Mi tremavano le dita e gli occhi mentre leggevo le sue parole, Van.
Mi è sembrato quasi di averle scritte io, con le mie mani.
Non siamo stati i primi, né gli unici, Van.
Non so che fine abbiano fatto quella donna e il suo amante,  ma so che non sono pazza e non lo sei neanche tu.
Siamo umani, peccatori, creature in carne ed ossa degne del perdono del tuo dio e del mio dio.
Sono loro, gli uomini, che ci vogliono divisi.
Il Creatore non rigetterà la tua anima e il Diavolo non rigetterà la mia.
- Come puoi dire tutto ciò …?
Solo perché hai letto le parole di una donna disperata almeno quanto noi? – le domandò Van lasciando la presa sulle sue gambe, allontanandosi di poco. – E poi, come puoi sapere che non fosse totalmente sedotta e soggiogata da lui?
A ciò, Judith lo fulminò con gli occhi. – Vorresti dire che io ti ho sedotto e soggiogato …?
- No, tra noi non è accaduto, ma è facile che un servitore del Creatore guardi con desiderio il corpo di un servo del Diavolo e ne divenga dipendente e assuefatto.
Quello non è amore, ma desiderio carnale.
- Beh, non è quello che è accaduto a lei, così come non è accaduto a te – rispose ella con convinzione.
- Non lo so, Arley. Non vedo comunque come la storia di quella donna possa farci sentire meglio.
- Non capisci proprio? Siamo dalla parte della ragione, Van.
Non stiamo facendo nulla di sbagliato, lo pensavo anche prima, ma ora ne ho la conferma.
C’è qualcosa di marcio, di veramente marcio nel sistema e nelle leggi di Bliaint instaurate da Allister Chaim.
A ciò, Van Naren impietrì, si fiondò nuovamente addosso all’oggetto del suo amore e le tappò la bocca, spaventato.
- Non devi mai più dire una cosa del genere.
Mai, Judith, anche se non c’è nessuno che può sentirti.
Non riuscirei mai a sopportare anche solo di rischiare di perderti – la supplicò poggiando la fronte su quella di lei, mentre faceva scorrere via la mano da quelle labbra tanto desiderate e la infilava tra i capelli rossi.
Ella gli accennò un sorriso in risposta.
- Perché finisce sempre che sei tu a consolare me, nonostante io sia più grande? – le chiese lui rilassandosi in un sorriso a sua volta.
- Perché sono più matura e consapevole io.
Conosco meglio te e conosco meglio il mondo – rispose con elegante impudenza ella.
A quelle parole, egli la baciò ancora e ancora. – Quando sarà il tuo battesimo? – le domandò a fior di labbra.
- I monaci mi stanno spingendo a temporeggiare – rispose la ragazza.
- Perché?
- Non vogliono farmi nuovamente mettere piede là dentro, se non per pregare.
- Per quello che è accaduto quando eri bambina?
Ella annuì, per nulla turbata.
- E tu cosa ne pensi? Insomma, dovresti rivederli e …
- Li rivedo comunque ogni mattina, quando mi reco lì a pregare – lo interruppe Judith.
- Lo so, ma durante il tuo battesimo ti troveresti faccia a faccia con loro, dovreste avere un contatto diretto.
Inoltre, sei sicura che non ce ne fossero altri come lui …? – domandò Van Naren abbassando la voce.
- Non posso averne la certezza.
Se ce ne fossero altri, immagino che i genitori di molti bambini se ne sarebbero già accorti – rispose lei incerta. – Ma sono sicura che, prima di me, quell’uomo avesse fatto le stesse cose ad altri bambini - aggiunse.
- Perché lo pensi?
A ciò, ella gli perforò nuovamente lo sguardo con le sue iridi nere.
- Gliel’ho letto negli occhi, Van.
Mentre mi accarezzava, mi baciava e scendeva con la bocca ovunque riuscisse ad arrivare.
Mormorava parole che era abituato a dire, a ripetere infinite volte: “Il nostro Signore ti perdonerà per essere troppo bella, ti perdonerà per avermi spinto a fare quello che ti sto facendo, ti perdonerà solo se non lo dici a nessuno.”
Van inghiottì un groppo di saliva amara, abbracciandola a sé con cura, cercando di seppellire quelle parole in fondo, nella sua mente, ripetendosi che quel monaco fosse morto e che il suo tesoro prezioso ora era al sicuro, stretto a sè.
- Oh Arley, Arley … - sussurrò, sentendola irrigidirsi tra le sue braccia, ma subito ritranquillizzarsi un secondo dopo.
- Ripetilo di nuovo – lo spronò ella, ponendosi con il volto di fronte al suo, facendo toccare le punte dei loro nasi.
- Che c’è? Ti ricorda qualcosa?
- Forse … ma non ne sono certa – rispose la ragazza chiudendo gli occhi, cercando di concentrarsi, ma non trovando nulla nei suoi ricordi.
- Oh Arley, Arley … - ripeté allora Van Naren, fissando ogni dettaglio del viso dell’amata a quella vicinanza. - … qual è stato il momento più bello della tua vita? – continuò, scandendo ogni parola quasi come fosse un mantra, una preghiera.
Ella sorrise in risposta, riaprendo gli occhi. – Da bambina. Quando ho ucciso quel monaco con le mie mani.
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Il peccato originale ***


Il peccato originale
 
DIECI ANNI PRIMA
 
- È qualcosa che gli altri non possono comprendere – disse Myriam.
- Che cosa? – domandò il piccolo Blake.
- Gli altri villaggi, al di fuori di noi. Non possono comprendere – gli disse sorridendo, facendo uscire dalla sua bocca una vaporosa nuvola di fumo scuro.
- I popoli hanno invocato angeli e streghe insieme per questo, per avere quello che noi abbiamo senza sforzo – continuò poggiando la mano sulla guancia del bambino, sorridendogli ancora.
– Abbiamo tutto quello che loro vogliono, per puro caso, Blake.
Un semplice scherzo del destino.
Una scelta fatta senza pensare, per evitare una catastrofe, una selezione nella quale ci siamo trovati in mezzo senza volerlo, senza sapere.
Una strana commistione di eventi casuali ci ha permesso di avere quel che tutti bramano: la perfezione fisica.
- Perché è quello che tutti vogliono? – domandò innocentemente il bambino, aspirando anch’egli del vapore scuro dalla boccuccia che gli porse Myriam.
- Mi chiedi perché?
Perché siamo nati per essere guardati, Even.
Per nient’altro.
Chi possiede la dote, non vi fa neanche caso, non ci accorgiamo della fortuna che abbiamo, fin quando non incontriamo qualcuno che ce lo fa comprendere.
Viviamo i nostri doni innati con indifferenza, dissennatezza e irriverenza, in cerca di qualcosa di oltre, senza sapere che quello che già possediamo ci basterebbe per raggiungere l’immortalità osannata.
Questo è il motivo per cui me lo stai chiedendo – gli rispose la ragazza, terminando di tritare un cristallo, per poi versarlo in una ciotola.
- I belli si buttano tra le fiamme senza preoccuparsi di venire sfregiati, mentre i mostri hanno l’ardire di guardarsi allo specchio, senza curarsi del dolore che deriverà da ciò.
Ognuno ha il suo giogo da portare – concluse la balia aspirando ancora quel fumo, spostandosi una ciocca del vaporoso cespuglio di capelli neri dietro l’orecchio coperto di orecchini.
Myriam era una bellissima ragazza dalla pelle color carbone, i lineamenti forti e androgini, un ovale del viso che sembrava disegnato, e un corpo dalle forme dolci, non troppo prosperose.
- Che cosa stai preparando? – domandò Blake spostando le iridi chiare sul miscuglio che stava prendendo consistenza dentro la ciotola.
- Un intruglio che permetterà ad una servitrice del Creatore di apparire come noi per ventiquattro ore: bellissima – gli rispose ella prendendogli il visino con le mani e voltandolo di profilo, scrutandolo, facendo scorrere il polpastrello dell’indice su di esso, partendo dall’attaccatura della chioma castana, passando per la fronte, per la curva del nasino, per le labbra piene, terminando nel mento dalla forma delicata e definita, e nel collo. – La donna che mi ha chiesto di prepararle questo intruglio pagherebbe con la sua anima per avere un profilo come il tuo – osservò Myriam, per poi lasciare libero il volto del bambino e permettergli di rigirarsi verso di lei.
- Userai la magia nera su di lei? – le domandò.
A ciò, la ragazza sorrise. – Tutti gli incantesimi pericolosi che richiedono un sovvertimento della natura come questo fanno parte della magia nera.
- E poi, quali altri?
- Ad esempio, la magia nera può far ringiovanire … – sussurrò lentamente Myriam - … può togliere e ridare la vita … - continuò, aggiungendo altri ingredienti nel miscuglio. - … può anche far innamorare o far divenire il ventre di una donna fertile … – disse alzando gli occhi su di lui.
- Può fare davvero tutto questo?
Myriam annuì. – Tuttavia, la magia nera richiede sempre un alto prezzo da pagare, altrimenti non vi sarebbe alcuna differenza con la magia bianca. Quest’ultima è totalmente innocua, un trucco, un gioco per bambini.
Niente a vedere con la sua gemella maledetta.
- Che tipo di prezzo? Credevo bastasse ringraziare sempre il nostro Signore alla fine di ogni incantesimo per ottenere l’effetto che si desidera.
- Il ringraziamento al nostro Signore è dovuto in ogni caso per renderlo possibile.
Ma ciò non basta.
La natura ha agito in un modo perché è onnipotente e noi non possiamo nulla contro di lei.
Se vogliamo mutarla, sfidarla, dobbiamo darle qualcosa di inestimabile in cambio, calibrato alla portata e al tipo di cambiamento che vogliamo ottenere – spiegò la ragazza.
- Tutti quelli che usano la magia nera devono dare qualcosa in cambio?
Myriam sorrise e annuì. – Impari in fretta, piccolo mio.
- Allora, tu e la donna che vuole cambiare il suo aspetto per ventiquattro ore, che cosa avete dato in cambio alla natura? – le domandò curioso.
- Questo non posso dirtelo – gli rispose amorevolmente, per poi immergere le dita nell’intruglio e ammirare di nuovo il volto del bambino seduto dinnanzi a sé, a gambe incrociate. – Saresti felice? – gli domandò.
- Di cosa?
- Di prestare qualcosa che ti appartiene, per un giorno, a qualcuno che lo desidera?
Blake esitò di poco a quella domanda, concentrandosi sulle dita impiastricciate di Myriam che si avvicinavano nuovamente e lentamente a lui.
- Perché questo incantesimo sortisca l’effetto desiderato, devo dargli il tocco finale e fondamentale: il disegno, la traccia precisa del risultato visibile all’occhio – spiegò. – Per questo prenderò in prestito i tuoi lineamenti, se sei d’accordo. Ovviamente non tutti, poiché stiamo pur sempre parlando di una donna adulta, mentre tu sei un giovane ometto. Ci vorrà un attimo – affermò Myriam cominciando a far scorrere le dita impregnate di quel liquido rosso sul naso del bambino, poi sul contorno delle sue labbra, sugli zigomi alti, su tutta la linea delle mascelle, sulle sopracciglia e intorno agli occhi.
Blake la lasciò fare.
- Bene. Ora rimani fermo – lo incoraggiò ponendogli le mani davanti al volto, chiudendo gli occhi e cominciando a pronunciare la formula.
Parlò nella solita lingua sconosciuta, dai caratteri indefiniti, eppure così familiari.
Quando terminò, si fece il segno della croce al contrario e ringraziò il Signore con una preghiera.
Infine, aprì gli occhi e gli sorrise. – Abbiamo finito. Ora posso pulirti il viso – annunciò prendendo un panno bagnato e passandolo con cura e delicatezza sul volto del bambino.
- Che lingua è quella con cui pronunci le formule?
- Non è una lingua che si impara.
Proviene da dentro di noi, senza alcuna regola, e ci permette di riempire i libri di incantesimi senza alcuna conoscenza linguistica, ma solo con la nostra forza, con la concentrazione, l’equilibrio mentale, la fede, la volontà e la speranza – spiegò.
- Perché mi insegni tutto questo anche se sai che mia madre non vuole e che, se lo scoprisse, ti  caccerebbe via o peggio? – le domandò Blake osservandola.
A ciò, Myriam gli accarezzò di nuovo una guancia, sorridendogli teneramente.
- Perché è quello che voglio, Even.
Tua madre non mi vieterà di amarti come se fossi mio, anche se non sei uscito dal mio grembo – annunciò con convinzione.
Blake ricambiò il sorriso in risposta.
Tuttavia, un momento dopo, poco prima che Myriam riuscisse ad alzarsi, venne colta da un malore improvviso e atroce, che la fece ricadere nel letto, piegata in due dal dolore.
- Myriam! – la richiamò preoccupato il bambino.
Myriam spalancò gli occhi e prese a piangere e ad urlare, stringendosi il ventre, poco prima che, dalle sue intimità, cominciasse ad uscire un lago di sangue denso, il quale macchiò tutto il materasso, comprese le gambe di Blake.
- No … no, no, no! – urlò lei in lacrime.
- Myriam, che ti succede??
- Devo aver sbagliato … devo aver per forza sbagliato qualcosa … - balbettò Myriam con la voce rotta.
- Che cosa??
- L’incantesimo …
- Che incantesimo …?
- Questa mattina … ho preparato un miscuglio e l’ho bevuto, pronunciando la formula correttamente e ringraziando il Signore … ma forse … forse a quest’ultimo non è andato bene. Il mio desiderio non è stato gradito …
- Che tipo di incantesimo, Myriam? – le domandò Blake vedendola accartocciarsi ancora, in preda agli spasmi di dolore.
- Per rimanere gravida … contro la mia sterilità … - rispose in un sussurro.
- Che cosa …? Che cosa posso fare??
- Nulla, piccolo mio. Aspetta qui con me e preghiamo il Signore che questo tremendo dolore mi abbandoni presto …
- No! Non puoi soffrire così! Devo fare qualcosa per te! – esclamò scendendo dal letto.
- Blake …
Ma il bambino si era già fiondato fuori dalla casetta, prima che potesse udirla.
Bussò a tutte le porte delle case circostanti, non riuscendo a trovare nessuno, poiché quello era orario di preghiera.
A ciò, in preda alla disperazione, corse, corse a per di fiato fin quando non raggiunse il fiume.
Raccolse tutte le piante, le erbe e i fiori che ricordava avessero un effetto calmante, rilassante o benefico in altro modo per l’organismo.
Dopo aver corso per quasi un’ora, raccogliendo centinaia di foglie diverse, riscese giù verso la casetta.
Quando rientrò, prese la prima ciotola che trovò e cominciò a macinare tutte le foglie insieme, mischiandole con acqua bollita.
Tuttavia, sentiva che ciò non sarebbe bastato per alleviare quel dolore innaturale, provocato da una causa più grande, una causa che sfuggiva al controllo umano.
A ciò, in un momento di realizzazione, si fiondò nello studio di suo padre, usato da quest’ultimo per accumulare e catalogare i vari metalli e i cristalli trovati nella galleria.
Suo padre gli aveva parlato dei metalli qualche volta, gli aveva spiegato il loro utilizzo, come maneggiarli, gli aveva esposto tutti i loro nomi, nomi che ricordava perfettamente e senza fatica.
Tuttavia, suo padre non si intendeva di medicinali e non voleva mai sentir parlare di intrugli magici, dunque Blake non poteva sapere se ciò che stava per fare fosse una possibile soluzione, o solamente una sciocchezza, un’azione sconsiderata e inutile che avrebbe avuto effetti collaterali imprevisti.
Sapeva solo che voleva far placare almeno un po’ il dolore al ventre della sua balia, la quale aveva smesso di perdere sangue ma si lamentava ancora per quel malore che sembrava insopportabile.
Osservò il tavolo nel quale erano disposti in ordine tutti i campioni di metalli e cristalli estratti dal sottosuolo di Bliaint, facendo vagare gli occhi in una ricerca fugace e alla cieca.
Doveva fidarsi dei suoi sensi e del suo istinto, due elementi che Myriam gli descriveva sempre come fondamentali: i fiori, le foglie, i tronchi, l’acqua, le polveri, i vapori, le rocce, i cristalli vanno toccati, saggiati con le dita, con la bocca, con il naso e con gli occhi, per conoscerli e capirli, comprendere i loro effetti, le loro auree, le loro proprietà positive o negative.
Ma ciò valeva davvero per qualsiasi cosa?
Il piccolo Blake se lo domandò ma non aveva il tempo di rispondersi.
I suoi occhi si posarono su una pietra gialla, luminosa.
Zolfo, pensò. La prese in mano, soppesandola, memorizzandone la consistenza, l’odore e la forma.
Ma non era ancora soddisfatto.
A ciò, fece vagare ancora lo sguardo, fin quando le iridi blu non si posarono su un metallo più luminoso degli altri.
Argento, disposto esattamente vicino all’oro, ma quest’ultimo non venne minimamente guardato dal bambino.
Prese anche la pietruzza d’argento e si diresse verso la cucina, dove aveva poggiato la ciotola con l’intruglio.
Si avvicinò al camino acceso, solo dopo aver recuperato la lunga pinza che suo padre adoperava per maneggiare i metalli e le pietre senza toccarle, e la usò per disporvi la pepita di zolfo nell’estremità.
Dopo di che, infilò la pietruzza ben stretta dalla pinza in mezzo alle fiamme del camino, attendendo, cominciando ad utilizzare un panno per reggere il manico dell’utensile quando questo iniziò a scottare troppo.
Quando sentì un odore penetrante e quasi intossicante provenire dal fuoco, Blake estrasse la pietruzza e constatò che stesse gocciolando; la avvicinò alla ciotola e fece cadere qualche goccia di zolfo sul composto, cominciando a tossire nel momento in cui inalò il fumo che quella pietra semiliquefatta rilasciava. Durante il procedimento si scottò le mani diverse volte, una delle quali fu molto più dolorosa delle altre, tanto che la bruciatura gli ferì il palmo.
Un rivolo di sangue colò dalla lesione e cadde sul pavimento, mentre il bambino tratteneva il fiato e stringeva i denti per non emettere versi di dolore.
Terminato con lo zolfo, afferrò la pepita d’argento e cominciò a graffarne la superficie con uno dei lunghi coltelli che sua madre usava per tagliare la carne.
Quando aggiunse anche abbastanza scagliette di argento nel miscuglio, seguendo le proporzioni degli altri ingredienti, mischiò nuovamente il tutto e versò altra acqua bollente.
In conclusione, raggiunse Myriam in camera e salì sul letto, trovandola ancora sdraiata e ripiegata su se stessa, sudata e tremante.
- Tieni, ti ho preparato una cosa – le disse porgendole la ciotolina fumante.
- Che cos’è? – gli domandò in un sibilo la ragazza allungando le mani per prenderla.
- Non lo so – rispose sinceramente il bambino.
Myriam accennò un sorriso dolorante con le deboli forze che aveva in corpo. – Hai scelto tu tutti gli ingredienti?
Blake annuì incerto.
- Vuoi avvelenarmi …? – ironizzò la ragazza, per poi avvicinare il naso per sentirne l’odore e tossicchiare non appena quel vapore le invase le narici.
Blake si chiese dove la trovasse la forza e la voglia di scherzare in quelle condizioni. – Spero di no.
A ciò, Myriam bevve un sorso del miscuglio, e, nel momento in cui deglutì, il crocefisso appeso al contrario nella parete del salotto precipitò a terra, attirando la loro attenzione.  
- Blake, hai ringraziato il Signore prima di farmi bere l’intruglio? – gli chiese subito Myriam distogliendo lo sguardo dal crocefisso e tornando a guardare il bambino.
- No, perché non è un intruglio magico. Non ho pronunciato nessun incantesimo.
- Oh, Blake, non serve sempre pronunciare una formula per fare in modo che la magia faccia il suo corso.
- Ma non ho usato la magia – insistette il bambino.
- Il tuo “rimedio” sta funzionando, ometto – lo informò Myriam mentre i lineamenti del suo volto si distendevano e riusciva a mettersi seduta.
- Senti meno dolore?
- Sì, sento meno dolore. Ed è merito tuo – gli disse sorridendogli e stringendogli la mano per ringraziarlo. - Mi chiedo come tu abbia fatto a fare tutto da solo, Even.
Il bambino le sorrise e le si sdraiò di fianco, sentendola più rilassata.
- Le prossime volte dovrai sempre ringraziare il Signore, anche quando credi che non ve ne sia bisogno. Devi sempre farlo – si raccomandò lievemente allarmata Myriam, dando per scontato che vi sarebbero state delle prossime volte.
L’idea di Blake rimase la stessa, sapeva di non aver fatto nulla di paranormale, dunque non sentiva alcun senso di colpa, ma decise di non risponderle, poiché percepiva della preoccupazione nella voce di Myriam.
- Oh, piccolo mio, non puoi avere tutto quello che vuoi solo con la tua determinazione, la tua bellezza o la tua intelligenza.
Non funziona in questo modo, te l’ho detto.
Tu vuoi il cielo e la terra senza cedere nulla di te.
Vuoi mutare la natura senza pagare alcun prezzo.
Prima o poi dovrai cedere qualcosa.
A quelle parole, Blake comprese che la sua balia ritenesse ciò che lui aveva appena fatto come qualcosa di pericoloso e vietato dalla legge.
- Lo dirai a qualcuno? – le domandò con tranquillità, dopo qualche secondo.
- Mai, Even, mai.
Sarà il nostro piccolo segreto – gli garantì ella baciandogli i folti capelli spettinati.
Blake si accoccolò meglio accanto a Myriam, addormentandosi.
Quando si svegliò circa un’ora dopo, sfuggì con delicatezza all’abbraccio della ragazza ancora appisolata e prese a camminare sul pavimento freddo a piedi nudi, dirigendosi nel salotto.
Si avvicinò al punto in cui la cima della croce del crocefisso si era schiantata e notò che l’impatto avesse formato uno spacco sul legno sottostante.
 
Alma Heloisa, sin da quando era bambina, si era sentita dire da sua madre che avrebbe affrontato tutto, che ogni cosa sarebbe stata sopportabile.
Era un concetto che si era ripetuta nella mente con una frequenza asfissiante anche da ragazza, quando si era fidanzata e sposata, e da adulta, ora che era madre a sua volta di un figlio e che ne portava un altro in grembo.
Se lo era ripetuto tutte le volte che aveva visto donne e uomini bruciare sopra quel palco in mezzo alla piazza.
Se lo era ripetuto quando i servitori del Creatore la guardavano e lei credeva che la osservassero perché la credessero una strega, e abbassava gli occhi, nonostante dentro di sé sapeva che fosse il suo bell’aspetto ad attirare quegli sguardi.
Se lo era ripetuto quando aveva avuto modo di incontrare degli stregoni che utilizzavano il potere donatogli dal Signore per i più svariati scopi.
Anche in quel caso, aveva abbassato gli occhi, come faceva sempre, e se ne era scappata via, come se la sola vicinanza di quelle persone potesse contaminarla e farla associare a loro.
Il fardello del suo credo le pesava sulle spalle come un macigno, nonostante lei amasse il suo Signore.
La sua condotta era una delle più impeccabili tra gli abitanti del villaggio, ligia, severa, composta, timorata, fedele.
Ma più passava il tempo, più sentiva che ripetersi quel concetto nella mente come un mantra non avesse più alcun senso, poiché, nonostante pregasse almeno cinque ore al giorno, nulla era sopportabile come sua madre le aveva fatto credere.
Se fosse nata serva del Creatore sarebbe stato tutto più facile, ne era sempre stata certa.
Nessuno l’avrebbe guardata come temeva di venire guardata, sarebbe passata inosservata, e ciò andava bene, perché a lei non importava nulla dell’aspetto fisico.
Per qualche motivo si sentiva fuori posto, sempre fuori posto dinnanzi ai servi del Creatore, come colpevole, nonostante non avesse mai fatto nulla di male.
Per questo Alma Heloisa non alzava quasi mai lo sguardo.
Tuttavia, quella mattina, non riuscì proprio a fare a meno di alzare gli occhi quando si trovò di fronte ad uno spettacolo tanto agghiacciante.
Il piccolo Blake era rimasto a casa con la balia, mentre Rolland si era ritirato prima dalla cattedrale per andare a lavorare nella galleria, dunque era sola.
Trascorreva ogni giorno molto tempo a pregare da sola nella cattedrale semivuota, ciò non le creava alcun disturbo, anzi, la rilassava.
Quella mattina, mentre era inginocchiata dinnanzi all’altare sopra il quale era esposto il crocefisso capovolto, con le mani congiunte e gli occhi chiusi, venne lievemente distratta da un flebile rumore di scarpette che camminavano nel marmo del pavimento, a intermittenza.
Heloisa aprì un occhio e notò una splendida bambina dai capelli rossi aggirarsi per l’altare, intenta ad accendere le candele di tutti i candelabri con cura, facendo meno rumore possibile.
A ciò, la donna accennò un sorriso involontario, riaprendo entrambi gli occhi.
- Vi ho disturbata, signora?
Sono desolata, farò più piano – si scusò la bambina, che all’incirca doveva avere la stessa età del suo Blake.
- No, non fa niente – la rassicurò Heloisa dolcemente. – Vivi qui? – le domandò poi.
- Sì, signora.
- Da quanto? Non mi pare di averti vista spesso oltre l’orario di preghiera.
- Solo da qualche settimana, signora – si limitò a rispondere la piccola.
- I monaci sono buoni con te? – le chiese poi, giusto per fare un po’ di conversazione.
A ciò, la bambina si irrigidì un po’ e guardò altrove prima di risponderle, ma Heloisa non vi fece molto caso. - Sì, mi trattano bene.
- Bene – rispose sorridente la giovane donna. – Come ti chiami?
- Arley Judith. E voi?
- Alma Heloisa. Allora, buona continuazione, Judith.
- Anche a voi – rispose cordialmente la piccola, perseguendo nel suo compito di accendere le candele.
Terminato di pregare, Heloisa si alzò in piedi, si fece l’abituale segno della croce al contrario e scese le due scalinate che la dividevano dal corridoio dell’entrata della cattedrale deserta.
Si rese conto che oramai era quasi passato l’orario di pranzo, il sole era alto in cielo, e si rimproverò mentalmente per essersi trattenuta più del dovuto, e aver fatto attendere Blake per il pranzo, facendolo rimanere più tempo con quella balia che non le piaceva per niente.
Con quel pensiero in mente, si affrettò a raggiungere l’uscita della cattedrale per fare ritorno a casa, ma, prima di mettere piede fuori dall’edificio, venne attirata da degli strani sussurri, come ovattati e sconnessi, alternati a sospiri.
A ciò, decise di rimanere qualche minuto in più per controllare da dove provenissero quei suoni indefiniti, per assicurarsi che nessuno si fosse sentito male e avesse bisogno di soccorso.
Seguì l’origine di quei sussurri e sospiri, giungendo ad una porta socchiusa accanto alla scalinata che avrebbe condotto alla parte alta e privata della cattedrale.
Posò le dita sulla superficie della porta, distanziandola piano, giusto l’indispensabile per vedere chi vi fosse all’interno e cosa stesse facendo.
Ciò che si trovò di fronte agli occhi la fece pietrificare sul posto, togliendole la capacità e la forza di respirare.
In quella stanzetta semibuia, poiché priva di finestre e illuminata solo dalla luce di una candela, vi era uno dei monaci, un uomo di mezza età, accovacciato dinnanzi ad un bambino.
Heloisa lo riconobbe come uno dei bambini che aveva visto quella mattina durante la funzione, accompagnato da sua madre, la quale doveva essersene andata in anticipo.
L’uomo era letteralmente quasi addosso al piccolo, gli sussurrava delle frasi sconnesse all’orecchio con il naso immerso nei suoi capelli, e aveva le luride mani infilate sotto la sua maglietta, all’altezza dei fianchi, che si spostavano su e giù lentamente sulla sua pelle nuda.
Il bambino era immobile, si lasciava toccare e maneggiare a piacimento, ma, fortunatamente, Heloisa non riuscì a vedere il suo volto, poiché le dava le spalle.
Ma, in compenso, riuscì ben a scorgere il viso compiaciuto e in estasi del monaco.
Un violento voltastomaco le fece sentire un sapore acidulo in bocca, ma, per quanto desiderasse muoversi, le sue gambe tremavano e sembravano non voler obbedire ai suoi comandi.
Tuttavia, quando il monaco strattonò il piccolo e gli invase la bocca con la sua, quasi divorandola, Heloisa ritrovò tutta l’energia e il coraggio perduti, spalancando violentemente la porta dello stanzino, facendo entrare la luce e saltare in aria il monaco per lo spavento.
- Che cosa state facendo, padre …? – gli domandò in un sibilo nervoso e sul punto di esplodere.
A ciò, il monaco la guardò con i suoi occhi stralunati e un ripugnante rivolo di saliva accanto alla bocca.
- Signora, cosa ci fate voi ancora qui …? – le chiese balbettando, mentre il bambino si voltava verso di lei, rivelandole il suo bel volto spaventosamente incolore, quasi ceruleo.
Al solo guardarlo, il cuore di Heloisa si spaccò a metà, e la spinse a raggiungerlo immediatamente, prendendogli la mano e trascinandolo accanto a sé, allontanandolo dall’uomo.
- Io ho un figlio dell’età di questo bambino, padre.
Ho un figlio anche io!
Perciò ora ditemi immediatamente che cosa stavate facendo e se lo avete fatto ad altri prima di lui!
Pretendo delle spiegazioni, nel nome di Dio!
- No, signora, giuro sul nostro Signore che questo è il primo e l’ultimo! – urlò il monaco congiungendo le mani a preghiera, abbassando lo sguardo contrito.
Heloisa lo fissò sconcertata e profondamente disgustata.
- Voi servite il Signore.
Servite il nostro Signore attivamente, siete un suo messaggero.
Come … come avete potuto macchiarvi di tale sacrilegio …?
- Vi prego.
Vi prego appellandomi alla misericordia di Dio, augurandomi che anche voi possiate essere disposta al perdono quanto lui.
Vi prego di non farne parola con nessuno e io manterrò la promessa.
Vostro figlio e nessuno di tutti questi bambini è in pericolo.
- Allora cos’è stato quello che ho visto …?
- Un momento di debolezza che non si ripeterà.
Vi supplico.
Heloisa continuò a guardarlo, sentendo le lacrime pungerle gli occhi nel momento in cui realizzò qualcosa.
- Prima …
Prima, accanto all’altare, ho visto una bambina, una bambina che ha detto di vivere qui con voi – disse percependo ogni parola come una valanga nel suo petto. – Avete toccato anche lei … ? Avete toccato anche lei come facevate con lui …?
- No, assolutamente no.
- Sarà meglio che sia così.
Sarà meglio … - sussurrò Heloisa sentendo le gambe cederle quasi.
- Dunque, ho la vostra parola? – le domandò conferma il monaco.
Dopo una pausa interminabile, Heloisa chiuse gli occhi e annuì.
- Grazie, infinite grazie, figliola – le disse l’uomo quasi volatilizzandosi dinnanzi ai suoi occhi.
A ciò, dopo essersi riservata altri abbondanti minuti per riprendersi, Heloisa abbassò il viso per guardare il piccolo rimasto accanto a lei, ancora con la manina stretta alla propria e lo sguardo fisso dinnanzi a sé.
Si accovacciò per essere alla sua altezza e lo guardò in volto. – Stai bene? – trovò il coraggio di domandargli.
Il bambino si girò verso di lei, fissando gli occhi nei suoi, azione che fu deleteria per Heloisa, poiché, improvvisamente, nella sua mente, gli occhi verdi del bambino divennero di un blu acceso come quelli di Blake, e i suoi capelli neri si schiarirono assumendo anch’essi il colore di quelli di suo figlio, così come il restante dei suoi lineamenti e delle sue forme.
Heloisa sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo, scossa, instabile.
Sapeva di aver appena commesso un peccato.
Il primo peccato della sua vita.
 
A distanza di dieci anni, la sua mente ritornò a quella maledetta mattina.
L’aria era tesa come sempre, come ogni volta che si ritrovavano soli in casa come in quel momento.
Heloisa non sapeva come fossero arrivati a quel punto.
Fece virare gli occhi fugacemente verso il suo primogenito, il quale la affiancava in cucina nella preparazione della cena, mentre padre Craig era seduto sul tavolino del salotto a scrivere.
Blake non le prestava la minima attenzione, se ne stava in silenzio a tagliare il pane, a far aumentare quella non troppo sottile linea di tensione nell’aria che vi era tra loro, apparentemente incurante.
Ma Heloisa sapeva. Sapeva quanto avesse voglia di litigare, perché ne aveva anche lei.
Non seppe quando la provò la prima volta, quell’ingente necessità di scannarsi con lui, ma, da che ricordasse, non vi era stato un momento nella sua vita che aveva trascorso in completa pace e serenità in compagnia di suo figlio.
Con Ioan era tutto diverso, perché era molto più simile a lei, era dolce, paziente, il ritratto della tranquillità e dell’obbedienza.
Ioan sapeva stare al suo posto, non faceva domande, non spariva dinnanzi ai suoi occhi, non la ignorava, né la attaccava, ma ascoltava tutto ciò che ella gli diceva senza battere ciglio.
Blake, invece, era l’esatto opposto del fratello, così come era il suo esatto opposto.
Forse era per questo che non erano mai riusciti ad andare d’accordo, in sedici anni.
Blake era irruento, Blake era testardo, Blake era determinato, Blake era cinico, irritante, sarcastico, troppo sveglio, troppo combattivo.
Al contrario di ciò che aveva sempre fatto lei, Blake non abbassava mai lo sguardo.
Lui teneva gli occhi fissi davanti a sé, costringendo chiunque gli fosse davanti ad abbassarli prima di lui.
Eppure Blake e Ioan erano una cosa sola, per quanto legati.
Eppure, più lo guardava, più somiglianze fisiche trovava tra lui e se stessa, come quei capelli scuri che gli si schiarivano al minimo contatto col sole, la pelle chiara e gli zigomi alti.
C’era qualcosa di sbagliato tra loro, qualcosa di rotto, un pezzo che era sempre stato rotto.
Un figlio non si può odiare, ma solo amare più di qualsiasi altra cosa.
Questo lo sapeva bene perché era quello che aveva sempre fatto.
- Rimarrai a cena? – gli domandò con la massima calma.
Il ragazzo si portò un pezzo di pane alla bocca, mangiandolo, prima di risponderle.
- Devo andare alla galleria.
- Dunque è un no?
Blake si voltò a guardarla, rimanendo in silenzio per qualche secondo. – Tu che dici?
- È la seconda volta che mi lasci a cenare da sola con padre Craig.
- Ti crea tanti problemi la cosa? Non sei tu quella che passa metà giornata a pregare in monastero? Non dovresti sentirti perfettamente a tuo agio con i preti?
Nonostante il suo tono di voce non fosse provocatorio, Heloisa non poté fare a meno di percepire un moto di nervosismo invaderle lo stomaco, associando quella frase al ricordo riaffiorato di quella mattina di dieci anni prima.
- Non puoi proprio fare a meno di litigare davanti al nostro ospite? – gli chiese in un filo di voce.
- Non sto litigando, madre. Tu vuoi litigare? – le rigirò la domanda come al suo solito.
- Sono stanca di litigare con te.
- Ma è tutto quello che riesci a fare con me, giusto? – le domandò avvicinandosele, questa volta più consapevole dell’effetto che le sue parole avrebbero provocato su di lei. – Lo senti? Quel languore che ti sale alla bocca dello stomaco quando resti troppo tempo senza discutere con me?
- Sei ingiusto.
- Cos’hai da dirmi oggi? Cosa ti turba, oltre al fatto che ti lascio sola a cenare con il nostro ospite?
- Non è appropriato che una donna sposata resti da sola a cenare con un …
- Ma fammi il favore – la interruppe tornando a concentrarsi sul pane.
- Blake, potresti ascoltarmi una buona volta?
- Ti sto ascoltando.
So che mi ritieni incapace di farlo, ma lo faccio sempre, in realtà.
Che poi non metta in pratica quello che mi chiedi, quello è un altro conto.
- Sei impossibile.
- Non preoccuparti, tra pochissimo non sarò più nel tuo campo visivo.
- Non è quello che vorrei.
- Che cosa vorresti, allora? Sono tutt’orecchie.
- Ti è stato affidato il compito di fare da guida al nostro ospite nel periodo della sua permanenza qui, e tu ti permetti di …
- L’ho portato in giro tutto il giorno.
Mi è stato detto di fargli da guida, come hai detto, non di fargli da balia ventiquattro ore su ventiquattro.
Né io né lui desideriamo così assiduamente e ardentemente la compagnia dell’altro.
- Cosa puoi saperne? Sei tu il suo punto di riferimento qui.
A ciò, Blake lasciò andare il coltello e si voltò a guardarla con un sorrisetto strafottente in volto, ponendo le braccia conserte.
- Vuoi andarglielo a chiedere, madre?
Vuoi andargli a chiedere se sarebbe così infastidito, turbato e perso se mi assentassi per un’ora o due?
Vuoi andargli anche a chiedere se preferisce che lo aiuti a vestirsi appena sveglio o ad imboccarlo mentre mangia, dato che ci sei?
Heloisa si portò le mani sul volto, strofinandolo e sospirando per la stanchezza. – È stata quella donna …? – gli domandò all’improvviso.
- Cosa …?
- È stata quella maledetta donna che ti accudiva da bambino a metterti contro di me?
Credeva di poterti fare da madre al mio posto, quella strega?
Ti ha messo tutte quelle idee in testa che …
- Stai uscendo di senno.
- Avresti preferito che fosse lei a crescerti.
Beh, se non fosse morta prematuramente, ora potresti andare a cercarla – sputò fuori quelle parole con una crudezza che non credeva di possedere.
Blake non rispose subito, probabilmente non riteneva che quell’affermazione meritasse la sua attenzione.
Tuttavia, quando Heloisa lo percepì muoversi nuovamente dalla sua posizione e allontanarsi da lei, non riuscì a reprimere l’istinto di voltarsi, bloccandosi poco prima di richiamarlo a sè, di fermarlo.
Lo vide prendere il suo mantello, infilarselo e voltarsi verso padre Craig, quest’ultimo palesemente imbarazzato.
Doveva aver udito tutta la loro litigata, pensò.
- Ve la lascio volentieri, padre.
Fate attenzione: è una bestia che morde.
Tuttavia, l’ho fatta già sfogare un bel po’, come avete avuto modo di vedere.
Vi auguro buona cena – gli disse, per poi avviarsi verso la porta ed uscire.
Calò il silenzio nella casa.
- Forse è meglio che vada anche io, Heloisa – annunciò il giovane prete dopo quella lunga e tesa calma.
- Padre, voglio che sappiate che non era mia intenzione offendervi o insinuare che non mi senta a mio agio in vostra compagnia …
- No, lo capisco benissimo, Heloisa. Convengo che non sia convenevole rimanere per più di una volta a cena soli, noi due. Immagino possiate sentirvi incomoda, non scusatevi – si affrettò a dirle padre Craig sforzandosi di sorriderle cordialmente mentre si alzava, infilava il suo blocchetto dentro la tasca della tunica e recuperava il suo mantello sull’appendiabiti.
- Dove avete intenzione di andare, padre? – gli  domandò la donna in tono colmo di senso di colpa. – Tra poco pioverà.
- Non preoccupatevi, Heloisa, andrò semplicemente a pregare nella cattedrale. Sarò di ritorno a breve.
Detto ciò, il giovane prete uscì dall’abitazione e si diresse verso il luogo menzionato con un caotico mucchio di pensieri in testa che non avevano alcuna intenzione di lasciarlo in pace.
Era a Bliaint solo da pochi giorni e già sentiva di essere sul punto di cedimento.
Tutto quel mistero, quelle leggende, quelle voci, quelle esecuzioni, quel sinistro fascino erano divenuti tanto intossicanti da fargli girare la testa.
Non aveva mai dubitato della propria fede a Dio, ed era certo che mai lo avrebbe fatto.
Tuttavia, si rendeva conto che quello fosse il luogo peggiore al mondo per un fedele servo e messaggero di Dio, poiché era il covo di ogni possibile tentazione presente su quella Terra peccatrice.
La cosa peggiore in tutto ciò, era che non sapeva neanche lui in cosa consistessero nello specifico quelle tentazioni che percepiva attrarlo da ogni direzione, e aveva il terrore di scoprirlo.
Finchè sarebbero rimaste solamente paure indefinite, sarebbero state facili da scacciare della mente.
Doveva pregare.
Aveva bisogno di pregare per allontanare Satana da lui, dato che viveva in una casa che lo ospitava stabilmente, il Diavolo.
Non appena arrivò alla cattedrale, entrò senza neanche accorgersene, tanti erano i pensieri che gli  invadevano la testa.
Decise che si sarebbe confessato prima di pregare.
Tuttavia, non appena il giovane padre riprese contatto con la realtà, si accorse di udire degli strani rumori provenire dalla stanzetta confessionale.
La cattedrale era deserta e silenziosa, se non per quelle presenze nella cabina, le quali, credevano indubbiamente di essere sole.
Si avvicinò cautamente di qualche passo, per capire cosa stava avvenendo là dentro, ma quando vide i due, un ragazzo e una ragazza, uscire dalla cabina avvinghiati in una danza d’amore affiatata e passionale, si nascose immediatamente sotto una delle sedie presenti nel salone buio.
Ascoltò tutta la loro conversazione senza fiatare, sentendosi indubbiamente in colpa per esser testimone di una tale grave violazione alle sacre leggi di Bliaint, ma represse quel peso sul petto il più possibile, sperando con tutto il cuore che i due si dividessero a breve e se ne andassero, dandogli la possibilità di uscire di lì.
Soprattutto, ciò che sperava maggiormente, era che non portassero a termine il rapporto sessuale, ma, da come aveva inteso, non avevano intenzione di andare fino in fondo, spingendosi tanto in là, per sua grande fortuna.
Quando finalmente il servo del Creatore salutò la sua amata, uscendo dalla cattedrale, padre Craig si alzò, rivelando la sua figura alla ragazza, serva del Diavolo.
Ella sgranò i grandi occhi di carbone non appena si accorse di lui, capendo che avesse visto e udito tutto.
Nonostante ciò, mantenne la massima calma, rivolgendogli parola. – Siete qui per confessarvi, signore?
- Sì, signorina.
- Venite dentro – gli disse entrando per prima nella parte della cabina riservata al confessore.
A ciò, padre Craig non se lo lasciò ripetere, affrettandosi ad entrare nella porzione della stanzetta lasciata libera.
- Dunque siete voi che vi occupate delle confessioni? – le domandò spontaneamente, guardandola attraverso la spessa rete.
- Potete chiamarmi Judith, signore. Sì, me ne occupo io quando i monaci non possono farlo.
Immagino sappiate anche il perché, dato che avete ascoltato tutto ciò che io e il mio amante ci siamo detti poco fa – gli disse in tutta tranquillità.
- Oh, mi scuso enormemente, signorina Judith, non era assolutamente mia intenzione.
È stata una totale casualità.
Io sono padre Craig, provengo da un altro villaggio, sono solo in visita qui.
- Dunque siete anche voi un ecclesiastico.
Cosa vi porta qui, padre?
- Questioni pratiche, affari.
Tuttavia … questo luogo mi sta dando alla testa – le confessò.
- Per quale motivo?
- Non lo so bene neanche io.
So solo che sento di  dover chiedere perdono.
Non so per cosa, ma sento di doverlo fare.
Judith sorrise, come intenerita.
- Conoscete la differente versione di come sia andata quel giorno, il giorno del peccato originale? – gli  domandò.
- No, non la conosco – rispose il prete.
- Alcuni dicono che quando il Creatore creò il primo uomo e la prima donna, non vietò loro nulla.
Potevano fare tutto ciò che volevano nell’Eden.
Tuttavia, proprio a causa di questa assoluta libertà, loro cominciarono a non sentirsi in pace con loro stessi.
Sentivano ci fosse qualcosa di sbagliato.
Il loro corpo, la loro natura terrena, suggeriva qualcosa di diverso, rispetto a ciò che aveva detto loro il Creatore.
Era come se la loro carne li  spingesse a porsi dei limiti, dei limiti che rappresentavano automaticamente delle tentazioni alle quali resistere.
Fu così che Adamo ed Eva crearono l’Albero del Bene e del Male.
Fu un totale prodotto della loro mente, nient’altro.
Si convinsero che, nell’Eden, esistesse quell’unico albero che non potevano toccare, né guardare, pena la punizione eterna.
Poi, accadde ciò che accadde.
Eva, la più curiosa, la più ribelle tra i due, si avvicinò all’albero.
A tal punto, per non cedere spontaneamente al peccato e giustificare le sue azioni alla propria coscienza, la mente di Eva creò il Diavolo tentatore.
Secondo questa versione, il Demonio non esisteva prima di allora.
Fu la prima donna a crearlo, a immaginarlo parlarle e persuaderla a mangiare il frutto, violando il comando del Creatore che gli stessi Adamo ed Eva si erano imposti.
In tal modo, le paure, il terrore e i sensi di colpa dei due furono talmente trascinanti, potenti, insopportabili, da divenire reali.
Il Diavolo prese davvero consistenza, divenendo una vera e propria entità.
Una minaccia reale.
Una tentazione materializzata, per quanto forte e vivida.
Secondo tale versione, il peccato non è mai esistito davvero, padre.
Siamo noi ad esserci resi peccatori.
Al termine del racconto di Judith, il giovane prete ammutolì.
- Anche voi state immaginando una tentazione che non esiste, padre? – riprese la ragazza. – Lo state facendo per trovare una giustificazione al senso di colpa che vi affligge?
Lo state facendo per trovare un colpevole che possa salvare la vostra purezza d’animo?
Forse questo colpevole ha anche un volto e un nome?
Padre Craig deglutì, cercando di  riacquisire la calma. – Non avevo mai sentito questa versione.
- Ora la conoscete – rispose ella osservandolo per un lungo istante di silenzio glaciale. – Volete denunciarci alle autorità, padre?
- Cosa…?
- Volete denunciare me e Van Naren per la nostra relazione proibita? – ripeté concisamente.
- No, Judith. Non ho alcuna intenzione di farvi rischiare il rogo per tale motivo. Non lo farò. Manterrò il segreto.
- Cosa volete in cambio, per il vostro silenzio?
- Nulla.
Judith affilò lo sguardo, non del tutto convinta. – Non volete nulla in cambio?
- Sono un uomo di Dio, Judith, non sono solito fare ricatti – le rispose accennandole un sorriso amaro e rassicurante, per quanto possibile.
- Allora, permettetemi di aiutarvi con il vostro problema. Almeno saremo pari.
- Il mio problema?
- Il vostro senso di colpa, le vostre tentazioni. Ditemi se c’è qualcosa che posso fare.
Il giovane prete vi pensò un po’ su. – Posso prenderlo come un semplice favore?
Judith gli sorrise in risposta, annuendo riconoscente.
- Beh, dovete sapere che sono ospite a casa di una famiglia serva del Diavolo. La famiglia Rolland. Sono i proprietari della galleria di Bliaint. Li conoscete?
- In questo villaggio ci conosciamo tutti di vista, padre. Probabilmente li ho visti e, forse, ho scambiato qualche parola con qualcuno di loro durante i momenti di preghiera.
- Il loro primogenito mi sta facendo da guida, istruendomi sul villaggio.
Non che non mi fidi di lui, ma  … - si bloccò, cercando di trovare le parole giuste.
- Cosa, padre?
- Percepisco come se vi sia qualcosa che non va in lui, qualcosa che mi sta tenendo nascosta.
- Non è obbligato a dirvi tutto ciò che lo riguarda strettamente, padre.
- Sì, lo so bene, ma sento come se vi sia dell’altro.
Non so spiegarvelo, Judith.
Mi ha anche detto di esser riuscito a penetrare nella biblioteca della cattedrale nonostante sia chiusa al pubblico.
- Deve essere sicuramente la biblioteca dell’altra cattedrale. Questa qui la sorveglio io, trascorro quasi ogni giorno a leggere e a catalogare materiale. Non è mai entrato nessuno di esterno, ne sono certa.
- Allora deve trattarsi della biblioteca della cattedrale dei servi del Diavolo, come avete detto. Difatti, avrebbe molto più senso.
- Dunque, cosa volete che faccia, padre?
- Solamente, se avrete modo di vederlo, di scambiare delle parole con lui, di avvicinarlo, tenetelo d’occhio.
Cercate di scoprire qualcosa in più su di lui, se ne siete in grado.
Ha la vostra età, non dovrebbe essere difficile trovare una scusa per parlargli – le disse guardandola, realizzando nuovamente quanto i sedicenni di quel villaggio sembrassero più grandi e maturi rispetto agli altri che aveva conosciuto, fuori da Bliaint.
- Qual è il suo nome? – gli domandò la ragazza.
- Blake.
- Beh, almeno siamo riusciti a dare un nome al vostro serpente, padre – concluse ella sorridendogli complice. - Ora abbiamo un patto. Ovviamente, nulla di troppo vincolante – aggiunse. - Tuttavia, fate attenzione, padre: se non volete che Blake diventi reale, cercate di non concentrarvi troppo su di lui.
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Specchio ***


Specchio
 
- Non credevo che avrei partecipato ad un matrimonio, prima di giungere qui – commentò padre Craig ripiegando la sua tunica accuratamente e poggiandola sopra il letto.
- I matrimoni qui a Bliaint sono dei grandi eventi, le celebrazioni durano quasi due giorni e coinvolgono una grande fetta di villaggio – spiegò Blake rovistando tra i vestiti che sua madre era andata a ritirare da una delle sarte più richieste del villaggio.
- Una grande fetta?
- Tutti i componenti del credo a cui appartengono gli sposi – disse Blake porgendo una tunica blu notte al giovane prete. – Provate questa.
- Come mai i componenti del credo opposto sono esclusi? Insomma, se gli sposi dovessero avere amici tra i servitori dell’altro culto, non potrebbero invitarli? – domandò padre Craig afferrando la splendida tunica dalle mani di Blake e osservandola.
- Potrebbero. Ma le celebrazioni dei servi del Diavolo e del Creatore sono differenti. Gli appartenenti all’altro culto si troverebbero in mezzo a qualcosa al quale non sono avvezzi.
- Diversi tipi di celebrazioni? In cosa consistono tali differenze?
- Non ho mai assistito ad un matrimonio di servi del Creatore, non posso dirlo con precisione, ma so che vi sono delle differenze – lo liquidò il ragazzo, continuando a rovistare tra la montagna di vestiti ben ripiegati.
- Questa forse è un po’ troppo eccentrica per me – commentò padre Craig poggiando accuratamente la tunica blu di ottima fattura e con degli splendidi ricami dorati sul lenzuolo del letto.
- Quella è la meno “eccentrica” che ho trovato, padre – lo informò Blake rivolgendogli un’occhiata lievemente divertita.
- Ah. Beh, forse potrei cercare qualcosa io.
- Non vi fidate del mio giudizio?
- Assolutamente, ma …
- Padre, dovrete abituarvi all’idea di uniformarvi almeno un minimo alle usanze di Bliaint, finché rimarrete qui. Vi aiuterà a non sentirvi costantemente fuori luogo e a carpire meglio alcuni aspetti che soddisferebbero la vostra curiosità.
Fuori luogo ci si  sarebbe sentito in ogni caso, ma padre Craig si trattenne dall’esprimerlo ad alta voce, limitandosi ad annuire, ammettendo a se stesso che il ragazzo avesse ragione.
- Potrete prepararmi anticipatamente a ciò a cui assisterò, Blake? – gli domandò poi, con un pizzico di timore nella voce. – Da dove vengo io, i matrimoni consistono solamente nella celebrazione nella cattedrale del nostro Signore, nella traversata degli sposi per la navata e in una ricca cena a base del vitello più grasso del bestiame dello sposo, scannato la mattina stessa. Dopo di che, ognuno torna nella sua abitazione.
Per non parlare del fatto che, ad Armelle, gli invitati alle nozze non si sognerebbero neanche di indossare abiti tanto belli e ricercati. Forse neanche gli sposi – aggiunse.
- Come? Nessun tipo di celebrazione oltre la cena? Neanche un ballo? – gli domandò Blake sorpreso.
- Beh, sì, a volte gli sposi si dilettano in un ballo durante la cena, ma nulla di più – rispose il giovane prete pensandovi su.
- Non temete, padre, non vi troverete dinnanzi a nulla di troppo strano domani.
All’alba ci recheremo nella nostra cattedrale, assisteremo alla funzione e allo sposalizio, poi raggiungeremo il luogo dei festeggiamenti per dare inizio alle celebrazioni tradizionali – lo rassicurò Blake. – Nulla di estremo, solo balli, giochi preparati per gli sposi e alcuni riti richiesti dall’usanza.
Dopo di che, il tutto terminerà con il ricco banchetto, composto da una gran varietà di pietanze per soddisfare qualsiasi palato e da litri e litri di vino.
Sarete praticamente forzato a bere, padre. Forse dovreste preoccuparvi più di questo.
Il giovane prete ascoltò attentamente il ragazzo, osservandolo continuare a cercare un abito tra il mucchio di eleganti vestiti.
Gli si avvicinò e cominciò a cercare anch’esso, senza pensare. – Parlatemi di almeno uno di questi famosi riti a cui assisterò – insistette.
A ciò, Blake si fermò per un attimo, riflettendovi su. – Il più conosciuto e apprezzato è il rito dello specchio – gli disse.
- Il rito dello specchio?
- Viene tramandato ad ogni matrimonio di generazione in generazione qui a Bliaint da noi servitori del Diavolo. Tuttavia, è divenuto talmente amato da essere ormai diffuso anche ai matrimoni dei servi del Creatore.
- In cosa consiste?
- Proviene da un’antica leggenda. Si dice che, secoli fa, uno stregone si sia sottoposto ad un incantesimo per trasmutare il suo corpo in quello di una donna.
L’impatto con il nuovo corpo tanto diverso dal suo è stato talmente forte e destabilizzante da pietrificarlo totalmente. A ciò, reduce dei suoi errori, lo stregone annullò l’incantesimo tornando nel suo corpo da uomo, ma decise di ritentare, stavolta facendosi trovare preparato.
Per diversi giorni, frequentò una donna e le chiese di insegnargli ad essere lei.
Non ad insegnargli a comportarsi da donna, ma a sentirsi nel corpo di una donna, ad essere capace di controllarlo, di percepirlo suo, nonostante le differenze.
Ella accettò e, per tre giorni, gli ordinò di copiare esattamente ogni movimento che ella compiva, come se egli fosse stato la superficie di uno specchio e non più un uomo in carne ed ossa.
- Qualcosa di a dir poco … estraniante – commentò padre Craig, preso dal racconto.
- Già. Ma, grazie a ciò, lo stregone imparò l’arte dell’empatia e dell’altruismo.
Capì di esser in grado di non pensare solo a se stesso e al suo bene.
Capì di riuscire a non pensare solo con il suo corpo, ma anche con il corpo degli altri.
Soprattutto, imparò l’arte di essere donna.
- Buon Dio. È davvero una bella storia.
- Già. Motivo per cui, tre giorni prima del matrimonio, sia lo sposo che la sposa, devono esercitarsi ad essere uno lo specchio dell’altra, a turno. In modo che, entrambi, imparino a vivere, a pensare, a muoversi, a vedere come l’altro, la sua metà.
Solo se il rito dello specchio viene portato a termine alla perfezione, la coppia di sposi vivrà il loro amore fino alla morte, secondo la tradizione.
- Saranno uno lo specchio dell’altra davanti agli invitati? Cosa c’è di complicato?
- L’esercitazione nei tre giorni precedenti serve a far anticipare ad ognuno i movimenti dell’altro, sentendosi pienamente nel corpo del proprio consorte, come se ella potesse vivere in lui ed egli in lei.
Durante il rito compiuto dinnanzi a tutti i testimoni, nonché gli invitati, lo sposo e la sposa devono dilettarsi in questa pratica, a turno.
Se uno dei due non segue alla perfezione ogni singolo movimento dell’altro, replicandolo al minimo dettaglio e nello stesso momento, esattamente come fosse la superficie di uno specchio, il rito non può considerarsi terminato degnamente.
- Ciò è mai capitato?
- Quasi mai.
Solitamente, se ciò accade, è sempre anticipato da un sogno.
Per tale motivo se uno dei due sposi, la notte prima delle nozze, dovesse avere un incubo, il matrimonio viene rimandato.
- Rimandato??
- Certo. I sogni sono degli indicatori molto importanti, assolutamente da non ignorare per eventi come questi.
Se il sogno è di cattivo auspicio, le nozze devono essere rimandate.
Padre Craig abbassò il viso nuovamente sui vestiti sparpagliati, riflettendo.
- C’è anche una leggenda che narra di una strega, di una donna, che ha provato lo stesso incantesimo dello stregone, trasmutandosi in un uomo? – domandò improvvisamente il giovane prete.
- No, non credo. O, per lo meno, non è stata tramandata. Perché me lo state chiedendo?
- Pura curiosità. Insomma, se un uomo ha sentito il desiderio di provare qualcosa di simile, potrebbe averlo avuto anche una donna.
- Potrebbe.
- Perché sembrate titubante al riguardo?
A ciò, Blake discostò gli occhi dagli abiti e li rivolse al giovane prete. – Non lo so, padre. Forse semplicemente perché mi resta più difficile credere che una donna voglia possedere il corpo di un uomo.
La donna è fisicamente molto più armoniosa.
Le sue forme sono molto meno scomode, dure e discordi al tatto e all’occhio.
Che guadagno vi sarebbe per ella?
- Non deve esservi necessariamente un guadagno.
Potrebbe essere spinta dalla curiosità.
- Potrebbe – ripeté Blake accennandogli un sorriso e ritornando a rovistare tra gli abiti.
- Dunque, non sapete davvero se una donna abbia mai avuto una simile curiosità? – insistette padre Craig.
- Vi sconvolgerà scoprirlo, padre, ma vi informo che ancora non posseggo l’onniscienza, né tanto meno la capacità di leggere nella mente delle donne di questo villaggio – rispose il ragazzo alzando dinnanzi a sé una splendida tunica di un colore tra il magenta e il vermiglio, di tessuto leggero e lucido, con ricami neri sul petto e sul busto e i bordi delle maniche e del collo bianchi.
– Noto che avete scelto anche voi cosa indosserete. È molto bella – disse padre Craig contemplando l’indumento.
- Ad ogni matrimonio al quale siamo invitati, mia madre si reca sempre dalla sua sarta di fiducia, talvolta anche una settimana prima, per sbrigarsi nel prendere gli abiti migliori.
Come vedete, abbonda ed eccede nelle quantità, non ha il senso della misura.
Padre Craig sorrise in risposta. – Vostra madre tiene particolarmente a questi eventi, suppongo.
I due vennero interrotti dall’entrata in camera di Ioan, il quale corse verso suo fratello con un sorriso radioso nel volto stanco. – Even, hai scelto l’abito per me?? – esclamò con la sua vocina acuta.
- Sì, Christofer, il tuo è il primo che ho scelto.
- E per te l’hai scelto?? È quello che hai in mano? È davvero bello!
- Calma, calamita, sali sul letto e provati il tuo, è proprio lì sopra – gli disse addolcendo la voce come solo con lui faceva, sorridendogli.
- Anche padre Craig ha scelto l’abito che indosserà? – continuò il bambino salendo sopra il materasso indicatogli e alzandosi in piedi sopra di esso.
- Sì, il suo è quello sull’altro letto – rispose il ragazzo.
Ioan si sporse per guardare anche la tunica scelta per padre Craig e sgranò gli occhi chiari di stupore. – Sarà strano vedere padre Craig con degli abiti colorati!
- Ehi, piccolo, guarda che io sono qui – si lamentò scherzosamente padre Craig, sorridendogli.
- Aiutatelo a provarsi l’abito mentre io sistemo qui, padre – disse Blake al giovane prete.
A ciò, padre Craig obbedì, aiutando Ioan a spogliarsi del camice da notte.
- Cala la luna, cala la luna …
Cala la luna, il cielo la inghiotte … - cominciò a canticchiare il bambino.
- Cala la luna, cala la notte … - continuò, rivolgendo gli occhi a suo fratello in attesa che egli terminasse la canzone al suo posto.
Blake lo dedusse senza guardarlo e lo accontentò.
- Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più.
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù.
 
La mattina dopo giunse in fretta, tutti gli invitati si recarono all’alba dentro la cattedrale dei servitori del Diavolo e la cerimonia trascorse placidamente e senza intoppi.
Padre Craig non trovò molte differenze rispetto agli sposalizi a cui  aveva preso parte ad Armelle.
Il monaco pronunciò i voti nuziali, unì i due giovani sposi e, infine, pregarono tutti insieme, gesto al quale padre Craig si premurò ovviamente di astenersi, attendendo che tutti i servitori del Diavolo terminassero di ringraziare il loro Signore per la funzione terminata, rimanendo seduto e in silenzio.
Si fermò a guardare i due novelli sposi, vestiti entrambi con degli elegantissimi indumenti di tessuto bianco perlaceo, tanto felici e sorridenti da adombrare i raggi del sole che si affacciavano dalle grandi finestre sulla navata, illuminandoli.
Erano entrambi giovani e belli, con i capelli biondi, lei con l’incarnato ambrato e brillanti occhi scuri e a mandorla, lui con iridi di giada e un accecante sorriso.
Oramai era a Bliaint da una settimana e aveva cominciato a non dare eccessiva importanza a molti aspetti che trovava destabilizzanti o troppo differenti da ciò a cui era avvezzo.
Aveva imparato ad adattarsi. Tuttavia, era ben cosciente che la sua capacità di adattamento sarebbe venuta immediatamente meno in determinate circostanze.
Quando giunsero in una radura nel bosco, leggermente distanziata dal  villaggio, per dare inizio ai festeggiamenti e al lunghissimo banchetto, il giovane prete si guardò intorno meravigliato, trovando quella piccola porzione di paradiso terrestre semplicemente meravigliosa.
Il rumore dell’acqua scrosciante del fiume e delle piccole cascate vicine rendevano l’atmosfera ancor più eterea, immersa in quel verde, in quei colori caldi di un paesaggio idilliaco e rasserenante, con l’aria pulita e fresca che rinvigoriva e rivitalizzava le membra come un elisir.
Trascorsero ore in cui tutti gli invitati, sposi compresi, si dilettarono in balli tipici tradizionali, e padre Craig ebbe l’occasione di ballare con moltissime fanciulle, tra cui anche la sposa.
Solo alla fine dei balli, quando capitò con l’ultima compagna, si rese conto fosse presente anche Judith al matrimonio.
Quando si ritrovò a ballare con lei, sgranò gli occhi, non capacitandosi di non l’averla notata fino a quel momento.
Una volta terminate le danze, le si avvicinò nuovamente. – Non mi ero accorto ci foste anche voi, Judith.
- Sono arrivata tardi, padre. Conosco la sposa ma non ho potuto assistere alla funzione, poiché avevo delle faccende urgenti da sbrigare alla biblioteca – gli rispose ella accennandogli un sorriso.
- Siete molto bella – le disse educatamente, osservando il suo lungo vestito lilla di seta e la sua elaborata acconciatura che le teneva i capelli rossi appuntati in alto, alla quale sfuggivano solo sottili ciocche ondulate.
Ella sorrise in risposta. – Non più di altri, padre. Quando noi servitori del Diavolo siamo riuniti tutti in un luogo non vi è nessuno che spicca sugli altri, ve ne siete accorto? È la maledizione del bell’aspetto.
Se diviene troppo comune, non viene più notato.
- Avete ragione – le rispose riconoscendo la correttezza di quel ragionamento. – Dunque, in genere qual è il complimento che un uomo rivolge ad una donna, tra i servitori del Diavolo? – domandò ingenuamente curioso.
- Non ditemi che l’unico complimento che viene fatto ad una donna ad Armelle riguarda il suo aspetto fisico. Sarebbe a dir poco offensivo.
- Oh no, Judith, non intendevo dire questo … - rispose quasi mortificato il giovane prete.
- Rilassatevi, padre, stavo scherzando. Dovreste far sciogliere la tensione che vi fa scattare e allarmare per qualsiasi cosa, ogni tanto. Non cederete alla perdizione se vi lasciate andare un po’, ve l’assicuro – gli consigliò la ragazza.
- Già, avete ragione. Ad ogni modo, è sempre la cosa più facile da dire ad una donna, lusingare il suo aspetto – ammise.
- Ne sono consapevole. Ma sono anche certa che, se vi sforzate un po’, sareste in grado di trovare qualcos’altro – gli rispose ella senza cattiveria. – Vi state divertendo? – aggiunse poi.
- Sì, molto – confessò padre Craig. – Questo posto è meraviglioso.
- Sono d’accordo. Siete riuscito a fare amicizia con qualcuno di diverso dai componenti della famiglia che vi ospita?
- In molti mi parlano, sono tutti gentili e cordiali con me, mi trattano come  …
- Un ospite?
- Esatto. Al contrario di ciò che pensavo, sono abbastanza a mio agio.
- Fate attenzione, padre.
A quelle parole,  padre Craig si voltò sorpreso verso la sua interlocutrice. – Non mi avete appena consigliato di rilassarmi?
- Sì, e non mi rimangio quello che ho detto; tuttavia, durante celebrazioni come queste, mi sento comunque di consigliarvi di non abbassare mai la guardia. Non siete ancora preparato a quello che verrà – gli disse, per poi far virare le iridi verso un punto a distanza. – È quello il ragazzo di cui mi parlavate? Il primogenito del proprietario delle gallerie?
Padre Craig si voltò a guardare in quella direzione a sua volta. – Sì, è Blake – le rispose scorgendolo mentre diceva qualcosa a sua madre, per poi allontanarsi, tenendo Ioan per mano.
A ciò, padre Craig gli andò incontro. – Blake, dove state andando?
- Riaccompagno Ioan a casa, non si sente bene.
- Volete che vi accompagni  e che vi  aiuti con lui?
- No, padre, posso farlo da solo, succede sempre. Voi restate qui e divertitevi, dato che avete già fatto amicizia – lo rassicurò, rivolgendo una fugace occhiata a Judith. – Ritornerò presto – concluse.
- D’accordo.
I festeggiamenti proseguirono, gli sposi vennero sottoposti ai giochi tradizionali previsti dall’usanza, tutti si divertirono e risero in un’atmosfera di soffusa leggerezza, padre Craig e Judith compresi.
Dopo di che, arrivò il momento dell’atteso rito dello specchio.
Il sole stava cominciando a calare e il giovane padre si rese conto che Blake non fosse ancora tornato, nonostante fossero già trascorse parecchie ore.
Cosciente che il ragazzo si sarebbe perso il momento più  atteso dei festeggiamenti, padre Craig si rattristò, ma cercò di non pensarvi su, concentrandosi sugli sposi, i quali erano disposti uno di fronte all’altra, al centro di un grande spazio vuoto circolare, intorno al quale erano riuniti tutti gli invitati in attesa.
Tutta l’attenzione era catalizzata su di loro.
Prima, toccò allo sposo fare lo specchio.
A ciò, la sposa cominciò con delle mosse semplici, iniziò a voltare la testa a destra e a sinistra molto lentamente, venendo imitata facilmente da lui. Nel fare ciò, la bionda e lunga chioma appuntata le si sciolse dai nastri, rimanendo libera.
Dopo di che, sorrise, e si sporse verso di lui, come se fosse davvero intenta a specchiarsi.
- Iniziano sempre tutti così – commentò in un sussurro Judith, non staccando mai gli occhi  dai due.
- Così come? – le domandò padre Craig con lo stesso tono di voce basso, per non disturbare il rito, continuando a seguire le loro mosse.
- Con movimenti semplici. Si “specchiano” sulla superficie del corpo del consorte per dargli modo di abituarsi gradualmente.
La fanciulla ora aveva cominciato con qualcosa di diverso, muovendo qualche passo all’indietro, poi in avanti, a diversi ritmi, alzandosi il vestito.
Egli la seguiva senza sbagliare nulla.
Persino quando la fanciulla iniziò a spalmarsi a terra e a dilettarsi in espressioni e movimenti affatto intuitivi e facili da replicare, il suo consorte riuscì ad imitarla senza difficoltà, quasi come se fosse già a conoscenza delle mosse che ella avrebbe compiuto, quasi come se le leggesse la mente.
In quel momento padre Craig comprese a cosa servisse l’“allenamento” dei tre giorni precedenti al rito vero e proprio.
Li trovò ipnotici mentre si muovevano all’unisono, come fossero una cosa sola.
Quando toccò alla sposa fare lo specchio, anch’ella tenne degnamente il passo di suo marito, nonostante alcuni movimenti le risultassero altamente scomodi, causa l’impiccio del  lungo vestito, la differenza di statura e altre implicazioni meramente fisiche.
Ma fu solo quando il rito terminò che padre Craig prese davvero coscienza del pericolo che celava l’apparentemente innocua situazione in cui si era cacciato, partecipando a quel matrimonio.
Il vino cominciò a circolare liberamente durante il banchetto, abbeverando ogni invitato fino al totale eccesso.
Fu impossibile rifiutarlo.
Il giovane padre cercò di limitarsi, come era solito fare sempre, ma, colpa dell’atmosfera di festa e di spensieratezza, abbassò la guardia, lasciandosi coccolare dalle dolci cure di quel liquido in grado di offuscare i sensi e di rendere la vita più leggera, più bella e meno soffocante.
Blake era tornato giusto in tempo per l’inizio del banchetto, prendendo posto in uno dei grandi tavoli che ospitavano gli invitati, fermandosi a parlare e a ridere con alcuni suoi amici, prima di voltarsi verso di lui e rivolgergli un fugace sorriso rassicurante. Sembrava distratto, alleggerito da tutto ciò che lo appesantiva normalmente, avvolto da una spensieratezza che pareva accumunare tutti i presenti.
Anche Judith sembrava ridere e scherzare come una dolce e ingenua fanciulla di alto rango, lieta e quasi un po’ viziosa.
La tentazione era ovunque, ne sentiva il respiro caldo lambirgli la nuca, senza lasciargli tregua.
Che cosa lo tentava, esattamente?
Le curve delle donne che si muovevano? I sorrisi? Quegli atteggiamenti sfrontati, irriverenti e liberi da ogni costrizione? Le voci soffuse che giungevano come belle e melodiose ninna nanne alle sue orecchie? Il focolare acceso che esaltava ogni figura e delineava ombre magnetiche sul terreno? Il cibo e i dolciumi in abbondanza? Il vino che pareva non bastare mai e aumentare, invece di diminuire? I vestiti troppo belli, troppo eleganti e capaci di aderire a quei corpi, di avvolgerli ed esaltarli? Mille profumi diversi che penetravano nelle sue narici impudenti?
Cominciò ad avere paura, ad avere davvero paura di cedere, per la prima volta.
Sentì la necessità di allontanarsi, ma non lo fece.
Rimase lì dov’era, ad ammirare tutto ciò che lo circondava con avidità.
- Vi state divertendo, padre?
La voce di Heloisa giunse alle sue orecchie ovattata, molto gradita.
Si voltò verso di lei, notando le sue guance rosse.
- Sì, Heloisa, molto.
- Ne sono felice – sorrise, con i ricci che si muovevano ribelli ovunque, e il seno prosperoso che, improvvisamente, sembrava esser diventato ancor più morbido e grande agli occhi di padre Craig.
Distolse lo sguardo come scottato.
- Dov’è Blake? – domandò cercandolo con gli occhi.
- Non lo so – rispose ella prendendo il bicchiere per bere qualche altro sorso di vino. – Volete raggiungerlo?
- Mi piacerebbe, sì.
- Sembra abbiate quasi paura di rimanere solo senza di lui – disse Heloisa, non lasciando trapelare alcuna accusa o provocazione.
Padre Craig le accennò un sorriso incerto e si alzò, immergendosi tra la folla di persone in piedi, intente a ballare, a ridere e ad allietarsi con chiacchiere intorno al focolare.
 Non appena individuò il profilo di Blake, intento a parlare allegramente con due ragazze, gli si accostò.
- Oh, padre, eccovi qui – lo salutò il ragazzo quando si accorse della sua vicinanza. – Vi stavate annoiando? Spero di no.
- Tutt’altro.
- Allora come mai siete venuto a cercarmi con quello sguardo spaesato? – gli domandò sorridendogli quasi premuroso.
- Non lo so, credo di aver bevuto troppo e di voler tornare a casa. Ioan sta bene?
- Sì, l’ho fatto addormentare prima di tornare qui. Sì, so che mi sono perso il rito dello specchio.
- Già, un vero peccato, è stato molto bello.
- Mi rifarò tra poco.
- Che cosa intendete? – gli domandò confuso padre Craig.
- Tra poco inizieranno i veri festeggiamenti della nottata.
Ci sottoporremo tutti al “gioco” dello specchio – lo informò.
- Dite davvero?
- Ovviamente non in modo serio e ufficioso come gli sposi, ma per puro divertimento.
Credetemi, riuscirete a lasciarvi andare anche voi, non appena inizieremo.
Non vi è alcun obbligo di non sbagliare le mosse del compagno, per lo specchio, dato che siamo quasi tutti sconosciuti e le coppie saranno totalmente casuali. Inoltre, come potremmo essere accurati nell’imitazione con i sensi annebbiati? – lo rassicurò Blake sorridendo ancora con leggerezza.
- Io non credo di voler partecipare.
- Avanti, padre, è solo un gioco.
- Sì, padre, dovreste partecipare! – si aggregò a Blake anche Rolland poggiando pesantemente una mano sulla spalla del giovane prete, sorridendogli cordiale. – Non vi ricapiterà di divertirvi e svagarvi a questo modo con la vita che siete solito condurre, specialmente ad Armelle.
- Cos’è che vi angustia tanto? – gli domandò una delle ragazze unitasi alla conversazione.
- Nulla, solamente il fatto che i miei voti mi impongono di non posare gli occhi sul corpo di una donna troppo a lungo, neanche se si tratta di un gioco. Non voglio ignorare con tal leggerezza i miei doveri – disse cercando di far risultare la sua voce quanto più decisa possibile, e di ignorare i potenti giramenti di testa.
- Siete incredibilmente ligio, padre – gli disse improvvisamente Judith quasi in tono di rimprovero, avvicinandoglisi a sua volta. – Partecipare ad un gioco non vi renderà un peccatore, credo lo sappiate bene anche voi. Se il problema consiste nel guardare troppo a lungo il corpo femminile, potete sempre fare coppia con un uomo. Sarà meno divertente, certo, ma almeno potrete partecipare e provare l’ebbrezza – lo incoraggiò con semplicità la ragazza.
- Certo, sarebbe una bella idea, padre, che ne dite? Non ne posso più di vedere quel cipiglio affranto e tirato su quel vostro volto ancora giovane! – esclamò Rolland sorridendogli affabile. – Farò io coppia con voi, così non dovrete approcciarvi ad uno sconosciuto, in modo che nulla vi metterà in alcun modo a disagio.
- D’accordo – acconsentì il giovane prete, non vedendo nulla di male in quella proposta.
Nonostante i buoni propositi, non appena iniziarono il primo turno e le varie coppie di partecipanti si alzarono e si disposero distanziate davanti e intorno al focolare, le vertigini causate dal vino divennero talmente insopportabili da far piombare padre Craig a terra come un frutto maturo, con la pancia dolorante e la testa troppo leggera per sentirsela ancora sua.
Non era abituato a bere vino, né tanto meno a berne in tali quantità.
Rolland rise nel vederlo in quello stato, dopo neanche due minuti che avevano iniziato il gioco e in cui padre Craig si trovava ad essere il suo specchio, dopo di che lo aiutò a rialzarsi e lo riaccompagnò a sedersi, sotto lo sguardo divertito di Blake, seduto accanto ad un’altra presenza che il giovane prete non aveva notato prima.
Ella doveva essere una delle sue amiche con il quale aveva già conversato durante i lunghi festeggiamenti, tuttavia, sembrava essere in atteggiamenti molto più intimi e confidenziali con il ragazzo rispetto agli altri.
Quando Rolland lo mise a sedere accanto a Blake, quasi fosse un bambino, i penetranti occhi smeraldini contornati da uno spesso strato di trucco nero della giovane donna lo intercettarono, sorridendo a loro volta per il suo stato malconcio.
- Tienilo d’occhio per un po’, non vorrei ripiombi a terra e ci rimanga per il resto della nottata – si raccomandò Rolland con suo figlio, ridendo ancora, per poi allontanarsi.
- A quanto pare, non siete affatto avvezzo alle gioie e ai dolori degli effetti del vino, padre – commentò la sconosciuta, mentre lasciava scivolare la testa con i capelli neri e sciolti sulla spalla di Blake, seduto e totalmente rilassato, intento ad osservare le varie coppie portare avanti il gioco.
- Stanno reggendo per parecchi minuti – commentò il ragazzo lievemente sorpreso.
- L’anno scorso noi due siamo durati quasi dieci minuti, lo ricordi? – domandò ella alzando il viso per guardarlo, restandogli tanto vicino da far sfiorare il naso con la sua guancia.
- Sì, che lo ricordo – le rispose Blake voltandosi di qualche centimetro verso di lei, sorridendole mentre le loro labbra si sfioravano.
Padre Craig distolse immediatamente lo sguardo.
- Il tuo ospite è turbato – commentò ella, facendo virare fugacemente gli occhi verso la figura quasi tremante di padre Craig.
A ciò, anche Blake distolse l’attenzione, portandola sul giovane prete. – Forse dovrei davvero portarlo a casa. Non pensavo che qualche bicchiere in più lo riducesse totalmente uno straccio. Credevo che almeno oggi si stesse divertendo – commentò, per poi rivolgersi al diretto interessato. – Padre? Vi sentite bene? Se dovete vomitare avvertitemi prima, d’accordo?
Padre Craig annuì, voltandosi verso di lui. – Posso restare, Blake. Non dovete rovinarvi la festa per me. A breve mi riprenderò.
- Ne siete sicuro?
- Sì, sicurissimo. Voi non partecipate al gioco?
- Ho partecipato sin troppe volte al gioco dello specchio, padre – gli rispose, riportando gli occhi blu sulle coppie ancora intente a portare avanti quel primo turno.
La potente e ripetitiva musica emessa dagli archi e dai tamburi risuonava nelle loro orecchie come una litania sacra.
- Questo non vuol certo dire che non parteciperai anche stavolta – lo canzonò ella.
- Perché non giochi tu, piuttosto? – ribatté Blake.
- Vedremo. Prima voglio vedere giocare te - disse la ragazza, per poi portare lo sguardo sulle coppie, intente a sciogliersi e a tornare a sedersi, a ballare o a dilettarsi in altro modo, mentre si alzavano in piedi coloro che avrebbero partecipato al secondo turno.
- Avanti, bado io al tuo prestigioso e malconcio ospite – lo spronò ella spingendolo con le mani per farlo alzare. – Osserverò da qui e non mi perderò una singola mossa – aggiunse sorridendogli, mentre lo vedeva arrendersi e obbedirle.
- Restate seduto, padre – si raccomandò Blake, con la voce macchiata da una nota divertita, per poi dirigersi verso il focolare, dove oramai la maggior parte delle coppie erano formate.
Solo una ragazza era rimasta senza compagno, quasi come fosse in attesa.
I due si guardarono, complici.
- Sono rimasta senza compagno – gli disse lei, sottolineando l’ovvio.
- Dunque, siamo costretti a fare coppia – rispose lui ponendosi dinnanzi ad ella.
- Arley Judith.
- Even Blake.
 - Siete pronto? Ricordate le regole?
- Ovviamente: nessun movimento oltre la superficie dello specchio, i corpi non si toccano se non sulla superficie.
- Accurato e lucido più di quanto lo sia io, bene. L’unica richiesta che mi sento di farvi è di avere pietà di me.
- Non mi è mai interessato vincere a questo gioco, Judith.
- Io, invece, sono molto competitiva.
Blake le sorrise. – A voi l’onore – le disse.
- In realtà, preferirei lasciarlo a voi, se per voi va bene. Mi piace iniziare facendo lo specchio.
- Nessun problema – le rispose, allontanandosi di un passo da lei per decretare l’inizio del gioco.
La ragazza dagli occhi smeraldini affilò lo sguardo mentre osservava i due. – Vedete, padre? Se in gioco non vi è un amore eterno, iniziano tutti muovendosi come preferiscono, senza badare alla difficoltà dell’esecuzione per l’altro.
Ogni volta è una persona diversa, una vita diversa, una luna e un cielo differenti.
Padre Craig la osservò mentre parlava, per poi riportare gli occhi su Blake e Judith.
Quest’ultima si stava facendo valere, imitando quasi alla perfezione il ragazzo dinnanzi a sé con grazia e costanza.
D’altra parte, Blake non stava cercando di metterla in difficoltà. Sembrava piuttosto incurante della difficoltà o della semplicità dei propri gesti, la guardava fissa negli occhi, non distogliendo mai lo sguardo, divertendosi nell’osservarla impegnarsi con tal precisione, seppur senza troppo sforzo.
Quando arrivò il turno di Judith lo spettacolo divenne più intenso.
La ragazza non si risparmiò, azzardando movimenti spasmodici, talvolta estremi, con un ritmo serrato e altalenante, facendo esibire Blake nella stessa turbolenta e ipnotica danza.
Quest’ultimo la imitò senza battere ciglio, fin quando non fu la stessa Judith a cessare di muoversi.
La ragazza si lasciò cadere sdraiata a terra, macchiandosi l’abito di terriccio, graffiandosi la pelle, disfandosi l’acconciatura, strisciò, si rialzò, gattonò, saltò in diverse posizioni, senza mostrare il minimo riguardo all’abito in procinto di strapparsi, del tutto inadatto a quel tipo di attività.
Judith continuò ringhiando, scalpitando, puntando le dita e i piedi nudi a terra come un animale selvaggio, ponendosi in posizione di attacco, mentre Blake la imitava senza risparmiarsi a sua volta.
Padre Craig pensò che fossero entrambi molto competitivi mentre li osservava assuefatto da loro.
Al termine del turno, Judith concluse colpendosi con vigorosi e violenti pugni il ventre, simulando l’atto di pugnalarsi; dopo di che, “pugnalò” la superficie immaginaria dello specchio, nell’esatto momento in cui lo fece anche il suo riflesso del sesso opposto.
Continuarono a guardarsi per alcuni secondi al termine del gioco, oramai in sintonia, come se riuscissero a comunicare tra loro solo tramite gli occhi, pensò padre Craig.
In quel momento, la sua attenzione ritornò sulla ragazza seduta accanto a lui. – Qual è il vostro nome? – trovò la forza di chiederle.
Ella, in risposta, sorrise incurante, senza guardarlo.
Da quel momento in poi, i suoi ricordi della nottata divennero molto soffusi.
Dinnanzi ai suoi occhi continuarono a comparire immagini sovrapposte tra loro, visioni confuse che aveva avuto durante la serata, soffuse e distorte dalla sua mente deviata da mille insidie diverse.
- Si dice che ognuno di noi possieda una persona identica a sé ma del sesso opposto, al mondo.
Si dice anche che, qualcuno, abbia la fortuna di trovarla.
Non vi piacerebbe, padre?
Non vi piacerebbe conoscere una donna uguale a voi?
Quella voce melliflua e incantatrice, troppo somigliante a quella della ragazza dagli occhi di smeraldo, gli invase i timpani con veemenza, mentre tutto intorno a lui assumeva una consistenza liquida, priva di solidità.
Aveva bisogno di ritrovare la terra su cui poggiare i piedi.
Aveva bisogno di aggrapparsi a delle presenze conosciute, rassicuranti.
Nel caos corporeo e mentale in cui galleggiava, cercò con lo sguardo Blake o Judith, sperando di scorgere almeno uno dei due.
Ma non li vide.
Udì delle voci, urla, rumori di varia natura, parole sconosciute pronunciate ad alta voce, rivolte al cielo, al fuoco, alla luna.
Sentì, percepì il proprio corpo imboccare una strada propria, senza prestargli ascolto.
Un corpo che non gli apparteneva.
Un corpo che non riconobbe come il proprio.
Poi, il vuoto.
Solo uno spiraglio di luce prima di piombare nel buio più totalizzante.
 
La mattina seguente si risvegliò nel proprio letto, nella camera che lo ospitava nell’abitazione di Rolland.
L’ultimo ricordo impresso quantomeno nitidamente nella sua memoria era il sorriso vizioso e mellifluo della ragazza dagli occhi verdi e i capelli d’ebano, poco dopo che le avesse chiesto il suo nome.
Padre Craig alzò la testa dolorante, tenendosi la tempia con il palmo della mano, mentre batteva le palpebre più volte per mettere a fuoco la stanza, ben illuminata dalla luce del sole di tarda mattinata.
Si tolse le coperte di lino calde e morbide e scese dal letto, dirigendosi verso il piccolo specchio tondo presente della stanza.
Il suo aspetto era un disastro: i sottili ciuffi di capelli ramati erano spettinati in ogni angolo della testa, puntando in ogni direzione, gli occhi semi addormentati e stremati sembravano ancor più piccoli del solito, la gola arida faceva assumere alle sue labbra schiuse la forma della bocca di un pesce, mentre il colorito solitamente pallido, ora sembrava quello di un cadavere riesumato.
Stranamente, tuttavia, fu grato di vedere la propria immagine riflessa su quello specchio.
Per qualche motivo, sentì di essere tanto grato a Dio per ciò, da desiderare di dirigersi nella cattedrale per pregarlo.
Tirò un sospiro e uscì dalla stanza, dirigendosi verso la cucina, trovandovi inaspettatamente Blake, seduto da solo su una delle sedie intorno al tavolo, con la testa poggiata alla mano.
Da quella prospettiva, padre Craig non riuscì a vedere altro che la folta capigliatura scompigliata ricadergli sulla mano e le sue spalle rilassate, poichè il volto del ragazzo era rivolto verso la finestra dinnanzi a sé.
Si avvicinò a lui senza fare rumore, inspiegabilmente rincuorato alla sola vista di Blake in casa, vivo e vegeto, sorprendendosi di come, quella mattina, si meravigliasse di tutto e si sentisse in dovere di ringraziare Dio anche per le banalità più scontate.
- Blake? – attirò la sua attenzione avvicinandosi al tavolo e osservando il suo sguardo perso, distratto, con gli occhi puntati nel vuoto della finestra.
A tal richiamo, il ragazzo si voltò di poco per guardarlo e gli accennò un lieve sorriso stanco. – Ben svegliato, padre. Volete mangiare qualcosa? – gli domandò alzandosi in piedi, dirigendosi verso la cucina e versando un po’ di infuso dentro una tazza, per poi porgerla al giovane prete, già seduto su una delle sedie.
- Dove sono vostra madre, vostro padre e Ioan?
- Ioan dorme ancora, mio padre è alla galleria, mentre mia madre è andata a raccogliere della frutta.
Avevano bisogno di schiarirsi le idee – gli rispose lapidario, riprendendo posto sulla sedia.
- Blake … - lo richiamò dopo aver bevuto un sorso di infuso caldo. – Cosa è accaduto ieri notte?
- Come vi sentite? – gli domandò Blake, senza rispondergli.
- Un po’ dolorante. Ho male alla schiena, alle gambe, alla testa e al collo. Vorrei comprendere cosa è accaduto, poiché non riesco a ricordare nulla. Voi ricordate qualcosa? – lo spronò fissando lo sguardo spento e apparentemente turbato del ragazzo.
- Chiamerò la massaggiatrice che vive a tre case da qui più tardi, risolverà lei il vostro mal di schiena.
- Blake, voi ricordate cosa ci è accaduto ieri notte? – insistette il giovane prete.
- No, non lo ricordo – gli rispose guardandolo negli occhi. – Fareste meglio a riposare ora. Mangiate qualcosa e rimettetevi a letto. Al pranzo penserà mia madre quando tornerà.
Padre Craig lo scrutò ancora, esaminandolo, scorgendo diversi graffi di varie grandezze non indifferenti cosparsi sulle sue porzioni di pelle scoperta, sui polsi, sulle mani e alla base del collo.
- Come ve li siete procurati quelli? – domandò fissando quelle ferite superficiali.
A ciò, Blake si alzò e si diresse verso il suo mantello appeso, prendendolo e infilandoselo, mentre si adoperava a coprire meglio i polsi con le maniche della maglia. – Devo essere caduto in un cespuglio di spine, suppongo. Forse di rose.
- Dove andate?
- Alla galleria ad aiutare mio padre. A più tardi – disse il ragazzo uscendo di casa e incamminandosi verso le cattedrali, con le mani sepolte nelle tasche dei pantaloni pesanti.
Abbassò il volto assorto e inquieto, rigirandosi tra le dita il biglietto che aveva trovato quella mattina davanti alla porta di casa. Lo tirò fuori dalla tasca e lo aprì, rileggendo il contenuto e il mittente.
“Dobbiamo parlare.
Arley Judith”
Ripensò al conturbante risveglio di quella notte mentre continuava a camminare verso la sua meta.
Era notte fonda quando i suoi occhi si erano riaperti nel proprio corpo.
Un dolore lancinante gli invadeva le membra, dal collo ai piedi.
Ignorando il dolore esterno e quello interno alla testa, poggiò le mani sull’erba umida di condensa, alzando  metà busto da terra, guardandosi intorno, nonostante la vista appannata.
Il suo corpo era un bagno di sangue, così come i suoi vestiti, alcuni semi sfilati.
Il terrore lo invase, con la stessa velocità con la quale si accorse di avere una presenza addosso a lui, anch’ella in stato semicosciente e quasi nuda.
Aguzzò la vista e le spostò le lunghe ciocche corvine che le coprivano il viso, riconoscendola.
- Beitris … Beitris! – la richiamò scuotendola, continuando a guardarsi intorno mentre respirava affannosamente.
A distanze varie, stesi sul prato, vi erano decine e decine di persone svenute a terra, ridotte nel loro stesso stato.
La ragazza si svegliò dopo diversi richiami, aprendo a fatica gli occhi verdi, lamentandosi e strofinandosi il volto con estrema lentezza, i riflessi rallentati come i suoi.
Notò che anch’ella fosse sporca di sangue e sperò che ciò fosse solo dovuto al fatto che avesse dormito poggiata a lui.
- Ricordi qualcosa? – le domandò Blake continuando a guardarsi intorno, in cerca di qualche volto conosciuto.
- Blake, sei cosparso di sangue. Hai bisogno di pulirti – disse lei con la voce tremante per le sue nudità esposte al freddo notturno.
Blake fece lo sforzo titanico di alzarsi in piedi e di muovere qualche passo per cercare i suoi genitori e padre Craig.
Quest’ultimo lo trovò poco distante da loro, con il corpo incosciente richiuso su se stesso, totalmente nudo.
Dopo di che, scorse sua madre a diversi metri di distanza, in procinto di risvegliarsi anch’ella.
Di suo padre nessuna traccia.
Solo dopo diversi minuti intravide un corpo in una grotta parecchio lontana dal punto in cui avevano perso coscienza la maggior parte degli invitati al matrimonio.
Quando si accinse ad entrare insieme a Beitris per controllare chi fosse e in che condizioni si trovasse, sgranò gli occhi nel riconoscere la sagoma di Judith, totalmente bagnata, tremante, ma con ancora gli abiti addosso.
La ragazza, avente appena ripreso conoscenza, lo guardò stralunata.
Dopo ciò, ognuno di loro aveva ripreso la via di casa, trasportando anche coloro ancora svenuti alle loro abitazioni.
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Siamo nati per essere come siamo ***


Siamo nati per essere come siamo
 
- “Il cielo oscurava gli abissi.
Il carro continuava ad andare giù, verso la vallata.
Le belve ululavano e rag… ragh-”
- “Ringhiavano” – disse Blake, correggendo il suo fratellino durante una delle loro segrete e fugaci lezioni di lettura e scrittura. – Va’ avanti, stavi andando bene – lo incoraggiò il ragazzo seduto sul tavolo, accanto a Ioan, non staccando gli occhi dalle carte sulle quali stava segnando e calcolando alcuni conti.
- “Le belve ululavano e ringhiavano sopra la roccia dell’anima.
Vuoi donarmi qualcosa di te, danzatrice spirante?
Vuoi darmi la tua mente o il tuo … o il tuo …” – Ioan si bloccò ancora, aggrottando la fronte e aguzzando gli occhioni mentre fissava le lettere scritte sul libro con faticosa insistenza. – Even? – si arrese dopo qualche istante, alzando il viso amareggiato verso suo fratello. – Even?
Al secondo richiamo, Blake alzò a sua volta gli occhi dalle sue carte e lo guardò interrogativo. – Cosa c’è? Qual è la parola che non riesci a leggere? – gli domandò paziente, affacciandosi sulla pagina aperta dinnanzi a Ioan, il quale gli indicò il punto preciso.
- Davvero? Non riuscivi a leggere “il tuo respiro”? Ci sono parole molto più difficili di quella e sei riuscito a leggerle senza difficoltà.
- Non è quello – rispose il bambino abbassando lo sguardo.
- Cosa, allora? Sei stanco? Vuoi che ti accompagni a letto?
- No, non è neanche quello.
Blake affilò lo sguardo, confuso. – Christopher? Se non provi a spiegarmi cos’hai non posso aiutarti. Avanti, fai uno sforzo – lo incoraggiò.
A ciò, il bambino alzò il viso su di lui. – Non vedo bene le figure. Nel senso che vedo male alcuni contorni, delle lettere. A volte si confondono tra loro.
A tali parole, Blake realizzò e si inginocchiò dinnanzi al suo fratellino. – Per caso, vedi sfocati anche gli oggetti e le persone, a volte?
Egli annuì, a ciò Blake gli sorrise teneramente dal basso, guardando in quegli occhi tanto familiari. – Non temere, Christopher. Hai solo dei piccoli problemi di vista. So io cosa fare, ma prima voglio accertarmi di qualcosa – gli disse, per poi rialzarsi in piedi, strappare un foglio vuoto dal suo taccuino e scriverci sopra tre numeri casuali, a grandezze differenti. Dopo di che, alzò il foglio davanti a Ioan, ponendoglielo a distanza ravvicinata. – Che numeri vedi scritti?
- Quattro, sette e nove – rispose senza esitazione il bambino.
- Ora? – gli domandò dopo essersi allontanato di un passo.
- Riesco a vedere bene solo il sette e il nove.
- Ed ora? – chiese nuovamente ponendosi ancora più distante.
- Solo il nove, a malapena.
- Bene, non preoccuparti, ci penserò io – lo rassicurò riavvicinandoglisi. – Andrò dal mastro più tardi e ti farò preparare le lenti da vista più belle e comode di tutta Bliaint – disse sorridendogli, per poi chiudere il libro e cominciare a sgomberare il tavolo. – Nostra madre non deve trovare neanche un singolo foglio scritto, né carboncini o inchiostro, altrimenti ucciderà prima me e poi te. Sai cosa devi fare.
Riprenderemo con la nostra lezione domani sera, quando uscirà a pregare.
Ioan annuì. – Nascondo il libro sotto il camino, dove non controlla mai.
- Bravo bambino.
- Blake? Perché la mamma si infurierebbe tanto se scoprisse che mi stai insegnando a leggere e a scrivere? – domandò innocentemente.
- Perché lei crede che chiunque coltivi la sua curiosità, le sue passioni o i suoi talenti nel caso in cui non siano utili per la professione che svolgerà, pecchi di superbia – gli rispose secco il ragazzo. – Abbiamo la sfortuna di vivere in un villaggio in cui lo credono tutti.
- Ma se tutti lo credono … come facciamo a sapere che sia giusto quello che stiamo facendo?
A tale domanda, Blake si sedette nuovamente accanto al suo fratellino e gli prese la mano. – Guardami, Christopher e tieni a mente quello che ti dico: non sentirti mai, mai in errore nel fare qualcosa che ami fare.
Ti potranno dire quello che vogliono, ma ricordati che sarai sempre e solo tu quello che riuscirà a scegliere al meglio per se stesso, a sapere cosa ti rende felice.
Inoltre, leggere e scrivere ti sarà sempre utile, non dimenticarti neanche questo.
Se sarai in pericolo, se dovrai scappare di qui un giorno e addentrarti in un luogo che non conosci, saper leggere e scrivere potrebbe letteralmente salvarti la vita.
Non ci sarà mai niente di male nel vivere come vogliamo.
Questo, però, non dirlo mai ad alta voce – concluse Blake dando un buffetto sul naso di Ioan, mentre quest’ultimo sorrideva.
Dopo poco, il bambino cominciò a tossire senza sosta.
- Vieni, ti porto a letto e ti do la medicine – disse Blake prendendolo in braccio e conducendolo nella sua camera.
Una volta posato nel letto e coperto, la tosse del bambino si placò un po’ e questo rivolse gli occhi stanchi a suo fratello, in ginocchio accanto al giaciglio. – Even … credi … che riuscirai mai a trovare una cura per il mio male?
- Non lo credo, Christopher. Ne sono totalmente certo.
Promesso.
 
Judith sfogliò veloce e attenta le pagine del grande tomo, il quarto che consultava quella mattina, fin quando il suono delle nocche battute sulla porta della biblioteca non la distolse dalla sua consultazione.
Chiuse il tomo e si diresse ad aprire, trovando dinnanzi a sé padre Cliamon, uno dei monaci con i quali era più legata. – Sì?
- Stai leggendo ancora, cara? – le domandò questo, sorridendole con i suoi ridenti occhi piccoli e allungati e la testa tonda, schiacciata e calva.  
- Sì, padre. Avete bisogno di una mano con i preparativi per la funzione che si terrà tra qualche ora?
- Oh, per quello non preoccuparti, Judith, ci penseranno padre Petrit e padre Thomas oggi ad aiutarmi. Sono venuto a chiamarti per dirti che di là c’è qualcuno che vorrebbe parlarti. Uno straniero, un certo padre Craig.
Sorpresa, Judith annuì e uscì dalla biblioteca, chiudendo la porta a chiave, per poi recarsi nel salone principale totalmente vuoto, eccetto per la sola presenza dell’ospite che la attendeva.
Individuò il giovane padre inginocchiato dinnanzi all’altare sul quale troneggiava il crocifisso a grandezza naturale. Lo raggiunse e lo affiancò, attendendo rispettosamente che egli si facesse il segno della croce e terminasse le sue preghiere. Dopo di che, padre Craig si rialzò in piedi e le rivolse uno dei suoi timidi e discreti sorrisi. – Buongiorno, Judith – le disse, per poi prendere posto accanto a lei, in una delle sedie della navata.
- Buongiorno a voi, padre. La funzione inizierà tra qualche ora.
- Lo so, ma sono qui per voi. Non abbiamo avuto più occasione di parlare dopo ciò che è accaduto due giorni fa, al matrimonio – iniziò il giovane padre. – Voi, per caso, vi ricordate cosa è accaduto due notti fa? Serbate qualche sprazzo di lucidità? Ma, prima di ogni altra cosa, state bene?
- Sì, sto bene. Perché me lo domandate?
- Blake era ferito la mattina dopo, e io avevo male in diverse parti del corpo.
Sapete, Blake sembra non ricordare nulla, e neanche Heloisa e Rolland, a quanto dicono.
Tuttavia, mi sto chiedendo se è davvero possibile che nessuno ricordi nulla di quella notte.
Vorrei sapere cosa è accaduto esattamente.
- Perché la domanda vi preme tanto, padre? – gli domandò Judith apparentemente tranquilla a riguardo.
- Perché tutto ciò è privo di logica … vorrei poter sapere per quale motivo non ricordo, perché ero così scosso e destabilizzato la mattina seguente, vorrei sapere se ho fatto del male a qualcuno, se io … - si bloccò.
- Cosa, padre? – lo incentivò la ragazza. – Volete sapere se avete commesso peccato?
Il giovane padre alzò lo sguardo su di lei senza riuscire a nascondere il suo profondo turbamento.
Alla vista di quel volto tanto perso e amareggiato, Judith prese un bel sospiro e spostò gli occhi dinnanzi a sé, nel vuoto, prima di parlare. – In queste cerimonie si usa sottoporsi spesso a riti particolari e fuori dal comune, padre.
- Con riti intendete incantesimi … ? – domandò allibito l’uomo, sull’orlo di un mancamento.  
- Voi non lo sapevate, padre, non vi avete preso parte consensualmente.
Si può dire che ci siete capitato dentro senza accorgervene, il vostro Signore vi perdonerà per questo alla prossima confessione, poiché non avete nessuna colpa – lo tranquillizzò. – Il rito dello specchio è una consuetudine. Non sempre si effettua l’incantesimo completo sull’intera folla di invitati, ma quando accade, da una parte, c’è sempre il rischio che gli eventi degenerino.
- Che cosa intendete?
- Io sono ancora giovane, padre, perciò non dovrebbe risultarvi difficile credere che, sinora, a tutti i matrimoni a cui ho partecipato non è mai accaduta una cosa simile. O, almeno, non è giunta fino al punto in cui è giunta due notti fa – ammise la ragazza. – Sicuramente anche per Blake sarà stato così, per questo lo avrete visto spaesato.
- Che cosa accade solitamente …?
- Se vi è una perdita di memoria, è per lo più parziale e causata dal vino, non dalla magia.
L’incantesimo, oltre a riuscire nell’intento di far scambiare i corpi ai presenti talvolta, ha l’obiettivo di eliminare le inibizioni. Quando vi riesce per intero, uno degli effetti potrebbe essere quello che è accaduto ieri notte, ma non succede quasi mai. Una perdita di memoria così netta e totalizzante non l’ha avuta nessuno degli invitati ad un matrimonio negli ultimi tempi, da che se ne sappia. Forse, l’incantesimo è stato emesso in modo diverso questa volta, ma non ne sono certa. Potrebbe essere accaduto di tutto.
- Judith, posso domandarvi cosa accade, solitamente, quando si è sotto l’effetto di tale incantesimo durante le celebrazioni? – chiese padre Craig con voce tremante.
- Si riesce a mantenere la coscienza di se stessi, cosa che non è successa a nessuno due notti fa.
Di conseguenza, essendo tutti “svegli” e consapevoli, ma anche liberi dalla vergogna e dalle imposizioni mentali che ci bloccano solitamente, ognuno si lascia avvolgere dai piaceri, in modi diversi.
Sarei una bugiarda se vi dicessi che i rapporti carnali non siano le attività più praticate durante questo stato fisico e mentale.
Non so cosa io o voi abbiamo fatto due notti fa, padre, e, purtroppo, non posso rassicurarvi su tutto.
Nessuno di noi può.
Dovrete imparare a vivere con il peso dell’incertezza sulle vostre spalle.
Poiché siete stato privato della capacità di intendere e di volere, come tutti noi, e di ciò, fortunatamente o sfortunatamente, non potete essere punibile.
- Come potete essere certa che siamo stati privati della capacità di intendere e di volere…?
E se ciò che abbiamo fatto quella notte … fosse solo ciò che davvero, nel profondo del nostro cuore, desideravamo …? – ribatté padre Craig con una voce che non riconobbe neanche come sua per quanto distante, spaventandosi per le sue stesse parole.
Judith non rispose e ritornò a guardarlo.
 - L’unico modo che avete per cercare di capire se avete avuto contatti fisici con qualcuno, è ascoltare il vostro corpo. In questa situazione, il corpo è l’unico testimone consapevole e potreste sfruttarlo: l’incantesimo lascia una traccia indelebile sulle vicende che fa vivere al corpo che vi si sottopone.
Provate ad ascoltare le reazioni del vostro corpo alla vicinanza di qualcuno per capire con chi siete entrato in contatto quella notte.
- Aspettate … - rispose padre Craig realizzando qualcosa. – Se vi è stato uno scambio di corpi … ciò vuol dire che i segnali che ci manda il nostro corpo sono ingannevoli. Noi non abbiamo fatto quel che il nostro corpo ha subìto … ma lo abbiamo fatto al corpo di qualcun altro.
Judith posò nuovamente lo sguardo dinnanzi a sé. – Ciò che ha fatto il vostro corpo … non è forse l’unica cosa che vi interessa?
Padre Craig la fissò, lo sguardo ancora perduto. – Non ne sono più così certo.
- Dovete scegliere padre, non potete sentirvi colpevole per ciò che hanno fatto entrambi. O il corpo o l’anima. Dovete scegliere.
Padre Craig portò gli occhi sul crocefisso che si stagliava sopra l’altare, cercando di calmare i suoi tremori.
- Judith. Siete sicura di stare bene?
Siete riuscita a vedere Naren? Gli avete detto cosa è accaduto?
- Nessuno sta parlando di ciò che è accaduto, padre.
Non sarò io a farlo.
Non riesco a vedere Naren da prima del matrimonio.
Credo stia evitando di vedermi – disse secca la ragazza. – Tra poco inizierà la funzione, padre.  
- D’accordo. Tolgo il disturbo. Spero di rivedervi presto, Judith.
- Anche io, padre.

Blake entrò nella bottega del mastro, scendendo gli scalini del piccolo ambiente confortevole, costruito interamente in legno, sottoterra.
- È permesso? – domandò il ragazzo, avvertendo il vecchio mastro.
- Scendete pure, Blake. Vi avevo già sentito arrivare – gli rispose cortesemente l’uomo seduto sulla sedia della sua scrivania, intento a lavorare alcuni utensili in vetro. Si voltò verso di lui e rivelò il suo volto cordiale, smunto, coperto da una folta barba brizzolata dello stesso colore dei capelli radi legati all’indietro con un nastro. I suoi occhi, come Blake li ricordava, erano coperti da una densa patina bianca.
- Avete ragione. So che le vostre orecchie sono i vostri occhi – gli disse il giovane avvicinandoglisi.
- Non ci vediamo da molto, ragazzo. L’ultimo che è venuto alla mia bottega è stato vostro padre, per chiedermi di realizzargli una lente in grado di permettergli di vedere da vicino ogni più piccolo frammento dei suoi cristalli.
Come state? – gli domandò il vecchio.
- Non male. Voi?
- Gli affari procedono bene e la mia salute non sta peggiorando, perciò, oserei dire bene anche io, se il Signore continuerà ad assistermi. Ditemi, Blake, come mai siete qui?
- Mi servono delle lenti da vista – gli disse sedendosi sulla sedia accanto a lui.
- Per voi? Avete dei problemi alla vista?
- Per mio fratello.
- Oh, capisco.
- Vi pregherei di non farne parola, mastro.
- Perché dovrei farne parola, figliolo? – lo rassicurò il vecchio poggiandogli una mano sulla spalla. – Ditemi, sapete già quanto vi servono spesse le lenti?
- Sì, ho calcolato. La vista diviene sfocata a partire dai due passi di distanza e quando sforza gli occhi per più di un’ora.
- Accurato come sempre. Il prima possibile ve ne preparerò un paio grazie alle quali non avrà più alcun problema, ve lo garantisco.
A ciò, Blake sorrise. – Ho quattro monete d’argento con me.
- Ne basteranno due.
- Ne siete sicuro?
- Assolutamente, è un lavoretto da nulla. Inoltre, il mio assistente mi aiuterà.
- Avete un assistente?
- Per quanto oramai io sia in grado di lavorare il vetro come fosse argilla malleabile, nonostante il Signore abbia deciso di privarmi del dono della vista, mi fa comunque comodo avere un paio di braccia in più, e di occhi funzionanti, soprattutto. Mio figlio erediterà l’attività di famiglia, perciò ha deciso di iniziare a fare pratica dandomi una mano, da qualche tempo.
- Capisco – commentò il ragazzo guardandosi intorno, trovando quell’abitacolo di legno illuminato dalla luce soffusa molto confortevole. – Immagino vi piaccia stare qui sotto – disse poi.
- Potrete trovarlo strano, ma sì. Sembra di essere isolati dai rumori, da tutto ciò che accade al mondo esterno.
- Non lo trovo strano. Mi sono sempre trovato a mio agio sottoterra.
- Giusto, la galleria – sorrise l’uomo. – Sapete, ho sempre dato per scontato che chi avesse la fortuna di bearsi della vista del sole non desiderasse mai privarsene volutamente.
- Non è così spettacolare come credete, il sole.
- E le stelle? – domandò l’uomo. – Non credete che le stelle lo siano, invece? Tutti pensano di sì.
I due rimasero in silenzio per qualche minuto.
- Credete sia possibile … - cominciò Blake, bloccandosi.
- Che cosa?
- Credete che, un giorno, sarà possibile creare delle lenti capaci di farci vedere da vicino le stelle e ogni altro corpo celeste?
Il mastro attese un po’ prima di rispondere. – Volete vedere cosa c’è lassù, ragazzo …? Avreste l’ardire di invadere il territorio degli immortali?
- Voglio vedere cosa c’è ovunque, mastro. Se non lo faremo noi, in ogni caso, qualcuno lo farà dopo di noi. Non credete?
- Con le vostre idee, Blake, potreste scrivere un libro da lasciare ai nostri discendenti. Per guidarli, nel caso voi non riusciste a realizzare i vostri propositi. Tuttavia, ho fiducia che vi riuscirete – gli rispose il vecchio accennandogli un sorriso complice e discreto.
- Maneggiare il vetro è compito vostro, non dimenticatelo – lo ragguardò il ragazzo, ricambiando il sorriso.
In quel momento, qualcun altro entrò nella bottega, sbucando dalla porticina in cima alla scalinata, e scendendo verso l’abitacolo.
- Padre, ho comprato i materiali che mi hai chiesto, e anche alcune verdure da cucinare per queste sera – disse il nuovo arrivato, posando i sacchi colmi a terra, accorgendosi vi fosse un cliente seduto alla scrivania con suo padre.
- Grazie, Naren, figliolo. Ti presento Blake, è qui per commissionarci un paio di lenti da vista – lo introdusse il vecchio mastro.
Ma quando Van Naren fece per avvicinarsi al ragazzo e lo vide voltarsi verso di lui, si pietrificò, fermandosi sul posto.
Accorgendosi di ciò, Blake si alzò in piedi e lo guardo confuso. – È un piacere, Naren … - ruppe il silenzio, osservando la reazione bizzarra e inspiegabile dell’altro ragazzo alla sua vista.
- Voi … - balbettò Naren fissandolo con gli occhi sgranati e lucidi, facendo vagare le iridi anche sui tagli che emergevano sul suo collo da sotto i vestiti, ancora in via di guarigione.
Blake se ne accorse e affilò lo sguardo, ancora più confuso. – Ci conosciamo …?
- Io non …
- Vi ricordate qualcosa che io non ricordo …? – ritentò Blake.
- No! – si affrettò a rispondere Naren, cercando di riacquistare un colorito vivo e un atteggiamento quanto più vicino alla normalità possibile. – No, io … credo di essermi sbagliato … forse somigliate molto a qualcuno che conosco, tutto qui! Perdonate la mia reazione – si scusò implorante.
Il mastro non emise parola, ma restò ad ascoltarli assorto.
- Il piacere è mio, Blake – si affrettò a dire Naren, tornando a guardare distrattamente i tagli che macchiavano la pelle dell’altro. – Voi, state bene …?
- Cosa? – domandò Blake, ancora spaesato da quel comportamento.
- … state bene?
- Sì, sto bene.
- Bene. Perdonatemi …
- Per cosa dovrei perdonarvi?
Ma il ragazzo non ricevette risposta, poiché Naren uscì dalla sua vista, entrando nel retro bottega a passo svelto.
Blake, in risposta, non disse nulla al mastro e si limitò ad uscire dalla bottega, tornando a casa.
 
Il giovane padre tornò a casa verso sera, dopo aver passeggiato per tutto il villaggio per tentare di schiarirsi le idee e calmarsi, non ottenendo i risultati sperati.
Quel luogo, per quanto placido all’apparenza, non faceva altro che agitarlo maggiormente, aumentando i suoi dubbi e timori.
Decise di rincasare solo quando sentì dei fastidiosi languori allo stomaco.
Rientrò in casa e trovò Heloisa intenta a preparare la cena.
- Oh, bentornato, padre – lo salutò la donna gioviale. – Vi abbiamo aspettato per cenare. Gradite dell’insalata di zucche e carote come contorno?
- Sì, va bene qualsiasi cosa, Heloisa, grazie – le rispose cercando di mantenere un tono di voce normale. – Blake è in casa?
- Sì, è in camera di Ioan, lo sta facendo addormentare.
A ciò, senza pensarvi su, padre Craig si diresse verso la stanza di Ioan e aprì la porta, trovando Blake seduto sul letto del suo fratellino, a vegliare su di lui, mentre il bambino sembrava quasi addormentato.
Il ragazzo, senza guardarlo, gli fece cenno di non fare rumore, mentre, molto lentamente, si alzava dal letto.
- Devo parlarvi, Blake – gli disse il giovane padre a bassa voce.
Blake gli indicò la sua camera e i due uscirono silenziosi dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle, per poi dirigersi verso la camera di Blake.
Non appena padre Craig chiuse la porta dietro di sé e fu certo che Heloisa non potesse udirli, si rivolse immediatamente al suo interlocutore. – Mi avete mentito.
- Perdonate? – gli domandò il ragazzo alzando un sopracciglio attonito.
- Mi avete sentito bene. Mi avete mentito, Blake. Mi avete tenuto nascosto cosa sarebbe accaduto durante le celebrazioni! – esclamò non riuscendo a trattenere la voce.
- Innanzitutto abbassate la voce o vi caccio fuori dalla stanza. Mio fratello dorme a solo due camere di distanza – gli rispose il ragazzo senza scomporsi. – Inoltre, cosa, esattamente, vi avrei tenuto nascosto? Ho risposto alle vostre domande sulle celebrazioni il giorno prima del matrimonio, e mi pare di avervi avvertito dell’immensa quantità di vino che sarebbe circolata.
- Non sto parlando del vino. Non sto … parlando del vino.
Parlo di ciò che ci è accaduto …
Delle … - si bloccò, non riuscendo neanche a pronunciare quella parola.
- Parlate delle orge di piacere? – completò la frase per lui Blake, con naturalezza.
- Dunque lo ammettete!
- Cosa dovrei ammettere, di grazia?
- Perché non mi avete detto a cosa sarei andato incontro?? Perché non mi avete avvertito che sarebbe sfociato tutto in una tale depravazione? Per non parlare della magia! – esclamò padre Craig stringendosi i capelli tra le dita.
- Non tutte le orge consistono nella degenerazione dell’atto sessuale, padre. Esistono altri tipi di piaceri di cui abusare – lo informò Blake, mantenendo il suo tono granitico. – Inoltre, cosa avreste voluto sapere esattamente? Sapevate benissimo che noi servitori del Diavolo facciamo abitualmente uso della magia, specialmente alle celebrazioni. Cos’è esattamente che sfuggiva alla vostra conoscenza?
- Non fate il finto ingenuo con me, Blake! Siete poco più che un ragazzino, eppure, siete senza vergogna! La vostra gente non ha il minimo scrupolo nel far prendere parte a dei ragazzi e a delle ragazze così giovani a degli eventi tanto depravanti e dissacranti! Non era la prima volta in cui partecipavate ad una celebrazione simile! Sapevate a cosa saremmo andati incontro, giusto?? – gli domandò avvicinandoglisi, con gli occhi e le dita puntate su di lui tremanti.
Dal canto suo, Blake sembrava non essersi scomposto minimamente. Lo guardava serio, fermo, con le braccia conserte.
- Conoscete la libidine e la dissolutezza molto meglio di me, Blake. Avreste dovuto tirarmene fuori.
- Vi ho chiesto io di partecipare al matrimonio, padre?
Rispondete.
- No, ma avreste potuto dissuadermi dal partec-
- Dunque siete stato padrone della vostra scelta – lo interruppe il ragazzo senza esitazione, avanzando verso di lui. – Ora guardatemi negli occhi, padre, e affermate con assoluta certezza che non sospettavate minimamente che ad una celebrazione simile non vi sarebbe stato tutto ciò che ora voi classificate come “dissoluto”, “perverso”, “dissacrante” e “peccaminoso”. Guardatemi e ditelo, avanti – lo sollecitò , vedendolo vacillare visibilmente e abbassare lo sguardo, un gesto che lo fece sorridere di sprezzo.
- Sapete perché non vi ho consigliato di non partecipare al matrimonio? – continuò il ragazzo. – Perché sapevo bene che voi, infondo, sapeste o almeno aveste un’idea di ciò a cui sareste andato incontro.
Ed ero stanco, davvero stanco di vedervi sfoggiare quel costante atteggiamento di incorruttibilità e purezza esasperante che vi portate addosso come una malattia, e con la quale sommergete tutto ciò che vi sta attorno, rendendolo pregno di paura, del vostro grottesco terrore di peccare contro Dio.
A ciò, padre Craig alzò lo sguardo per guardarlo, trovando il coraggio di affrontare il suo volto.
Improvvisamente tutta la rabbia, la forza e la determinazione di poco prima erano svanite, dinnanzi a lui.
Era in grado di debilitarlo.
Quando Blake fece per allontanarsi da lui, padre Craig si forzò a parlare di nuovo. – Che cos’è accaduto quella notte …? Non volete saperlo? Anche quello era previsto?
- Una cosa come quella dell’altra sera non è mai successa prima d’ora a nessuna celebrazione a cui ho preso parte.
C’era sincerità nella voce di Blake.
- Ma sapevate ci sarebbe potuto essere un certo rischio nel sottoporsi ad incantesimi simili – continuò il giovane prete.
- Vi ho già detto che non si è mai arrivati a tanto prima d’ora ad una celebrazione pubblica.
Stavolta, fu padre Craig ad avvicinarsi maggiormente. – Blake, non vi turba minimamente il pensiero di aver agito contro la vostra volontà …? Non vi opprime il non sapere chi si sia servito del vostro corpo e che uso ne abbia fatto durante quelle lunghe ore? O, peggio, non vi spaventa sapere cosa abbiate potuto fare voi con il corpo di altri?
Per voi tutto ciò non ha nessun significato?
Svalutate a tal punto il contenitore che contiene la vostra anima, tanto da essere totalmente incurante nei confronti di chi lo usa a piacimento senza il vostro consen-?
- Certo che no – lo interruppe Blake guardandolo con convinzione, cercando di sopprimere il proprio turbamento. – Ritengo scontato che non sia così, e mi sorprende che abbiate anche solo potuto pensare diversamente. Non agirei mai contro la mia volontà, né permetterei a qualcuno di servirsi di me, per nessun motivo al mondo.
- Ma quella notte è accaduto. Quella notte è accaduto a tutti noi.
Per questo dobbiamo scoprire cosa è successo …
- No, non dobbiamo – ribatté imperterrito il ragazzo. – Quello che è stato è stato, non abbiamo più il potere di cambiarlo oramai. Andare a scavare su ciò che è accaduto comporterebbe scoprire qualcosa che non avremmo voluto sapere.
A volte è meglio non sapere, padre, e andare avanti con la propria vita.
- Mi lascerete condurre questa ricerca da solo, dunque … ? – domandò il giovane padre dopo alcuni attimi di silenzio.
- Esattamente.
- E se dovesse riaccadere? Se dovesse riaccadere di nuovo??
- Passate una buona serata, padre.
 
La monaca inzuppava il panno bagnato e sporco di sangue nella bacinella colma di acqua, strizzandolo, nel silenzio della stanzetta vuota, eccetto per loro due.
La donna aveva il solito sguardo afflitto, impotente, mentre ripuliva il sangue che macchiava le parti intime, lacerate, doloranti della bambina, dopo ogni abuso che ella subiva ogni sera da padre Ilian.
 Judith lasciava che la donna spalmasse il panno bagnato e fresco sulle sue cosce piccole e magre, incrostate, e sull’inguine, attendendo paziente, guardando il fuoco dell’unica candela accesa che illuminava la stanzetta della fredda cattedrale a quell’ora della notte.
- Ti fa ancora molto male? – le domandava sempre la monaca.
- No – rispondeva lei, continuando a guardare la fiammella luminosa e ipnotica, facendo danzare le dita della mano su di essa.
Una sera, non appena aveva notato che Judith infilasse le dita nella fiammella per troppi secondi, senza lamentarsi per il dolore, la donna le tolse la mano dal fuoco d’impeto. – Così ti scotterai! – l’ammonì.
- Non mi stavo scottando – le aveva risposto la bambina, atona, mentre la monaca le tirava giù la gonna lunga e riponeva lo straccio insanguinato nella bacinella.
- Domani ti farò visitare da un medico – le aveva detto poi la donna. – Ho timore che non potrai mai partorire figli, data la quantità di sangue che fuoriesce da te ogni sera, dopo che …
Ella si bloccava sempre prima di dire esplicitamente ciò che la piccola era costretta a subire da quell’uomo.
- Ma a me non fa male – le aveva risposto ancora la bambina.
Qualche sera dopo, una delle tante, la piccola Judith si sorprese di non essere stata richiamata da padre Ilian per uno dei loro abituali incontri. Poi, quando lo aveva visto tornare nella cattedrale, era già notte inoltrata e lui aveva un volto talmente stanco e felice insieme, che ne rimase sorpresa.
- Questa volta non ti porterò con me, bellissimo angelo – le aveva detto accarezzandole una guancia. – Rimanderemo a domani sera.
Judith gli aveva chiesto cosa fosse accaduto e lui gli aveva risposto che, quella notte, era accaduto un miracolo.
Ogni volta che un bambino veniva al mondo a Bliaint, si diceva che uno dei due signori benedisse una delle famiglie sue fedeli servitrici con un meraviglioso miracolo.
Judith sapeva che, ogni volta che una donna stava per partorire, veniva fatto immediatamente condurre un monaco appartenente al credo della neo madre a casa di quest’ultima, in modo che egli potesse benedire il neonato nel momento in cui questo si fosse affacciato al mondo.
In quel momento, Judith aveva ripensato alle parole della monaca di qualche sera prima, e aveva riflettuto sul fatto che, evidentemente, se il suo Signore l’aveva resa incapace di partorire, allora ciò voleva dire che non la riteneva degna di ricevere quel miracolo come le altre.
Per qualche motivo, la piccola si era sentita sollevata al pensiero di non dover mai subire il flagello del parto.
Pensò che, forse, doveva essere stato un bene che padre Ilian la violentasse ogni sera.
Capì che egli si fosse recato a benedire il neonato alla casa della nuova mamma quella notte, dato che era troppo stremato e troppo felice per badare a lei.
- Vuoi sapere come si chiama il nuovo miracolo con il quale, questa notte, il nostro Signore ha benedetto una delle nostre fedeli, Judith?
- Come?
- Christopher Ioan.
Improvvisamente, lo scenario di quel sogno cambiò.
Quei ricordi d’infanzia vennero sostituiti da qualcos’altro nella mente della ragazza caduta tra le suadenti braccia del sonno nella biblioteca:
Non aveva controllo.
Qualcosa sfuggiva al suo controllo, ma non riusciva a capire cosa.
“Siamo nati per essere quello che siamo, nulla di diverso”.
Il suo corpo non era il suo. Il suo corpo era un corpo maschile.
Questa volta, in quel corpo, il dolore lo sentiva. Lo sentiva sin troppo bene e non riusciva a capire il perché.
- Che cosa hai fatto …? – quella voce familiare, ovattata ma sin troppo nitidamente devastata, giunse alle sue orecchie. – Che cosa mi hai fatto fare, Judith …?
Judith si svegliò di soprassalto.
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Mandragora ***


Mandragora
 
DIECI ANNI PRIMA
 
- Perché la mamma è sempre così furiosa con Myriam? – aveva chiesto il piccolo Blake a suo padre, mentre questo gli rimboccava le coperte, pronto a dargli la buonanotte. – Oggi le ha urlato in faccia. Lo fa spesso – insistette il bambino.
A ciò, Rolland si mise comodo sulla sedia accanto al letto di suo figlio. – Ci sono cose che ancora non sai su Myriam e tua madre, Even.
Blake si posizionò seduto sul materasso, con il cuscino dietro la schiena, in posa di ascolto. – Che cosa non so, padre?
- Se sei stanco è meglio che rimandiamo il racconto a domani. Potrebbe sembrarti una lunga storia.
- Voglio sentirla – insistette imperterrito il bambino.
Rolland, a ciò, sorrise e si arrese. – Devi sapere che, quando sei nato, è successo qualcosa di strano.
Purtroppo, quella notte, fredda e placida, tua madre ha iniziato ad avere le doglie quando in casa non vi era nessuno. Io ero stato costretto a trattenermi alla galleria più del dovuto, dunque non ero con lei. Nessuno poteva recarsi alla cattedrale e avvertire i monaci del nostro credo, né mandare un messaggio.
Tua madre ha rischiato di partorire senza nessuno al suo fianco.
- Non sono stato benedetto alla mia nascita? Stai dicendo questo? – domandò il piccolo.
- Hai rischiato di non esserlo, sì.
Tuttavia, fortunatamente, quella notte, qualcuno ha udito le urla di dolore di tua madre.
Una ragazzina che abitava poche case distanti, figlia di una donna ritenuta da tutti una strega, ha bussato insistentemente alla nostra porta, sin quando non l’ha aperta con la forza, per andare a soccorrere tua madre durante il faticoso parto.
Ella l’ha aiutata fino alla fine, per poi emettere essa stessa la benedizione su di te, appena sei uscito dal grembo materno.
Ognuno di noi conosce la benedizione emessa sui neonati a memoria, ma nessuno che non sia un monaco dovrebbe mai pronunciarla.
Quello è stato un caso eccezionale, poiché, se la ragazzina non ti avesse benedetto appena nato, tu non saresti stato accetto al nostro Signore.
Quella ragazzina, era Myriam.
- Come sai che il Signore non sia adirato con me per essere stato benedetto da qualcuno che non avrebbe potuto farlo?
- Blake, se tu non fossi accetto al Signore, ce ne saremmo accorti da tempo. Stai crescendo forte, sano, bello e con tutti i doni che il nostro Signore avrebbe mai potuto donarti – lo rassicurò Rolland sorridendogli fiero e premuroso.
- Sei sicuro che la mamma la pensi allo stesso modo?
- Sì, certo. I motivi per i quali tua madre è spesso adirata con Myriam non riguardano te.
- Non dovrebbe esserle riconoscente dopo quello che ha fatto?
- Certamente, difatti lo era, lo era sin troppo, al tempo. Non a caso, per ripagarla per ciò che aveva fatto, tua madre permise a Myriam di farti da balia, ogni giorno.
- Allora cosa è successo?
- Chi lo sa, figliolo. Credo che, con il tempo, Heloisa abbia iniziato ad essere gelosa di Myriam, del rapporto che ella ha instaurato con te.
Forse, si sente tagliata fuori da te.
Blake vi rifletté su per un attimo. – Che cosa avete detto a tutti gli altri?
- Ogni persona conosce il nome del monaco da cui è stata benedetta e viceversa, è una legge di Bliaint. Per tale motivo abbiamo dovuto trovare una soluzione, per non raccontare a nessuno cosa fosse accaduto. Padre Ilian aveva un conto in sospeso con tua madre, a sua detta, ma non ho  mai saputo di cosa si trattasse. Lui ci ha fatto questo favore.
- Padre Ilian è il monaco che ha benedetto Ioan quando è nato?
- Esattamente. Lui è divenuto nostro complice, e ha mentito, dicendo di essere stato egli stesso a benedirti alla nascita, quando gli è stato domandato.
Padre Ilian è un nostro fidato amico di famiglia.
Ad ogni modo, non affliggerti, bambino mio.
Tu sei gradito al nostro Signore esattamente come ogni altro fedele di Bliaint e anche di più.
 
Judith camminò a testa alta nell’umida e semibuia prigione di Bliaint. Il luogo era situato sotto la piazza principale del villaggio, la più frequentata e affollata. Alcuni sprazzi di luce mattutina entravano dalle tonde finestrelle sbarrate poste sul soffitto, le quali, viste dalla piazza, apparivano come tombini semiaperti.
La ragazza, come era avvezza, aveva indossato il suo abito nero, stretto, con il collo alto, che ricopriva ogni singola parte del suo corpo, eccetto le mani e la testa; i lunghi capelli rossi appuntati compostamente in alto. Infilò le scarpe nere delucidate nelle piccole pozzanghere sparse in tutto il corridoio, mentre veniva scortata da due monaci nella cella del condannato a morte di quella mattina.
Quella pratica non la turbava quanto avrebbe dovuto, l’aveva compreso già quando lo aveva fatto la prima volta, sotto richiesta di alcuni monaci, all’età di dodici anni. Dopo allora, era stata ella stessa a richiedere di poterlo rifare.
Le esecuzioni stavano aumentando esponenzialmente a Bliaint.
Il condannato che avrebbe visitato quella mattina era il settimo dell’ultimo mese.
Ovviamente, come i restanti sei, era uno dei servitori del Diavolo, e accusato del medesimo reato: uso improprio della magia nera.
Judith attese che uno dei due monaci aprisse le sbarre, stringendosi il suo tomo sul ventre, paziente.
La puzza che imperniava ogni cella era a dir poco asfissiante, causa le pessime condizioni di igiene a cui erano costretti i prigionieri e l’umidità fuori dal comune.
Oramai, ciò non la toccava più, così come la sporcizia con la quale le stoffe dei suoi prestigiosi abiti si sarebbero macchiati.
La ragazza si sedette compostamente su una sedia malconcia, l’unica presente nella cella, e guardò il condannato, rannicchiato su se stesso su un angolo della parete, incatenato con polsi e caviglie al muro.
Questo impiegò qualche minuto prima di decidersi ad alzare il volto dalle ginocchia e a mostrarsi, degnandola della propria attenzione.
Come Judith aveva sospettato, egli doveva avere poco più della sua età.
I capelli biondi e sudici gli erano cresciuti sino alle spalle e gli coprivano alcune porzioni del viso, il quale mostrava un’espressione distorta, a dir poco scontrosa e diffidente.
Il ragazzo digrignò i denti in un sorriso sprezzante, i suoi occhi chiari e lucidi brillarono, e in quel suo movimento involontario della testa, Judith riuscì a notare un segno scuro marchiato nella pelle ambrata del collo, sotto i capelli.
 - Qual è il vostro nome? – gli domandò con naturalezza, rompendo il ghiaccio.
In risposta, il giovane prigioniero sputò sulla stoffa nera della sua lunga gonna.
- Capisco.
Cominceremo con o senza il vostro consenso, sappiatelo.
Questa è consuetudine cristallizzata da secoli a Bliaint.
- Lo so bene – rispose stizzito egli con la voce arrochita dall’inutilizzo e dalla disidratazione.
- Dunque, sapete parlare.
Facciamo progressi vedo.
Ditemi, chi vi ha impresso quel marchio sul collo e cosa rappresenta per voi?
- Non parlo con i monaci.
- Non sono una monaca.
- Avete tutta l’aria di esserlo.
- Devo ripetervi la mia domanda?
- Qual è il vostro nome?
- Ciò servirà a farvi rispondere alla mia domanda?
- Qual è?
- Arley Judith.
A ciò, il ragazzo sorrise di nuovo, per poi alzarsi in piedi, a fatica. I cenci malridotti che ricoprivano il suo corpo denutrito lo facevano sembrare più esile di quanto non fosse. Una volta in piedi, restò lievemente gobbo, strisciò i piedi nudi a terra, camminando avanti e indietro.
- Se non vi spiace, mia signora … - cominciò provocatorio. - … vi chiamerò con il primo nome. Lo preferisco.
- Ciò non mi disturba quanto credete, perciò sentitevi completamente libero di fare ciò che vi aggrada.
- Dunque, Arley, cosa ci fate in questo buco che puzza di piscio e di letame, esattamente?
- Sono qui per assistervi prima del trapasso.
- E in cosa consisterebbe esattamente questa assistenza?? Tra un’ora esatta mi trascineranno lassù e le mie carni verranno dilaniate dalle fiamme dinnanzi al concitamento della folla.
A cosa mi servite, Arley?
- Risponderò alle vostre domande. Vi leggerò o narrerò qualsiasi cosa desideriate udire.
Vi ascolterò. Parlerò con voi e vi darò sollievo, se me lo permetterete.
- Non avverrà mai!!! – urlò il ragazzo scagliandosi addosso a lei, venendo trattenuto solamente dal metallo delle catene strette attorno ai polsi e alle caviglie scarnificate.
- Cosa volete avvenga, dunque? – gli domandò Judith dopo un po’, accavallando una gamba senza scomporsi.
- Che spariate dalla mia vista.
- Non posso concedervelo.
Tornando a noi, volete dirmi cosa rappresenta quel disegno sul collo?
A ciò, il ragazzo si inginocchiò a carponi. – Sapevo cosa mi attendeva, fin da quando ho deciso di fare ciò che ho fatto.
- Che cosa avete fatto o credete di aver fatto?
- Ciò di cui sono accusato.
- Dunque avete confessato?
- Sarebbe servito farlo? – domandò sorridendo sornione e alzando la testa verso di lei. – Mi hanno visto mozzare il piede di un uomo e cucirlo sul corpo di un orso per compiere un rituale. Quale altra conferma sarebbe servita?
Volete sapere se sono pentito di ciò che ho fatto?
- No, so che non lo siete.
C’è qualcosa che volete chiedermi o che desiderate sapere?
C’è qualcosa che vorreste raccontarmi?
- No, Arley.
Cosa potrei mai dire ad una donna che si pone dinnanzi a me con la vostra arroganza e perfidia? Deridendomi e godendosi sommessamente il mio patimento.
Ho più pietà io per voi.
Fate parte dello stesso branco che, ben presto, verrà macellato in massa.
I seguaci di Allister Chaim, le sue pecore fedeli alla divisione, vittime di due padri che non hanno mai amato nessuno nel corso della loro millenaria esistenza.
- Blasfemia.
Questo non lo avevate confessato a nessuna delle guardie che vi ha catturato.
- C’è una cosa che voglio sapere, a dir la verità, Arley.
- Vi ascolto. Sono qui per questo.
- Come ci si sente ad essere stata deturpata e seviziata dai vermi che abitano la “nostra” cattedrale? Sapete, giravano parecchie voci su quel luogo. Quando ero bambino, ho visto come quell’uomo, il monaco disgraziatamente morto, guardava tutti quelli della nostra età.
Per svolgere questa mansione, voi dovete essere cresciuta là dentro, non è vero?
Altrimenti, perché sareste qui per loro conto?
Dunque, ditemi, Arley, com’è stato?
Avete sfruttato tutto ciò a vostro vantaggio? Per avanzare di grado e farvi trattare come la loro regina?
A ciò, Judith, si alzò in piedi e gli si avvicinò, il corpo e lo sguardo granitico.
Si abbassò il minimo necessario ad artigliargli il collo con le dita di una mano e a stringere.
- Sentite la necessità di sputare sterco su una completa sconosciuta per alleviare il vostro tremendo terrore, la vostra frustrazione e la vostra cieca rabbia per dover affrontare le fiamme tra qualche minuto.
Ostentate un’audacia e una spavalderia che non possedete solo per autoconvincervi di morire con dignità, nonostante galleggiate nel vostro stesso luridume, ridotto in ginocchio da delle catene che vi stanno lacerando l’anima ad ogni singolo pezzo di carne che squarciano via da voi.
Vi credete superiore a me e a chiunque non la pensa come voi.
La parola “pena” non descrive degnamente ciò che provo per voi in questo momento, Braigh Dalyell.
Spero abbiate capito che il domandarvi il vostro nome era solamente un gesto di cortesia, ovviamente mi era già stato riferito.
Ritenetemi pure una crudele burattina senza cuore quando brucerete tra le vostre ceneri a breve, siete perfettamente libero di farlo.
Tuttavia, fareste bene a ricordare, in ogni caso, che quella senza catene addosso sono io tra noi due.
Sono io quella in piedi, sono io quella che può permettersi di farvi delle domande e di pretendere delle risposte da voi, sono io quella che può avvinghiarvi la gola fino all’incoscienza.
Chiedetevi il perché, Dalyell.
Domandatevelo prima di morire, prima che non siate più in grado di farlo.
Vi faciliterò il lavoro fornendovi io la risposta – concluse la ragazza avvicinandosi al suo orecchio. – Che  siate nel giusto o nel torto è del tutto irrilevante, poiché, a prescindere da ciò, l’abissale differenza tra noi due è che voi vi siete fatto scoprire e catturare, Dalyell.
Per tale motivo meritate la morte.
Per tale motivo, anche senza la mia “funesta” e sgradita presenza qui, morireste in ogni caso.
Per tale motivo non provo misericordia nei vostri confronti.
Per tale motivo sono qui solamente e unicamente per l’incarico che ricopro e null’altro.
Per tale motivo eseguirei io stessa la sentenza che ricade su di voi, appiccandovi il fuoco addosso con le mie mani, poiché, in ogni caso, lo farebbero loro. Che cosa cambierebbe, infondo?
Che cosa cambierebbe se fossi io o loro a farlo?
Eppure, non sapete ancora se sono dalla vostra parte.
Riflettevi su, Dalyell.
Ed ora vi domando, per l’ultima volta: c’è qualcosa che volete dirmi o che volete che vi dica, prima di morire?
Detto ciò, la ragazza lasciò andare il suo collo, permettendogli di tossire e di riprendere fiato, attendendo paziente.
Non appena tornò a respirare normalmente, Dalyell abbassò il volto stringendosi le ginocchia con le mani. – Qual è lo scopo di tutto ciò …? Qual è il vostro scopo? – le domandò con voce tremante.
- Cambiare le cose dall’interno, Dalyell. Cambiare le cose nel più inconsueto, proficuo e duraturo dei modi.
Detto ciò, la ragazza si inginocchiò dinnanzi a lui e gli alzò la testa con delicatezza.
Le iridi chiare del giovane condannato erano fisse nel vuoto e spente, mentre ella gli faceva il segno della croce al contrario e recitava la preghiera per lui.
- “Nel nome del nostro Signore,
immensamente misericordioso e clemente,
unica e fulgida luce sul nostro impetuoso cammino terreno,
pilastro portante della nostra buia ed effimera esistenza,
ragione del nostro sonno e della nostra veglia,
del nostro stato d’animo e della nostro stato fisico,
della nostra bontà e della nostra malvagità.
Possa Egli vegliare su di te, sempre, figlio del Diavolo e del suo eternamente glorioso operato.
Amen” – terminò dandogli un delicato bacio sulla fronte e rialzandosi in piedi, attendendo che i monaci riaprissero le sbarre, per permetterle di uscire e di portare avanti i seguenti impegni della sua mattinata.
 
Blake restò a guardare il crocefisso appeso al contrario nel muro della cucina, fissandosi su di lui come gli capitava spesso, senza alcun motivo logico.
Consumò lentamente la sua colazione, ancora immerso nel torpore del sonno mattutino, fin quando non udì dei rumori alle sue spalle.
Subito dopo, si ritrovò sua madre inginocchiata dinnanzi al crocefisso, impegnata nel recitare la preghiera mattutina che sin troppe volte l’aveva vista pronunciare.
Questa volta, tuttavia, Heloisa si interruppe a metà preghiera e si voltò a guardarlo, rivolgendogli un sorriso accennato, quasi timoroso. – Ben svegliato. Vuoi pregare con me? – gli domandò, con grande sorpresa di Blake. – Non ti vedo mai pregare – aggiunse Heloisa, come per giustificare la sua timida richiesta.
A ciò, Blake rivolse un’altra occhiata al crocefisso, per poi prendere posto in ginocchio accanto a sua madre.
Ricambiò il suo sorriso, le diede un bacio sulla fronte e iniziò a pregare con lei.
Dopo ciò, la mattinata trascorse in fretta, nella sua abituale routine.
Il ragazzo si recò nella piazza del villaggio, comprò un po’ di frutta, assistette al rogo che si tenne quella mattina, dopo di che si recò nella cattedrale, come faceva spesso solo quando aveva un obiettivo preciso in mente.
Si sedette su uno dei posti della navata, quasi vuota eccetto per qualche altra presenza, si fece il segno della croce al contrario e cominciò a pregare, per salvare le apparenze, attendendo il momento propizio.
Quando ritenne di aver trascorso abbastanza tempo a pregare, si rialzò e si diresse verso il confessionale con naturalezza, guardandosi intorno per individuare la persona di suo interesse.
Tuttavia, non riuscì ad intravedere la figura della monaca che cercava, imbattendosi, invece, in un monaco che gli si pose davanti, bloccandogli la strada. – Buona giornata, figliolo – lo salutò l’uomo, un volto che aveva già intravisto qualche volta.
- Buongiorno anche a lei, padre – gli rispose gioviale il ragazzo.
- Cercate qualcuno in particolare?
- Sì, avete visto madre Riven, per caso?
- Questa mattina madre Riven non si sentiva molto bene, mi spiace. Spero di poter fare io qualcosa per voi, al suo posto.
Il tono di quel monaco gli sembrò volutamente invadente e fuorviante. - Sì, certo – gli rispose il ragazzo. – Vorrei confessarmi.
- Bene, benissimo, figliolo! Il vostro nome è Blake, giusto? Io sono padre Lowel. Vi ho osservato, sapete? Siete solito venire a pregare ogni martedì mattina, solitamente, per poi andare a confessarvi con madre Riven. Vi trovate particolarmente a vostro agio con lei?
- Sì, è molto attenta e riguardosa.
- Sì, la nostra madre Riven è sicuramente la più delicata e amorevole tra noi – confermò il monaco. – Sapete, ho maturato una curiosità, una domanda che vorrei porvi, se permettete.
- Certo, ditemi pure, padre.
- Ho notato che nessuno dei monaci di questo monastero pronuncia mai il vostro nome quando ci capita di conversare e di parlare dei neonati che abbiamo benedetto, dunque mi è sorta questa ingenua curiosità: posso sapere da quale monaco siete stato benedetto, Blake?
- Dal defunto padre Ilian, pace all’anima sua.
- Oh, ma davvero? Ora mi è tutto chiaro, dunque.
- Egli ha benedetto anche mio fratello alla sua nascita.
- Perdonate l’indiscrezione.
- Nessuna indiscrezione, padre.
I due arrivarono alla stanzetta adibita alle confessioni, Blake si posizionò da un lato e padre Lowel dall’altro della rete.
- Ditemi, Blake – cominciò il monaco, svelando subito le sue intenzioni. – Per quale motivo usate venire a confessarvi sempre in compagnia di madre Riven?
- Di cosa mi state accusando, esattamente? – domandò il ragazzo con tranquillità.
A ciò, padre Lowel sorrise con finta noncuranza. – “Accusare”? Questo atteggiamento sulla difensiva mi fa pensare che siate solito venire accusato, figliolo.
- Non posso rispondervi se non so esattamente quali tipi di sospetti nutriate nei confronti del rapporto che intercorre tra me e madre Riven.
- La nostra madre Riven possiede un animo immacolato e trasparente, dunque è estremamente facile leggerla e comprendere quanto sia grave il peccato che ha commesso.
Da ciò posso certamente dedurre che non potrà mai essere in grado di macchiare la sua purezza cedendo alla seducente tentazione dei piaceri carnali.
Con un fedele tanto giovane come voi in particolar modo.
- Dunque, suppongo ci stiate accusando di qualcosa di differente da ciò.
Non lo chiamerei propriamente “peccato” quello di si è “macchiata” madre Riven, padre.
- Potrei anche darvi ragione, per alcuni versi; tuttavia le leggi di Bliaint sono chiare anche in ciò.
- Leggi antiche di secoli e mai revisionate, si potrebbe dire quasi dimenticate dai cittadini di Bliaint.
- Sembrate incredibilmente sereno e tranquillo, Blake, e comprendo anche il perchè.
Siete un abile conversatore e persuasore, devo concedervelo.
Ditemi, tutta la vostra sicurezza è data dal fatto che siete convinto di essere nel giusto, o dalla consapevolezza della vostra maestria nell’arte oratoria?
Fu Blake a sorridere questa volta. – Che idea vi siete fatto esattamente, padre?
- Conciso e diretto, non mi sarei aspettato nulla di meno.
Posso dirvi che ho parlato con madre Riven e in seguito ad una lunga e sfiancante chiacchierata, ella ha ceduto. Non mi ha confessato tutto, ma mi ha accennato cosa vi permette di fare.
Non è neanche difficile immaginarsi come ella vi riesca: non appena entrate entrambi nel confessionale, utilizzate l’entrata secondaria alla biblioteca dietro questa cabina, per accedere alla biblioteca, categoricamente chiusa al pubblico, sfruttando l’orario in cui la cattedrale è quasi deserta per non farvi notare.
Ciò che vorrei sapere da voi, Blake, è cosa le offrite in cambio di questo frequente “favore”, dato che non siete accusabili di immoralità sessuale.
In cosa siete tanto bravo, eccetto a leggere e a scrivere?
- I numeri. La aiuto con i numeri.
Molto semplicemente, essendo ella la guardiana della biblioteca della cattedrale, la aiuto a classificare i volumi più antichi e dimenticati, alcuni dei quali sono indecifrabili.
Oramai nessuno più se ne occupa, è l’unica a farlo.
Molto spesso, l’unico mezzo per decifrare delle lingue sconosciute o dei segni apparentemente indefiniti, sono dei codici matematici. Io le servo in questo.
- Tutto qui? Classificare libri e decifrare codici e lingue sconosciute?
Molto comodo per voi, che la guardiana della nostra biblioteca, l’unica che avrebbe potuto fornirvi il suo aiuto in quest’attività proibita, sia proprio l’individuo più emotivo, malleabile e persuasibile della cattedrale.
E ditemi, per quale motivo ella dovrebbe desiderare tanto decifrare quei volumi accumulati e di nessuna utilità, rischiando addirittura di venire scoperta come vostra complice, a causa di ciò?
- Non c’è un perché, padre. Come avete detto, ella mi sta solo facendo un favore, tutto qui. La sua bontà d’animo la porta a vedere i motivi innocui che mi spingono a voler consultare quei volumi antichi ma colmi di sapienza e conoscenza, ormai ignorati e dimenticati da chiunque.
- Vi prego, esponete anche a me questi “innocui” motivi che vi spingono ad infrangere la legge, figliolo.
- Infrangere la legge? Come sapete bene, padre, alcune leggi di Bliaint sono solamente inchiostro scritto su pergamena secoli fa e nulla di più. Non hanno alcun senso, né utilità. Per quale motivo la biblioteca della cattedrale dovrebbe essere chiusa al pubblico?
- Perché, dite? Non è ovvio? Le due biblioteche di Bliaint possiedono volumi altamente proibiti! Da qui torniamo alla mia domanda di poco fa alla quale non avete risposto.
 - “Volumi proibiti”? Credete che io li usi per praticare la magia nera? Mi credete uno stregone?
Padre, le streghe e gli stregoni possiedono una loro letteratura. Non sono minimamente interessati ai volumi contenuti nella biblioteca, e ciò è dimostrato dal fatto che non vi è stata alcuna violazione, nessun furto nelle biblioteche in questi anni, nonostante l’ingente presenza di praticanti di magia nera a Bliaint.
- Non possiamo essere certi di ciò, così come non possiamo essere certi dell’uso che ne fate voi.
Ditemi, Blake, come è iniziata questa sovversiva collaborazione tra voi e madre Riven?
- Forse faticherete a crederci, ma un giorno mi sono confessato davvero, padre, e, casualmente, è stata madre Riven il mio confessore. Da lì è iniziato.
Vi suona strano?
- Oh, affatto! Madre Riven era colei che accudiva e si occupava di tutti i bambini che trovava in difficoltà, di ogni animale che scorgeva lungo la sua via, incurante di qualsiasi conseguenza in merito alle sue azioni.
Il suo animo è sempre stato debole e instabile.
Sappiate, Blake, che d’ora in poi non avrete più accesso alla biblioteca della cattedrale, esattamente come tutti gli altri.
Voi e madre Riven non sarete puniti per ciò che avete fatto solamente perché non ritengo le vostre azioni altamente classificabili come “peccaminose”.
Oggi sarò clemente ma non lo sarò la prossima volta.
Dopo ciò, i due restarono a guardarsi per minuti interminabili, fin quando Blake non ruppe il silenzio.
- Come desiderate, padre.
Vi ringrazio per la confessione.
 
Judith sfogliò e sfogliò ancora, imperterrita, decisa ad ottenere qualche risultato entro la mattinata, ma le sue ricerche non sembravano dare i frutti che sperava.
Erano settimane che era ferma in quel punto.
Aveva vagliato ogni angolo della biblioteca e cominciò a convincersi che, forse, le risposte che cercava fossero nell’altra biblioteca.
Nonostante l’immensa vastità di volumi differenti, antichi di generazioni, contenenti una sapienza inestimabile, la ragazza non aveva ancora trovato ciò che realmente le interessava.
Cominciò a pensare che la sua, fosse una ricerca sterile.
Non appena iniziò a spazientirsi, cominciando a nutrire un’insana voglia di dare fuoco a tutto ciò che la circondava, qualcuno bussò alla porta della biblioteca.
- Judith, cara – le disse il volto amorevole di padre Cliamon. – C’è qualcuno per te.
- Chi mi cerca?
- Un certo giovane servitore del Creatore.
A ciò, capendo immediatamente, il volto della giovane ragazza si incupì. – Non voglio vederlo. Ditegli di andarsene.
- Sta attendendo qui fuori da un po’, cara. Ha una cera tremenda. Dice che è urgente.
Il cuore di Judith saltò un battito senza che ella potesse controllarlo, a tali parole.
Si arrese senza troppa insistenza, abbandonando la biblioteca e uscendo dalla cattedrale, trovando Naren in attesa, all’esterno.
Non appena egli la intravide a distanza, si trattenne visibilmente dall’andarle incontro per stringerla a sé, come avrebbe desiderato fare da giorni.
Tuttavia, nessuno dei due avrebbe potuto esplicitare un gesto del genere in pubblico; inoltre, entrambi sapevano bene vi fossero delle questioni in sospeso da risolvere.
- Indossi l’abito da “consolatrice dei condannati”. Hai assistito il ragazzo che è stato giustiziato questa mattina? – tentò di approcciarsi Naren.
Ella non lo guardò e attese, prima di rispondergli. – Non ho tempo da perdere – disse lapidaria.
- Arley, ti prego …
- Non ti fai vivo da più di tre giorni, Van.
Non ho avuto alcuna notizia di te dopo ciò che è successo a me e agli altri presenti al matrimonio di qualche giorno fa. In quel momento, più di ogni altro, avrei avuto bisogno di te e tu mi hai evitata come un’epidemia. Per quale motivo dovrei degnarmi di ascoltarti ora? – disse serafica.
A ciò, Naren abbassò il volto, nascondendo gli occhi lucidi e le labbra tremanti. – Arley, mi dispiace tanto. Davvero. Tuttavia … tuttavia, non ci sono riuscito… io non ero pronto ad affrontarti.
Non lo sono neanche ora, poiché non ho neanche il coraggio di guardarti negli occhi dopo ciò che è accaduto quella notte …
- Non ricordo nulla di ciò che è accaduto quella notte, Naren. Nulla. Come nessuno degli altri.
- Io ero presente, Judith!
- Abbassa la voce … - gli intimò tra i denti ella. – Che cosa stai cercando di dirmi …? Per quale motivo eri lì? Cosa ci facevi in quel luogo?
- Sono venuto a cercarti. Lo sai che ero contrario che tu partecipassi alla cerimonia, essendo cosciente di cosa avreste fatto durante i festeggiamenti e-
- Perché tu non ti fidi di me. Non ti sei mai fidato di me. Questo è un discorso che abbiamo già affrontato o sbaglio? La tua gelosia è assolutamente ingiustificata e opprimente.
Io amo te, e dovresti saperlo bene.
Se mi ritieni tanto superficiale e volubile da tradire il tuo amore e la tua fiducia per della blanda attrazione fisica e del piacere carnale, allora non sei l’uomo che credevo fossi.
- Arley, ti prego … ascoltami. Quella notte è successo qualcosa … qualcosa di molto, molto grave …
Ho visto delle cose che non avrei mai immaginato di vedere …
Nessuno dei presenti era in sé … nessuno era, letteralmente, nel proprio corpo …
- Di questo ne sono a conoscenza.
Cosa sei venuto a dirmi, esattamente, Naren?
Non ho intenzione di ascoltarti balbettare ancora per un altro minuto.
- Judith, devi ascoltarmi! Io ero l’unica persona lucida quella notte, l’unica che ricorda tutto ciò che è accaduto, poiché non ero tra gli invitati quando siete caduti vittima del sortilegio, sono arrivato solo dopo!  Per te!
- Non voglio sapere cosa è accaduto quella notte, Naren.
- Ma io ho bisogno di dirtelo, Judith … ne ho bisogno poiché il senso di colpa mi divora e sogno ciò che è accaduto, ogni santa notte, in ogni singolo dettaglio … - la supplicò stringendosi i capelli, oramai sull’orlo delle lacrime. – Ho paura di non riuscire più a riconoscere chi sono e cosa voglio … ho paura di non essere più la persona che ero prima … ho visto …
- Non voglio sapere che cosa hai visto.
- Vi è stata della violenza …
- Naren, non un’altra parola.
- Tu mi hai costretto! – esclamò ponendosele dinnanzi, stringendo la gonna della ragazza mentre la guardava stralunato.
Calò un silenzio glaciale tra i due, spezzato dopo diversi minuti da Naren. – Ti prego, ti prego, non guardarmi così.
Nonostante tutto, nonostante ciò che è accaduto, ciò che hai fatto … io non posso vivere senza di te, amore mio.
Un brivido varcò la lunghezza della schiena della ragazza, ma ella rimase immobile e distaccata. – Ho bisogno di restare senza di te, Naren. Ne abbiamo bisogno entrambi, temporaneamente.
Pronunciare quelle parole le costò caro, ma cercò di non darlo a vedere.
Non aveva bisogno di lui, infondo.
Se lo ripeté, ancora e ancora, fin quando non ci credette, almeno l’indispensabile.
Fortunatamente, i suoi occhi vennero casualmente attirati da una figura che intravide uscire dall’altra cattedrale a distanza. Aguzzò lo sguardo e riconobbe Blake, il quale venne immediatamente raggiunto da una donna con il volto afflitto e dispiaciuto. La monaca, un volto familiare alla tremenda infanzia vissuta da Judith in quel luogo, gli prese le mani e gliele strinse tra le sue, guardandosi intorno circospetta, ripetendogli qualcosa che somigliava molto a delle scuse.
In quel momento, per qualche motivo, Judith ricordò che quella donna, madre Riven, fosse la custode della biblioteca dell’altra cattedrale.
Improvvisamente, un moto di realizzazione invase la sua mente e la accese, facendole quasi dimenticare la questione lasciata in sospeso con Naren.
- Torna a casa, Van – lo spronò ella affettuosamente. – Va’ a riposare e cerca di svuotare la mente.
Il ragazzo, dopo qualche altro attimo di silenzioso sfogo e reticenza nello staccarsi dall’amata, si arrese e si allontanò da lei.
Ora, Judith aveva ben chiaro in mente cosa avrebbe dovuto fare.
Forse, non sarebbe stato facile come sperava, o forse il destino le avrebbe riservato una piacevole sorpresa.
Ad  ogni modo, ogni cosa era chiara nella sua mente, pronta solamente per essere messa in pratica.
La ragazza raggiunse Blake a passo svelto non appena questo rimase solo, e gli si accostò. – Seguitemi nella cattedrale dei servi del Creatore. In quella del nostro Signore desteremo sospetti, dato che vi siete appena uscito. Inoltre, la mia cattedrale è quasi vuota ora – gli sussurrò fugace.
- “La vostra cattedrale”? – rispose egli alzando un sopracciglio.
- Tenetevi l’ilarità per un altro momento. Seguitemi – detto ciò, ella si incamminò nuovamente verso la sua cattedrale.
I due entrarono e vennero subito intercettati da padre Cliamon, il quale sgranò gli occhi alla vista del ragazzo.
- Un altro servo del Diavolo nella nostra cattedrale? Sono a dir poco sorpreso – disse scrutando prima lo sconosciuto, poi la sua protetta, con sguardo interrogativo, mentre Blake si guardava intorno incuriosito.
- Non siete mai entrato qui dentro, figliolo? – gli chiese poi il buon monaco.
- Non che io ricordi – rispose egli ricambiando lo sguardo cordiale dell’uomo.
- Lui è Even Blake, padre, è con me – spiegò Judith. – Credete che riusciremo a parlare soli e indisturbati per un po’? – domandò con sguardo complice al monaco.
A ciò, padre Cliamon annuì con discrezione, guardandosi intorno. – Ben presto quei due o tre presenti se ne andranno, non appena termineranno le loro preghiere. Voi accomodatevi in mezzo alla navata rimasta vuota e io mi assicurerò che altri fedeli non vi siedano troppo vicini. Attirerete meno l’attenzione se non sarete ai lati o nel fondo.
- Anche gli altri monaci si accorgeranno della sua presenza.
- D’accordo, nessun problema, cara. Farò in modo che non vi disturbino neanche loro – garantì il monaco.
- Grazie, padre – gli rispose riconoscente la ragazza, per poi dirigersi in una delle sedie in mezzo alla navata, seguita da Blake.
- Dunque? Come mai tutta questa urgenza?
- Nessuna urgenza. Ci serviva semplicemente un posto discreto e ho sfruttato l’orario in cui la cattedrale è più vuota.
- Qualche mattina fa mi avete chiesto di parlare e lo abbiamo fatto indisturbatamente camminando nella piazza.
- Il discorso che dovevamo affrontare quella mattina non è il discorso che dobbiamo affrontare oggi. Vi mette a disagio stare qui?
- Niente affatto – rispose il ragazzo. – Dunque? Sono tutt’orecchie.
- Sono a conoscenza dei loschi metodi che utilizzate per avere accesso alla biblioteca dell’altra cattedrale. Padre Craig mi ha informato che riuscite a prelevare i tomi che vi servono dalla biblioteca e poco fa vi ho visto in compagnia della custode dell’altra cattedrale. Ella sembrava turbata, quasi come se qualcuno fosse venuto a conoscenza delle vostre attività illecite – spiegò la ragazza.
Blake non riuscì a fare a meno di accennare un sorriso in risposta. – Sentiamo, cos’è che volete propormi, Judith? Perché il solo motivo per il quale avreste potuto trascinarmi qui con tale solerzia, dal nulla, è questo. Io e voi non abbiamo nulla da dirci, altrimenti.
Fate attenzione, in ogni caso: a prescindere da quali siano le vostre intenzioni, non conoscete nulla delle mie, perciò non sarà facile farmi una proposta che possa far collimare i miei obiettivi ai vostri.
- Oh, di ciò non vi preoccupate. Sarete voi a dirmelo, a breve.
Non posso “vantarmi” di conoscervi, ma sono abbastanza abile ad inquadrare le persone.
So che siete un ragazzo acculturato, intelligente e audace. Rischiare la pelle per rubare dei libri non è da tutti, d’altronde. Suppongo, dunque, che siate alla famelica ricerca di qualcosa in quei tomi, esattamente come lo sono io. Da quel poco che ho avuto modo di osservare ai festeggiamenti del matrimonio, lo stato di salute di vostro fratello sembra essere ciò che vi preme di più.
- Anche a me il nostro amico in comune ha detto qualcosa di voi. So che siete la custode di questa biblioteca, dunque immagino avrete vagliato ogni singolo tomo presente in questa cattedrale ed ora vogliate passare all’altra.
- E voi vorrete passare a questa, dato che avete fatto lo stesso con l’altra – concluse il ragionamento la ragazza, sorridendo soddisfatta. – Vedo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda.
- Sembrerebbe di sì.
- Dunque, ecco la mia proposta: io vi farò accedere alla mia biblioteca e consultare tutti i libri che volete, e voi mi aiuterete ad entrare nella vostra. Si dà il caso che io conosca la monaca guardiana dell’altra cattedrale, data la mia infanzia trascorsa in quel luogo. Ciò ci renderà le cose ancora più facili.
- Voi non avete bisogno del mio aiuto per avere accesso alla biblioteca dell’altra cattedrale. Fate parte del clero oramai e ricoprite anche una carica rilevante. Madre Riven spalancherà la porta al vostro arrivo.
A cosa vi servo?
- Voi mi servite ad altro, Blake – gli disse, facendolo voltare a guardarla, in attesa che si spiegasse. – Voi siete la persona che ha più accesso alla galleria di Bliaint in tutto il villaggio, dopo vostro padre, o sbaglio?
Avete un patrimonio di cristalli, materiali e pietre dalle più svariate proprietà a vostra disposizione, giusto?
- Mi avete preso per uno stregone?
- Non voglio uno stregone. Se avessi voluto uno stregone, lo sarei andato a cercare altrove – rispose la ragazza voltandosi a guardarlo a sua volta. – Voglio una mente brillante, intuitiva ed ingegnosa che sia in grado di aiutarmi a creare un tipo di marchingegno capace di togliere la vita dei condannati a morte in maniera veloce ed indolore, e che possa convincere il clero e il popolo come metodo ufficiale alternativo alla “purificazione” del rogo; tutto ciò, senza il minimo uso della magia.
Blake restò a guardarla per qualche secondo in seguito a tale proposta, nel silenzio tombale della cattedrale, contaminato solamente del rumore delle scarpe dei monaci che battevano sul pavimento.
- Cosa ne dite? – lo sollecitò Judith guardandolo speranzosa, vedendo la bocca del ragazzo rimanere serrata.
- Mi farete avere accesso alla biblioteca di questa cattedrale quando vorrò?
- Certo.
- Potrebbe volerci del tempo, molto tempo. Ne siete consapevole?
- Assolutamente.
- E dovremo essere molto discreti.
- Blake, qual è la vostra risposta?
A ciò, il ragazzo le accennò un sorriso che alimentò Judith di speranza. – In che modo mi farete entrare nella vostra biblioteca senza essere scoperta? – domandò egli.
- Non temete, l’unico che saprà la verità sarà padre Cliamon, colui che ci ha accolti poco fa. Di lui mi fido.
Tutti gli altri crederanno ciò che faremo credere loro.
- Ossia?
- Ossia nulla di condannabile – gli garantì ella sorridendo scaltra. – Apparteniamo allo stesso credo, Blake. Ciò che facciamo sotto le lenzuola riguarda solo noi e non può essere giudicato da nessuno. Sarà ciò che sembrerà dall’esterno, senza bisogno di fornire spiegazioni. Ed è ciò che stanno pensando anche ora, mentre ci  guardano conversare.
- Avete già portato altri amanti qui?
- No, mai. Non ho avuto amanti.
- Non sarà un po’ sospetto, dunque?
- A tutto c’è una prima volta, non credete? – rispose ella con sicurezza. – Loro lo vedono come mi guardano quando cammino per le strade del villaggio. Come ogni donna e ogni uomo del nostro credo, posseggo molti spasimanti.
Allora? Siete con me?
A ciò, Blake sorrise, e si alzò in piedi, guardandola dall’alto. – Per stipulare il nostro accordo, ho bisogno di una piccola prova della vostra spavalderia. Prendetelo come una segno di fiducia. Per mettere in atto qualcosa di simile, serve una sana dose di sfrontatezza.
- Cosa volete che faccia?
In risposta, Blake, incurante della presenza di alcuni monaci nei dintorni e di qualche fedele, si fece il segno della croce al contrario, esattamente dinnanzi all’enorme crocefisso rivolto verso l’alto.
Judith sbiancò dinnanzi a quel gesto categoricamente vietato, facendo vagare gli occhi scuri da una parte all’altra della navata, rincuorata dal fatto che nessuno lo avesse visto.
- Avanti. Deve essere sfiancante essere un servitrice del Diavolo e vivere qui dentro – la provocò Blake.
A ciò, Judith si tolse il pensiero e fece lo stesso, in fretta, per poi alzarsi a sua volta e guardare il ragazzo. – Soddisfatto?
- Assolutamente. Abbiamo un accordo, dunque – concluse Blake accennandole un ultimo sorriso, per poi voltarle le spalle e raggiungere l’uscita della cattedrale.
 
Padre Craig continuò a camminare, sfruttando l’orario mattutino, pre albeggiante, in cui le strade di Bliaint erano  totalmente deserte.
Non sapeva neanche da dove iniziare la sua ricerca e non aveva fatto altro che pensare a ciò per un’altra, intera giornata improduttiva.
Blake e Judith non lo avrebbero aiutato, poiché entrambi non desideravano tirar fuori qualcosa che apparteneva al passato.
Ma il potere del passato arrivava davvero a tanto? Impediva realmente di accedere ai suoi possedimenti, quando questi sarebbero stati troppo difficili da accettare?
Avrebbe dovuto muovere i primi passi da solo in quell’ardua ricerca, motivo per cui aveva bisogno di trattenersi a Bliaint più del previsto.
Heloisa gli aveva chiesto se avesse deciso di rimanere perché gli piaceva vivere lì.
In fondo al suo cuore, il giovane prete sapeva di aver vissuto meglio in quei pochi giorni a Bliaint che in tutta la vita passata ad Armelle.
Forse era il fascino esercitato da quel villaggio, forse era per tutti gli altri pregi di quel luogo, come l’immensa pulizia in ogni aspetto della vita, la maggiore apertura mentale riguardo pratiche come la magia, la cordialità delle persone, la bellezza del paesaggio, del contatto con la natura.
Di certo, tuttavia, i grandi pregi di Bliaint non facevano svanire i suoi difetti.
Padre Craig sapeva di voler vivere lì ancora per un po’, a prescindere dalla sua ricerca riguardo cosa fosse accaduto quella notte maledetta e rimossa dalle menti di ognuno di loro.
Continuando a camminare, gli capitò casualmente di imbattersi in una presenza incappucciata, l’unica a quell’ora della mattina.
Ella camminava lungo il campo di terra scura e deserta sotto cui si estendeva l’immensa galleria di Bliaint.
Incuriosito, il giovane padre si avvicinò, cauto, osservandola.
Sgranò gli occhi quando ella si tolse il cappuccio.
Era la ragazza dai capelli corvini che aveva conosciuto ai festeggiamenti, l’ultima con la quale aveva parlato.
Essendo molto vicina a Blake, forse egli sapeva per quale motivo ella si trovava lì a quell’ora del mattino.
Poi, quando la ragazza si sfregò l’amuleto di cristallo che aveva appeso al collo e tirò fuori una sacca riempita di qualcosa, padre Craig cominciò a capire e dei brividi freddi gli gelarono la schiena.
Ella poggiò il sacco sul terreno morbido, dopo di che tracciò un grosso pentagramma a terra, mentre, nel frattempo, il sole si affacciava all’orizzonte, portando con sé una brezza calda e fresca insieme, profumata di bosco.
La ragazza pronunciò una strana formula in una lingua che padre Craig non riconobbe, un misto tra latino, lingue germaniche e qualcos’altro. Dopo ciò, rivolse il volto verso il basso e ringraziò il suo Signore.
Ciò che vide in seguito pietrificò totalmente padre Craig. Ella cominciò a scavare una fossa esattamente in mezzo al pentagramma, poi tirò fuori dal sacco qualcosa che somigliava ad una pianta, ma con una radice dall’aspetto tremendo, dalla forma umana di un corpo nudo attorcigliato su se stesso, con una bocca orrendamente spalancata e gli occhi quasi fuori dalle orbite. La ragazza seppellì completamente la pianta dalla parvenza umana, per poi cancellare il pentagramma dal terreno, smuovendo la terra sopra di esso.
Fu a quel punto, quando la ragazza fece per andarsene, che il giovane prete si avvicinò a lei, afferrandola per il braccio.
In quell’istante, entrambi vennero attraversati da strani brividi.
Sconvolto, padre Craig si ricordò delle parole di Judith, riguardo al corpo come unico testimone consapevole di quella notte.
La ragazza si voltò a guardarlo, dapprima con uno sguardo sorpreso e confuso, poi, in seguito al brivido, il suo viso si distese in un sorriso sornione. – Dunque, voi … proprio voi, tra tutti i presenti quella notte alle celebrazioni.
- Che cosa intendete dire …? – balbettò il giovane prete.
- Intendo dire che ciò che avete sentito toccandomi dimostra che il vostro corpo è entrato in contatto col mio sotto effetto di un incantesimo. Tuttavia, quella notte sia io che voi eravamo nel corpo di qualcun altro, padre – gli rispose la ragazza con naturalezza.
- Voi … serbate dei ricordi di quella notte??
A ciò, la ragazza scoppiò in una risata. – Oh, non sapete proprio nulla voi, vero?? Ad ogni modo, il fatto che io sia una strega non mi rende onnipotente. Nessuno dei presenti ricorda nulla, me compresa.
- Ne siete sicura?
- Cosa ci fate qui a quest’ora della mattina?
- Passeggiavo. E voi?
- Un po’ presto per godersi la brezza mattutina, non trovate?
- Vi ho vista seppellire qualcosa. Era … qualcosa di informe, di tremendo …
- Ciò che sono venuta a fare qui non sono affari vostri, padre – gli rispose ella voltandogli le spalle.
A ciò, padre Craig agì d’impulso, mosso dall’incontenibile brama di sapere cosa fosse accaduto quella notte, e che l’unica chiave per scoprirlo gli stesse definitivamente per sfuggire dalle dita. – Blake e Rolland sanno che cosa fate nel terreno sotto cui si trova la loro galleria??
Come sperava, la ragazza si fermò all’udire tali parole. – Se avessi voluto attirare l’attenzione di Blake l’avrei fatto in maniera più appariscente e plateale, padre – gli rispose ella voltandosi nuovamente verso di lui, con una voce indefinibile. – Cosa dico o non dico a Blake e che tipo di rapporto abbiamo noi due non vi riguarda – continuò sorridendo lievemente divertita. – Volete minacciarmi di rivelare ai suddetti proprietari della galleria cosa ho seppellito? Credete davvero di riuscire persuadere me?? Voi?? – concluse ella ridendo per un po’, riprendendo a parlare poco dopo. – Devo ammetterlo, padre, siete meno noioso e puritano di quanto mi aspettassi. Ditemi, dunque, quale importante richiesta vi ha spinto sino al punto di minacciare me?
- Voglio che mi aiutiate a scoprire cos’è accaduto quella notte, durante le celebrazioni.
- Perché vi interessa tanto saperlo?
- Questa domanda mi è stata posta sin troppo negli ultimi giorni e, per quanto ci provi, non riesco a comprendere, piuttosto, per quale motivo a tutti voi ciò sembra non interessare minimamente – rispose quasi alterandosi. – Ho bisogno di sapere che cosa ho fatto. Sento che, se non lo scoprirò, la mia anima brucerà nelle fiamme dell’inferno.
- Chiedere aiuto a me vi costerà un caro prezzo, padre.
Non vi hanno mai insegnato che non si fanno patti con le streghe?
- Da dove vengo, mi hanno sempre insegnato che le streghe vanno bruciate al rogo, a prescindere.
Converrete con me che le mie conoscenze valgono meno delle polvere di un fuoco spento qui a Bliaint.
La ragazza pose le braccia conserte, aguzzando i luminosi occhi verdi. – Virve Beitris. È il mio nome – disse lei porgendogli la mano magra e affusolata, in attesa che il giovane prete la stringesse per stipulare il patto.
Senza attendere oltre, padre Craig la strinse.
- Raccoglierete informazioni per me, padre. Tutte le informazioni che ci servono.
- D’accordo.
- E, per colmare la vostra curiosità: quella che ho seppellito poco fa era una mandragora.
A ciò, padre Craig sbiancò.
- Conoscete ciò che si narra sulla mandragora? – continuò la ragazza.
- Vi sono delle leggende … Il suo urlo …
- … uccide colui che la ode, nel momento in cui viene sradicata.
Tuttavia, è anche una pianta molto utile nella magia bianca e nera.
Dopo aver adempiuto allo scopo per cui è stata sradicata, l’ho seppellita.
- Per quale motivo?
- Tutto ciò che vi serve sapere è che non deve più essere sradicata da nessuno. Il comportamento della mandragora può essere imprevedibile – rispose ella ritornando improvvisamente seria. – È seppellita troppo in superficie per essere trovata da qualche lavoratore della galleria, e la superficie di questo terreno deserto non è attraversata mai da nessuno.
Ad ogni modo, per evitare che qualcuno la sradichi, l’ho incatenata ad un incantesimo: il braccio di colui che calpesterà questo terreno e che proverà a scavare tanto da riuscire a prenderla, continuerà a scavare verso il basso fino a quando l'arto non gli si spezzerà, senza mai trovarla, poiché la mandragora non assumerà mai consistenza tra le sue mani.
Padre Craig annuì meccanicamente.
- Bene – concluse ella. – Ora tornate a casa e stendetevi sul vostro giaciglio a riposare. Il mattino è ancora lontano.


 

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Capitolo 8
*** La vita è solo dei viventi ***


La vita è solo dei viventi
 
- Avete mai sentito parlare della polvere nera? – le domandò improvvisamente Blake, poggiando una pesante pila di tomi sopra l’imponente tavolino della biblioteca della cattedrale dei servitori del Creatore.
Judith distolse l’attenzione dalla pagina del libro che stava rileggendo e ispezionando nella speranza le fosse sfuggito qualcosa quando l’aveva letta la prima volta, per posare gli occhi scuri sul ragazzo a pochi metri da lei. – No, mai. Che cos’è?
- Le voci a riguardo sono iniziate a circolare da poco, verso le terre orientali, dall’altra parte del mondo – le rispose egli, dandosi un’altra veloce occhiata intorno.
Judith intercettò il suo sguardo, lievemente irritata. – Questa è la decima volta che vi guardate intorno, da quando vi ho fatto entrare nella mia biblioteca un’ora fa. Cosa trovate di tanto diverso da quella dell’altra cattedrale?
A ciò, il ragazzo la guardò, sorridendo sornione. – Vi dà molto fastidio che qualcuno stia invadendo il vostro territorio consacrato, eh? So bene che questo è il vostro regno e non temete, non ho nessuna intenzione di rubarvelo.
- Lo so. Allora, come vi sembra?
- La tenete molto meglio rispetto a come la cura madre Riven. Solitamente sono io quello che cataloga e sistema i volumi all’interno di quel luogo, più che caotico. Qui invece è tutto impeccabilmente in ordine, luminoso, sistemato, arredato e curato tanto da far quasi male agli occhi.
 A ciò, Judith accennò un sorriso soddisfatto. – Grazie. Modestamente, vi dedico molto tempo. È un luogo che voglio sentire mio, in tutto e per tutto.
- Non mi avete detto una cosa – cambiò discorso il ragazzo, ponendo le braccia conserte. – Per quale motivo vi rifiutate di usare la magia?
- Voi l’avete usata?
- Tutti noi servitori del Diavolo finiamo per provarla, prima o poi. Non è particolarmente nei miei interessi, semplicemente. Ma non avete risposto alla domanda.
- Ho preso la decisione di non usarla mai direttamente, dopo ciò che è accaduto a mia madre. Credo siate a conoscenza della storia.
- Più o meno, sì. Posso comprendere.
Dopo un breve silenzio, Judith prese la parola. – Davvero madre Riven non ha mai preteso nulla di “concreto” in cambio da voi? Non ha neanche provato ad approfittare della situazione?
- Ritenete che madre Riven sia capace di peccare d’immoralità con un fedele? – le rivoltò la domanda il ragazzo, incuriosito da quel quesito.
-  Non ha mai tentato alcun approccio con voi, dunque?
- No, si è mostrata sin troppo casta e rispettosa nei confronti del suo incarico monacale e di me. Ciò vi sembra strano? Avete detto di conoscerla sin da quando eravate bambina. Sospettavate che anche lei si comportasse come padre Ilian?
- No, al contrario, lei era sempre colei che mi puliva accuratamente e mi curava dopo ogni abuso di quell’uomo. Semplicemente, in quel luogo sono tutti marci. Tutti i monaci covano il loro marciume in silenzio, per lo più, tranne qualcuno che lo fa più platealmente.
Dunque anche voi avete notato i modi poco appropriati e gli sguardi palesemente ambigui che padre Ilian rivolgeva a tutti noi, da ragazzini.
- Chi non avrebbe potuto notarlo? Se ne sono accorti tutti, eccetto mio padre, ma ciò non mi sorprende, poiché non ha mai brillato di perspicacia. Tutti se ne sono rimasti in silenzio, ignorando un fatto sin troppo evidente, alla luce del sole – rispose il ragazzo.
- I monaci di questa cattedrale sembrano decisamente migliori sotto tale aspetto solamente perché sono ottenebrati e frenati dal loro paralizzante timore e senso di riverenza verso tutto e tutti.
Padre Cliamon è una delle poche eccezioni – concluse l’argomento distogliendo gli occhi incupiti e portandoli su alcuni tomi poggiati accanto a lei. – Dunque, questa polvere nera di cui parlavate? Di cosa si tratta?
- Si tratta di un composto esplosivo. Le reazioni che provoca nei corpi sono, grossomodo, simili a quelle date dai fulmini, ma al contempo differenti. Girano diverse voci ma sono tutte contrastanti, ne parlano come fosse una storiella inventata dagli uomini orientali per vantarsi dei loro successi in battaglia.
Non conosco precisamente tutti i componenti di cui è composta, ma ho sentito che due di questi sono carbone e zolfo, dai quali sono praticamente circondato alla galleria. Se riuscissi a scoprire tutti gli ingredienti, riuscirei poi a calibrare bene le dosi ad occhio.
- Sembrate esperto in composti come questo.
- Ne ho creati parecchi, posso dire di essere pratico.
Judith sorrise in risposta. – Per ora, devo dire di essere soddisfatta di aver stipulato questo patto con voi.
- Credevate che ve ne sareste pentita il giorno dopo?
- Sì, ovviamente. Dovete sapere che è molto raro che io riponga la mia fiducia in qualcuno, Blake.
- Posso immaginarlo, ma non mi avete dato fiducia. Il nostro è un patto di reciproco guadagno.
- Io ho puntato su di voi, quasi senza conoscervi – disse ella seria. – Spero di non aver sbagliato.
- Avete fatto la scelta giusta – la rassicurò il ragazzo.
- Oggi dobbiamo sbrigarci – lo informò ella dopo qualche minuto trascorso a ricercare informazioni nei tomi. – Tra poco inizierà la funzione e siete qui già da un’ora. Non voglio dar loro modo di nutrire sospetti già da ora. Con il tempo, vi permetterò di restare sempre di più.
Blake annuì. – Cosa accadrebbe se uno dei servitori del Creatore mi vedesse dentro questa cattedrale durante la funzione?
- Sono abituati a vedere me, ma non altri servitori del Diavolo. Creereste sicuramente dello scompiglio.
Uscendo da qui troverete la strada per dirigervi verso l’uscita secondaria.
A domani – lo salutò ella.
Nel percorrere il corridoio per raggiungere l’uscita secondaria dalle cattedrale, il quale dava una discreta visuale delle ampie navate ancora quasi vuote, Blake notò una servitrice del Creatore, una ragazza dalla pelle scura come quella di Myriam, inginocchiarsi esattamente dinnanzi al grosso crocefisso che torreggiava in mezzo all’altare. Il ragazzo si fermò a guardarla.
Ella congiunse la mani e, con le lacrime agli occhi, chiuse le palpebre e cominciò a ripetere, in tono sommesso, cantilenante, dilaniante:
- Sono una peccatrice.
Sono una peccatrice.
Sono una peccatrice.
Sono una peccatrice.
Sono una peccatrice.
Sono una peccatrice.
- Cosa notate di diverso in lei, dal modo in cui pregate nel culto del vostro Signore?
Quella domanda arrivò dietro le spalle di Blake improvvisa, tanto da farlo voltare di scatto verso la fonte di quella voce, la quale non trasmetteva nulla di maligno o subdolo, esattamente come la prima volta che l’aveva udita. Padre Cliamon, con la sua testa calva riflettente la luce che proveniva dalla grande finestra vetrata e gli occhi assorti e puntati sulla fedele inginocchiata, si voltò a guardare Blake, a qualche centimetro da lui, in attesa.
- Una riverenza estrema? – azzardò il monaco, notando che il ragazzo vi stesse ancora riflettendo.
- No, non è quello – rispose Blake, osservando le lacrime che continuavano a rigare le guance della fedele.
- Un ardore che non riconoscete? – ritentò Cliamon.
- È la gravita con cui lo fa. Come … se dovesse perdere tutto ciò che ha e che ama se non lo facesse.
A tale risposta, il monaco ammutolì.
D’un tratto, la ragazza riaprì gli occhi e notò Blake, nonostante la distanza.
Sgranò gli occhi scuri, ma non disse nulla, limitandosi ad asciugarsi velocemente le lacrime, a riabbassare lo sguardo, rialzarsi in piedi e andare a sedersi su una delle sedie della navata, in attesa dell’inizio della funzione.
Una volta seduta, come d’istinto, voltò segretamente lo sguardo nuovamente verso il ragazzo.
- È meglio che stiate attento a non farvi vedere qui dai fedeli – intervenne nuovamente padre Cliamon poggiando una mano dietro la schiena del ragazzo per incoraggiarlo ad andare.
- Vi farò strada fino all’uscita.
- Non ve ne è bisogno – rispose Blake cominciando ad incamminarsi affiancato dal monaco.
- Insisto. A meno che la mia compagnia non vi risulti molesta in qualche modo.
- Niente affatto.
 - So cosa credete, Blake. Che sia ingiusto, come, infondo, lo credono tutti.
Il ragazzo si voltò a guardarlo, in attesa che continuasse.
- Essere costretti a servire un dio che la famiglia e l’intero villaggio impongono di servire, senza alcuna possibilità di scelta. Mi sono ritrovato a pensarlo molte volte, quando avevo la vostra età.
- Che risposta vi siete dato?
I due si fermarono davanti all’uscita secondaria.
- Che non vi è una spiegazione logica, che possa risultare giusta e impeccabile da ogni lato da cui la si guardi – gli rispose il monaco rivolgendogli un amaro sorriso. – È meglio evitare di mischiare ciò che, per cause di forza maggiore, è stato diviso.
Dovete comprendere, Blake, che sarà sempre inevitabile per noi guardare voi e pensare che non siamo certo noi quelli fatti a immagine e somiglianza di Dio.
 
- Parlatemi delle proprietà dei cristalli che avete trovate ultimamente alla galleria – disse improvvisamente padre Craig, sorprendendo Blake, il quale era intento ad annotare delle date di ritrovamento di alcuni cristalli nella stanza utilizzata da Rolland per le catalogazione.
- Come mai questa richiesta così all’improvviso? Siete qui da più di una settimana e non vi siete mai interessato realmente di cristalli.
Padre Craig era sempre più convinto che riuscire ad ingannare Blake sarebbe equivalso a far spostare le acque del mare fino al cielo e spegnere il sole.
Un’impresa oltre l’impossibile per chiunque, per lui soprattutto.
Non a caso, il primogenito di Rolland ora lo guardava con uno strano cipiglio in volto, un sopracciglio alzato che gli lasciava presagire del sospetto annidato in lui, mentre era in attesa della risposta del giovane prete.
- Cos’è, vi siete già dimenticato della vostra leggendaria impresa di risalire a cosa è accaduto la notte delle celebrazioni? – insistette il ragazzo.
Avrebbe dovuto essere più cauto, padre Craig, se ne rendeva conto in quel momento, mentre sudava freddo sotto la tunica e cercava di sorridere spontaneamente al ragazzo che lo conosceva meglio di ogni altro in quel villaggio. Tuttavia, non era mai stato bravo con le bugie, sin da piccolo.
Era certo, e continuava a ripetersi, che Dio l’avrebbe perdonato per star mentendo spudoratamente con lo scopo di ottenere informazioni, collaborando con una strega e ingannando una persona che gli era a cuore.
D’altronde, i motivi che lo spingevano a farlo erano alti, molto alti, poiché miravano a ripulire la sua anima da ogni peccato commesso quella notte.
Con il prezioso aiuto di Beitris sicuramente sarebbe riuscito a risalire agli eventi accaduti la notte delle celebrazioni, e avrebbe chiesto ammenda, autopunendosi per ogni errore e mancanza mostrata al suo abito e a Dio.
Tuttavia, ogni conquista richiedeva un sacrificio.
In cambio del suo aiuto, Beitris gli aveva chiesto di sfruttare la sua convivenza e vicinanza con la famiglia Rolland per ottenere informazioni sulle funzioni e le proprietà degli ultimi e rari cristalli trovati nella galleria.
Un compito da nulla, in apparenza.
Ma per padre Craig costituiva l’incarico più gravoso mai richiestogli.
L’unica consolazione che si premurava di ripetersi, in aggiunta al resto, era che quella “fuga” di informazioni sui cristalli non avrebbe in alcun modo danneggiato la galleria o il prestigio dei proprietari della galleria, come gli aveva garantito Beitris.
La sua meta finale era nobile, nobile non solo per lui stesso, poiché, in tal modo, avrebbe scoperto anche cosa fosse successo a Blake, a Judith, ad Heloisa e a Rolland quella notte.
Non aveva ancora riflettuto su cosa avrebbe fatto se i peccati commessi o i danni subìti dalle persone che gli erano a cuore fossero stati troppo dolorosi da scoprire e accettare.
Non sapeva se li avrebbe informati in ogni caso, comunque fossero andate le cose.
Sapeva solo che la preoccupazione per cosa fosse accaduto loro di male quella notte, eguagliava quella che nutriva per se stesso; dunque doveva sapere.
- Padre? Vi siete addormentato ad occhi aperti per caso? – lo ridestò Blake.
- Il motivo per il quale, in principio, sono stato incaricato di giungere qui da Armelle, consiste proprio in questo. È stata solo una mia mancanza non avervelo domandato prima – rispose in ritardo il giovane prete, sperando di essere risultato convincente.
Blake, al contrario suo, era bravo a mentire, lo faceva spesso, astuto com’era.
Tuttavia, padre Craig sapeva anche che egli non avrebbe avuto alcun motivo per negargli un’informazione simile, dunque si tranquillizzò gradualmente.
Difatti, il ragazzo spostò le iridi blu sulle decine di tipologie di cristalli contenuti nella teca e accuratamente divisi tra loro, facendo vagare gli occhi su alcuni frammenti in particolare. – Una delle ultime e delle più rare che abbiamo trovato è l’Agata Muschiata – disse indicandogli una pietra con affascinanti striature bianco-trasparenti e verdi. – Non ne sappiamo ancora molto, ma, in alcuni tomi ho letto che le pietre con tali caratteristiche aiutano a mantenere l’armonia fisica e mentale, a restare “desti”, concentrati e attivi, poiché agisce positivamente sui mali che colpiscono la mente – detto ciò, il ragazzo si voltò verso il giovane prete. – Mi sorprende che voi vogliate conoscere le proprietà dei cristalli se siete giunto qui a Bliaint con lo scopo di commerciare. Nel campo della vendita, per lo meno da come è intesa qui, le proprietà dei cristalli non ricoprono alcun valore. Difatti, mio padre non si interessa minimamente di ciò.
- Da cosa è dato il valore dei cristalli, dunque?
- Dalla rarità, dall’aspetto, dai metodi con cui lo si riesce a lavorare, dalla richiesta … Da tutta una serie di fattori pratici – rispose il ragazzo.
- Consideratelo un modo per soddisfare la mia solita invadente curiosità, dunque – insistette il giovane prete, facendo sorridere Blake di finta esasperazione.
Padre Craig notò che le iridi del ragazzo si fermarono ad osservare assiduamente e con interesse un frammento in particolare, quasi impercettibile per quanto piccolo, di un colore grigio scuro-bluastro luminoso. – Di quello abbiamo trovato solo quella minuscola scaglia, qualche settimana fa – cominciò indicandoglielo. – Non ha ancora un nome specifico. So che ha qualche proprietà benefica sul piano fisico, ma non riesco ancora a capire quale. Non ho mai letto nulla di lui.
- Come sapete che ha delle proprietà benefiche, dunque?
- L’ho sperimentato – rispose con naturalezza Blake. – Mi affascina tremendamente. Tuttavia, bisogna fare attenzione, poiché è anche pericoloso.
- Cosa intendete per pericoloso?
- Avvelena il respiro.
Padre Craig ammutolì, chiedendosi in quale modo Blake avesse avuto modo di sperimentare ciò su di sé.
- Come può qualcosa portare dei benefici e fare del male allo stesso tempo …? – domandò il giovane prete dopo qualche minuto.
- Oh, padre. Non avete ancora imparato nulla da quando siete qui? – gli domandò Blake in un finto rimprovero, per poi continuare. – L’Occhio di Tigre è divenuto famoso in poco tempo qui a Bliaint, nonostante sia stato scoperto relativamente da poco – disse indicando una splendida pietra di un giallo intenso, con alcune “macchie” più scure sulla superficie, una distinta caratteristica che ricordava un occhio felino illuminato dal sole, giustificandone il nome. - Le streghe lo ritengono un amuleto di protezione molto potente per tenere lontano il malocchio e le cattive influenze – lo informò il ragazzo, con un tono simile a quello usato dalle balie per spaventare bonariamente i bambini prima di farli addormentare.
- Voi credete non sia così? – a padre Craig venne spontaneo domandarlo.
- Non ho avuto modo di sperimentarlo.
- Se non sperimentate di persona, non credete a ciò che sentite dire?
- Dipende, ma, per la maggior parte, no, non lo credo – confermò il ragazzo, cercando con gli occhi un altro cristallo da esporre.
- E quello? – domandò padre Craig indicando un determinato cristallo, ipnotizzato dal colore più brillante e pigmentato degli altri, un viola molto particolare a tratti scuro e a tratti chiaro.
Blake sorrise. – Non conoscete l’Ametista?
- Credo di averne solo sentito parlare. Non me lo aspettavo così bello – ammise il giovane prete, placando il desiderio di allungare la mano e sentirne la consistenza tra le proprie dita.
- Volete conoscere i poteri superstiziosi anche dell’Ametista?
Padre Craig annuì.
- Si dice risvegli la consapevolezza di una dimensione spirituale, accrescendo la conoscenza di una realtà al di là della materia. In campo pratico è usato come calmante, per alleviare gli incubi e i forti mal di testa.
- Allora, forse, non è un caso che io sia stato attirato proprio da quello.
Padre Craig ne era certo: Dio era con lui, in quel momento più che mai.
 
 La donna bussò ferocemente sulla porta della casa in fondo al bosco, nascosta dietro una grotta.
Le dita le tremavano per la rabbia vorace mentre bussava, ribussava, e si stringeva nel suo mantello cobalto umido di pioggia.
Dopo la quarta volta in cui bussò, la porta della grande casa in legno si aprì, rivelando la figura di un giovane e attraente uomo dagli occhi color sabbia e i capelli ramati legati indietro con una grande spilla accuratamente scolpita nella pietra. Egli la guardò con sguardo neutro, in attesa, rimanendo sullo stipite della porta.
A ciò, dopo qualche minuto in cui la rabbia della donna non fece altro che ribollire ulteriormente, ella gli rivolse parole. – Sono una serva del Diavolo, fatemi entrare.
- Ne sono consapevole, la vostra avvenenza non mente. Per quale motivo siete qui? Chi vi ha detto dove trovarci?
- I pochi intimi e fidati che vi supportano.
Ho bisogno di lanciare la fattucchieria dell’odio su una persona.
A tali parole, gli occhi gelidi del giovane uomo si animarono un po’.
Egli si guardò velocemente intorno e le permise di entrare, per poi richiudere la porta a chiave dietro di sé.
La casa era immensa e ben illuminata da centinaia di candele, colma di stanze e di ogni sorta di cristallo, intruglio, erba, pietra e altro strumento utile alla pratica della magia nera.
Oltre a loro due, anche altre presenze si aggiravano per la suggestionante abitazione, per lo più giovani donne e giovani uomini, tutti servitori del Diavolo.
- Qual è il nome della persona su cui volete lanciare la fattura? – domandò improvvisamente il giovane uomo alla donna che aveva appena fatto entrare.
- Benneit River, mio marito – rispose ella senza un briciolo di esitazione, aspetto che venne notato dal suo interlocutore, il quale continuò a guardarla atono.
- Beitris, falla accomodare – si decise il giovane, rivolgendosi alla ragazza corvina che trafficava con alcune boccette a qualche metro di distanza.
Questa obbedì, accompagnando la donna al tavolo vuoto in fondo alla stanza e facendola sedere.
- Conoscete i pericoli che correte e che corre la persona colpita da tale fattura, non è vero? – le domandò il giovane ponendosi dall’altro lato del tavolo, ma senza sedersi.
- Sarà preda di odio ingiustificato, non avrà tregua, né durante la veglia, né durante il sonno, venendo ripagato in tal modo di tutto il male che ha inferto – rispose ella con decisione.
- Questa non è una fattura da lanciare per una futile vendetta o un rimorso.
- Egli ha picchiato nostra figlia fino a romperle una gamba – gli rispose ella con voce tremante.
- Sapete anche che non posso farlo io per voi? Deve essere la persona da cui proviene tutto l’odio a mandarla, dunque sarete voi.
- Va bene, Lo farò.
- Se non siete del tutto convinta di ciò che state facendo, la fattura non andrà a buon fine e ricadrà direttamente su di voi.
- Non sono mai stata così convinta di qualcosa in tutta la mia vita. Voglio farlo.
- Bene – disse egli prendendo posto nella sedia di fronte a lei. – Avete mai fatto uso della magia, prima d’ora?
- Sì, talvolta.
- In che occasioni?
- Filtri per dormire, per alleviare dolori e curare malanni.
Tali parole provocarono l’ilarità del giovane stregone. – Quella è magia bianca. Io sto parlando della magia nera.
- No, mai.
- Sapete che tutto ciò ha un costo. Avete con voi del denaro o qualcos’altro degno della nostra attenzione?
- Ho qualcosa di meglio del denaro – disse ella tirando fuori una piccola sacca dal vestito e avvicinandola al giovane stregone. – Sono tutti i dentini caduti a mia figlia. Li conserviamo ogni volta che ne cade uno.
- Denti da latte? – domandò il giovane con sorpresa, reazione che mostrarono anche tutti gli altri presenti nella stanza, voltandosi verso di loro come gatti attirati da un rumore ipnotico.
- Sì – confermò ella, facendo brillare ancor di più gli occhi del giovane stregone di fronte a lei, il quale prese il sacchettino e lo infilò nella tasca della sua lunga casacca. Dopo di che, si rialzò in piedi e si diresse verso dei punti della stanza in particolare, rimboccandosi le maniche, scoprendo in tal modo gli avambracci coperti di bracciali e con dei caratteristici segni di inchiostro nero incisi sulla pelle.
Quando ebbe recuperato tutto ciò che gli serviva, il giovane stregone tornò al tavolo, riprendendo posto sulla sedia e poggiando ciò che aveva preso dinnanzi agli occhi della donna.
- Vi fornirò i materiali e vi spiegherò dettagliatamente cosa fare, ma dovete farlo altrove.
Trovate un posto isolato nel bosco, con un pozzo, e una volta trovato, sistematevi lì.
Con la cera vergine che vi ho fornito, plasmate una figura che impersonifichi l’uomo in questione; dopo di che bagnatela con l’acqua del pozzo, cospargetela di polvere di assafetida e di zolfo e incidete sul suo corpo, con la lancetta dell’Arte che vi ho dato, le seguenti parole: “Usore, Delapidatore, Tentatore, Sognatore, Divoratore, Concitore e Seduttore”. Dopo di che, invocate: “Spiriti infernali, vi scongiuro e vi comando di mettere al mio servizio le vostre diverse qualità per tentare, tormentare, straziare e fare odiare Benneit River, a cui ho dedicato questa figura. Penetrate ciascuno nel suo corpo, scatenate le vostre arti diaboliche, non dategli né pace né tregua, non lo lasciate dormire, tormentatelo con incubi e tremende visioni fino a quando io sia stata vendicata del male sofferto per causa sua. E questo maleficio duri fino a quando deciderà la mia volontà.” Solitamente gli incantesimi di magia nera vanno pronunciati nella lingua del Diavolo ma, dato che non siete una strega, potete utilizzare la lingua comune.
Beitris, avendo scritto tutto ciò su un foglio di pergamena, lo consegnò alla donna.
- Quando e se vorrete distruggere la fattucchieria, prendete il pupazzo di cera, bagnatelo con acqua limpida di ruscello e invocate gli spiriti chiedendo loro di annullare la fattura, per poi buttarlo nelle fiamme e attendere che bruci.
Ad ogni modo, nascondetelo in un luogo all’oscuro della casa, dove nessuno possa trovarlo: guardarlo troppo è pericoloso – si raccomandò infine il giovane stregone, vedendo la donna afferrare tutti i materiali ricevuti a disposizione, compresa la pergamena, e alzarsi in piedi, con sguardo grato.
– Vi ringrazio. Il vostro nome, signore? – gli domandò prima di venire accompagnata alla porta.
- Io non ho chiesto il vostro. Potete continuare a vivere benissimo senza conoscere il mio – le rispose accennandole un sorriso di cortesia e vedendola andarsene.
Rimasti soli, Beitris si avvicinò al giovane stregone. – Devono smettere di arrivarne così tanti – gli disse lievemente allarmata. – Di questo passo, verremo scoperti e ci bruceranno tutti al rogo.
- Non facciamo nulla di male. Finché non giungerà alla nostra porta un servitore del Creatore, non dovremo preoccuparci – le rispose egli per nulla allarmato.
- Ephram, oramai le esecuzioni sono aumentate a dismisura. I monaci non sono più accomodanti come un tempo quando si tratta di magia nera. Molti più incantesimi vengono considerati troppo “eccessivi”.
- Si tratta di giudizi meramente soggettivi, Beitris. Tutto ciò che dobbiamo fare è scoprire chi è che muove le fila all’interno delle cattedrali, persuadendo gli altri quando si tratta di condannare al rogo chiunque capiti loro sottotiro.
- Loro credono che siamo del culto di Bernadette Livian, ne sono sicura.
A tali parole, Ephram si voltò a guardarla come se ella avesse pronunciato la più ignobile delle menzogne. – Non esiste un culto di Bernadette Livian. Quella donna era solo tremendamente confusa e inesperta quando ha fatto ciò che ha fatto, uno sfortunato connubio di fattori che le è costato il rogo.
- Però loro non lo sanno e credono che vi sia un credo che segue le sue orme, che sfrutta gli antichi doni offertici dal nostro Signore appropriandosene sovversivamente e senza vergogna, sfidando sia il Creatore che il Diavolo.
- Non hanno prove per accusarci di mancare rispetto al nostro Signore, Beitris.
Quello che facciamo qui è dare aiuto alle persone e di certo non smetteremo di farlo perché qualche monaco folle con le manie di persecuzione ha deciso di fare piazza pulita dei servitori del Diavolo.
Noi siamo la maggioranza. Non posso combatterci – sostenne convinto il giovane stregone.
- Spero vivamente tu abbia ragione, Ephram.
In quel momento, qualcun altro bussò alla loro porta.
- Aspetto qualcuno – lo informò Beitris, andando ad aprire e trovandosi davanti la figura incappucciata e umida di pioggia di padre Craig.
Ella gli sorriso provocatoria, notando l’evidente disagio del prete nel trovarsi in quel luogo.
- Baciatevi pure il vostro crocefisso o qualsiasi altro gingillo avete con voi, padre, se ciò può rassicurarvi. Tengo comunque a ripetervi che mettere piede qui dentro non vi renderà un impudente peccatore – gli disse facendogli segno di entrare.
Quando padre Craig entrò, Ephram aveva già raggiunto una delle altre stanze della casa, lasciandoli soli.
Il giovane prete osservò timidamente l’ambiente intorno a lui, ben illuminato dall’ingente presenza di candele. – Ho seguito le vostre indicazioni – le disse dopo infiniti minuti. – Sono riuscito a trovare la strada, nonostante temevo di perdermi nel bosco.
- Ho notato – rispose ella divertita, facendogli segno di sedersi.
Egli obbedì. – Siamo soli?
- Nessuno ci disturberà, padre – rispose accomodandosi a sua volta. – Dunque?
A ciò, padre Craig tirò fuori il suo taccuino dalla tasca della tunica, lo aprì sull’ultima pagina e la mostrò alla ragazza, la quale iniziò a leggere con attenzione.
- Anche voi sapete leggere? – le domandò padre Craig, pur sapendo già la risposta.
- Per praticare la magia nera è molto utile saper leggere e scrivere, padre – rispose ella terminando di leggere. – Interessante. – disse poi. – La prossima volta continuate a chiedergli di altri nuovi cristalli.
- Se avessi continuato a fargli domande a riguardo, avrebbe sospettato qualcosa. Conoscete Blake. Nei prossimi giorni vi porterò altre informazioni, ve lo garantisco.
Se mi permettete, in realtà, vorrei farvi una domanda, Beitris.
- Vi ascolto.
- Se siete in stretti rapporti con Blake, per quale motivo non chiedete voi stessa informazioni riguardo i cristalli?
- Blake sa della compagnia di cui faccio parte, padre, ed è sempre rimasto indifferente a tutto ciò. Non è intenzionato né ad aiutarci, né ad ostacolarci. Se mi presentassi dinnanzi a lui e cominciassi a fargli domande sui nuovi cristalli scoperti, non credete capirebbe immediatamente quale sia il mio intento? – rispose con ovvietà la ragazza.
- Capisco.
- Ora immagino pretendiate un pizzico della vostra ricompensa.
Padre Craig si illuminò a quelle parole, guardandola speranzoso. – Conoscete un modo per …?
- No, padre – lo interruppe lei. – Vi ho già detto che nessuno serba ricordi di quella notte. Tuttavia, potrei comunque avere qualcosa per voi – disse la ragazza, andando ad aprire una dispensa colma di piccole boccette piene di liquidi. Ne prese una, dopo di che si diresse verso uno scaffale con sopra dei vasetti riempiti da polveri di cristalli. Ne cercò con lo sguardo uno in particolare, facendo vagare i vividi occhi verdi da una parte all’altra, e, quando individuò ciò che voleva, prese anche quello e tornò da padre Craig.
- Tenete – disse porgendogli per prima la boccetta. – Fatene bere una sola goccia alla persona che desiderate, ed ella si addormenterà nell’immediato. Mi raccomando, non più di una goccia.
- Che cos’è? Non voglio far ingerire a nessuno qualcosa che …
- Rilassatevi, padre. Si tratta semplicemente di un concentrato di essenze di valeriana, salice e tiglio. Assicuratevi che la persona in questione sia sdraiata o almeno seduta, mi raccomando – gli disse la ragazza, accennando un sorriso per smorzare la tensione dell’uomo.
- Perché dovrei voler far addormentare le persone a me care?
- Per spalmare sui palmi delle loro mani questo, senza che se ne accorgano – rispose al suo quesito ella, posandogli tra le mani l’altro vasetto, contente un misto di due polveri, una giallo limone e l’altra borgogna.
- A cosa serve?
- Il brivido che avete provato toccando me l’altra mattina è molto raro, e spesso non è un indice sicuro di cui fidarsi. Questo metodo che vi esporrò, invece, vi darà delle reali certezze: dovete sapere, padre, che la parte del nostro corpo in cui è contenuta l’essenza del corpo stesso, sono proprio le sedi prime del tatto: le mani – spiegò Beitris accarezzando con le dita i palmi del giovane prete. - Le mani serbano i ricordi che il nostro corpo dimentica, poiché, quando tocchiamo con le mani, il nostro tatto è amplificato in potenza, rispetto al resto del corpo. Ovviamente, il potere delle mani non va oltre ciò: spalmando queste polveri sui palmi della persona in questione, potrete solamente scoprire se colui o colei che ha abitato il vostro corpo quella notte, l’ha usato per toccare la suddetta persona, null’altro. I cristalli da cui sono ricavate queste polveri possono rivelare chi ha toccato il corpo su cui vengono spalmate, solo quando questo era incosciente e solo nei giorni precedenti. Sapete quando si è incoscienti, padre?
- Durante il sonno, quando si perde i sensi e …
- E quando un’altra mente abita il nostro corpo.
Se, poggiando i vostri palmi su quelli impregnati delle polveri della persona che vi interessa, sentirete pizzicare le mani, allora vorrà dire che il vostro corpo è entrato in contatto con il suo quella notte; se il pizzicore dovesse essere tanto forte da divenire dolore, significa che siete entrati in contatto in maniera violenta.
- Mi interessa sapere che utilizzo è stato fatto del mio corpo da altri quella notte … tuttavia, mi interessa maggiormente sapere cosa ho fatto io, cosa ho commesso quando ho abitato il corpo di qualcun altro.
- Volete violare il mondo dei ricordi rimossi, padre?
Recuperare dei ricordi che non possedete più è l’unico modo per sapere cosa avete fatto nel corpo di qualcun altro. Vi sono molti modi per far ritornare alla mente degli stralci di vissuto che abbiamo dimenticato: oggetti familiari, rivivere delle situazioni particolari, ma, soprattutto, i profumi.
- I profumi?
- Il profumo è la sede della memoria. È l’olfatto a carpire tutte le informazioni che la nostra mente immagazzina, senza che noi ce ne accorgiamo.
Ricordate l’odore delle persone che avete conosciuto a Bliaint, padre?
- Vagamente. Non hanno un odore tanto forte.
- Non serve che abbiano un odore forte o che lo ricordiate dettagliatamente. Il vostro naso lo ha già fatto per voi.
- Non mi sono mai avvicinato così tanto a qualcuno da riuscire a sentire distintamente l’odore della sua pelle – ammise il giovane prete, quasi più a se stesso che alla ragazza.
A ciò, ella gli sorrise intenerita. – Se il vostro olfatto riconoscerà un odore particolare di quella notte, potreste recuperare qualche ricordo. Ma è una ricerca alla cieca.
- D’accordo. Grazie, Beitris.
Tuttavia, dopo questa volta, vorrei non dover più usare la magia sulle persone a cui tengo.
A tali parole, Beitris gli posò una mano sulla guancia. – Sarete costretto a farlo, padre. Altrimenti, non otterrete nulla di ciò che desiderate.
 
Quella sera, i lavoratori avevano continuato a scavare nella galleria per ore e ore, senza pause.
Rolland aveva dato loro il compito di trovare del rame prima del giorno seguente, dato che ne erano ormai a corto da diverse settimane.
Blake li aveva raggiunti nel tardo pomeriggio, aiutando nelle ricerche e trascrivendo, come era solito fare, la posizione di ogni pietra e cristallo che meritavano di essere menzionati, lungo gli scavi.
Erano oramai tutti troppo stanchi e spossati, e gli effetti dell’aria irrespirabile si stavano facendo sentire sulla vista e sulla respirazione.
- Dovremmo terminare qui per oggi – aveva suggerito uno degli scavatori ai suoi compagni, rivolgendosi a Blake in particolare. – Perderemo i sensi qui dentro se continuiamo. Non vi è nessuna traccia di rame, Blake, avete visto anche voi. Vostro padre dovrà fornirci un altro giorno di tempo.
- Lo so bene. Consiglio anche io di ritirarci ora. Non preoccupatevi per mio padre, a lui penserò io.
Gli altri annuirono sollevati, cominciando ad avviarsi verso l’uscita.
Tuttavia, d’un tratto, si udì uno strano rumore, come un urlo distante.
Blake arrestò immediatamente il cammino. – Avete udito? – domandò agli uomini che erano poco più avanti a lui.
Anche loro si accorsero dell’urlo quasi inumano, il quale sembrò divenire più persistente con il passar del tempo. – Proviene dall’esterno …? – domandò uno di loro.
- Non sembra provenire dall’esterno … Forse è la mente che ci gioca brutti scherzi – aggiunse un altro.
Blake ritornò sui suoi passi riaddentrandosi nella galleria, cercando di avvicinarsi a quella voce, per capire da dove provenisse.
- Blake, avete bisogno di aria pulita anche voi! Lasciate stare! – cercò di farlo demordere uno degli scavatori, alzando la voce per farsi udire a distanza.
- Voi andate! Io vi raggiungerò a breve!
- Ne siete sicuro?
- Sicuro! Andate! – rispose il ragazzo, continuando ad addentrarsi, seguendo il suo istinto e il suo udito nell’imboccare le varie direzioni di quel labirinto sottoterra.
Sentiva quell’urlo sempre più vicino, tanto da riuscire a comprendere le parole gridate:
“La vita non è dei viventi
La vita non è dei viventi
La vita non è dei viventi”
La voce inumana ripeteva quelle parole come se non ne conoscesse nessun’altra, richiamandolo a sé.
La curiosità ebbe la meglio sul primogenito di Rolland, il quale, non appena sentì quel richiamo abbastanza vicino da collocarlo sopra la sua testa, comprese che, chiunque o qualunque cosa stesse emettendo quel suono, fosse sepolta.
A ciò, cominciò a scavare dal basso verso l’alto, con la foga e la necessità della scoperta a corrodergli le vene, spostando ammassi di terra che gli finirono sul volto, sui capelli e dentro i vestiti, rischiando di venire sepolto vivo a sua volta.
Scavò, scavò, scavò per quasi un’ora intera, facendosi sanguinare le unghie e le mani, arrivando a doversi arrampicare nell’enorme buco scavato, per infilarcisi con l’intero corpo e continuare a scavare.
Poi, finalmente, afferrò qualcosa, la fonte di quella voce, ora affievolitasi.
Rinsaldò la presa e sradicò la radice della pianta, trascinandola verso il basso, verso di sé.
Blake la osservò, incurante della mancanza d’aria che gli aveva provocato una tosse secca e costante, incurante del sangue che gli colava dalle dita.
- Una mandragora …? – sussurrò meravigliato, continuando ad osservarla, quasi non credendo ai suoi stessi occhi, mentre la radice umanoide persisteva nel pronunciare sempre la stessa frase.
- La vita è solo dei viventi.
Non appena Blake disse ciò, la mandragora si ammutolì totalmente, non emettendo più alcun suono.
 
 
 

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Capitolo 9
*** Sacrificio ***


Sacrificio
 
- Avete detto che non avete avuto sangue questo mese? – domandò la levatrice a Judith, continuandole a palpare il basso ventre con mani esperte, mentre la ragazza era sdraiata sul suo giaciglio.
- Esatto.
- E vi sentite strana? Riuscite ad essere più precisa?
- Avverto delle forti nausee, talvolta, e dei capogiri.
La donna continuò a palpare, con sguardo serio, mentre padre Cliamon, in piedi accanto al letto, cercava di decifrare il suo sguardo.
- Non vi è alcun dubbio – sentenziò la levatrice. – Una vita ha cominciato a crescere dentro di voi.
- Non può essere – rispose categorica Judith. – Ve l’ho già detto: non ho avuto alcun rapporto sessuale.
- Eppure è così, mia cara. I sintomi sono chiari. Siete sicura di non aver giaciuto con nessuno ultimamente?
Judith sgranò gli occhi a tale domanda. – Non credete che me lo ricorderei se qualcuno avesse … ?
- Quel ragazzo con il quale sei entrata in confidenza, quello che hai accompagnato qui la scorsa mattina – la interruppe padre Cliamon.
- Io e Blake non siamo intimi, padre. Non c’è niente tra noi. Vi dico che … - la ragazza si bloccò, nel momento in cui un brivido freddo attraversò la sua schiena al ricordo della nottata di celebrazioni della settimana precedente, o meglio, al “non ricordo”.
Possibile che fosse accaduto davvero …?
Possibile che chiunque avesse abitato il suo corpo quella notte, si fosse spinto a tanto?
 Non era così strano, d’altronde. Avrebbe dovuto prevederlo, o almeno sospettare una cosa simile.
Tuttavia, la possibilità che fosse rimasta gravida quella notte, le sembrava così remota da non averla neanche tenuta in considerazione.
Se solo fosse riuscita a scoprire il responsabile di tutto ciò, l’avrebbe ucciso a mani nude …
- Cara? – fu la voce e la mano amorevole di padre Cliamon sulla spalla a riportarla alla realtà. – Cosa intendi fare?
Se Judith gli avesse detto davvero cosa volesse fare, sarebbe stata arsa al rogo l’indomani stesso e neanche padre Cliamon l’avrebbe potuta salvare da ciò, poiché il concepimento di una nuova vita era l’atto più sacro in assoluto sia per il Diavolo che per il Creatore e chiunque rinunciasse a ciò, impedendo al bambino di nascere, meritava l’esecuzione capitale senza alcun appello, né possibilità di parola.
Il Signore non l’avrebbe mai perdonata.
Eppure, sin da piccola aveva vissuto con la convinzione di poter scampare a tutto ciò, dopo che madre Riven le aveva detto quelle parole, una delle infinite notti in cui la fame di padre Ilian si era cibata del suo corpo ancora troppo acerbo.
Quel pensiero continuò a girovagarle in testa impazzito, fin quando non gli diede modo di venire espresso. – Levatrice? – richiamò la sua attenzione. – Potete controllare anche là sotto? – le chiese indicando la propria intimità coperta dal tessuto dell’abito. – Sono stata violata ripetute volte da bambina. Mi era stato detto che non avrei mai potuto mettere al mondo dei figli a causa di ciò – spiegò.
A ciò, padre Cliamon si accinse ad uscire dalla stanza per dare modo alla levatrice di fare ciò che Judith le aveva chiesto.
La donna alzò la lunga gonna della ragazza e abbassò la testa, avvicinandola al suo inguine, aiutandosi con le mani per controllare più accuratamente.
Quando ebbe finito, Judith la guardò negli occhi, leggendo nel suo colorito sbiancato che ciò che stava per dirle non promettesse nulla di buono. – Se il bambino dovesse sopravvivere … il parto che dovrete affrontare sarà tremendamente doloroso, Judith. Il più doloroso della storia di Bliaint. Le possibilità che voi e il bambino sopravviviate entrambi sono praticamente nulle.
Schietta, per non darle false speranze, indelicata, proprio come Judith avrebbe voluto.
La ragazza la guardò per un po’, mentre la sua mente viaggiava nel vuoto, muovendosi rimanendo ferma, in un buco nero che la racchiudeva ogniqualvolta voleva isolarsi dalla vita che era costretta a vivere, per  dono del Signore.
Dopo qualche minuto, schiuse le labbra per dar fiato alla bocca. – Bene. Vi ringrazio. Potete andare.
 
Naren attese che l’oggetto dei suoi pensieri si presentasse, seduto in fondo alla navata della cattedrale, con le mani leggermente tremanti.
Quando la vide raggiungerlo, non poté fare a meno di ammirarla, come sempre, come avrebbe voluto fare fino alla fine dei suoi giorni.
- Non guardarmi in quel modo, Naren. Non ti ho detto di venire qui per riappacificarci.
- Non potrei guardarti in nessun altro modo, Arley.
Judith si sedette di fianco a lui, cercando di attirare l’attenzione il meno possibile.  
- Voglio sapere cosa è accaduto quella notte.
A tali parole, il ragazzo impietrì. – Cosa...? Fino a qualche giorno fa tu … Perché ora vuoi saperlo?
- Cos’è, ora non vuoi più dirmelo? Mi hai letteralmente supplicato di permetterti di dirmi cosa è accaduto quella notte, per alleggerire la tua coscienza da qualsiasi peccato credi di aver commesso, ed ora hai improvvisamente cambiato idea?
- Perché vuoi saperlo, Judith …?
- Ciò non ti riguarda. Ti sto chiedendo di dirmelo. È un’occasione che potrebbe non ripetersi – disse gelida.
- Io … non ci riesco. Credevo di poterlo fare, ma …
Judith si voltò a guardarlo, fulminandolo. – Dunque è un no??
- Perché ora è così importante per te? Ti prego, Arley, parlami … - la supplicò prendendole la mano e stringendola nella sua, facendola tremare.
Percependo i brividi della ragazza, Naren si rincuorò, sorridendo come un bambino. – Allora provi ancora qualcosa per me … Arley, io avevo quasi perso le speranze … - sussurrò guardandosi intorno, facendo attenzione che nessun monaco li stesse osservando. – Ricordi quando ci siamo conosciuti? Lo ricordi, amore mio?
La ragazza sfilò la mano dalla sua e si rialzò tempestivamente in piedi. – Ti credevo davvero diverso, Van. Non hai fatto altro che confermare quanto mi fossi sbagliata – concluse dandogli le spalle e allontanandosi.
 
Ripulita da tutta la terra che la avvolgeva, la pianta con la grossa radice dalla tremenda forma umanoide era poggiata in bella vista sul tavolino della stanza da letto di Blake.
Era stato un puro caso che padre Craig avesse bussato alla porta del ragazzo per avvertirlo di aver preparato la colazione quella mattina, e che l’avesse trovata socchiusa.
Il giovane prete era entrato con l’intenzione di svegliare Blake, scoprendo che il ragazzo non fosse nella stanza, ma che, al suo posto, sul tavolino si stagliava quell’orrenda pianta che sperava e credeva di non vedere mai più.
E, invece eccola lì, nonostante l’incantesimo lanciato da Beitris, proprio dinnanzi a lui.
Il sangue del giovane prete si era congelato all’istante.
- Ora avete iniziato a curiosare nella mia stanza?
La voce di Blake proveniente dal ciglio della porta aperta, lo spaventò quasi, facendolo voltare verso di lui.
Il ragazzo non mostrava uno sguardo adirato o seccato dalla sua intrusione, bensì divertito.
Blake si affiancò a lui, cominciando a guardare la mandragora a sua volta.
- L’ho trovata sepolta nel terreno della galleria, parecchio in superficie, difatti ho dovuto scavare molto per riuscire a prenderla.
- Avete scavato … da sotto?
- Beh, sì, ero dentro la galleria quando l’ho sentita.
In quel momento, fu chiaro a padre Craig per quale motivo Blake fosse riuscito a sradicare la mandragora, non rompendosi neanche un braccio nell’intento, nonostante l’incantesimo.
Beitris aveva escluso una tale ipotesi poiché la pianta era sepolta troppo in superficie per essere raggiunta da uno degli scavatori.
Allora, come …?
In quel momento, gli occhi di padre Craig si posarono sulle dita fasciate del ragazzo. – Cosa avete fatto alle mani?
- Come vi ho già detto, ho dovuto scavare parecchio per riuscire a prenderla.
- Ma come sapevate fosse lì? Come siete riuscito a …?
- Ho sentito una voce. Una voce provenire dalla pianta.
-  Una voce? E cosa diceva?
- “La vita non è dei viventi”. Non sorprendetevi troppo di ciò, padre. Le mandragore sono molto care a streghe e stregoni – la naturalezza con la quale Blake parlava era debilitante per padre Craig, in una situazione come quella.
- Allora perché vi siete adoperato tanto per prenderla? Voi non siete uno stregone. Potevate lasciarla lì dov’era.
- Parlate sul serio?? – gli disse Blake, quasi sconcertato da quelle parole. – La mandragora è una pianta molto rara, con innumerevoli proprietà benefiche per l’organismo, se assunta nel modo giusto e nelle dosi adeguate. Non ne avevo mai trovata una, né tanto meno provata. Avete la vaga idea di quanti usi proficui potrò farne?
- Parlate di Ioan? – era una domanda scontata da porre a Blake, una domanda che non necessitava di una risposta. – Quali particolari proprietà benefiche possiede? – continuò, senza attendere che egli rispondesse.
- Oltre a quello più conosciuto di conciliare un sonno duraturo e tranquillo, è in grado di alleviare i mali del corpo come febbre, tosse, vomito e molti altri. Inoltre si dice che qualcuno sia anche riuscito a curare la sterilità grazie a lei.
Se dosata e somministrata nel modo giusto, può indurre in uno stato di incoscienza simile alla morte per un certo tempo, senza provocare danni al corpo o alla mente.
- Simile alla morte …? – domandò il giovane prete incuriosito.
- Uno stato in cui la mente non percepisce neanche i dolori più forti che il suo corpo sta soffrendo.
Raggiunge la totale calma, un’estraniazione quasi inumana.
- Come lo sapete?
- È testimoniato in alcuni scritti.
- Da stregoni?
- No, padre. State dando troppo per scontato che in questo villaggio solo coloro che utilizzano la magia siano in grado di fare qualcosa di significativo.
Padre Craig accettò quel necessario rimprovero e tornò con gli occhi sulla radice, allungando la mano per toccarla.
- Che intenzioni avete? Volete assaggiarne un pezzo come fosse una carota appena raccolta? – lo bloccò Blake. – La mandragora è anche molto pericolosa.
Va maneggiata con cura.
- Pericolosa?
- Viene usata anche come veleno. È in grado di provocare forti tremori, tremende allucinazioni, di bloccare la respirazione, di ridurre il vostro stomaco in poltiglia, e, in grandi quantità, morte certa.
Il giovane prete si pietrificò, ritirando subito la mano.
- Come avete intenzione di somministrarla a vostro fratello, dunque?
- Vi sono delle testimonianze scritte anche per questo, non preoccupatevi. In ogni caso, sperimenterò anche su di me per valutare i rischi.
- Su di voi?? Blake, non credete sia meglio riportarla dove l’avete trovata? Insomma, per quale assurdo motivo una pianta così rara e introvabile è comparsa improvvisamente sopra il terreno di proprietà della galleria? Non vi sembra strano?
- Non ne ho la minima idea, padre, ma ciò non mi riguarda.
Perché vi agitate tanto?
- Perché è pericolosa, come avete appena detto!
- Dunque? Tutti medicinali hanno degli effetti negativi.
Qualsiasi cosa, se utilizzata senza giudizio, diviene pericolosa.
Da qualche parte si dovrà pur iniziare, non credete?
Non sapendo più cos’altro inventarsi, già tremando per la reazione di Beitris nello scoprire che Blake avesse sradicato la sua mandragora, padre Craig fece il suo ultimo tentativo. – Come avete fatto a non morire per il suo urlo sradicandola …? Non vi sembra strano?
Blake vi pensò un po’ su. – Sì, me ne sono accorto, sul momento. Credo mi sia andata bene: sicuramente non ha emesso il suo “urlo mortifero” perché lo ha già emesso una volta. L’unica spiegazione è che sia già stata sradicata e già qualcun altro ne abbia pagato le conseguenze, di certo non colui o colei che l’ha seppellita nel terreno della galleria.
- Credete possegga ancora le sue proprietà nonostante sia “morta”?
- Non ne sono certo, ma lo scoprirò presto.
Dinnanzi alla ferrea fermezza del ragazzo, il giovane prete non poté far altro che adeguarsi e accettare la sua decisione, inghiottendo il groppo amaro che aveva in gola.
Sapeva di essere oramai “l’informatore” di Beitris.
Ella si aspettava che le dicesse tutto ciò che vedeva e sentiva in quella casa, che potesse interessarle in qualche modo.
Tuttavia, Blake si era già messo in pericolo con le sue stesse mani, rendendosi enormemente esposto, e, di certo, padre Craig non lo avrebbe mai spinto maggiormente verso le fauci dei leoni.
Avrebbe dovuto fare attenzione, molta attenzione a fare in modo che la questione della mandragora non uscisse da quella casa, restando tra lui e Blake, per proteggere quest’ultimo, o, almeno, tentare di farlo.
- Dovete farmi una promessa, però – disse il giovane padre in tono insolitamente serio e determinato, tanto da sorprendere il ragazzo.
- Certo, vi ascolto.
- Non dovete rivelare a nessuno di aver trovato una mandragora.
A tale richiesta, Blake sorrise perplesso. – Non credete di star un po’ esagerando, padre? Non ho trovato l’elisir di lunga vita o il portale per entrare o uscire illeso dall’aldilà. È solo una mandragora.
- L’avete detto voi stesso che è quasi introvabile. Dunque, se la voce dovesse spargersi, potreste ricevere delle visite indesiderate.
Vi prego, Blake, promettetemelo.
- D’accordo, non angustiatevi. Lo prometto.
- Bene – concluse padre Craig, rincuorato.
- Vi vedo particolarmente stanco e affranto, padre.
- Oh, no, è solo una vostra impressione. Piuttosto, negli scorsi giorni mi avete mostrato ogni angolo del villaggio, facendomi acquisire una conoscenza invidiabile di Bliaint, per uno sconosciuto. Vi è rimasto qualche luogo che volete mostrarmi?
Blake vi pensò su, mentre riavvolgeva la mandragora nel panno e la posizionava dentro un cassetto, chiusa a chiave. – Forse ne è rimasto uno. Ma non sono del tutto certo vogliate visitarlo, visto e considerato come avete reagito giorni fa, dopo le celebrazioni, accusandomi di avervi corrotto senza alcun motivo logico.
- Mi sono già scusato per quello. Di che luogo state parlando?
Blake sorrise sornione nel rispondergli. – La Taverna.
- La Taverna? Di cosa si tratta?
- Oh, padre, non fatemi credere che non avete mai visto o almeno sentito parlare delle taverne. Ad Armelle non vi è un luogo in cui gli uomini infedeli o i giovani curiosi vanno a svagarsi, bevendo vino serviti da belle donne?
Il viso del giovane prete si imporporò per la vergogna. – Io non … come potete pensare che io frequenti posti simili??
- Non ho detto questo. Ho detto che non credo non ne abbiate mai almeno sentito parlare.
- Beh, vi è una taverna su una stradina poco lontana da Armelle, quindi sì, so di cosa si tratta e posso immaginare cosa viene fatto lì dentro.
- Bene. Allora scegliere se visitarlo o no è a vostra libera scelta, dato che sapete di cosa si tratta – disse il ragazzo infilandosi i suoi stivali e prendendo il suo mantello.
- Dove state andando?
- Mi spiace, padre, ma non potrò farvi da guida nella Taverna oggi, ho già altri impegni.
Sono certo che riuscirete a trovare un altro degno accompagnatore che possa sostituirmi.
- Mi servirà un accompagnatore anche lì?
- Deduco vogliate visitarla, dunque – disse il ragazzo fermandosi sul ciglio della porta, sorridendo nuovamente sorpreso. – Il vostro recente slancio di libertà mi rende fiero di voi, padre.
- Non vi è nessuno slancio di libertà.
- Certo che no.
- Voglio solo conoscere il vostro villaggio nel suo complesso, senza tralasciare nulla.
- Vi sarà sempre qualcosa che vi rimarrà oscuro in questo villaggio, padre: non conoscete neanche un quarto di ciò che cela il bosco e la palude, e non potrete mai visitare le prigioni sotterranee, poiché l’accesso è vietato. Ammettetelo: volete sapere cosa significa anche solo avvicinarvi a sentire cosa sente un uomo comune, senza il peso del vostro abito da portare.
Non verrete punito per questo, lo sapete, infondo.
Il giovane prete abbassò lo sguardo, accettando la sconfitta. – Non farò nulla che possa anche solo lontanamente nuocere il mio voto e il mio rapporto con Dio.
- Non ne avevo dubbi, padre.
Ricordate: guardare non è peccato.
Ora andate, e trascorrete una buona giornata.
 
Quando padre Craig trovò la Taverna, impiegò diversi minuti prima di decidersi ad entrare.
L’assenza di Blake lo disturbava e lo disorientava, nonostante avesse già avuto modo di addentrarsi in diversi luoghi senza di lui. Era stato combattuto fino all’ultimo nel recarsi da Judith e chiedere a lei di accompagnarlo, ma aveva deciso di lasciar perdere e di non disturbarla per così poco.
Baciò il suo crocefisso, lo rinfilò dentro la tunica ed entrò.
Improvvisamente, un acre odore di vino e di spezie gli invase le narici.
Tra i clienti della Taverna, molti visi già visti apparvero ai suoi occhi, quasi tutti dei servi del Creatore.
Come sospettava e gli aveva anticipato Blake, vi erano decine di locandiere a servire da bere alla clientela, tutte, ovviamente, servitrici del Diavolo.
La prima domanda che si pose padre Craig riguardò il come fosse possibile tutto ciò, dato che i rapporti tra membri di credi diversi erano condannabili con il rogo.
Una valanga di domande invase la mente del giovane prete, il quale, senza pensare, si recò al bancone della Taverna.
- È la prima volta che uno con il vostro abito mette piede qui dentro – lo riscosse la voce forte e vivace della bellissima locandiera che si trovò davanti, dall’altra parte del bancone. – Che cosa siete venuto a fare, monaco straniero?
- Come avete fatto a capire che fossi straniero?
- Qui a Bliaint non si vedono mai stranieri, e quei pochi che arrivano, si riconoscono subito – rispose un’altra locandiera, molto più giovane dell’altra. – Nel nostro villaggio regnano solo gli estremi. Se vediamo qualcuno che non corrisponde né ad un estremo, né all’altro, capiamo subito che non è un abitante di Bliaint – spiegò la ragazza riempendo un boccale di vino. – Sta di fatto che è molto raro vedere un uomo di Dio nella Taverna.
- Sono qui solo per bere qualcosa.
A tale risposta di padre Craig, le due scoppiarono entrambe in una risata. – D’accordo allora! Posso portarvi un boccale di vino, padre …?
- Craig, padre Craig. Sì, grazie, il più leggero che avete.
- Sarà fatto – rispose sorridendo provocatoria la più matura delle due.
A ciò, il giovane prete andò a sedersi sul primo tavolo in cui intravide una delle sedie lasciate vuote.
A consumare silenziosamente e con lo sguardo basso un boccale di vino, seduto allo stesso tavolo, vi era un giovane servo del Creatore.
Egli non era minimamente interessato a nessuna delle splendide locandiere che gli gironzolavano intorno, per servire i tavoli. – Buongiorno – provò ad approcciarsi padre Craig, tentando di fare conversazione.
A ciò, come riscuotendosi dai suoi tormentati pensieri, l’interpellato alzò il viso, lasciando il giovane prete attonito nel riconoscere in lui il ragazzo segretamente innamorato di Judith, intravisto amoreggiare con lei notti prima, nella cattedrale.
- Voi … siete il prete straniero giunto qui giorni fa? – azzardò il ragazzo.
- Sì – gli rispose padre Craig, cercando di risultare quanto più naturale possibile. – Mi chiamo Craig.
- Naren. Van Naren – si presentò anche il ragazzo, prendendo un altro sorso dal boccale. – Cosa ci fate qui, padre? Questo posto è solitamente evitato dai monaci.
- Ero interessato a visitarlo, per scopo puramente conoscitivo.
A ciò, Naren lo guardò sorpreso, e nel fare ciò, padre Craig ebbe modo di osservare le profonde occhiaie che solcavano le guance del ragazzo. – State bene …?
- Sì. È solo che, ho come l’impressione di avervi già visto.
- Come mai siete qui, Naren? Non avete ancora una promessa al vostro fianco? – colse la palla al balzo padre Craig, interessato al bene di Judith.
Il ragazzo sorrise amaramente a quella domanda, stringendo il boccale fino a farsi sbiancare le dita. – C’è una donna che amo più di quanto ami me stesso.
Ma le ho fatto del male. Ed ora merito tutta la sua rabbia e la solitudine alla quale mi ha condannato – vi era un sincero dolore nella sua voce, una sofferenza che impietosì padre Craig.
- Lei sa che siete qui?
- Per lei potrei anche essere morto.
- Ecco a voi, monaco straniero – intervenne nuovamente la bellissima locandiera di poco prima, poggiando un boccale di vino davanti al naso di padre Craig. – Il più leggero della dispensa – gli garantì ammiccando sensuale.
Padre Craig inghiottì a vuoto, cercando di non guardarla troppo. – Grazie.
- Alzate pure lo sguardo – lo esortò un’altra incantevole locandiera. – Guardare non è peccato.
Quelle parole già udite e riudite da un voce ben differente, lo riscossero, facendogli alzare lo sguardo sulle donne.
- D’altronde, siamo qui per questo, padre – disse una di loro, per poi allontanarsi insieme all’altra.
- Cosa intendevano dire? – chiese il giovane padre a Naren.
- Non sapete come funziona la Taverna, non è vero? – dedusse il servo del Creatore.
- Me lo stavo giusto chiedendo poco fa. Vedo solo servitori e servitrici del Creatore qui, proprio come voi. Le locandiere sono tutte servitrici del Diavolo. Non è altamente vietato tutto ciò?
- Padre, questo non è un bordello. Non vi sono bordelli a Bliaint, sono considerati sudici e indegni – spiegò Naren. – Nella Taverna vi finiscono tutte le servitrici del Diavolo rimaste orfane, oppure alcune che lo scelgono volontariamente, per la pura vanità di essere guardate e venerate dagli occhi dei clienti.
Le locandiere sono solo locandiere, non prostitute.
Se decidono di intrattenere rapporti intimi con qualcuno, lo fanno solo per loro scelta e non per guadagno. E, ovviamente, possono farlo solo con i servitori o le servitrici del loro stesso credo, il credo del Diavolo.
- Possono intrattenere rapporti anche con le donne …? – chiese attonito il giovane prete.
- I rapporti tra donne e donne e tra uomini e uomini non sono vietati, padre. Ovviamente, coloro che si dilettano in ciò devono essere liberi, non ancora sposati.
- Non ero a conoscenza di ciò. E se ciò dovesse accadere quando sono impegnati?
- Parlate di adulterio? Non nego sia considerato un peccato a tutti gli effetti, certo, ma non è un peccato punibile col rogo.
Molti servitori del Diavolo si sottopongono a riti e incantesimi che comprendono anche delle orge, d’altronde.
Se i due coniugi sono entrambi d’accordo e consenzienti, non vi sono conseguenze.
Altrimenti, parlando di adulterio vero e proprio, la punizione da infliggere al coniuge è scelta dall’uomo o dalla donna vittima del tradimento. Solitamente, si opta per l’amputazione di un arto, come una mano o un piede – espose Naren con naturalezza, bevendo un altro sorso di vino.
- Dunque, tutti questi servi del Creatore sono qui solamente per …
- Guardare – chiarì ogni dubbio il ragazzo. – Guardare non è peccato, padre. Tutti possono guardare e sono qui per farlo. Allietare la vista con qualcosa che possono solo ammirare ma mai possedere, come si trattasse di corpi immateriali – disse Naren osservando i corpi di diverse locandiere distaccatamente, senza alcun desiderio.
- Dunque, le locandiere devono essere tutte serve del Diavolo, per ovvi motivi – lo riscosse padre Craig. – Allora, che fine fanno le orfane servitrici del Creatore?
- Solitamente vengono affidate alla cattedrale e divengono monache.
Padre Craig si guardò ancora intorno, posando lo sguardo su alcune serve del Creatore sedute ai tavoli, intente a bere dai boccali a loro volta. - E gli orfani? – domandò improvvisamente, continuando ad osservare quelle donne, alcune annoiate, altre impegnate a guardare le locandiere con occhi iniettati di amarezza, altri di invidia e ammirazione, raramente di desiderio.
- Mi state chiedendo se vi sono anche dei ragazzi a lavorare in questo posto?
- Sì, la domanda mi sorge spontanea, dato che noto anche la presenza di alcune serve del Creatore nella Taverna. Per quale motivo sarebbero qui, se non per guardare anche loro?
- Nessun servo del Diavolo ha mai lavorato nella Taverna. Gli uomini non sono vanitosi come le donne, e gli orfani che non vengono affidati alla cattedrale, finiscono sempre per trovare un’occupazione differente, autonomamente.
- Dunque, le serve del Creatore che vengono nella Taverna …
- Imparano ad apprezzare i corpi femminili. Credetemi, non è così difficile che accada.
- Tra i clienti vi sono anche servi del Diavolo non ancora sposati che vengono qui per intrattenere rapporti con le locandiere?
- Certo.
D’un tratto, una figura familiare appena entrata nella Taverna attirò l’attenzione di padre Craig.
Ella era incappucciata, tuttavia, i voluminosi ricci scuri che sbucavano dal cappuccio erano inconfondibili per lui. – Heloisa …? – la richiamò allibito, attirando la sua attenzione.
A ciò, la donna sussultò per lo spavento e, scorgendo la figura di padre Craig, abbassò lo sguardo mortificato e fece per andarsene; tuttavia, padre Craig si alzò in piedi, facendo qualche passo verso di lei, con l’intenzione di fermarla. – Heloisa, vi prego, aspettate …
La donna si fermò e, dopo infiniti secondi, si voltò nuovamente verso di lui, decidendosi a raggiungerlo. - Padre, vi prego, non pensate male di me … - fu la prima cosa che gli disse, in accorata supplica.
- Heloisa, va tutto bene, io non penserei mai male di voi. Venite, sedetevi al nostro tavolo – la accompagnò, facendole spazio su una terza sedia, tra lui e Naren.
- Per quale motivo siete qui? – cominciò il giovane prete, senza alcun tono di accusa nella voce.
La donna si torturò le dita spasmodicamente, abbassando lo sguardo. – Non sto in alcun modo tradendo mio marito, padre, voglio che questo sia ben chiaro.
Io sono una donna d’onore, e amo Rolland.
- Lo so, lo so bene.
- A volte vengo qui per … distrarmi. Distrarmi dai miei obblighi, dalla malattia di Ioan, dall’irriverenza di Blake, dalle mie continue e inascoltate preghiere.
Non fraintendetemi, io amo immensamente la mia famiglia e il mio Signore, ma, talvolta, sento la necessità di restare sola e di evadere dalla mia quotidianità, almeno per qualche minuto.
Per questo vengo qui, da sola.
Non lo faccio per divertirmi senza Rolland, non voglio darvi quest’impressione.
- Assolutamente. Riesco a comprendervi, Heloisa – la rassicurò padre Craig, accennandole un sorriso.
- E voi? Non mi sarei mai aspettata di trovarvi qui, padre. Mio figlio non è con voi?
- Ero curioso di visitare i luoghi che non ho ancora conosciuto di questo villaggio, per comprenderne meglio la storia. Blake non ha potuto accompagnarmi, aveva da fare.
- Da fare? – domandò già allarmata Heloisa. – Cosa doveva fare? Ve lo ha detto?
- Calmatevi, Heloisa, ve ne prego – la esortò il giovane prete poggiandole una mano sulla spalla. – Stargli costantemente addosso in questo modo non vi porterà a nulla e peggiorerà solo le cose – le disse, schietto.
A ciò, la donna lo guardò combattuta, cercando di placarsi. – Mi dispiace di reagire in questo modo, padre. So di dover imparare ad accettare di non poter controllare tutto, tanto meno Blake.
Tuttavia, non sapendo i nostri trascorsi, è difficile per voi comprendermi.
I due si accorsero solo in quel momento che Naren si fosse totalmente irrigidito.
- Che cos’ha? – domandò Heloisa, credendo che padre Craig conoscesse la risposta.
- Non saprei … Naren? Tutto bene?
- Devo andare – disse immediatamente il servo del Creatore, alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso l’uscita della Taverna, senza aggiungere altro.
Dopo essersi ripresi da tale reazione, padre Craig ed Heloisa tornarono a guardarsi distrattamente intorno.
Fu mentre prendeva un sorso nel suo boccale, che il giovane prete si accorse di uno sguardo sfuggente scambiato tra Heloisa e una delle locandiere più mature della Taverna.
- La conoscete? – domandò, facendo prendere coscienza alla donna di essere stata vista.
- Se vi facessi una confessione, una confessione senza peccato, la terreste per voi, padre? – sussurrò la giovane donna.
- Certo.
A ciò, Heloisa sorrise nostalgica. – Molto prima di essere promessa a Rolland, quando ero poco più che una bambina, sono venuta qui dopo esser stata picchiata da mia madre.
Volevo nascondermi, trovare un posto in cui non pensare.
Vedendomi abbattuta e spaesata, una locandiera, una ragazza più grande di me, mi si è avvicinata e mi ha domandato cosa mi fosse accaduto, ascoltandomi e consolandomi.
Era molto gentile, solare e amabile, mi piaceva trascorrere del tempo con lei.
Così, ho cominciato a venire qui più spesso, per incontrarla e parlare.
Un giorno, ella mi ha detto che mi avrebbe fatto fare qualcosa di diverso, di nuovo, che mi sarebbe piaciuto.
Io non potevo immaginare minimamente cosa volesse fare, non ero avvezza a nulla di simile.
Mi portò in una stanza, chiuse la porta e iniziò a dedicarmi le attenzioni che si dedicano ad un’amante.
Io ero totalmente inesperta, in sua balìa.
- E vi piacque? Eravate a vostro agio con tutto ciò? – le domandò sorprendentemente padre Craig, con naturalezza.
- Sì, mi piacque. Mi sentii per la prima volta leggera, libera, amata.
Non ero abituata ad un tale genuino interesse da parte della mia famiglia.
Il rapporto intimo tra me e lei che ne conseguì, fu solo un’aggiunta, qualcosa che allietò entrambe, senza alcuna promessa, senza alcuna costrizione o impegno.
Era naturale e semplice, come ridere, parlare o mangiare.
- La donna di cui parlate, è quella che avete guardato poco fa?
Heloisa annuì. – Poi, quando ho conosciuto Rolland, ho smesso di venire qui.
Ora, dopo tanti anni, vengo ogni tanto per i motivi che vi ho detto e, talvolta, scambio ancora qualche parola con lei.
Lieto che Heloisa si fosse confidata con lui, padre Craig le sorrise, senza dire nulla.
Concentrato su di lei, padre Craig non si accorse di altre tre presenze appena entrate nella Taverna, di cui una a lui ben nota, tutte e tre coperte da ingombranti mantelli e cappucci.
I nuovi arrivati presero posto su un tavolo libero, in un lato più isolato della Taverna.
- Hanno catturato Raya ieri mattina. Non è prudente per noi farci vedere troppo in giro – si lamentò uno di loro, un giovane stregone con un marchio nero che si diramava dall’attaccatura dei capelli biondi, fino alla mascella.
- Dobbiamo reperire materiali e qui siamo al sicuro. Nessuno presta attenzione a noi – lo acquietò Ephram.
- Posso portarvi qualcosa da bere? – domandò loro una locandiera, avvicinandosi al tavolo.
- Vogliamo parlare con Bronnen – disse serafico Ephram.
A ciò, la donna andò a chiamare la sua collega nominata, la quale si diresse tempestivamente al tavolo. – Posso fare qualcosa per voi? – domandò la ragazza, complice.
- Ecco cosa ci serve. Abbiamo bisogno di avere tutto prima del tramonto – le sussurrò l’altro stregone, infilandole un foglio piegato dentro la tasca della gonna, con discrezione.
- Sarà fatto – dichiarò la locandiera, per poi allontanarsi.
- Non temete, ci procurerà tutto, poi ce ne torneremo immediatamente nel bosco – assicurò Beitris, facendo vagare lo sguardo per la locanda con circospezione, fin quando non notò la figura di padre Craig, con sua sorpresa. – Cosa diavolo ci fa lui qui? – domandò più a se stessa che agli altri due, accennando un sorriso divertito nello scorgerlo in un luogo tanto inadatto a lui.
A ciò, anche gli occhi dei due stregoni si posarono sullo straniero.
- Come lo hai conosciuto? – domandò Ephram, già a conoscenza della loro bizzarra alleanza.
- Alla celebrazione del matrimonio. Poi l’ho rincontrato mentre seppellivo la mandragora nel terreno della galleria. È un uomo interessante.
- Ti ha visto seppellirla, dunque? – domandò allarmato l’altro stregone.
- Sa bene che se proverà a prenderla, si ritroverà con le braccia rotte e un mucchio di terra tra le mani, Yarin.
E poi, non è lontanamente interessato alla mandragora – rispose a tono la ragazza. – È al sicuro.
- Sarà meglio. Sai quanto ci è costato averla e sfruttare il suo potere. Non possiamo permettere venga usata ancora – si raccomandò Ephram.
- Non verrà mai più usata.
Ha già adempiuto al suo dovere.
Resterà nascosta, morta, fino alla fine dei giorni – dichiarò Beitris con una determinazione di ferro nella voce, inghiottendo a vuoto e ripercorrendo il funesto giorno in cui era riuscita a sradicare una mandragora, senza morire:
Le avevano detto che in quel villaggio ne avrebbe trovata una, forse, persino due.
Camminava oramai da giorni e le provviste nel suo sacco erano quasi finite.
Non appena intravide il villaggio dinnanzi a sé, tirò un sospiro di sollievo, oramai sfinita.
- Ehi voi! – si sentì richiamare da una voce da bambino, da dietro, al che si voltò, facendo totalmente paralizzare il fanciullino, il quale si fermò a guardarla incantato dalla sua bellezza.
Doveva essere un piccolo abitante di quel villaggio allontanatosi, pensò Beitris, osservando i suoi vestitini cenciosi e rattoppati in alcuni punti, sin troppo grandi per un bambino piccolo come lui.
A ciò, la ragazza si avvicinò di qualche passo e gli sorrise. – Buongiorno a voi, giovane amico.
- Voi … voi, per caso, siete una ninfa del bosco? – le domandò il piccolo, osservandola ancora adorante.
Beitris sorrise intenerita in risposta. – Oh no, non sono una ninfa.
- Una principessa?
- Neanche quello.
- Allora chi siete?
- Una messaggera. La messaggera di un re molto potente, che vive lontano da qui.
- E che cosa cerca il vostro re? – domandò il bambino, ingenuamente esaltato da quel nuovo incontro.
- Una pianta molto speciale che si trova nel vostro villaggio. A chiunque mi aiuterà a trovare la pianta, il mio re darà una meravigliosa ricompensa.
- Che ricompensa?? – chiese il piccolo animandosi ancor di più.
- Qualsiasi cosa voi desideriate, il mio re può donarvela.
- Vi aiuterò io!!
- Bene – rispose nuovamente Beitris, sorridendogli. – Allora, potreste accompagnarmi nel luogo in cui, nel vostro villaggio, gli uomini vengono appesi per il collo quando commettono un grave peccato?
- D’accordo – acconsentì il bambino facendole immediatamente strada.
Non appena i due giunsero nel campo colmo di erbacce in mezzo al quale svettava l’albero evidentemente utilizzato per le impiccagioni, Beitris si guardò intorno, cominciando a tastare accuratamente il terreno con i piedi: si diceva che il terreno sotto il quale si generava e cresceva una mandragora avesse una consistenza diversa rispetto a quello circostante.
La pianta maledetta, nata dai fluidi corporei rigettati in punto di morte dagli innocenti, morti con un cappio legato al collo.
Per questo a Bliaint non vi erano mandragore: ai suoi conterranei non piacevano le morti così veloci.
Quando finalmente trovò una zona di terra più morbida delle altre, la ragazza non ebbe alcun dubbio.
- Ehi, ho trovato ciò che mi serve – richiamò il bambino, vedendolo riavvicinarsi a lei.
Non gli chiese il suo nome. La perdita di un bambino senza nome avrebbe fatto meno male.
- Come posso aiutarvi a prenderlo? – domandò il piccolo.
- Dovrete scavare, scavare per me. Qui sotto i nostri piedi vi è la pianta speciale. Non appena la troverete, tiratela immediatamente fuori, qualsiasi cosa accada – si raccomandò Beitris con la voce vacillante, inginocchiata dinnanzi a lui.
Egli annuì gioioso, a ciò, ella posò una pala tra le sue piccole mani e gli prese le spalle delicatamente, osservandolo in volto. Ricacciò indietro ogni stralcio di emozione che minacciava di salire in superficie sul suo viso, mentre fissava nella mente lo sguardo innocente di quegli occhi grandi, del color della brina.
Gli diede un bacio sulla fronte e si rialzò in piedi, allontanandosi il necessario per evitare di sentire l’urlo di morte che sarebbe arrivato di lì a breve.
Quando fu abbastanza lontana, attese. Attese quasi due ore che il bambino terminasse di scavare e tirasse fuori la pianta, per assicurarsi che la mandragora avesse già mietuto la sua giovanissima vittima.
Al tramonto, ritornò sul campo, trovando esattamente lo spettacolo che si aspettava di vedere: il giovane corpicino stroncato prematuramente era steso a terra, con le orecchie pregne di sangue oramai secco, gli occhi vitrei e spalancati, circondati da moscerini, il corpo di pietra immobile e il colorito bianco sporco.
Tra le dita semiaperte, teneva le foglie della mandragora da poco sradicata.
Sembrava quasi che la radice, con il suo corpo affusolato e umanoide, respirasse ancora.
Beitris si inginocchiò e la prese in mano, infilandola nella sua sacca.
Ora aveva ciò che cercava.
I suoi occhi di giada non poterono fare a meno di posarsi nuovamente sul cadavere del bambino, tuttavia, nonostante si fosse ripromessa di non farlo.
Gli chiuse le palpebre fredde con le dita, coprendosi la bocca con le mani, per non piangere, come oramai sentiva di dover fare, mentre percepiva due lacrime solitarie lasciarle gli occhi.
D’istinto, lo prese con sé.
Afferrò di peso quel corpicino rigido e gelido, e lo infilò nella sua sacca, trasportandolo per giorni, fin quando non ritornò da dove era arrivata.
 
- Non dovrei aiutarvi – dichiarò per la decima volta madre Riven, accompagnando i due ragazzi nella biblioteca della cattedrale dei servi del Diavolo, in seguito ad una lunga conversazione con Judith.
- Eppure lo state facendo – le rispose Blake, accendendo la torcia del luogo che oramai conosceva come le sue tasche. – Non è trascorso molto tempo da quando mi avete permesso per l’ultima volta di entrare qui, non è vero, madre?
- Siete di nuovo qui solo per merito suo – rispose la monaca, indicando la ragazza.
- Oh, madre, non dovete tirare su quella ridicola maschera con noi.
Conosco il vostro buon cuore nel profondo.
L’ho sperimentato più di dieci anni fa – intervenne Judith.
- Fate attenzione e non rimanete più di un’ora, intesi? – si affrettò a dire la donna, per poi uscirsene dalla biblioteca come una fuggitiva.
A ciò, Blake e Judith si lasciarono andare ad una lieve risata, poco prima di cominciare la loro ricerca.
- Avete ripulito voi questo luogo? – domandò la ragazza, guardandosi intorno. – È caotica, ma ha un suo ordine. I tomi sono disposti tutti con precisione e accortezza.
- Vi state complimentando con me?
- Non fateci troppo l’abitudine – annunciò serafica Judith, continuando ad osservare il luogo e a vagare tra gli scaffali ricolmi.
Tuttavia, i pensieri angusti della scoperta fatta quella stessa mattina non volevano lasciarle tregua.
- Forse ho trovato qualcosa di utile, ma è in una lingua sconosciuta – la riscosse la voce del ragazzo dopo qualche minuto, il quale la raggiunse in un attimo, con un libro aperto tra le mani.
Quando egli alzò lo sguardo su di lei, Judith non ebbe il tempo di assumere un’espressione neutra dinnanzi a lui, rivelando il suo turbamento.
- Che vi succede?
- Nulla. Non preoccupatevi.
- Non mi sto preoccupando. Era semplice curiosità. Se siete turbata, ciò penalizzerà la ricerca.
- Mi sorprendo di quanto riusciate ad essere più glaciale di me, a volte.
- Avevate detto che non avreste continuato a complimentarvi. Avete mentito – commentò egli sorridendo sornione, facendo nascere un debole sorriso anche sulle labbra della ragazza.
- Avete ragione. Non sono nello stato d’animo per esservi d’aiuto oggi. Dovreste andare avanti senza di me.
- Ne siete sicura?
La ragazza non rispose, emettendo un lungo e sofferto sospiro. – Forse non mi farebbe male sfogare le mie afflizioni con una persona sconosciuta, totalmente esterna a tutto ciò – commentò amaramente divertita.
- Se credete che ciò potrebbe farvi sentire meglio.
- No, non lo credo.
- Suppongo debba essere dura vivere ventiquattro ore su ventiquattro a contatto con il clero.
- Non si tratta di quello. Questa mattina è accaduto qualcosa che ha sconvolto tutti i miei piani, i miei progetti e le mie certezze.
Non so come reagire, per la prima volta nella mia vita.
Non potreste comprendere cosa sto provando.
- No, non posso – rispose egli con ovvietà.
- Starete pensando che dovrei già ritenermi fortunata che mi abbiano tenuta con loro invece di lasciarmi nella Taverna, dopo la condanna di mia madre, piuttosto che piangermi addosso.
- Non ho mai detto questo.
- Ma lo state pensando.
- Avete mai avuto notizie di vostro padre?
- Mia madre non mi ha mai detto nulla di lui quando era in vita. I monaci mi hanno detto che ella aveva confessato di esser stata stuprata da un servitore del Diavolo con famiglia e figli di cui non ha voluto fare il nome, poco prima che io venissi al mondo.
- Non siete minimamento curiosa riguardo la sua identità?
- Mai stata.
Trascorsero altri minuti di silenzio tra i due.
- Voi che cosa avreste fatto se foste stato al mio posto? – domandò improvvisamente Judith, sorprendendo Blake.
- Mi state chiedendo cosa sarei diventato se avessi vissuto tutto quello che avete vissuto voi…?
- Esattamente. Come avreste agito?
- Io non sono voi, Judith.
- Lo so. Per questo ve lo sto chiedendo.
- È impossibile determinare come sarebbero andate le cose.
- Provateci.
- Io non sarei qui.
Non avrei scalato la gerarchia come avete fatto voi, non mi sarei ingraziato il clero come avete fatto voi, non avrei assunto un grado così alto come avete fatto voi, non avrei fatto buon viso a cattivo gioco, non sarei riuscito a reggere qui dentro per più di due anni.
Niente di tutto questo, Judith.
Ora che sapete ciò, vi sentite rincuorata?
- Che cosa avreste fatto, allora?
- Me ne sarei andato via da Bliaint. Lontano da qui.
- Voi … volete andarvene, non è vero? – domandò la ragazza, affilando lo sguardo nell’osservarlo. – Cosa vi trattiene ancora qui, dunque? – ma subito dopo aver posto quella domanda, quando gli occhi dei due si incrociarono, per Judith non vi fu bisogno di alcuna risposta. – Vostro fratello – concluse.
Altri secondi di silenzio in quella caotica ed enorme biblioteca, vennero interrotti dalla voce pacata e limpida di Judith. – Quando e se mai lascerete Bliaint, dove volete andare?
Blake vi pensò un po’ su mentre ispezionava un altro dei migliaia di tomi a disposizione. – Verso Nord, sicuramente. Dicono che i villaggi a Nord siano di vedute molto più aperte e con la brama di vedere dei corpi carbonizzati sopra un palco meno prorompente della nostra.
- Capisco.
- Voi non avete mai pensato di farlo? Di andare via di qui?
- Non nego di averci pensato. Tuttavia … questo è il luogo in cui sono nata. E se tutto va nel modo in cui non dovrebbe andare, è anche compito mio cambiare le cose. Quando sarò riuscita in questo, deciderò se andarmene o no – rispose ella.
Nel dire ciò, la sua mano sfiorò involontariamente il suo ventre, gesto che non sfuggì al ragazzo.
I due si rimisero alla ricerca, questa volta senza interruzioni.
Ad un tratto, Judith sgranò gli occhi nel leggere una pergamena malandata e consunta, nascosta tra una pila di tomi tutti ugualmente ingombranti.
La carta era schiacciata e sul punto di sgretolarsi, l’inchiostro era quasi del tutto sbiadito, quasi illeggibile, ma, fortunatamente, era trascritto nella loro lingua.
- Blake! Blake, venite! Ho trovato qualcosa sulla polvere nera!
Il ragazzo accorse nuovamente accanto a Judith, inginocchiandosi vicino a lei, aguzzando notevolmente la vista per cercare di leggere a sua volta. Judith si rialzò in piedi per andare a prendere una candela e avvicinarla alla pergamena, almeno il necessario per decifrare le lettere sbiadite, ma non tanto da far sgretolare maggiormente la carta.
- “… dicono sia il flagello degli dèi … dicono sarà la nostra condanna, la fine del mondo che ci meritiamo … zolfo, carbone e … ” questa parte è completamente illeggibile, maledizione … - si lamentò Blake, avvicinando maggiormente la fiamma della candela agli stralci di inchiostro rimasti.
- “… si ottiene con una scarica … una scarica come quella di un fulmine, ma più … potente … attraverso il vapore” continuò Judith leggendo qualche riga più sotto. – Conosco un metodo per far riemergere le lettere tracciate oramai quasi scomparse dalla carta. Servono dei chicchi di caffè e del sapone.
- Sempre che la carta non vi si disintegri tra le dita nel tentativo – commentò il ragazzo disilluso.
- Non accadrà. La rinforzerò con della colla di pesce. Abbiate un minimo di fede, Blake. Abbiamo fatto un grande passo avanti oggi.
- Sì … probabilmente avete ragione – ammise egli massaggiandosi la nuca. – Una scarica simile a quella di un fulmine ma più potente, attraverso il vapore… cosa vorrà dire?
I due trascorsero il tempo rimanente dell’ora che avevano a disposizione in cerca di altri scritti; dopo di che, si spostarono nella biblioteca della cattedrale dei servi del Creatore, cercando strenuamente, senza ottenere nulla.
- Io torno a casa. Ci vediamo domani, allo stesso luogo – si congedò Blake.
- A domani – rispose ella. – Oggi l’uscita secondaria è colma di monaci. Se volete evitarli, passate per le navate. A quest’ora non dovreste incontrare nessuno dei fedeli.
Il ragazzo annuì e uscì dalla biblioteca, avviandosi verso la sala principale della cattedrale, come Judith gli aveva detto.
La testa gli pulsava dolorosamente dopo aver trascorso due ore a cercare costantemente a vuoto, quasi senza risultati.
Certo, avevano trovato qualche accennata informazione sulla polvere nera, ma di una possibile cura per il male di Ioan non vi era neanche l’ombra.
Sapeva che sarebbe stata una ricerca lunga e sfiancante, ma, spesso, il suo animo dirompente e a volte precipitoso prendeva il sopravvento.
Senza accorgersene, aveva già superato la lunga scalinata, essendo arrivato nella sala, in mezzo alle navate.
La cattedrale sembrava essere vuota, ma non prestò attenzione nel controllare se vi fosse effettivamente qualcuno, prendendo ad attraversarla, ancora concentrato sul suo mal di testa.
- Perché siete qui?
Quella voce pacata e sconosciuta, ma incastonata in qualche remoto meandro della sua memoria, lo riscosse, arrestando la sua camminata. Blake si voltò, riconoscendo la fedele avvistata il giorno prima, la servitrice del Creatore in lacrime e intenta a pregare con grande fervore.
Ora ella era in piedi, voltata a guardarlo, davanti ad una delle sedie della grande navata di destra.
Probabilmente era venuta appositamente a pregare anche quel giorno.
- Eravate qui anche ieri – continuò la ragazza. – Vi ho visto.
- Credevo di essere solo – ammise Blake.
- Qui non si vedono mai servi del Diavolo.
- Ve ne è una che vive qui – la informò il ragazzo.
- Che cosa avete fatto alle mani? – domandò ella, guardando le dita fasciate di lui.
Blake si ricordò solo in quel momento delle sue ferite provocate dalla foga dello scavo della sera prima, poiché quella ragazza era stata l’unica ad averglielo domandato, dopo padre Craig.
- Nulla di grave – le rispose, mentre i suoi occhi si posarono casualmente sul violento sfogo che copriva le braccia e le mani della servitrice del Creatore. – Che cosa avete fatto alle braccia? – le domandò avvicinandosi di qualche passo.
A ciò, la ragazza nascose quella deturpazione immediatamente, coprendola con le maniche del vestito. – Ce l’ho fin da quando sono nata.
Si dice che … quando vengono sfoghi di questo genere, significa che l’altro Signore avrebbe voluto che il neonato fosse uno dei suoi servitori, e che abbia lottato fino all’ultimo per averlo.
- Dite davvero?
La ragazza annuì. – Si dice anche che sia dovuto al cuore di uno dei genitori.
- Cosa intendete?
- Alcuni credono che mia madre o mio padre, in realtà, fossero innamorati di un servitore o una servitrice del Diavolo, e che siano stati costretti a rinunciare al loro amore per ovvi motivi. Dunque, io sarei destinata ad essere una servitrice del Diavolo per tale ragione, anche se, alla fine, non è stato così – spiegò ella. – Quando penso ad entrambe queste ipotesi, è come se mi sentissi amata da entrambi i Signori, in qualche modo - concluse con un malinconico sorriso sulle labbra.
Nel sentire un picco di dolore alla testa che gli fece quasi venire un capogiro, Blake si avvicinò alla navata e si sedette sulla sedia accanto a quella della ragazza, cominciando a guardare distrattamente l’altare con l’imponente crocefisso. – E voi? Cosa pensate? – le domandò improvvisamente.
La ragazza, ora seduta anche lei, cominciò a guardare il crocefisso a sua volta. – Non lo so con precisione. Io continuo a pregare il mio Signore. Soprattutto ora che mia sorella è malata. Devo pregarlo il più possibile, per fare in modo che ella continui a vivere, almeno per un altro po’.
A tali parole, il ragazzo si voltò a guardarla. – E credete che pregarlo strenuamente salverà la vita di vostra sorella?
Ella restò con gli occhi lucidi e fissi sul crocefisso. – Io non posso fare a meno di crederlo.
Non potrei pensare di fare nient’altro.
E voi? – gli domandò voltandosi a guardarlo a sua volta, abbassando gli occhi da lui di tanto in tanto.
Blake non rispose subito, facendo calare dei placidi attimi di silenzio tra di loro.
- L’avete detto voi stessa – disse infine. – Non dovrei essere qui.
- No, non dovreste ma … non state peccando, stando seduto qui accanto a me.
Il ragazzo accennò un sorriso casuale, senza alcun motivo apparente. – Se continuerete a pregare qui per vostra sorella ogni giorno, ci rivedremo – disse rialzandosi in piedi e riprendendo la sua camminata verso l’uscita della cattedrale.
- Vi auguro una buona guarigione! – alzò la voce la ragazza per farsi udire. – Per le vostre mani.
- Vi ringrazio.
 
 

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Capitolo 10
*** Come topi ***


Come topi
 
Sentì la pelle umida entrare a contatto con altra pelle.
Il contatto era bruciante.
Si muoveva febbricitante, bagnato dal sudore, dalla brina dell’erba e anche da qualcos’altro di più vischioso.
Anche l’odore era penetrante: un misto di erba fresca, di incenso e di ferro.
L’odore ferroso del sangue gli invadeva le narici come una cascata di catrame.
Gli ansimi di dolore della persona che le sue dita stavano stringendo convulsamente raggiungevano le sue orecchie come ovattati.
Era come se non riuscisse a fermarsi.
Le sensazioni che stava provando erano troppo inebrianti.
Continuava a stringere la carne sotto le sue dita, con ferocia e ardore, come se non avesse desiderato fare altro in vita sua.
Sbatté a terra il corpo sotto di sé, più e più volte, buttandosi sopra di esso, per stringerlo e sentirne l’odore.
Tirò i suoi capelli umidi di sudore e sangue, incapace di privarsi di quel piacere tanto inebriante e rigenerante.
Gli sembrò quasi di raggiungere Dio.
Si lasciò stringere a sua volta, ma non lasciando mai che il predominio gli venisse tolto.
Gridò. Gridò di piacere e dolore, quando raggiunse l’apice del godimento, fino a perdere i sensi.
Le sue mani andarono a posarsi sul proprio corpo.
Il corpo di una donna.
Padre Craig si svegliò di soprassalto, con il letto zuppo di sudore.
Era ancora notte fonda.
Quelle sensazioni tanto belle quanto intense, appartenenti a dei ricordi ormai rimossi, stavano turbando il suo sonno ogni notte, da quel giorno maledetto.
Il suo corpo rabbrividiva per delle sensazioni che non aveva davvero vissuto.
Fremeva per risentire di nuovo quello che la sua mente aveva provato nel corpo di qualcun altro.
Sapeva che, a breve, se avesse continuato così, sarebbe diventato pazzo.
I suoi desideri, desideri che neanche conosceva, avrebbero preso il sopravvento.
La dissolutezza apparteneva al luogo in cui stava sostando, per sin troppo tempo.
Era come se Bliaint lo avesse stregato.
O era lui che si stava aggrappando con tutte le sue forze a quel villaggio dannato da Dio e dal Diavolo.
Continuava a pregare Dio ma lui non lo ascoltava.
Al contrario, lo ripagava confondendolo maggiormente.
Bramava il contatto con ogni corpo gli si avvicinasse, non riuscendo più a distinguere il sogno dalla realtà.
Cominciò a credere che chiunque incontrasse non fosse più al sicuro accanto a lui.
Aveva bisogno di andarsene, ma aveva anche bisogno di scoprire cosa fosse accaduto quella notte.
Ad un tratto, qualcuno bussò lievemente alla sua porta, a quell’ora della notte, sorprendendolo.
- Sì? – rispose titubante, cercando di normalizzare la voce.
A ciò, il volto riccioluto di Heloisa si sporse sull’uscio, illuminato da una candela che la donna teneva in mano. Nel fare un passo per entrare nella stanza dell’ospite, Heloisa si mostrò in vestaglia da notte, nel tessuto leggero e bianco panna che le avvolgeva il corpo formoso, il seno stretto in una scollatura che, per quanto pudica, rendeva la visione ancor più peccaminosa di quanto avrebbe fatto un abito ben più scollato.
I piedi nudi, le mani delicate, i capelli voluminosi che accarezzavano le spalle sottili, il bel volto assonnato.
Padre Craig dovette deglutire a vuoto per discostare gli occhi da ciò e posarli solamente sui suoi occhi.
- Ho udito dalla mia camera che ansimavate. Ho pensato steste male. Desiderate che vi porti un infuso caldo per conciliare il sonno?
- No, no, sto bene, davvero! Grazie, siete molto gentile, Heloisa.
- Seguitemi in cucina. Vi preparo qualcosa di caldo. Niente repliche.
 
Blake si svegliò dal suo dormiveglia tormentato di pensieri, decidendo di porre fine ai suoi tentativi di prendere sonno in una notte evidentemente destinata a tenerlo sveglio.
Si scoprì dalle coperte, percependo il vento freddo autunnale colpirgli in pieno le gambe e accese una candela. Non appena si infilò un paio di pantaloni, afferrò la candela e uscì dalla stanza, attento a non fare rumore, dirigendosi verso la stanza in cui erano contenuti i cristalli.
Chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò lentamente alla teca di cristalli, prendendo a fissare sempre lo stesso frammento dal magnetico colore grigio scuro-bluastro.
Allungò la mano e lo sfiorò, ammirandolo.
Ancora non gli avevano trovato un nome.
Suo padre aveva provato ad estrarre dell’argento da esso, non ritenendolo degno di nessun altro utilizzo, ma non vi era riuscito.
Nonostante suo padre gli avesse sconsigliato di farlo, il ragazzo lo prese in mano, sentendolo quasi scottare tra le dita.
L’energia e il fascino con il quale quella pietra lo attirava a sé erano innati.
Suo padre non era riuscito a fonderlo, ma ciò non voleva dire che non ci avrebbe provato lui. Tuttavia, lo avrebbe fatto senza l’intenzione di estrarre argento da esso. L’argento non gli interessava.
Facendo attenzione a non emettere il minimo suono, tornò in camera, schiavò il cassetto nel quale era contenuta la mandragora e la trasportò nella stanza dei cristalli.
Accese il caminetto presente nello stanzino e utilizzò carbone e legna per alimentare il fuoco.
Dopo di che, scoprì la mandragora dal telo nel quale l’aveva avvolta.
La radice grigiastra si era scurita, divenendo più dura e fredda, quasi come un corpo morto.
Blake la sfiorò d’istinto, per poi afferrare il grosso coltello che si era portato con sé, con la lama accuratamente affilata da due giorni dal fabbro.
Cominciò a tagliare la radice, iniziando ad udire un lieve sibilo provenire da essa, quasi come un sussurro basso, ansante e informe.
Quando ebbe terminato di tagliare un pezzo di mandragora, lo infilò nel recipiente utilizzato per riporvi le pietre e i metalli da fondere.
Posizionò il recipiente in cima alla fiamma del caminetto e poggiò al suo interno anche il frammento tossico grigio-bluastro. Si avvolse bocca e naso con un panno spesso non appena i due ingredienti iniziarono a fondersi insieme, emettendo vapori scuri e densi.
Blake rilesse alcuni appunti che aveva preso giorni orsono nel suo blocchetto utilizzato per annotarsi i dettagli e i procedimenti delle sperimentazioni, arricchendoli con il carboncino.
Quando il ragazzo controllò il contenuto del recipiente, trovò un liquido denso e scuro, con delle venature blu e argentate, impregnato in particolar modo del colore spento e indefinibile che presentava la radice morta della mandragora. A ciò, fece colare il liquido ottenuto dentro un piccolo recipiente ovale, di vetro verdognolo, tanto piccolo da poterne fare un ciondolo. Infine, si affrettò a riporlo in una bacinella di acqua fredda, nella quale aggiunse diverse erbe, foglie e fiori, mischiati insieme.
Ora, non gli rimaneva altro che chiudere la bacinella e seppellirla dietro l’abitazione, attendendo un giorno o due prima di riprenderla.  
Ritornando con gli occhi sul “corpo” della mandragora rimanente, abbandonato sul tavolino, Blake ebbe un angusto presentimento. Si riavvicinò alla radice, ne tagliò un altro pezzo e lo grattugiò dentro una ciotola.
Per accertarsi che gli effetti di quella mandragora corrispondessero alle sue aspettative, nonostante l’avesse sradicata già “morta”, l’avrebbe bevuta sul momento. Decise di andare in cucina e di aggiungerne qualche pizzico in un infuso.
Ma non appena il ragazzo raggiunse la cucina, si accorse di non essere l’unico sveglio a notte fonda in casa.
Con grande sorpresa, e di quella degli altri due inaspettati presenti, raggiunse la cucina dopo essersi chiuso la porta della stanza alle spalle.
Heloisa e padre Craig si pietrificarono sul posto non appena visualizzarono la sua figura.
Ella era in vestaglia da notte, con un’innocua tazza fumante tra le mani, mentre il giovane prete era seduto al tavolo, con le mani congiunte, evidentemente in placida attesa che gli venisse consegnata la tazza, prima che Blake sbucasse dal nulla e li paralizzasse come due bambini colti in fallo.
Il ragazzo, dopo la breve confusione iniziale, agì come se nulla fosse, raggiungendo la pentola colma di acqua già scaldata da sua madre e riponendola sopra il fuoco del camino.
- L’acqua è già calda. L’ho tenuta a scaldare fino a due minuti fa – trovò il coraggio di dire Heloisa a suo figlio, dopo quella che sembrò un’eternità.
- Me ne sono accorto. Lo sai che mi piace bollente, non tiepida come la fai tu, madre – rispose con disinvoltura Blake, poggiandosi con il bacino al bancone della cucina, ponendo le braccia conserte.
Il suo sguardo sembrava tranquillo, ma nascondeva quel cipiglio di irriverente provocazione che era solito celare senza troppo impegno, dietro gli occhi sin troppo espressivi.
Heloisa, per non peggiorare la situazione e renderla ancor più equivoca di quanto già sembrasse, si dileguò con la coda tra le gambe, dando la buonanotte ad entrambi e raggiungendo la propria camera da letto.
Rimasti soli il ragazzo e il giovane prete, quest’ultimo osservò l’altro andare a riprendere la pentola e versarsi l’acqua calda in una tazza, cominciando ad aggiungervi delle erbe prese dalla dispensa.
- Spero vivamente non vi siate fatto strane idee – ruppe il ghiaccio padre Craig sudando freddo, nonostante non avesse alcun motivo per farlo.
- Niente affatto, padre – rispose con tranquillità Blake, mischiando l’infuso con calma.
- Ero afflitto da degli incubi questa notte e vostra madre mi ha udito dalla sua camera.
- Posso ben immaginarlo.
- Si è cordialmente offerta di prepararmi un infuso di erbe calmanti.
- Mia madre è molto gentile.
- Come mai siete sveglio a quest’ora?
- Non siete l’unico ad essere vittima di sonni agitati, padre.
- E come mai eravate nella stanza in cui si trovano le pietre e i cristalli?
Blake alzò un sopracciglio in segno di disappunto.
Padre Craig conosceva quello sguardo, un segnale ben mirato a fargli comprendere di far virare il discorso su strade più sicure e percorribili.
- Non c’è nulla di cui vergognarsi, padre – riprese Blake, continuando ad aggiungere erbe al suo infuso bollente.
- Cosa intendete? Vi ho appena detto che avete frainteso e …
- I desideri degli uomini, quelli che traboccano dai loro occhi trasparenti come acqua di torrente, non sono mai materia di fraintendimento.
Sono solo un ragazzo ma so riconoscerli bene – rispose Blake, mantenendo il suo tono placido.
- Blake …
- Non sono qui per giudicarvi, padre.
Nessuno lo è. Potete dormire sonni tranquilli.
- Per quanto vostra madre e tutti voi possiate possedere un aspetto che indurrebbe ogni uomo o donna in tentazione … io non oserei mai posare le mani su vostra madre.
Oramai mi conoscete.
Sapete bene quanto io tenga alla virtù, all’onore altrui e al …
- … al vostro rapporto con Dio, sì, lo so.
Non sono il vostro confessore, padre.
Sono qui solamente per bere il mio infuso e tornare a dormire – lo rassicurò accennandogli un sorriso che non fece altro che allarmare maggiormente il giovane prete.
- Io non credevo avrei mai potuto guardare con desiderio il corpo di qualcuno.
Non so cosa mi stia succedendo ultimamente … – ammise padre Craig.
- È la prima volta che guardate e desiderate il corpo di una donna?
- Dubitate delle mie parole?
- Dunque deve essere un vero flagello per voi, aver scoperto di essere umano come tutti coloro che vi circondano.
- Siete crudele con me, Blake.
- Oh, padre … - sospirò il ragazzo prendendo posto a sua volta su una delle sedie che circondavano il tavolo, poggiando la tazza fumante su di esso e massaggiandosi la nuca con l’intenzione di rilassarsi un po’. - … è notte fonda e siamo seduti intorno al tavolo della cucina a bere degli infusi per cercare di riprendere sonno: che genere di crudeltà avete subìto nel corso della vostra vita per credere che io sia crudele con voi in questo momento? – domandò lievemente divertito, prendendo qualche pizzico di quelli che padre Craig riconobbe come granelli dall’odore penetrante stranamente familiare, di un colore spento e scuro. Li guardò con circospezione poco prima che Blake li aggiungesse al suo ricco infuso e cominciasse a mischiare anche quelli.
- Che cos’è? – domandò, non riuscendo a trattenersi.
- Secondo voi? – rispose Blake cominciando a bere.
A ciò, il giovane prete sgranò gli occhi incredulo. – Non ditemi che la state bevendo come fosse latte e zucchero …! Blake, avete aggiunto la mandragora nella vostra bevanda??
- Abbassate la voce – gli intimò tra i denti il ragazzo. – O sveglierete mio padre e mio fratello. Suppongo vogliate evitarlo, giusto?
Padre Craig cercò di riprendere il contegno e di calmare i tremori che lo avevano invaso alla consapevolezza che aveva appena acquisito.
- Siete sempre stato esagerato – commentò il ragazzo continuando a bere.
- Non dovreste trattare quell’abominio con tanta leggerezza …
- È solo una pianta curativa, padre.
- Una pianta velenosa …
- Tornando al discorso di poco fa – riprese Blake. – Cosa vi angustia tanto da farvi addirittura vergognare di guardarmi negli occhi, riguardo ciò che sentite di provare nei confronti di mia madre?
- Nulla.
- Allora guardatemi senza distogliere lo sguardo, come siete solito fare – lo sfidò il ragazzo.
A ciò, padre Craig provò a fare come gli era stato detto, fallendo miseramente nel tentativo dopo solo qualche secondo, distogliendo nuovamente gli occhi da lui. – Non ho peccato, né peccherò di immoralità desiderando o tanto meno sfiorando Heloisa.
Non mancherei mai di rispetto a Dio infrangendo il mio voto di castità.
Ma, prima di ogni cosa, non mancherei mai di rispetto a lei, alla promessa che la lega in sposa a vostro padre; né mancherei mai di rispetto a voi, Blake.
- A me …? – domandò il ragazzo incredulo.
- Certo.
- E per quale motivo dovreste mancare di rispetto a me facendo ciò?
- Perché è pur sempre vostra madre.
- Se volessimo considerare un contesto in cui lei sia una donna più disinibita e voi un uomo meno timorato di Dio, potrei solo essere lieto che ella sfoghi i suoi bisogni sessuali con voi ogni tanto.
Padre Craig impietrì nuovamente, a tali parole. – Che cosa state dicendo …? Non sareste infuriato con me? Non nutrireste un minimo di solidarietà con vostro padre? Non desiderereste riparare l’offesa arrecatagli?
- Offesa? Solidarietà? Tutto ciò che nutrirei nei confronti di mio padre in merito ad uno “smacco” simile, sarebbe indifferenza.
- Come potete parlare in tal modo …?
A ciò, Blake rivolse uno sguardo semi esasperato al suo interlocutore, continuando a sorseggiare. – Mio padre ha già offeso l’onore di mia madre. Le ha già mancato di rispetto tradendola con un’altra donna.
- Di cosa state parlando …? Ciò è accaduto durante una delle vostre celebrazioni pubbliche?
- Non c’entrano nulla le orge di piacere occasionali, quelle sono in accordo ad entrambi, padre. Sto parlando di adulterio con un’altra donna, da solo, all’insaputa di Heloisa.
Avete tanta paura di recare offesa a me o di mancare di rispetto a mio padre?
Nulla di tutto ciò accadrebbe, anzi, l’inverso. Io ne sarei felice, poiché mia madre avrebbe ripagato l’infedeltà di mio padre con la stessa moneta; mentre mio padre non avrebbe di che lamentarsi, dato che è stato il primo a tradirla. Infine, mia madre potrebbe sentirsi nuovamente desiderata e avrebbe il suo onore rivendicato.
Solo voi perdereste qualcosa in tutto ciò, padre.
So bene quanto tenete al vostro rapporto con Dio.
Per tale motivo non sarò io a spingervi tra le braccia di mia madre.
Potete stare tranquillo per questo.
- Mi dispiace, Blake. Non ero a conoscenza di tutto ciò – commentò il giovane prete dopo infiniti attimi di silenzio. – Credevo che vostro padre amasse vostra madre profondamente.
- Credo che l’ami comunque. Ma, talvolta, le cose non vanno come dovrebbero, lo sapete.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra” – concluse il ragazzo.
Quel discorso, tuttavia, non era servito allo scopo di calmare davvero il giovane prete, e di liberare la sua anima tormentata dal male.
Non poteva dire a Blake che Heloisa non era l’unica che il suo corpo bramava, poiché, ormai, ogni donna che entrava nel suo campo visivo diveniva oggetto dei suoi peccaminosi desideri, inspiegabilmente.
Il corpo della donna era simbolo di lussuria, di brama incontrollabile, di peccato della carne, e per tale ragione andava rigettato, evitato a qualsiasi costo. Era tutto ciò che gli avevano da sempre insegnato.
Qualcuno gli aveva lanciato un sortilegio.
Tutto era cambiato da quella notte, quella notte maledetta.
Tuttavia, si era ripromesso che non sarebbe risalito alla realtà dei fatti con l’ausilio degli strumenti magici di cui gli aveva fatto dono Beitris.
No, lo avrebbe fatto da sé, in qualche modo.
Improvvisamente, l’attenzione dei due venne attirata da un ratto che si aggirava nel ripiano della cucina, in cerca di cibo.
- Avete visto, padre? A quanto pare abbiamo un amico che, furtivo, ogni notte, viene a farci visita, sperando di trovarci addormentati, per rubarci il cibo e portarci malattie – disse Blake alzandosi in piedi e avvicinandosi lentamente al roditore, intento a rosicchiare una crosta di pane abbandonata. – Per fortuna questa notte siamo svegli … - continuò a sussurrare il ragazzo, riprendendo in mano la bacinella contenente la mandragora macinata, infilandovi dentro una mano, adagio.
Padre Craig osservò i suoi movimenti come in trance, guardandolo prendere una generosa manciata di granelli sul palmo e offrirla all’inconsapevole topo, il quale cominciò ad annusarli e a nutrirsene.
Dopo solo qualche secondo, il piccolo animale fu colto da un improvviso e violento spasmo. Tremò dalla testa ai piedi, emise un verso acuto di dolore e cadde morto sul ripiano della cucina, con la bocca contorta e gli occhi spalancati.
Padre Craig persistette nell’osservare la scena, come se non riuscisse quasi a distogliere gli occhi dalla figura di Blake che continuava a sorseggiare lo stesso veleno che aveva sradicato la vita del topo con la velocità con la quale si spegne una candela.
 
Un individuo incappucciato entrò nella cattedrale, attirando l’attenzione di padre Lowel, intento ad accendere i candelabri presenti nel salone principale.
- Posso esservi utile, figliolo? – gli domandò cordialmente, avvicinandosi.
- Vorrei confessarmi, padre – rispose questo, senza scoprirsi il volto.
- Certamente – acconsentì il monaco, osservandolo con sospetto, mentre sudori freddi cominciarono a bagnare la sua nuca.
Si guardò intorno, accorgendosi vi fosse solo lui nel salone principale.
Tornò con l’attenzione sullo sconosciuto, il quale si era già diretto verso la stanza per le confessioni, e comprese di non potersi esimere.
Non appena entrò a sua volta nello stanzino, dalla parte del confessore, osservò la rete che lo divideva dal giovane uomo, e che permetteva solo una vista parziale di quest’ultimo.
Consapevole di ciò, Ephram si tolse il cappuccio e rimase di profilo, cominciando a parlare. – Vorrei confessare i miei peccati.
- Che genere di peccati, figliolo?
- Ho peccato d’ira. Una furia cieca mi ha avvolto, nell’essere costretto ad osservare decine di persone a me care bruciare su una pira, un giorno dopo l’altro.
Altri brividi freddi avvolsero le membra del monaco all’udire tali parole.
- Ho imprecato e giurato vendetta contro gli autori di tali carneficine, nella solitudine della mia dimora – continuò senza esitazione lo stregone. – Eppure, tutti quei giovani fedeli del Diavolo brutalmente condannati ad una morte lenta, bestiale e alla mercé degli occhi avidi e famelici di tutti … non avevano commesso alcun peccato.
Nessuno di loro ha mai rivolto un gesto irrispettoso o ingrato al nostro Signore.
Nessuno di loro ha violato alcuna sacra legge di Bliaint.
Siamo, da sempre, stati al servizio della legge e dell’ordine, sin da quando quel sudicio sacco di superbia di Allister Chaim ha operato la divisione, rendendoci tutti suoi schiavi, di generazione in generazione.
Dunque … perché?
Sapete rispondermi, padre?
- Figliolo …
- Non sono una delle vostre pecore – rispose duro il giovane stregone. – Ditemi, padre, vi è rimedio alla mia rabbia cieca?
- Vi prego … ditemi cosa volete … - balbettò il monaco. – Vi prego …
- Mi state supplicando, padre?
- Per quale motivo siete qui …?
- Per confessarmi.
- Posso provare a darvi le informazioni che vi servono, se solo ne fossi a conoscenza …
- State tremando, padre? State grondando di sudore e tremando.
Per caso sono io ad intimorirvi? – domandò Ephram con infinita lentezza, alzandosi nuovamente il cappuccio.
- I vostri compagni sono stati condannati in quanto hanno violato le sacre leggi di Bliaint riguardando l’uso della magia nera …
- Chi decide chi condannare?
- Cosa …?
- Chi decide chi condannare? – ripeté in maniera più scandita lo stregone.
- Si tratta di una decisione condivisa …
A ciò, sfruttando la sala vuota, Ephram uscì dalla cabina, per poi affacciarvisi dentro dalla parte del monaco, artigliandogli strettamente il collo con le dita. – Non ho tempo da perdere, padre. Specialmente con voi.
Sapete per quale motivo, nella nostra generazione, nessuno più prende i voti?
Sapete come mai siete rimasti solamente voi vecchi idioti a servire fedelmente i nostri signori, anima e corpo, nonostante la carica di monaco conferisca privilegi a non finire?
Lo sapete??
Padre Lowell negò con la testa, dimenandosi senza successo, a corto di respiro.
- Perché nessuno vuole restare a contatto per più di un’ora al giorno con voi, vermi schifosi - sussurrò Ephram avvicinando la bocca all’orecchio del monaco. – Ora … ve lo ridomando: vi è qualche informazione interessante, sulle attività poco lecite che vengono compiute nella nostra cattedrale, di cui vorreste informarmi? – sibilò stringendo più forte le dita sulla gola morbida del monaco ansimante.
- Io … non … so …
L’unica … l’unica cosa … che ho visto …
Sospetto … delle ricerche … che stanno compiendo … due fedeli … due fedeli del Diavolo …
Ephram allentò la presa, incuriosito e sorpreso da tale informazione. – Chi sono costoro? Cosa sospettate stiano facendo?
Padre Lowell si prese il tempo necessario per tossire e schiarirsi la voce, in modo da renderla comprensibile. – Li ho visti entrare nella cabina uno dopo l’altra, negli stessi orari, in compagnia della monaca custode della biblioteca. Sospetto che quest’ultima li stia lasciando entrare illecitamente nella biblioteca, ma non ne conosco la ragione … non so quale sia il loro scopo, né cosa stiano tramando …
- Di chi si tratta?
- Del figlio del proprietario della galleria e dell’orfana di Bernadette Livian, la protetta dei monaci dell’altra cattedrale. Non so null’altro … vi prego …
- Quali informazioni cela la biblioteca?
- Non lo so …
- Non fatemi perdere tempo, padre. Voi monaci siete gli unici che hanno accesso al sapere secolare contenuto nella biblioteca, gli unici in grado di leggere e scrivere, nella teoria, dunque gli unici che conoscono cosa vi è scritto in quei tomi.
- I soli tomi che siamo soliti consultare sono quelli che riguardano i nostri due signori.
Dei restanti scritti non conosciamo nulla.
Ephram sorrise innervosito, in seguito a tali parole. – Certo. Posso immaginarlo. E immagino che nei tomi che siete soliti consultare vi è esplicitamente scritto che il metodo migliore per “depurare” un peccatore dei propri peccati è il beneamato rogo – disse pungente. – Dunque i due servitori del Diavolo di cui mi parlate, oltre a saper leggere e scrivere, sono tanto furbi e svegli da imbrogliarvi da sotto il vostro naso. Che vergogna.
- Judith è anche la custode dell’altra biblioteca! Per questo non possiamo negarle l’accesso a …
- Avete la totale certezza che non siano stregoni, nessuno dei due? – lo interruppe Ephram.
- Non posso averne la certezza.
- Bene. Il vostro contributo è esaurito – disse il giovane stregone allontanandosi di un passo. – Tuttavia, fareste meglio a rimembrare questo, padre: conosciamo il luogo in cui vivete e non abbiamo di certo paura a penetrare dentro le cattedrali e raderle al suolo, con l’aiuto del Signore.
Se condannerete alla pena capitale un’altra strega o stregone, preparatevi alla guerra.  
 
Quella mattina si erano divisi.
L’aria pregna di nebbia che invadeva il villaggio sembrava quasi un presagio di un qualche evento funesto.
Forse per tale sinistra sensazione o forse per semplice scrupolo, quella mattina, diversamente dal solito, Blake e Judith avevano deciso di continuare la loro ricerca separatamente, l’una nella cattedrale del Creatore e l’altro nella cattedrale del Diavolo.
Quando si rincontrarono all’esterno, nella piazza, in mezzo al mercato affollato, i due si rivolsero uno sguardo schivo e complice, avvicinandosi con apparente non curanza agli occhi dei passanti.
- Oramai tutti coloro che ci hanno intravisti nelle scorse mattinate credono che tra noi vi sia un legame intimo. Non c’è bisogno di tanta circospezione – gli sussurrò Judith palpando distrattamente un melograno maturo su una bancone di frutta.
- Avete qualcosa da dirmi riguardo quello che avete scoperto stamani? – gli domandò il ragazzo osservando con finto interesse delle castagne nello stesso bancone.
- Nulla di nuovo. Purtroppo è stata una ricerca improduttiva. Voi?
- I nostri timori erano fondati.
- A cosa vi riferite?
- Oggi un fedele incappucciato si è fatto confessare ed è rimasto per parecchio tempo nella saletta in compagnia di uno dei monaci. L’ho intravisto uscire dalla cattedrale poco fa.
Forse ho qualche idea su chi possano essere coloro per cui reperisce informazioni, ma non ne ho la certezza.
Vi metto in guardia sul fatto che il monaco che probabilmente stava interrogando lo sconosciuto, potrebbe aver rivelato qualcosa di noi due. Oramai anche nella nostra cattedrale cominciano a diffondersi voci su di noi.
- Le uniche voci che circolano riguardano il fatto che due servi del Diavolo si dilettano in attività poco caste nella casa del loro signore, Blake. Essendo io loro protetta, i monaci non fanno altro che riderci su. Nulla di cui preoccuparsi.
- Ciò non significa che possiamo permetterci di abbassare la guardia.
- Nel caso lo sconosciuto o coloro in accordo con lui vengano a cercarci, dobbiamo mantenere la guardia alta e agire d’astuzia – aggiunse la ragazza, continuando a passare da un frutto all’altro.
- La nebbia oggi sembra solida per quanto fitta.
- Non mi avete ancora detto se almeno la vostra ricerca è stata fruttuosa – riprese la ragazza.
- A dir la verità, sì.
A tali parole, Judith non riuscì a trattenersi dal voltare leggermente il volto verso di lui. – Dunque?
- Non qui, non ora.
Dovete lasciarmi agire da solo per ora.
- Cosa intendete dire?
- Quando sarò giunto al risultato sperato, ritorneremo a collaborare, unendo le forze e vagliando ogni angolo delle biblioteche insieme, come eravamo soliti fare.
Tuttavia, riguardo ciò che ho scoperto stamani, è meglio che lasciate agire me per il momento.
So che forse ciò potrebbe richiedervi uno sforzo non indifferente, Judith, ma fidatevi di me.
Credo di esser riuscito a trovare qualcuno che può dirci come realizzare la polvere nera.
Judith sgranò gli occhi scuri, cercando di mantenere il suo granitico contegno e la sua aria di apparente incuranza. – Dite davvero …?
- Davvero. Vi ripeto: lasciatemi agire da solo per questa volta.
Se riuscirò realmente a trovarlo e ad ottenere da lui ciò che desidero, tornerò da voi vittorioso.
Nel frattempo, se qualche sconosciuto dovesse entrare nella cattedrale o seguirvi per richiamare la vostra attenzione in questi giorni, cercate di prendere tempo.
- Me la vedrò da sola, non preoccupatevi.
Voi pensate al vostro compito e cercate di non infilarvi in situazioni dalle quali non potete uscire.
Mi fido della vostra intelligenza ma non della vostra impulsività.
Blake sorrise in risposta, posando una mela nel cesto dal quale l’aveva presa. - Una giovane coppia infatuata, dunque? – domandò per una conferma non necessaria.
- Una giovane coppia infatuata un po’ distaccata oserei dire, considerando la natura del rapporto, ma sì – rispose la ragazza trattenendo un sorriso divertito.
- Non vi bacerò la mano con passione e venerazione in mezzo alla piazza, neanche sotto vostra supplica.
A ciò, Judith cedette a delle risa divertite, seguita da Blake.
- Siete senza speranza – rispose al ragazzo, continuando a sorridere con quella distratta leggerezza che sentiva di non poter mai mostrare. – Ora andate. Ci incontreremo a tempo debito e fate attenzione.
- Anche voi  - le rispose egli, poco prima che qualcosa, o meglio, qualcuno, andò a sbattere contro le sue gambe con impeto.
Blake abbassò lo sguardo contrariato, incontrando i visini mortificati di due ragazzini orfani, servitori del Diavolo anch’essi. La prima caratteristica che il ragazzo notò dei due, fu la loro strabiliante somiglianza: entrambi della stessa altezza, entrambi con una spettinata chioma biondo cenere, entrambi col viso tondo come quello di una mela, il colorito roseo, il naso lievemente appuntito e luminosi occhi d’ambra.
Erano esattamente identici e dimostravano massimo undici o dodici anni.
Vi erano diverse leggende trasmesse dai villaggi circonstanti riguardo i gemelli perfettamente uguali.
Alcuni credevano rappresentassero un cattivo presagio, altri grande prosperità.
A Bliaint, invece, i gemelli erano semplicemente simbolo dell’immenso amore di entrambi i signori nei confronti dei loro fedeli servitori; come un’ulteriore dimostrazione che, sia il Creatore che il suo angelo caduto, fossero due facce della stessa medaglia, entrambi meritevoli di essere serviti e adorati in egual modo.
Tuttavia, nessun trattamento speciale era riservato ai gemelli.
- Scusate, signore, ci dispiace tanto! Purtroppo mio fratello non mostra mai attenzione a dove mette i piedi! – esclamò uno dei due, quello più vicino alle gambe di Blake e con un sacco semivuoto sulle spalle.
- Non scaricare sempre la colpa su di me! Eri tu a non sapere dove mettere i piedi!
- Chiudi quella lurida bocca!
- Ehi voi due, va tutto bene – li interruppe il ragazzo, calmando la rissa.
- Non vi siete fatto male?
- No, niente affatto. Non avete nulla di cui scusarvi. Voi state bene?
- Sì, siamo abituati a ben di peggio!
- Grazie per la gentilezza, signore! Avete un pacco da consegnare per caso? – chiese il più evidentemente eloquente dei due gemelli.
- Siete voi due i furfantelli che consegnano i pacchi? – domandò il ragazzo realizzando solo in quel momento di trovarsi dinnanzi ai due messaggeri del villaggio.
- Ira Maroine e Ira Maringlen al vostro servizio! Diteci il vostro nome, poi il nome della persona a cui volete consegnare il pacco e infine dove abita. Sono due monete per pacco.
- Dove le scrivete queste informazioni? – domandò il ragazzo affilando lo sguardo incuriosito.
- Non sappiamo leggere.
- Né scrivere. Le teniamo nella mente!
- E riuscite a ricordare tutto quello che vi dicono? – chiese Blake perplesso.
- Sì! Quando abbiamo troppi pacchi da consegnare dividiamo la memoria in due! – esclamò il meno esuberante. – Metà io, metà mio fratello.
- Allora? Volete consegnare un pacco a qualcuno? O una lettera?
- No, non devo consegnare nulla per oggi. Tuttavia, vi darò comunque due monete – disse il ragazzo tirando fuori dalla sua tasca due monete d’argento, donandone una ad ognuno, vedendoli animarsi e illuminarsi come due raggi di sole.
- Grazie, signore!
- Voi siete molto gentile!
- Non ringraziatemi. Fate attenzione a non scontrarvi con ogni passante della piazza e buon lavoro! – li salutò sorridendo Blake, allontanandosi e imboccando la sua strada.
A ciò, i due ragazzini iniziarono a correre, evitando abilmente di andare addosso agli altri popolani che affollavano il luogo.
Raggiunsero il confine con il bosco e la palude, addentrandosi nella natura incontaminata che caratterizzava quei luoghi, percorrendo una strada che sin troppe volte avevano imboccato, una traiettoria ben impressa nella loro giovane e allenata memoria.
Arrivati alla porta della grande abitazione di legno nascosta dietro la grotta, i due bussarono, attendendo pazienti.
Dopo qualche minuto, una giovane strega aprì la porta, sorridendo loro provocatoria. – Cosa ci fate qui, voi due piccole canaglie? Non vi ho visti uscire di qui giusto due ore fa? Avete fatto tutte le consegne che dovevate portare a termine entro oggi? – domandò la donna, ponendo le braccia conserte, poggiandosi all’uscio.
- Togliti di mezzo, Annabel – disse uno dei due ragazzini.
- Se non ci fai passare, ti buttiamo giù e ti passiamo sopra – aggiunse l’altro.
- Quanta maleducazione per due giovanissimi gentiluomini come voi! – esclamò la strega finta offesa, permettendo loro di entrare.
Chiusa la porta dietro di loro, i due gemelli si liberarono del sacco vuoto di pacchi all’ingresso, e imboccarono di corsa uno dei lunghi corridoi della grande abitazione illuminata dalla luce fioca delle candele, spintonandosi l’un l’altro.
- Stai indietro, Maringlen! Mi farai inciampare!
- Tappati la bocca e mangia la mia polvere! – esclamò il fratello, sorpassandolo e correndo come un fulmine verso un grosso stanzone.
Non appena entrarono, i due fecero cessare la loro corsa, fermandosi improvvisamente.
Il silenzio tombale che invadeva la stanza era quasi spettrale.
Niente a cui non erano abituati, ad ogni modo.
I due entrarono nella stanza e cominciarono silenziosamente a spogliarsi dagli strati di vestiti pesanti che avevano indossato per ripararsi dal freddo. Alcuni di questi, come i guanti tagliati all’altezza delle dita, gli scaldapolsi e gli scaldacollo, servivano a coprire i simboli neri con i quali erano stati marchiati anche loro, sul collo e sugli avanbracci, circondati di collane di corda nere con dei ciondoli di cristalli, e di bracciali di pietre di legno. Una volta liberate anche le disordinate zazzere di capelli biondi legati dalle cuffie, i due si diressero verso un punto della stanza in particolare.
Da un lato, lo stanzone era occupato da una donna, una strega non appartenente al villaggio di Bliaint, seduta a terra a gambe incrociate e con gli occhi chiusi, impegnata a compiere un rito di purificazione, circondata da un cerchio di streghe e stregoni nella stessa posizione.
Dall’altra parte, invece, si trovava una donna di spalle, dinnanzi ad una piccola teca di vetro, riempita di fiori profumati, erbe e spezie, al centro della quale si trovava disposto il corpo di un bambino senza vita.
I due gemelli si diressero verso quest’ultimo.
A ciò, Beitris, voltata verso la teca e impegnata a riempirla di petali e erbe, si voltò a guardarli, sorridendo amorevolmente. – Era più freddo del solito oggi al villaggio? – domandò loro placidamente.
- C’era una nebbia tremenda e gelida – rispose il meno esuberante dei due, Maringlen, avvicinandosi alla teca, rapito, poggiando il palmo della mano sul vetro, all’altezza del volto spento del bambino.
Maroine, d’altro canto, girò intorno alla teca osservando il corpicino da ogni angolazione. – Quanti anni aveva? – domandò.
- Non lo so. Forse, era un po’ più piccolo di voi – rispose Beitris, continuando il suo operato.
- Per essere uno straniero, è un bel bambino – commentò Maroine.
- Non riesci mai a rimanere zitto un secondo, vero, Maroine? – lo riprese il fratello.
- Quello che deve tacere sei tu, Maringlen. Anche quando siamo davanti agli altri devi lasciar parlare me. Te l’ho detto mille volte. Sono io il più furbo e bravo con le parole tra noi due. E anche il più persuasivo – disse con la voce arrochita un po’ dal freddo e un po’ dallo sforzo costante di renderla tale.
Beitris sorrise in risposta. – Non vantarti troppo, Maroine. Hai ragione, sei sicuramente tu il più estroverso, il più portato ad estrapolare informazioni e a mentire. Tuttavia, non dimenticare che tuo fratello è quello in grado di gestire le situazioni a mente fredda, in maniera più matura e responsabile.
A ciò, i due ragazzini si guardarono in cagnesco, per poi addolcire lo sguardo complice e sorridersi furbescamente, prima di tornare con gli occhi sul corpicino senza vita.
- Perché lo tieni ancora qui? Perché non lo seppellisci? Infondo, ti ha solo aiutato a sradicare la mandragora - disse con semplicità Maroine.
Beitris lo fulminò con lo sguardo in risposta. – È un bambino come voi. Mi piace tenerlo qui per rendergli omaggio.
- Come una bambola? Puoi usare l’incantesimo della lucertola per farlo crescere anche se non può più crescere.
- Non voglio più sentire una parola, Maroine.
- Che ho detto di male??
- Se continuerete a fare commenti innecessari, non potrete più vederlo e portargli i fiori.
- D’accordo, allora staremo zitti. Mi piace avere un bambino in casa che non sia mio fratello – acconsentì Maroine.
- Se lo spirito del bambino senza nome dovesse trovarsi ancora nei paraggi non sarebbe una bella cosa – intervenne Maringlen, facendo vagare distrattamente il palmo sul vetro della teca. – Io, al suo posto, sarei molto arrabbiato se scoprissi che la mia morte non è servita a nulla. La mandragora serviva per l’incantesimo di fertilità. Era l’unico modo. Ma non è bastata neanche quella. Non è servita a niente. La sua morte non è servita a niente. La colpa è di chi l’ha voluta a tutti i costi, la colpa è di … - la bocca del bambino venne immediatamente tappata da Beitris, la quale si trattenne dall’istinto di riversargli uno schiaffo in pieno volto, come era già accaduto altre volte. Si era ripromessa di non farlo più, di non rovinare più quel volto ancora troppo acerbo per subire qualsiasi tipo di violenza. Prese un bel respiro e spostò la mano sulla sua guancia, con delicatezza. – Non ti azzardare più a dire parole che sai di non poter mai dire, Maringlen. Non costringermi ad essere cattiva con te. Lo sai che lo odio.
A ciò, il ragazzino annuì, attendendo che Beitris si distanziasse da lui.
Allontanando l’attenzione da Maringlen, Beitris posò involontariamente lo sguardo su Maroine, notando un ematoma viola che gli macchiava la mascella, del quale non si era accorta prima. – Cos’è quello? – gli domandò avvicinandosi, vedendolo indietreggiare e coprirsi la zona lesa.
- Nulla – rispose Maroine.
- Come te lo sei fatto? Hai fatto di nuovo a botte con gli altri orfanelli?
Maroine non rispose, confermando le supposizioni della ragazza. – Per quale motivo? – insistette Beitris. – Ti ho chiesto per quale motivo hai fatto a botte questa volta, Maroine – si impose Beitris strattonando il braccio del ragazzino.
- Alcuni ragazzi gli hanno chiesto di urinare insieme a loro – rispose per lui Maringlen.
- Per quale motivo ti hanno chiesto una cosa del genere, Maroine?
- Non lo so – si decise a rispondere l’interpellato, con lo sguardo basso.
- Per quale motivo??
- Perché mi hanno dato un calcio proprio lì e si sono accorti che non ho niente lì sotto!! – esclamò Maroine sull’orlo delle lacrime.
- Si sono accorti che sei una ragazza, Maroine …?
- Mi hanno chiesto di urinare davanti a loro per provargli di essere un maschio, perché sembro un maschio ma lì sotto non c’era niente secondo loro. Io non l’ho fatto e ho cominciato a picchiarli. Maringlen mi ha aiutato a dargli una lezione – spiegò Maroine nuovamente con lo sguardo basso.
Beitris sospirò, cercando di non perdere la calma. – Maroine, ricordi il tuo vero nome? Il tuo nome da ragazza? – le domandò con calma.
- No. Il mio nome è Maroine.
- Ma non è il nome che ti ha dato tua madre.
- Maroine è il mio nome perché io sono un ragazzo! – urlò l’interpellata. – Parlo come un ragazzo, mi comporto come un ragazzo e sembro un ragazzo!! Nessuno si è mai accorto di niente.
- Quando sarai più grande non sarà più così facile fingere.
- Me lo ripeti sempre, non voglio più sentirlo!
- Il tuo seno si gonfierà e periodicamente sanguinerai da là sotto. Come pensi di poterlo nascondere?
- Ci riuscirò!! Ci riuscirò comunque!!
- Perché vuoi continuare a farlo, Maroine? Per quale motivo vuoi continuare ad essere qualcosa che non sei? - la testò ancora Beitris.
- Perché è quello che voglio! Perché mi sento bene ad essere un maschio!
- Voglio sapere il perché. Dimmelo.
- Perché i ragazzi non finiscono alla Taverna come le ragazze, perché i ragazzi orfani vengono presi sul serio per guadagnare soldi, per lavorare! Perché non mi piace essere una ragazza! Non mi piacerà mai!
A ciò, Beitris si accovacciò dinnanzi a lei. – Lo sai che, per continuare a fare ciò che hai sempre fatto, dovrai metterci sempre più impegno, Maroine? Per tuo fratello è facile, perché lui è nato ragazzo mentre tu no, ma vuoi essere come lui.
Dovrai sempre fare il doppio dello sforzo, dovrai arrochire la voce sempre di più, dovrai stringere le labbra per farle sembrare meno carnose, dovrai indurire le mascelle quante più volte potrai per farle sembrare più pronunciate, dovrai indossare vestiti che ti ingrandiscono le spalle, dovrai coprire i tuoi fianchi quando si incurveranno più di quanto già sono. Dovrai tagliarti questi bei capelli.
- Ma anche Maringlen ha i capelli lunghi.
- Ma Maringlen è un ragazzo vero! Lui non ha bisogno di sembrarlo! Mi hai udito, Maroine?! O devo ripeterti tutto daccapo?? Guarda tuo fratello! Guardalo! Siete uguali, ma tu hai i lineamenti più dolci di lui, più femminei! È evidente!! Per questo devi continuare a fare tutto quello che ti ho detto, tutto quello che hai sempre fatto per mantenere il tuo segreto! Mi hai capito??
Maroine annuì con convinzione, asciugandosi con violenza le lacrime che le bagnavano gli occhi.
- Se dovessi scoprire che quei piccoli bifolchi là fuori ti hanno fatto del male di nuovo perché non sei stata abbastanza attenta, ti costringerò con la forza ad essere ciò che sei nata per essere!
- Starà attenta! – si impose Maringlen, ponendosi tra Beitris e sua sorella, in posizione di difesa, penetrando lo sguardo della strega con i suoi occhi decisi. – Mostrerà la massima attenzione. Te lo garantisco. La aiuterò io. Nessuno scoprirà mai niente.
A ciò, Beitris si rialzò in piedi, guardandoli con uno sguardo più sereno.
- Si può sapere perché ogni volta che voi due belve entrate in casa, non è più possibile avere un minimo di silenzio?? – si lamentò seccata la strega dall’altra parte della stanza, muovendosi dall’interno del cerchio e sciogliendolo, avvicinandosi ai tre con le braccia conserte, in attesa. – Dunque? Non vi abbiamo mandato al villaggio per un motivo specifico? Allora, cosa avete scoperto?
A ciò, i due gemellini si rianimarono, ricordando le informazioni accumulate. – Ephram aveva ragione. La figlia di Bernadette Livian e l’amico di Beitris stanno cercando qualcosa – disse Maringlen.
- Siete state veloci. Ephram è tornato dalla sua gita alla cattedrale giusto qualche ora fa, dicendoci cosa avesse scoperto, e voi siete partiti subito, tornando in un batter d’occhio. Mi complimento con voi – disse la strega straniera, sorridendo soddisfatta, per poi rivolgere lo sguardo a Beitris. – Quello che stai udendo ti sorprende, mia cara?
- Come ho detto anche ad Ephram poco fa, mi sfugge il motivo per cui le misteriose ricerche dei due soggetti in questione dovrebbero interessarci, Selma.
A tali parole, la strega straniera si avvicinò maggiormente a Beitris. – Perché, si dà il caso, che la figlia di Bernadette Livian viva a stretto contatto con i nostri carnefici e probabilmente sia in combutta con loro, e, improvvisamente, il tuo giovane amico sembra andare parecchio d’accordo con lei.
- Maringlen, Maroine – li richiamò nuovamente Beitris, distogliendo l’attenzione da Selma. – Siete riusciti a scoprire cosa stanno cercando?
- Ho sentito che il ragazzo ha nominato una certa “polvere nera” – rispose Maroine cercando di ricordare tutto ciò che aveva udito.
Ma non appena pronunciò quelle due parole, Selma sbiancò totalmente, indietreggiando di qualche passo, facendo allarmare tutti gli altri presenti in stanza, i quali non l’avevano mai vista in quelle condizioni.
- Si suppone che qualcuno di noi debba sapere di cosa si tratti, Selma …? – domandò Beitris, allarmandosi a sua volta.
La donna, in risposta, iniziò a tremare, aggrappandosi a tutto ciò che gli si trovava intorno per reggersi in piedi. – Polvere nera …? Avete detto “polvere nera”??
I due ragazzini annuirono, guardandola confusi e lievemente intimoriti.
- Di che cosa si tratta, Selma? Parlaci! Ha a che fare con la magia nera?
- È molto peggio. È molto, molto peggio di tutto ciò che siete abituati a conoscere e a vedere su questa terra – sussurrò sconvolta Selma. – Voi non vi rendete conto. Non riuscireste mai a comprendere la portata di ciò a cui stiamo andando incontro solamente parlandone …
- Se non è magia nera e ti spaventa tanto … allora di cosa si tratta? – azzardò un altro stregone.
- Il nostro Signore … il nostro Signore, che sempre sia lodato … non può fornirci un potere del genere … non è nelle sue facoltà. Esula da tutto ciò che Egli potrebbe offrirci.
- Parla chiaro, Selma. Che cos’è la polvere nera?
- Un potere ultraterreno che non proviene né dal nostro Signore né dal Creatore.
Qualcosa dall’origine sconosciuta e dagli effetti catastrofici.
Motivo per cui dovremmo starne alla larga e tutti dovrebbero.
Il flagello dell’umanità non deve essere neanche nominato.
- Allora per quale motivo Blake lo sta cercando? Come ha fatto a scoprirlo?
Tu come conosci questo “flagello dell’umanità”?? – domandò impaziente Beitris.
- Ho viaggiato molto prima di raggiungere Bliaint, esplorando terre che voi ragazzini imprigionati in questo covo di vipere non vedrete e conoscerete mai. Ho almeno il doppio della vostra età. Fareste meglio ad ascoltarmi e a portarmi rispetto quando vi suggerisco di tirarci fuori da una questione del genere.
Non voglio più sentire parlare di ciò che ho solo visto da lontano e che mi ha terrorizzato e gelato il sangue, portandomi a sentirmi pari ad un verme, dinnanzi a tanta orrorifica grandezza.
Fidatevi di me, è meglio non sapere.
- E io ti ripeto che un abitante di questo villaggio sta cercando questa dannata polvere nera, all’insaputa di tutti. Non credi sia meglio tentare di ingraziarcelo, qualsiasi cosa accada, in modo da sapere cosa ha intenzione di fare con questo flagello da cui vuoi che ci teniamo alla larga? – suggerì Beitris.
Selma vi pensò su, eternamente combattuta. – Cos’altro avete udito uscire dalla bocca del ragazzo? – domandò ai due gemelli.
- Diceva di aver trovato qualcuno che può dirgli come realizzare la polvere nera.
Il colorito di Selma si fece ancor più ceruleo a tali parole. – Il nome di tale individuo? Lo ha pronunciato …?
- No.
- Sai di chi potrebbe trattarsi? – chiese conferma Beitris, speranzosa.
- Esiste un solo uomo nelle terre del Nord Occidente che ha assistito a ciò a cui ho assistito io. Ma non sarà facile trovarlo. Dovete lasciarmi almeno un giorno.
- Un giorno di tempo, non di più. Se Blake dovesse andare a cercare questo individuo da solo, potremmo aver perso ogni speranza di trovare un alleato che potrebbe possedere quella che, a tua detta, sarebbe l’arma peggiore nelle mani di un uomo – decretò Beitris.
La tensione e il silenzio formatisi nello stanzone vennero interrotti dal rumore dei denti di un topo intenti a rosicchiare qualcosa, accanto ad una delle candele disposte a terra.
L’attenzione dei due gemelli si spostò sull’animale, lo raggiunsero inginocchiandosi accanto a lui e osservandolo sorridenti. – Guarda, Maringlen, avremo un animaletto da compagnia! – esclamò Maroine accarezzando la testa del topolino con un dito.
- Potremo dargli da mangiare ogni giorno, la mattina e la sera – propose l’altro gemello, sorridendo a sua volta, offrendogli qualche briciola che aveva in tasca.
Dopo qualche minuto che i due trascorsero a nutrire il topo e a cercare di comunicare con lui, qualcuno entrò in casa, aprendo la porta dell’abitazione e richiudendola con forza, facendo tremare il pavimento dall’entrata, sino allo stanzone in cui si trovavano. Il tremolìo del terreno fece oscillare alcune delle candele verticali poste a terra, tra cui anche quella vicinissima all’animaletto.
Nel giro di qualche secondo, la candela cadde addosso al topo e quest’ultimo prese fuoco, cominciando a strillare come uno dei tanti corpi bruciati al rogo nella piazza del villaggio, ma con una vocina più stridula ed estremamente fastidiosa.
I due gemelli scattarono immediatamente lontano dall’animale, osservando il macabro spettacolo a distanza, allibiti.
A ciò, Beitris si riavvicinò a loro. - Ecco il motivo per cui vi sprono sempre a mostrare la massima attenzione, miei topolini: in men che non si dica, potrei ritrovarvi carbonizzati in qualche vicolo come lui, o peggio, sopra un soppalco.
Ora capite cosa intendo?
 
Padre Craig seguì Blake fino all’entrata della Taverna, stringendosi nel suo nuovo mantello di pelliccia pesante, appena cucito dalla sarta. – Sembra quasi una serata d’inverno … - sospirò osservando il cielo buio e costellato di stelle dietro di lui, poco prima di varcare la soglia del locale.
- Vi abituerete al freddo – gli disse il ragazzo facendosi strada dentro la Taverna.
- Come mai siamo qui questa sera, Blake? Vi ho già detto che preferisco rimanere in casa per evitare tentazioni di ogni tipo in questo periodo complicato per me e per la mia fede.
- Tra poco mi ringrazierete – gli rispose il ragazzo facendogli segno con la testa verso un tavolo in particolare tra i molti occupati.
Padre Craig seguì la traiettoria del suo sguardo e sgranò gli occhi non appena individuò la figura di Judith seduta su un tavolo, che lo guardava sorridendo, lieta di vederlo, mentre attendeva che la raggiungessero.
A ciò, il giovane prete guardò il ragazzo stupito, in cerca di spiegazioni.
- Sono a conoscenza della vostra amicizia con la signorina Judith. Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere rivederla e scambiarvi due parole, passando una serata diversa dal solito – gli spiegò il ragazzo, incoraggiandolo a prendere posto accanto a Judith.
Padre Craig, in risposta, gli rivolse uno sorriso radioso e riconoscente, improvvisamente dimentico di ogni supplizio che sentiva invadere la sua mente, alla sola prospettiva di trascorrere una serena e gioviale serata in compagnia dei due ragazzi.
- Buonasera, padre – lo salutò Judith, vedendolo sfilarsi l’ingombrante mantello, disporlo sullo schienale della sedia e sedersi accanto a lei.
- Buonasera a voi, mia cara Judith – ricambiò il saluto sorridendole, felice di trovarla bene.
- Come state?
- Ora che sono in compagnia di voi due mi sento rinvigorito – ammise guardandosi intorno.
- Ringraziate Blake, è merito suo. Mi ha chiesto di venire qui questa sera, nonostante siamo soliti incontrarci sempre allo stesso luogo e allo stesso orario – spiegò la ragazza, facendo virare lo sguardo sul ragazzo, impegnato a sistemare il suo mantello sullo schienale della sedia accanto a quella di padre Craig.
- Passare tutte le mattinate rinchiuso in quelle cattedrali non è esattamente il mio idillio – commentò egli.
- Voi due vi conoscete più di quanto immaginassi, dunque – constatò il giovane prete.
- Abbiamo un accordo io e Blake, padre. Lui mi aiuta per una mia ricerca, e io aiuto lui – rispose Judith, rimanendo volutamente criptica, ma senza alcuna diffidenza; semplicemente per non invischiare il giovane prete in argomentazioni che gli avrebbero affollato la mente maggiormente.
- Sono lieto che voi due abbiate avuto modo di approfondire la vostra conoscenza. Vi ritengo entrambi due ragazzi con una profonda intelligenza, in grado di donare molto l’uno all’altra.
- Andateci piano, padre. La nostra è solo una pacifica collaborazione – lo ragguardò scherzosamente il ragazzo, facendo sorridere anche Judith.
- E voi, padre? Blake mi ha accennato qualcosa, riguardo i vostri proibiti desideri che non vi lasciano in pace neanche durante la notte e che vi stanno prosciugando le forze – disse la ragazza in tono preoccupato.
- Non ne voglio parlare ora, mia cara Judith. Avrò modo di comprendere e di spiegarvi ciò che mi tormenta, a tempo debito. Ora vorrei solo godermi la vostra compagnia serenamente – rispose padre Craig guardando prima l’una, poi l’altro.
- Dunque, non mi avete ancora detto se vi piace questo posto, padre – esordì Blake cambiando argomento.
- Sì, lo trovo piacevole. Le locandiere sono cordiali e allegre, non vi è troppo baccano, e non circola neanche un’eccessiva quantità di vino, in fin dei conti.
Padre Craig cominciò a domandarsi per quale motivo Blake avesse deciso di trascorrere quella serata in loro compagnia proprio quel giorno, se fosse stata un’improvvisa voglia di rivisitare la Taverna e di evadere da casa sua e dalla pesante atmosfera che aleggiava nel villaggio; oppure la causa risiedeva in altro.
Se lo domandò mentre lo scorgeva con la coda dell’occhio, annuire distrattamente in seguito alla sua risposta.
Apparentemente, la mandragora non aveva sortito effetti negativi su di lui, fortunatamente.
Tuttavia, con Blake non si poteva mai tirare un sospiro di sollievo.
Se ciò che lo teneva sveglio la notte avesse a che fare con la questione della mandragora o con qualche altro arcano turbamento, padre Craig non lo avrebbe mai saputo, poiché quel ragazzo evadeva ogni discorso che iniziavano e che sospettava avrebbe condotto a lui stesso, a qualsiasi cosa lo riguardasse nello specifico.
Ultimamente, lo aveva visto anche trascorrere meno tempo con Ioan, impegnato com’era nelle sue attività e nei suoi pensieri.
Come se il ragazzo potesse leggergli nel pensiero, parlò prima che altri prendessero la parola. – Io e Judith abbiamo concordato di agire separatamente per qualche giorno – lo informò.
- Che cosa vorrebbe dire ciò?
- Blake partirà domani, padre – spiegò Judith, lasciando il giovane prete visibilmente stupito e angosciato da tale notizia. – Non starà via molto – si premurò di rassicurargli la ragazza. – Deve sbrigare un’importante impegno da solo.
A ciò, padre Craig si voltò nuovamente verso Blake. – Dunque è così? E dove andrete? Quando lo avete deciso?
- Stamani. Devo raggiungere un villaggio non molto distante da qui. Tuttavia, come ben sapete, anche i villaggi più vicini a Bliaint, in realtà sono lontani – gli rispose rivolgendogli un sorriso amichevole, lievemente macchiato da qualche sorta di preoccupazione. – Voi dovrete badare a mio fratello in mia assenza, padre. Mi raccomando con voi – aggiunse guardandolo negli occhi, tornando serio.
- Blake, non potete dirmi realmente nulla sullo scopo e la destinazione del vostro viaggio?
- Non vi servirà saperlo, padre. Inoltre, avrete anche Judith qui. Non vi sentirete perso, di certo.
- Ordunque avete la mia parola. Al vostro ritorno, che mi auguro avvenga il prima possibile, troverete esattamente tutto come lo avete lasciato. Mi occuperò di Ioan per voi, lo tratterò esattamente come fosse mio fratello – gli assicurò il giovane prete, vedendolo annuirgli fiducioso in risposta.
- Mi sento bene con voi due – riprese a parlare improvvisamente padre Craig. – Mi sento completo. È una sensazione che vorrei rimanesse con me per il resto dei miei giorni.
Il particolare idillio creato dai tre venne interrotto dall’intromissione di una locandiera.
- Qualcuno vi ha offerto un boccale, mio signore – disse la ragazza poggiando il boccale esattamente sotto il naso di Blake, sorridendogli, per poi andarsene.
A ciò, il ragazzo si sporse per guardarvi all’interno, trovando un raro e splendido fiore all’interno del liquido rosso.
Immediatamente, Blake realizzò, cominciando a guardarsi intorno con attenzione per individuare il mittente.
Colei che glielo aveva mandato amava alla follia quel delicato fiore, e anche se era difficilissimo da trovare, in qualche sconosciuto modo, lei riusciva sempre a reperirlo. E glielo faceva trovare ogniqualvolta aveva voglia di vederlo.
Scrutò nuovamente ogni presente, vicino o lontano da lui, non riuscendo ad individuare la figura della ragazza.
- Che bel fiore. Non credo di averne mai visto uno così. Chi ve lo ha mandato? – domandò padre Craig.
- È un anemone – gli rispose Blake.
- Che strana scelta. La persona in questione deve sentire la vostra mancanza – commentò Judith.
- Che cosa intendete con ciò? – domandò il giovane prete.
- L’anemone simboleggia l’abbandono, l’attesa, ma, soprattutto, la mancanza – spiegò Judith accennando un sorriso.
- Vogliate scusarmi – si congedò il ragazzo alzandosi in piedi e prendendo il suo mantello. – Tornerò appena possibile – concluse avviandosi verso l’uscita della Taverna.
Uscito dal locale, una ventata fredda lo invase, spingendolo ad alzarsi il cappuccio sopra la testa.
Finalmente, riuscì a trovare la persona che lo aveva richiesto, la quale lo attendeva fuori l’ingresso, a qualche metro da lui, sorridendogli con i suoi smeraldi verdi nascosti dietro il cappuccio grigio.
Blake si avvicinò, accostandosele. – Stavo trascorrendo una serata tranquilla, Beitris – esordì, guardando la strada semivuota dinnanzi a sé.
- Non era mia intenzione rubarti ai tuoi fortunati compagni di svago – rispose ella melliflua. – Non ci vediamo da quella notte, Blake. La ricordi?
- Nessuno ricorda quella notte.
- Quando ho riacquisito i sensi, riaprendo gli occhi, ti ho trovato accanto a me, coperto di sangue. Per la prima volta, dopo diverso tempo, mi sono spaventata.
- Lo eravamo tutti.
- Sei adirato con me? – gli domandò voltandosi a guardarlo.
A ciò, egli fece lo stesso, mantenendo uno sguardo neutro. – Perché me lo domandi? Dovrei esserlo?
- Ho sempre amato e invidiato la tua astuzia, la tua abilità nel dialogare, sai? È il motivo principale per cui l’hai sempre vinta, in ogni contesto – disse sorridendo, per poi tornare seria. – Non sei curioso di scoprire cosa ci è successo? Cosa ti è successo?
- Se quello che è accaduto non è più nella mia memoria e non ha provocato alcun effetto su di me ora, per quale motivo dovrei voler sapere cosa è accaduto?
- In ogni caso c’è già qualcun altro che se ne sta preoccupando al tuo posto.
- Cosa intendi? Perché hai voluto vedermi, Beitris?
- Volevo vederti. Tutto qui.
Il ragazzo la guardò in aspettativa, fin quando ella non si decise a parlare nuovamente.
- Sai che non ho mai voluto coinvolgerti nelle nostre faccende, Blake.
- Sono io che non mi sono immischiato, perché non l’ho voluto. Fosse stato per te, mi avresti fatto passare ventiquattro ore al giorno in quella casa in mezzo al bosco.
- Sai bene quanto sia fondamentale la compagnia di cui faccio parte, non solo per me, ma per il benessere dell’intero villaggio. Noi facciamo del bene. E veniamo puniti per questo. Doverti ripetere tutto ciò è un insulto alla tua intelligenza.
- Non ho mai voluto praticare la magia nera, Beitris, ne abbiamo già parlato. Sono in cerca di altro.
- Certo, quello che fai tu ha uno scopo più alto – controbatté ella pungente. – Ne hai sempre fatto uso, volente o nolente, anche senza rendertene conto. Myriam ti ha istruito a riguardo.
- Cosa c’entra ora Myriam …? – chiese voltandosi nuovamente a guardarla, irritato nell’udire quel nome in un momento simile.
- Nulla. Sai bene, nel profondo, che ciò che sta avvenendo in questo villaggio è una fredda e lenta carneficina. Se non ci affrettiamo a porvi rimedio, ci stermineranno tutti, dal primo all’ultimo.
Siamo noi servitori del Diavolo le prede, le loro vittime impenitenti.
Per qualche motivo che ancora non conosciamo, i monaci vogliono decimarci. I monaci del Creatore in particolare.
Noi non abbiamo fatto nulla, non abbiamo commesso alcun crimine nei confronti del nostro Signore.
- Il nostro Signore non è sempre la misura e il giudice di qualsiasi cosa, Beitris. Quando lo capirete sarà troppo tardi.
- Non cominciare a parlare in maniera blasfema ora. Non sono qui per discutere questa sera.
- Allora perché sei qui?
- Per chiedere il tuo aiuto.
- Beitris …
- So cosa stai cercando. So cosa hai intenzione di fare domani, chi desideri incontrare – lo interruppe lei, stupendolo. – Noi tutti servitori del Diavolo dovremmo essere alleati tra noi. È così che dovrebbe essere. Aiutarci a vicenda non farebbe altro che giovare ad entrambi, non credi?
Blake la osservò assorto, confuso. – E i servi del Creatore? I semplici popolani come noi, che condividono questa terra con noi e che non hanno alcuna colpa in merito alla vita che i nostri antenati ci hanno obbligato a condurre? Dovremmo scontrarci con loro a prescindere, perché serviamo un Signore differente?
Beitris non rispose, gli si pose davanti e lo guardò negli occhi per diversi minuti. – Domani. Incontriamoci qui a quest’ora. Voglio presentarti qualcuno che potrebbe farti cambiare idea, prima che tu parta per un viaggio di cui potresti pentirti amaramente – gli sussurrò, per poi sporgersi verso l’alto e salutarlo con un bacio, profondo e famelico.
Quando si staccò da lui, lo guardò soddisfatta. – Mi era mancato.
- Buonanotte, Beitris.
- Buonanotte, e salutami il tuo ospite straniero.
 
Rimasta sola con padre Craig, gli occhi di Judith si concentrarono su una particolare scena che stava avvenendo nel retro del bancone della Taverna, visibile ai suoi occhi dal tavolo in cui sedeva.
Una delle locandiere aveva scoperto vi fossero dei topi tra le riserve di cibo della Taverna, così aveva iniziato a colpirli violentemente con una scopa, per ucciderli.
- Sono duri a morire questi mostriciattoli maledetti! – esclamò colpendoli con ancor più forza.
- Zelda, perché ti accanisci tanto? Basta spaventarli un po’, e se ne andranno da soli – le disse un’altra.
- Parli sul serio?? Queste bestiacce si riproducono ad una velocità incontrollabile. Se non li ammazziamo ora ci ritroveremo infestate! – le rispose continuando a schiacciarli a terra, fin quando il sangue degli animaletti non macchiò il pavimento.
Ipnotizzata da quella cupa visuale, la mano di Judith si ritrovò involontariamente spostata sul suo ventre.
- Judith … Judith – la richiamò padre Craig poggiandole una mano sul braccio, riscuotendola.
- Sì?
- Sono quasi cinque minuti che vi sto richiamando … mi avete fatto preoccupare – le disse allarmato. – Tutto bene? Avete male all’addome? – le domandò poi, spostando gli occhi sulla mano della ragazza poggiata sul ventre.
Judith la tolse immediatamente, riservandogli il sorriso più rassicurante che riuscisse a tirare fuori in quel momento. Non il meglio del suo repertorio. Difatti, padre Craig la guardò ancor più preoccupato di prima.
- Prima Blake se ne va all’improvviso, ed ora voi vi comportate come se aveste un macigno che vi preme lo stomaco e l’anima … potete parlare con me, Judith, lo sapete. Io sono vostro amico. Farei qualsiasi cosa per aiutarvi.
Udendo le parole tanto amorevoli e sincere del giovane uomo, Judith riuscì quasi a sentirsi più leggera.
Cullata dalle sue cure e dalla sua dolce innocenza, decise di liberarsi di quel dilaniante peso che sentiva opprimerla dalla mattina in cui aveva ricevuto la terribile notizia. – C’è una cosa che vorrei dirvi, padre.
- Parlate pure. Vi ascolto.
- Io e Naren non abbiamo ancora mai giaciuto insieme.
Tuttavia, qualche giorno fa, ho saputo di ospitare un bambino nel mio grembo.
Padre Craig sbiancò a quelle parole.
- Non allarmatevi, padre, non sono stata violentata da nessuno, almeno da cosciente.
Tuttavia, quella notte …
- La notte delle celebrazioni …? Credete sia accaduto tutto la notte delle celebrazioni?? Sospettate che qualcuno vi abbia … ? – l’uomo non riuscì a completare la frase, troppo scosso, afflitto e infuriato per la notizia appena udita.
- Crescere una vita dentro di sé è il dono più bello che il vostro Signore vi ha fatto.
E qualcuno, senza alcuno scrupolo, vi ha rovinato tale preziosissimo dono.
Quest’uomo non rimarrà impunito.
Egli dovrà pagare per ciò che ha compiuto.
Ve lo garantisco.
- Padre … Naren mi ha confessato di sapere cosa è accaduto quella notte.
Egli era presente ed è l’unico a ricordare – gli rivelò la ragazza stringendogli la mano nella sua con forza. – Se volete davvero sapere cos’è accaduto quella notte … rivolgetevi a lui.
 
 
 

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Capitolo 11
*** Fino alla morte ***


Fino alla morte
 
Judith camminò lungo la navata della cattedrale dei servi del Creatore, diretta verso le cucine come d’abitudine, per consumare la sua colazione.
Si era alzata dal letto da poco, alla stessa ora di sempre, nonostante le costanti nausee le provocassero maggior sonnolenza.
Il sole non illuminava ancora totalmente il cielo, il quale, di mattina in mattina, era sempre più cupo, segno che stesse per arrivare l’inverno, prima del previsto.
Improvvisamente, una figura incappucciata all’entrata della cattedrale attirò la sua attenzione.
Un moto di realizzazione la invase, al pensiero della conversazione avvenuta con Blake la mattina precedente.
Doveva trattarsi sicuramente dello stesso individuo che il giorno prima aveva fatto visita alla cattedrale dei servi del Diavolo, terrorizzando il monaco che lo aveva “confessato”.
Quel vile aveva sicuramente parlato, menzionando sia il suo nome che quello di Blake, spaventato com’era.
Non che non si aspettasse una visita simile da un momento all’altro, considerando il progetto che lei e Blake avevano ideato e che stavano portando avanti all’insaputa di anima viva.
Era naturale che prima o poi la setta di stregoni eremiti che vivevano al confine con la palude si sarebbero interessati a loro.
La ragazza si avvicinò in tutta calma all’individuo. – Posso aiutarvi, signore? – domandò.
- Vivete qui?
- Sì. Sono la protetta dei monaci di questa cattedrale e la custode dell’annessa biblioteca. Collaboro nella sistemazione di questo luogo, nella preparazione delle funzioni e li sostituisco con le confessioni talvolta – rispose con naturalezza.
- Vorrei mi confessaste – le disse diretto, restando immobile di fronte a lei.
- Ora?
- Sono qui per questo.
A ciò, la ragazza accennò un sorriso cordiale. – Lo sapete che i servi del Diavolo non possono confessarsi, né compiere altri atti di fede qui dentro, vero? Se siete un servo del Diavolo, come lo sono io, dovreste recarvi nella cattedrale del nostro Signore.
- Non sapete se sono un servo del Diavolo o del Creatore – gli rispose a tono egli, senza alcuna intenzione di togliersi cappuccio e mantello per mostrare il volto. – Dovrete fidarmi della mia parola, temo.
A ciò, Judith annuì e gli fece segno di accomodarsi nella stanza confessionale, raggiungendolo poco dopo.
Non appena si accomodò a sua volta nel lato destinato al confessore, pronunciò le abituali parole di rito.
- In assenza dei monaci del monastero in cui vi trovate, sarò io il vostro confessore, ufficialmente incaricato dai padri di questa cattedrale.
Qual è il peccato che volete confessare, mio signore?
A ciò, Judith, attraverso la rete scura che la divideva dall’altro, intravide le labbra dello sconosciuto incurvarsi, oramai libero dal cappuccio. – Amate alla follia recitare questa farsa, non è vero? – le domandò amaramente divertito.
- Di che farsa state parlando?
- Venire amata e venerata per la vostra bellezza e il vostro acume qui dentro, in questo covo di esseri ripugnanti.
- Vi ricordo che siete in un luogo consacrato. Vi esorto a moderare il linguaggio, altrimenti sarò costretta a farvi uscire di qui.
Tale risposta provocò le risa divertite dell’altro. – Devo ammettere che sapete come farvi valere.
- Dunque, perché siete qui? Qual è la vostra richiesta – domandò schietta.
- La mia “richiesta”…?
- Non siete nella posizione di avanzare altro che richieste.
Vi avverto che sono molto più difficile da spaventare, rispetto al monaco che avete minacciato ieri nell’altra cattedrale.
Dunque, parlate.
- Vedo che siete ben informata.
- Come se ciò vi sorprenda.
So che volete qualcosa da me. Come probabilmente la volete dal mio compagno.
Dunque, dato che non giudico voi e la vostra compagnia né degli sprovveduti, né dei ciarlatani, suppongo vi siate ben informati su di noi prima di incontrarci.
- Dunque supponete anche che abbiamo intrattenuto o a breve intratterremo una bella conversazione anche con il vostro compagno?
- Ovviamente.
- State alzando le mie aspettative su di voi, spero non le deludiate a breve.
- Non ho tutta la mattinata. Vi prego di riferirmi ciò che siete venuto qui a riferirmi.
- Sapete qual è il nostro obiettivo? Sapete per quale motivo siamo interessati alle attività che vengono compiute dentro le cattedrali?
- Posso intuirlo facilmente. Non è un mistero, né un evento da poco il fatto che le esecuzioni siano notevolmente aumentate negli ultimi tempi.
Le vittime sono sempre le stesse: streghe e stregoni, membri della vostra compagnia, per lo più.
Ho parlato con molti di loro, nelle ore precedenti alla loro morte.
Perdonate la franchezza, ma dovreste istruire meglio i componenti della vostra compagnia.
Se solo foste più furbi e meno appariscenti, vi ritrovereste in numero molto maggiore ora.
- Voi siete d’accordo con le esecuzioni che vengono stabilite dai vostri protettori? Avete un ruolo nelle decisioni che vengono prese a riguardo?
A tale domanda, la ragazza accennò un sorriso indefinibile. – Se sono d’accordo o non lo sono, di certo non sono affari che vi concernono.
- Immagino, dunque, non uscirà alcuna informazione dalla vostra bocca riguardo i monaci che hanno voce in capitolo e che influenzano maggiormente le decisioni all’interno del consiglio.  
- Non vi è alcun crudele e spietato giustiziare all’interno delle cattedrali. Mi rincresce darvi tale notizia. Le decisioni che riguardano i condannati vengono prese unanimemente. Cercate un colpevole, ma non ve ne è uno. Ora, se avete terminato tutto ciò che avevate da dirmi, mi accingerei ad andare a consumare la mia colazione, dato che il mio stomaco sta protestando per l’inatteso digiuno mattutino.
- So che state cercando qualcosa in particolare, voi e il vostro compagno.
Non so se avete intenzione di avvalervi della magia per adempiere ai vostri intenti, ma abbiamo già una discreta quantità di informazioni che potrebbero esserci utili.
- Potrebbero esservi utili a minacciarci?
- A giungere a patti con voi. Non concordate con me che, di questi tempi, è necessario avere quanti più alleati possibili?
- Alleati influenti e audaci, immagino. Vi trattate bene – rispose pungente la ragazza. – Siete disperati. So bene quanto lo siete. State venendo brutalmente decimati per dei peccati che neanche conoscete e state soffrendo, per la paura e per il dolore delle vostre perdite.
Dunque, non osate venire da me con l’intenzione di minacciare me e il mio compagno poiché siete venuti a conoscenza di una o due informazioni riguardo la polvere nera.
Non funziona in tal modo, vi avverto, prima che ripetiate lo stesso errore.
Avrete anche dei poteri sovrannaturali dalla vostra, ma anche noi abbiamo le nostre armi.
Se volete il nostro aiuto, non venite a minacciarci o a pretendere la nostra collaborazione senza compromessi.
Voi credete di sapere a cosa auspichiamo, credete di conoscere i nostri propositi e i nostri intenti ma non è così.
Se stiamo combattendo la stessa battaglia, voi non potete saperlo – concluse Judith facendo per uscire dalla stanzetta.
- Se vedeste una persona a voi cara … una persona che amate, sopra quel soppalco, a gridare come una bestia per l’immane dolore arrecatogli da una tortura che spezzerebbe l’anima di angeli e demoni, di dèi e arpie … voi che cosa fareste? Non fareste di tutto per far cessare tutto ciò…? – le domandò il giovane uomo, facendo fuoriuscire per la prima volta dalla sua voce una sincerità e un dolore spiazzanti.
Senza volerlo, Judith esitò, fermandosi, rimanendo dentro la stanzetta, dinnanzi a lui, con quella rete scura a dividere i loro due volti, forse sin troppo simili tra loro.
Trascorsero alcuni minuti di silenzio tra loro, spezzato nuovamente da Ephram. – Che cosa fareste, dunque …?
- Ve lo ripeto, per l’ultima volta: qual è la vostra richiesta?
- Voi avete influenza su di loro. Fategli cambiare idea sui condannati. Avete detto che vi permettono di accedere alle celle per parlare con loro poche ore prima che muoiano, giusto? Prendete tempo. Convinceteli che stanno commettendo un errore, per quanto possibile.
Judith vi rifletté su per qualche secondo, ritrovandosi combattuta.
- Non posso farlo – decretò infine, uscendo dalla sala confessionale in fretta e furia, nascondendosi dietro una delle scalinate più vicine, attendendo che anch’egli uscisse e se ne andasse.
Non seppe quanto tempo trascorse seduta su quelle scalinate, al buio, lontana dalle grandi finestre che permettevano alla luce di entrare nella cattedrale.
Rifletté sulle ultime parole udite, sul proprio proposito di cambiare le cose, di cambiarle dall’interno.
Poi, improvvisamente, come un fulmine, le apparvero nella mente tutti i visi dei condannati con i quali aveva parlato poco prima dell’esecuzione, ognuno stampato a fuoco nella sua memoria.
Una fitta al ventre le fece portare la mano coperta dal guanto di velluto sottile sul punto in cui avvertiva dolore, probabilmente dove quella piccola vita indesiderata stava crescendo dentro di lei.
Solo dopo qualche altro minuto si accorse che altri placidi e rimbombanti rumori avevano rotto il silenzio tombale nel quale era immersa la cattedrale nelle ore lontane alla funzione.
A ciò, Judith si rialzò in piedi e si diresse nuovamente verso la navata semivuota, eccetto che per la nuova presenza che aveva appena fatto il suo ingresso nella struttura, facendosi il segno della croce.
Il volto della giovane servitrice del Creatore dalla pelle scura non risultò completamente nuovo a Judith.
- Buongiorno – la salutò Judith avvicinandosi, vedendola voltarsi verso di lei e sgranare gli occhi sorpresi.
- Buongiorno – le rispose sommessamente. – Siete voi la servitrice del Diavolo che abita nella cattedrale del nostro Dio?
- Sì, sono io. Avete sentito parlare di me?
- Ho saputo di recente che una servitrice del Diavolo vivesse qui, ma non vi avevo mai vista prima.
- Non è strano, spesso i fedeli del Creatore mi incontrano solamente se vengono a confessarsi in orari insoliti o mi scorgono di sfuggita durante le funzioni. Il vostro volto, invece, non mi è del tutto nuovo. Passate molto tempo qui a pregare?
- Negli ultimi giorni sì – rispose la ragazza abbassando lo sguardo. – Per mia sorella. Non sta molto bene.
- Mi dispiace.
- Oh, no, non dispiacetevi. Spero caldamente che il Signore allevierà le sue sofferenze.
- Sono certa che lo farà – le rispose Judith rivolgendole un sorriso incoraggiante, che l’altra ricambiò.
Dopo qualche minuto di silenzio tra le due, la giovane serva del Creatore parlò di nuovo. – Sono venuta a sapere di voi grazie al vostro … - si bloccò, imbarazzata, non sapendo quale termine fosse più appropriato per definire il rapporto che credeva vi fosse tra i due.
- Al mio …? – la spronò Judith, confusa.
- C’era un ragazzo qui, qualche giorno fa, un servo del Diavolo come voi. Ho parlato con lui. Una volta – riuscì a spiegarsi la ragazza.
A ciò, Judith realizzò e le accennò un altro dolce sorriso. – Capisco. Egli oggi non è qui – la informò, sapendo che le interessasse saperlo, leggendolo nel suo volto. -  Ma, tra qualche giorno, se verrete allo stesso orario, lo troverete.
La ragazza annuì in risposta, mantenendo la testa bassa.
- Ad ogni modo, non vi è nessun “mio”. Egli non mi appartiene.
Glielo disse, nonostante sarebbe stato meglio non farglielo sapere, nonostante sarebbe stato più proficuo far credere a tutti che ciò che la legava al ragazzo fosse solamente interesse carnale.
Tuttavia, gli occhi scuri e spenti di quella ragazza avevano acquisito una strana luce, in seguito alle sue ultime parole. Una luce nuova.
Allora si convinse di aver fatto la cosa giusta nel dirglielo. Ad alimentare una speranza che sarebbe morta presto in lei, nonostante tra lei e Van non fosse stato così.
Ma lei e Van non erano normali. Perciò non contavano.
Non sapeva che intenzioni avesse Blake, ma ciò di cui era certa, era che quella dolce e ingenua ragazza avesse scambiato un po’ di banale gentilezza per qualcos’altro.
Non sarebbe stata la prima, né l’ultima a farlo, e Blake non sarebbe stato il primo né l’ultimo a voltarsi dall’altra parte senza scrupolo, incurante di un corpo e un cuore spezzato lasciato dietro di sé, un cuore che aveva sbagliato già in principio, solamente reggendo il suo sguardo troppo a lungo.
Perché la gentilezza non era interesse, non era attrazione, né tanto meno infatuazione o amore.
La gentilezza era solo gentilezza e tale sarebbe rimasta. Sempre.
Ma come avrebbe potuto dire lei, ad una servitrice del Creatore, tutto ciò?
In quale tipo di approccio si poteva sperare in un mondo come il loro, in cui gli unici contatti che vi erano tra i servitori di due signori diversi consistevano in subdoli tentativi di persuasione da parte dei servi del Diavolo, con l’unico egoistico scopo di ottenere qualcosa da delle povere e ripugnanti creature innocenti come bambini, rovinate dal tempo e da scelte non compiute da loro? Bambini con l’aspetto di mostri, che desideravano solo un pizzico d’amore e che avrebbero fatto di tutto per riceverlo, anche farsi usare e gettare come spazzatura, assuefatti e ammaliati dalla bellezza, una bellezza più dolce dell’inebriante nettare di un fiore, troppo deboli per resistere alla tentazione di rinunciare ad una tale vista, rassicurante nella sua letalità.
Se la bellezza facesse paura, spaventasse e provocasse terrore, sconcerto o disgusto, sarebbe tutto come dovrebbe essere.
Ma, d’altronde, che colpa potevano avere loro, servi del Diavolo?
Che colpa avevano per sfruttare tutto ciò che possedevano a proprio vantaggio, per sopravvivere e forse, sperare in una vita migliore di quella a cui erano stati costretti, incatenati?
Ognuno possedeva i suoi mezzi, le sue armi.
Talvolta, il desiderio carnale poteva essere l’arma peggiore di tutte, persino della magia stessa.
Ognuno andava avanti come poteva, azzannando vantaggi, scalando la scala che li avrebbe condotti più vicini alla libertà con le unghie e con i denti.
La cima non era un traguardo raggiungibile, tutti lo sapevano.
Tuttavia, la luce che proveniva da essa, sì. I servi del Diavolo lo avevano compreso, sin troppo presto.
I servi del Creatore, invece, dal fondo del loro buio crepaccio, credevano di esservi già, in cima.
Deboli, ciechi, stolti, ingenui. La vita li aveva resi tali.
Van non era diverso dagli altri.
Judith nutriva una sana compassione per loro.
- Vi lascio pregare ora – si riscosse, sorridendo alla serva del Creatore, per poi allontanarsi e dirigersi verso le cucine.
 
I due gemellini corsero come loro solito in mezzo alla piazza del villaggio, sorpassandosi a vicenda.
Oramai era mattinata inoltrata e le funzioni erano iniziate da un po’.
Raggiunsero il retro della cattedrale dei servi del Creatore e tolsero il pesante masso che avevano posto sulla loro entrata segreta.
Sotto quella ingombrante pietra vi era un piccolo buco scavato dalle loro mani, un tunnel a loro misura, che nessun altro, eccetto loro e un’altra persona, conosceva. Si infiltrarono uno alla volta dentro il buco, non senza fatica, poiché il loro corpo era ancora in piena crescita.
- Datti una mossa, Maroine! – si lamentò Maringlen attendendo a braccia conserte che sua sorella strisciasse in quel buco buio e stretto, il quale le avrebbe dato accesso alle cantine della cattedrale.
- Ci sto provando! Aspetta in silenzio! – gli rispose a tono Maroine, aiutandosi con i gomiti per quanto potesse, sgattaiolando fino alla fine del tunnel.
A ciò, quando sua sorella si ritrovò dall’altra parte, anche Maringlen si accinse ad entrare nel passaggio, trascinandosi il masso dietro, una volta che il suo intero corpo fu all’interno.
Il ragazzino si lamentò per il dolore, tentando di strisciare invano. – Ahi! Sono rimasto incastrato!
- Che ti serva da lezione! La prossima volta imparerai a non mettermi fretta!
- Maroine!
- Arrivo, arrivo, ti aiuto! – lo rassicurò la ragazzina infilando le braccia nel buco, nella speranza di riuscire ad acchiappare quelle del fratello.
- Cos’è che non riesci a muovere?? – gli domandò esasperata.
- Ho le spalle incastrate!
- Solo le spalle?
- Sì!
Dopo un po’ di sforzo e di lamenti sommessi, Maroine riuscì ad aiutare suo fratello ad uscire dal tunnel tutto intero.
- Dobbiamo allargare il passaggio!
- Tu dici??
Non appena i due terminarono di discutere, si accorsero della presenza di padre Cliamon comodamente seduto su una sedia della cantina, intento a guardarli, con un sopracciglio alzato.
- Avete terminato di accapigliarvi, voi due, piccole creature demoniache? – domandò con la sua abituale voce calma e pacata e un sorriso divertito sul volto tondo e calvo. – Anche se siamo lontani dalla sala principale nella quale si sta tenendo la funzione, dovete comunque cercare di parlare a voce bassa. Non so quante volte ve lo dovrò ancora ripetere.
- Perdonateci, padre – disse Maroine.
- Siamo in ritardo, padre, scusateci. Ad ogni modo, è colpa sua – disse Maringlen indicando sua sorella, la quale gli rispose con una veemente spinta.
- Cos’è questo orribile odore? – domandò il monaco, alzandosi in piedi e avvicinandosi ai due.
Nonostante avessero solo undici anni, l’uomo  si accorse che lo stessero quasi raggiungendo in altezza.
A ciò, Maringlen si voltò verso la sua gemella, rivolgendole un sorrisino furbo misto ad un piccolo ghigno di disgusto. – Avvicinatevi a mio fratello, padre, e vi accorgerete da dove proviene questo tanfo – disse, beccandosi un’altra occhiataccia da Maroine.
Il monaco si avvicinò a quest’ultima e annusò, indietreggiando immediatamente, con sguardo schifato. – Da quanto non fai un bagno, Maroine?
- Non è mia la colpa! – esclamò l’interpellata. – Possiamo farci un bagno solo nei fiumi e nei ruscelli, ed ogni volta che io e mio fratello stavamo per farne uno, c’erano sempre altri orfani a farlo con noi! Non potevo farmi vedere da loro e voi sapete il perché! – spiegò offesa, ponendo le braccia conserte, mentre Maringlen se la rideva accanto a lei.
- Se mi avessi chiesto di fare un bagno qui, te lo avrei permesso, bambino mio – le rispose il monaco riavvicinandosi e accennandole un sorriso rassicurante, sapendo quanto ella desiderasse che le si rivolgesse al maschile. – Avanti, pulitevi dalla terra e sedetevi. Preparerò un bagno caldo nelle mie stanze non appena mi assicurerò che il passaggio sarà totalmente libero. Intanto fate colazione con calma, vi ho portato pagnotte, latte e pasticci di frutta a volontà.
I due gemelli non se lo fecero ripetere due volte e, come accadeva ogni volta che entravano di nascosto in quella cattedrale accolti da padre Cliamon, ne approfittarono per abbuffarsi di tutto il cibo offerto loro, in solenne silenzio. Non che Beitris e gli altri stregoni della compagnia non li sfamassero abbastanza, ma non era sempre facile trovare del cibo per tutti vivendo lontani dal villaggio, immersi nella natura, e con pochi soldi in tasca.
Non appena ebbero consumato il loro generoso pasto, i due dovettero aspettare solamente qualche minuto prima di rivedere la figura di padre Cliamon sbucare dalla porta della cantina per dare loro il via libera.
Lo seguirono furtivi e silenziosi come felini su per il corridoio nascosto al salone principale, e poi per le lunghe scalinate che avrebbero condotto alla stanza privata del monaco, senza essere visti e uditi da nessun altro.
Come era solito fare, padre Cliamon mostrò un’accortezza maniacale nel portare i ragazzini con sé e nel nasconderli dagli occhi di tutti, all’interno della cattedrale.
Giunto in camera, accese qualche candela nonostante fosse giorno, svuotò il recipiente pieno di acqua scaldata nella grande teca di legno, e vi versò dentro anche dei sali profumati.
Dopo di che fece segno a Maroine di entrare. Osservando la sua riluttanza, la incoraggiò. – Per me siete come dei figli, lo sapete. Non dovete vergognarvi di nulla.
A ciò, la ragazzina, riacquisendo la sua galoppante e radiosa energia, si spogliò dei fradici abiti da ragazzo che indossava, rimanendo completamente nuda, e saltò letteralmente dentro la teca, emettendo un lungo sospiro di beatitudine quando la sua pelle entrò in contatto con l’acqua tiepida, pulita e profumata.
- Questo è il bagno migliore di tutta la mia vita! Non ho mai sentito l’acqua così calda! Maringlen, non puoi nemmeno immaginare come ci si senta qui dentro! – esclamò la ragazzina immergendo anche la testa capelluta dentro l’acqua, per poi ritirarla fuori e sorridere gioiosa.
Nel vederla così, padre Cliamon sorrise intenerito, per poi volgere lo sguardo all’altro gemello, in piedi accanto a lui, scrutandolo da capo a piedi. – Vuoi entrare anche tu? – gli domandò.
- No. L’ho già fatto ieri nel ruscelletto che circonda il bosco.
- Hai foglie secche tra i capelli e i tuoi vestiti sono pregni di terra e di non so che altro.
Non te lo ripeterò una seconda volta, Maringlen – lo incoraggiò bonariamente il monaco, vedendolo spogliarsi a sua volta dai cenci che indossava e immergersi con il corpo nudo nella teca, insieme a sua sorella.
I due cominciarono a giocare con l’acqua, a ridere e ad insaponarsi, come se stessero svolgendo l’attività più divertente del mondo.
Loro giocavano e sorridevano con i loro volti giovani, vivi e fulgidi che sprigionavano leggerezza e una libertà abbagliante che brillava nei loro occhi chiari; mentre, al piano di sotto, decine e decine di uomini erano inginocchiati dinnanzi al crocefisso, piegati e sofferenti, talmente pieni di fede da sembrare morenti.
La mattinata trascorse placida, la funzione terminò e i due gemelli finirono di farsi il bagno e si rivestirono con degli abiti puliti procurati loro da padre Cliamon.
Nella più totale segretezza, i due ragazzini rimasero nascosti nella stanza del monaco per il quale reperivano informazioni.
- Chi è che sale sempre le scale a quest’ora? Sentiamo sempre il rumore di tacchi che salgono le scale ogni volta che veniamo qui – chiese Maroine, aguzzando l’udito.
- Si tratta di Judith. La nostra protetta – rispose Cliamon, lavando accuratamente i vestiti sporchi dei due, dentro una bacinella colma di acqua.
Maringlen si lasciò ricadere sdraiato sul grande materasso morbido, imbottito di piume e ricoperto da lenzuola candide e lisce, annusando l’odore di pulito e immergendovi il viso. – Come vorrei dormire anche io su un giaciglio come questo … - sospirò sconsolato. – Morbido … senza insetti che sbucano dalle coperte … da non dover condividere con mio fratello …
Maroine lo colpì alla schiena. – Non sei l’unico a non voler dividere uno stretto e scomodissimo letto di paglia, idiota.
- Avete ancora i capelli bagnati – li riprese dolcemente padre Cliamon – Dovete aspettare che si asciughino prima di immergerli nei cuscini – continuò, per poi discostarsi dalla bacinella e avvicinarsi ai due, prendendo posto sul letto accanto a loro. – Vi prometto, che un giorno dormirete su dei letti come questo, persino più comodi di questo. Avrete vestiti puliti ogni giorno e non dovrete più lottare e farvi male per ottenere un po’ di cibo con cui riempirvi la pancia – promise carezzando la guancia di Maroine. – D’altronde, è ciò che ho promesso ai vostri genitori, prima della loro prematura scomparsa.
- Raccontateci di nuovo com’erano, padre – gli chiese Maroine, con sguardo implorante.
A ciò, padre Cliamon le sorrise, per poi volgere lo sguardo anche a Maringlen, sdraiato sul letto con il gomito puntato sul materasso e la testa poggiata alla mano, in attesa.
- Vostra madre aveva i capelli color grano maturo, proprio come voi. Amava restare fuori casa ogni pomeriggio, per guardare il tramonto e contemplarlo in silenzio, persino d’inverno.
Vostro padre era furbo e impavido, delle doti che ha trasmesso a voi. L’affetto e l’amore che li legava non era perfetto. Voi due li tenevate insieme, come un laccio inscalfibile, poiché eravate ciò che avevano di più prezioso al mondo.
Ora che siete riposati, sereni e con la pancia piena, potete dirmi ciò che avete da dirmi – concluse il monaco, guardando prima uno poi l’altro, in paziente attesa.
- La vostra protetta, Judith, sta progettando qualcosa, aiutata dal ragazzo erede della galleria – cominciò Maroine.
- Questo lo so bene.
- Sapete anche cosa stanno cercando? – domandò Maringlen, sapendo di stuzzicare la curiosità di padre Cliamon, il quale negò con la testa. – Polvere nera. L’avete già sentita?
Il monaco vi rifletté su, con sguardo criptico. – Mai sentita in tutta la mia vita. Di cosa si tratta?
- Non lo sappiamo ancora – rispose Maroine. – Ma oggi Selma e Beitris hanno progettato un incontro con il ragazzo, per convincerlo a coinvolgerle nella questione della polvere nera. Non appena sapremo qualcosa in più ve lo diremo.
- Dunque i membri della vostra compagnia sono interessati a Judith e a Blake? A quale scopo?
- Un monaco dell’altra cattedrale è stato costretto da Ephram a rivelargli informazioni riguardo attività strane che accadevano nella cattedrale dei servi del Diavolo. Lui gli ha detto di quel Blake e della vostra Judith – rispose nuovamente Maroine.
- A quel punto, Ephram ha voluto che noi due indagassimo sui due ragazzi e abbiamo scoperto della polvere nera. Selma dice che è un’arma molto pericolosa, e solitamente niente spaventa Selma. Per questo vogliono tenerli sott’occhio. Oltre al fatto che vorrebbero convincere la vostra protetta a rivelare altre informazioni e a rallentare le esecuzioni dei condannati, persuadendovi dall’interno. Proprio questa mattina Ephram è venuto in questa cattedrale per parlare con Judith – aggiunse Maringlen.
- Capisco – disse Cliamon, metabolizzando tutto ciò che aveva udito.
- Ora possiamo andare? – domandò Maroine. – Beitris e gli altri si allarmeranno se non ritorniamo prima del tramonto.
- Mancano ancora alcune ore al tramonto e fuori è molto freddo ora. Non vi piace stare qui? – domandò il monaco.
- Sì, ci piace stare qui, ma siete sempre anche voi a dirlo, che non possiamo rimanere troppo. Gli altri monaci potrebbero scoprirci – rispose Maroine.
- I vostri abiti devono ancora asciugarsi. Non posso darvene altri, altrimenti si insospettirebbero, giusto?
I due gemelli annuirono.
A ciò, padre Cliamon sorrise nuovamente loro, per poi riprendere. – Siete stati molto bravi a fornirmi tutte queste nuove informazioni stavolta. Ora riposate pure, piccoli miei, ve lo siete meritato – disse accarezzando i capelli ancora umidi di Maroine, per poi alzarsi, prendere una coperta di lana e posarla delicatamente sopra Maringlen già sdraiato.
- Tornerò più tardi. Ora vi lascio dormire – si congedò poi, lasciando solamente una candela accesa nella stanza, per poi uscire e chiudere a chiave la porta dietro di sé.
Rimasti soli, i due gemelli si guardarono tra loro.
Maroine si infilò sotto le coperte insieme al fratello sdraiandosi di fronte a lui.
I loro nasi quasi si toccavano mentre continuavano a guardarsi e a stringersi, come erano da sempre abituati a fare.
Come facevano ogni volta prima di addormentarsi, i due si presero il volto tra le mani e cominciarono ad elencarsi le pochissime e piccole caratteristiche che differenziavano l’altro da sè, a turno, mentre si osservavano attentamente:
- Poche lentiggini sul naso, due nei sulla guancia, bocca di pesce – disse Maringlen, vedendo Maroine ridere esasperata in risposta. Suo fratello usava dire “bocca di pesce” per descrivere il suo labbro superiore più grande e lievemente più sporgente di quello inferiore. Evidentemente perché aveva visto davvero pochi pesci in vita sua, non che lei ne avesse visti di più.
- Piccola cicatrice sulla fronte, scheggia verde dentro l’iride e voglia bianca sul collo – fu il turno di Maroine.
Solo loro conoscevano quelle quasi impercettibili particolarità dell’altro, poiché, per il resto del mondo intorno a loro, erano praticamente identici.
- Si sta così al caldo qui … - sospirò Maringlen stringendosi a sua sorella.
Ella rinforzò l’abbraccio a sua volta, facendo scontrare i loro nasi. – Mi taglierei un braccio per riuscire a starti più vicino – sussurrò Maroine, facendo sorridere il fratello, il quale si ritrovava il fastidioso braccio della sorella piazzato tra il suo fianco e il materasso, in assenza di altre posizioni disponibili.
Trascorse qualche altro minuto, nel quale i due entrarono in un soporifero stato di dormiveglia.
- Maringlen? Sei sveglio …?
- Mm? – rispose l’interpellato, senza aprire gli occhi.
- Stiamo facendo bene a rivelare tutte le informazioni che padre Cliamon ci chiede? – sibilò combattuta Maroine. – Insomma, infondo non sappiamo se lui conosceva davvero i nostri genitori come dice. Forse la sta usando come scusa, per fare in modo di guadagnarsi la nostra fiducia.
- Sarà sicuramente così – rispose Maringlen, aprendo a sua volta gli occhi.
- Se pensi questo, perché non hai nessun dubbio su quello che stiamo facendo? Gli stregoni e le streghe della compagnia sono la nostra famiglia.
- Questo è quello che fanno coloro che sono costretti a lottare per sopravvivere, Maroine – le rispose senza esitazione suo fratello. – Siamo orfani, viviamo come fuggitivi, siamo servi del Diavolo ma viviamo con degli emarginati, perciò nessuno ci vuole o ci tratta con gentilezza. Padre Cliamon ci serve per mangiare, per scaldarci, per dormire, per restare al sicuro quando fuori è troppo dura.
Questo è quello che dobbiamo fare per sopravvivere e nessuno può punirci per questo, nemmeno le streghe e gli stregoni della compagnia.
- Nemmeno la nostra famiglia – si convinse Maroine, rassicurata dalle parole di Maringlen.
- Devi essere forte, Maroine. Devi essere forte come sei sempre. Devi esserlo per far credere a tutti che sei più uomo di quanto lo siano tutti gli altri.
E quando non ce la farai più a sopportare tutto questo, sarò io forte per entrambi.
 
Blake poggiò il palmo della mano sulla fronte del suo fratellino sdraiato sul suo letto, trovandola bollente.
Ioan lo guardò con i suoi occhioni chiari e semichiusi, il volto emaciato e il colorito spettrale. – Sono caldo …? – gli domandò in un sussurro.
- Hai di nuovo la febbre, sì – gli rispose il ragazzo, strizzando un panno immerso in una bacinella di acqua fredda e posandolo sulla fronte del bambino. – Stai a riposo – aggiunse, per poi tirare fuori dalla tasca una collana di cordoncino nero con un ciondolo alla fine.
- Che cos’è? – gli domandò Ioan osservando la strana pietra di vetro ovale che pendeva, di uno strano colorito grigio-bluastro, con delle sfumature nere e verde scuro.
- Un ciondolo che ti farà stare meglio – gli rispose Blake legandogli la collana intorno al collo. – Non toglierla mai.
Ioan annuì in risposta, sorridendo debole e adorante verso suo fratello inginocchiato accanto al letto. – Perché hai i vestiti pesanti e le scarpe? Stai uscendo? – gli domandò intristendosi lievemente.
Blake gli accarezzò la fronte e i capelli sudati, ricambiando il sorriso. – Tornerò presto a salutarti, prima di partire.
- Dove andrai, Even?
- Ad incontrare qualcuno, fuori da Bliaint. Quando tornerò ti racconterò com’è stato.
- Tornerai, vero …?
- Certo che tornerò, Christopher – lo rassicurò caldamente, asciugandogli le lacrime in procinto di scendere dai suoi occhi.
- Non sono mai stato senza di te.
- Avrai il mio ciondolo. E ci sarà padre Craig a badare a te al mio posto.  Ora prova a dormire. Ti prometto che mi ritroverai qui non appena ti sveglierai – gli promise dandogli un dolce bacio sulla fronte.
Quando Ioan chiuse gli occhi, Blake si alzò in piedi, si allacciò i lacci degli stivali alti e pesanti, si infilò il mantello imbottito per far fronte all’ondata di freddo, e si diresse verso la porta della stanza. In quel momento, le sue iridi, per qualche motivo, virarono sul tavolino sul quale erano poggiate le lenti da vista di Ioan, creati dal mastro.
Si fermò ad osservarli per un po’ prima di andare, riflettendo.
Dopo qualche minuto, ritornò in sé e uscì di casa.
Quando giunse dinnanzi alla Taverna, impiegò un po’ prima di entrare.
L’idea di ritornare indietro e partire prima che Beitris e tutta la sua combriccola riuscissero a rintracciarlo gli passò per la testa più di una volta.
Poi, prevalse la ragione, o meglio, l’infinita bontà d’animo di cui sentiva di essere incredibilmente provvisto quel pomeriggio.
Entrò dentro la Taverna, incontrando il caldo pregno di odori del luogo, non troppo affollato a quell’ora del giorno, si tolse il cappuccio del mantello e si guardò intorno per individuare la figura di Beitris su uno dei tavolini.
La vide seduta su un tavolo isolato rispetto agli altri, vicino alla parete, con il cappuccio tirato su, dal quale fuoriuscivano le ciocche corvine, e i polsi e la mani sottili coperti da guanti aderenti di cuoio.
Ella era in compagnia di un’altra donna.
Si avvicinò alle due, le quali lo visualizzarono immediatamente, attendendo che le raggiungesse.
L’atmosfera era divenuta tesa e statica.
- Sei da solo? – fu la prima domanda che gli porse Beitris, prima che Blake si sedette.
Questo annuì, vedendo la donna accanto a Beitris scrutarlo con sguardo indecifrabile, per poi fargli segno di accomodarsi nella sedia rimasta libera, di fronte a lei.
Ella era una donna di mezza età, ma si poteva immediatamente notare non fosse né una serva del Diavolo, né del Creatore.
Era una straniera.
La sua folta chioma color cacao e lievemente striata di grigio era intrecciata in grosse ciocche crespe circondate e legate da lacci neri, che scendevano sulle sue spalle coperte dal mantello color ruggine.
Il suo volto enigmatico era marchiato da una lunga e profonda cicatrice che si dilungava dal lato destro della fronte, costeggiando l’occhio, fino a terminare all’inizio della mascella.
- Blake è il vostro nome, giusto? Io mi chiamo Selma – si presentò, accennandogli un sorriso, mentre con le mani coperte di anelli tirò fuori dalla sacca un mazzo di carte.
Il ragazzo non rispose, scrutandola a sua volta, per poi voltare lo sguardo su Beitris. – A cosa serve esattamente questo incontro?
- Selma ha voluto parlare con te. Anche Ephram e Yarin avrebbero voluto farlo, ma Selma ha insistito per incontrarti in prima persona da sola, in mia presenza – spiegò la ragazza. – La questione che al momento sta catalizzando il tuo interesse le sta particolarmente a cuore.
- Dunque, i gemelli lavorano per voi? Non avreste potuto venirne a conoscenza in altro modo, altrimenti – dedusse il ragazzo.
- Quei due bei piccoli scarafaggi ci sono estremamente utili – rispose Selma. – Saremmo persi senza di loro. Riescono ad infilarsi ed arrivare dove nessuno di noi riesce.
Detto ciò, Selma cominciò a disporre i suoi tarocchi in fila da sette sul tavolo. – Scegliete una carta – disse al ragazzo.
Senza guardare le carte, Blake ne scelse una qualsiasi. – Cosa sentite l’esigenza di dirmi? Vi ascolto – disse.
A ciò, Selma scoprì la carta selezionata dal ragazzo, guardandola e sorridendo. – Il Folle.
Beitris sorrise a sua volta, spostando lo sguardo su Blake. – Non mi aspettavo nulla di diverso. E tu?
Blake alzò gli occhi al cielo. – Dovrei, Beitris? Dimmelo, dato che muori dalla voglia di farlo.
- Oh, Blake, l’ignoranza e l’ingenuità non ti si addicono per niente. Potresti ingannare chiunque, ma non in questo. So che conosci i tarocchi. Myriam ti ha sicuramente istruito a riguardo.
- L’energia del caos, del nuovo, della creazione – disse Selma tirando su la carta e mettendola da parte. – Vi era già capitata questa carta in passato, non è vero? – dedusse la donna, nonostante Blake non si degnasse di rispondere. – Pescatene un’altra.
- Non pescherò nulla né muoverò un dito fin quando non mi direte perché sono qui di fronte a voi – intimò imperterrito.
A ciò, Selma annuì accondiscendente. – Per quale motivo siete in cerca dell’umano supplizio che porta il nome di Polvere nera? Come ne avete scoperto l’esistenza?
- Sta diventando famosa nelle terre orientali.
- L’oriente è molto distante da noi. Per quanto ci riguarda, in quei luoghi potrebbero volare pesci in aria come uccelli e gli uomini potrebbero avere tre teste e sei gambe.
- Non sono di certo l’unico ad esserne rimasto incuriosito.
- Ma siete l’unico ad aver deciso di lasciare Bliaint in cerca di qualcuno in grado di procurarvi le informazioni per crearla.
Che cosa avete intenzione di farci?
- Il vostro proposito era quello di farmi delle domande e pretendere delle risposte da me? – domandò Blake in tono di scherno.
- Voi state giocando con il fuoco, ragazzo. La vostra giovane età non giustifica fino a tal punto la vostra estrema e incosciente spavalderia dinnanzi ad un pericolo simile.
Pescate una carta.
Blake obbedì, accennando un sorriso divertito.
- Che cos’è che ti diverte tanto? – intervenne Beitris.
- Capisco perché sei voluta restare presente durante il nostro incontro, Beitris. Sei stata tanto previdente da capire già in principio che, se ci avessi lasciati soli, ci saremmo sgozzati e ammazzati a vicenda, facendo strage nella Taverna.
La ragazza sorrise a sua volta in risposta. – Ed io che speravo di trascorrere un po’ di tempo in tua compagnia, animando le acque per movimentare un po’ questa fredda e uggiosa giornata.
Selma scoprì la carta e la osservò. – Nulla di inaspettato neanche stavolta: la Torre, simbolo di presunzione, libertà prepotente, grande cambiamento, catastrofe o risoluzione.  Coerente con la carta precedente e anche con ciò che le mie orecchie hanno ascoltato sinora.
- Stiamo conversando da neanche cinque minuti, mia signora.
- Si può capire molto di un uomo in cinque minuti.
Blake rise sprezzante in risposta. – Potremmo rimanere qui anche fino a stanotte, ma non vi dirò cosa volete sentirvi dire.
- Siete troppo sicuro di voi per riuscire a comprendere quanto ciò che state facendo sarà dannoso per voi e per coloro che vi sono accanto.
Io conosco ciò che voi agognate conoscere.
I miei occhi hanno visto cose che le vostre vergini iridi focose e fameliche non potrebbero mai neanche immaginare.
Ciò che sto facendo mira a farvi vivere il più a lungo possibile, ad evitare che il fuoco che vi anima venga estinto brutalmente a causa della peggiore sciocchezza che potreste mai compiere nella vostra intera vita, che mi auguro possa essere molto longeva.
- La vostra gratuita e inaspettata preoccupazione mi lusinga, ma purtroppo non riuscirà a convincermi.
- La caparbietà è uno dei vostri peggiori difetti, vedo. Cosa posso fare per orientare le vostre aspirazioni verso altro?
- Nulla, mi spiace.
La donna sospirò, abbassando lo sguardo, cercando di regolarizzare il respiro mentre infausti ricordi riaffioravano nella sua mente. – Ho viaggiato molto in questi anni. Ho avuto modo di vedere molti luoghi, tanto diversi e lontani da qui. Leggo la vostra sete che traspare dai vostri occhi. Una sete che potrebbe spaventare chi non è avvezzo all’innato desiderio di conoscere il mondo.
Credetemi, Blake, quando vi assicuro che vi pentirete di vedere ciò che bramate conoscere.
C’è molto altro fuori da qui per voi.
Vi sono mondi interi fuori da questa piccola porzione di Terra in cui siete cresciuto.
Ma quella polvere, quella polvere maledetta, non fa parte di ciò che qualsiasi uomo o donna al mondo meriterebbe di conoscere.
Non augurerei neanche al mio peggior nemico di avere a che fare con quello strazio dalle sembianze di cenere scura.
L’uomo è stato in grado di creare un flagello tanto grande, dannando se stesso e i suoi simili.
Voi non potete ancora comprendere quanto tale scoperta si scaglierà tremendamente su tutti noi se non mostriamo attenzione.
Ora, pescate una terza e una quarta carta.
Blake continuò a guardarla impassibile, scegliendo di nuovo casualmente altre due carte, per accontentarla.
Selma le capovolse e guardò prima una, poi l’altra. – Nuovamente, ciò che vedo non mi sorprende: il Carro, simbolo di sicurezza e di guida, colui che tiene tra le sue mani il suo destino, l’unico fautore del proprio agire – disse indicando una delle carte, per poi passare all’altra. – Il Mondo. Il raggiungimento di un traguardo, ma solo dopo un lungo e tortuoso cammino, percorso a caro prezzo.
- Per quanto ancora crederete di leggermi tramite le vostre carte?
- Sto cercando di creare un legame con voi.
Voi non mi ascoltate, Blake.
- Vi sbagliate, Selma. Vi ho ascoltata. Ogni, singola parola. Ma nessuna di queste mi ha dissuaso dal mio proposito.
- Avete bisogno di vederlo con i vostri occhi …? Avete bisogno di provare il dolore sulla vostra pelle, di sentire con le vostre orecchie il frastuono assordante della catastrofe?
Blake non rispose, continuando a guardarla senza distogliere lo sguardo.
- Il vostro silenzio è già una risposta – concluse Selma delusa. – Voi potrete essere dannatamente ostinato ma io non sono da meno. Non vi permetterò di portare tale flagello a Bliaint.
- Voi continuate a parlare di flagelli, di supplizi, di maledizioni umane, ma non mi avete ancora detto ciò che realmente avete visto – la provocò il ragazzo sporgendosi dal suo lato del tavolo. – Ditemi davvero qualcosa, Selma. Rivelatemi cosa vi ha terrorizzata tanto e io, forse, potrò decidere di considerare la vostra richiesta.
Selma strinse i bordi del tavolo fino a farsi male, prima di rispondere. – Il rumore che provoca. Non potete neanche figurarvelo.
Neanche il grido di un condannato al rogo, neanche un tuono, un tornado, né un fulmine che colpisce la terra, squarciandola, emette un rumore tanto atroce.
La puzza. Il fondo degli Inferi non riuscirebbe ad eguagliarla.
I danni che ne seguono, a contatto con la pelle e il corpo umano, non riuscirei a descriverli a parole.
La luce. La luce accecante che colpisce chiunque si trovi ad un raggio di dieci metri di distanza, rende la vista totalmente buia, almeno per alcune ore.
Ogni senso umano ne è colpito e martoriato.
Quando agisce, il cuore si ferma, smette di battere per alcuni secondi.
Il resto, riuscireste a comprenderlo solo se lo provaste in prima persona.
Blake continuò ad osservarla, prima di fornirle la risposta che ella temeva. – Ed è quello che ho intenzione di fare.
- Desideri morire così ardentemente, Blake? – gli domandò Beitris allibita.
- Desidero sperimentare, conoscere, vedere, commettere errori e pentirmi di tali errori, senza accontentarmi di un fiume di parole udite e null’altro.
- Voi non sapete di cosa parlate … - sussurrò Selma tra i denti. – Meritate la morte se disprezzate a tal punto la vita! Pescate una carta!
- Siete voi a non sapere di cosa parlate se credete di raggirarmi con una lettura di tarocchi e un discorsetto sull’importanza della vita. Usare paroloni in grado di tormentare il sonno dei fanciulli non vi servirà a nulla con me. Non sapete quali sono i miei obiettivi, i miei progetti, né cosa ho intenzione di fare con la polvere nera. Non sapete se tale scoperta può essere utilizzata anche in maniera vantaggiosa, non conoscete i vari usi che se ne possono fare, non sapete se può dare origine a qualcos’altro se unita ad altre componenti. Voi sapete solo ciò che i vostri occhi impauriti hanno intravisto, ciò che hanno avuto il tempo di scorgere prima che il terrore vi costringesse a correre via da qualcosa di ignoto, e dunque funesto, secondo la vostra logica.
Voi non sapete, Selma, come non so io. Almeno non ancora.
Non potete conoscere gli effetti della polvere nera se non la utilizzate con le vostre mani, così come non potete conoscere me servendovi di una manciata di tarocchi – concluse il ragazzo sbattendo la mano sopra l’ennesima carta e scoprendola.
Selma sgranò gli occhi scuri non appena la vide.
- Cosa vi turba, ora, Selma? Ciò che vedete stavolta non corrisponde alle vostre previsioni? – la riscosse il ragazzo pungente, voltando lo sguardo a sua volta verso la carta, la quale mostrava un giovane capovolto, appeso per una caviglia al ramo di un albero, con una gamba piegata dietro l'altra e i polsi dietro la schiena, con il volto sereno e un’aureola sopra la testa. – Oh, guardate qui. Se non ricordo male, questo è l’Appeso, colui che gioisce del suo supplizio, che vede il mondo capovolto e comprende di essere nel verso giusto.
- Voi, con la vostra trascinante impertinenza e irriverenza, credete di essere tanto sveglio e brillante, ma vi sbagliate di grosso – gli disse la donna, puntandogli il dito contro, adirata. – Mostratemi che se tra le mani aveste un’arma simile riuscireste ad usarla nel modo giusto, ed allora mi inginocchierò dinnanzi a voi flagellandomi e chiedendo perdono. Avanti!
- Io non ho nulla da dimostrarvi – rispose granitico.
- Allora mostratemi qualsiasi altra cosa oltre alla vostra dannata insolenza e riconsidererò il mio pensiero su di voi.
- E quale sarebbe il vostro pensiero su di me? Beitris vi ha indicato su quali punti colpire per persuadermi a collaborare con voi? Ve l’ho già detto e ve lo ripeto: voi non sapete nulla.
Conoscevo le carte che avrei pescato ancor prima che voi le scopriste, e ho acconsentito a farlo solamente per pura noia e gentilezza nei vostri confronti.
Selma rise sprezzante in risposta. – Quale potere magico vi vantate di possedere, mio giovane amico!
- Nessun potere di alcuna natura, mia signora.
Si tratta semplicemente di alcuni conti e di una buona memoria.
Ho capito da quante carte fosse composto il vostro mazzo solo guardandolo. Ottantatré carte. Sul tavolo ne avete disposte solamente ventotto per assenza di spazio, quattro file da sette. La mia balia, quando ero bambino, mi ha insegnato che esistono mazzi di tarocchi da venti, da quaranta, da ottanta, e persino da centoventi carte, poiché le figure rappresentate potrebbero essere potenzialmente infinite, alcune molto simili tra loro. Di conseguenza, ogni mazzo, a prescindere dalla quantità di carte che possiede, è a suo modo equilibrato. Non avete mischiato il mazzo e, solitamente, voi streghe tendete a disporre le figure ambigue e criptiche come quelle che ho pescato in cima al mazzo. In conclusione, vi erano buone probabilità che le carte disposte su questo tavolo fossero composte quasi solamente da tali figure.
Ero certo che avrei pescato l’Appeso, in ogni caso.
- Come facevate ad esserne certo …? – gli domandò Selma allibita.
- Istinto.
Il silenzio calò sui tre, fino a divenire insopportabile.
Dopo qualche minuto, Blake lo spezzò di nuovo con una risata. – Vi sto imbrogliando, Selma. Lo sto facendo con entrambe.
Con ciò, mi avete ampiamente dimostrato che siete voi quella facile da raggirare, non io.
- In che modo ci stareste imbrogliando?
- La metà delle cose che vi ho appena detto non erano vere. Ho indovinato il numero delle carte, sì, so quante carte possono contenere i vari mazzi, ma non potevo sapere che il vostro mazzo non fosse stato già mischiato in precedenza da voi, magari prima di arrivare qui: vi erano pochissime probabilità che le figure che ho pescato si trovassero esattamente tra queste ventotto carte che sono disposte su questo tavolo. Non potevo saperlo. Non potevo sapere cosa avrei pescato la prima, la seconda, la terza, la quarta, né l’ultima volta.
Tuttavia, voi mi avete creduto immediatamente, appena avete udito qualche mia parola pronunciata con convinzione e sicurezza, con una minima parvenza di verità – concluse il ragazzo alzandosi in piedi. – Sono stato seduto qui dinnanzi a voi per sin troppo tempo. Vogliate scusarmi, ma ora ho altro di cui occuparmi.
- Permettetemi di venire con voi – disse di colpo Selma, alzandosi a sua volta dalla sedia, di scatto, penetrandogli gli occhi con uno degli sguardi più decisi e determinati che Blake avesse mai visto. – Mi avete umiliata a sufficienza, finora, e ammetto che, probabilmente, lo meritavo. Tuttavia, mi auguro non lascerete che io subisca un’ulteriore umiliazione, supplicandovi di portarmi con voi.
Ho fallito rovinosamente nel tentativo di dissuadervi, lo riconosco e, ahimè, mi pento amaramente di aver abbassato la guardia dinnanzi ad una perspicacia e ad una sagacia come la vostra.
Tuttavia, non posso esimermi dall’aggrapparmi con tutte le mie forze al mio proposito di proteggere voi e questo villaggio nella sua interezza da qualcosa che temo potrebbe essere peggiore di ciò che io e qualsiasi altro essere vivente a questo mondo ci aspettiamo.
Non vi impedirò di fare ciò che vi siete proposto di fare. Sarò semplicemente un’accompagnatrice silenziosa.
Potreste trarre vantaggio dalla mia navigata esperienza, potrei aiutarvi, nel caso in cui il vostro viaggio dovesse prendere una piega inaspettata e tragica.
Non siete mai uscito da Bliaint, giusto? Non potete sapere cosa vi attende, cosa troverete.
Io conosco bene ciò che vi è là fuori e potrei esservi molto utile, in molte occasioni.
Dunque? Accettate la mia proposta?
Blake vi pensò su, lo sguardo infastidito sepolto dalla stanchezza. – Sono esausto di restare a discutere con voi. Se volete seguirmi, non vi impedirò di farlo. Ho intenzione di mettermi in cammino domani all’alba – si arrese, voltando le spalle alle due e uscendo dalla Taverna.
 
Padre Cliamon rientrò nella sua stanza e si posizionò dinnanzi allo specchio sopra il mobile che dava verso la finestra.
I due gemelli se ne erano andati da un po’ ormai.
Osservò il suo riflesso allo specchio, attentamente.
Lo trovò ripugnante.
La testa calva, le rughe d’espressione marcate che lo facevano sembrare più vecchio di quanto non fosse, gli occhi piccoli e schiacciati, il naso aquilino, il colorito spento, il corpo tozzo.
Un tempo, trovava tutto ciò ingiusto, tanto ingiusto da soffrirne terribilmente.
Dio gli aveva fornito la giovinezza, ma lo aveva comunque deturpato, poiché Dio disprezzava i suoi fedeli che apparivano gradevoli alla vista.
Tale era stato lo scopo della divisione.
Continuò ancora, immaginandosi di bell’aspetto.
Dei capelli folti, un taglio d’occhi più grande e aggraziato, un volto più ovale, la pelle baciata dal sole, un naso deciso e delicato insieme, i lineamenti forti, armoniosi, perfetti.
Non avrebbe mai avuto niente di tutto ciò.
Si domandò quando avesse cominciato a nutrire un tale tossico risentimento a causa di ciò che Dio e la natura gli avevano negato.
La sua mente vagò nei ricordi, tornando indietro nel tempo, più di vent’anni prima:
- Ne hanno presa un’altra. La decisione riguardo la sua condanna è stata relegata a noi. I monaci servitori del Diavolo preferiscono che siamo noi a giudicarla – disse il suo superiore, camminando a gran velocità.
- Niente processo? – domandò il novello padre Cliamon, seguendolo.
- No. Troppo tempo e troppe energie consumate senza scopo. Dobbiamo organizzare le funzioni per i prossimi giorni, non possiamo pensare anche ad un processo.
Hai preso i voti da oramai un mese, Cliamon, è il momento che le tue doti vengano testate nella pratica.
- Sono pronto. Ditemi cosa volete che faccia.
- Scenderai nei sotterranei per incontrare la prigioniera, la strega. Parlerai con lei, consolerai la sua anima e poi ci riferirai se, secondo il tuo giudizio, ella meriti il rogo o la libertà.
Non la condanneremo senza ascoltarla, non siamo delle bestie.
Detto ciò, padre Cliamon venne condotto nelle prigioni sotterranee, per incontrare la strega.
Tenne il libro sacro stretto al suo petto, esattamente sopra il ciondolo del crocefisso.
La sua fede era salda, incrollabile.
Non appena gli uomini incaricati aprirono la cella per farlo entrare al suo interno, Cliamon avanzò nel luogo putrido e maleodorante senza esitazione, avvicinandosi cautamente alla ragazza incatenata.
Ella aveva una bellissima pelle scura, liscia, priva di impurità, l’imponente cespuglio di capelli riccissimi e corvini che nascondevano in parte il suo volto, già sepolto tra le gambe lunghe, magre e piegate. Era seduta a terra, con polsi e caviglie strette dal metallo delle catene che padre Cliamon poteva solo lontanamente immaginare quanto fosse doloroso.
Già vista in quel modo, maltrattata, costretta alla cattività,  reclusa in un luogo buio e torbido, piegata su stessa come un animale aggressivo, sembrava una creatura meravigliosa.
- Adaira? Henni Adaira? Questo è il vostro nome, giusto? Io sono padre Cliamon.
Vi prego, non sono qui per farvi del male – le disse con voce dolce e supplichevole.
A ciò, la ragazza alzò il volto stravolto verso di lui, rivelando la sua intensa bellezza.
Cliamon era già abituato a vedere servi del Diavolo in giro per il villaggio, tuttavia, l’aspetto di quella ragazza l’aveva colpito più di qualsiasi altro.
- Non voglio parlare con nessuno – decretò, scontrosa.
- Vi prego. Devo comprendere i motivi che vi hanno spinto ad utilizzare la magia nera in tal modo.
Lo sapete, la magia non è vietata nel nostro villaggio. Tuttavia …
- Tuttavia??
- Tuttavia questa non può essere usata per far del male al prossimo.
Adaira scoppiò in una grossa e pungente risata in risposta. – Parlate sul serio?! Ogni singolo tipo di magia è una violenza sull’uomo. Qualsiasi. Parlando in questo modo dimostrate di non conoscere nulla riguardo le pratiche magiche.
- La fattura che avete fatto … ha portato un uomo a togliersi la vita. Ne siete consapevole?
- Resta il fatto che non l’ho ucciso io.
- Ma lo avete portato a …
- Io non l’ho portato a fare nulla!! – sfuriò lei, alzandosi immediatamente in piedi, fulminandolo con i suoi occhi iniettati di rabbia. – Ciò che ho fatto è stato solamente per ottenere giustizia. Una giustizia che non mi sarebbe mai stata concessa altrimenti. La fattucchieria dell’odio mira a tormentare il sonno e la veglia della persona odiata. Come reagisce il destinatario alla maledizione lanciatagli, non è affar di chi la lancia.
- Dovrebbe esserlo invece. Se foste stata voi la destinataria non l’avreste pensata in questo modo.
- Non voglio più sentirvi! – esclamò ella voltandogli le spalle.
- Vi prego. Sono qui per giudicarvi. Mi hanno incaricato di parlarvi per comprendere le vostre buone intenzioni per potervi evitare la condanna al rogo.
- Allora bruciatemi!! – urlò rivoltandosi verso di lui, avvicinandoglisi. – Bruciatemi!!
- Vi prego, smettetela. Io sono qui per salvarvi.
- Voi non avete questo potere. Voi non avete alcun potere. Ditemi, quanti anni avete, padre? Siete solo un ragazzo ingenuo, che crede di poter comprendere una donna che, oltretutto, appartiene ad un credo diverso dal vostro. Guardatevi, padre. Vi siete mai soffermato a guardarvi allo specchio? – gli chiese provocatoria. – “Inguardabile” è la parola che userei per tutti voi. Mi sono sempre domandata se ne soffriate. Fate di tutto per non dimostrarlo, ma si vede lontano un miglio che guardarci vi corrode l’anima. Credete sia ingiusto, padre? Io credo di sì. D’altronde, se avessi il vostro aspetto, mi sarei tolta la vita molto tempo fa. Ci fanno credere che la bellezza sia solo un valore aggiunto, una superflua caratteristica, inutile, senza importanza. Invece è importante. Lo è sin troppo. Non credete? – continuò pungente ella, cominciando a girargli intorno, individuando il punto debole del giovane monaco. – Ve lo leggo negli occhi, sapete? Ve la leggo negli occhi l’invidia. Voi non provate attrazione sessuale nei miei confronti, bensì una cieca e incontrollabile invidia. Dovreste stare attento a queste pessime emozioni che contaminano il vostro animo puro, padre. L’invidia è un peccato capitale. Credo lo sappiate.
- Smettetela, vi prego … sono qui per aiutarvi – sibilò Cliamon abbassando lo sguardo.
- Guardatemi. Guardatemi, padre – si impose ella, ponendo il viso di fronte al suo, attendendo che egli alzasse gli occhi.
Quando lo fece, ella rise. – Ecco qua. Coltivate questa invidia, padre. Tiratela fuori. Sopprimerla non servirà a nulla ma peggiorerà solo le cose. Voi ci odiate per come appariamo. Ci odiate per qualcosa di così “futile”, “innecessario”. E odiate anche voi per questo – concluse ella terminando di leggere dentro i suoi occhi. – Ecco. Ora potete giudicarmi, dall’alto della vostra carica.
Ora potete comprendere cosa significa disturbare il sacro silenzio di una condannata a morte – disse serafica.
Padre Cliamon restò a guardarla per quelle che gli parvero ore intere, covando un profondo odio e una furia che non sapeva di essere in grado di provare.
- Domani all’alba.
Godetevi le vostre ultime ore fino a domani all’alba.
Brucerete su quel soppalco fino alla morte.
A tali parole, la ragazza sembrò come riscuotersi. Il suo sguardo mutò totalmente, assumendo un’aria afflitta e spaesata. – Padre … io ho una figlia. Ho una bambina piccola a mio carico … vi prego … si chiama Myriam … si chiama Myriam la mia bambina … non posso lasciarla sola … vi prego.
Senza degnarla di un altro sguardo, il giovane prete richiamò gli uomini a guardia della prigione, attese che aprissero la serratura e uscì dalla cella.
 
Padre Craig camminò fino alla bottega del mastro, seguendo le indicazioni di Judith.
Giunto dinnanzi alla porta, prese coraggio e bussò.
Dopo qualche minuto di attesa, udì la voce del ragazzo che riconobbe, da dentro l’abitacolo, il quale esclamò a suo padre di non preoccuparsi, che sarebbe andato lui ad aprire la porta.
La porta si aprì, rivelando la figura del giovane Van Naren, il quale si strinse nella sua veste di lana per ripararsi dall’impatto con il freddo esterno.
- Salve, Naren.
- Padre Craig…? Cosa ci fate voi qui?
- Sono qui per parlare con voi, Naren.
Abbiamo molto di cui parlare.
 
 
 

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Capitolo 12
*** Avrò il tuo nome con me, tra le mie labbra e nei miei occhi ***


Avrò il tuo nome con me, tra le mie labbra e nei miei occhi
 
“Mi taglierei un braccio per riuscire a starti più vicino”
 Maroine si girò e rigirò sull’erba umida, risentendo la sua stessa voce pronunciare quella frase, mentre era in dormiveglia.
La ragazzina si lamentava, sentendo uno strano dolore al braccio.
“Mi taglierei un braccio…”
Maroine riaprì gli occhi a fatica, rigirandosi sul prato.
Gli alti alberi del bosco torreggiavano su di lei.
Improvvisamente, nel suo campo visivo comparve una sagoma, molto somigliante a quella dello stregone che tanto bene gli era noto.
Il ragazzo la stava legando, lasciandole libero solo il braccio.
- Ephram … - sussurrò con un filo di voce la ragazzina, nonostante volesse urlare.
La sua gola si rifiutava di assecondarla.
Lo stregone la guardò e le accennò un sorriso. – Ben svegliato – le disse, continuando a stringere la corda intorno al suo corpo, facendole provare un cieco dolore.
- Ephram … non respiro …
- Si tratta solo di una sensazione momentanea.
- Che mi stai facendo …? Perché lo stai facendo …? – disse la ragazzina, cercando di dimenarsi debolmente.
Ephram, in risposta, una volta terminato di legare la corda, rovesciò un secchio colmo di sangue sul braccio lasciato libero e inerme di Maroine.
- Non preoccuparti, è sangue di pecora – le disse.
- Ephram … - ritentò Maroine, percependo la voce mancarle sempre più. Provò a guardarsi intorno, appurando di trovarsi nel bosco, accanto al ruscello. La luce del sole mattutino filtrava dalle cime degli alti alberi. – Dov’è Maringlen …? Ephram, dov’è mio fratello …? – sussurrò nello stesso momento in cui lo individuò steso sul prato anch’egli, a qualche metro da lei, apparentemente incosciente.
Era sdraiato a pancia in giù, con il viso rivolto verso di lei e i capelli che gli ricadevano disordinati sugli occhi e sulla bocca. Tuttavia, almeno lui non sembrava legato, né aveva lesioni o altri segni di violenza sul corpo.
- Non preoccuparti, sta bene – la rassicurò Ephram.
- Maringlen … Maringlen …! – provò ad alzare la voce Maroine.
- Non può sentirti.
- Che gli hai fatto …?
- L’ho completamente imbottito di valeriana. La quantità che gli ho fatto assumere basterebbe a stendere un branco di lupi selvaggi.
- Perché, Ephram …? Non capisco …
A ciò, lo stregone, in tutta calma, la guardò negli occhi semichiusi e le accarezzò una guancia. – Ieri ho parlato con la pupilla dei monaci del Creatore, Judith.
Ella sembra poco motivata ad aiutarci.
Dato che Selma è partita questa mattina per seguire il ragazzo, il complice di Judith, nel suo viaggio per recuperare la polvere nera, anche io devo darmi da fare per il bene della nostra compagnia.
- Cosa vuoi farci …?
Ephram si rialzò in piedi, si avvicinò al corpo di Maringlen, lo prese in braccio e lo adagiò accanto a quello di Maroine legata, posizionandolo nella stessa posizione di prima, scomposto e a pancia in giù.
Dopo di che, gli strappò la stoffa dei vestiti all’altezza della schiena, cominciando a tracciare sulla pelle candida dei simboli occulti con un composto di zolfo.
- Che gli stai facendo…?? Ephram, ti prego … ti prego! – si lamentò Maroine dimenandosi, impotente.
- Dato che sei l’unico sveglio, scegli: vuoi essere la vittima o il carnefice? Posso sempre fare in tempo a slegare te e a legare tuo fratello, prima che arrivino.
- “Arrivino”? Chi deve arrivare …?
- Beitris li ha già chiamati. I monaci giungeranno qui a prendervi molto presto.
Non ho molto tempo, perciò scegli, dolce Maroine. Vuoi soffrire tu o preferisci che sia lui a patire?
- Perché?? Dimmi perché! – esclamò la ragazzina ritrovando un minimo la forza di urlare.
- Per ottenere ciò che vogliamo occorrono dei sacrifici, Maroine. Questa è una lezione che tu e tuo fratello già conoscete. Vedendo due ragazzini tanto giovani condannati alla pena capitale Judith non potrà esimersi dall’aiutarci.
- E se non lo facesse …?
- Lo farà – rispose egli con il suo volto granitico, senza un pizzico di risentimento nella voce. – Allora, hai deciso? Vittima o carnefice, Maroine? D’altronde tu e tuo fratello siete una cosa sola, perciò non dovrebbe cambiare molto – insistette il ragazzo impugnando strettamente un martello con entrambe le mani.
- Non voglio! Lasciaci andare!
A ciò, Ephram alzò il martello sopra il braccio inerme di Maringlen.
- No! Vittima! Scelgo la vittima! Patirò io il dolore! Fallo a me! – esclamò disperata Maroine, venendo velocemente accontentata.
Ephram spostò il martello verso di lei e lo alzò direttamente sopra il braccio libero dalle corde della ragazzina urlante e dimenante.
In un secondo, lo fece calare giù impetuoso, in un colpo deciso che si andò a schiantare sull’avambraccio già colmo di sangue di pecora di Maroine, la quale lanciò un urlo atroce verso il cielo, facendo volare via ogni uccello che si trovava lì intorno.
- Non è irrecuperabile, Maroine. L’osso ritornerà a posto nel giro di qualche giorno. Sapranno prendersi cura di te e di tuo fratello – disse lo stregone incurante, avvicinando ulteriormente il corpo dell’altro gemello, posizionando il manico del martello tra le dita della mano di Maringlen, facendole stringere intorno ad esso, mentre Maroine continuava ad urlare.
- Ci rivedremo presto, mie preziose gemme.
Ricordate che non vi abbandonerei mai – concluse Ephram ritirandosi su il cappuccio del mantello e andandosene, scomparendo tra i fitti tronchi.
A quel punto, Maringlen sbatté lievemente le palpebre, risvegliandosi lentamente. – Maroine … - sibilò, con un filo di voce. – Maroine, non mi sento più il corpo …
- Maringlen … - lo richiamò la sorella piangendo di dolore. – Stanno arrivando, Maringlen … stanno arrivando a prenderci …
Il ragazzino strinse le dita sul manico del martello, non avendo il controllo del proprio corpo. Sbatté di nuovo le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente intorno a sé.
Sgranò gli occhi d’ambra non appena notò la pozza di sangue di cui era ricoperto il braccio di sua sorella, legata accanto a lui. – Maroine, che ti è successo …?
- Daranno la colpa a te … se ti vedranno così daranno la colpa a te, Maringlen!
- Eccoli laggiù! – la voce dei monaci li raggiunse prima che Maringlen avesse il tempo di realizzare il tutto e Maroine placasse i suoi lamenti di dolore. – Catturateli e sbatteteli nelle segrete!
 
Padre Cliamon camminò a grandi falcate per tutta la navata, con il cuore che batteva violentemente dentro la sua cassa toracica.
Mantenne la calma mentre raggiungeva i monaci che avevano da poco catturato i due ragazzini, radunati fuori dalla cattedrale. – Voglio vederli! – esclamò attirando la loro attenzione. – Voglio vederli.
- Non è possibile, padre. Non ancora.
- Mi hanno riferito che uno di loro è anche ferito. Lasciatemi vedere i due prigionieri.
- I peccatori che abusano in maniera inappropriata della magia nera devono essere rinchiusi nelle celle dei sotterranei di Bliaint in attesa del nostro verdetto. Tutti. È la legge – affermò con fermezza un altro monaco del Creatore.
- Me ne rendo conto, padre Petrit. Tuttavia, si tratta di due ragazzini questa volta. Non abbiamo mai catturato degli stregoni così giovani.
- La loro età non deve offuscare il vostro giudizio, Cliamon. Sono peccatori. Sono stati cresciuti e addestrati per questo. Per tale motivo vanno puniti.
- Non credete che andrebbero puniti coloro che li hanno cresciuti in tal modo, invece?
- Che succede qui? – attirò l’attenzione Judith, camminando verso di loro, raggiungendo il gruppo di monaci.
- Judith, cara – si avvicinò a lei padre Cliamon.
- Siete molto turbato, padre. Calmatevi – lo spronò la ragazza ponendogli le dolci mani guantate sulle spalle.
- Sono bambini, Judith. Sono solo dei bambini.
- Cosa? Di cosa state parlando, padre…?
- Non avete saputo? – intervenne nuovamente padre Petrit. – Abbiamo catturato dei marmocchi, colti sul fatto durante un pericolosissimo rituale di magia nera. Uno di loro ha persino rotto il braccio all’altro durante il rito.
Dopo qualche secondo di sgomento, Judith cercò di riprendere la lucidità. – Chi vi ha riportato la notizia? – domandò.
- Una donna, una serva del Diavolo.
- Dov’è ella ora?
- Cosa importa? Ci ha riferito di aver trovato i due peccatori nel bosco, era sconvolta quando ci ha raggiunti, povera cara.
Judith affilò lo sguardo, stringendo le dita intorno alle proprie braccia per ripararsi meglio dal freddo, riflettendo tra sé mentre padre Cliamon si riavvicinava a lei.
- Judith …
- Lo so, padre. È sconvolgente. Sono contrariata quanto voi. Due ragazzini così giovani in grado di commettere tale atrocità …
- Voi potete vederli, Judith. Siete solita dialogare con facilità con i prigionieri. Potreste parlare con loro e comprendere come mai hanno commesso tale sacrilegio e se davvero ciò che hanno fatto è tanto grave come crediamo – la spronò Cliamon.
Ella lo guardò negli occhi, combattuta, scorgendo della reale preoccupazione nei suoi occhi.
- Vedrò cosa posso fare.
Uno di loro è anche ferito, avete detto. Provvederò a farlo visitare e curare. Finché non verrà emessa la condanna non possiamo lasciarlo morente. Non siamo dei mostri, giusto? – chiese la ragazza, guardando negli occhi ogni monaco presente fuori dalla cattedrale.
- Conducetemi da loro.
 
Il ragazzo alzò il volto dal fuoco appena riacceso e alimentato con alcuni pezzi di legno.
Guardò dinnanzi a sé l’alba, la quale gli sembrò così diversa rispetto a come era abituato a vederla dalla finestra della sua abitazione al villaggio.
Affilò lo sguardo per bearsi della vista di tutte le meraviglie che ornavano la sua libertà.
Era fuori da Bliaint. Per la prima volta.
Quel formicolio alle mani e ai piedi, quel senso di fiducia nell’orizzonte avanti a sé, quell’energia dell’assenza di ogni limite, di ogni recinto intorno al suo corpo.
Lo alimentavano come nulla era stato mai in grado di fare.
Rabbrividì per il vento gelido che attraversò e si infiltrò nei suoi abiti pesanti e sorrise, continuando ad osservare la distesa vuota e macchiata di qualche zolletta di erba, di tanto in tanto, e i monti in lontananza, illuminati dal sol nascente.
Era trascorso solo un giorno dalla sua partenza, solo una notte fuori dal luogo in cui era cresciuto e già sentiva di poter passare altri duecento giorni camminando nel nulla, senza meta.
- Ho raccolto delle bacche per la colazione.
Dobbiamo tenerci in forze.
Vedo che vi siete dato da fare, avete raccolto i nostri teli e li avete rimessi nei sacchi – la voce della sua inaspettata e non del tutto gradita compagna di viaggio gli invase le orecchie come una campana assordante.
Selma si avvicinò a lui con una tazza fumante in una mano e un sacchettino di bacche nell’altra.
Prese a guardare l’alba anch’ella.
- È meraviglioso, non è vero? Il sole che sorge – sospirò prendendo un sorso dell’infuso preparato e porgendo le bacche al suo compagno.
Blake ne prese una manciata e ne mangiò una. – Non riprendete con le raccomandazioni, ve ne prego.
- Non temete, ho appurato che non siete uno sprovveduto, nonostante non siate mai uscito da quel piccolo pezzo di Eden – lo rassicurò ella. – Ma è anche mio dovere essere certa che non ci mettiate e non vi mettiate nei guai durante il cammino. È vero, sapete ben badare a voi stesso, sapete accendere un fuoco, tenerlo alimentato, siete in grado di rimanere sveglio tutta la notte per fare la guardia, siete acuto e intuitivo, ma tutto ciò non vi basterà.
Per vivere il mondo là fuori bisogna conoscerlo.
Blake si allontanò da lei, andando a sedersi dinnanzi al fuoco, poggiando la schiena su un grosso masso sporgente mentre continuava a guardare il sole non ancora al massimo della sua potenza.
- E voi? Quali sono le esperienze di vita nel mondo che vi permettono di vantarvi di aver visto di tutto e di farmi da guida? – le domandò senza un reale interesse.
Selma accennò un sorriso, rimanendo nella stessa posizione, continuando a sorseggiare. – Dovreste bere anche voi un po’ di infuso di erbe che ho preparato. Per far fronte al freddo incombente che ci attende, in particolar modo in seguito ad una notte passata in balìa del gelido esterno, non basteranno coperte di lana, abiti pesanti e un focolare accanto.
Blake accennò un sorriso. – Non temete, non sono interessato a tal punto da insistere.
- Non ne dubito. Voi non siete mai interessato, se non a determinati argomenti che catalizzano tutta la vostra energia – commentò ella riavvicinandosi a lui per porgergli la tazza di argilla nel quale era contenuto il suo infuso.
Egli la prese in mano, prendendone un sorso, assumendo una lieve smorfia di disgusto. – Cosa ci avete messo dentro?
- Il segreto non sono gli ingredienti ma il metodo di preparazione. Non vi aggrada? Bevetene ancora, vi terrà ben sveglio tutto il giorno e vi riscalderà le membra dall’interno. La prossima volta vi preparerò qualcosa di ancor più mirato.
- È tiepido. Se fosse abbastanza caldo lo apprezzerei – le disse il ragazzo riporgendoglielo.
A ciò, Selma riprese in mano la tazza, sorpresa. – In realtà, è ancora bollente. A meno che non siate abituato a bere lava incandescente.
- Sono abituato a fondere metalli, Selma. Direi che questo risponde alle vostre perplessità – le rispose alimentando il fuoco con un pezzo di legno.
La donna si fissò sull’ipnotica fiamma scoppiettante. – La vostra balia, quella di cui parla Beitris, vi ha insegnato anche a dominare gli elementi?
Blake non rispose, continuando ad alimentare il focolare. – Beitris non sa nulla di me e non sa nulla di Myriam.
Selma allungò la mano verso la fiamma fino a sfiorare quasi la fiamma con la punta delle dita.
A tal gesto, le movimentate lingue di fuoco più vicine a lei sembrarono quasi allungarsi lievemente verso la mano, la quale si richiuse a pugno subito dopo.
- Dovreste fare attenzione a tenervi lontana dalla magia mentre siamo fuori da Bliaint.
È stata la vostra prima raccomandazione, ricordate? – disse il ragazzo.
- Lo so bene – gli rispose ella. - La stregoneria è condannata ovunque in ogni sua forma e utilizzo, eccetto che a Bliaint. Ma ricordate anche che non dovrete mai e poi mai svelare di essere un abitante di Bliaint, per lo stesso motivo. Qualsiasi persona incontreremo lungo il nostro cammino non nutrirebbe alcun dubbio riguardo a quale dei due culti appartenete, se scoprisse che provenite dal leggendario villaggio di Bliaint.
A dir la verità, questo è il nostro maggior problema. Il vostro aspetto parla chiaro.
- Dunque, cosa avete intenzione di fare a riguardo?
- Nulla. Dobbiamo solo essere estremamente prudenti, non esporci e non attirare l’attenzione su di noi. In poche parole, passare più inosservati possibile.
Lascerete fare a me.
- Il fatto che io vi abbia permesso di venire con me, non vi autorizza ad assumere il predominio su ogni azione e decisione da prendere, Selma. Mi fido della vostra esperienza, ma ciò non vuol dire che io dipenda da voi. Se non mi permetterete di agire come riterrò più opportuno le nostre strade si divideranno.
- Resterò al mio posto. Avete la mia parola.
Avanti, muoviamoci. Abbiamo ancora dei giorni di cammino e entro quattro ore dovremmo raggiungere il primo villaggio. Con un po’ di fortuna, la prossima notte avremo un tetto sotto cui dormire.
 
Il vecchio mastro portò due tazze di infuso caldo al tavolo della sua bottega, una per suo figlio e una per il loro ospite.
- Non dovevate disturbarvi, mastro – gli disse padre Craig prendendo la tazza tra le mani.
- Non siate sciocco, padre. Intrattenetevi pure quanto volete – gli rispose cordiale l’uomo, per poi allontanarsi e lasciarli soli.
Van Naren strinse i bordi della tazza convulsamente mentre aspettava che il giovane prete parlasse per primo.
- Non vi è motivo di agitarsi, Naren.  Sono qui solo per parlare, null’altro.
- Che cosa volete sapere…? Non parlo con tanta facilità di cosa è accaduto quella notte.
- Come sapete che sono qui per parlare di quella notte?
- So che siete in buoni rapporti con Judith. Vi ha mandato ella, non è vero? – chiese risentito, con gli occhi lucidi.
- Lei mi ha riferito dove potervi trovare, Naren. Ma sono stato io a prendere la decisione di venire a parlarvi.
Credetemi, non è stato facile neanche per me. I fantasmi di ciò che è accaduto quella notte mi tormentano anche di giorno – ammise il giovane prete.
Naren alzò lo sguardo per osservarlo. – Voi non ricordate assolutamente nulla, padre?
- Nessuno ricorda nulla, ahimè.
- Ed è meglio così.
- Non è meglio così, Naren. Infangare tutto, seppellirlo come se non fosse mai accaduto non è mai la soluzione. Leggo dei tremendi sensi di colpa anche nei vostri occhi. Anche voi non riuscite a chiudere occhio a causa di ciò, o mi sbaglio?
- Ed è esattamente per tal motivo che preferirei non ricordare, proprio come tutti voi.
Dovreste essere lieto di non ricordare, padre. Credetemi.
- Dunque avete avuto contatti anche con me, quella notte …? – tentò padre Craig, facendo irrigidire il ragazzo.
- Non voi, padre. Con la persona che abitava il vostro corpo.
Ho visto ciò che ha fatto – sussurrò fissando il fuoco scoppiettare nel camino, come in trance.
- Chi era?? Sapete chi ha abitato il mio corpo …?
- No. Ma non eravate voi. Di questo sono certo.
- Potete dirmi qualcosa di questa persona …? Se non volete dirmi cosa ha fatto quando ha abitato il mio corpo, almeno ditemi come fosse … come si comportasse.
- Nessuno di voi era in sé, padre.
Ella era brutale. Questo è il solo aggettivo che mi viene in mente per descriverla.
- Siete certo fosse una donna?
- Non del tutto certo. Ma il mio istinto mi suggerisce questo.
Padre Craig poggiò la schiena sullo schienale della sedia, prendendo a riflettere.
- Avete avuto contatti con qualcun altro durante la nottata?
- Vi ho detto che non voglio parlarne.
- Il vostro atteggiamento nei confronti di Judith mi lascia presupporre che almeno con lei abbiate sicuramente avuto dei contatti.
Naren strinse la mano a pugno, cercando di regolarizzare il respiro. – Me ne compiango.
- Che cosa è accaduto che vi turba tanto, Naren? Confessare il vostro peccato vi aiuterà solamente a liberare la vostra anima.
Non sono qui per giudicarvi.
- Judith non era in sé – disse solamente.
- Che cosa ha fatto Judith?
- Ha fatto del male al corpo che ha abitato.
Quasi come se, in sé, possedesse da sempre una furia che aspettava solo il momento propizio per uscire fuori e scatenarsi in tutta la sua voracità.
- Cosa intendete quando dite “ha fatto del male”?
- Anche io le ho fatto del male.
- Naren … potete essere più chiaro? Avete fatto del male al suo corpo o avete fatto del male al corpo che lei ha abitato?
- Non vi dirò altro, padre.
Mi dispiace.
- L’avete violentata?
- Ho detto che non vi dirò altro! – esclamò alzandosi di scatto e sbattendo un pugno sul tavolo, respirando affannosamente.
- D’accordo. Ma la nostra conversazione non finisce qui – gli disse il giovane prete, alzandosi a sua volta, riprendendo il suo mantello appeso accanto al camino e togliendo il disturbo.
 
La ragazza si sistemò accuratamente la chioma rossa acconciata e tirata su ordinatamente, per poi accingersi a scendere nelle prigioni sotterranee.
Camminò con decisione verso la sua meta, raggiungendo la cella nella quale erano stati rinchiusi i due ragazzini.
Il primo dettaglio che notò e che avevano tralasciato di dirle, fu che i due fossero gemelli.
Ringraziò il monaco che aprì la cella e si accinse ad entrare.
I due erano accucciati tra di loro come due cuccioli orfani di una cucciolata.
Feriti, selvaggi, rabbiosi e brillanti di luce propria.
Judith sorrise naturalmente loro, sedendosi sulla sedia disposta, di fronte a loro.
Si sporse un po’ e individuò il gemello con il braccio tremante, insanguinato e stretto al petto. A ciò, allungò la mano guantata verso di loro. – Ho saputo che sei ferito. Posso vedere l’entità del danno?
I due continuarono a guardarla in cagnesco, non muovendo un solo muscolo.
- Non sono qui per farvi del male.
Ci pensano già loro a farlo, a quanto vedo.
Sono stati alquanto rudi con voi.
Ancora non siete stati giudicati colpevoli. Motivo per cui, posso prendermi cura di voi e curare le vostre ferite più gravi. Avanti, avvicinati o quel braccio peggiorerà a breve e arriverà ad un punto in cui non potremo più intervenire – disse con voce dolce e rassicurante, provvedendo anche a togliersi il guanto stretto e vellutato, per lasciare la mano bianca e magra scoperta al freddo, ornata di qualche sottile anello d’argento.
A ciò, il gemello col braccio ferito si avvicinò a lei lentamente, strisciando con il fondoschiena a terra, facendo quasi fatica a distaccarsi dall’altro.
Permise a Judith di scoprirlo dalla manica della maglia cenciosa, di toccarlo e di osservare la gravità della ferita.
- È stato tuo fratello a farti questo? I monaci dicono di aver trovato tuo fratello con la mano stretta al martello che ti ha provocato la ferita.
Ma il ragazzino negò immediatamente con la testa, più e più volte.
- Lo stai proteggendo, per caso? – domandò la ragazza affilando lo sguardo sospettoso, per poi volgere gli occhi neri all’altro gemello rimasto addossato alla parete e rannicchiato.
Il gemello ferito negò nuovamente.
- Tuo fratello non ha la lingua per difendersi da solo?
A tale provocazione, il presunto carnefice voltò la testa verso di lei, rivolgendole lo sguardo più scontroso e pregno di odio che le avessero mai rivolto.
Aveva metà viso parzialmente sporco di fango, così come alcuni ciuffi del suo disordinato cespuglio di capelli, e i vestiti completamente strappati all’altezza della schiena.
- Ammetto che mi risulti davvero strana una violenza simile tra fratelli.
- Non è stato lui a farmi questo! – fece finalmente udire la sua voce Maroine.
- Zitto, Maroine. Non parlare con lei – le ordinò Maringlen.
- Ciò che voglio sapere da voi, è come siano andate le cose – si affrettò a rispondere Judith, guardando prima uno, poi l’altro.
- Non ci crederete. Non ci crederete mai, perché ci volete morti, morti e basta – disse Maroine.
- Io vi crederò.
A tal risposta, Maringlen scattò in piedi come una molla e sputò ai piedi di Judith senza avvicinarsi a lei.
- Con le tue parole non ci puliremo neanche le ceneri che ci cadranno addosso al prossimo rogo che appiccherete sopra di noi.
Noi non parliamo con voi monaci.
- Fate parte della compagnia di stregoni eremiti che vive nei boschi? – insistette Judith, senza demordere. – Vi hanno costretto a fare questo? A farvi catturare e a farci credere di esservi fatti del male tra voi tramite la magia nera? A quale scopo?
- Il fatto che ci stiate per bruciare vivi non ci renderà degli sporchi traditori nei confronti della nostra gente! – esclamò Maroine.
- Dunque è così? Non collaborerete neanche se vi offrirò il mio aiuto a braccia aperte?
E se, invece, vi dicessi che uno di voi due può salvarsi?
A tali parole, gli occhi dei due gemelli assunsero un’espressione differente, meno buia e scontrosa.
- Non ti crediamo.
- E se così fosse? Tradireste la vostra gente?
- Mai.
Judith accennò un sorriso. – Non vi chiederò di tradirli. Vi chiedo solamente di dirmi come sono andate le cose – disse per poi rivolgere lo sguardo solo al gemello rimasto lontano da lei, in piedi dinnanzi alla parete. – Ti basterebbero solo poche parole per dimostrare la tua innocenza. Non sareste comunque assolti dall’accusa di aver abusato della magia nera, ma almeno proveresti di non aver fatto del male a tuo fratello, come io credo che tu non abbia fatto. “Non sono stato io a fargli del male”. Semplice, no?
- Non è stato lui a farmi del male – ripeté Maroine.
- Non l’ho chiesto a te ma a lui – insistette Judith continuando a fissare l’altro gemello.
- Diglielo, Maringlen. Dille che non sei stato tu!
Maringlen rimase in silenzio, non emettendo una parola.
A ciò, Judith sospirò, abbassando lo sguardo. – Vi serve del tempo per metabolizzare e riposarvi. Lo capisco. Tempo al tempo. Per ora, ciò che posso fare per aiutarvi, è curare questa brutta ferita al braccio – disse porgendo la mano a Maroine, la quale la prese e uscì dalla cella con lei, con lo sguardo costantemente puntato su suo fratello rimasto dentro.
- Non temere, ti riporto presto da lui – lo rassicurò Judith, conducendolo verso l’uscita delle segrete, ancora incatenato.
 
- Madre, potremmo aggiungere i funghi che ho raccolto oggi pomeriggio con Austen nello stufato! – esclamò la bambina dai corti capelli neri e gli occhi color mandorla, avvicinandosi alla sottana di sua madre.
- Certo, bambina mia, valli a prendere – la incoraggiò la donna, sistemando con una mano la sua bandana sulla fronte sudata e con l’altra continuando a girare il mestolo dentro la pentola fumante.
Fuori era quasi buio.
Improvvisamente, qualcuno bussò alla loro porta.
La donna voltò lo sguardo verso la porta, incerta.
- Chi è, madre?? – chiese la bambina dirigendosi verso la porta.
- Ferma, Gerda. Potrebbero essere i banditi, a quest’ora – la ragguardò la donna.
La porta bussò ancora.
- Chi diavolo è? – le raggiunse dall’altra stanza anche il figlio maggiore, un ragazzotto tarchiato e dalle spalle larghe.
La porta bussò una terza volta.
- Se sono banditi entreranno anche se non vorremo aprirgli, al diavolo. Aprite – ordinò il ragazzo.
A ciò, la sorellina si accinse ad avvicinarsi alla porta e aprì, affiancata dalla madre.
- Chi siete? – domandò la piccola guardando candidamente verso l’alto, verso i due forestieri incappucciati.
- Buonasera – la salutò dolcemente Selma, sfilandosi il cappuccio. – Ti ringrazio di averci aperto. Io sono Selma. Io e il mio compagno di viaggio stiamo cercando un luogo per passare la notte, dato che siamo nel vostro villaggio solamente di passaggio. Sareste così gentili da ospitarci, solo per questa notte? Ve ne saremmo davvero grati – le disse.
A ciò, la bambina la guardò incuriosita, poi spostò lo sguardo sul ragazzo, ancora incappucciato e notevolmente più alto della donna. La piccola gli sorrise ed egli ricambiò. – E voi come vi chiamate? – gli chiese.
- Blake. Tu? – le rispose togliendosi il cappuccio.
- Gerda.
- Molto lieto, Gerda.
La piccola rise di gusto, per poi venire raggiunta dalla madre, la quale squadrò i due dalla testa ai piedi, stringendosi sua figlia alla sottana. – Chi siete voi? Che cosa cercate?
- Siamo forestieri – rispose Selma.
- Questo lo vedo bene con i miei occhi. Non vi ho mai visti; se vi avessi visti al villaggio mi sarei sicuramente ricordata di voi.
- Se siamo sgraditi possiamo bussare ad un’altra porta. Togliamo il disturbo – disse Blake con naturalezza.
- Oh, no, madre, ti prego, ospitiamoli! – la pregò la bambina. – Cercano solo un posto in cui passare la notte.
- Non fare i capricci, Gerda. Tuo padre è via da giorni, non posso prendere decisioni senza di lui. Dobbiamo cercare di essere prudenti e di badare alla casa.
A tali parole della donna, gli occhi di Selma si catapultarono su Blake, in un’occhiata complice.
- Proprio perché nostro padre non c’è abbiamo bisogno di aiuto per badare alla casa e tenere lontano i banditi. Loro potrebbero esserci d’aiuto – la spronò la bambina. – Ti prego!
A ciò, la donna sbuffò e riportò lo sguardo sui due. – Da dove venite? – domandò.
- Da un villaggio lontano da qui, da dietro la vallata – rispose Selma con prontezza.
La donna li osservò ancora con attenzione, prima di porgere un’altra domanda. – Dove siete diretti?
- A Erit.
- A Erit? Dista giorni da qui. Per quale motivo siete diretti ad Erit?
- Per questioni personali – rispose Selma, cercando di troncare l’argomento.
- Che genere di questioni personali …?
- Dobbiamo incontrare degli amici che abbiamo ospitato mesi fa nel nostro villaggio. Hanno voluto ricambiare il favore, dunque andremo loro a far visita, come promesso – rispose Blake al posto della sua compagna, sorridendo cordiale. – Ad ogni modo, possiamo bussare ad un’altra porta. Se non desiderate la nostra presenza, lo comprendiamo – non esitò a ripeterle.
In risposta, la donna smise di osservarlo, scostando lo sguardo come scottata. – Venite dentro. Là fuori si gela. Sarete infreddoliti – disse, permettendo ai due di entrare, mentre la piccola Gerda esultava.
- Non abbiamo mai ricevuto visite da dei forestieri! – esclamò la piccola esultando. - Siamo molto contenti di ospitarvi!
- Chi siete voi? – si fece strada il maggiore, andando loro incontro.
- Austen, loro sono Blake e Selma; Blake e Selma, lui è mio fratello Austen! – li presentò Gerda.
- E voi? – domandò Blake rivolgendosi alla madre di famiglia.
- Selen. Mi chiamo Selen.
- Come mai viaggiate insieme? – domandò scontroso Austen.
A ciò, Selma si voltò verso il suo compagno e sorrise, posandogli una mano sulla guancia. – Lui è mio figlio. Dove mai andrebbe una madre, senza suo figlio? – disse sorprendendo Blake e facendo immobilizzare gli altri tre, intenti a guardarli.
- Non vi somigliate minimamente – commentò Austen, esprimendo il pensiero di tutti.
- Fortunatamente Dio ci ha creati uomo e donna, giusto? I figli rubano qualcosa ad uno dei due, lasciando intoccato l’altro. In tal caso, Dio ha voluto che Blake prendesse da suo padre e non da me.
Anche voi non somigliate per nulla a vostra madre, giovane Austen. Ve lo ha mai detto nessuno?
- Toglietevi pure i mantelli e le giacche – intervenne Selen troncando il discorso.
- Stiamo preparando dello stufato! Volete aiutarci?? – domandò la piccola Gerda sprizzante di gioia, mentre Selen prendeva il mantello e la giacca di pelliccia di Blake, dopo aver preso anche quelli di Selma.
- Certo! Io so cucinare molto bene, sai? – le rispose Selma.
- Davvero? Cosa sai fare??
- Pasticci di patate, torte alla frutta, focacce salate, succulenti stufati …
Gerda la ascoltava con gli occhi luminosi e l’acquolina in bocca.
- Se volete restare qui stanotte dovete ripagarci in qualche modo – proruppe Austen incrociando le braccia.
- Austen – lo riprese sua madre.
- Cosa, madre? Ho detto qualcosa di sbagliato? Chiunque riceve della gentilezza fa in modo di sdebitarsi e di ripagarla in un modo o nell’altro, giusto?
- Ha ragione – intervenne Selma. – Vostro figlio ha assolutamente ragione, signora Selen. Io e mio figlio dovremmo pur ripagare la vostra gentilezza in qualche modo. Io potrei aiutarvi con la cucina.
- Io potrei svolgere qualche mansione manuale domani, prima di ripartire. Dato che vostro marito è assente, potrei darmi da fare al campo, con il bestiame o con qualsiasi altro lavoro. Sono abituato ad adoperarmi in mansioni simili nel mio villaggio – propose Blake.
- Per occuparsi del campo e del bestiame ci sono già io! – si impose Austen, sentendosi offeso da tal proposta.
- Oh, caro, potete tranquillamente continuare a svolgere tali mansioni da solo, non temete. D’altronde, Blake è in grado di fare molte cose, oserei dire quasi tutto – lo informò Selma sorridendo sardonica. – Può sempre sdebitarsi in altri modi, giusto? – aggiunse rivolgendosi al diretto interessato, per poi volgere gli occhi alla bambina. – Avete qualcuno che vi insegni a leggere e a scrivere, Gerda?
- Sì. La maestra del villaggio – rispose la bambina.
- Devi sapere che Blake è molto bravo con i numeri. Ti andrebbe di imparare qualcosa in più riguardo ai numeri? Potrebbe esservi utile per il bestiame, per il raccolto, per le vendite e per molto altro – propose la donna.
- Ai bambini del nostro villaggio si insegna poco, quasi nulla, riguardo i numeri – rispose Selen accennando un sorriso interessato, cercando di non darlo troppo a vedere. – Sono certa che Gerda sarebbe molto contenta di imparare a contare e a calcolare. Avrebbe persino qualcosa con cui vantarsi un po’ con i suoi amici – aggiunse la donna guardando sua figlia, la quale stava già annuendo allegra.
- Affare fatto allora – pattuì Selma.
- Tuttavia, per impararmi qualcosa in più riguardo ai numeri non basterà un giorno, vero? – chiese la piccola rivolgendosi a Blake.
- Purtroppo non possiamo trattenerci di più, Gerda. Altrimenti, sarei felice di farlo. Posso comunque insegnarti molte cose domani, prima della partenza.
La bambina si intristì istantaneamente, così come sua madre, la quale intervenne nuovamente. – Siete certi di non potervi trattenere anche solo due o tre giorni in più? Mio marito dovrebbe trattenersi via per un’altra settimana almeno, mi fareste molto comodo qui.
- Non possiamo rimanere di più – disse categorica Selma, non ammettendo repliche, facendo incupire la padrona di casa.
- Noi vi forniamo la nostra ospitalità. Per ricambiare la nostra cordialità sarebbe gentile da parte vostra se rimaneste almeno qualche giorno in più. Avete detto che dovete solamente raggiungere i vostri amici ad Erit per una vacanza. Domani è prevista una tempesta di neve. Vi congelerete là fuori.
Come mai tutta questa fretta?
- Vi abbiamo già detto che possiamo trattenerci solamente una notte, non di più.
- E io vi ho appena detto che …
- D’accordo. Resteremo. Resteremo qualche giorno – intervenne Blake imponendosi, interrompendo la discussione delle due. – Poi, quando il tempo migliorerà un po’, ci rimetteremo in viaggio.
A ciò, Selen sorrise abbassando lo sguardo, Austen sbuffò, mentre Gerda saltò di gioia.
- Vi accompagno nella stanza degli ospiti, in modo che potrete stendervi un po’ prima della cena.
Non appena i due entrarono nella piccola stanzetta scarna ma ospitale, composta solamente da due letti e da un comodino provvisto di candela, e furono lasciati soli, Selma non si trattenne.
- Per quale motivo avete accettato di restare?
- Perché voi ci avete messi in una situazione scomoda a causa della vostra assurda pretensione a parlare, a dirigere autonomamente la situazione, grazie alla vostra “esperienza”.
- Io li ho convinti ad ospitarci garantendo per voi e per me – si lamentò la donna.
- Si sarebbero convinti in ogni caso.
- Vi informo, che l’unico motivo per il quale quella donna ci avrebbe fatto entrare a casa sua in ogni caso, Blake, consiste nel fatto che suo marito è fuori casa e che, non appena vi ha visto, non è più riuscita a ragionare con la testa.
Se ci fosse stato suo marito, non saremmo mai riusciti a convincerli a fidarsi di due sconosciuti senza la mia parlantina che tanto disprezzate.
- Ditemi, dunque, vi era necessariamente il bisogno di propormi come insegnante della figlia? Non vi è minimamente venuto in mente che per insegnarle qualcosa di consistente ci sarebbe voluta più di una mattinata?
- Quel montone del figlio ci ha messi con le spalle al muro, non vi sarebbe potuto essere qualcos’altro di tanto esclusivo da proporre, per lo meno non platealmente.
- Dovete prendervi le responsabilità delle vostre azioni, Selma. Le vostre parole li hanno portati a forzarci a restare. Ad ogni modo, non temete, poiché domani ce ne andremo senza che loro lo scoprano.
Non appena riusciremo a rimanere soli, prepareremo i sacchi e lasceremo questo villaggio.
- Questo villaggio non mi convince, Blake.
- Esiste un villaggio che sarebbe in grado di convincervi, Selma?
La donna sospirò, sedendosi su uno dei due giacigli. – L’energia che percepisco qui non mi piace per niente.
- Beh, se è così, cercate di non darlo troppo a vedere.
Non vorrete farci durare meno di uno stufato nel primo villaggio su cui metto piede che non sia Bliaint.
 
Judith condusse il giovanissimo prigioniero nello stanzone della cattedrale dedicato alle cure dei malati.
Lo fece sedere sul giaciglio e si accinse a riempire una bacinella di acqua limpida. – Mi spiace di non poterti toglierti le catene  ai polsi e alle caviglie, ma comprendi che la situazione purtroppo non mi permette di farlo – disse afferrando un panno pulito insieme alla bacinella piena e dirigendosi verso il giaciglio, sedendovisi sopra a sua volta. – A breve arriverà un mastro che si occuperà del vostro braccio, intanto possiamo iniziare a pulire la ferita mentre lo attendiamo.
- È un monaco anche lui? – domandò astioso il prigioniero.
- Sì – rispose la ragazza cominciando a strappare il tessuto della maglia malandata del ragazzino, il quale scattò immediatamente lontano da lei, finendo in fondo al giaciglio, quasi ringhiando.
- Maroine – ritentò pazientemente Judith. – Devo toglierti la casacca per pulirti adeguatamente la ferita. In ogni caso, dovrà farlo il mastro che verrà a breve se non lo farò io.
- Non voglio farmi spogliare né da te né da quel monaco! Non voglio farmi spogliare da nessuno! – esclamò feroce.
- Maroine – lo richiamò ancor più dolcemente la ragazza. – Perché non vuoi toglierti i vestiti? Per caso, qualcun altro lo ha fatto in passato, con la forza e senza il tuo consenso? A me puoi dirlo, poiché l’ho vissuto anche io sulla mia pelle.
Può succedere sia alle ragazze che ai ragazzi.
- No, non si tratta di quello!
Credi che mi importi di chi mi tocchi?? – sorrise sprezzante Maroine. – Tu sei vissuta in questa campana di vetro di agiatezze, di libertà e di lusso mentre io e mio fratello siamo cresciuti nel gelo, nella povertà e nel putridume del mondo là fuori! Non abbiamo mai avuto niente, né denaro, né parole di gentilezza, né atti di misericordia, cibo, istruzione o tanto meno amore! Per noi è normale venire trattati come agli altri più aggrada! Sia che agli altri vada di farci del male, sia che agli altri vada di trattarci come animaletti indifesi di cui prendersi cura, noi dobbiamo difenderci da soli, con le unghie e con i denti per evitare che facciano di noi ciò che preferiscono! A volte, invece, dobbiamo lasciarli fare, fin quando non si stancano da soli di avere a che fare con noi! Siamo allergici alla morte oramai! Niente è più in grado di annientarci, né la violenza né tanto meno una vita passata nelle segrete!  - urlò, facendo impietrire la ragazza.
Le due rimasero in silenzio, fin quando Judith non ritrovò il coraggio di parlare. – Maroine, mi dispiace. Mi dispiace di aver pensato di poterti toccare senza il tuo consenso, ma ora è davvero necessario pulire quella ferita. La tua spalla ne sta risentendo poiché la stiamo trascurando da quando ti è stata inflitta. La stoffa della tua casacca si è incrostata di sangue ed è rimasta incastonata nella ferita. Dobbiamo togliertela.
- No!!
- Maroine.
- Ho detto che non voglio!
- Allora sarà il mastro a farlo al mio posto.
A tali parole, Maroine sbiancò e, molto gradualmente, si riavvicinò a Judith.
- Se, in ogni caso, o tu o lui lo farete, allora devi promettermi qualcosa – esordì Maroine con le lacrime che oramai gli rigavano le guance.
- Ti ascolto.
- Devi essere solo tu a prenderti cura della mia ferita. Lui non deve vedermi.
- Io non posseggo abbastanza nozioni per curare una ferita come quella, Maroine.
- Lui non deve vedermi – insistette il prigioniero.
A ciò, Judith annuì. – Leggerò qualche tomo specifico, mi informerò meglio a riguardo. Ora avvicinati – lo spronò, posando le mani sulla sua schiena, strappando il tessuto della casacca dalla nuca fino alla fine della schiena.
Sfilò la maglia e osservò il suo corpo, vedendo qualcosa che le fece sgranare gli occhi scuri: una lunga benda bianca era legata intorno a tutto il petto di Maroine, tanto strettamente da bloccarle quasi il respiro.
La benda tratteneva qualcosa, delle sporgenze ancora molto piccole ma presenti, mentre, più in sotto, il torace e il ventre erano più sottili di quanto si aspettasse.
Quella che oramai Judith aveva scoperto essere una ragazzina, teneva la testa bassa, immobile.
Judith non disse niente, ma procedette a sfilarle la maglia insanguinata, a riporla sulle coperte e a pulire la ferita.
Maroine si lamentò un po’, cercando di trattenersi il più possibile ogni volta che l’acqua fredda e il tocco della ragazza si posavano sulle zone tremendamente doloranti del suo braccio.
- Non lo saprà nessun altro, non temere – le disse all’improvviso, mentre passava per l’ennesima volta il panno fresco sullo squarcio pulsante. – Tu e tuo fratello rimanete comunque accusati di un peccato mortale, sia che tu sia una ragazza, che un ragazzo. Il mio giudizio non verrà influenzato da questo.
Maroine non rispose.
- Sai, non mi è mai capitato di incontrare una ragazza travestita da ragazzo – aggiunse Judith. – In realtà, non mi sembra così strano, poiché posso comprendere perfettamente i motivi per cui hai deciso di farlo.
- No, tu non puoi comprendere niente, perché non sai niente – rispose categorica Maroine.
- È vero, hai ragione.
- E se non fossimo in questa situazione non sapresti nulla di tutto questo.
- Ne sono consapevole. Tuttavia, ci troviamo in questa situazione, dunque io e te ora abbiamo qualcosa che ci lega – disse andando a recuperare una casacca larga e pulita, per poi porgerla alla prigioniera, ancora seminuda. – L’ho cucita io. Ne cucio sempre in abbondanza per i ragazzini bisognosi che giungono alla cattedrale, in cerca di aiuto – le disse, aiutandola ad infilarsela. – È abbastanza larga, esattamente come quella che avevi prima. Non si noterà nulla – la rassicurò.
- Non ho bisogno che mi dici questo. Non mi serve la tua pietà. Mi serve che mi riporti da mio fratello.
- Voi due non siete affatto abituati a stare lontani, vedo.
- Voglio tornare da lui, Judith.
- Tornerai presto da lui, te le garantisco.
Ma, come ti ho già detto, il braccio peggiorerà se non facciamo qualcosa per porvi rimedio ed io ora non ho abbastanza conoscenze e competenze per sostituite il mastro.
Dato ciò, ora resterai qui ad aspettarmi, mentre io mi reco di sopra, alla biblioteca, e consulto qualche manuale. Non ci metterò molto. Quando tornerò, medicheremo adeguatamente quel braccio e lo benderemo, in modo che potrai tornare da tuo fratello.
Ora stenditi, ti accendo alcune candele.
 
Il piccolo Ioan corse fuori dalla sua abitazione, alzando la testa al cielo, aprendo la bocca e tirando fuori la lingua, con gli occhi talmente chiari da subire il fastidio della luce fievole delle nuvole che coprivano il cielo.
Socchiuse le palpebre sottili e si godette la sensazione dei fiocchi che si posavano sulla lingua, senza sentire più freddo del dovuto, senza sentirsi stanco o dolorante.
Sentiva un’energia scorrergli dentro che non aveva mai provato nei suoi pochi anni di vita.
Sua madre Heloisa e suo padre Rolland era rimasti sconvolti da tale cambiamento repentino in positivo, da un giorno all’altro, tanto da doversi ancora abituare alla sua buona salute.
Sua madre credeva che il Signore li avesse benedetti con un miracolo.
Avrebbe voluto che anche Blake lo vedesse in quello stato.
Anzi, lui era colui che più di ogni altro avrebbe dovuto vederlo forte, in salute, felice. D’altronde, Christopher Ioan era fermamente convinto che la sua apparente guarigione fosse tutto merito di Blake, e nessuno gli avrebbe potuto far cambiare idea: da quando suo fratello gli aveva donato quel ciondolo e lui lo aveva indossato, il suo grave malanno sembrava essere svanito col vento e con la neve.
Sperava suo fratello stesse bene e tornasse presto. Era trascorso solo un giorno dalla sua partenza, eppure tutti sembravano risentire della sua mancanza, ognuno a modo suo.
Certo, la buona salute di Ioan distoglieva l’attenzione dal resto, ma l’assenza di Blake si sentiva eccome.
Rolland non faceva altro che sbuffare, lamentarsi della manodopera della galleria e del fatto che senza Blake i risultati di una giornata di lavoro fossero notevolmente peggiorati. Quel pomeriggio, Ioan lo aveva addirittura beccato a sfogliare senza sosta i calcoli svolti da Blake sulla contabilità della galleria, risalenti ad alcuni vecchi commerci di metalli intrapresi con altri villaggi, intento ad osservare e a sfiorare quei segni ordinati e incomprensibili.
Padre Craig sembrava non dar peso alla cosa, stranamente, poiché quel giorno si era tenuto impegnato in diversi modi; tuttavia Ioan poteva intravedere nel suo sguardo un costante velo di preoccupazione sicuramente rivolto a Blake, quando lo scorgeva assorto nei suoi pensieri in alcuni momenti della giornata.
Sua madre, nonostante non lo desse affatto a vedere, era quella che ne soffriva di più. Difatti, il piccolo Ioan, la notte prima, aveva sentito i passi di sua madre diretti verso la stanza di suo fratello. In silenzio, si era alzato dal letto, aveva aperto la porta della camera e aveva sbirciato fuori dall’uscio, vedendo Heloisa seduta sopra il letto di Blake, accarezzandone le coperte con sguardo nostalgico.
- Dove sei, Even? – chiese il secondogenito di Rolland, aprendo gli occhi per quanto gli fosse possibile, rivolto alla neve che si stava posando placida nel terreno morbido. – Quando tornerai da me? – disse stringendo il ciondolo che pendeva sul suo petto.
- Ioan, rientra in casa o ti prenderai un raffreddore! – la voce premurosa di padre Craig, proveniente dall’uscio della casa, lo riscosse, facendolo voltare a guardarlo. – Avanti, giovanotto! Il fatto che ora tu sia sano come un pesce non significa anche che tu sia immortale! – lo ammonì bonariamente, facendogli segno di rientrare mentre si copriva dal freddo esterno con un pesante scialle avvolto intorno al corpo.
- Guardate, padre, nevica! – esclamò felice il bambino, ignorando le sue parole. – Facciamo una passeggiata alla piazza del villaggio! La piazza è bellissima quando nevica! Non potete perdervela!
Padre Craig si arrese, sorridendo di rimando a quel dolce visino d’angelo, per la prima volta rinvigorito e luminoso, dopo tanto tempo.
- Prendo il mio e il tuo mantello di pelliccia e ti raggiungo!
I due si recarono nella piazza del villaggio, passeggiando allegramente tra i passanti, godendosi il paesaggio coperto da quella lievissima patina bianca, che probabilmente, durante la notte si sarebbe sciolta, non lasciando traccia di sé.
Padre Craig stringeva la mano del bambino mentre camminava, per non perderlo di vista, poiché lo sentiva fremere dalla voglia di sfuggirgli per saltellare in giro ed esplorare il villaggio, ora che aveva finalmente la forza e l’energia per farlo.
- Vieni, Ioan, voglio farti conoscere una persona. Spero non sia troppo impegnata al momento – disse il giovane prete al suo piccolo accompagnatore, raggiungendo l’entrata della cattedrale dei servi del Creatore, dalla quale vide immediatamente uscire un monaco calvo e dallo sguardo turbato, il quale sembrava andare di fretta.
- Scusate il disturbo – lo richiamò gentilmente padre Craig, vedendolo arrestare il suo cammino e voltarsi verso di lui.
- Sì? Avete bisogno di qualcosa?
- Oh, buon signore, credo di averla già incontrata. Io sono padre Craig, il prete straniero amico di Arley Judith, la vostra protetta. Questo giovane che mi accompagna invece è Christopher Ioan. Voi siete?
A tali parole, il monaco affilò lo sguardo e sembrò riconoscere padre Craig. – Oh, siete voi. Io sono padre Cliamon.
- Molto lieto, padre Cliamon.
- Cercate Judith?
- Sì, sono qui per farle un saluto, se non è troppo occupata al momento. Mi piacerebbe farle conoscere Ioan.
- Capisco, ma al momento Judith non può ricevere nessuno – disse lapidario.
- Oh … capisco. Ditemi, è accaduto qualcosa, per caso? Sembrate preoccupato, quasi allarmato. Posso fare qualcosa per aiutarvi?
- Temo di no, figliolo. Non avete udito? Poche ore fa sono stati catturati due ragazzini apparentemente appartenenti alla setta di stregoni eremiti che vive nel bosco. I due rischiano la condanna alla pena capitale.
- Due … ragazzini? – ripeté Craig sconvolto. – Due ragazzini che rischiano la pena capitale…? Quanti anni hanno?
- Sono poco più grandi del vostro giovanissimo accompagnatore, temo – rispose afflitto padre Cliamon, posando lo sguardo su Ioan.
- Oh, buon Dio. Non riesco a credere alle mie orecchie …
Padre Craig era talmente avvilito dalla notizia appena udita, da non aver prestato attenzione a Ioan.
Non appena aveva ascoltato tale infausta informazione, il bambino aveva lasciato la mano del giovane prete, così come il suo fianco, per camminare confusamente in mezzo alla piazza, tra le due cattedrali, in cerca di qualcosa.
Ioan sapeva che le segrete sottostavano la piazza di Bliaint, e a chiunque era vietato l’accesso, eccetto ai monaci. Tuttavia, sapeva anche che qualche sprazzo di luce e di aria doveva pur entrare in quelle celle buie.
Non appena trovò una delle tonde grate di cui era provvisto il pavimento della piazza, vi si inginocchiò accanto.
Voleva compiere un atto di gentilezza e di bontà verso chi era meno fortunato di lui; così, tirò fuori dalla tasca della casacca il sacchettino di datteri acquistato poco prima al mercato con padre Craig.
Ne prese uno e si affacciò alla grata, cercando di scorgere almeno uno dei due giovani prigionieri, non riuscendo tuttavia a vedere nulla a quella distanza.
A ciò, per attirare la loro attenzione, Ioan fischiò la melodia della canzone che Blake recitava per lui ogni volta che glielo chiedeva.
Sotto quella grata, con le catene che gli stringevano i polsi e le caviglie, la testa abbandonata sul muro umido, il corpo infreddolito accasciato e gli occhi semichiusi per la stanchezza e la rabbia covata, si trovava Maringlen.
L’effetto della valeriana di cui lo avevano imbottito sembrava sortire ancora qualche effetto nel suo corpo, rendendolo debole, dolorante e stanco, stanco anche di pensare.
Improvvisamente, il ragazzino udì un fievole fischio a distanza.
Quando la melodia del fischio si fece più persistente, Maringlen si decise ad alzare la testa verso l’alto, lentamente, per cercare di scorgere, in quella lontana fonte di luce sopra di esso, l’origine di quel suono.
Il fischio continuò, dando modo e tempo al ragazzino di gattonare fino al punto che si trovava esattamente sotto il tombino e di alzare gli occhi d’ambra verso il bambino dall’altra parte. Quando quest’ultimo lo vide, gli sorrise e si accinse ad infilare qualcosa su uno dei piccoli buchi della grata che li divideva.
Il dattero cadde accanto a Maringlen, il quale lo prese in mano, osservandolo, per poi riportare gli occhi verso il suo benefattore, di cui riusciva a scorgere solo qualche carattere del volto.
- Maringlen…? – quella voce familiare riscosse il ragazzino, il quale distolse l’attenzione dal bambino al di là della grata e la portò sull’uomo affacciato alla sua cella, il quale lo stava osservando con uno sguardo ferito, allarmato e speranzoso insieme. – Maringlen, mi senti? Ti hanno fatto qualcosa di male, Maringlen? Ti hanno convinto a fare ciò che hai fatto drogandoti con qualche pericoloso intruglio?? Stai bene??
Fuori nevica, starai congelando …
Parlami, bambino mio, ti prego …
Nonostante la voce supplichevole di padre Cliamon, Maringlen non lo degnò di uno sguardo, dandogli le spalle, concentrandosi invece su un grosso ragno nero e rosso che gli stava risalendo il braccio, fino a raggiungere la spalla.
- Maringlen, presto riporteranno Maroine qui, non appena le avranno medicato il braccio.
Ti prometto che vi tirerò fuori di qui, Maringlen, te lo giuro solennemente.
Abbi fiducia in me, figliolo.
Nell’udire quelle parole, l’indifferenza del ragazzino si fece ancor più ostentata, poiché si diresse verso la parete più lontana dalle sbarre e si sedette, poggiandosi con la spalla non occupata dal ragno sul muro.
Gli occhi fissi nel vuoto dinnanzi a sé.
- Lo so che noi due non abbiamo mai avuto uno stretto rapporto, in assenza di Maroine – disse il monaco inginocchiandosi a terra e poggiando la testa calva sulle sbarre, stringendo quelle assi di metallo tra le dita.
- Se avessi saputo cosa sarebbe accaduto avrei fatto di tutto per evitarlo.
Di tutto …
Non posso perdervi, Maringlen.
Non posso.
Maringlen continuò a guardare fisso dinnanzi a sé, apparendo all’esterno come un corpo senza vita, mentre il ragno raggiungeva il suo collo, quasi come se volesse fargli da ciondolo.
- So che non sei stato tu a far del male a Maroine.
Tu non le faresti mai del male, anzi, daresti la vita per lei.
Vedrai, troveremo il modo di dimostrare la tua innocenza.
Quando ti interrogheranno, dovrai dire la verità, dovrai dire di non essere stato tu a farle del male, e di essere stati manipolati e drogati da altri.
Al resto penserò io.
Il ragazzino serrò la mascella in risposta, non emettendo neanche un suono.
- Maringlen, ti prego, ascoltami. Guardami, almeno … - lo supplicò il monaco osservando ogni suo singolo battito di ciglia, da dietro le sbarre. – Non riesco a vederti così.
Nessuna risposta, nessuna reazione.
- Ti canto qualcosa, ti va? – ritentò Cliamon sorridendo speranzoso mentre lo guardava e stringeva le sbarre sempre più. – In mancanza di vita, il terreno dondola … - intonò, con la voce rotta. – In mancanza di vita, il mondo resta sospeso.
Nulla è protetto da qualcosa che vive – pian piano, Maringlen si voltò verso l’uomo, donandogli i suoi occhi, seppur lucidi e sfuggenti.  
- Sono l’anima di un’aquila – continuò il monaco. – Sono salito nel cielo e non ho trovato nulla, sai?
Maringlen si avvicinò gradualmente alle sbarre, ascoltando il canto.
- Voglio percorrere la tua strada.
Voglio percorrerla fino alla fine
Nella pioggia, nel vento, nel gelo
Fino al punto esatto in cui il terreno non dondolerà più
Avrò il tuo nome con me
Tra le mie labbra e nei miei occhi – la mano di Maringlen si posò delicatamente sopra quella stretta alla sbarra di padre Cliamon, il quale, dentro di sé, si disse di poter ricominciare a respirare.
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Veleno ***


Veleno
 
Beitris passò il solito panno bagnato sul corpicino senza vita steso dentro la teca di vetro, perdendosi nei suoi pensieri, mentre lo cospargeva di oli come ogni giorno, per agevolarne la conservazione.
- Il tuo turbamento sta invadendo l’intera casa. Mi ha colpito in pieno mentre facevo colazione – la riscosse la voce di Ephram, quasi spaventandola.
Si voltò a guardarlo e lo trovò all’entrata della stanza, con le braccia conserte, intento ad osservarla con un semi sorriso a ornargli il volto.
Il solito sguardo di chi, per qualche motivo a lei sconosciuto, era convinto di avere il suo destino in pugno.
Odiava quello sguardo, lo stesso che l’aveva sempre irrimediabilmente attratta.
Non era una questione di carisma, no.
Si trattava di tutt’altro. Una strafottenza latente, una sicurezza in grado di penetrare in chiunque gli si trovi dinnanzi, protraendosi fino all’esaurimento. Qualcosa che avrebbe voluto possedere anche lei.
Invidia.
Continuò a oliare il corpicino, ignorando la sua presenza. – Non mi sorprende. Senza Maringlen e Maroine la casa è molto silenziosa – si limitò a rispondergli, sentendolo avvicinarsi alla sua schiena.
Le accarezzò la spina dorsale coperta solo dal tessuto dell’abito largo che ella indossava, fino ad arrivare alle lunghe ciocche lisce e corvine.
- Stai rabbrividendo – le sussurrò il ragazzo.
Non ricevendo alcuna risposta da ella, Ephram continuò. – Sei stata la prima ad approvare il mio piano di farli catturare per convincere la protetta dei servi del Creatore a collaborare con noi. Ora te ne sei pentita?
- No, non me ne sono pentita.
- Dunque continuerai a imbottire di olio il corpo di un ragazzino morto per sopperire alla mancanza di due ragazzini vivi? – quelle parole attirarono totalmente l’attenzione della ragazza, la quale si voltò verso di lui, sfondandolo con il suo sguardo livido di un sentimento sopito e ribollito.
- Ho accettato di portare a compimento questa tua malsana idea perché non avevamo scelta, e perché ero del tutto certa che ce li saremmo ripresi sani e salvi una volta finito tutto questo.
- Ora non lo credi più? Hai smesso di fidarti di me?
Beitris distolse lo sguardo. – Non pretendevo di riaverli senza un capello torto, ma romperle un braccio … è stato troppo. Non sappiamo se in quella fogna buia riceveranno le cure adeguate, non sappiamo se quella iena addomesticata dai monaci accetterà di aiutarci. Potrebbe odiare i ragazzini, potrebbe avere un cuore freddo, duro ed egoista, potrebbero esservi mille e più variabili differenti che porterebbero il piano a fallire. E se anche solo una delle nostre previsioni dovesse non verificarsi …
- … i nostri due bei topolini finirebbero abbrustoliti in mezzo alla piazza del villaggio – confermò Ephram, risalendo con la mano lungo la sua gamba e il suo fianco. – Oh, se i nostri due gemellini sapessero di essere tanto amati … sono certo dormirebbero sonni tranquilli in quella cella buia e umida.
Beitris strinse le dita e le unghie lunghe intorno al polso del ragazzo, arrestando la sua salita. – I tuoi aitanti e servizievoli amanti ti hanno già stancato, Ephram? La fame di donna ha ricominciato ad agitare i tuoi sonni? – gli domandò velenosa.
- Sei annoiata, Beitris. Annoiata e fremente, agitata. Lo vedo e lo sento dall’energia che emani.
- Cos’è oramai che non ci annoia, Ephram? A cos’altro dovremmo arrivare pur di sentire ancora qualcosa? – domandò sospirando, risalendo distrattamente con le unghie sulle clavicole semiscoperte del ragazzo. – Abbiamo provato di tutto, per colmare il dolore, la paura e la frustrazione. Abbiamo esperito qualsiasi sorta di piacere fisico e mentale, ogni possibile eccesso, pur di tenere a bada la rabbia per quello che ci stanno facendo. Cosa ci rimane se non l’amore fraterno, puro e incondizionato? – gli domandò sfiorandogli lo zigomo, persa nei suoi pensieri. – Se svendiamo i nostri fratelli, i nostri compagni, cosa ci rimane?  Io li rivoglio indietro, Ephram. Non voglio rischi. Non sono disposta a rischiare la loro vita, non sono disposta a correre alcun tipo di rischio.
- Li riavremo. Non appena Judith cederà alla nostra richiesta e convincerà i monaci a cambiare il loro metodo decisionale riguardo i condannati, ci adopereremo per riaverli.
- E come pensi di farlo?
- Hai fatto la stessa scenata a Selma, prima della sua partenza con il tuo portentoso amico? Pensi che sia più probabile che ella riesca nella sua utopica impresa di assumere il controllo su di lui e sulla sua polvere nera, piuttosto che una ragazza viziata, una monaca mancata, venga impietosita da due fanciulli condannati a morte, che lei ha il potere di salvare?
- La sostanziale differenza, Ephram, è che Selma non rischia la vita viaggiando con Blake.
- Ne sei sicura? D’altronde, la nostra Selma è una donna molto abile e saggia, che sa il fatto suo e sicuramente ben in grado di difendersi, ma il tuo Blake non è certo da meno, in quanto a ingegno e ad astuzia. Non nutro alcun dubbio sul fatto che sarebbe benissimo capace di tagliare la gola della nostra compagna a sangue freddo se, ad un tratto, ritenesse che ella gli è d’intralcio.
- È una situazione ben diversa, lo sai, Ephram. Conosco Blake.
- Ti fidi di lui a tal punto?
- Dove vuoi arrivare? – gli domandò lasciando che le sue mani le saggiassero le carni sensualmente.
La stanza era illuminata solamente da una candela.
Beitris si lasciò alzare da terra e poggiare con il fondoschiena sul bordo di vetro della teca, mentre con le mani si aggrappava alla nuca del ragazzo, stringendogli i capelli e tirandoglieli fino a fargli male, di proposito.
Era un abitudine difficile da scacciare, quella di cedere al sollievo provocato dal sesso.
Non aveva mai provato davvero a svagare la mente in altri modi, semplicemente perché non ne aveva motivo.
Consumarono il loro rapporto sul giaciglio della stanza, accanto alla teca contenente il bambino senza vita.
Al termine, rimasti sdraiati uno accanto all’altra, Beitris prese a fissare il fanciullino dentro la teca assiduamente, sentendo un moto di disagio e di terrore montarle dentro e risalirle le viscere.
- Li rivoglio con me, Ephram. Li rivoglio – disse improvvisamente, macchiando il silenzio che si era creato tra loro.
A ciò, Ephram si alzò dal giaciglio, si rivestì e uscì dalla stanza senza dire nulla.
 
Dopo la notte trascorsa dormendo tra quattro mura, riparato dal gelo, Blake raggiunse l’atrio della casetta della famiglia che li stava ospitando, composta dal tavolo, dalla cucina, dal caminetto e dall’entrata. Una fioca luce mattutina illuminava l’ambiente, invaso da un profumo nuovo e invitante al naso del ragazzo.
- Siete già sveglio? – lo riscosse la voce della padrona di casa, impegnata a cucinare e a tenere d’occhio tre fuochi sotto tre pentole diverse. Ella gli sorrise di sfuggita, riprendendo a concentrarsi sulle pietanze in preparazione, mentre Blake prendeva posto sul tavolo.
- Sono abituato ad alzarmi presto. Stavo osservando quanto questo atrio sia simile a quello di casa mia.
- Davvero?
- Sì. L’unica differenza è la disposizione della cucina, del camino e la presenza di una poltrona davanti al camino.
- Com’è il luogo in cui vivete? – gli domandò aggiungendo delle spezie su una delle pentole.
- Non avendo visto il vostro villaggio salvo casa vostra, non saprei confrontarli. Vi è molto verde, ed è davvero esteso.
- Beh, se desiderate, oggi vi sarà tempo di fare una visita nel nostro villaggio.
- No – si affrettò immediatamente a risponderle il ragazzo, facendo voltare la donna parzialmente verso di lui, sorpresa da tale risposta. – Intendo dire che non vi è bisogno. Preferiamo adoperarci qui, senza distrazioni – aggiunse.
- D’accordo, come volete. Spero abbiate riposato bene, voi e vostra madre. I letti nella stanza degli ospiti sono i più comodi che abbiamo.
- Sì, grazie, ho riposato molto bene, sicuramente meglio rispetto a ieri. Dormire a terra e in balia del gelo notturno è un’esperienza che preferirei non ripetere troppo spesso.
Selen sorrise tra sé in risposta, mentre aggiungeva delle uova al suo preparato. – Vi ho preso dei vestiti di mio marito, per cambiarvi. Temo che quelli di mio figlio sarebbero corti per voi, mentre quelli di mio marito … non so, avete un corpo molto diverso dal suo. Tuttavia, potreste provarli e valutare se sono comodi per voi. Altrimenti andrò a recuperarne altri in mattinata.
- Non fa niente. Ho già un cambio di vestiti nel mio sacco.
- Vi prego, non rifiutate. Offrire ospitalità per noi significa anche provvedere in ogni modo possibile alle esigenze dei nostri ospiti. Se non vi procurassi neanche un ricambio di vestiti che razza di padrona di casa sarei?
- Allora, d’accordo. Quelli di vostro marito andranno bene.
- Questa mattina arriverà la lavandaia per prendere gli abiti sporchi e lavarli. Le darò anche i vostri.
- Cosa state preparando? – le chiese poi, affilando lo sguardo per guardare meglio cosa bollisse sul fuoco.
- Uova, funghi e carne di pollo – gli rispose ella porgendogli il piatto colmo e fumante davanti al viso, guardandolo in aspettativa. – Avanti, assaggiate.
A ciò, Blake prese una forchettata dal piatto e assaggiò, assaporando quelle pietanze nuove, dal gusto tanto intenso. – È davvero molto buono. Che cosa sono? – domandò indicando le diverse varietà di funghi presenti nel piatto.
- Non avete mai assaggiato i funghi? Nel nostro villaggio ve ne sono un’infinità! – esclamò gioviale la donna, abbassando gli occhi sul piatto ancora fumante. – Avanti, mangiate.
- E voi?
- Io mangerò più tardi, non temete. Sono davvero lieta che vi piaccia.
A ciò, Blake continuò a mangiare con calma, volgendo le iridi blu verso la finestra di tanto in tanto, osservando la nebbia e le nuvole schermare la luce del sole in procinto di alzarsi.
- Come avete fatto a diventare bravo con i numeri?
Blake venne nuovamente riscosso dalla voce di Selen, rendendosi conto di essere osservato da lei.
- Non lo so con esattezza. È sempre stato così, sono sempre stato particolarmente portato con i calcoli – le rispose semplicemente.
Quella costante sensazione di non poter dire una parola di troppo in quella terra straniera che non conosceva le sue vere origini lo stava lentamente nauseando, in contrasto con la voglia di finirsi quei funghi fino all’ultimo boccone.
- Sono felice che aiuterete Gerda. Sapete, è una bambina molto vivace, che odia stare seduta a imparare qualsiasi cosa. Non a caso, è stata dura impararle a scrivere. Anche suo fratello è così, ma, a differenza sua, Gerda è anche molto dolce e sensibile.
- Lo immagino. Ho un fratello anche io. Non ci somigliamo affatto – rispose Blake accennando un sorriso nostalgico, mentre il suo pensiero andava a Ioan. Non aveva trascorso neanche due giorni lontano da lui e già gli mancava come il respiro.
Improvvisamente calò un placido silenzio tra loro, contaminato solamente dallo scoppiettio del fuoco nel camino.
Ad un tratto, qualcuno bussò vigorosamente alla porta, riscuotendo i due.
- Perdonatemi – gli disse Selen, per poi alzarsi e andare ad aprire la porta, accogliendo in casa una fanciulla imbacuccata da capo a piedi, la quale posò il cesto che aveva tra le mani e si tolse guanti e cappello non appena entrò in casa, liberando i vaporosi capelli aranciati e scoprendo il viso lentigginoso. – Fuori si gela, signora Selen! Non potete immaginare quanto sia più freddo rispetto a ieri! Mi raccomando, avvertite la piccola Gerda che, se vuole raccogliere i funghi, le conviene farlo subito dopo pranzo, prima che arrivi l’aria gelida da tempesta da neve!
- Lo farò, Isa, grazie. Ecco le monete che vi devo per oggi e per la volta scorsa.
- Non preoccupatevi, signora Selen, sapete che per voi lo faccio volentieri.
- Buon Dio, avete le mani freddissime, scaldatele un momento davanti al camino.
- Oh, siete gentile, signora Gerda, ma non posso, questa mattina ho un sacco di lavoro da fare. A proposito, dove sono gli abiti che devo … - la fanciulla si bloccò, così come le sue parole le rimasero incastrate in gola non appena si accorse della presenza del ragazzo sconosciuto seduto al tavolo della cucina. – Lui chi è…? – domandò non riuscendo a fare a meno di nascondere la sorpresa e arrossendo d’imbarazzo per essersi espressa in maniera tanto confidenziale e libertina in sua presenza. – Non è certo un abitante del nostro villaggio. Non l’ho mai visto – aggiunse, quasi come se egli non potesse udirla.
- Difatti provengo da un villaggio lontano da qui. Sono solo di passaggio – le rispose Blake diretto, accennandole un sorriso cordiale.
- Oh, capisco. Perdonatemi per essermi mostrata irriguardosa, ordunque – si affrettò a dire la ragazza, rivolgendogli un impacciato e accennato inchino.
- Non scusatevi. Non siete stata irriguardosa.
- Isa è la lavandaia, Blake. Ella è anche una persona importante per noi, poiché è la promessa di mio figlio Austen. Questa mattina è qui per prendere i nostri vestiti e rilavarli adeguatamente. Vi dispiace? – gli disse Selen facendo virare lo sguardo sui cenci che il ragazzo stava indossando oramai da quando era partito, quasi due giorni prima.
- Certo. Vado a cambiarmi – acconsentì egli rialzandosi in piedi.
- Vi ho lasciato gli abiti di mio marito ripiegati davanti alla porta della vostra stanza.
- Posso chiedervi dove posso fare un bagno?
- Vi è una teca di legno, del sapone e acqua pulita a volontà nel retro dell’abitazione – rispose Isa anticipando Selen.
- Oh buon Dio no, non di prima mattina! – si affrettò a dire Selen guardando prima Isa, poi Blake. - Solitamente ci laviamo lì, sì, essendo nascosto e lontano da occhi indiscreti; tuttavia, di prima mattina i nostri lupi non sono stati ancora né nutriti né abbeverati, potrebbe essere pericoloso.
- Avete ragione, signora Selen, non ci stavo pensando – spiegò mortificata la fanciulla.
- Potete recarvi al ruscello che costeggia la foresta, a cinque minuti da qui – disse Selen rivolgendosi a Blake, il quale preferì non fare domande per il momento. Egli si dileguò dal cospetto delle due donne, le quali restarono a guardarlo fin quando non uscì dall’atrio.
 
Quella mattina, il giovane Maringlen venne svegliato dalla sensazione di otto zampette che solleticavano la pelle nuda ed esposta al freddo del suo braccio. Aprì gli occhi gradualmente, non facendo troppa fatica, trovando quasi lo stesso buio del sonno, nella veglia, di quella cella nera e gelida.
Piccoli fiocchi di neve continuavano a scendere dalla finestrella sul soffitto.
Percependo una sorta di insensibilità sulla spalla, si voltò verso la sua destra, trovando sua sorella addormentata con la testa abbandonata in cima al suo braccio.
Maringlen la scosse lievemente per svegliarla; dopo di che, ritornò con gli occhi sul loro nuovo compagno di cella.
Il ragno che stava placidamente percorrendo il suo avanbraccio era dello stesso colore e della stessa forma di quello del giorno prima.
- Maroine – sussurrò, richiamando la ragazzina, la quale era ancora impegnata a stropicciarsi gli occhi insonnoliti. – Maroine, guarda chi abbiamo qui … - glielo mostrò, avvicinandole il braccio al viso.
- Sarà velenoso? – domandò Maroine strabuzzando gli occhi.
- Non credo. Mi avrebbe già morso altrimenti.
- Dovresti comunque stare attento. Non ho mai visto un ragno come quello.
- Sei diventata fifona tutt’un tratto?
Maroine lo spinse in risposta. – Quando ti morderà e urlerai di dolore io ti ignorerò.
- Che nome potremmo dargli? – domandò Maringlen ignorandola, facendo salire il ragno sul dito dell’altro arto.
- Credi che, se lo addomesticassimo e se fosse velenoso, morderebbe gli altri per noi?
Tale proposta attirò Maringlen, il quale rivolse un sorriso furbo a sua sorella. – Non sarebbe una brutta idea, se ci trovassimo messi troppo alle strette.
- Se resteremo troppo tempo qui senza mangiare, saremmo costretti a mangiarlo – disse Maroine facendo salire il ragno sulla sua di mano, questa volta. – Credi che il suo veleno ci ucciderebbe se lo mangiassimo …?
- Verranno a portarci del cibo – rispose Maringlen. – Ne sono sicuro. La pupilla dei monaci vuole sapere qualcosa da noi.
- A proposito di lei … - cominciò Maroine abbassando lo sguardo totalmente sul ragno, intento a percorrerle la spalla. – Ha scoperto il mio segreto – gli rivelò.
A ciò, il ragazzino la guardò in silenzio, non lasciando trasparire nulla.
- Mi ha promesso che non lo dirà a nessuno – aggiunse Maroine.
- Non possiamo fidarci di nessuno, Maroine.
- Sarebbe successo in ogni caso! Il mio braccio sarebbe peggiorato se non mi avesse spogliata e non mi avesse medicato.
- Ora ha qualcosa tramite cui ricattarci.
- Lo so!
- Perché stai urlando?!
- E tu perché diavolo non riveli di essere innocente?! – esclamò la ragazzina, scattando in piedi, facendo cadere il ragno a terra.
Maringlen la guardò, rivolgendole uno sguardo, per quanto possibile, rassicurante. – Padre Cliamon è venuto a trovarmi quando non c’eri.
- Davvero?? E cosa ti ha detto??
- Che farà di tutto per farci uscire.
- Davvero ha detto questo?? E tu cosa gli hai detto?
- Nulla.
- Maringlen, avresti potuto dirgli che non sei stato tu a farmi del male! Almeno a lui!
- Non mi fido di nessuno, Maroine. Di nessuno. Solo di te.
- Lo so – rispose la ragazzina calmandosi e risedendosi a terra. – Ma se continuerai così, non avremo alcuna possibilità di salvarci. Dobbiamo provare ad ingraziarceli.
- Lo so. È quello che vorrei fare, ma … - il ragazzino si bloccò. – Fin quando non saremo certi che c’è davvero una possibilità di salvarci entrambi, io non dirò nulla.
- Per quale motivo …?
Maringlen le si avvicinò e le accarezzò una guancia. – Fino a prova contraria, sei tu quella che è stata attaccata e legata. Io sono stato trovato con l’arma che ti ha ferita, in mano.
- Maringlen, non starai pensando di …
- Se confessassi di averti legata, drogata e colpita, tu saresti innocente. Totalmente innocente.
- Ma lo siamo entrambi! Ti avverto, se ti azzarderai a dire questo, io dirò tutto il contrario!
- Devi essere tu quella a muovere la loro compassione, ad ingraziarti il loro affetto. Io dovrò apparire distante, scontroso e difficile da avvicinare. In questo modo, nella peggior possibilità, sarò io a …
Maroine gli tappò la bocca con due mani, fulminandolo inferocita. – Se dirai ancora un’altra parola, ti uccido.
Non voglio sentirti. Non voglio sentire mai più un discorso simile, Maringlen, sono stata chiara??
A ciò, Maringlen annuì e Maroine gli lasciò la bocca libera.
- Vedo che siete già ben svegli e attivi – li riscosse la voce di un monaco sconosciuto, intento a guardarli con un ghigno a metà tra il divertito e l’incuriosito. – Guarda, guarda, due bestioline serve del Diavolo rinchiuse tra le sbarre. Nessuna grande novità, a quanto vedo.
I due, in risposta, digrignarono i denti come due felini minacciati.
Il monaco rise di gusto, mentre un altro ragno uguale a quello presente nella cella gli si avvicinò.
Egli lo schiacciò immediatamente, continuando a guardare i due. – Fosse per me, vi lascerei morire di fame qui. Il rogo vi consumerebbe troppo presto, mentre la fame … vi farebbe impazzire – disse, per poi allontanarsi e lasciarli nuovamente soli.
 
- Madre, quando avremo finito con tutte le compere potremo far visita al monastero per chiedere dei due ragazzini imprigionati?
- È la terza volta che menzioni questa storia, tesoro. Deve averti davvero colpito – commentò Heloisa scegliendo quali tipi di mele comprare in una delle bancarelle.
Il piccolo Ioan reggeva tre sacchetti contenenti rispettivamente fichi, cavoli e cicoria. – Potremmo portare loro del cibo!
Heloisa si voltò a guardarlo, rivolgendogli uno sguardo intenerito mentre gli accarezzava i capelli. – Non so se ce lo permetteranno, Christopher. È vietato visitare le segrete per chi non è un monaco. Tuttavia, chiedere ai monaci di portare loro del cibo potrebbe essere fattibile.
Gli occhioni di Ioan si animarono a quelle parole.
I due si diressero verso la cattedrale dei servi del Diavolo, poco prima di scorgere padre Craig uscire dalla cattedrale dei servi del Creatore.
- Padre Craig! – attirò la sua attenzione Ioan agitando la manina, andandogli incontro, seguito da sua madre.
- Ehi, piccolo! Cosa ci fate voi qui?
- Facciamo compere – rispose Heloisa. – E voi?
- Ero venuto a pregare.
- Vorremmo chiedere ai monaci di portare del cibo ai ragazzini imprigionati. Credete che lo faranno? – domandò speranzoso il bambino.
- Oh, beh, tentar non nuoce. Ah, ecco, una mia conoscente molto vicina ai monaci sta uscendo proprio ora dalla porta – disse padre Craig individuando le figure di Judith e di padre Cliamon, richiamandoli con un gesto della mano. 
Non appena la ragazza si avvicinò al gruppetto, Heloisa sgranò gli occhi.
Nei suoi setosi capelli rossi, nei suoi occhi grandi e neri, nel suo portamento aggraziato e deciso riconobbe la bambina che aveva incontrato dieci anni prima, l’infausto giorno in cui aveva scoperto che anche i messaggeri del Signore possono macchiarsi di peccati imperdonabili.
- Heloisa, questa è Judith, e questo è padre Cliamon.
- Molto lieta – rispose Judith rivolgendole uno sguardo che fece comprendere ad Heloisa di esser stata riconosciuta a sua volta. – E tu devi essere il piccolo Ioan, invece – disse volgendo gli occhi addolciti sulla figura del bambino, il quale ricambiò il sorriso.
- Come fate a conoscere il nome di mio figlio? – domandò Heloisa.
- Gliene ho parlato spesso io – si affrettò a risponderle padre Craig, per non costringere Judith a rivelare informazioni che non gradisse rivelare.
- Ah. Le avete parlato anche di Blake, dunque? O di me e di Rolland? – chiese Heloisa, apparentemente disinteressata all’argomento.
- Ovviamente.
- Volevamo domandarvi se poteste portare un po’ di cibo ai giovani prigionieri – disse diretto Ioan. – Qui con noi abbiamo del cavolo, delle mele, dei fichi e un po’ di cicoria.
- Accidenti, quanto cibo. Basterebbe a sfamare un esercito – commentò padre Cliamon.
- Avevamo già intenzione di portare loro da mangiare, a breve. Tuttavia, un po’ di cibo in più di certo non dispiacerà loro – rispose Judith con cortesia, poco prima che una dolorosa fitta al ventre la fece piegare su se stessa.
Gli altri quattro, allarmati, si avvicinarono a lei, padre Craig e padre Cliamon la ressero in piedi trattenendola per il busto.
- Judith! Judith, cara, state bene?? – le domandò padre Cliamon.
- Sto bene, grazie – rispose ella cercando di regolarizzare il respiro e di non far caso alle ulteriori fitte che le colpirono il ventre.
Dinnanzi a ciò, osservando le sue reazioni e il suo viso, Heloisa sembrò realizzare qualcosa. Il suo bel volto si distese e i suoi occhi si abbellirono di una luce di solidarietà e di gioia. – Signorina Judith. Conosco quelle sensazioni. Conosco bene i dolori che si presentano in questi casi, poiché li ho vissuti ben due volte – disse avvicinandosi alla ragazza e poggiandole delicatamente una mano sul ventre.
Prima che Judith se ne rendesse conto, la mano di Heloisa saggiò il lieve gonfiore del ventre della giovane donna, nascosto agli occhi dal corpetto scuro e stretto.
- Dovreste indossare degli abiti più larghi durante la gravidanza, sapete? – le disse comprensiva. – Aspettate un bambino, Judith. Ne eravate già a conoscenza, vero? Non temete, comunque. Queste fitte sono normalissime in questa fase iniziale, nulla di preoccupante. Io ne ho avute talmente tante!
Judith si sforzò di sorriderle cordiale, mentre sostituiva la mano di Heloisa con la sua, poggiata al proprio ventre. – Sì, ne ero già a conoscenza.
- Dov’è il vostro promesso? Egli non dovrebbe lasciarvi sola in questo periodo così delicato – le disse la donna premurosamente.
A tali parole, Judith raggelò, ritrovandosi impreparata.
- Egli non è qui – si limitò a risponderle.
- Oh, capisco – si rabbuiò Heloisa. – Ad ogni modo, sapete chi è, vero? Sapete di chi è questo bambino?
L’invadenza di quella donna nei confronti di Judith stava turbando padre Cliamon, il quale assistette, per la prima volta, al silenzio tombale della sua protetta dinnanzi a qualcuno. Anche padre Craig sembrava aver momentaneamente perduto l’uso della lingua in quella circostanza.
A ciò, padre Cliamon agì d’impulso. – Il padre è vostro figlio Blake – disse, venendo immediatamente fulminato dagli sguardi allibiti di padre Craig e della stessa Judith. – Non lo sapevate, signora Heloisa? Vostro figlio e Judith sono in rapporti intimi da un po’ di tempo, oramai. Mi sorprendo che egli non vi abbia menzionato nulla. Ma, d’altronde, Blake e Judith sono giovani, in balia del loro primo amore, nulla era programmato. Come biasimarli? Eppure, nonostante io immagini la sua iniziale e comprensibile sorpresa nel ricevere la notizia, non mi spiego per quale motivo Blake sembri essersi volatilizzato nel nulla. Dov’è finito vostro figlio, Heloisa?
Per tutto il tempo in cui il monaco aveva parlato, Heloisa era rimasta ferma, immobile, il volto incolore e gli occhi strabuzzati.
- Heloisa …? – la richiamò allarmato padre Craig.
La donna ebbe un parziale mancamento, il suo corpo perse per un attimo coscienza e si sbilanciò all’indietro, prontamente afferrato da padre Craig, il quale la rialzò in piedi. – Non sapete ciò che dite … - sussurrò ella riappropriandosi della voce. – Non può essere. Non può esser stato tanto incosciente e sconsiderato … così come non potete esserlo stata voi! – esclamò verso Judith questa volta. – Mettere al mondo un figlio deve essere una scelta ragionata, condivisa e consapevole!
- Ora basta – intervenne nuovamente padre Cliamon. – Lasciateci il cibo e tornate alla vostra abitazione, figliola. Avrete modo di parlare con vostro figlio quando egli tornerà da voi – la esortò, prendendo Judith per le spalle e allontanandosi al suo fianco, lasciando gli altri tre soli.
- Non ne avevi alcun diritto – gli sussurrò serafica la ragazza.
- Ho dovuto.
- Vi è una possibilità su un centinaio che il bambino sia suo, padre. Non dovevi prenderti tale libertà e infangare l’onore di Blake senza alcuna motivazione.
- Se non fossi intervenuto sarebbe stato il tuo onore a venire infangato.
- E che lo fosse! – esclamò la ragazza divincolandosi dalla sua presa.
- Judith, cara … volevo solo aiutarti. Se ciò che ho fatto ti ha turbata tanto, ti chiedo umilmente scusa – le disse sinceramente il monaco.
- Non è da me trascinare gli altri nella fossa con me, in momenti di difficoltà.
- Devi salvaguardarti, Judith. Tu e il bambino avete bisogno di assistenza nel momento in cui egli o ella nascerà. Sai bene che una donna, senza alcun aiuto esterno, non può occuparsi di un figlio da sola, senza incappare in serie difficoltà. Tu lo sai meglio di chiunque altro.
Sai bene che noi monaci siamo la tua famiglia e lo saremo sempre, nel caso in cui decidessi di far crescere tuo figlio all’interno del monastero. Lo cresceremo nel migliore degli agi, come abbiamo fatto con te.
Eppure, preferirei, in ogni caso, che tu venga sostenuta e appoggiata da una figura maschile che possa far da padre al bambino, in futuro.
- E credi, dunque, che io debba forzare Blake ad occuparsi con me del bambino in quanto genitore, solamente perché è l’unico che possa anche solo avvicinarsi alla definizione di un amico per me che non sia un monaco?? Abbiamo sedici anni, padre Cliamon. Sedici! Non erano questi i miei piani, e di certo non sono neanche i suoi! – parlò chiaramente la ragazza, cercando di calmare il clamore che sentiva risalirle da dentro. - Egli non sa neanche che porto un bambino in grembo – aggiunse, facendo sgranare gli occhi al monaco.
- Egli non sa nulla?
- No, padre, perché dovrebbe? E volevo continuasse a non sapere nulla, prima che riempissi sua madre di tali menzogne, coinvolgendo entrambi. Preferirei che lo sapessero meno persone possibili.
- Per quale motivo?
Judith abbassò la testa, rabbuiandosi.
Sapeva di potersi ciecamente fidare dell’uomo dinnanzi a lei, ma sapeva anche di doversi perennemente mostrare cauta.
Padre Cliamon non le avrebbe mai fatto del male di propria volontà.
Senza che ella disse nulla, il monaco sembrò improvvisamente e tremendamente comprendere.
- Ti conosco sin da quando eri alta la metà di ora, Judith. Quello sguardo non mi piace.
Judith si tolse il guanto e posò la propria mano sul suo ventre, carezzandolo piano. – Non voglio questo bambino.
- Non hai scelta, lo sai! – esclamò padre Cliamon facendo fuoriuscire tutta la sua preoccupazione. - Insomma, nessuna donna ha mai avuto scelta, Judith …! Non puoi scegliere di non volerlo … non puoi.
- Padre – lo richiamò con voce rassicurante la ragazza, carezzandogli una guancia. – Il fatto che nessuno abbia mai preso una scelta simile prima d’ora non preclude che non possa prenderla io.
- Uccideresti una vita, Judith. Uccideresti la tua vita … una vita nata dal tuo sacro ventre.
- Non ho scelto io di avere un figlio, padre. Non ero cosciente quando il concepimento è avvenuto. Sarebbe meglio che mio figlio vivesse con una madre che non sarà mai adatta ad essere madre e soffra a causa mia, o che non venga al mondo affatto?
Li vedi tutti i bambini vagabondi che implorano per un tozzo di pane, nel nostro villaggio.
Povere creature abbandonate a loro stesse, nate da rapporti illegittimi o orfani, i quali finiscono o alla Taverna, o vengono obbligati a prendere l’abito monacale solamente per non soffrire dei terribili morsi della fame.
Quelle povere anime perdute, non credi meritino più di questo…?
Padre Cliamon fece per controbattere, ma dalla sua bocca schiusa non uscì alcun suono.
Rimasero in silenzio, riflettendo.
- Ad ogni modo, non temere – lo tranquillizzò Judith, per quanto possibile. – Non ho ancora preso la decisione. Debbo ancora riflettervi su. Il fatto che qualcuno sia già a conoscenza della mia gravidanza non è un problema irrisolvibile, poiché la morte spontanea dei bambini nel grembo materno è molto comune nel nostro villaggio, soprattutto tra le giovani madri. Tuttavia, non deve saperlo nessun altro. Su questo ho bisogno di avere la tua parola – disse, stavolta perentoria.
A ciò, padre Cliamon annuì sommessamente.
- Bene. Più avanti, prenderò la mia decisione.
- Più attenderai, più il tuo bambino crescerà, e quando sarà troppo grande, non riuscirai più a liberartene – la ammonì il monaco.
- Con ciò sarò solo io a fare i conti, padre. Io e nessun altro. Presto, accingiamoci a raggiungere le segrete ora. Dobbiamo portare questo ricco banchetto alla nostra coppia di giovani prigionieri – concluse la ragazza voltandosi e incamminandosi verso le segrete, con un macigno al posto del cuore e la testa fluttuante.
Non ti voglio. Non per colpa tua, non per colpa di nessun altro.
Ho cominciato a parlarti nonostante io non ti consideri ancora reale.
Nonostante io non sappia di chi tu sia, non importa saperlo, perché sei mio.
Ti immagino maschio, con gli occhi furbi e la propensione a farmi innervosire.
Non ti voglio, per nessun motivo in particolare, e continuerò a non volerti.
Sento il tuo respiro, è come se lo sentissi, mischiato al mio.
Non avere paura. Saprò io come fare, come fare a sistemare le cose.
 
Gerda prese altri tre chicchi di mais e li mise insieme al gruppo con minor numero di chicchi.
- Bene. Ora quanti ne sono rimasti nel secondo gruppo? – le domandò Blake, paziente.
La bambina vi rifletté su, concentrata. – Sette?
- Conta meglio.
La bambina ricontò nuovamente e si illuminò. – Nove!
- Esatto.
- Ho sbagliato di pochissimo!
- Stai andando molto bene infatti – le disse il ragazzo sorridendo. – Ora, dato che nel primo gruppo ci sono ventitré chicchi, nel secondo nove e nel terzo quindici, se io spostassi due chicchi dal terzo al primo gruppo, poi aggiungessi dieci chicchi spostandoli dal terzo al secondo e infine ne spostassi sei dal primo al terzo, quanti chicchi ci sarebbero in ogni gruppo? Devi indovinarli senza contarli – le ordinò Blake facendo tutti gli spostamenti che aveva appena indicato, mentre la bambina chiudeva gli occhi e contava mentalmente.
- Non ce la faccio, è troppo difficile per me … - fece per arrendersi.
- Ricorda che, se qualche calcolo ti sembra troppo difficile, ti basta sommare o sottrarre delle quantità che ti risultano più semplici da sommare e sottrarre al totale, per poi togliere o aggiungere al risultato finale la quantità che ti serve per raggiungere il numero scomodo.
A ciò, seguendo tale metodo, Gerda riprovò a fare i conti mentalmente e a occhi chiusi, per poi esclamare dopo qualche minuto. – Lo so! Lo so!
- Sono tutt’orecchie.
- Nel primo ce ne sono diciannove, nel secondo sempre diciannove e nel terzo nove!
- Mi complimento con te! Ora puoi aprire gli occhi – le disse Blake sorridendole incoraggiante.
- Voglio che mi insegnate qualcosa di più difficile ora!
- Difficile, eh? – disse il ragazzo pensandovi su. – Ti hanno mai insegnato le proporzioni, mia giovane dama?
La bambina negò con la testa, emozionata e impaziente.
Blake prese un foglio e iniziò a scrivere, bagnando la piuma con l’inchiostro messogli a disposizione da Selen.
- Ecco – le disse una volta terminato di scrivere. – La proporzione funziona tramite l’equivalenza.
- Che cosa vuol dire?
- Come vedi scritto, qui come fattori abbiamo tre valori e una “x”, che corrisponde ad un numero di cui non conosciamo il valore. I quattro fattori sono divisi a coppie, e in mezzo vi è un uguale, questo segno che vedi qui. Il nostro scopo è calcolare il valore del numero sconosciuto. Vuoi sapere come facciamo?
- Sì!
- Moltiplichiamo il primo valore, che in questo caso è sei, con l’ultimo valore, il nove. Poi, una volta saputo il risultato, lo dividiamo per il valore rimasto.
In tal modo, otterremo il valore della x – disse scrivendo i calcoli appena menzionati, tracciando un bel ventisette alla fine del foglio.  
- E a che cosa serve la proporzione?
- Ad un sacco di cose, a dir la verità. La usano i mastri, coloro che lavorano con i metalli per calcolare a che temperatura fondare i diversi metalli di differenti quantità; è utilizzata anche da coloro che studiano la medicina, per capire quali dosi sono giuste per malati di diversa età, peso e altezza oppure … è anche usato dagli assassini – le disse rivolgendole un sorriso sornione e divertito.
- Gli assassini …? – sussurrò la piccola spalancando gli occhioni ingenuamente intimoriti da tale informazione.
- Ma certo. Non ti hanno mai detto che gli assassini, per sapere quanto veleno usare per uccidere la loro vittima, fanno sempre questi calcoli? – le disse arrochendo lievemente la voce, scandendo ogni parola con lentezza, tanto da far spaventare la piccola.
- Oh, Blake, non parlatemene più, vi prego!
- Oh, mi spiace, mia signora, vi ho spaventata? Eppure, credevo foste tanto impavida da sopportare qualche piccola storia dell’orrore.
A ciò, la bambina si animò, punta nell’orgoglio. – Io amo le storie dell’orrore! Anzi, vi dirò di più, le ascolto sempre!
- Non ne sarei del tutto convinto – le rispose il ragazzo sorridendo teneramente e scompigliandole i capelli, decidendo di smettere di tormentarla.
- Gerda, non rimanere a trastullarti per tutto il pomeriggio – irruppe improvvisamente la voce di Austen, imperiosa, giungendo nell’atrio e avvicinandosi al tavolo nel quale erano seduti i due.
- Austen, Blake mi stava insegnando a fare dei calcoli difficilissimi! Sono molto brava, sai? – lo informò entusiasta sua sorella.
- Non sai quanto mi faccia piacere sentirlo – pronunciò il giovane tra i denti, con voce pungente e irritata, facendo voltare Blake a guardarlo.
Il fatto che ora, quel ragazzo che considerava niente meno che un forestiero e uno sconosciuto, indossasse i vestiti di suo padre, doveva aver aumentato esponenzialmente il suo odio immotivato nei suoi confronti, pensò Blake. – Avete bisogno di qualcosa, Austen? – gli domandò, innervosendolo ancor di più.
- Fuori sta per arrivare la tempesta di neve e mia sorella non ha ancora adempiuto ai suoi doveri, aiutando nelle faccende di casa. Ella sa cosa deve fare, prima che faccia troppo freddo e buio, vero, Gerda?
A ciò, la bambina abbassò lo sguardo, incupendosi. – Sì. Devo raccogliere i funghi nella foresta qui accanto. Ma non ne ho affatto voglia.
- Gerda! – la riprese sin troppo violentemente suo fratello. – Non azzardarti a disobbedirmi.
Blake posò lo sguardo prima su uno poi sull’altra. - Non vedo il bisogno di scaldarsi tanto, in ogni caso - commentò. - Posso accompagnare io Gerda, se lei non ha voglia di andare.
La bambina sembrò illuminarsi totalmente a tali parole, saltando quasi dalla sedia. – Lo fareste davvero??
- Certo.
- Non vorremmo che vi disturbaste a tal punto – gli disse Austen cercando di mantenere un minimo di parvenza di cortesia, a fatica.
- Non ho nulla da fare al momento. Si tratta della foresta a cinque minuti da qui, giusto? Quella che costeggia il ruscello in cui mi sono fatto un bagno questa mattina. Non è distante, non mi recherà alcun disturbo accompagnarla – rispose semplicemente.
- Bene! Allora andiamo immediatamente! Presto, prendete il vostro mantello, Blake! – esclamò la bambina alzandosi in piedi e accorrendo a cambiarsi per indossare dei vestiti più pesanti, adatti ad uscire all’esterno.
A ciò, Blake si alzò a sua volta, dirigendosi verso la sua stanza per recuperare a sua volta degli indumenti più pesanti, facendo per sorpassare Austen, il quale lo afferrò per un polso, attirando la sua attenzione.
Blake lo degnò del suo sguardo, attendendo che parlasse.
- Quando i vostri vestiti e quelli di vostra madre saranno asciutti, ve ne andrete immediatamente da qui – gli sussurrò rabbioso.
A ciò, Blake, sfilò con impeto il braccio dalla sua presa, rivolgendogli uno sguardo di indifferente superiorità. - Sarà fatto.
Pochi minuti dopo, si ritrovò in mezzo alla foresta in compagnia della più piccola di casa, la quale gli stava spiegando tutte le tecniche per distinguere i funghi velenosi da quelli commestibili, elencandogli tutte le varie tipologie di sua conoscenza.
- Dunque, nel vostro villaggio non crescono funghi? Proprio nessuno nessuno?? – domandò la bambina, abbassandosi per raccogliere un porcino, porgendolo a Blake, il quale lo infilò nel cestino insieme agli altri.
- Di alcun tipo – confermò il ragazzo, osservando la cura e la dimestichezza con la quale la piccola svolgeva quel compito apparentemente banale, apprendendo da lei. – Dunque, se non ricordo male dalle tue indicazioni, uno dei tipi da evitare presenta un lungo gambo bianco candido, con la testa piatta e le striature, giusto? – domandò Blake trovandone uno che corrispondeva esattamente alla descrizione.
- Esatto! Ma non temete, tutti i funghi velenosi hanno un effetto temporaneo solitamente. Non se ne trovano mai di mortali, a meno che non vengano ingeriti in grande quantità. Una volta, quando ero più piccola e meno esperta a riguardo, ne ho mangiato uno e sono stata per giorni con un terribile mal di pancia! Poi sono guarita. Vi ricordate tutti i tipi che vi ho elencato? – domandò infine la piccola, a mo’ di interrogazione.
Blake sorrise in risposta, raccogliendo alcuni funghi chiodini accanto ad un grosso tronco. – Posseggo una buona memoria, sai?
- Allora elencatemeli!
- Vi sono i porcini, i più gustosi per i più; i chiodini, adatti per gli stufati; i prataioli, dalla testa larga e schiacciata; i pioppini, adatti ai pasticci di uova; gli ovoli, i più buoni da mangiare crudi; i finferli, dalla testa ondulata e, infine, i morchella, che somigliano alle spugne.
- Mi complimento con voi, mio signore! – esclamò fiera Gerda, rivolgendogli un piccolo inchino. – Sapete, sono un po’ triste di non avervi fatto visitare il mio villaggio oggi, sono sicura sareste piaciuto a tutti. Tuttavia, sono anche felice di ciò.
- Per quale motivo?
- Isa mi ha detto che oggi pomeriggio si terrà l’impiccagione di un condannato.
A tali parole, Blake si bloccò, prendendo a guardarla. – Impiccagione?
- Sì, da noi i criminali e i peccatori vengono impiccati. Sembrate sorpreso. Nel vostro villaggio come vengono uccisi coloro che peccano contro Dio?
Le loro carni bruciano alla luce del sole, squagliandosi, emettendo fumi che giungono al cielo, sino a togliere il respiro al dio che lo abita, un dio non nostro.
Il ragazzo sorrise tra sé al pensiero di un dio in grado di respirare, di soffocare.
- Lapidazione – rispose dopo qualche istante di pausa.
- Lapidazione?
- Sì, lapidazione. I condannati vengono presi a sassate a morte.
- Oh … non ho mai assistito ad una lapidazione – rifletté la bambina, poco prima di raggelare alla vista del suo accompagnatore, intento a raccogliere un particolare tipo di bacche. – No, fermatevi!! Non quelle!! – esclamò saltandogli quasi addosso per raggiungerlo, dando uno schiaffo alla mano contenente le bacche, facendole cadere tutte a terra.
Blake la guardò sorpreso da tale reazione.
- Il veleno di queste bacche è letale – spiegò la piccola, riprendendosi dallo spavento.
- Dici davvero? – domandò Blake osservando quelle piccole e succose biglie viola. – Credevo fossero ciliegie.
- Molti forestieri sono morti mangiandole, credendo fossero ciliegie.
- Sono pericolose anche se ingerite in piccola quantità?
- Una o due bacche solitamente provocano effetti minori, come la visione di cose che non esistono. Ma con più di due bacche … il corpo diventa immobile e muore lentamente – spiegò Gerda allontanandosi gradualmente dalla pianta di bacche. – A volte, le donne del nostro villaggio le raccolgono e bevono una o due gocce del suo succo, per sembrare più colorite e belle. Per questo l’abbiamo chiamata Belladonna.
- Capisco – rispose il ragazzo, osservando la piccola procedere per cercare altri funghi, mentre egli si adoperava a raccogliere una generosa quantità di quelle bacche letali e a porsele dentro una delle tasche dei suoi indumenti.
Quando i due raggiunsero nuovamente la casa, Blake venne attirato da dei rumori provenienti dal retro dell’abitazione, somiglianti a dei feroci ringhi.
- Cosa vi è là dietro? – domandò alla bambina.
- Oh, non li avete ancora visti?
- Che cosa?
- Venite con me, ve li mostro – gli disse ella prendendogli la mano e conducendolo nel retro della casa.
Giunti sul luogo, Blake notò che vi fosse una grossa fossa nel terreno. Gerda lo condusse lì vicino e, non appena il ragazzo vi si affacciò, sgranò gli occhi vividi.
In quella profonda fossa vi erano rinchiusi almeno una dozzina di lupi, maschi e adulti, apparentemente molto feroci. Solamente una recinsione in legno posta sopra la fossa divideva i predatori da loro.
Gerda, tuttavia, sembrava totalmente tranquilla e a suo agio in presenza delle bestie, nonostante queste ringhiassero e abbaiassero ferocemente. – Questi sono i lupi di mio padre. Sapete, egli è un cacciatore. Per questo è fuori casa ora. Egli è in cerca di carni pregiate di cervi che vivono solamente a Nord. Si è affezionato a questi lupi e ha voluto prendersene cura. Li tiene qui, in modo che non possano infastidire nessuno – spiegò con naturalezza. – Tuttavia, ora sono un po’ irrequieti poiché sono affamati. Purtroppo, finché mio padre non tornerà con la carne dei suoi cervi, noi qui siamo parecchio a corto di carne. Non mangiano da giorni – spiegò guardandoli impietosita.
Blake si accorse che, proprio come gli era stato detto, a qualche metro da loro vi fosse la teca di legno e la riserva di acqua pulita che la famiglia di cui era ospite utilizzava per lavarsi.
- Dunque, questa mattina Selen mi ha sconsigliato di farmi un bagno qui a causa dei lupi?
- Di prima mattina sono molto più affamati. Sentono l’odore della carne fin da lontano e sembrano impazzire. Per questo evitiamo tutti di venire qui di prima mattina. Ora, però, sono più tranquilli, perciò se volete farvi un bagno qui potete farlo – gli disse cordiale, poco prima che uno dei lupi selvaggi saltò fino alla recinsione con ferocia, abbaiando e ringhiando a pochi centimetri da loro, venendo rispinto giù dalle sbarre di legno ben fissate e assicurate. D’istinto, Blake prese Gerda e la allontanò di qualche passo, per poi cercare di riprendersi dal lieve spavento.
- Non preoccupatevi, non possono raggiungerci – lo tranquillizzò ella stringendogli la mano. – Presto, ora torniamo in casa e mostriamo a mia madre quanti funghi abbiamo raccolto!
 
Selma raggiunse l’atrio della casa, trovandovi Selen impegnata a preparare la cena.
Guardò fuori dalla finestra, accorgendosi fosse oramai il tramonto.
- Signora Selma – la salutò cordialmente Selen, voltandosi lievemente verso di lei e rivolgendole un sorriso. – Avete riposato questo pomeriggio?
Selma osservò meglio la donna a qualche metro da lei.
Ella doveva avere all’incirca poco meno della sua età, forse poco meno di quarant’anni.
Nel complesso, si poteva dire fosse una bella donna, per gli standard discreti di un qualsiasi villaggio che non fosse Bliaint. Delle piccole rughe di espressione si diramavano graziosamente dai suoi occhi a mandorla, verso le tempie. Non aveva notato di che colore fossero le sue iridi piccole, ma era convinta fossero screziate di grigio.
Nulla di appariscente, ma, nel complesso, i suoi lineamenti dolci, la bocca sottile e delicata, i capelli castani disordinatamente legati e il suo corpo prosperoso seppur magro nascosto dagli abiti di fattura modesta e spenti, la rendevano una gradevole visione ad un comune occhio maschile.
- Sì – le rispose avvicinandosele. – Avete visto mio figlio? – le domandò poi.
- Credo sia ancora fuori con Gerda. Ella gli sta mostrando la stalla dei cavalli – le disse, per poi asciugarsi le mani umide con la pannella che aveva legata in vita.
A ciò, Selma le si affiancò e le sorrise, attirando la sua attenzione. – Non credo di avervi ancora ringraziato per la vostra estrema gentilezza e ospitalità. Ci avete offerto la vostra casa, il vostro cibo e persino i vostri vestiti.
- Oh, signora Selma, non vi è nulla di cui ringraziarci – la tranquillizzò Selen lieta. – Blake sta facendo un ottimo lavoro nell’istruire Gerda. Oggi pomeriggio le ha fatto fare molti progressi!
- Non ne avevo dubbi – rispose Selma accennando un sorriso indefinibile. – Sono lieta che la sua presenza sia gradita – aggiunse.
 A tal risposta, Selen le sorrise ancora, questa volta con un velo di imbarazzo. – Anche la vostra presenza è gradita, signora Selma.
- Oh, ma certo. Tuttavia, Blake è Blake. Ammettiamolo, il suo carisma adombra facilmente chi gli si affianca - le disse, osservando attentamente la sua reazione, vedendola annuire fugacemente e tornare immediatamente con lo sguardo sulla pentola colma di pietanze.
- Data la momentanea assenza di vostro marito, spero che la presenza di Blake non abbia creato delle tensioni e dello scompiglio in casa.
Mi riferisco soprattutto a vostro figlio Austen. E alla sua giovane promessa. Isa è il suo nome?
- Sì. Ad ogni modo, non temete, nessuno scompiglio. Austen e Isa hanno trascorso del tempo insieme qualche ora fa. Credo che l’abbia anche riaccompagnata a casa.
- Bene, me ne compiaccio.
So che desiderate che io e Blake rimanessimo qui in casa vostra. Blake in particolare. Lo leggo nei vostri occhi.
Tuttavia, ahimè, devo informarvi che abbiamo deciso di lasciare la vostra abitazione oggi stesso, proprio come ci eravamo previsti inizialmente.
Tali parole fecero voltare immediatamente la donna verso di lei, la quale la guardò confusa e spaesata. – Ma avevate detto che …
- Non importa cosa avevamo detto – affermò senza indugio. – Ce ne andremo questa sera.
In quel momento, le due vennero attirate da un urlo atroce proveniente dal retro della casa.
- Quella era la voce di Austen … - balbettò Selen sbiancando. – Austen …! Austen!! – lo chiamò a squarciagola spalancando la porta di casa e accorrendo all’esterno, diretta verso il retro.
Quando anche Selma la raggiunse, la visione che le si parò dinnanzi agli occhi la impietrì.
Austen era inginocchiato sul bordo della fossa dei lupi in lacrime, mentre Selen si era buttata su di lui, per consolarlo, gridando sconvolta; Gerda e Blake, accorsi anche loro, in piedi e dall’altro lato del bordo, erano cerulei in volto. Gerda, in lacrime, si aggrappò alle gambe di Blake, abbracciandolo e cercando conforto in lui, mentre egli le carezzava i capelli immobile, con gli occhi luminosi che, come due cristalli nel buio, fissavano spalancati il cadavere sfigurato e smembrato della giovane Isa, in fondo alla fossa dei lupi, divorata dalle bestie affamate.
La recinsione era spezzata.
Il vento gelido scompigliò i loro capelli, portando con sé un alito di morte e decomposizione che non li sconvolse quanto la visione che si erano ritrovati improvvisamente dinnanzi.
A ciò, gli sguardi di Selma e Blake si incrociarono a distanza, pensando all’unisono la medesima cosa:
Non se ne sarebbero più potuti andare via quella sera.
Sarebbero rimasti incastrati lì, chissà ancora per quanto.
Il loro viaggio si sarebbe protratto più di quanto avrebbero mai potuto prevedere.
 
 

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Capitolo 14
*** Agnelli e lupi ***


Agnelli e lupi
 
- Ripetetemi per quale motivo state ospitando due stranieri nella vostra casa in assenza di vostro marito, Selen – domandò il Giudice, posando la tazza fumante sopra il tavolo.
I funerali della giovane Isa si erano tenuti giusto quella mattina e i sacerdoti non avevano neanche lasciato a Selen e alla sua famiglia il tempo di piangerla a dovere, poichè si erano immediatamente fiondati su di loro, per riempierli di domande.
Era la procedura classica da seguire, ogniqualvolta avveniva un omicidio, o presunto omicidio, violento come quello. Inoltre, l’aver scoperto che a Carbrey fossero giunti due individui stranieri e che, per di più, Selen li stesse ospitando in casa sua, di certo non aiutava.
- I loro nomi sono Blake e Selma. Sono madre e figlio, cercavano un posto dove passare la notte, per poi rimettersi in viaggio – rispose sinceramente la donna, asciugandosi ancora le lacrime che le bagnavano le guance da quella mattina, con un tovagliolo di stoffa.
- Posso vederli e parlare con loro? – domandò diretto il Giudice, nonché il sacerdote con la carica più alta di tutte nel villaggio di Carbrey, un uomo molto lontano dalle figure degli amorevoli e compassionevoli messaggeri del Signore, distaccato, razionale e giudizioso.
Proprio per tali motivi meritava la piena fiducia del villaggio che aveva sempre protetto e salvaguardato da ogni male con imperante accortezza.
La donna annuì, facendo segno a Gerda di richiamare i due ospiti, per farli giungere nell’atrio, molto affollato rispetto alla norma.
Qualche minuto dopo, il Giudice si ritrovò finalmente dinnanzi ai due stranieri, e li cominciò ad osservare e a studiare, senza far nulla per nasconderlo minimamente.
Il primo dettaglio che spiccò agli occhi di Blake, oltre al suo sguardo da determinato calcolatore, fu il crocefisso di legno che pendeva dal suo collo, molto più grosso rispetto a quello che indossavano i monaci di Bliaint.
- Sedetevi pure – li esortò con un sorriso il Giudice, facendo loro segno di sedersi sulle sedie libere che circondavano il tavolo della cucina. – Gradirei conversare con voi.
A ciò, i due obbedirono, sedendosi di fronte a lui.
- Per quale motivo avete sostato qui, a Carbrey? – domandò l’uomo, senza preamboli.
- Eravamo ad un giorno di cammino dal nostro villaggio. Avevamo bisogno di cibo per ristorarci, e di un posto al caldo per non morire di freddo, dopo una prima notte trascorsa all’esterno – rispose prontamente Selma.
Il Giudice affilò lo sguardo. – Da quale villaggio provenite?
- Non vi è possibilità che lo conosciate. Non dista molto dal bosco di Eamar, costeggia il fiume – rispose ancora la donna.
- Perdonate l’invadenza – continuò l’uomo, posando gli occhi prima su uno, poi sull’altra. – Ma, come avete avuto modo di assistere in prima persona, ieri sera è avvenuto un fatto tremendo, un lutto che ci addolora tutti quanti. Un fatto a dir poco inspiegabile. E questa orrenda morte,  non solo è avvenuta in assenza del padrone di casa, ma ha avuto luogo mentre due stranieri sostavano nel mio villaggio, senza che io ne fossi minimamente a conoscenza – le molteplici accuse e i sospetti sottesi a quell’affermazione erano ben chiari a tutti. – Per tal motivo, comprenderete che è mio dovere indagare sull’accaduto. Dio pretende da me questo.
- La recinzione dei lupi era spezzata, dilaniata dai lupi stessi, Giudice – intervenne Selen. – Gli animali di mio marito soffrivano la fame, oramai da giorni. Potrebbero esser stati colpiti da un attacco di follia causata dalla fame, aver saltato più in alto del solito, aver rotto la recinzione e aver azzannato la povera Isa che passava casualmente di lì, trascinandola con loro, poiché avevano sentito il suo odore – spiegò la donna.
- Vi è mai capitata prima d’ora una cosa simile, Selen? – domandò secco il Giudice.
- No.
- Dunque, non è strano che accada proprio ora, all’improvviso? Sbaglio o il retro dell’abitazione è parecchio frequentato dai componenti della vostra famiglia? Perché i lupi non hanno agito prima, nutrendosi delle carni di uno di voi, disgraziatamente? – proseguì l’uomo. – Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato l’evento e che ha ucciso la povera fanciulla, la figlia del nostro Signore che stamani abbiamo seppellito – disse facendosi il segno della croce. – Ed io scoprirò cos’è accaduto, facendo giustizia alla dolce Isa, condannando il carnefice alla punizione divina che gli spetta. – Detto ciò, ritornò a guardare i due stranieri.
- Analizziamo i fatti, ora. Da quel che sono riuscito a ricavare interrogando tutti i componenti di questa famiglia ad uno ad uno, ieri mattina la ragazza è passata di qui per recuperare dei vestiti da lavare, come era sua consuetudine fare. Ella, oltre ad essere la lavandaia del villaggio, era anche la promessa di vostro figlio Austen – disse volgendo gli occhi a Selen, per poi tornare su Selma e Blake. – Quando Isa è entrata in casa, nell’atrio assieme a Selen, ha trovato anche voi – continuò, ora inquadrando solo la figura del ragazzo. - Blake, giusto?
Egli annuì con naturalezza in risposta, a ciò il Giudice continuò. – All’arrivo di Isa, voi stavate consumando la colazione che Selen vi aveva appena preparato, dunque avevate trascorso del tempo insieme, appena svegli, da soli, mentre gli altri dormivano ancora – dedusse il Giudice, facendo immediatamente comprendere al ragazzo dove volesse arrivare.
- Abbiamo parlato per un po’, mentre consumavo la colazione.
- Di cosa avete parlato?
- Delle lezioni che avrei dato a sua figlia Gerda, per ripagarla della sua ospitalità – rispose nuovamente Blake.
- Che genere di lezioni?
- Sui numeri – rispose Selen al suo posto, venendo immediatamente fulminata dallo sguardo del Giudice, ad ammonirla di fare silenzio, poiché quello era il momento dell’interrogatorio del ragazzo, non del suo.
Dopo di che, ritornò su Blake. – Sapevate che Isa fosse promessa ad Austen? Che sguardo vi ha rivolto Isa quando è entrata in casa?
- Mi ha informato a riguardo Selen, non appena ella è entrata in casa; era sorpresa di vedere un completo sconosciuto a casa del suo promesso – rispose in ordine il ragazzo, senza esitazione.
- Avete notato altro nel suo sguardo?
- Cos’altro avrei dovuto notare?
- E Selen? Era irritata dal vostro incontro? Avete avuto l’impressione che Isa fosse sorpresa, turbata, imbarazzata o altro nel trovare la sua futura madre acquisita in compagnia di un bel giovane straniero, totalmente soli?
- Dove volete arrivare??
- Cosa volete insinuare…? – dissero quasi all’unisono prima Selma, poi Selen.
- Austen, invece, sapeva che la sua promessa vi avesse conosciuto? – continuò il Giudice.
- Non so se Austen lo sapesse.
- Cosa c’entra Austen? – domandò Selen sempre più spiazzata.
- Giudice, non capisco quale sia il punto – insistette Selma.
- Il punto, mie signore – si decise a rispondere voltandosi verso le due. – è che qualcuno ha sicuramente voluto far passare il suo orrendo misfatto per un incidente, e che questo giovanotto qui presente non è accusabile in alcuna delle mie ipotesi, ma è comunque la causa scatenante del tutto.
- Io sarei la causa? – intervenne Blake contrariato. – Sospettate che uno dei due, tra Selen e Austen, abbia ucciso volutamente Isa per … gelosia? Nei miei confronti?? – domandò allibito.
- Ma è pura follia! – esclamò Selen alzandosi in piedi di scatto, stringendo convulsamente la stoffa della sua pannella, nuovamente sull’orlo delle lacrime. – Non solo state accusando me di qualcosa di tanto sudicio e deprecabile come l’adulterio e l’infedeltà nei confronti di mio marito, ma state anche supponendo che mio figlio sia capace di assassinare la fanciulla che ama per qualcosa come …
- Vi esortiamo a sedervi, Selen – la interruppe uno degli altri sacerdoti presenti in stanza, con voce ferma e imponente. – Rimembrate che vi trovate sempre dinnanzi al nostro Giudice, nonché gran sacerdote, al quale spetta sommo rispetto.
A tali parole, Selen tornò in sé, riprendendosi dal suo primordiale e istintivo attacco di rabbia, risedendosi compostamente sulla sedia e abbassando lo sguardo rispettoso. – Perdonatemi, Giudice. Non accadrà più.
- Non temete, figliola – la rassicurò egli. – È normale essere sconvolti. Tuttavia, questi sono i fatti che mi si sono presentati dinnanzi agli occhi, e non intendo ignorare dei segnali così evidenti.
- Parlate di evidenza senza neanche sapere cosa sia – commentò pungente Blake, riattirando l’attenzione del Giudice su di sé.
- Mio tesoro – lo ammonì Selma posandogli una mano sul braccio. – Non è il momento di dare sfoggio di arguzia ora.
- Oh, no, vi prego, continuate. Per quale motivo credete che io non sappia cosa sia l’evidenza? – insistette il Giudice.
- State semplicemente facendo supposizioni su supposizioni infondate, basate su pregiudizi e futili sensazioni - rispose il ragazzo.
- Mi baso sugli unici indizi che ho.
- Perché vi rifiutate di vederne altri.
Quel botta e risposta a tono, stranamente, non stava alterando il Giudice tanto quanto gli altri presenti temessero.
- Voi parlate di sensazioni e vi do ragione – riprese il Giudice con calma. – Eppure, se un uomo è tanto intimorito dalla presenza di un altro uomo, deve pur esservi un motivo.
Sapete, ho chiacchierato un po’ con il giovane Austen poco fa.
Nonostante egli sia distrutto, ha comunque accettato di parlare con me.
Egli, come è giusto che sia, non ha voluto celarmi nulla, benché si professi innocente con fermezza.
Egli mi ha rivelato di aver avuto una discussione con Isa riguardo voi, Blake, ieri pomeriggio, poche ore prima che ella fosse ritrovata morta nella fossa dei lupi.
I tre rimasero tutti sconvolti da tale rivelazione.
- Austen vi ha detto questo …? Per quale motivo io non ne sapevo nulla? – sussurrò esterrefatta Selen. – È capitato altre volte che Austen e Isa avessero delle discussioni. Ma mai per gelosia – realizzò la donna.
- E, d’improvviso, una notte, giunge in questa casa uno sconosciuto giovane uomo da molto lontano, dal quale Isa rimane inevitabilmente sedotta. Tutti i pezzi sembrano andare al loro posto, non credete? Ammetto che considero molto più probabile che sia stato Austen ad assassinare la sua futura sposa, in un cieco attacco di ira e gelosia incontrollata, profondamente turbato dal pensiero che ella fosse rimasta attratta da Blake; per poi tornare in sé e rendersi tragicamente conto dell’immane errore commesso.
L’ipotesi che siate stata voi, Selen, a spingere la vostra futura figlia acquisita nella fossa dei lupi per pura gelosia e per rimanere l’unica a poter attirare l’attenzione del ragazzo, mi rimane ancora difficile da credere.
- Sono stata io! – esclamò Selen non lasciando il tempo al Giudice di finire di parlare. – Se i sospettati siamo io e mio figlio, preferisco essere io a prendermi ogni colpa!
- Proprio per tale motivo voi siete la meno sospettata dei due, Selen: fareste di tutto pur di proteggere vostro figlio. Non è vero? – replicò il Giudice.
- Ad ogni modo – riprese lo stesso dopo infiniti attimi di silenzio. – nulla è ancora detto. Dovrò continuare ad indagare sulla questione. Da ognuno di voi devo sapere dove eravate al momento in cui, presumibilmente, Isa è stata spinta nella fossa. Austen mi ha già detto che si trovava al mercato per comperare del cibo, la piccola Gerda invece mi ha detto di trovarsi nella stalla dei cavalli in compagnia di Blake, dunque non ho bisogno di chiedere nulla a quest’ultimo – disse, per poi volgere lo sguardo su Selen e su Selma. – Ora rivolgo la stessa domanda a voi, mie signore: dove vi trovavate ieri nel tardo pomeriggio, al calar del sole?
- Ero qui, in cucina, a preparare la cena – rispose Selen.
- Io ero nel mio giaciglio, a riposare – seguì Selma.
- Bene. Per ora, direi di aver concluso. Sappiate, in ogni caso, che non mi fermerò fin quando non verrà fatta giustizia alla giovane Isa. Verrete tenuti d’occhio fin quando non sarò giunto ad un verdetto – disse il Giudice alzandosi in piedi, guardandoli uno ad uno. Com’era consuetudine a Carbrey, si avvicinò ad ognuno per far loro il segno della croce e baciarli sulla fronte, prima di andarsene.
Quando arrivò a Blake, il ragazzo vide le dita del Giudice posarsi sulla sua fronte, poi sul suo petto, sulla spalla destra e sulla sinistra, seguendo una traiettoria che non era affatto abituato a vedere tracciata sul proprio petto. Quando l’uomo gli posò le labbra sulla fronte gli sussurrò qualcosa:
- Non credete di averla scampata così, figliolo. Non appena scoprirò tutto ciò che debbo scoprire su voi e su vostra madre potrò dirmi soddisfatto, ma, fino ad allora, tenete la guardia alta.
Qualcuno in grado di mettere zizzania in tal modo all’interno di una famiglia con la sua sola presenza, di certo non sarà mai, mai del tutto innocente – sibilò, per poi allontanarsi da lui e guardarlo negli occhi.
 
Judith raggiunse il comitato di monaci servi del Creatore e del Diavolo riunitisi per decidere il destino dei due ragazzini prigionieri.
In un’altra circostanza, non avrebbe dovuto incontrare anche i monaci del suo stesso credo, poiché raramente veniva coinvolta in prima persona nelle decisioni di quel tipo.
Tuttavia, quello era un caso eccezionale; poiché lei era l’unica che aveva avuto modo di parlare con i due condannati.
- Dunque? – le domandò subito uno dei monaci del Diavolo. – Qual è il vostro giudizio su di loro?
- Non ho un giudizio su di loro – rispose prontamente Judith. – Tutto ciò che so è che nessuno di voi ha avuto anche solo la minima intenzione di rivolgere la parola ai due fanciullini – aggiunse, lasciando trasparire il suo tono di rimprovero. – Avete voluto lasciare la patata bollente a me per lavarvene le mani?
A tali parole, qualcuno dei monaci abbassò lo sguardo colpevole, mentre altri la fulminarono.
- Posso comprendere il peso di dover giudicare due ragazzini così giovani – riprese la ragazza. – Tuttavia, posso garantirvi che non mordono e che, se presi nel modo giusto, sono svegli e collaborativi.
- Svegli e collaborativi?? – ripeté uno dei monaci del Creatore. – Non vi burlate di noi, Judith! Sono orfani che hanno sempre vissuto in strada, elemosinando qualsiasi cosa. È già tanto se siano in grado di parlare!
- Come credete che siano divenuti così? Per quale motivo queste giovani vite vengono puntualmente stroncate prima del tempo, e i loro corpi acerbi giacciono lungo la strada, morti di fame, di freddo o di malattia, oppure finiscono alla Taverna?
- Prendiamo con noi tutti gli orfani che desiderano dedicare la vita al proprio Signore.
- E quelli che non desiderano prendere l’abito monacale, invece? Devono necessariamente vedersi costretti a farlo? – replicò pungente Judith mantenendo la calma.
- Che cosa stareste insinuando, Judith?
- Vi sto solo facendo presente quanto questi particolari soggetti siano a rischio nel nostro villaggio. A rischio di imboccare una strada sbagliata, a rischio di finire assassinati per pochissimo, a rischio di non venire nemmeno considerati. Si svegliano ogni mattina sapendo che potrebbero morire il giorno stesso, perciò non se ne curano. Non si stanno adoperando per evitarsi il rogo poiché sanno di essere già spacciati.
A mio giudizio, dovremmo considerare tutti questi fattori e pazientare, provare a parlare ancora con loro, per poi decidere il da farsi – suggerì senza remore la ragazza.
I presenti rifletterono per diversi minuti sulla proposta di Judith.
- D’accordo. Vi concederemo altro tempo da trascorrere con loro, allo scopo di trovare anche solo un buon motivo per evitare loro la condanna alla pena capitale – rispose finalmente uno dei monaci.
- Vi ringrazio, padre Hacberth.
Uscita dalla sala in cui si era tenuto l’incontro, Judith si diresse verso un’altra saletta, nella quale aveva fatto condurre uno dei gemellini che stavano tanto facendo discutere.
Furtiva e silenziosa, la fanciulla entrò nella stanza, chiudendosi la porta dietro di sé.
Il giovanissimo prigioniero condotto lì, era in piedi, di schiena, intento ad esplorare curiosamente l’arredamento della stanza, a sfiorare con le dita sporche un imponente candelabro spento.
Judith ebbe modo di osservare anche lui, come aveva fatto il giorno prima con sua sorella.
Era impossibile non notare i segni occulti tracciati violentemente sulla sua schiena nuda e chiara, lasciata scoperta a causa della cenciosa casacca volutamente strappata solo nella parte posteriore.
Aveva piccole ferite sparse un po’ ovunque, i capelli chiari anneriti dalla polvere e da residui neri, provenienti dai mattoni sporchi e umidi della cella nella quale era tenuto rinchiuso.
Le catene delle manette che gli stringevano i polsi tintinnarono mentre la mano ricadeva giù e il viso si voltava, accorgendosi di non essere più solo, indurendosi.
- Buongiorno, Maringlen – non si lasciò demoralizzare la ragazza, facendogli segno di sedersi su una delle sedie del tavolino posto in mezzo alla stanza, facendolo lei per prima. – Ti ho fatto condurre qui questa mattina perché ho già avuto modo di parlare da sola con tuo fratello ieri.
Vorrei avere un piccolo confronto faccia a faccia anche con te, se me lo permetti.
Il ragazzino non rispose, rimanendo in piedi in fondo alla stanza.
- Vi è piaciuto il cibo che vi abbiamo fatto portare ieri? – domandò, comprendendo quanto più arduo fosse avvicinarsi a lui, in confronto a sua sorella.
- Perché ci state trattando così bene? – si decise a parlare Maringlen, con voce dura e scontrosa.
A ciò, la ragazza fece vagare nuovamente gli occhi sul suo abbigliamento in stato pietoso, sugli ematomi che macchiavano la sua pelle e infine sulle catene che gli tenevano prigionieri mani e piedi. – A ben vedere, io non direi che vi stiamo trattando proprio bene.
- Hai capito cosa intendo – replicò lui. – Ci date il cibo. Ora ci fate anche uscire dalla cella per qualche ora al giorno, per parlare con noi. Non sono stato prelevato solo io oggi, ma anche mio fratello. Dov’è lui?
- In questo momento è con padre Cliamon, il quale gli sta cambiando la fasciatura, mentre tu sei qui con me. Ho fatto prelevare anche lui per non lasciarlo solo in tua assenza, so quanto sia importante per voi. Posso garantirti che è in buone mani.
Non vuoi accontentare nemmeno la mia richiesta di sederti qui con me?
Il ragazzino non si mosse, scrutandola ancora, diffidente. – Perché mi hai fatto venire qui?
- Innanzitutto, per farti cambiare vestiti e permetterti di farti un bagno, per disinfettare qualche ferita e toglierti di dosso quel pessimo odore della cella che immagino ti starà facendo venire il voltastomaco.
- Non ho bisogno di questo.
- Invece sì. So che muori dalla voglia di lavarti e di cambiarti i vestiti, sostituendoli con alcuni più pesanti, magari – azzardò, facendogli nuovamente segno di sedersi di fronte a lei. – Ti va di fare una partita a tris? – gli propose, vedendolo lievemente animarsi.
In seguito a quella richiesta, Maringlen si avvicinò finalmente a lei e prese posto sulla sedia rimasta vuota, dinnanzi al tavolino. – Facciamo un patto. Ogni volta che io vincerò una partita, tu dovrai rispondere ad una mia domanda. Che ne dici? – propose.
Senza risponderle, il ragazzino posò lo sguardo sulla tavola da tris dinnanzi a loro e fece la prima mossa, ponendo una delle pedine rosse su una casella, per poi attendere che Judith facesse la sua.
Accontentandosi di ciò, la ragazza spostò una pedina a sua volta, iniziando a giocare.
Le prime sei partite le vinse Maringlen, il quale accennò persino un sorriso furbo, nelle sue ultime vittorie.
Judith sorrise a sua volta. – Sei bravo. Sai cosa si credeva in alcuni villaggi, qualche anno fa?
Maringlen la guardò, in attesa che continuasse.
- Gli inquisitori erano convinti che, se qualcuno avesse vinto a tris per più di tre volte di fila, fosse una strega o uno stregone.
Alcuni usavano questo metodo in alternativa a quello della vasca e della pietra legata al collo, per riconoscere e condannare coloro sospettati di essere stregoni.
- Sarei stato due volte condannato per stregoneria.
 - Esatto – confermò Judith ponendo una pedina che le permise di fare tris e di vincere per la prima volta. – Credo sia il momento di tener fede al nostro patto: per quale motivo ti stai prendendo la colpa per ciò che hanno fatto al braccio di tuo fratello?
- Infatti non mi sto prendendo la colpa, perché la colpa è mia.
- Maringlen … così non risolverai le cose. Noi siamo davvero disposti ad aiutarvi. Ma, in cambio, voi dovete dirci la verità riguardo ciò che vi è successo.
- Voi ci state offrendo tutte queste cose perché volete delle informazioni da noi.
- No, affatto, ve le offrirei in ogni caso, poiché sono convinta che qualcuno vi abbia incastrati e costretti ad essere qui. Dimmi, Maringlen, chi vi ha costretti?
- Devi prima vincere, poi ti risponderò – rispose a tono il ragazzino.
Dopo altre due partite, Judith vinse ancora. – Dunque, chi è stato a costringerti a farci credere che avete fatto uso improprio della magia nera e che hai fatto del male a tuo fratello?
- Nessuno. Sono stato io e io soltanto.
- Ti riconosco una cosa: sei molto furbo – disse ella ponendo le braccia conserte, osservandolo. – Cosa posso fare per farti parlare con sincerità?
Maringlen scostò lo sguardo.
- Tuo fratello dice che tu sei innocente e io gli credo. Tuttavia, nessuno dei due vuole tradire le persone che vi hanno cresciuti e questo posso comprenderlo.
- Non ho paura del rogo – annunciò il ragazzino.
- Lo so.
- Ne ho visti tanti, bruciare lì sopra. Urlano per poco, massimo per cinque minuti, non di più. Ci sono dolori molto più lunghi.
La ragazza lo guardò, in silenzio. – Hai ragione. Tuttavia, quei cinque minuti di agonia, valgono una vita intera. Sappi che non vi lascerò ritornare nelle loro mani una volta usciti di qui.
Maringlen sgranò gli occhi, ritornando a guardarla.
- Sì, mi hai sentito bene. Troverò una famiglia che possa accogliervi e crescervi.
- Noi ormai non cresciamo più.
- Sono riuscita a prendere tempo con i monaci. Attenderanno il mio verdetto prima di decidere se condannarvi o no.
- Non servirà a niente.
- Ma è ciò che il vostro complice voleva da me, giusto? Che io prendessi tempo e convincessi i monaci a pazientare, grazie alla mia influenza. Voi siete le sue esche e lui … lui è uno sfacciato approfittatore senza scrupoli.
- E tu? Tu che cosa sei? – le domandò il ragazzino trafiggendola con i suoi occhi.
Ella rimase in silenzio.
- Vuoi salvare tuo fratello, Maringlen? – gli domandò dopo un po’.
- Sì.
- Ti informo che, se non collaborerai con me, farò in modo che siate condannati tutti e due.
Ho il potere per farlo.
A quel punto, non saranno valsi a nulla tutti i tuoi sforzi di prenderti tutte le colpe.
Non lascerò che tu salga da solo su quel soppalco.
- Perché non ti arrendi?? Perché non lasci che ci facciano quello che vogliono?? – cominciò ad agitarsi il ragazzino.
- Perché non è nella mia indole, lasciare che le cose fluiscano dinnanzi a me, senza che io faccia nulla per intervenire.
- Non hai mai fatto nulla finora.
- Ho sempre fatto qualcosa, ma, prima, non avevo gli strumenti per realizzare i miei propositi.
Ora, invece, li posseggo.
- Non sono una brava persona. Non lo sono adesso e non lo sarò tra qualche anno – la avvertì il ragazzino.
- Ciò dovrebbe dissuadermi?
- Divento un animale quando c’è bisogno che io lo sia. Non importa chi ho davanti.
- Anche io, Maringlen. C’è chi lo palesa di più e chi di meno, ma in ognuno di noi alberga una belva repressa, incatenata.
Sei mai entrato nella cattedrale del nostro Signore?
A tale domanda, il ragazzino annuì. – Per rubare vestiti per l’inverno.
Judith avrebbe dovuto aspettarselo, che quei due non avessero mai avuto modo di assistere ad una funzione. - Beh, suppongo lo avrai pregato, almeno.
Maringlen annuì di nuovo.
- Conosci i sette peccati capitali? – gli domandò poi.
- Sì.
- Sai dirmi quali sono?
- Accidia, avarizia, invidia, lussuria, superbia, gola e ira.
- Dunque, saprai anche che il nostro Signore, che abita gli abissi più profondi di questa Terra, li possiede tutti e sette, in egual modo.
Egli non è mai stato un dio buono e giusto, come lo è il loro.
Lo veneriamo, pur sapendo quanto egli sia carnale e terreno, più di quanto lo saremo mai noi.
I servi del Creatore lo sanno e ci ritengono fortunati, per questo.
Quando credi di meritare il rogo, pensa al nostro Signore, che si è meritato di venire cacciato dal cielo e di precipitare, di sprofondare sottoterra, senza alcuna possibilità di risalire.
 
 - Lasciate, faccio io – si propose Blake alzandosi dal tavolo dopo che ebbero consumato la cena.
Solamente Austen era assente.
Il silenzio tombale che aveva regnato quella sera aveva macchiato gli animi di paura, frustrazione, amarezza e rabbia.
Selen lo guardò e acconsentì a lasciarlo sparecchiare e riporre i piatti nella teca per lavarli, nonostante il suo animo da padrona di casa stesse scalpitando ancora dentro di lei.
Era troppo stanca, scossa, devastata, tuttavia.
I suoi occhi erano fissi in un punto nel vuoto, quelli di Gerda erano delle tonde ed espressive biglie tristi, le quali, ogni tanto, si spostavano dalla fiamma che scoppiettava nel camino a Blake, nonché unica fonte di movimento nella stanza.
Selma non aveva emesso un solo fiato per tutta la cena, restando sulle sue, consumando il suo pasto in silenzio come tutti. Dopo che Blake si fu alzato, si alzò anche lei, dirigendosi verso il camino e restando in piedi davanti al fuoco, a scaldarsi, di spalle.
Gerda posò gli occhi sullo sguardo perso di sua madre, poi decise di darsi da fare a sua volta, togliendo i bicchieri vuoti dal tavolo e la caraffa d’acqua.
Quando la piccola si avvicinò al piano cucina, nel quale Blake era in piedi a lavare le bacinelle e i piatti con acqua e sapone, questo si voltò a guardarla.
- Posso aiutarvi? – gli domandò atona la bambina.
- No, tranquilla, faccio io – la rassicurò, rivolgendole un debole sorriso.
- Ma voglio fare qualcosa – insistette. – Io posso asciugarli dopo che voi li avete lavati.
- D’accordo – le rispose il ragazzo cominciando a passarle i piatti appena lavati, mentre il silenzio tombale predominava ancora nell’abitazione.
Il recinto per tenere rinchiusi i lupi era stato ricostruito da alcuni volontari del villaggio, mentre il Giudice interrogava coloro che vivevano in casa, nonché sospettati.
Dopo qualche minuto, un po’ di schiuma provocata dal sapone precipitò sul mento di Blake, facendo nascere un risolino spontaneo della bambina, il primo di quella funesta giornata.
A ciò, il ragazzo la raccolse con un dito e la spalmò sul viso di Gerda, facendo aumentare le sue risate, le quali, con il loro dolce sottofondo, allietarono leggermente l’animo di Selen, ancora seduta.
Con le mani ancora immerse nella teca colma di acqua e sapone, Blake tirò fuori una mano, strofinò il pollice e l’indice tra loro per qualche secondo, poi alzò adagio l’indice tenendo la punta unita a quella del pollice, fino a formare una circonferenza con le due dita, in mezzo alla quale vi era un sottile strato di acqua saponosa. Blake vi soffiò dentro con delicatezza, fin quando, dallo strato, uscì fuori una bolla di sapone, la quale si avvicinò al viso estasiato di Gerda, per poi scoppiare non appena entrò in contatto con la sua guancia.
- Come avete fatto??
- Non è difficile, puoi provarci anche tu.
Dopo qualche minuto, Gerda era già alla sua quarta bolla di sapone, all’ennesimo tentativo di farla restare integra per più di qualche secondo.
Selen li guardava incantata, sollevata.
- Credo sia ora di andare a letto – le disse dopo qualche minuto, vedendola imbronciarsi teneramente. Dopo un’intera giornata trascorsa a pensare a cosa fosse accaduto la sera prima, e a temere che il Giudice fosse venuto a prelevare qualcuno di loro per portarlo alla gogna, la piccola aveva bisogno di riposare, come tutti.
Quando la bambina si diresse nella propria camera, Blake si voltò casualmente verso la figura di Selma ancora in piedi dinnanzi al camino.
- Perché sei così silenziosa? – le domandò a distanza, vedendola sussultare lievemente.
- Sono solo stanca, Blake. Credo che andrò a letto anche io – rispose semplicemente, dirigendosi verso la stanza da letto a sua volta, lasciando Selen e Blake soli.
Terminato di lavare e asciugare i piatti in silenzio, Blake li ripose al loro posto.
- Voi credete me o mio figlio capaci di commettere un’atrocità del genere…? – chiese la voce della donna improvvisamente, tanto bassa da sembrare quasi un lamento.
Il ragazzo si voltò a guardarla.
Il vento che preannunciava la notte si stava alzando e ululava violentemente, fuori dall’abitazione.
- Non ho mai sospettato di nessuno di voi – le rispose sinceramente.
Selen accennò un sorriso amaro e tremolante. – Lo dite solo perché non potreste dire altrimenti, trovandovi davanti una donna distrutta. Siete una persona buona, Blake.
A ciò, il giovane prese nuovamente posto sulla sedia, accanto a lei. – Nessuno di noi è immacolato, Selen. Non lo sono io e non lo siete voi, così come non lo è Austen o mia madre. Gerda è ancora governata da una dolce innocenza che la esime dall’essere presa in considerazione.
Ad ogni modo, sono sincero quando vi dico che non crederei mai che voi o Austen possiate commettere un assassinio a sangue freddo. Tanto meno se si trattasse di commetterlo contro una persona che nel vostro cuore occupa un posto importante.
- E per un movente tanto insulso come la gelosia … - aggiunse Selen tristemente, sforzandosi di alzare lo sguardo su di lui. – Credete a ciò che ha detto il Giudice, riguardo i motivi che, secondo lui, avrebbero spinto me o mio figlio a massacrare quella povera ragazza …?
- No, Selen. La sua teoria ha dell’assurdo, e chiunque possiede un po’ di buon senso lo capirebbe.
- Ad occhi esterni, non risulterebbe così assurda – ammise la donna, esternando un pizzico di colpevolezza nella voce. – Una donna sola in casa, che accoglie con tanta facilità due sconosciuti … che cosa mi è passato per la mente?
- Volevate solo essere gentile. Colpevolizzarvi per questo non vi porterà a nulla.
Selen lo guardò negli occhi, sforzandosi di non farli divenire lucidi.
- Vi prego. Non credete che io voglia ricevere la vostra pietà. Si tratta solo di un momento di debolezza.
- Piangete quanto volete, mia signora, non temete. Sono altri i motivi che mi spingono a provare pena per qualcuno, non certo le lacrime che è in grado di far fuoriuscire dinnanzi a me.
Piangere non è un segno di debolezza.
- Mio marito crede di sì – rispose ella asciugandosi le guance con un tovagliolo.
- Isa è rimasta colpita dalla vostra bellezza, questo è vero – ammise dopo un po’ la donna. – L’ho visto dai suoi occhi e dal suo sguardo quando vi ha guardato.
Blake rimase in silenzio, in seguito a quell’informazione, attendendo che ella continuasse.
- Non mi sorprende così tanto che ciò possa aver costituito motivo di litigio tra lei e mio figlio … ma arrivare addirittura ad accusarlo di assassinio …
- Non sono del tutto sicuro che sia stato un incidente ciò che è accaduto alla giovane Isa. Tuttavia, chiunque l’abbia spinta o abbia fatto in modo che precipitasse nella fossa, non è vostro figlio. Ne sono certo.
- E allora chi può aver fatto una cosa simile?
- Non lo so ancora. Tuttavia, quel Giudice è una persona molto influente nel vostro villaggio, vero?
- La più influente.
- Prima scopriamo qualcosa in più sull’accaduto e su come dimostrare la vostra innocenza e quella di Austen, meglio sarà.
- Ma il Giudice ha messo gli occhi anche su di voi e su vostra madre.
Vi prego, Blake, non sottovalutatelo, poiché è un uomo molto determinato.
Ottiene sempre ciò che vuole.
Se, dunque, vorrà scoprire da dove venite e altre informazioni su di voi e sulle vostre origini, state certo che riuscirà nell’intento – lo mise in guardia la donna.
- Farò attenzione, non preoccupatevi.
- Spero con tutto il cuore che voi e vostra madre potrete andarvene via di qui indisturbati, il prima possibile, e senza correre rischi.
Calarono altri attimi di silenzio tra i due.
- Talvolta mi chiedo perché Dio abbia deciso di punirmi.
Forse, me lo domando sin troppe volte – disse improvvisamente la donna, la voce rotta e lo sguardo fisso. - Nonostante io abbia tutto ciò che una donna della mia condizione possa desiderare … sento sempre una mancanza in me.
Nonostante io preghi, Dio sembra non ascoltarmi.
Ritengo di sembrare un’ingrata ai suoi occhi.
Voi avete mai questa sensazione?
A Blake parve quasi di ricordare un altro momento incastonato nella sua memoria, in cui qualcuno gli aveva posto la stessa domanda.
Un’improvvisa empatia nei confronti della donna lo colse, spingendolo a far immediatamente virare le iridi luminose su di lei.
- C’è mai stato un momento della vostra vita in cui non avete creduto all’esistenza di Dio? – le domandò spiazzante, facendo pietrificare Selen, la quale si riscosse quasi brutalmente dalla trance nella quale sembrava caduta mentre lo guardava e attendeva la sua risposta.
- Blake … - sussurrò, quasi dimentica della facoltà di utilizzare la voce, sentendo tremare le membra, e non per l’assurdità delle parole pronunciate dal ragazzo, bensì dalla terribile verità che queste veicolavano con sé. - Voi … credete che Dio non esista…?
- Dimenticate le mie parole.
- Vi prego – si impose ella poggiando con urgenza una mano sul tavolo, per riattirare la sua attenzione. - Apritevi con me. Io l’ho fatto con voi – insistette.
A ciò, il ragazzo l’accontentò. – Non credo in nulla. Ma credo che credere nell’esistenza di Dio ci serva. Per questo ci serve Dio – le rispose.
- E a cosa ci serve credere in Dio?
- A poggiare i piedi a terra. A non traballare ad ogni passo che facciamo.
Quando Selen cominciò a tremare maggiormente, il ragazzo agì d’istinto, poggiando una mano sulla sua, stringendogliela.
Le dita gelide come il ghiaccio, piene di calli, morbide della donna, trovarono conforto racchiuse in quelle spigolose, affusolate e calde del ragazzo.
Quel momento venne brutalmente interrotto da un improvviso bussare violento alla porta.
Quando Selen andò ad aprire, si ritrovò davanti l’austera figura del Giudice, circondata da quella di altri tre sacerdoti, immersi nella tempesta di vento. – Siamo qui per arrestare e imprigionare vostro figlio Austen, con l’accusa di assassinio nei confronti della sua futura moglie.
Siete pregata di consegnarcelo.
 
Padre Craig terminò di bere il suo boccale di vino, fissando senza interesse ogni persona che entrava nella taverna.  
Era seduto su un tavolo da solo, completamente succube dei suoi vorticosi pensieri e del vino.
L’ultima conversazione che aveva tenuto con Naren, l’amante proibito di Judith, non aveva portato assolutamente a nulla. Come se non bastasse, la succitata era gravida di un bambino che poteva essere di qualsiasi servitore del Diavolo presente nel villaggio; Blake era fuori da Bliaint, chissà dove e in cerca di chissà cosa; Ioan era improvvisamente e sospettosamente guarito dal suo male; la mandragora sradicata da Blake era come scomparsa da ogni angolo dell’abitazione; Heloisa era caduta in uno stato di esaurimento dopo aver appreso la falsa notizia che suo figlio stesse per divenire padre; le ricerche di rame e d’argento nella galleria andavano sempre peggio; due ragazzini stavano per essere condannati al rogo e Beitris non si vedeva al villaggio da sin troppi giorni, facendogli perdere totalmente i contatti con le dannose trame che la compagnia di stregoni eremiti stava portando avanti.
Tutto sembrava sgretolarsi in pezzi dinnanzi ai suoi occhi.
I sogni su ciò che aveva con tutta probabilità vissuto e commesso quella maledetta notte continuavano a tormentarlo, e il desiderio che portavano con sé era sempre più ingestibile.
Gli serviva Blake, per aiutarlo a restare calmo, a non farsi sopraffare dalle emozioni, a ragionare con razionalità e freddezza.
Gli serviva Blake per risolvere almeno la metà dei problemi che vedeva dinnanzi a sé.
Ma avrebbe dovuto sbrigarsela da solo questa volta, fare a meno di lui per dimostrare a se stesso e a Dio di essere in grado di farlo, senza perdere il senno.
Improvvisamente, il giovane prete venne attirato da una figura incappucciata che entrò nella Taverna, con il volto nascosto e delle lunghe e fluenti ciocche corvine che sbucavano fuori e tradivano la sua identità per chiunque la conoscesse.
D’impeto, si alzò in piedi e si avvicinò velocemente a lei, afferrandola per il braccio, facendola sussultare, attirando un bel po’ di occhi indiscreti in tal modo. – Dove eravate finita …? – le domandò un po’ troppo rudemente.
In risposta, Beitris strattonò il polso per liberarsi dalla sua presa, senza successo, sgranando le sue gemme verdi. – Padre, siete ubriaco …?
- Non ho più avuto tempo e modo di mettermi in contatto con voi, ma neanche voi mi avete più cercato per ricevere informazioni sui nuovi ritrovamenti della galleria …
- Ho avuto altro a cui pensare – rispose ella serafica.
Un profondo brivido invase il corpo del giovane prete non appena strinse più forte le dita sul polso sottile della ragazza. Attribuì ciò all’effetto del vino.
- I ragazzini che sono stati catturati … facevano parte della vostra compagnia?
- Non sono affari vostri – gli intimò minacciosa la strega.
- Se è così, mi dispiace.
- Lasciatemi!
Padre Craig, contrariamente, rafforzò la presa. – Voi sapete per quale motivo Blake è improvvisamente partito, non è vero …? – le domandò affilando lo sguardo sospettoso. – Voi c’entrate qualcosa?
- Vi ho detto di lasciarmi. Non ve lo ripeterò una terza volta – lo minacciò la ragazza avvicinandosi a lui, sussurrando tra i denti e strattonando nuovamente il polso, senza risultati.
Padre Craig restò a fissarla senza allentare la presa, non accorgendosi che nella Taverna fosse appena entrato Naren, il quale, avendolo riconosciuto a distanza, intervenne nella discussione.
- Padre? Padre?! Che state facendo?? – lo richiamò notando il modo violento in cui stava stringendo il polso di quella ragazza.
- Voi non intromettetevi – si limitò a rispondergli il giovane prete.
- Ora mi state davvero facendo perdere la pazienza! – esclamò Beitris lanciando uno schiaffo all’uomo con la mano libera, riuscendo finalmente a liberarsi dalla sua stretta. Nel far ciò, il suo cappuccio calò giù, lasciando scoperto il suo bel volto.
Non appena Naren posò lo sguardo su di lei, sbiancò, paralizzandosi.
Padre Craig, ripresosi dallo schiaffo, se ne accorse.
Fortunatamente, la Taverna aveva cominciato a diventare troppo affollata e movimentata, dunque nessuno era più concentrato sul trio.
- Naren? Naren, che vi prende?? Avete già visto prima questa fanciulla? Naren! – lo richiamò il giovane prete cogliendo la palla al balzo. – Naren! Sto parlando con voi!! Naren! – esclamò nuovamente riscuotendolo con impeto.
- Ci tenete così tanto a sapere cosa è accaduto quella notte …? – sussurrò improvvisamente il servo del Creatore, sorprendendo gli altri due, Beitris in particolare, la quale non aveva idea di quale fosse il motivo per cui si stesse ritrovando coinvolta in quella situazione.
- Voi eravate nel suo corpo! – esclamò finalmente Naren a padre Craig, indicando Beitris. – Eravate nel corpo di questa donna quella notte! Eravate in lei mentre commettevate tutte le atrocità che avete commesso! - esclamò esasperato.
Gli altri due si immobilizzarono, incapaci di proferir parola in seguito a quella confessione.
 
Quella mattina, a causa del clima infernale che regnava nella casa, Selma si prodigò per preparare la colazione.
Quando Blake, Selen e Gerda raggiunsero la cucina, le ultime due letteralmente trascinandosi fuori dal letto, devastate dal dolore, vennero tutti invasi da un penetrante e dolce odore di frutti rossi.
Austen era stato preso in custodia e imprigionato, in attesa della conferma della sua colpevolezza, prima della quale non sarebbe potuto essere condannato a morte.
Blake si sedette al tavolo osservando sorpreso il proprio piatto ricolmo, identico a quello delle altre due: due caldi e profumati tortini ripieni di quella che sembrava una marmellata di frutti rossi ornavano invitanti la ciotola, accompagnati da altra frutta fresca di fianco.
- Li hai preparati tu? – domandò con ovvietà il ragazzo.
- Mi sono alzata presto – rispose soddisfatta la donna. – Io ho già fatto colazione mentre attendevo che vi alzaste. Avanti, provateli.
- Grazie, Selma, non avresti dovuto – la ringraziò atona Selen.
- Con cosa li hai farciti? – chiese Blake.
- Con una salsa a base di ciliegie e amarene che ho raccolto all’alba – rispose la strega.
Nell’osservare nuovamente il proprio piatto e quello delle altre due, Blake affilò lo sguardo, notando un dettaglio che attirò la sua attenzione: i tortini nel proprio piatto sembravano molto meno farciti rispetto a quelli presenti nei piatti di Gerda e Selen.
Improvvisamente, un tremendo dubbio, che divenne presto una constatazione, lo invase.
Bloccò immediatamente la donna e la bambina, prima che addentassero i tortini. - Ferme! Non mangiate! Andatevene via, lasciateci soli – le esortò.
- Che sta succedendo, Blake …? – sussurrò allibita Selen.
- Fidatevi di me, ve ne prego – insistette, vedendole alzarsi entrambe e raggiungere le loro camere.
A ciò, il ragazzo si alzò in piedi e si avvicinò lentamente alla figura eretta di Selma, la quale non si scompose.
- Sei stata tu …? – sibilò egli. – Sei stata tu ad ucciderla, non è vero …? Rispondimi – le intimò, giungendo ad un palmo dal suo viso, torreggiando su di lei mentre la fulminava con gli occhi.
- Non so di cosa parli – rispose ella reggendo il suo sguardo.
A ciò, Blake accennò un sorriso disgustato. – Non ti credevo capace di arrivare a tanto.
- Continuo a non capire.
Cercando di contenere la rabbia, Blake indicò i tortini ancora intatti che svettavano sui piatti. – Mi stavo chiedendo dove avessi già sentito quel dolce odore. Poi, ho fatto qualche calcolo dentro di me e ho compreso.
Non sapevi che, due giorni fa, io fossi andato nella foresta con Gerda?
Ho avuto modo di imparare molto da lei, in poco più di un’ora.
Hai farcito i tortini con la Belladonna, non è vero?
Selma distolse lo sguardo, rimanendo pur ferma ed eretta nel suo portamento.
Improvvisamente, le dita di Blake si strinsero intorno al collo della donna come artigli. – Per quale motivo volevi ucciderci tutti…? Temevi che avremmo presto scoperto ciò che hai fatto e che ti avremmo consegnata alle autorità, Selma? Avanti, parla.
- Non volevo uccidervi tutti … - sussurrò con voce gracchiante la donna, faticando a farla uscire. – Puoi controllare i tuoi tortini … sono meno ripieni degli altri …
- Per quale motivo?!?
- Volevo renderti incosciente per poche ore … ti avrei caricato su un cavallo e saremmo fuggiti di qui indisturbati …
- Rendermi incosciente …?
- Non saresti mai stato d’accordo nell’uccidere la donna e la ragazzina …
Per darle modo di continuare a parlare, Blake liberò il collo di Selma, la quale tossì violentemente, massaggiandosi la gola, prima di proseguire. – Loro sarebbero morte, sì. Meglio loro che noi.
- In tal modo, quando le avrebbero trovate, il tutto avrebbe lasciato presagire che si fossero tolte la vita per il dolore, in seguito all’arresto di Austen … – dedusse il ragazzo.
- E che noi due, avendole trovate morte, abbiamo colto l’occasione per andarcene via da questo maledetto villaggio – concluse la donna, continuando a massaggiarsi la gola, senza alcun rimorso nella voce.
- Mi vergogno di aver intrapreso questo viaggio con te. Sei una persona disgustosa – disse egli, velenoso.
- Sono incidenti di percorso con i quali dovrai abituarti a convivere.
- Come è accaduto?
- Non importa.
- Cos’è accaduto quella sera, Selma?!
I due vennero interrotti dal bussare impetuoso di quattro nocche sul legno della porta, come era stato la sera prima.
Si guardarono per un attimo, prima che Blake si dirigesse ad aprire, trovandosi nuovamente davanti al Giudice, il quale lo ispezionò con il suo sguardo da falco, indagatore. – Dovete venire con me, giovanotto.
- Per quale motivo?
- Per essere interrogato.
- Riguardo l’assassinio di Isa?
- No, riguardo qualcosa di ben peggiore, che potrebbe farvi rischiare una morte ben più dolorosa di quella che verrà riservata al giovane Austen.
In quel momento, la mente di Selma, ritornò a due sere prima:
Stava facendo il bagno dentro la teca colma d’acqua, con solo la testa fuori dal velo trasparente, rilassandosi nell’acqua calda, isolandosi dal freddo esterno.
Aveva davvero bisogno di un bagno.
Scaldare l’acqua poi, era stato un bisogno che aveva velocemente soddisfatto con qualche trucchetto da nulla, appreso dalla sua grande dimestichezza con il dominio dei quattro elementi.
Chiuse gli occhi e si godette il caldo che le accarezzava la pelle, mentre percepiva il sapone lavarle via lo sporco accumulato dal viaggio.
L’unico elemento di disturbo per la sua pace mentale, erano gli ululi e i ringhi di quei dannati lupi affamati che si dimenavano in quella fossa chiusa.
Improvvisamente, uno strano rumore di zoccoli la riscosse, facendole immediatamente spalancare gli occhi.
Non era sola.
Le dita della strega si aggrapparono inevitabilmente ai bordi della teca di legno, non appena individuò la figura della giovane lavandaia seduta sulla groppa di un cavallo, sicuramente al termine di una passeggiata in galoppo all’animale.
Ella aveva fatto fermare il cavallo non appena aveva visto la donna intenta a farsi un bagno.
Non era una cosa strana, farsi un bagno.
Selma la salutò con un cenno della mano. – Che splendido animale – commentò, vedendo Isa ricambiare il suo sorriso a distanza, intenta ad accarezzare la criniera del destriero.
- Grazie. Ne avete anche voi uno tutto vostro, nella vostra terra?
- Oh, no, cara. Nel villaggio da cui veniamo io e Blake non si vedono mai cavalli. Difatti non ne ho mai cavalcato uno e non credo lo abbia mai fatto neanche lui – affermò riprendendo a rilassarsi.
Isa sgranò gli occhi sorpresa e intristita. – Non immaginavo. Mi dispiace. I cavalli sono una mia grande passione – commentò. – Stavo cavalcando nella foresta – spiegò poi. – Avevo bisogno di distrarmi.
- Distrarvi da cosa?
- Da una brutta discussione.
A ciò, Selma accennò un sorriso complice. – Problemi di cuore, deduco dalla vostra espressione. Non temete: l’amore, quando ha radici salde, fiorisce e trionfa sempre.
- Lo spero davvero.
- Non rabbuiatevi, piccola cara. Avrete una vita prospera e duratura – le augurò sorridendole, vedendola ricambiare.
A ciò, Isa scese da cavallo, avvicinandosi a lei. – Si sta facendo freddo. Volete che vi porti un telo per quando uscirete? Gelerete prima di raggiungere l’entrata di casa se non vi asciugherete un po’ prima.
- Avete ragione. Mi sono spogliata dei miei vestiti una volta riempita la teca, senza minimamente pensare al telo. Vi ringrazio.
Ma prima che la ragazza si dirigesse verso l’entrata, notò un particolare sulla pelle nuda della spalla della donna, che attirò la sua attenzione. Isa aguzzò lo sguardo per osservare meglio quegli strani segni occulti e quelle scritte che sembravano tracciate in una lingua sconosciuta.
- Che cosa avete sulla pelle? – le domandò, facendo irrigidire la donna. – Che lingua è quella? – insistette.
- Qualcosa che non potete conoscere, cara.
Isa si avvicinò ancora. – Da dove venite…? Perché avete quei segni sul corpo? – cominciò a domandare sospettosa e impaurita insieme.
- Ciò non vi riguarda – la ammonì Selma affrettandosi ad uscire dalla teca e a rivestirsi velocemente con gli abiti abbandonati a terra, non accorgendosi quasi del gelo che penetrò nel suo corpo bagnato, tanta era l’adrenalina che la stava invadendo.
La fanciulla la fissò e indietreggiò. La fissò con lo sguardo di qualcuno che, alla prima occasione, sarebbe corso da chi di dovere, e avrebbe rivelato che il suo futuro sposo stesse ospitando in casa sua due stregoni.
Selma non si rese conto di starsi avvicinando a lei, fin quando la ragazza non si guardò intorno spaesata, alla disperata ricerca del suo destriero oramai lontano da lei, in cerca di qualsiasi via di fuga per sfuggirle.
Quando Isa raggiunse il bordo della fossa del lupi, non seppe più dove indietreggiare e cominciò a supplicarla, mentre Selma continuava ad avvicinarsi. – Vi prego … vi scongiuro … non dirò niente, niente! Chiunque voi siate, chiunque sia vostro figlio, qualsiasi cosa facciate, io non dirò niente a nessuno! Né ad Austen, né a Gerda, né a Selen, né ai miei genitori, né a nessuno! Vi supplico … - le disse iniziando a piangere, sentendo i lupi appena dietro di lei scalpitare dentro la fossa, più feroci che mai, aizzati dall’odore della sua carne così vicina.
Selma continuò ad avvicinarsi, fin quando non arrivò ad un palmo dalla ragazza.
Attese, attese semplicemente.
I lupi cominciarono a divenire sempre più feroci e animati. Le bestie saltarono in alto, fino alla recinzione, strattonandola e mordendola con le zanne, fin quando non si ruppe, sfondandosi, lasciando loro libero accesso.
Selma saltò indietro di scatto non appena uno dei lupi azzuffò il busto di Isa e la trascinò nella fossa con sé, cibandosene insieme agli altri.
La ragazza non ebbe neanche il tempo di urlare, poiché i lupi le staccarono il collo prima che avesse modo di farlo.
Selma non si affacciò alla fossa, né si mosse dalla sua posizione, ancorata alla parete del retro dell’abitazione.
Quando iniziò a sentire il freddo corroderle la pelle, si mosse, avviandosi verso l’entrata della casa, il respiro calmo e l’espressione neutra.  
 
 

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Capitolo 15
*** A morte l'eretico a morte lo stregone ***


A morte l’eretico a morte lo stregone
 
Il Giudice cominciò a camminargli intorno, lo sguardo tronfio e gli occhi macchiati di una malsana curiosità.
- Ad un giorno di cammino da qui, tra le due radure che si ergono in altitudine, in uno spazio isolato dagli altri villaggi, si trova un villaggio la cui fama raggiunge i confini della vallata: il ben noto Bliaint – cominciò l’uomo, continuando a girare intorno alla sedia in cui aveva costretto a sedere il ragazzo con i polsi legati, come un insetto intorno ad una carcassa.
- Nel villaggio menzionato, è stata effettuata una radicale divisione secoli addietro: la deformità è rimasta servitrice del Creatore, lo stesso che serviamo tutti noi; mentre la bellezza è stata “premiata” andando in sacrificio al Diavolo. Da quel momento in poi, l’aspetto di ogni uomo e donna delle due fazioni è andato sempre più accentuandosi col passar delle generazioni, in base alla porzione di appartenenza, tradendo, in tutta evidenza, a quale dei due signori l’anima del suddetto appartenesse. Immagino conosciate la storia - disse fermandosi di fronte al ragazzo e incurvandosi per porre il viso alla sua altezza nonostante fosse in piedi.
- Credevo che questo fosse un interrogatorio, non un sequestro – si limitò a rispondere il ragazzo con sguardo freddo e inaccessibile, alzando tra i loro visi i propri polsi ben stretti dalle corde ruvide che li avvolgevano.
- Trovo esilarante il fatto che voi stregoni possiate liberarvi da qualsiasi corda o impedimento con una facilità ultraterrena, ma che non lo facciate mai quando vi trovate sotto interrogatorio o processo, decisi a dimostrare a tutti i costi la vostra “innocenza” – disse il Giudice sorridendo.
- Mi avete preso per una sorta di demone che si diverte a prendere le sembianze umane?
- Vi ho preso per un fedele suddito del supremo impostore e peccatore, del Signore della menzogna e del peggiore oltraggio e tradimento. Ditemi, come ci si sente a far parte della parte privilegiata del villaggio? Perché per voi è così che funziona, sbaglio? Il vostro antenato che ha operato la divisione ha compiuto una scelta di personale convenienza e tale scelta gli si è rivoltata contro poiché, con il tempo, il Diavolo è divenuto il più potente dei due, sembra aver superato suo padre in quanto a fama e a numero di fedeli che lo adulano e servono. Siete più numerosi dei servitori di Dio e avete persino il permesso di praticare la magia nera indisturbati. Cosa avreste potuto desiderare di più? – disse sprezzante l’uomo.
Blake aguzzò lo sguardo, rimanendo impassibile, nel buio di quella stanzetta che, in passato, doveva esser stata una stalla. – State di nuovo facendo supposizioni totalmente infondate, basate sul nulla. Agite sempre in questo modo quando volete condannare a morte qualcuno qui?
- Il fatto che voi non ammettiate ciò che è evidente va solo a vostro discapito. Quando gli altri gran sacerdoti che hanno il compito di giudicarvi verranno qui per incontrarvi e ascoltare cosa ho da dire su di voi, state certo che li convincerò abilmente che la mia teoria su di voi è quanto di più corretto, giusto ed evidente possano ascoltare le loro orecchie e vedere i loro occhi.
Se il vostro antenato non avesse operato una tale assurda e insensata divisione, il vostro aspetto non vi avrebbe tradito. Inoltre, non volete dirmi a quale altro possibile villaggio appartenete, limitandovi a rimanere sul vago riguardo le vostre origini, poiché siete sveglio, e sapete che se pronunciaste un nome preciso, ci recheremmo sul luogo per appurare che proveniate davvero da dove affermate di provenire, smentendo con certezza le vostre parole, ottenendo le prove schiaccianti che ci servono.
- Parlate di prove schiaccianti per accusarmi e condannarmi a morte. Se io non pronunciassi nulla, limitandomi a non confermare, né a smentire che io provenga da Bliaint come voi credete, la considerereste comunque una conferma, senza lasciarmi il minimo beneficio del dubbio, in quanto oramai siete convinto e nulla potrebbe farvi cambiare idea.
E considerando il caso in cui abbiate ragione, vi trovereste davanti un ragazzo che non è stato condannato dalle leggi del proprio villaggio, poiché la sua unica colpa è quella di essere nato dalla parte “privilegiata” del villaggio, nonché quella sciagurata e maledetta da tutto il resto della comunità religiosa esterna a Bliaint.
Ma non a Bliaint.
Ogni villaggio possiede le proprie leggi specifiche.
Motivo per il quale, anche se aveste ragione, io non sarei condannabile, nemmeno qui, in questo villaggio in cui i figli del Diavolo vorrebbero essere eliminati dalla faccia della Terra.
Le vostre leggi non potrebbero punirmi per essere nato.
- Vi sbagliate, mio giovane amico – ribatté il Giudice, carezzandosi la barba corta e scura, all’altezza del mento. – Se foste rimasto dentro i confini del vostro villaggio non avreste corso alcun rischio. Ma essendovi avventurato nel mio …
- Sono qui solo di passaggio. Sarei rimasto una notte e me ne sarei andato la mattina seguente se non fosse successo ciò che è successo alla lavandaia – lo interruppe Blake. – Affermate di voler proteggere la vostra gente da ogni possibile minaccia, giusto? Una minaccia, per essere tale, deve trovarsi fisicamente qui, deve restare sulla vostra terra per divenire tale.
- Coloro che praticano la magia oscura sono un pericolo ovunque vadano. La vostra eliminazione mi permetterebbe di proteggere anche altri villaggi che avrebbero avuto la sfortuna di dover subire il vostro passaggio.
Blake rise, a metà tra il divertito e lo sprezzante.
- Cos’è che vi fa tanto ridere?
- Che voci avete udito su Bliaint, esattamente? – domandò in tono stranamente insinuante il ragazzo, prima di continuare. – Indossate bracciali e anelli d’oro senza celarli agli occhi degli abitanti del villaggio, anzi, quasi ostentandoli, mentre il vostro imponente crocefisso è intagliato in legno. Siete acculturato ed erudito, lo deduco dal vostro linguaggio, dalla vostra confidenza e consapevolezza quando persuadete le vostre “pecore” con tutto ciò che esce dalla vostra bocca, poiché, nel caso qualcuno avesse l’ardire di contestare le vostre parole, di certo sapreste come rispondergli a tono, dimostrando senza fatica la vostra conoscenza e sapienza, guadagnata dalle sudate letture che vi hanno permesso di fare tanta strada e di acquisire il prestigio che ora possedete. Detto questo, suppongo siate abbastanza curioso e capace di esservi ben informato riguardo Bliaint.
- Ho fatto le mie ricerche, sì.
- E immagino crediate che ogni singolo servitore del Diavolo che vive a Bliaint sia un navigato praticante della magia nera.
- Dal vostro tono, intendete smentire tale credenza.
- Io non intendo affermare o smentire nulla. Io non ho nessuna intenzione di confermare la vostra teoria, ricordate? – ribatté il ragazzo provocatorio.
- Se sapete che sarete condannato comunque, anche se non confesserete, perché non ammettere che ho ragione? Immagino per non darmi una tale soddisfazione, neanche in punto di morte – ipotizzò il Giudice, di fronte al rinnovato silenzio del ragazzo, il quale aveva quel sorrisetto sornione e sdegnante stampato in viso che gli stava gradualmente facendo ribollire i nervi, scatenandogli un’insana voglia di toglierglielo dalla faccia a calci. Non sapeva se lo stesse facendo di proposito, ma se così fosse stato, ciò avrebbe solamente alimentato maggiormente il suo interesse. – Prima avete nominato i miei gioielli d’oro. Per quale motivo? – gli chiese.
- Per sostenere maggiormente la teoria che foste interessato al tipo di magia che viene usata a Bliaint.
- Per quale motivo un tale dettaglio dovrebbe sostenere questa teoria?
- Ditemelo voi.
- Non ho voglia di giocare con voi, ragazzo.
- Oh, neanche io, ma, ahimè, sono costretto – gli disse egli rialzando nuovamente davanti ai loro visi i polsi stretti dalle corde, le quali gli avevano già perforato la carne, lasciandogli i segni.
Una luce si accese nelle iridi scure del Giudice. – Conoscete qualcosa riguardo gli alchimisti, suppongo - disse improvvisamente, osservando le iridi di zaffiro del ragazzo animarsi quasi impercettibilmente.
Egli, come si aspettava, non rispose.
- Si dice che … questi si allontanino un po’ dal particolare profilo di streghe e stregoni, nonostante pratichino anche loro la magia. Tuttavia, parrebbe trattarsi di un tipo di magia differente, qualcosa che, ad un occhio inesperto, potrebbe essere scambiato per natura.
Natura che segue il suo corso. Un corso plasmato direttamente dall’uomo.
Blake rimase ancora in silenzio, senza rispondere, lo sguardo neutro e gli occhi fissi sull’uomo, a sua volta.
- Questi si occupano in particolare dei metalli – continuò il Giudice. – So che a Bliaint vi è una galleria dalla quale vengono estratti una varietà mai vista di metalli, pietre e cristalli, molti dei quali sconosciuti – il tono dell’uomo si abbassò gradualmente, mentre, nuovamente, si incurvò verso il ragazzo, per avvicinare il volto al suo. – In un tomo, un giorno, ho letto di qualcosa chiamato “trasmutazione dei metalli”. Immagino non sappiate nulla neanche di questo, dico bene? – domandò con impazienza, ricevendo la risposta che si aspettava di ottenere da lui: silenzio tombale, deliziosamente ornato con uno sputo in faccia.
A ciò, il Giudice si pulì elegantemente la guancia dalla saliva e gli riservò un violento schiaffo che gli fece rivoltare il viso dall’altra parte, dando sfogo ad un istinto che lo animava da quando lo aveva condotto in quella stanza.
- Sapete che, se volessi farvi parlare con le maniere forti ci riuscirei, vero?
Qui a Carbrey ci siamo aggiornati riguardo le tecniche di tortura per le confessioni degli eretici, ma certe vecchie tradizioni non passano mai – gli disse afferrandogli il viso per le mascelle e girandoglielo con brutalità verso il lato destro della stanza, nel quale si trovava quello che sembrava un grosso abbeveratoio per animali a grandezza umana, colmo di acqua fredda. – Conoscerete per sentito dire la tecnica della vasca d’acqua e dei sassi utilizzata per le streghe e gli stregoni, immagino – gli disse all’orecchio, premendogli le dita sulla pelle delle mascelle fino a perforargliela con le unghie.
Non appena quegli artigli lasciarono libera la sua faccia con impeto, Blake sputò a terra un misto di saliva e sangue, a causa dello schiaffo di poco prima. – Immagino che gli altri gran sacerdoti che a breve saranno qui per me non siano così sorprendentemente interessati all’argomento degli alchimisti come voi.
- I gran sacerdoti che verranno sono delle persone molto semplici e ingenue, che Dio li abbia in gloria.
Dunque, molto facili da convincere. E state pur certo, ragazzo mio, che non vi permetterò di abbindolarli con i vostri giochetti mentali e la vostra abilità nel parlare.
- A quello penserete già voi – ribatté con prontezza il ragazzo, facendo virare nuovamente gli occhi verso la vasca colma.
- Cosa c’è? Avete improvvisamente paura dell’acqua, Blake?
Consideratela una manna dal cielo. So che a Bliaint il rogo è il metodo di esecuzione maggiormente utilizzato.
Qui a Carbrey non siamo tanto bruti.
Ad ogni modo, credo sia scontato che, se verrete condannato voi in quanto servitore del Diavolo abitante di Bliaint, lo sarà anche vostra madre.
Blake rimase qualche minuto in silenzio prima di rispondergli.
- Ella non è mia madre – disse atono. – Non è originaria di Bliaint, potete starne certo. La storia della madre e del figlio l’abbiamo raccontata per giustificare il fatto che stessimo viaggiando insieme.
- Non potrete dimostrare neanche questo.
- Domandatele il suo villaggio di provenienza ed ella ve lo dirà. Così potrete andare a controllare di persona e chiedere se una donna chiamata Selma, quarant’anni fa circa, è nata in quella terra.
E dato che ci siete, recatevi anche a Bliaint e chiedete di me, considerando quanto vi interessano le attività che vengono compiute lì.
Oh, non potete, certo che non potete. Vi ritrovereste un centinaio di maledizioni scagliate addosso se le streghe avessero anche solo il vago presagio che vi divertite ad assassinare coloro che praticano la magia nera non appena questi mettono piede fuori da Bliaint – disse il ragazzo nuovamente sprezzante. – Abbiate la consapevolezza, Giudice, che se davanti agli altri gran sacerdoti dovesse saltar fuori un’eventuale accusa anche contro Selma, con indubbia certezza troverei il modo di convincere i giudicanti anche della mia innocenza, oltre che della sua – affermò con sicurezza. – Sta a voi decidere se rischiare di non bearvi della vista del mio cadavere appeso ad una corda a marcire. D’altronde, su di me sembrate perfettamente convinto, mentre su di lei no.
- D’accordo, su questo e solo su questo, posso concedervi la vittoria – si arrese il Giudice. – Non verrà fatto il nome di Selma quando arriveranno gli altri gran sacerdoti. Quella donna dovrebbe erigervi un altare per ringraziarvi di averle salvato la pelle.
Quando i gran sacerdoti arrivarono, giungendo nella vecchia stalla, si disposero a semicerchio intorno ai due, mentre il Giudice esponeva loro la sua teoria e Blake veniva legato con una corda stretta intorno a tutto il corpo, da due incaricati. Non appena lo avvicinarono all’abbeveratoio lungo e largo, colmo di acqua fredda, il ragazzo si accorse che dovesse essere più profondo di quanto pensasse, all’incirca un metro o poco più.
Quando l’articolata teoria del Giudice fu conclusa, tutti e sette i gran sacerdoti si trovarono d’accordo nell’operare la prova della vasca per avere la conferma finale di trovarsi dinnanzi ad un eretico figlio e seguace del Demonio. Uno dei giudici, come tradizione voleva, si avvicinò alla figura legata da capo a piedi di Blake e, con la mano tremendamente tremante e la voce spezzata dalla paura, gli tracciò il segno della croce.
Il ragazzo guardò passivamente per la seconda volta il dito tracciare quella traiettoria su di sé, concentrandosi piuttosto sul volto invaso dai sudori freddi del gran sacerdote che compì il gesto.
Era come se si aspettasse che la sua mano prendesse fuoco al solo venir a contatto con la pelle del giovane eretico.
Dopo ciò, gli incaricati intrecciarono dei pesanti sacchi colmi di massi e rocce alle corde che stringevano il corpo di Blake, all’altezza del collo, dei piedi e del bacino.
Infine, il ragazzo chiuse gli occhi e venne fatto sdraiare a faccia in su dentro la vasca piena d’acqua, la quale, nonostante la larghezza, fu in grado di farlo sentire stretto e schiacciato, quasi come fosse sepolto vivo.
Scalciò e si mosse come un ossesso, istintivamente, nonostante i movimenti fossero molto limitati lì dentro, e le corde gli comprimessero ogni singola parte delle sue membra.
I massi pesanti lo tenevano ancorato al fondo, dandogli modo di scorgere a fatica le figure annebbiate e sfocate al di là del pelo dell’acqua.
Enormi bolle uscirono dalla sua bocca fino in superficie, grosse onde d’acqua strabordarono dai bordi a causa dei suoi impetuosi e implacabili movimenti convulsi, contorti e feroci.
Il suo corpo non voleva morire.
Nessun corpo era fatto per morire.
La ribellione alla morte era insita nella carne e nella natura umana.
Perituri nel corpo ma non nell’animo, rispecchiavano l’eterna lotta millenaria dei figli di coloro che erano stati figli a loro volta.
Mentre scalciava e si ribellava, alle sue orecchie pervenne, indefinita, una litania emessa e ripetuta più volte dai gran sacerdoti che circondavano la vasca:
“Oh Vergine grande e potente,
Liberaci,
Salvaci,
Da tutto ciò che è male,
Da tutto ciò che è torbido,
Da tutto ciò che è vermiglio,
Dall’ira di Dio,
Dall’ira del Demonio,
Di un nemico o una nemica,
Di chiunque voglia farci
Ciò che è maligno.”
Sapeva come funzionasse la procedura di quella tecnica bestiale, antica e sadica: se affoghi sei innocente, se invece, in qualche modo, sopravvivi a tale tortura, sei una strega.
In ogni caso, sarebbe stato spacciato in egual modo.
Quando oramai l’aria nei suoi polmoni stava venendo sostituita dall’acqua, e le forze cominciarono a mancargli, al suo ennesimo spasmo contorto e violento, il quale gli fece sbattere e colpire la testa e il busto al fondo della vasca, non solo riuscì a sfilare e a liberare un braccio dalle corde, ma il movimento provocò anche la fuoriuscita di alcune rocce dalle sacche che aveva legate addosso, permettendogli di risalire a galla con la parte anteriore del corpo, di aggrapparsi con una mano sbiancata al bordo scivoloso e, finalmente, riprendere fiato.
Tossì e ansimò prepotentemente, mentre il suo intero corpo tremò per l’intenso gelo che gli era penetrato dentro, soprattutto ora che la sua pelle bagnata era a contatto con l’aria fredda; ma ciò non gli tolse le energie per liberare il braccio ancora stretto e inglobato dalle corde, aiutandosi con quello libero, e di strapparsi via dal collo la sacca con ancora alcune rocce all’interno.
Il silenzio tombale calò come una lama tra i gran sacerdoti, i quali lo fissarono con occhi sgranati, invasi dal terrore.
- A morte lo stregone! – esclamarono tutti in coro.
 
A notte inoltrata, Selma si fece strada nel lungo corridoio delle prigioni di Carbrey, diretta verso la cella indicatale.
Una volta raggiunta, si fermò e guardò oltre le sbarre.
- Ti ho portato del cibo e dell’acqua. Immagino non te ne abbiano ancora dato – disse poggiando il cesto che si era portata con sé accanto alle sbarre.
- Oggi niente Belladonna? – le domandò la voce pungente e ancora rauca a tratti del ragazzo, seduto a terra, con la schiena abbandonata alla parete della cella.
- Dovrai accontentarti di un po’ di mele e di qualche grappolo d’uva – rispose sorridendo amaramente Selma, ricambiando l’ironia e affilando lo sguardo per osservarlo, mentre egli si alzava in piedi e si avvicinava. – Che cosa ti hanno fatto…? – gli domandò scrutando i suoi vestiti ancora bagnati e i segni scuri che lo marchiavano e che si riuscivano a scorgere nelle poche porzioni di pelle scoperte.
- Indovina – le rispose il ragazzo staccando qualche acino d’uva dal grappolo e portandoselo alla bocca.
Come riuscisse ad avere fame la notte prima della sua esecuzione, era l’unico a poterselo spiegare.
- No, non ci credo … - spirò la donna allibita. – La prova della vasca e dei massi??
Blake ritornò in fondo alla cella, riprendendo posto a terra, lasciando quella tacita risposta al vento.
- L’esecuzione sarà domani mattina? – riprese la donna.
Egli annuì.
- Selen e Gerda non sanno ancora nulla della tua condanna. Sono ancora convinte che ti stiano semplicemente interrogando.
Anche la cella di Austen è qui nei paraggi?
- Non lo so.
- Egli non può essere ancora giustiziato, perché non sono ancora del tutto convinti sia il colpevole.
Non so che cosa fare, Blake, per aiutarti. Dato che sono ancora in tempo per agire, potrei confessare l’assassinio di Isa, ma ciò non cambierebbe la tua situazione, poiché non sei accusato di quello.
- Non devi fare nulla, difatti.
- Come posso lasciare che ti facciano una cosa simile?? E, soprattutto, com’è possibile che non abbiano avuto sospetti anche su di me?
- Non li hanno avuti semplicemente perché ho convinto il Giudice a lasciartene fuori.
Selma sgranò gli occhi sporgenti. – Come …? Perché lo hai fatto?
- Non fare quella faccia. Non l’ho fatto per salvarti. Che tu viva o muoia non potrebbe toccarmi di meno.
Specialmente dopo quello che hai fatto e che stavi per fare.
L’ho fatto solo perché voglio che tu faccia qualcosa per me.
- Che cosa?
- Quando tornerai a Bliaint, voglio che tu vada da mio fratello, Christopher Ioan.
Devi andare da lui e quando egli ti chiederà di me, dovrai mentirgli, dirgli che sono vivo, che sto bene e che ho semplicemente deciso di esplorare il mondo, oltre l’oceano.
Digli che lo amo e che rimarrà sempre con me, dovunque andrò.
Solo questo.
- Mi hai salvata per questo …?
- Sì.
- Io ripago sempre i miei debiti, Blake.
- Mi ripagherai in questo modo e in nessun altro.
- Una vita vale un’altra vita, Blake. Così lo ripagherei.
- Ma non puoi. Non puoi fare nulla per salvarmi, nemmeno usare uno dei tuoi incantesimi – le rispose con amaro sarcasmo.
Selma abbassò lo sguardo, stringendo una sbarra con le dita. – Che cosa ti ha chiesto il Giudice?
- Ha capito da dove provengo e voleva a tutti i costi farmi confessare.
- Non è un reato provenire da Bliaint, non vi è alcun reato da confessare …
- A quanto pare, anche la nascita è perfettamente condannabile per lui. Qualsiasi cosa avessi detto non gli avrebbe fatto cambiare idea. Per lui ogni servitore del Diavolo è totalmente soggiogato a Lui e alla magia nera.
- Non ha fatto menzione a null’altro?
Blake vi pensò su, senza concentrarsi troppo a riguardo. – È un uomo avido. Per tale motivo sembra che la questione della trasmutazione dei metalli susciti un certo interesse in lui.
- Conosce la trasmutazione dei metalli …?
- È parecchio informato. Più di quanto voglia far credere.
- E tu che cosa sai a riguardo?
Blake la guardò truce in seguito a tale domanda. – Cos’è, ora vuoi interrogarmi anche tu?
- Ti sto solo facendo una domanda. Me ne andrò a breve e ti lascerò riposare.
- Mio padre è il proprietario della galleria, Selma.
Conosco tutto ciò che c’è da sapere su ogni tipologia di metallo estratto a Bliaint.
Conosco delle nozioni alchemiche, sì, certo.
Ma, nonostante ciò, non ho mai raggiunto ciò che cercavo.
Ti basta?
Selma accennò un sorriso, misto di tristezza e di malcelata frustrazione. – Non mi aspettavo sarebbe concluso così il nostro viaggio.
- Il caso ha fatto il suo corso – sussurrò il ragazzo, alzando gli occhi verso il soffitto della cella, per poi chiuderli.
- A domani, Blake. Non tarderò.
 
La mattina seguente, l’intero villaggio di Carbrey si riunì sul luogo dell’impiccagione per assistere all’esecuzione di un eretico, un evento molto raro nel loro piccolo territorio.
Nella densa nebbia del mattino, due uomini vestiti da boia condussero il ragazzo con le mani legate dietro la schiena in mezzo ad un campo di terra. Avendo piovuto la notte precedente, la terra era divenuta fango.
La gente tra la folla accalcata spingeva per riuscire ad avvicinarsi e ad avere una visuale migliore dell’evento.
Tra i volti dei presenti, Blake riconobbe quelli in lacrime di Gerda e Selen, affiancati dal viso quasi impassibile di Selma.
Il ragazzo sorrise alla bambina, cercando di rassicurarla per quanto possibile.
La fine era vicina.
Se la sentiva bruciare sottopelle, nonostante l’aria gelida intorno a lui.
Sentiva gli sguardi giudicanti, affascinati, impauriti e talvolta anche compassionevoli di tutte le persone che lo guardavano, che osservavano le sue iridi stanche, le sue occhiaie scure, le labbra blu, la cera spenta e gli ematomi neri e violacei che gli macchiavano la pelle delle braccia nude e delle clavicole semiscoperte.
Improvvisamente, si sentì afferrare per le ciocche scure dei capelli arruffati e tirare violentemente indietro da uno dei due boia, per poi venire costretto a terra, in ginocchio, con le mani e le gambe nel fango.
- Abitanti di Carbrey – cominciò il Giudice. – Questa mattina, avverrà qualcosa di straordinario nel nostro villaggio. Questa mattina, Il nostro Dio e Signore Onnipotente ci ha dato modo di punire un eretico, figlio del suo peggior nemico e traditore, il Demonio.
Erano da anni che non si vedeva una strega nel nostro villaggio, attraversare impunemente la nostra Terra! - esclamò sorridendo trionfante, per poi volgere lo sguardo al ragazzo inginocchiato. Si avvicinò a lui a passo lento e gli afferrò i capelli a sua volta, per fargli alzare il volto verso i presenti.
Blake rimase impassibile, trattenendo la smorfia di dolore che gli avrebbe fatto stringere le palpebre e arricciare il naso per il dolore provato dai capelli che sembravano dovessero essergli strappati dalla testa da un momento all’altro.
Ritornò col busto eretto e la testa alta, come il Giudice lo stava costringendo a fare, e strinse la mascella, sopportando.
- Non ha fatto niente! Non ha fatto niente di male! – urlò improvvisamente la piccola Gerda.
Blake le fece immediatamente cenno di negazione con la testa, per convincerla a fare silenzio, mentre Selen si affrettò a tapparle la bocca allarmata.
- Oh, invece sì, piccola cara – le rispose con calma il Giudice. – Questo giovane, tramite le sue funeste e oscure pratiche, serve il suo Signore nella maniera più torbida e maligna che si possa immaginare! – esclamò rinforzando la presa sui suoi capelli, mentre uno dei due boia circondò il collo del ragazzo con una corda spessa e ruvida, stringendogliela all’altezza della giugulare, togliendogli il respiro.
I respiri cominciarono a divenire ansimi.
- A morte l’eretico!
A morte lo stregone! – esclamò il Giudice mollando la presa sui capelli del ragazzo e alzando il proprio crocefisso al cielo.
- A morte l’eretico!
A morte lo stregone! – lo imitarono in coro gli abitanti del villaggio.
L’aspettativa di venire impiccato ad un albero venne immediatamente smentita dal volto fiero e sorridente del Giudice.
Fu in quel momento che Blake scoprì che il metodo di esecuzione riservato agli eretici a Carbrey fosse leggermente differente, rispetto a quello predisposto per gli altri condannati: uno dei due boia gli si inginocchiò dinnanzi, gli afferrò le mani con forza e gliele sbatté a terra, tenendole fermamente ancorate al fango; mentre l’altro, il quale, invece, gli stava dietro, afferrò i due lembi della corda che Blake aveva legata al collo, e cominciò a tirare con tutta la sua forza bruta, indietro.
La sensazione era un misto tra il sentirsi la testa tirata via dal corpo con violenza, e il dolore insopportabile di una lama premuta in gola.
Cominciò ad urlare, inizialmente con un grido sordo, potente e acuto, poi, man mano che la corda gli perforava la pelle del collo e gli comprimeva i canali della voce e del respiro, cominciò ad urlare raucamente, grave, con voce strozzata e intermittente.
Le mani del boia continuarono a tenergli i polsi colpiti dagli spasmi incollati al terreno, mentre l’altro continuava a tirare indietro la corda, come un fantino con le briglie di un cavallo, costringendolo con il volto alzato verso l’alto, rivolto al cielo plumbeo.
Ogni volta che a Bliaint vi era un esecuzione al rogo sul palco della piazza, in cielo spuntava il sole.
Ogni volta.
In quella terra sconosciuta, in quella terra non sua, invece, il cielo era rimasto cupo, spento, grigio come il metallo, mentre le iridi blu scorgevano oramai solo delle sfumature di colori, e le palpebre lottavano per calare pesantemente su di loro, definitivamente.
La voce graffiata gli uscì ancora dalla bocca aperta, mentre una serie di immagini, di ricordi vividi, gli attraversarono la mente fugaci e dirompenti: il dolce e adorante sorriso di Myriam, il suo odore speziato e familiare, il suo abbraccio soffocante e immensamente rassicurante; seguito dal volto stanco ma gioioso e bellissimo di suo fratello, ogni volta che lo chiamava con intima confidenza, che si affidava a lui in tutto e per tutto e che lo guardava ammirante e colmo d’amore, con i suoi occhi luminosi.
Improvvisamente, quando credette che oramai la vita avesse lasciato definitivamente il suo corpo inerme, una voce lontana, la voce del Giudice, irruppe. – Fermi! Vi ho detto di fermarvi! Basta così!
La corda che gli perforava il collo venne lasciata andare all’improvviso, facendolo ripiombare in avanti, preso da violentissimi colpi di tosse, mentre anche le sue mani riprendevano la sensibilità, venendo liberate dalla costrizione di quelle dell’altro boia.
Quando riuscì a riprendere la motricità di almeno una delle mani, la portò lentamente sul proprio collo, un collo che non percepiva più di avere, il quale stava venendo liberato dalla corda.
Una profonda ferita circolare provocata dal solco della corda sgorgava di sangue vivo, macchiandogli le dita, mentre il mondo intorno a lui continuava a rimanere evanescente, sfocato, quasi inesistente.
Si sentì tirare su per le spalle ricurve dalle braccia di un uomo, il quale gli compresse un panno morbido e bagnato intorno al collo, per limitare la fuoriuscita di sangue.
- L’esecuzione verrà rimandata – si limitò a dire il Giudice, senza dare ulteriori spiegazioni.
L’ultima cosa che Blake riuscì a vedere prima di perdere i sensi ed essere portato via, fu il volto in lontananza di Selma, sollevato e sorridente, insieme alle sue labbra che si mossero per pronunciare un’unica frase:
“Ora siamo pari”.
 
Il ragazzo sbatté le palpebre, riprendendo contatto con la realtà.
La luce delle lampade ad olio entrò brutalmente a contatto con le sue pupille, mentre il collo gli bruciava e pulsava come corroso. Di nuovo, la sua mano strisciò sulla propria gola, trovandola pulita e fasciata.
Prima di avere il tempo di realizzare di trovarsi steso su un letto caldo, con delle coperte di lana addosso e un caminetto a riscaldare la stanzetta, l’ultima figura che avrebbe voluto trovarsi dinnanzi agli occhi comparve nella visuale di Blake, avvicinandoglisi.
- Non temete, avrete le cure e il tempo che vi permetteranno di riprendervi – lo rassicurò il Giudice con una strana voce, pregna di aspettativa.
Per la prima volta, gli parve di scorgere il vero volto di quell’uomo.
- Non affaticatevi a parlare, il medico dice che la vostra voce sarà compromessa per un po’.
Vi trovate a casa mia, ad ogni modo.
Vi terrò qui nascosto, fin quando non avrete fatto ciò che vi chiedo.
Successivamente, vi lascerò andare via insieme alla vostra compagna di viaggio, all’insaputa degli abitanti del villaggio, ai quali rivelerò che siete riuscito a scappare di prigione.
Lo sforzo immenso che il ragazzo compì per pronunciare, spirando e sussurrando, quell’unica parola, per lui fu come ingoiare una colata lavica: - … per … perché…?
- Vi starete chiedendo cosa voglio da voi e perché l’ho fatto, lo capisco – rispose il Giudice accennando un altro sorriso, mentre si avvicinava al caminetto per scaldarsi le mani. – Vi volevo morto, mio giovane amico, lo volevo davvero. Tuttavia, ieri notte, la vostra compagna che vi siete premurato di salvare, Selma, si è recata nella mia abitazione, per parlarmi di voi – spiegò. – Dopo aver parlato con lei, dato che sapevo già che non vi avrei ucciso, avrei potuto evitare la messinscena di questa mattina della vostra quasi-esecuzione, rimandando direttamente il tutto ad una data indefinita.
Come sapete, gli abitanti del villaggio si fidano di me – disse animando un po’ il fuoco con alcuni pezzi di legno. – Tuttavia, sentivo comunque l’esigenza di darvi una lezione – continuò sorridendo soddisfatto, posando gli occhi sul collo fasciato del ragazzo, prima di riprendere. – Ella mi ha detto che siete conosciuto come un abile alchimista a Bliaint. Mi ha detto che avete ottenuto molti successi nel campo della trasmutazione dei metalli, dato che, sorprendentemente, mi ha rivelato che siete anche il figlio del proprietario della galleria da cui vengono estratti i metalli e i cristalli più rari e preziosi di tutta la regione.
Dunque mi sono chiesto: perché non sfruttare tale inestimabile abilità, e sprecarla in tal modo?
 Detto ciò, l’uomo si avvicinò al suo letto, guardandolo fisso con i suoi occhi bramosi di averi, avidi di possesso e di rarità, in ogni senso possibile. – Sappiate questo, Blake: non metterete piede fuori da questa casa e da questa stanza, non verrete baciato dalla luce del sole e dell’aria esterna, fin quando non avrete trasmutato quindici chili di piombo che mi sono fatto trasportare nella mia cantina, in quindici chili d’oro.
Solo allora, avrete la vostra tanto bramata e attesa libertà.
 
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** Rivolta ***


Rivolta
 
La donna, la pelle bruna, ancor più scurita di quanto già non fosse a causa del semibuio della stanza, gli occhi color carbone e un lungo cespuglio di capelli neri che le scendeva lungo il corpo magro e la schiena, era seduta in mezzo alla stanza, intenta a guardare Beitris in piedi dinnanzi alla teca contenente il bambino straniero morto, lo sguardo vuoto e fisso, e le mani strette al bordo.
- Sono diventati una fissazione non da poco – commentò la donna in penombra, poggiando il mento sulla mano. – I due tanto amati topolini. Eppure, quando erano qui, non hai mai dimostrato loro tutto l’affetto e l’amore per cui ora ti struggi, a causa della loro mancanza – commentò, senza alcun tono di rimprovero.
Beitris restò con lo sguardo fisso dinnanzi a sé. – Non vogliono farmeli vedere. Non vogliono farli vedere a nessuno – disse solamente. – Solo loro possono vederli. Quei dannati monaci  … e quella serpe velenosa, che sembra la reincarnazione di Lilith … al solo pensiero che loro hanno il potere di vederli quanto e quando vogliono, mi ribolle il sangue come lava – sussurrò tra i denti, stringendo con forza il bordo di vetro della teca.
- Ci sono tanti orfani per strada – commentò l’altra donna con apparente non curanza. – Possiamo prendercene altri …
A tali parole, Beitris alzò le sue gemme verdi infuocate, puntandole su di lei. – Io non voglio altri orfani – le rispose tagliente, scandendo bene ogni parola. – Io voglio loro! Voglio loro! Non voglio nessun altro se non loro!! Rivoglio udire le loro risate scanzonate, rivoglio i loro sguardi pestiferi, rivoglio i loro litigi continui, le loro lamentele, rivoglio le loro urla acute, di gioia e tristezza, rivoglio i loro occhi, più belli dei raggi del sole …
Nessun altro potrebbe colmare ciò che loro erano in grado di darmi – le disse avvicinandosele e ponendosi di fronte a lei, ad un palmo dal suo viso, con le mani strette ai lati della sedia su cui l’altra era seduta.
A ciò, la donna sorrise, scoprendo i suoi denti bianchi, portandole una mano sulla guancia. – Allora, se è davvero così che stanno le cose, non potrò mai perdonarti se non ti muoverai immediatamente per fare tutto il necessario per riprenderteli – le sussurrò avvicinando le labbra alle sue, lasciando un intimo e delicato bacio su di esse. – Saresti disposta a disobbedire ad Ephram per riaverli? – le domandò poi.
- Sono arrivata ad un punto in cui sarei disposta ad uccidere Ephram e a dare in pasto le sue carni alle bestie pur di evitare che nessuno di quei monaci torca un capello a Maroine e a Maringlen.
- Bene. Ti servirà un po’ di aiuto. Sarò disposta a darti tutto ciò che ti serve, dato che ti sei tanto adoperata ad aiutarmi nella mia impresa, in questi anni, sorella. Hai invocato le Madri? Ti servirà anche il loro sostegno oltre che quello del nostro Signore.
A ciò, Beitris sorrise con fermezza e decisione, prendendo il ciondolo di un crocefisso appeso al contrario e baciandolo, mentre, con le labbra ancora attaccate alla croce capovolta, compì la sua invocazione:
- Mater Suspiriorum, Mater Lacrimarum, Mater Tenebrarum
Invoco il vostro eccelso potere.  
Lilith, Diana e Iside, le prime tre, le prime seguaci, le prescelte dal Signore
Invoco la vostra inestimabile saggezza.
Mio Signore, re dei re, Padrone onnipotente
Invoco il tuo sostegno e la tua protezione – disse, per poi allontanare il crocefisso e guardare fissa negli occhi la donna. – Sei con me, Myriam?
- Sempre.
 
Il ragazzino divaricò le gambe gradualmente, facendo strisciare le nuove scarpe sul pavimento umido e scivoloso della cella, allargò le braccia e tese il busto, la schiena aderita alla parete e la testa alzata.
- Vuoi stare dritto?? – lo riprese Maroine innervosita, mentre l’altro rideva sotto i baffi, con l’unico scopo di stuzzicarla. – Non riesco a misurarti l’altezza se allarghi le gambe! – si lamentò ancora ella, mentre lo vedeva finalmente accontentarla, e porsi con le gambe unite, attendendo che ella tracciasse un segno sul muro appena sopra la sua testa, con il metallo scuro della catena.
- Ora tocca a te – le disse Maringlen, lasciandole il posto e ponendosi di fronte a lei, tracciando il segno appena poco più sotto del proprio, in  cima ai capelli di sua sorella.
Quest’ultima si scostò dal muro e osservò i due segni. – Sei alto un centimetro più di me – disse.
- È solo perché ho il cervello più grande – rispose scherzosamente egli, beccandosi una gomitata che ricambiò prontamente.
- O forse perché mangi di più.
- Sei tu quello che non si contiene e che si ingozza ogni volta – ribatté Maringlen. – Forse resteremo chiusi qui dentro abbastanza tempo da crescere in altezza.
In seguito a quel commento, Maroine sembrò rabbuiarsi.
- Ehi? – la richiamò suo fratello, riavvicinandosele. – Non dicevo sul serio. Magari riusciremo a fuggire prima. Forse, Ephram e Beitris torneranno a prenderci come ci hanno promesso – cercò di rassicurarla.
- Non è per quello – rispose Maroine, fissando il proprio corpo, coperto dai vestiti larghi e puliti. – Tu mi vedi come un maschio o una femmina? – domandò improvvisamente, alzando gli occhi sul fratello, il quale non nascose la sua sorpresa dinnanzi a tale domanda.
- Che importa come ti vedo io? Come ti senti tu è l’unica cosa che conta.
- Rispondi alla domanda, Ira – lo spronò.
A ciò, il ragazzino si arrese. – Ti vedo in entrambi i modi. Sia come ragazzo, che come ragazza. Non ci faccio caso – disse sinceramente. – A volte ti vedo più ragazzo, altre più ragazza. Ad ogni modo, perché me lo hai chiesto?
Maroine rifletté tra sé, ancora incerta. – Non so se riuscirò a continuare ancora per molto, Maringlen.
- A far cosa?
- A far credere a tutti di essere un ragazzo. Non so se ci riuscirò. Il mio petto … si sta gonfiando, come aveva detto Beitris. Sento che mi preme troppo sotto la fasciatura per comprimerlo.
- Maroine – la richiamò suo fratello riavvicinandosele mentre le poneva le mani sulle spalle, ed ella lo guardava con gli occhi pregni di fiducia e di aspettativa. – Va bene – le disse sorridendole caloroso. – Va bene, se vuoi smettere. Nessuno ti condannerà per essere una ragazza.
- Se smetterò, non saremo più perfettamente identici agli occhi degli altri.
- E che importa?? Sarebbe strano rispetto a quello a cui siamo abituati ma andrebbe bene – le disse sorridendo di nuovo incoraggiante, fin quando il suo dolce sorriso non si trasformò in un ghigno furbo e divertito insieme, creando delle piccole rientranze sulle guance lisce, un'altra caratteristica solo e solamente sua. – E poi, se proprio vorrai che tutti ci trovino identici in tutto e per tutto, potrò sempre essere io a fingere di essere una ragazza.
Risero entrambi di gusto a quell’ultima frase, sguainati e rilassati.
Quando Maroine si riprese dal ridere, prese ad osservare suo fratello. – Lo faresti davvero?
- Intendi fingermi una ragazza come tu ti fingi ragazzo?
- Sì. Insomma a me non pesa farlo perché mi piace essere un ragazzo, molto più che essere una ragazza.
Ma tu saresti in grado di fare quello che faccio io, solo se io te lo chiedessi?
- Non lo so – rispose sinceramente Maringlen, riflettendovi su. – Per me sarebbe più difficile.
- Perché?
- Perché la voce mi tradirebbe. La mia è più rauca della tua e non riesco a camuffarla.
Tra qualche tempo, per me sarebbe impossibile spacciarmi per ragazza. Ma ora …
- Ma ora …?
- Ma ora non lo so. E poi …
- E poi nulla. Ora ne saresti perfettamente in grado, proprio come me, faccino d’angelo! – lo stuzzicò Maroine, venendo bonariamente fulminata da suo fratello, che le saltò addosso, lottando giocosamente con lei, come due gatti imbizzarriti.
- Ripetilo di nuovo se hai il coraggio! – la sfidò Maringlen bloccandola a terra, seduto a cavalcioni su di lei, mentre ella rideva a squarciagola e lo spingeva.
- Faccino d’angelo! Erano Myriam e Lilibeth a chiamarci così! – esclamò ella ridendo ancora. – O preferisci il modo in cui ci chiamava Selma, quella pazza di Selma?? Aspetta, com’era? Ah, sì: faccia da bambola!
I due lottarono per un altro po’, invertendosi le posizioni più volte, fin quando non si stancarono e non finirono entrambi con la schiena a terra e con il fiatone.
- Perché volevi saperlo? – chiese dopo un po’ Maringlen. – Se io fossi disposto a fare quello che fai tu, perché volevi saperlo?
- Curiosità – rispose Maroine voltandosi a guardarlo a sua volta. – Io ti proteggerei. Ti proteggerei sempre, proprio come ora e come tu hai fatto con me.
I due si sorrisero, facendo intrecciare le dita delle loro mani.
Maringlen si accorse che il braccio che sua sorella aveva sporto verso di lui per stringergli la mano fosse quello infortunato. In quel momento, gli tornarono in mente le sue parole di quel giorno, una delle volte in cui si erano addormentati insieme nel letto di padre Cliamon. – Mi taglierei un braccio anche io, per starti più vicino – sussurrò, facendola sorridere tristemente.
Improvvisamente, i due vennero richiamati da un monaco e prelevati dalla cella.
 
Padre Craig salì le scalinate che lo avrebbero portato alla biblioteca chiusa al pubblico della cattedrale dei servi del Creatore, condotto da un monaco che non aveva ancora avuto modo di conoscere.
- Grazie per avermi accompagnato – gli disse.
- Teoricamente, non potreste stare qui – lo ammonì il monaco, con il viso colpevole. – Questo sarà l’unico strappo alla regola e ve lo concedo solo perché Judith è la custode della biblioteca, ed ella mi ha parlato molto bene di voi, e mi ha detto che sareste passato questa mattina – gli disse l’uomo, per voltare le spalle e andarsene.
A ciò, padre Craig bussò alla porta della biblioteca, attendendo che Judith gli desse il permesso di entrare.
Quando udì la voce della ragazza accondiscendente dall’interno, entrò, guardandosi intorno, meravigliato dall’immensità e dalla bellezza di quella porzione di cattedrale, ingiustamente nascosta agli occhi dei più.
Aguzzando lo sguardo anche verso i presenti, padre Craig si accorse che la biblioteca fosse inaspettatamente affollata: un ragazzino biondo, con dei vestiti impeccabili, i capelli spettinati e delle larghe catene legate ai polsi che gli permettevano ampi movimenti, camminava per il maestoso salone, facendosi strada tra i vari scaffali di tomi, con sguardo tranquillo. Lo studiò per un po’, poi volse lo sguardo al centro del salone, sull’imponente tavolo che ospitava tre persone: Judith era seduta comodamente, con gli occhi grandi e scuri concentrati sulle pagine di un tomo in particolare, le gambe accavallate e un abito nero e lungo che le calzava alla perfezione, tra i più eleganti che era solita indossare del suo ampio guardaroba; padre Cliamon era seduto all’altro lato del tavolo, intento a scrivere qualcosa su alcune carte; mentre, alla destra di Judith, era seduto un ragazzino, esattamente identico a quello precedente, impegnato e concentrato a ricalcare le parole di un tomo su una pergamena.
Judith alzò il volto rilassato su padre Craig e gli sorrise. – Prego, padre, avvicinatevi. Non vi aspettavo così presto. Avevate detto che volevate parlarmi? – gli domandò gentilmente.
Il giovane prete si riprese dalla sorpresa e dallo spaesamento e si avvicinò al tavolo, venendo osservato sia dallo sguardo neutro di padre Cliamon, che dalle iridi color miele e curiose del ragazzino accanto a Judith, il quale non sembrava far caso all’impedimento delle catene ai polsi, proprio come il suo gemello.
- Dunque, questi sono i due ragazzini prigionieri e in attesa della condanna? – dedusse con ovvietà padre Craig. – Non credevo li teneste qui con voi. Non credevo neanche li avreste mai fatti entrare in un luogo chiuso al pubblico come la biblioteca – commentò senza alcun tono d’accusa, sedendosi di fronte a Judith, continuando ad osservare il ragazzino, che lo studiava a sua volta.
- Lui è Maroine, padre. Gli sto facendo ricalcare delle parti che mi interessano di questo tomo, nonostante ai suoi occhi queste parole appaiono solo come segni incomprensibili. Ci sta riuscendo bene – spiegò Judith sorridendo in direzione del ragazzino. – Lui, invece, è Maringlen – continuò ella, voltandosi ad osservare l’altro gemello, intento a riporre con attenzione alcuni tomi in degli scaffali specifici. – Gli sto facendo catalogare dei manuali, di cui stavo procrastinando la sistemazione. Dato che è trascorsa poco più di una settimana dalla loro incarcerazione, e che il braccio di Maroine è ancora in brutte condizioni, ho deciso di incaricare del compito più pratico e manuale Maringlen.
Padre Craig fece molta fatica a credere che quei due placidi ragazzini, dall’aspetto tanto luminoso, immacolato e curato, fossero gli stessi orfani stregoni di cui si parlava tanto, cresciuti in strada e aggressivi come belve.
- Loro possono stare qui perché sto facendo far loro dei lavoretti utili per me – continuò la ragazza.
- Voi, invece, non dovreste essere qui – osservò padre Cliamon.
- Gli ho chiesto io di venire qui, padre. Ieri sera padre Craig mi ha comunicato di volermi parlare – gli comunicò Judith. – Difatti, ve ne sarei grata se poteste lasciarci soli per un attimo – gli chiese sorridendo candida.
A ciò, padre Cliamon si alzò in piedi e, dando un’ultima occhiata apparentemente casuale a padre Craig, si avviò verso l’uscita della biblioteca.
Dopo ciò, padre Craig posò nuovamente lo sguardo sul ragazzino seduto, il quale aveva ripreso a ricalcare le parole del tomo sulla pergamena. – Loro due resteranno qui ad ascoltare ciò che vi dirò? – domandò lievemente incerto.
- Non preoccupatevi di loro, padre. Sono dei prigionieri e dubito siano interessati a ciò che mi direte – lo rassicurò Judith, guardandolo lievemente allarmata. – Va tutto bene, padre? Non avete una bella cera. Non ci vediamo da un po’.
- Da poco più di una settimana, sì – confermò sorridendo tristemente il giovane prete, cercando di sembrarle maggiormente in forma, fallendo. – Vi ringrazio di aver accettato di incontrarmi.
- Non ditelo neanche, padre – gli disse ella allungando la mano e poggiandola sopra la sua. – Siete uno dei pochi veri amici che ho – gli sorrise sincera. – Ditemi, cosa vi affligge? Avete avuto modo di parlare con Naren e di acquietare un minimo la vostra curiosità?
Padre Craig annuì. – Ho scoperto in quale corpo ho abitato quella notte. E quale corpo ha abitato il mio …
- Dunque?
- Conoscete la fanciulla dai capelli corvini e gli occhi verdi, l’amica di Blake? Ha parlato con lui sia la sera delle celebrazioni, sia qualche giorno fa, alla Taverna, prima che egli partisse.
- Sì, credo di aver capito chi sia. Si tratta di lei, dunque?
Il giovane prete annuì, preoccupato e amareggiato. – Il suo nome è Beitris. Ella, quella notte, si è risvegliata accanto a Blake, coperta di sangue non suo … ho assoluto bisogno di parlare con Blake.
 - Lo capisco, padre. Ma non fustigatevi ora, prima di aver scoperto qualcosa di concreto.
Io, quando mi sono svegliata, quella notte, era sola, isolata dagli altri. Eppure, è evidente che qualcuno si sia servito del mio corpo.
- E non siete turbata da ciò? Mi sono chiesto innumerevoli volte come facciate a vivere questa situazione con tranquillità, tutti voi servitori del Diavolo.
Se durante tali riti possono accadere cose come queste, perché li praticate? Perché lasciate che vi soggioghino?
Judith accennò un malinconico sorriso in risposta. – Non sempre ciò che è male è il male peggiore, padre.
- Cosa intendete dire?
- Talvolta, serve procurarci del dolore per comprendere cosa sia il piacere.
Talvolta serve uscire da noi, dal nostro corpo, per comprendere davvero il mondo che ci circonda.
Il rito dello scambio di corpi è molto pericoloso, lo riconosco, ed è quasi impossibile rimanere lucidi e coscienti mentre vi si sottopone.
Ma, pensate, per un attimo, a come dovrebbe essere vivere nel corpo di qualcun altro. Vedere, sentire e provare tutto ciò che vede, sente e prova l’altra persona, riuscendo ad avere una prospettiva totalmente diversa del mondo.
Non sarebbe l’atto di umanità più puro e rigenerante?
- Significherebbe anche privare l’altra persona del corpo … privare se stessi del proprio corpo.
- Perché riuscite a vedere tutto solo in termini di privazione?
L’arricchimento che ne deriverebbe ripagherebbe tutto.
- Ma non è ciò che è successo quella notte. Quella notte, il rito al quale ci siamo sottoposti ha generato solamente degrado, dolore e dissolutezza.
- Le nostre usanze, seppur alcune di loro siano estreme ai vostri occhi, servono a farci sentire più vivi e vicini al nostro Signore. Servono per farci dimenticare, solo per poco tempo, della vita che siamo costretti a vivere qui, della sofferenza e della morte alle quali siamo costretti ad assistere ogni giorno.
Per alcuni, questa è l’unica valvola di sfogo.
- Vi riferite alla magia nera?
- Io ho finito – li interruppe Maroine, porgendo la pergamena a Judith.
- Grazie, Maroine. Ora puoi andare ad aiutare tuo fratello con i manuali. Mi raccomando, però, non sforzare troppo il braccio – le disse carezzandole una spalla, per poi vederla alzarsi dalla sedia e raggiungere il gemello.
- Sembrano due ragazzini molto obbedienti – commentò padre Craig.
- Non lasciatevi ingannare, padre. So che ora vi sembrano due nobili principini ritagliati da un dipinto, ma tenete a mente che hanno vissuto in strada, e sanno fingere. Sanno fingere molto bene.
Sapete, sto imparando a conoscerli, passando tutto questo tempo a contatto con loro. E quello che sto conoscendo mi sta stringendo il cuore, animandolo.
- Vi siete affezionata a loro – prese coscienza egli.
- Sto cercando di trovare loro un rifugio sicuro, sicuro dai monaci e dagli stregoni, con l’aiuto di padre Cliamon.
- Dite sul serio …? Un rifugio fuori da Bliaint?
Judith annuì.
- E come?? Insomma, i due fanciullini sono stati cresciuti da stregoni. Mi è stato persino detto che presentano dei segni sul corpo, marchi occulti che caratterizzano gli stregoni, tracciati con un tipo di inchiostro indelebile. Ovunque vadano, fuori da Bliaint, verrebbero etichettati e riconosciuti come seguaci del Diavolo, dunque condannati a morte.
- Padre Cliamon è riuscito a mettersi in contatto con un uomo, un mercante, una sua vecchia conoscenza.
Egli proviene dalle terre dell’Est. Ne avete sentito parlare? – domandò la ragazza.
- Vagamente. So che le terre dell’Est sono molto più libertine e meno puritane rispetto al Nord, e che in alcune zone servono addirittura degli déi differenti dal Creatore e dal Diavolo. Dèi pagani.
- Esatto.
- Volete farli andare ad Est?
- Le terre dell’Est sono le uniche in cui non verrebbero giudicati, maltrattati, né tanto meno condannati per il loro credo – rispose la ragazza, tornando poi con gli occhi sulle pagine del tomo che aveva abbandonato sulle ginocchia accavallate, facendo comprendere al giovane prete che preferisse troncare l’argomento.
Padre Craig fece vagare lo sguardo a sua volta su quelle pagine, trovandovi tracciato sopra un particolare progetto architettonico. – Che cos’è? – domandò curioso.
- Fa parte di un progetto che ho in mente. Sto raccogliendo informazioni.
- Vi riferite al progetto che state portando avanti con Blake?
Judith alzò gli occhi su di lui, sorridendo premurosa e divertita insieme. – Non sarete geloso del rapporto che si è creato tra me e lui, e per non essere stato coinvolto da nessuno dei due, padre? – gli domandò genuinamente provocatoria, scrutando il suo sguardo.
- Niente affatto – si affrettò a smentire padre Craig, lievemente imbarazzato. – Sono davvero felice che tra voi due scorra buon sangue, Judith, ve lo garantisco – disse sincero, spostando distrattamente lo sguardo verso la pila di libri aperti che aveva raggruppato la ragazza, colmi di pagine contrassegnate e sottolineate da lei stessa. Riuscì a scorgere solo due parole scritte su una di quelle pagine, messe in risalto molteplicemente: “polvere nera”.
- Come sta il vostro bambino? – le domandò cambiando nuovamente discorso.
- Bene. Suppongo stia crescendo.
- Signorina Judith! Signorina Judith!! – esclamò un monaco piombando improvvisamente nella biblioteca, facendo spaventare i quattro presenti.
- Che succede?? – gli domandò la ragazza scattando in piedi.
L’uomo aveva il volto sbiancato e un fiatone tanto forte da farlo respirare a malapena. – Gli stregoni … gli stregoni hanno attaccato la cattedrale dei servi del Diavolo!!
 
Heloisa si inginocchiò dinnanzi all’altare sul quale svettava il crocefisso al contrario, pregando il suo Signore.
Quella mattina la cattedrale dei servi del Diavolo era particolarmente piena di fedeli.
Le parole di quel monaco del credo opposto l’avevano scossa profondamente.
Sapeva quanto Blake potesse essere incosciente e impulsivo talvolta, ma egli era anche attento e intelligente.
Non si sarebbe mai aspettata che potesse compiere un gesto tanto sconsiderato, per di più, senza dire nulla alla sua famiglia.
Quali erano le sue intenzioni? Nascondere che quel bambino fosse suo, continuando a vivere come voleva, come se niente fosse? Ingravidare giovani donne per poi lasciarle abbandonate a se stesse?
Heloisa sospirò, chiedendo la forza necessaria al suo Signore, per crescere suo nipote.
A dir la verità, sotto sotto, era felice di poter crescere un nipote.
Sperava potesse essere una bambina, in modo da sopperire alla mancanza della figlia che non aveva mai avuto.
Era certa che avrebbe saputo come crescerla, sicuramente meglio di Blake e della ragazza dai capelli rossi che portava in grembo il sangue del suo sangue.
Se sua nipote fosse stata testarda e ostinata come suo padre, sarebbe stato un vero danno.
Improvvisamente, dei rumori attirarono l’attenzione di tutti i fedeli verso la porta d’ingresso.
Delle figure incappucciate fecero il loro ingresso nella cattedrale, a decine, pietrificando anche i monaci che si trovavano nei dintorni.
Quando i nuovi arrivati si tolsero i cappucci, rivelarono degli sguardi che fecero raggelare il sangue di Heloisa.
Colei che era a capo del gruppo, una ragazza dai lunghi capelli corvini e gli occhi smeraldo, affilò un sorriso colmo di infida rabbia, perfidia e, forse, anche di una punta di disperazione, agli occhi di Heloisa.  
Ella alzò un pugnale verso l’altare del crocefisso al contrario e si perforò il palmo della mano con un lungo taglio, urlando: - Nel nome del nostro Signore, uccideteli tutti!!!
Heloisa non ebbe neanche il tempo di realizzare, poiché, in pochi secondi, si ritrovò immersa in un bagno di sangue.
Quelli che si rivelarono essere gli stregoni eremiti, al segnale della loro guida, si scagliarono violentemente su ogni monaco presente nella sala, sterminandone a decine.
I pochi monaci che non erano presenti nella sala, vennero raggiunti tramite le scalinate e accoltellati a loro volta.
Quando gli stregoni furono certi che ogni singolo monaco del Diavolo giacesse a terra senza vita, immerso nel suo stesso sangue e con le cornee rivoltate indietro, presero in ostaggio i fedeli presenti nella cattedrale, puntando le armi contro di loro.
Chiunque osava ribellarsi ai loro ordini o urlare, veniva pugnalato senza pietà.
Heloisa tremò enormemente, mentre stringeva convulsamente tra le dita il suo ciondolo con il crocefisso al contrario, rannicchiata a terra tra le navate, schiacciata agli altri fedeli tremanti e in lacrime.
Improvvisamente, qualcun altro osò entrare nella cattedrale, attirando l’attenzione di ostaggi e stregoni.
La figura della futura madre di suo nipote si palesò agli occhi di Heloisa, facendole salire il cuore in gola. Un improvviso moto di preoccupazione e di protezione per il nascituro la invase, facendola alzare in piedi; ma, non appena una delle streghe la notò, le intimò ferocemente di restare a terra, puntandole il pugnale contro.
Heloisa la accontentò immediatamente, guardando la scena a distanza.
Judith alzò le braccia al cielo, avvicinandosi cautamente alla ragazza con i capelli corvini.
- Guarda chi si vede … - commentò Beitris sorridendo tagliente e compiaciuta, mentre la vedeva avvicinarsi a sé e non riuscire a fare a meno di osservare le strisce di sangue ancora fresco che macchiavano la sua pelle e i suoi vestiti. – Cos’è, volete sacrificarvi per il bene comune? Non vi hanno avvertita di cosa stesse avvenendo qui?? – le domandò puntandole il pugnale contro.
- Sono venuta solo per contrattare – disse Judith mantenendo un tono di voce fermo e stabile, mentre la punta della lama si poggiò al suo ventre stretto al corpetto.
- Eccovi qui. Fiera e meravigliosa nel vostro dilagante lusso di una vita da sottomessa, ma piena di agi, di lusinghe, e di finta realizzazione spacciata per libertà! – sbottò acida la strega. – Svenduta per un po’ di gioielli, la pancia piena e qualche libro. Il disgusto che provo per voi mi fa rabbrividire – continuò velenosa, premendo ancora la punta del pugnale sul ventre della ragazza, la quale rimase immobile, con gli occhi fissi sui suoi, senza esternare alcuna reazione. – Devo ammettere, tuttavia … che avete coraggio – concluse Beitris facendo segno a Yarin di catturarla.
A ciò, il giovane stregone sorrise e si avventò su Judith, afferrandola da dietro e avvicinandola a sé, puntandole la lama del suo pugnale sulla gola mentre la teneva stretta per il busto.
Adeguandosi a quella nuova e scomoda posizione senza fiatare, Judith si guardò intorno, osservando i volti di tutte le streghe e gli stregoni che riuscì ad individuare.
- State cercando qualcuno? – le domandò Beitris.
- Dov’è Ephram?
A ciò, la strega scoppiò in una fragorosa risata. – Mi spiace deludervi, ma purtroppo non è presente. Speravate fosse lui a capo della rivolta?! Speravate di vederlo per contrattare con lui, perché è l’unico membro della nostra compagnia con cui avete già avuto modo di parlare?!
- Non l’unico – precisò Judith, vedendo gli occhi della strega animarsi di fuoco vivo, mentre si riavvicinava a lei e le si poneva ad un centimetro dal suo volto.
- Ascoltami bene, schifosa puttana: non vi permetterò mai più di fare ciò che vi pare e piace con Maringlen e Maroine.
Sono qui per riprenderli con me e per farvela pagare per averci massacrato in tutti questi anni.
Ora, siamo pari davvero. Possiamo conversare da pari, ora che abbiamo conquistato la cattedrale del nostro Signore e l’abbiamo resa la nostra roccaforte, ripulendola da tutti i vermi che la popolavano.
E, sappiate, che se non farete tutto ciò che vi chiederemo, sgozzeremo senza troppe cerimonie anche tutti i monaci dell’altra cattedrale, voi compresa – le sussurrò a fior di labbra, per poi allontanarsi.
- D’accordo. Vi ascolteremo e collaboreremo con voi – acconsentì Judith, ancora stretta dalla presa artigliante del ragazzo dietro di lei. – Ma, in cambio, lasciate andare tutti i fedeli.
- Non siete nella posizione di avanzare richieste – rispose Beitris facendo segno ad alcune streghe di andare ad occupare anche l’altra cattedrale.
Osservando il gruppetto di donne armate uscire dalla cattedrale per dirigersi nell’altra, Judith si ribellò istintivamente allo stregone, il quale rinforzò la sua forte presa su di lei, ridendo divertito mentre faceva scorrere la lama del pugnale sotto il mento della ragazza. – Non così in fretta – le sussurrò tra i capelli, oramai semi sciolti.
- Liberate i fedeli – insistette Judith, non demordendo. – Il vostro obiettivo sono i monaci. I cittadini comuni non vi hanno fatto alcun male. Lasciateli andare.
- Non riesco più a sentirla blaterare – si lamentò Beitris accontentandola, facendo segno ai rimanenti membri della compagnia di lasciar andare i fedeli, i quali si fiondarono verso l’uscita della cattedrale in massa.
Dopo qualche secondo in cui uno spettrale silenzio calò nel luogo, una voce familiare alla ragazza e che le fece gelare il sangue, giunse alle sue orecchie, rimbombando per tutto l’immenso salone oramai semivuoto.
Gli stregoni e le streghe rimasti si voltarono verso l’entrata della cattedrale.
- Judith … - sibilò con gli occhi colmi di disperata preoccupazione il giovane servo del Creatore che aveva avuto l’ardire di entrare nel luogo del massacro.
- Naren … - sussurrò Judith, guardandolo implorante, comunicandogli tramite i suoi occhi espressivi di voltarsi e uscire immediatamente di lì.
Ma egli non lo fece e, al contrario, avanzò verso di lei cautamente. – Che succede qui…? Che cosa ti stanno facendo…? – sibilò Naren, incurante di tutto il resto, concentrato solo sulla mano che circondava dolorosamente il busto della donna che amava, e sulla lama premuta sulla sua gola morbida.
- Guarda, guarda … a quanto pare siamo venuti a conoscenza di una relazione proibita dalle sacre leggi di Bliaint, ahimè – commentò sprezzante e divertita Beitris.
- Naren, vattene subito – gli intimò Judith.
- Oh, e perché dovrebbe?? – intervenne nuovamente Beitris. - Che scortesia, Judith! Il ragazzo è appena entrato. Accogliamolo come si deve.
 
- Presto, andiamocene via di qui e in fretta! – esclamò padre Cliamon ripiombando in fretta e in furia nella biblioteca che aveva lasciato poco prima sotto richiesta di Judith.
Vi trovò ancora dentro padre Craig, avvicinatosi spontaneamente ai gemelli.
- Che è successo all’altra cattedrale …? – domandò il giovane prete impaurito e sconcertato. – Perché Judith se ne è andata via correndo non appena l’ha saputo?? – chiese ancora, come se padre Cliamon avesse la risposta a tutte le sue domande. – Hanno preso prigioniera anche lei??
- Non lo so! – esclamò Cliamon innervosito, afferrando strettamente la mano ad entrambi i ragazzini. - Judith è andata a contrattare, nonostante io abbia cercato di fermarla! Non ci rimane che pregare per lei ora, pregare che quei flagelli divini posseggano ancora un po’ di buon senso da ascoltarla! Ora dobbiamo pensare a metterci in salvo e a portare via i gemelli, prima che vengano anche qui!
Maroine e Maringlen stavano venendo maneggiati come marionette, mentre ascoltavano passivamente i due, spaesati e confusi dall’intera situazione.
Improvvisamente, una donna spaventosamente somigliante alla prima strega che Cliamon aveva condannato al rogo da ragazzo, la splendida dea dalla pelle scura e dagli occhi penetranti, si palesò davanti ai suoi occhi, con i vestiti quasi totalmente zuppi di sangue, facendolo sbiancare.
Myriam avanzò adagio e con tutta la calma del mondo, verso i due ragazzini ancora con le mani strette a Cliamon, sorridendo.
Quando fu dinnanzi a loro, li osservò e il suo sorriso mellifluo si allargò. – Buongiorno, faccini d’angelo. Siete felici di rivedermi?  
 
 

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Capitolo 17
*** Arley Arley ***


Arley Arley
 
NOVE ANNI PRIMA
 
- Dove stiamo andando, padre? – domandò il piccolo Blake mentre seguiva suo padre, scendendo le scalinate verso il seminterrato della loro abitazione, illuminate solamente dalla lampada ad olio che Rolland reggeva in mano.
- Lo vedrai presto, figliolo – lo rassicurò l’uomo con un sorriso, giungendo dinnanzi ad una porta chiusa a chiave, aprendola e facendosi da parte, per permettere a suo figlio di entrare per primo.
Quando Blake entrò dentro il luogo in cui suo padre si rinchiudeva la maggior parte del tempo che non passava insieme a lui e a sua madre, si guardò intorno incuriosito, dinnanzi alla stragrande presenza di oggetti e utensili, all’odore acre e penetrante e al buio reso lievemente meno intenso dalle lampade a olio che pendevano dal soffitto.
Suo padre usciva sempre da quel luogo con i capelli e il viso anneriti, facendogli costantemente domandare cosa lo sporcasse a quel modo. Quel giorno lo scoprì: carbone.
- Assomiglia alla bottega del fabbro ferraio – fu la prima cosa che il piccolo Blake disse a suo padre, poiché era quel che pensava.
Le risa di Rolland lo raggiunsero, mentre suo padre gli si avvicinava, gli poneva una mano sulla spalla e si guardava intorno con fierezza.
- Questo luogo è molto più attrezzato della bottega del fabbro ferraio, Even. Questo è il paradiso dei lavoratori e forgiatori di metalli. Ciò che un giorno diventerai anche tu, quando la galleria passerà nelle tue mani.
Quel giorno, suo padre gli insegnò a lavorare il metallo.
Rolland appariva ai suoi occhi come una sorta di dio dei metalli, mentre prendeva un pezzo di ferro, lo poneva nella fucina alimentata col carbone per arroventarlo e fonderlo, manteneva abilmente la fiamma accesa con il mantice, versava la colata nello stampo, e, una volta raffreddato, lo poneva sull’incudine con le tenaglie, per la fucinatura, per poi plasmarlo e smussarlo con accortezza, attenzione e potenza, tramite gli assordanti colpi di martello, dandogli, infine, la forma desiderata: in quel caso, uno splendido e resistente candelabro.
Rolland gli diceva sempre che serviva molta forza fisica e, al contempo, concentrazione e delicatezza, per forgiare i metalli.
I metalli permettevano di creare qualcosa di nuovo.
Qualcosa al quale solo l’uomo poteva dar forma.
Rolland gli aveva anche spiegato che ogni tipo di metallo ha bisogno di cure differenti, di essere maneggiato in maniera specifica, diversa dagli altri; per questo si doveva essere abili a dosarsi, a intuire e a comprendere con che tipo di materia si avesse a che fare.
L’immagine di suo padre, con i muscoli delle braccia e del petto tesi, mentre calava giù il martello stretto tra le mani con la stessa tempra con cui un angelo avrebbe fatto calare la sua ascia contro i suoi nemici, sottomettendo la materia al suo volere con forza, dedizione e vigore, illuminato dalle fiamme che scoppiettavano vicino ad esso, non sarebbe mai svanita dalla mente di Blake.
Con il tempo, Blake aveva imparato a destreggiarsi con invidiabile maestria nell’arte della forgiatura e della lavorazione dei metalli, autonomamente, usufruendo di quel seminterrato buio, sporco e rovente in assenza di suo padre, la maggior parte delle volte.
A dieci anni aveva già imparato a forgiare da solo pentole, utensili di ogni tipo e persino armi.
Il carbone gli restava impregnato addosso come una seconda pesante pelle ogni volta che usciva di lì, talvolta persino più di quanto facesse la terra e la polvere ogni volta che metteva piede fuori dalla galleria.
Con il tempo, il ragazzo ebbe modo di lavorare anche con metalli tossici e malleabili come il piombo.
Grazie alle sue lunghe ed impegnate letture, contravvenendo ad ogni regola imposta a Bliaint che voleva coloro che compivano lavori manuali completamente incolti e analfabeti, Blake era venuto a conoscenza delle oscure leggende sull’alchimia e sugli uomini che osavano praticarla. Allenò la sua mente allo stesso modo in cui allenò il corpo in quella pratica, la quale nascondeva molti più segreti e sfaccettature di quanto si sarebbe mai aspettato. In uno di questi libri aveva letto qualcosa riguardante la trasmutazione dei metalli, nonché la mutazione dell’essenza di un metallo in quella di un altro: gli alchimisti avevano iniziato a praticarla nel tentativo di trasformare il piombo in oro e, credendo a tale diceria, i nobili e i principi avevano provato ad imprigionare alcuni di loro, costringendoli ad arricchirli con l’inganno. Tuttavia, secondo quegli scritti, l’unico modo per praticare la trasmutazione era tramite l’ausilio di una certa pietra filosofale, una pietra capace di risanare la corruzione della materia. Da quel che sapeva Blake, nessuno aveva mai avuto la fortuna di trovarla, sempre che fosse davvero esistita. D’altronde, secondo le leggende, le altre due proprietà di quella pietra miracolosa, oltre a quella di trasformare i metalli “profani” in oro, sarebbero dovute essere il dono dell’onniscienza e niente meno che la vita eterna.
A Blake era sempre risultato parecchio difficile credere a quella leggenda.
Coloro che avevano tentato di praticare la trasmutazione senza la pietra filosofale avevano fallito miseramente.
Tuttavia, al ragazzo non interessava minimamente arricchirsi.
La sua curiosità senza fine richiedeva di essere dissetata strenuamente, e il suo interesse per la “creazione” non si sarebbe esaurito facilmente, anzi, avrebbe continuato ad autoalimentarsi, a prescindere da cosa avrebbe scoperto.
Oramai conosceva ogni singola proprietà dei metalli che aveva contribuito ad estrarre dalla galleria.
Tuttavia, quando suo padre aveva scoperto che le commissioni per la forgiatura di utensili e di altri oggetti non erano l’unica attività che si adoperava a praticare Blake dentro la sua attrezzata fucina, gli aveva vietato di entrarci senza il suo consenso.
Per evitare di agitare ancor più gli animi in famiglia, la quale già era abbastanza colpita dal grave malanno di Ioan, Blake aveva deciso di non violare quel divieto.
Ciò era avvenuto quasi un anno prima, al termine dei suoi quindici anni e alla soglia dei sedici.
Nel frattempo, aveva avuto modo di addentrarsi nel complesso mondo dei cristalli, anch’essi estratti dalla galleria, e su altri minerali che avevano attirato il suo interesse.
Poi, aveva trovato quel frammento dal magnetico colore grigio scuro-bluastro che lo aveva tanto inspiegabilmente attratto, e la curiosità e la voglia di sperimentare si erano riaccese in lui, tormentandolo, poiché restarono insoddisfatte.
Ed ora … ora si ritrovava in una casa bellissima e luminosa, grande il doppio della sua, e cosparsa di oggetti di grande valore, mentre, nel seminterrato, proprio come a casa sua, lo attendeva una fucina, la quale, tuttavia, non era attrezzata e imponente neanche un decimo di quella di suo padre.
Un’abitazione tanto incantevole e confortevole, alla quale sottostava una fucina che sembrava il fondo di una grotta abitata da cavernicoli, provvista solamente di quella che sarebbe stato un vero insulto chiamare una “piccola fornace” e di un minuscolo tavolo da lavoro. Almeno, il Giudice aveva avuto l’accortezza di procurargli il minimo indispensabile che Blake aveva chiesto di reperirgli: un martello, un mastice, delle tenaglie e del carbone a volontà.
Quell’uomo non badava a risparmi, quando si trattava del suo piacere personale.
Il ragazzo si chiese se qualcuno dei fedeli di Carbrey, per lo più contadini che vivevano in poco più che topaie come Selen, avesse mai messo piede nella casa del loro gran sacerdote che tanto adulavano.
Probabilmente sì, e giustificavano tanto lusso con l’importanza che la figura dell’uomo ricopriva per il loro Signore e Creatore, meritevole di ogni sorta di agio.
Era trascorsa una settimana da quando il Giudice lo aveva rinchiuso in quella reggia in miniatura, donandogli ogni genere di cura e di agiatezza, trattandolo quasi come un ospite: aveva un morbido letto tutto per sè, una latrina personale, abiti puliti, aveva il permesso di girare per tutta la casa quanto e quando voleva, degli abbondanti pasti con cui allietare lo stomaco, e la libertà di spostarsi dalla fucina all’abitazione con i ritmi e i tempi che desiderava.
Un “ospite”.
Un ospite rinchiuso, forzato a lavorare per lui, per renderlo spropositatamente ricco, e con un taglio alla gola che avrebbe impiegato forse secoli a guarire. Un taglio che lui gli aveva procurato, con la consapevolezza che, molto probabilmente, la cicatrice che sarebbe rimasta a marcargli la pelle per il resto della sua vita, sarebbe stata tanto grande ed evidente da rimembrargli costantemente ciò a cui egli lo aveva costretto.
Ad ogni modo, il Giudice non era indisposto per il fatto che, dopo una settimana, il suo schiavo personale non fosse ancora riuscito a trasformare tutto quel piombo in oro, causa l’iniziale assenza di materiali e la ferita al collo che sembrava non migliorare nonostante le costanti e giornaliere visite del medico.
Dal quinto giorno, la gola aveva iniziato a smettergli di sanguinare, la fasciatura era quasi pulita ad ogni cambio che il medico gli applicava insieme alle erbe guaritrici.
Il dolore oramai, non lo sentiva più, ed era convinto non lo avrebbe sentito neanche se quel vecchio dalla mano di seta gli avesse cosparso il taglio di mercurio incandescente, invece che di erbe.
La sua rabbia nei confronti di Selma e del salvataggio tattico per non scalfire il proprio orgoglio e per redimersi l’ultima strascicante ombra di coscienza rimastale, attuato per fargli scampare l’esecuzione, ancora non era scemata, e mai lo sarebbe stata.
Quella donna aveva mentito spudoratamente, sapendo che egli non fosse capace neanche la metà di quanto ella aveva spacciato al Giudice, ritraendolo come il più dotato e prestigioso degli alchimisti esistenti in occidente.
Ella sapeva che lui non sarebbe mai stato in grado di tramutare il piombo in oro. Probabilmente, neanche lei credeva fosse possibile, a meno che non riponesse una fiducia immotivata ed esagerata nelle potenzialità celate del ragazzo, ma quest’ultimo dubitava fortemente si trattasse della seconda ipotesi.
Selma aveva semplicemente agito d’impulso, essendo quello l’unico modo per persuadere l’avidità impersonificata dinnanzi a lei, facendo leva sul suo punto debole.
Ed ora, Blake si ritrovava disgraziatamente in quella situazione senza via d’uscita, per colpa di quella donna semi sconosciuta, la quale, sicuramente, in quel momento se ne stava stravaccata con uno sguardo compiaciuto, convinta di avergli fatto un favore.
La teoria più accreditata nella mente del ragazzo, era che ella fosse già sulla strada verso casa, di ritorno a Bliaint, felice di essersi tolta di dosso l’inconveniente del “cacciatore di polvere nera”.
Quanto profondamente la odiasse, non era realmente quantificabile.
Ad ogni modo, ora che non aveva più scuse per rimandare il suo “compito”, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa in fretta per scampare da quella gabbia dorata e riguadagnarsi la sua libertà.
Provare a scappare era fuori discussione, poiché le finestre erano state appositamente serrate dal Giudice, Blake aveva già tentato, e l’unica porta era sbarrata, accuratamente sigillata ogni volta che il padrone di casa o il medico, gli unici due che mettevano piede lì dentro, entravano o uscivano dalla casa.
Il ragazzo curiosò distrattamente in giro, camminando per lo spazioso salotto, illuminato dalla luce fioca che penetrava dalla finestra e dalle fiamme che scoppiettavano nel camino, provando quel tepore confortevole al quale oramai si era abituato, e che gli permetteva di restare vestito in abiti leggeri.
Inclinò la testa per osservare meglio uno dei tanti scrigni aperti che decoravano la mensola sopra il caminetto. Al suo interno svettavano diversi ciondoli di crocefissi, ma quello non fu il dettaglio che attirò l’occhio del ragazzo: su ogni scrigno, su ogni vaso, su ogni candelabro, su ogni anello, e addirittura su ogni bottone delle tuniche del Giudice, erano incastonati dei lucenti e particolarmente brillanti cristalli verdi, che Blake riconobbe subito. Si trattava di fluorite, uno dei cristalli più rari, belli e preziosi di tutta la vallata.
Improvvisamente, la porta della casa si aprì, rivelando la figura del Giudice che entrò, togliendosi il pesante mantello di pelliccia e posandolo sull’appendiabiti di legno di quercia. – Oggi avrò un ospite – lo avvertì immediatamente con la sua voce autoritaria, in grado di trasmettere tutto ciò che voleva trasmettere solo con quattro parole: l’uomo sapeva che Blake sapesse che non sarebbe servito a niente far notare la sua presenza come prigioniero in quella casa ad un qualsiasi cittadino di quel villaggio, poiché la sua situazione non sarebbe mutata. Per tale motivo aveva pronunciato quell’informazione con tanta tranquillità e senza alcuna urgenza nella voce.
Il Giudice era un uomo sicuro di sé e dei propri giudizi, Blake lo stava cominciando a comprendere sin troppo bene.
Come preannunciato, si udì il rumore delle nocche bussare alla porta; segnale che spinse Blake a nascondersi dietro alla parete più vicina, poggiando la schiena al muro, con le orecchie aguzzate verso l’entrata.
- Prego, entrate, figliola – disse il Giudice cordialmente, facendo entrare in casa l’ospite.
- Grazie, Giudice – rispose una voce che Blake riconobbe bene.
Cosa ci faceva Selen a casa del Giudice? Voleva chiedere pietà per Austen?
- So per quale motivo siete qui. Posso offrirvi un infuso caldo?
- Oh, no, grazie, Giudice, siete molto gentile – declinò gentilmente la donna, con evidente urgenza nella voce. - Non avete ancora trovato prove per dimostrare che Austen abbia ucciso Isa. Lo avete detto voi – cominciò ella, speranzosa. – Per quanto ancora dovrà restare imprigionato…?
- Fin quando non avremo le prove necessarie – rispose freddo l’uomo.
- Ma … ma, gran sacerdote, lui non ha …
- Non vorrei che la rimandata esecuzione del figlio del Diavolo di Bliaint che ospitavate in casa vostra vi abbia illusi che i miei metodi di giudizio siano diventati più flessibili – la interruppe il Giudice con fermezza. – Non voglio vi siano fraintendimenti, Selen. Farò giustiziare quel ragazzo ben presto. La flessibilità e la misericordia nei confronti di coloro che meritano di essere puniti dal nostro Signore tramite la morte non porterebbe a nulla di buono, anzi.
Vi fu un sospiro semi esasperato da parte di Selen. – Lo so, Giudice, lo so bene. Posso comprendere i motivi che vi abbiano spinto a condannare Blake. Tuttavia, il reato per il quale è accusato mio figlio non è …
- Basta così. Non voglio sentire altro. Non appena avrò trovato le prove necessarie ad incastrarlo, vostro figlio verrà impiccato. Fine della questione. Ora, vi prego di tornare a casa, Selen.
Vi fu una pausa e nessun altro suono, neanche quello delle suole delle scarpe della donna che lasciavano la casa. Blake poggiò anche la testa sulla parete dietro di sé, attendendo.
- Mio signore … – riudì la voce di Selen dopo qualche minuto. – Siete ferito? – chiese con una strana punta di sospetto nella voce.
- No, perché mai lo domandate?
- Vi sono delle bende pulite e delle erbe medicinali sparse sugli scaffali.
A quanto pareva, una delle pecore aveva notato un dettaglio che non avrebbe dovuto notare. Blake accennò un sorriso divertito nell’udire la palpabile difficoltà del Giudice dinnanzi a quel particolare.
- Sì, in realtà mi sono ferito qualche giorno fa alla gamba, mentre alimentavo il fuoco. Nulla di grave. Vi auguro buona giornata, Selen.
Terminata quella breve visita, Blake udì la voce del Giudice diretta a lui. – Ho portato un cesto di tuberi, pagnotte e zampe di gallina, per il pranzo.
Per qualche motivo a lui sconosciuto, il Giudice gli chiedeva sempre di unirsi a lui per il pranzo, quasi come se, ironicamente, apprezzasse una compagnia silenziosa mentre si riempiva la pancia.
Quando si sedettero a tavola, con i piatti caldi e fumanti dinnanzi al naso, il Giudice alzò il volto su di lui. - Avete bisogno che vi procuri qualcos’altro per adempiere al vostro compito? – gli domandò calmo.
A ciò, Blake vi pensò su. Niente avrebbe potuto servire allo scopo di trasformare del piombo in oro, ma, nella posizione in cui si trovava, avrebbe potuto sfruttare quella funzionale serviziovolezza a suo vantaggio.
Improvvisamente, gli tornarono in mente le suppliche di Selen di poco prima: a breve, un ragazzo innocente sarebbe stato impiccato pubblicamente. I fluidi corporei degli impiccati, condannati seppur innocenti, colati sul terreno, generavano una pianta in particolare.
L’immagine della mandragora che aveva sradicato da dentro la galleria gli piombò dinnanzi agli occhi con violenza.
Sì, era molto probabile che altri innocenti fossero stati condannati prima di Austen a Carbrey; di conseguenza, era probabile vi fossero delle mandragore che stavano crescendo furtivamente sotto quel terreno.
La mandragora che aveva trovato lui era già stata sradicata, usata e seppellita in precedenza.
Ora, invece, aveva l’occasione di ottenere un mandragora “viva”, immacolata e inutilizzata, dunque dagli effetti molto più prevedibili e diretti.
Molto probabilmente, un’occasione del genere non gli sarebbe mai più capitata.
Blake prese il blocchetto che gli aveva dato il Giudice e vi scrisse sopra qualcosa, per poi mostrarlo all’uomo:
- “Mandate qualcuno di vostra conoscenza, qualcuno di cui vi volete liberare in segreto, nel campo in cui vengono eseguite le condanne, assicurandovi non vi sia nessun altro nei dintorni. Fatelo scavare laddove la superficie del terreno appare instabile, fin quando non scorgerà delle foglie di mandragora sporgere da esso. Mi serve la mandragora per velocizzare il processo” – lesse il Giudice, rimanendo scosso.
No, la voce non era ancora tornata al ragazzo, nonostante fosse trascorsa una settimana.
Il medico diceva fosse normale, che servisse pazientare altri giorni per aspettare che anche la voce risorgesse da quella gola martoriata, perciò, da quel giorno, Blake comunicava con il suo carceriere tramite quel blocchetto.
- Che significa?? Nella mia terra crescono delle mandragore? Per “mandragora” vi riferite a quella mandragora …? La funesta pianta umanoide che uccide con il suo urlo?? Non posso sacrificare una vita innocente per accontentare voi!
A quella risposta, Blake accennò un sorriso pungente e provocatorio, riprendendo a scrivere, per poi mostrare nuovamente il foglio al Giudice.
- “Primariamente, avete condannato decine di innocenti da quando avete ottenuto la vostra carica, dunque condannarne un altro non vi cambierà la vita. Vi ho già detto che potete scegliere voi di chi liberarvi.
Secondariamente, non state accontentando me, ma voi stesso. Dimenticate di chi sono prigioniero in questo momento e a chi sono costretto a donare i miei servigi. Se non mi procurerete la mandragora impiegherò molto più tempo a terminare il mio compito, ve lo garantisco” – terminato di leggere, il Giudice lo guardò truce. – Immagino che, ora come ora, come unica scelta io possa solamente fidarmi delle vostre parole.
Blake sorrise in risposta, sapendo di aver fatto un piccolo passo avanti verso la vittoria.
 
DIECI ANNI PRIMA
 
- Apri gli occhi, chiudi gli occhi, oh mia piccola dolce Arley Arley … - era solita canticchiarle Livian mentre le pettinava i capelli rossi, mentre la piccola Judith era seduta su una sedia, davanti allo specchio, facendo penzolare le gambe avanti e indietro.
La voce di sua madre era ciò che di più soave avrebbe mai avuto modo di sentire.
- Oh, Arley, mia dolce Arley … - le sussurrava con dolcezza, continuando a pettinarla con dedizione, sorridendole con quel sorriso che riusciva ad illuminare l’intera stanzetta in cui vivevano, per quanto fosse piccola e polverosa.
Piccola e polverosa, ma piena di cose, piena di loro.
Ricordi sfocati continuarono ad affacciarsi alla sua mente.
- Arley, Arley, non guardare … - le sussurrava sua madre, mentre veniva sovrastata dalla soffocante presenza del vecchio uomo, l’unico e il solo con il quale la piccola l’aveva vista, mentre restava ad osservare la scena da lontano.
Aveva sempre saputo che sua madre, Bernadette Livian, fosse la persona più dolce, gentile, onesta e misericordiosa al mondo.
Per tale motivo ricordava distintamente di essersi chiesta più volte da chi avesse preso quel carattere distaccato, calcolatore ed estremamente razionale.
Si sentiva cattiva, se messa in confronto a sua madre.
Tutti sembravano perfidi, se confrontati con lei.
Oltre a quello, ricordava che da piccola si chiedesse spesso come mai quella stanzetta fosse sempre così piena di polvere, nonostante la spolverassero ogni giorno.
- Perché questa stanza è sempre piena di polvere? – chiedeva a volte a sua madre.
- Chi è il mio papà? – le domandava molto più spesso.
- Il mio papà è lo stesso che viene qui ogni giorno e sale sopra di te con brutalità, anche se tu non vorresti? - le chiese un giorno, sapendo benissimo chi fosse quell’uomo, vecchio e assetato di sua madre, dal quale, disgraziatamente, aveva ereditato gli stessi occhi neri, vuoti e penetranti. Tuttavia, la bambina non voleva mai chiederlo direttamente ad alta voce.
Una sola volta lo fece: - Il mio papà è anche il tuo papà, mamma?
Livian l’aveva guardata con il suo perenne sorriso, macchiato di un velo di dolore, che le deformava i bei lineamenti del volto troppo magro. – Vedrai, mia dolce Arley. Ben presto troverò un bravo ragazzo con il quale sposarmi, buono e premuroso, che saprà prendersi cura di noi, e ce ne andremo di qui. La nonna ci aiuterà a trovarlo – le aveva risposto stringendola a sé sotto le coperte sottili del materasso che condividevano, troppo leggere per far fronte al freddo del rigido inverno.
Sotto il cuscino, come unico tesoro ad ornare quel buco pregno di loro, sua madre conservava gelosamente un vecchio libro, appartenente alla sua bisnonna, oramai rovinato e consunto, nel quale la loro antenata annotava brevi incantesimi facili da compiere, e ingredienti per alcuni intrugli magici.
Quel libro, talvolta, veniva letto e sfogliato anche da sua nonna, la quale entrava nella loro stanza, presa da un’improvvisa nostalgia, di tanto in tanto, e leggeva quel libro.
La mamma di sua mamma era una donna ancora bellissima nonostante l’età, e Judith sapeva che doveva essere stato proprio da lei che aveva ereditato la sua voluminosa chioma cremisi.
Tuttavia, il nonno sembrava preferire sua figlia, piuttosto che sua moglie.
E ogni notte e ogni mattina, egli si recava in quella stanzetta piena di polvere per fare di lei ciò che desiderava, senza venire rifiutato. In cambio, il vecchio le lasciava sempre un sacchetto di monete d’argento sul comodino una volta finito, tramite il quale Livian riusciva a comprare tutti i cibi che piacevano tanto alla sua bambina.
L’unico svago che avevano, era la cucina. Ogni quanto potevano, le tre donne delle tre diverse generazioni, si riunivano nella cucinetta modesta della casa e cucinavano insieme, nonna, madre e figlioletta.
In quei giorni che Judith ricordava come meravigliosi, squarci di luci in un cielo plumbeo, sua mamma tornava a casa dopo aver trascorso tutta la mattinata al mercato e aver speso tutti i soldi che il vecchio le lasciava, con almeno tre sacchetti tra le mani, colmi di pietanze dal buonissimo profumo, e un sorriso che le arrivava da zigomo a zigomo.
La nonna non era arrabbiata che suo marito preferisse sua figlia a lei, nonostante Livian aveva paura che lo fosse.
Livian non sapeva leggere, né scrivere, dunque non poteva insegnarlo a sua figlia.
L’unico libro che fosse in grado di leggere, a fatica, era il libro di incantesimi della bisnonna.
Quel giorno, il giorno in cui la sua bellissima ed eroica mamma fu imprigionata, Judith lo aveva ben impresso nella sua mente.
Tuttavia, la bambina di sei anni che era allora non avrebbe potuto far nulla per impedire che gli eventi prendessero la piega che avevano preso.
Il suo vecchio nonno era, per l’ennesima volta, sopra il corpo di sua madre.
La schiacciava, sospirava contro di lei, sudava su di lei, e spingeva impetuoso, stringendole le cosce con le dita rese callose dal duro lavoro che Judith non scoprì mai quale fosse.
 Judith restava seduta sulla sedia, a distanza, come sempre, osservando quella scena oramai abitudinaria, in silenzio, poiché la sua mamma le chiedeva sempre di far silenzio quando il vecchio andavo loro a far visita.
Se Judith non avesse fatto la brava e non fosse rimasta zitta e buona, immobile come una statua, il nonno non avrebbe lasciato loro alcuna moneta per comprare gli ingredienti delle loro succulente ricette.
In quei momenti, la nonna non si vedeva mai.
Quel giorno, tuttavia, il vecchio era più violento del solito, lo capì dai gemiti di dolore maltrattenuti di sua madre, la quale stringeva con le dita sbiancate il lenzuolo umido e sporco sotto di lei.
Improvvisamente, Judith notò del sangue cominciare a macchiare le coperte, sotto il bacino di sua madre.
Prima che potesse rendersene conto, a differenza delle altre volte, la nonna spalancò la porta ed entrò dentro la stanza, saltando come una faina sopra il letto, avventandosi sul corpo di suo marito, alle spalle, mentre pronunciava una formula in una lingua che Judith non riconobbe.
Capì immediatamente si trattasse di una formula contenuta nel libro della bisnonna.
Le uniche parole nella lingua comune contenute in quel maleficio che la donna stava lanciando con ferocia contro suo marito, erano “impotenza” e “sterilità”.
Dopo di che, vedendo che, nonostante tutto, l’uomo non aveva alcuna intenzione di staccarsi dal corpo nudo di sua figlia, sconvolta e dolorante, Judith vide sua nonna afferrare un cuscino e premerlo brutalmente sulla faccia del nonno, spingendolo a sdraiarsi indietro, sovrastandolo.
Il vecchio si ribellò per un po’, poi cedette per mancanza d’aria, morendo.
Quando la nonna si accorse di ciò che aveva appena fatto, abbracciò sua figlia stretta a sé, rassicurandola, sussurrandole che, d’ora in avanti, egli non le avrebbe mai più fatto del male.
- Dobbiamo seppellirlo … - cominciò a ripetere Livian mentre ricambiava l’abbraccio e tremava ancora. - Dobbiamo seppellirlo prima che lo trovino …
- Ci penso io – la rassicurò la nonna.
- No. Non hai invocato il nostro Signore, mamma … - esalò Livian terrorizzata, staccandosi da sua madre, rivolgendole uno sguardo raggelato. – Nella foga del momento, hai dimenticato di invocare il nostro Signore per compiere il tuo maleficio … e se qualcuno ti avesse udita??
- Livian … non potevo pensare di ringraziare il Signore in un momento simile …
- Esercitare la magia nera autonomamente e senza l’aiuto del nostro Signore è peccato punibile con il rogo!
- Che cosa facciamo ora?
- Il Signore ci punirà se non confessiamo ciò che abbiamo fatto …
- Ciò che io ho fatto … - la corresse la nonna, in lacrime.
- Mi prenderò la colpa. Mi hai salvata, madre, meriti di vivere più di quanto lo meriti io …
Dirò di esser stata io a non aver invocato il nostro Signore per usufruire della magia nera …
- Ma morirai al rogo in questo modo! Livian, non ti permetterò di farlo!
- Va’ via, madre! Fuggi da Bliaint!

- E Judith?
- Arley Judith resterà qui, i monaci sapranno prendersi cura di lei. Là fuori è troppo pericoloso per una bambina … lei resterà qui … con me … anche quando me ne andrò … la mia Arley - sussurrò la sua mamma, voltando lo sguardo frastornato e stralunato verso di lei, sorridendole stravolta e felice insieme.
Fu l’ultima volta che le sorrise.
Quei ricordi, tuttavia, riapparivano solo di tanto in tanto, come se la sua mente volesse seppellirli e relegarli da qualche parte. Il solo pensiero che il proprio concepimento fosse stato frutto di violenza incestuosa, le aveva provocato tremendi incubi per anni, costringendola ad autoconvincersi di non ricordare più nulla.
Ed ora, ora che una delle streghe ribelli la stava trascinando per i capelli e la stava gettando a terra con irruenza, mentre l’altra stava facendo lo stesso con Naren, quei ricordi ricomparvero improvvisi e inaspettati.
- Avete visto, monaci del Creatore?!? – aveva esclamato Beitris raggiungendo anch’essa la cattedrale del Creatore, l’unica inviolata, ancora per poco, mentre Judith e Naren venivano trascinati dentro a loro volta.
Tutti i monaci del Creatore presenti nel salone principale impietrirono spauriti, all’udire la voce rauca e delirante della ragazza. – La vostra pupilla servitrice del Diavolo intrattiene una relazione proibita con un servo del Creatore! Un peccato punibile con il rogo immediato!! – esclamò Beitris, volgendo uno sguardo disgustato a Judith, costretta a rimanere inginocchiata sul pavimento freddo. – Ma voi non vi siete accorti di nulla, giusto…? Voi avete voltato lo sguardo altrove mentre questi due consumavano il loro desiderio proibito, preferendo legare e bruciare su quel soppalco dei ragazzi innocenti!!
- Non potete dimostrarlo! – esclamò Judith, ricevendo un poderoso schiaffo in faccia da Beitris in risposta.
- Ferma! – irruppe la voce ferma di Myriam, la quale scese la scalinate in quell’esatto istante, con le mani strette a quelle dei gemelli.
A quella vista, gli occhi di Beitris si animarono, cominciando a brillare, mentre ella si fiondava su di loro, abbracciandoli e stringendoli a sé.
- Togliete loro le mani di dosso! – gridò la voce di padre Cliamon, raggiungendoli a sua volta, venendo immediatamente bloccato dal pugnale di Beitris che si puntò pericolosamente sulla sua gola.
Intanto, come un felino intento a fiutare qualcosa, Myriam si era avvicinata a Judith con fare sospettoso, interessato e criptico, prendendo a girarle intorno.
La donna si abbassò immediatamente su di lei e le premette una mano sul ventre con forza, facendola gemere di dolore.
- Per così tanti anni ho tentato … in ogni modo, sacrificando ogni cosa … ho tentato invano.
Voi, invece, lo avete avuto senza volerlo. Lo leggo nei vostri occhi che non lo volete.
Non è vero?
Quelle parole fecero immobilizzare tutti, Beitris e Naren compresi.
- Aspetta un bambino? Ella aspetta un bambino da questo servo del Creatore …? – le domandò conferma Beitris trattenendo il suo riso divertito e isterico.
- Non so di chi sia – esalò Myriam granitica, continuando a mantenere il contatto visivo con Judith e a premere la mano sul suo ventre fertile. – Ma se fosse di quel ragazzo … sarebbe il primo bambino nato da una coppia mista a Bliaint, dopo secoli dalla divisione di Allister Chaim.
I monaci sbiancarono a loro volta.
- Ve lo ripeto di nuovo: non avete prove che io e costui ci siamo uniti sessualmente – rispose imperterrita Judith, esprimendo ferma convinzione nella voce. – Dunque non avete prove che il bambino sia suo. Poiché non è suo.
Naren perse l’uso della parola, troppo sconvolto dalla notizia della gravidanza della sua amata per riuscire a pensare ad altro.
- E di chi è, dunque? Voglio un nome – le intimò Beitris riavvicinandosi a lei, puntandole la lama del pugnale sul petto.
- L’unica cosa che so è che è stato concepito con un uomo del mio stesse credo – rispose prontamente Judith.
- Se ne siete così certa, allora diteci il suo nome.
- Non lo so.
- Non lo sapete??
- Ero incosciente. Nessun servo del Creatore era presente quando il concepimento è avvenuto. Posso garantirvelo.
- Vi riferite alle celebrazioni di settimane fa, in cui tutti abbiamo perso coscienza? È avvenuto lì? – domandò nuovamente Beitris.
Judith annuì.
- Ha ragione – confermò seccata la strega dai capelli corvini, dopo qualche minuto di pausa. – Ero presente anche io e non vi era alcun servo del Creatore alla celebrazione.
Internamente, sia Judith che Naren tirarono un lungo sospiro di sollievo, non azzardandosi a guardarsi neanche per un secondo.
- Non credete di averci illuso che non abbiate commesso il peccato peggiore contro le leggi di Bliaint – esalò Myriam, spostando le iridi magnetiche dall’uno all’altra. – Sappiamo cosa avete fatto. E ringraziate che ora entrambe le cattedrali siano sotto la nostra giurisdizione e non sotto quella dei monaci a cui lucidate scettri e mantelli. – Detto ciò, gli occhi di Myriam virarono inconsciamente su padre Cliamon, il quale sembrava non aver mai scostato davvero gli occhi dalla sua figura.
- Ci conosciamo, vecchio monaco? – gli domandò con calma la donna, avvicinandoglisi, scrutandolo.
L’uomo distolse lo sguardo e lo riportò sui gemelli, mentre Myriam seguiva ancora con minuziosità i suoi movimenti. – Sembrate molto legato ai nostri due topolini – osservò, per poi portare gli occhi su Maroine e Maringlen a sua volta.
- Ditemi, faccine d’angelo: cosa volete che ne faccia di loro? – domandò la strega, puntando la lama sul petto di Judith, mentre li guardava in attesa.
- A lei e a padre Cliamon no, non fate loro del male – la fermò Maroine, per poi voltare lo sguardo su tutti gli altri monaci. – Di loro, invece, potete fare quello che volete.
A ciò, Maringlen si avvicinò ad uno dei tanti monaci inginocchiati a terra, piegati dal terrore, accovacciandosi per essere allo loro altezza e sorridendo sprezzante. – “Guarda, guarda, delle bestioline serve del Creatore, piegate a terra a piangere chiedendo pietà. Nessuna grande novità, a quanto vedo. Fosse per me, li lascerei morire di fame. Il rogo li consumerebbe troppo presto, mentre la fame … li farebbe impazzire.”
Altri ricordi colpirono la memoria di Judith, mentre osservava il tutto a distanza, come rinchiusa in una campana di ferro.
- Perché questa stanza è sempre impolverata, mamma?
- Perché è piena di cose, Arley, piena di noi.
 
L’odore intenso e soffocante di piombo fuso aveva oramai impregnato il minuscolo seminterrato.
Il ragazzo continuò a spingere su e giù energicamente e con la sola forza delle braccia il mantice dalla forma a filarmonica, il quale alimentava il focolare della fornace con il suo flusso d’aria continuo, contribuendo a velocizzare la fusione del piombo.
Il fumo nero provocato dal carbone tra le fiamme gli si era attaccato ai vestiti e alla pelle come sempre, annerendogli il viso, i capelli e le braccia lasciate scoperte dalle maniche leggere tirate su.
Ricordava distintamente nella mente quali cure necessitava un metallo come il piombo.
Quel colore grigio scuro e bluastro che somigliava tanto al frammento di minerale che non riusciva mai a smettere di guardare.
Si sforzò di scavare, ancora e ancora, nella sua memoria, per ricavare qualcosa di minimamente utile da sapere sul piombo, per la trasmutazione: opaco allo stato solido, lucido quando è prossimo alla fusione, tossico, impregnante, resistente alla corrosione, tenero, denso, duttile.
Nulla di realmente utile.
E l’oro? Blake aveva avuto modo di lavorare solo una o due volte l’oro, poiché le commissioni che ricevevano a Bliaint richiedevano prevalentemente l’uso e la lavorazione dell’argento, piuttosto che dell’oro.
Ricordava solo una volta, quando aveva dovuto trasformare delle pepite d’oro in una statuetta raffigurante un crocefisso.  
Giallo intenso e luminoso allo stato naturale, di colori vari se lavorato, quasi totalmente immune all’ossidazione, il metallo più duttile e malleabile in assoluto, facilmente amalgamabile con altri metalli, specialmente col mercurio.
Il più bello, puro e desiderabile, agli occhi dei più.
Di nuovo, nulla di utile.
Continuò a provocare potenti flussi di aria con il mantice, spingendo su e giù, con rabbia.
Stanco di scervellarsi, si tirò su e, notando che il carbone fosse già quasi totalmente consumato dalle fiamme, ne inserì altro, vedendo le lingue di fuoco alzarsi come bocche ingorde nella fucina, man mano che aggiungeva quelle pesanti rocce nere la cui essenza gli stava penetrando anche nell’anima.
- Qui dentro non si respira … - udì quella voce sgradita da dietro le spalle, lievemente distorta dal rumore delle fiamme, del carbone e del piombo arroventato.
Il padrone di casa era sceso a sporcarsi le mani e gli abiti di seta e velluto?
Non si voltò neanche per vederlo avvicinarsi a sé, mentre lo ascoltava tossire.
- Come fate a rimanere qua dentro? – gli chiese sinceramente perplesso il Giudice, nonostante sapesse che egli non potesse rispondergli a voce.
- Immagino per abitudine – si rispose da solo, mentre Blake continuava a smuovere il carbone con le pesanti tenaglie.
- Come mai macchia così tanto? – gli domandò, osservando la pelle e i capelli del ragazzo anneriti dal carbone, interessato quanto lo sarebbe stato un bambino curioso e capriccioso.
Evidentemente voleva davvero conoscere la risposta alla sua domanda, pensò il ragazzo, dato che gli venne porto dal Giudice il blocchetto, accompagnato dal carboncino.
A ciò, Blake smise di smuovere i frammenti di carbone, si voltò a sua volta verso di lui, afferrò il blocchetto e scrisse controvoglia, annerendo anche il foglio, di conseguenza.
- “Per il catrame e la pece che produce” – lesse il Giudice, vedendo Blake scrivere qualcos’altro col carboncino.
- “Cosa siete venuto a dirmi?” – lesse. - Nulla in particolare – gli rispose.
Blake scrisse di nuovo. - “Per quale motivo siete sceso, allora?” – il Giudice accennò un sorriso. - Per controllare a che punto foste e per riferirvi che sono riuscito a sradicare e a portarvi una mandragora, come mi avevate chiesto. Avevate ragione, vi sono delle mandragore nella mia terra. L’ho appoggiata sul vostro letto, di sopra. Ora che avete anche quella, mi auguro che il procedimento che vi porterà a compiere la trasmutazione sarà molto velocizzato. Confermate?
Quel tono, quella pretesa, quella voce saccente e piena di sé.
Contro ogni suo proposito, Blake si sentì ribollire le vene sotto pelle e strinse istintivamente le tenaglie tra le dita della mano.
Avrebbe potuto infilzargliele nel collo o nel petto senza fatica, se solo avesse voluto, ed essere libero.
D’altronde, chi gli garantiva davvero che egli avrebbe mantenuto la parola di lasciarlo libero, nel remoto caso in cui fosse riuscito nel miracolo di dargli ciò che gli aveva chiesto e che tanto bramava?
I fumi velenosi che stavano invadendo la stanzetta gli stavano dando alla testa.
- Cos’è, volete usare quelle per uccidermi? – domandò il Giudice, sorridendo con tronfia convinzione mentre osservava le dita del ragazzo stringersi intorno al manico delle tenaglie. – Fate pure – lo incoraggiò impudente. – Avete avuto altre innumerevoli occasioni di farlo durante la settimana trascorsa qui, ma non lo avete mai fatto. D’altronde, siete più alto e prestante di me, ci sareste riuscito con facilità. Allora perché non lo avete fatto prima, Blake? Per non avere una vita sulla coscienza?
Una vita in più o una vita in meno non cambierebbe nulla ora.
Ho condannato uno sconosciuto ad una morte insensata solo per il desiderio di possedere una mandragora.
Non ho mai avuto davvero modo di farmi scrupoli di coscienza.
Tuttavia, la morte di un personaggio tanto amato, famoso e stimato come voi nel vostro villaggio attirerebbe troppo l’attenzione, e anche se avessi il tempo di scappare, gli abitanti di Carbrey mi inseguirebbero fino in capo al mondo per vendicarvi.
- Oh, no, non è per questo – continuò il Giudice avvicinandoglisi maggiormente. – Voi restate qui perché volete scoprire fin dove riuscite a spingervi … usate la mia brama di arricchirmi per aumentare la vostra sete di scoperta, di conoscenza, e anche il vostro ego.
Ve lo leggo negli occhi, Blake. Fin dal primo momento che vi ho visto, l’ho saputo.
Siete qui per creare, e volete scoprire quanto siete in grado di creare.
La vostra sete è persino più conturbante della mia.
Il ragazzo rimase immobile a quelle parole, con le iridi fulgide e sferzanti fisse in quelle dell’uomo dinnanzi a sé e lo sguardo illeggibile.  
Dopo qualche minuto in cui nessuno dei due si mosse o emise il minimo suono, il Giudice si allontanò e risalì le scale, lasciando il seminterrato.
 
 

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Capitolo 18
*** Trasmutazione ***


Trasmutazione
 
Ioan fece cozzare il bastone con quello tenuto stretto dall’altro bambino di fronte a lui, continuando a combattere giocosamente con il suo amico, mentre attendeva che suo padre uscisse dall’entrata della galleria.
I fiocchi di neve continuavano a scendere dal cielo, ma su quel terreno morbido, incolto e vastissimo il tappeto bianco non attecchiva.
Ioan ansimò sfinito, ridendo, mentre l’altro, stanco anch’egli, lo atterrò con un’ultima sferzata, facendolo cadere con la schiena indietro.
La collana che indossava sempre, con il ciondolo lucido e ovale, gli si sfilò dal collo per la caduta, piombando sul terreno a qualche centimetro da lui.
Improvvisamente, una tremenda debolezza, persino peggiore di quella che aveva provato per la sua intera vita a causa del suo malanno, lo invase da capo a piedi, appannandogli la vista.
- Che cos’è quel ciondolo che indossi sempre? – chiese l’altro ragazzino, accovacciandosi e prendendo in mano la collana, osservando il ciondolo, rapito dal suo colore.
- È un regalo di mio fratello … - sussurrò Ioan affaticato, allungando la mano verso il ciondolo, divorato dal bisogno fisico di rindossarlo. – Ridammelo …
Il ragazzino, dopo averlo osservato attentamente per un altro po’, incurante delle condizioni di Ioan, si decise a restituirglielo. – È molto bello. Ne vorrei uno anche io. Ma mio fratello non è capace di fare queste cose. Una pietra così bella costerà una fortuna. Tu e tuo fratello siete fortunati ad essere i figli del proprietario della galleria – commentò il bambino, aiutando l’amico a rialzarsi, dopo che quest’ultimo si rinfilò la collana, ritrovando improvvisamente e miracolosamente la vitalità, come se quel ciondolo, in qualche modo, contenesse tutta la sua energia vitale immagazzinata al suo interno.
Ioan ne saggiò la superficie liscia con il polpastrello del pollice guantato, cominciando a chiedersi quale cristallo avesse usato Blake per comporre e scolpire quel ciondolo.
- Preferirei riavere Blake qui in carne ed ossa, piuttosto che la collana che mi ha lasciato – espresse quel pensiero ad alta voce, beandosi della dolcezza dei fiocchi di neve che gli carezzavano il volto etereo e i capelli sottili, le uniche parti del suo corpo lasciate scoperte.
- Vedrai che ritornerà – lo rassicurò l’altro ragazzino, passandosi il bastone tra le mani, fingendosi un esperto spadaccino. – D’altronde, quest’anno è l’anno del suo battesimo, giusto? Deve per forza tornare – aggiunse con convinzione. – Sempre se riusciremo a liberare le cattedrali dalla presa degli stregoni, prima che … - la frase del ragazzino restò in sospeso.
Gli occhi chiari di Ioan si spostarono da lui all’entrata della galleria, dalla quale sbucò la figura di suo padre, seguita da quella di altri scavatori, impregnati di terra e polvere dalla testa ai piedi, ognuno con un lanternino tra le mani.
Rolland si scostò il panno di stoffa che gli copriva la bocca e accennò un sorriso sfinito a suo figlio, avvicinandoglisi. – Ehi, sei ancora qui. Mi hai aspettato. Bravo il mio giovanotto – gli disse scompigliandogli i capelli.
- Padre!
- Signor Rolland! – lo salutò anche l’altro ragazzino.
- Ciao anche a te, Garret – ricambiò l’uomo.
- Ora torno da mia madre. Devo portarle i tessuti che mi ha chiesto per rifinire le ultime cuciture degli abiti che sta preparando! A presto! – li salutò egli, correndo via.
- Come sono andati gli scavi oggi? – domandò Ioan a suo padre, rimasti soli.
- Non bene. Nulla di nuovo: nessuna traccia di cristalli, né di rame o di argento, neanche lontanamente – rispose angustiato. – Vuoi entrare a dare un’occhiata all’interno? – propose poi a suo figlio, indicandogli l’entrata nera, buia e profonda della galleria.
Ioan sgranò gli occhioni chiari, non riuscendo a fare a meno di provare del timore per quel luogo oscuro, umido e soffocante, come immaginava fosse. Voltò lo sguardo mortificato su quello speranzoso di suo padre.
- Preferisco di no – rispose.
A ciò, Rolland si rabbuiò lievemente, cercando di non darlo troppo a vedere. – Non fa niente. Ci entrerai quando te la sentirai.
- Mi dispiace … mi dispiace di non essere coraggioso come Blake – disse Ioan abbassando lo sguardo.
- Non serve essere coraggiosi per scendere lì sotto, Christopher.
- Io credo di sì, invece.
- Non scusarti di non essere come tuo fratello.
Blake è bravo in tutto ciò che fa, questo glielo concedo, egli sa di certo come farsi amare, ma sa bene anche come farsi odiare, forse più di qualsiasi altro.
E non ha paura di farsi odiare. Anzi, ne ricava soddisfazione, credo – rifletté ad alta voce Rolland, mentre Ioan lo guardava. – Tu sei molto più obbediente e disciplinato di tuo fratello. Devi essere fiero di questo – aggiunse l’uomo.
Ioan cercò di leggere il suo sguardo, di comprendere cosa provasse davvero.
Se Blake gli mancasse più di quanto volesse far credere e trasparire.
Suo padre e suo fratello avevano sempre avuto uno strano rapporto.
Se con Heloisa litigava continuamente; con suo padre, invece, Blake non litigava quasi mai.
Eppure, Ioan li aveva sempre visti distanti, troppo distanti tra loro.
Era come se, ogni volta che Rolland tentasse di avvicinarlo a sé o di avvicinarsi a lui, ogni volta che lo rincorreva, poi si rendesse conto troppo tardi che  Blake non fosse più lì.
Che non fosse più possibile raggiungerlo.
- Tuttavia, è inevitabile che, in tutti questi anni di infermità, tu ti sia appoggiato totalmente a lui. D’altronde, lui è pur sempre quello che ti è stato vicino, in tutto e per tutto, dall’inizio alla fine – riprese improvvisamente Rolland, facendo trasalire Ioan. – Blake si è caricato, da solo, sulle proprie spalle il tuo malanno, e ciò sembra non essergli mai pesato. Credo che questo abbia avuto delle conseguenze irreparabili su di te, figliolo.
- Che cosa intendi, padre?
- Tu dipendi da lui. Anche ora. Ora che stai bene, dipendi da lui, poiché sei sempre dipeso da lui in tutto e per tutto – disse secco Rolland. – È ora che tu capisca come reggerti sulle tue gambe, Ioan. È ora che tu capisca chi sei e cosa vuoi, senza Blake.
 
Quando Ioan e Rolland fecero ritorno a casa, si ritrovarono una scena inaspettata dinnanzi agli occhi: Heloisa e padre Craig stavano discutendo.
- Abbiamo le mani totalmente legate! Da quando le due cattedrali sono state invase da quelle piaghe umane, è scoppiata la catastrofe! – si lamentò Heloisa, sedendosi nervosamente sulla sedia della cucina, muovendo convulsamente una gamba, non trovando pace.
- Heloisa, non capite?! Dobbiamo far udire le nostre voci, forti e chiare! Nella cattedrale dei servi del Creatore ci sono ancora degli ostaggi! I monaci del Creatore, Judith e un fedele servo del Creatore sono prigionieri degli stregoni, e Dio solo sa cosa stanno passando e cosa quegli squilibrati spietati decideranno di fare loro! - ribatté padre Craig avvicinandosele.
- Che succede qui? – attirò la loro attenzione su di sé Rolland, vedendoli voltarsi all’unisono verso di lui.
- Caro … sei tornato. Tra un’ora lo stufato sarà pronto.
- Rolland, bentornato. Io e vostra moglie stavamo parlando della situazione difficile e delicata in cui si trova il villaggio ora come ora …
- Voi siete rimasto l’unico messaggero del Signore in libertà – commentò Rolland interrompendolo. – Siete l’unico ad esser riuscito ad uscire dalla cattedrale del Creatore prima che gli stregoni occupassero anche quella, per miracolo.
Siete rimasto l’unica ancora di salvezza.
I fedeli vi ascolteranno e vi seguiranno. Per lo meno, i fedeli servi del Creatore, lo faranno sicuramente - disse Rolland con convinzione.
- In realtà, quando sono uscito dalla cattedrale … una delle streghe era già giunta sul luogo… tuttavia, per qualche motivo, ella mi ha lasciato uscire. Ha preso sotto la sua custodia padre Cliamon e i gemelli, ma non si è interessata a me. Al momento in cui l’abbiamo vista arrivare, eravamo tutti e quattro nella biblioteca - rifletté padre Craig.
- Che ci facevate nella biblioteca chiusa al pubblico? – domandò Ioan ingenuamente curioso.
- Non mi sembra il momento di pensare a queste piccolezze, Ioan – commentò Heloisa, sempre più agitata, per poi rivolgersi a padre Craig. – Chi era ella? Sapete descrivermela? Forse, potrei averla vista … forse ella non è nemmeno una strega e ha intenzioni diverse da quelle degli stregoni eremiti … - ipotizzò la donna.
 - Aveva la pelle scura come l’ebano. Un volto dai bei tratti raffinati e androgini, un corpo sottile e una foresta di capelli neri.
Quella descrizione fece pietrificare Heloisa sulla sedia, reazione che Rolland notò immediatamente e che comprese.
- No … no, non può essere … - sibilò la donna, con una voce che quasi spaventò padre Craig per quanto cupa, strascicata e dura.
- Alma, cara … sicuramente sarà una donna che le somiglia … - cercò di rassicurarla come poté Rolland, avvicinandosi a lei e posandole le mani sulle spalle irrigidite.
Padre Craig, sempre più confuso, osservò la scena come a distanza.
- No … la descrizione è stata molto chiara … non l’hai sentito, Rolland…? Solo lei … solo lei possiede queste caratteristiche … è lei … è lei … me lo sento … è tra le streghe eremite … deve essere sicuramente lei … il Signore … il mio Signore ha voluto punirmi … ha voluto punirmi in questo modo … - iniziò a delirare la donna, con gli occhi azzurri fissi nel vuoto e lucidi.
- Heloisa … non è possibile. L’hai vista morire …
- È lei, Rolland!!! – urlò ella scattando in piedi e schiaffeggiando la mano di suo marito, completamente fuori di sé. – È lei! È lei!! È lei!! Il Signore mi sta punendo …! Il Signore vuole punirmi!! – urlò lasciandosi cadere in ginocchio a terra, scoppiando in lacrime, lacrime d’ira, lacrime di odio e frustrazione.
Padre Craig riuscì a comprenderlo, nonostante non sapesse.
- Padre … - lo riscosse improvvisamente Rolland, sfiorandogli il braccio. – Se vorrete guidarci, se vorrete guidare il popolo a unirsi alla rivolta, per vincere su quegli assassini e riprenderci il controllo delle cattedrali, per restituire la libertà ai monaci del Creatore … io sono con voi.
Quelle parole, furono in grado di riscaldargli il cuore.
- Anche io – si unì a lui Ioan, sorridendogli con tutto il suo calore e la sua dolcezza.
Sorprendentemente, per la prima volta, vide in lui una strana luce, una determinazione di fuoco, come quella di suo fratello.
Fu tutto ciò di cui aveva bisogno.
- Devo vederla – affermò ansimante Heloisa. – Quando ci saremo ripresi le nostre cattedrali e avremo vendicato i monaci assassinati brutalmente da quelle bestie … io devo vederla.
Devo vederla con i miei occhi, la donna che mi ha rovinato la vita.
 
Judith continuò a lavare i piatti e le stoviglie d’argento, il compito che le streghe avevano affidato a lei e a Naren.
Fino a quando non sarebbero crollate loro le mani, avrebbero continuato a lavare tutto ciò che vi era da lavare nelle cucine, un compito solitamente affidato ai cuochi.
Si considerava indicibilmente fortunata, dato che i monaci erano stati rinchiusi tutti nelle prigioni sotterranee, e che lei era stata graziata solamente grazie alla parola di Maringlen e di Maroine.
Naren, invece, essendo solamente un fedele che si trovava lì nel momento sbagliato, non meritava di finire nelle segrete con i monaci, per il momento, perciò gli avevano permesso di rimanere con lei; mentre, di padre Cliamon, non aveva notizie.
Improvvisamente, nell’assoluto silenzio, una fitta al ventre fece bloccare Judith, forzandola a portare una mano bagnata sopra al tessuto del corpetto.
Accorgendosi di ciò, Naren si voltò a guardarla allarmato, poggiandole una mano sulla spalla. – Ehi … Arley?
- Non chiamarmi così qui dentro … - lo ragguardò lei, rivelandogli il suo sguardo velato di angoscia e timore.
- Ehi … - cercò di rassicurarla come poté, avvicinandosele.
- Avresti potuto rimanere ucciso nella mischia anche tu … perché sei venuto qui?
- Preferirei mille volte rimanere qui, con te, sapendoti momentaneamente al sicuro, piuttosto che là fuori, divorato dalla preoccupazione e impotente.
- Siamo impotenti comunque, anche qui dentro.
- Mi sei mancata. Non immagini nemmeno quanto …
- Van … - sussurrò lei, osservando la mano del ragazzo posarsi delicata sulla propria guancia, per poi scostare il viso dal suo tocco, forzando se stessa. – Mi dispiace che tu lo abbia saputo in questo modo. Del bambino - riprese poi, con voce più distante.
A ciò, il ragazzo si prese altro tempo per osservarla e ammirarla, cercando di allontanare dalla mente i peggiori scenari che la annebbiavano. – Judith, io …
- Ora sospettano di noi. Anche se dovessimo riuscire a vincere contro di loro in qualche modo e a riprenderci il controllo delle cattedrali, i monaci sospettano di noi, Naren – disse preoccupata.
- Li convinceremo che gli stregoni hanno visto cose che non esistono, ipotizzando tutto ciò per pura perfidia, e che non vi è mai stato nulla tra noi – le garantì Naren stringendole le mani tra le sue.
- Vorrei fosse davvero così semplice.
- Lo sarà. Ci penserò io. Penserò io a te e al bambino.
- No! – esclamò ella sfilando le mani e guardandolo negli occhi. – Non puoi. Il bambino è mio, non tuo. Tu sai cosa è accaduto quella notte ma non vuoi dirmelo. E di chiunque sia, non mi importa più saperlo ormai, non avrebbe alcun rilievo, poiché egli è mio soltanto.
- Judith … è anche mio figlio.
Quelle parole, accarezzarono la sua pelle prima come un velo di seta, poi la dilaniarono come filo spinato, stordendola.
- Che cosa hai appena detto …?
Il ragazzo sorrise, lasciando andare una lacrima dai suoi occhi emozionati. – Quella notte … ciò che non ti ho detto di quella notte … è che non ti ha toccata nessun altro, eccetto me. Nessun’altra mano al di là della mia ha toccato il tuo corpo, mio amore.
È successo.
Ciò che sarebbe dovuto succedere molto tempo fa tra noi due, ma che ci siamo sempre trattenuti dal fare, per paura, per paura delle leggi di Bliaint, per paura dei monaci, per paura del rogo … è successo quella notte.
Naren non aveva mai visto Judith tanto sconvolta in vita sua.
Ella aveva gli occhi scuri spalancati, le labbra schiuse, ma non parlava.
Era immobile, statuaria e spaventosamente silenziosa.
- Judith …? Ti prego, ti prego, dì qualcosa.
- Tu eri cosciente e io no …? Ci siamo uniti sessualmente … ciò che volevamo succedesse, tante e tante di quelle volte … è successo mentre io ero incosciente…? Mentre io ero totalmente inconsapevole …? Mentre io … - la ragazza si bloccò, realizzando improvvisamente, sbiancando. - … mentre io non ero nel mio corpo??
- Judith …
La ragazza si allontanò di qualche passo, cercando di metabolizzare ciò che aveva appena udito, senza successo.
- Io non l’ho vissuto, Van … mi stai dicendo che non l’ho vissuto perché non ero lì, ero dentro il corpo di qualcun altro. E tu, tu ti sei approfittato solo del mio mero contenitore …
- No, non è così. Non mi sono approfittato del tuo corpo!
- E allora cosa hai fatto?? Chi c’era nel mio corpo …? – gli domandò, bisognosa di sapere, ora. – Naren, chi c’era nel mio corpo quella notte? E, soprattutto, la persona che abitava il mio corpo lo voleva …? O l’hai forzata? In quale corpo ero io?? Rispondimi!
- Non lo so!
- Bugiardo!
- Judith, non puoi considerarlo davvero un tradimento.
La ragazza rise sprezzante e acida in risposta. – E per quale motivo non dovrei?? Perché eri lì?? Perché sei rimasto lì, quella notte?? Non potevi aspettare che io fossi in me, che io fossi nel MIO corpo??
Oh, no, certo che non potevi! Sapevi che non te lo avrei mai permesso, perché sarebbe stato troppo rischioso.
E ora guarda cosa hai fatto!
Hai piantato il tuo seme in me, proprio ciò che stavamo evitando da mesi, da quando ci conosciamo!
Quella strega aveva ragione: il nostro sarebbe il primo bambino figlio di una coppia mista a Bliaint, da secoli.
Lo brucerebbero nel rogo insieme a noi ancora in fasce, se solo lo scoprissero …
- Judith … - ritentò egli avvicinandosele e allungando una mano verso di lei.
- Non mi toccare!
- Noi non permetteremo che anima viva lo venga a sapere. Te l’ho detto. Mi inventerò qualcosa.
- No, tu non ti inventerai nulla, perché questo bambino non ti concerne.
Avrà anche il tuo sangue, ma sono io colei che lo porta in grembo.
Ciò lo rende solo mio.
Dunque, sarò la sola a decidere del suo destino.
- Che cosa intendi …?
Un silenzio tombale calò tra loro, mentre il ragazzo realizzò tremendamente.
- Judith … ? Vuoi uccidere nostro figlio …?
- Scegliere se farlo nascere o no spetta solo a me.
- Ora è la tua paura per il suo destino che parla! Stai delirando perché hai il terrore che scoprano che è figlio del nostro peccato e che lo leghino su quel soppalco a bruciare prima che possa aver imparato a parlare!
- No, Naren, ti sbagli – gli rispose ella con voce calma e distaccata. – A prescindere da chi sia il padre di questo bambino, io non lo voglio.
Non lo avrei voluto in ogni caso.
I due vennero improvvisamente interrotti dal rumori di passi che scesero le scalinate per raggiungere le cucine.
Si voltarono all’improvviso verso la nuova presenza.
- Maroine …? – la salutò Judith cercando di ristabilizzare la voce.
- Va tutto bene? – chiese loro la ragazzina.
- Sì, va tutto bene. A te? – ricambiò Judith.
- Non temere – la tranquillizzò ella, sorprendendola. – Non permetteremo loro di farvi del male. Io e Maringlen proteggeremo te e padre Cliamon da Beitris e da Myriam.
- E chi proteggerà voi due da loro? – chiese improvvisamente Judith, facendola trasalire. – Voi due dovete andarvene di qui, Maroine, tu e tuo fratello. Beitris prova un amore morboso e pericoloso nei vostri confronti, mentre i monaci vi vogliono morti. A giorni, qui a Bliaint verrà un mercante, un vecchio amico di padre Cliamon. Egli …
- Di cosa stai parlando? – le domandò confusa la ragazzina.
- Lo vedrete – si limitò a risponderle Judith. – Sappiate solamente, che io e padre Cliamon non vi abbandoneremo, neanche quando tutto questo sarà finito.
- Siete stati gentili con noi. È ora di ricambiare il favore.
- Non si tratta di favori o di debiti da saldare, Maroine – le spiegò Judith avvicinandosele. – Non vi abbiamo protetti e aiutati per venire ricambiati, lo capisci? Lo abbiamo fatto perché nutriamo reale affetto nei vostri confronti, nonostante per voi questa parola risulti tanto estranea e sconosciuta.
Maroine la guardò, come in preda a intricate riflessioni, facendo sorridere Judith.
- Il popolo si ribellerà – disse dopo qualche minuto la ragazzina. – Sicuramente lo farà. E quando succederà, io e Maringlen scapperemo via con loro, mentre voi rimarrete qui e sarete salvi – disse semplicemente.
- Maroine … - tutte le parole che la ragazza voleva far uscire da sé, le morirono in gola, non appena le sue iridi scure captarono un denso rivolo di sangue sbucare dalla narice di Maroine, andando ad infrangersi tra le sue labbra. – Maroine … stai sanguinando … Maroine!
La ragazzina aggrottò le sopracciglia chiare e posò le dita tra il naso e la bocca, macchiandosele.
Successe in un attimo, Judith vide le dita insanguinate di Maroine tremare, i suoi occhi annebbiarsi e le palpebre calare giù, mentre il suo corpo si accasciava tra le sue braccia, sorretto anche da quelle di Naren.
- Maroine!
 
Padre Cliamon, legato e seduto ad una delle sedie della biblioteca, tenne gli occhi fissi sulle mattonelle del pavimento, come oramai stava facendo da ore, mentre udiva voci e rumori svariati provenire dal piano inferiore.
Gli stregoni sembravano stessero divertendosi.
Cercò di calmare la sua agitazione, ripetendosi che, sicuramente, il popolo si sarebbe ribellato.
Il popolo doveva ribellarsi.
Sperò vivamente che Judith stesse bene, magari legata da qualche parte come lui, ma non nelle segrete come gli altri.
Dei passi svelti gli fecero aguzzare le orecchie e alzare lo sguardo verso chiunque fosse entrato nella biblioteca.
Lo avrebbe riconosciuto solo dal suono dei suoi passi, anche a distanza di secoli.
Il monaco sorrise tra sé, felice, mentre vedeva Maringlen avvicinarglisi con un velo di preoccupazione a velargli il bellissimo volto.
- Padre, stai bene? – gli domandò sedendoglisi di fronte e accostandosi a lui.
- Sì. Non preoccuparti per me. Tu e tua sorella come state?
- Bene. Ella è andata nelle cucine, a controllare lo stato di Judith. L’hanno messa a lavare i piatti e a ripulire le cucine da capo a piedi.
- Oh, sia ringraziato il cielo!
Maringlen sorrise in risposta. – Mi dispiace che vi siate trovati in mezzo a tutto ciò, tu e Judith. Avete fatto molto per noi.
- Non scusarti per gli errori commessi da loro. Tu non sei come loro. Il fatto che ti abbiano cresciuto non implica che tu sia un loro prodotto, una loro creazione.
Tu e Maroine siete infinitamente migliori di quello che credete e che vi vogliono far credere.
- Sei tu che ci vedi migliori di come siamo. Da sempre. Mi chiedo perché tu lo faccia.
All’inizio, la tua gentilezza mi dava i nervi, mi irritava enormemente.
- Me ne ero accorto – sorrise padre Cliamon. – E poi? Cosa è successo, Maringlen?
- Poi, sei venuto nelle segrete, ti sei avvicinato alla mia cella e mi hai cantato quella canzone, quel giorno, il giorno in cui credevo sarei morto, una volta per tutte – raccontò ciò, mentre un nostalgico e raro accenno di sorriso gli illuminava il viso e gli occhi miele. – Quel giorno, forse, ho compreso che non ci avresti più lasciati soli. A costo della tua vita.
- Ed è così – confermò padre Cliamon guardandolo con gli occhi lucidi, i quali vennero asciugati dalle dita dolci del ragazzino.
- Non piangere, padre.
Vedrai, d’ora in poi andrà tutto per il meglio.
- Che bel quadretto – li interruppe Myriam, irrompendo con la sua voce, fresca e impetuosa come l’acqua di sorgente. – Resta pure dove sei, faccino d’angelo, anche io volevo far visita al monaco – lo spronò ella, prendendo posto a sua volta accanto a padre Cliamon, il quale fece di tutto per non incrociare di nuovo il suo sguardo.
- Perché non mi guardate, padre? Sono tanto terribile da guardare, ai vostri occhi? – lo sfidò. – Non sono al livello dei faccini d’angelo e della vostra seducente protetta, forse?
A ciò, Cliamon alzò gli occhi per guardarla, per non recarle scortesia.
- Sapete che vi trovate qui, seduto comodamente su questa sedia e non con la schiena premuta sul lerciume della cella, solamente grazie a loro, vero? – gli domandò, posando una mano sulla schiena di Maringlen.
- Ne sono consapevole.
- Bene. Ditemi, ora, dov’è che mi avete già vista? Perché mi sembra evidente che mi avete già vista, i vostri occhi non hanno fatto altro che gridarmelo da quando mi avete posato gli occhi addosso – disse insinuante.
- Non vi ho mai vista.
Myriam affilò gli occhi. – Sapete, è esistita solo una donna quasi identica a me a questo mondo. Da bambina, le persone che mi vedevano dicevano che ero la copia di mia madre.
- I genitori ci donano sempre ciò che di più bello posseggono – commentò il monaco.
- Non sempre.
- Che fine ha fatto vostra madre?
- Morta. Bruciata. Molti anni fa. Il monaco che l’ha giudicata colpevole e meritevole della pena capitale era un giovane servo del Creatore che aveva appena preso i voti.
Padre Cliamon deglutì a vuoto.
- Quando mi hanno detto cosa fosse accaduto a mia madre … ho giurato sul mio Signore Onnipotente, sulle tre madri e sulle tre streghe originarie, che mi sarei vendicata di quel monaco, non appena lo avessi trovato.
Ho giurato solennemente, che avrei ripagato quell’uomo con la stessa moneta.
Avrei distrutto la persona più importante della sua vita, strappandole la vita con le mie mani, come lui aveva fatto con quell’unica persona che era tutto il mio mondo.
L’ho maledetto, nonostante non sapevo chi fosse.
Ed ero solo una bambina.
Forse è per tale motivo che il mio Signore mi ha chiesto un pegno tanto grande in cambio, per concedermi di vendicarmi di quell’uomo.
Sono sterile, se ancora non ne aveste preso coscienza dalla mia breve conversazione con Judith.
Non ho mai potuto nulla, contro il mio ventre arido. Nulla.
- E poi? Cosa è avvenuto dopo? – si sforzò di chiederle il monaco. – Non siete stata in qualche modo ripagata della sofferenza subita? Non avete trovato nessun altro da amare con tutta l’anima? Non avete trovato qualcuno in grado di rubarvi il cuore, in seguito alla vostra immensa perdita?
A tali parole, lo sguardo di Myriam sembrò mutare totalmente, facendola quasi sembrare un’altra.
I suoi lineamenti si addolcirono, gli occhi acquisirono un’aria sognante e la bocca si incurvò verso su, in un sorriso che esprimeva tutta l’amarezza, la nostalgia e l’amore di cui un uomo o una donna avrebbe potuto traboccare. – Sì, c’è stato. C’è stato qualcuno. Un dono,  un tesoro prezioso e meraviglioso, un tesoro non mio, ma che ho avuto l’immensa fortuna di far venire al mondo, e di crescere, per alcuni anni, gli anni più belli della mia esistenza.
Ma non vi parlerò di lui.
Nessuno merita che io gli parli di lui.
Custodisco il suo ricordo con me gelosamente, nascosto e segregato, come unica linfa per il mio spirito.
Ripresasi dal suo attimo di estatica immersione nelle sue memorie, Myriam tornò in sé, inscalfibile e melliflua. – Ora ditemi, padre Cliamon, per quale motivo non riuscite a guardarmi? Vi ricordo forse qualcuno? Vi ricordo una donna … una donna che vi è rimasta impressa nella mente?
La prima donna che vi ha reso un assassino, a tutti gli effetti?
Oramai aveva capito.
Ella aveva compreso tutto e padre Cliamon, nella sua situazione di netto svantaggio, non avrebbe potuto fare nulla per sfuggire all’inevitabile.
I suoi errori e peccati lo inseguivano sin dalla sua giovinezza e ora … ora lo avevano trovato.
Tuttavia, non avrebbe sopportato che i suoi sbagli si ripercuotessero su chi gli stesse a cuore. Mai.
Il monaco alzò immediatamente lo sguardo su Maringlen, rimasto seduto sulla sedia di fronte a lui, ad ascoltare la conversazione in silenzio.
Myriam lo intercettò, riflettendo. – La persona che vi sta più a cuore … - ripeté la strega, continuando a guardare Maringlen. – La persona che vi sta più a cuore al mondo … - ebbe la conferma alle sue ipotesi, non senza una scomoda reticenza a stringerle le viscere fastidiosamente. – Non può trattarsi davvero di loro … - sussultò, combattuta e decisa allo stesso tempo.
Maringlen cominciò a realizzare, come una sferzata di vento gelido e tagliente penetrato nelle ossa, la verità lo attraversò, i pezzi cominciarono ad incastrarsi tra loro, così come le intenzioni di Myriam.
Il ragazzino si alzò automaticamente dalla sedia, indietreggiando, mentre la strega si alzava a sua volta.
- Vi prego … vi prego, non fategli del male … vi prego. Ho sbagliato … ho sbagliato! Me ne pento! Con tutto me stesso! Ma vi scongiuro, non fatelo! Non avvicinatevi a lui! – la supplicò il monaco, dimenandosi tra le corde, inutilmente.
Myriam guardò Maringlen indietreggiare da lei, ma non si avvicinò a lui, restando a fissarlo immobile.
- Ti lascerò del tempo, monaco. Ti lascerò del tempo.
Disgraziatamente, coloro che tu ami tanto, sono oggetto anche della venerazione di Beitris. Inoltre … ho vissuto con loro. Li ho visti mordere e ringhiare come due piccole volpi randagie quando li abbiamo raccolti dalla strada, prendendoli con noi, fino ad ora.
Non arriverò a tanto, solo perché si tratta di loro.
Non li ucciderò io, ma sarai tu a farlo.
Tuttavia, voglio essere misericordiosa con te: scegline uno solo da salvare, tra i due gemelli, e sarà salvo.
L’altro morirà per mano tua, monaco.
Questo è il massimo che posso concederti.
 
Il ragazzo si svegliò di soprassalto, tossendo del fumo nero, tutto quello che aveva respirato da quando si era addormentato dentro il seminterrato, con la fornace ancora accesa. Per la quarta volta.
Spostò alcune ciocche di capelli scuri che aveva sparse su occhi e naso, e che gli bloccavano la vista, oltre a non facilitargli lo già arduo compito di respirare, in quella cappa nera.
Si rese conto che erano cresciuti troppo.
Si tirò su da terra, dal pavimento freddo su cui aveva abbandonato il corpo, steso a faccia in giù, percependolo improvvisamente pesante, troppo pesante da spostare, come se fosse fatto di pietra.
Delle voci cominciarono ad invadergli la testa, insinuanti e invasive, mentre dei rumori provenienti dall’esterno lo tenevano debolmente a contatto con la realtà.
Nitriti di cavalli.
Come i cavalli che gli aveva mostrato Gerda nella stalla, quel giorno, che oramai gli sembrava così distante.
Ci mise un po’ a realizzare dove fosse, come se la sua memoria andasse a singhiozzi da quando trascorreva la maggior parte del suo tempo in quella fucina impregnata dell’essenza più pura e densa del piombo.
Si appoggiò al tavolino per tirarsi in piedi, cercando di risvegliarsi completamente, mentre riportava le iridi sulla colata di piombo che riposava nella fucina.
Grosse bolle, lente come lumache, risalivano in superficie, scoppiando e rilasciando minuscoli schizzi arroventati, che si andavano a schiantare nelle pareti del recipiente.
Erano trascorse quasi due settimane, da quando era rinchiuso in quella casa.
Si convinse di essere arrivato al limite, di star quasi perdendo la testa.
Cosa voleva esattamente quell’uomo da lui?
Era davvero convinto che lui riuscisse a compiere la leggendaria trasmutazione, quella favola che i cantastorie narravano per accendere la curiosità e la brama di potere nei nobili della peggior specie?
Era stanco, stanco ed esasperato.
Suo padre gli diceva sempre che non vi era cosa più pericolosa al mondo, di portare un uomo all’esasperazione.
E di avvelenarlo. Un uomo in preda agli effetti di avvelenamento agisce in maniera imprevedibile. Egli è fuori di sé, è furente e attaccato alla vita più di qualsiasi altro, poiché percepisce sin dentro le ossa che gli sta scivolando via.
Suo padre non aveva tutti i torti, forse.
Il Giudice non conosceva nulla dei metalli.
Non conosceva la loro composizione, la densità, la duttilità, l’odore che emanavano, la loro consistenza al tatto.
Egli si basava semplicemente su qualcosa di tanto futile e illusorio come un colore.
L’oro, che tanto attraeva e assuefaceva.
Se solo il suo piombo avesse mutato colore e fosse sembrato dorato, invece che nero, sarebbe stato libero.
Volere è potere, pensò il ragazzo, trovando quel detto ridicolo e mai più falso, come mai prima d’ora.
Blake si appoggiò con i palmi delle mani ai bordi della fornace, ustionandosi, emettendo un urlo muto di frustrazione.
Poi, improvvisamente, accadde qualcosa.
Quell’urlo muto, quella volontà d’acciaio, forse avevano influenzato la sua mente a tal punto da farlo convincere di star vedendo qualcosa che non era reale…?
Blake spalancò gli occhi, osservando la colata, prima grigio scuro, ora rischiarirsi.
Stava sognando? Stava delirando? L’avvelenamento era arrivato a tal punto? No, non poteva essere, forse il mercurio ci sarebbe riuscito, a farlo impazzire, ma non il piombo.
Si sentiva ancora sano, lucido, in qualche modo a lui sconosciuto.
La colata dorata ai suoi occhi, continuava ad essere dorata, nonostante si fosse strofinato quegli stessi occhi più e più volte.
Avrebbe dovuto chiamare il Giudice e mostrargliela, ma non era sicuro che egli avrebbe visto la stessa cosa che vedeva lui.
Avrebbe dovuto rischiare, poiché non gli rimaneva altro da fare.
Non aveva compiuto alcun sacrilegio, non aveva trovato nessuna pietra filosofale.
Aveva solo urlato, urlato senza voce, e la trasmutazione era avvenuta.
Il piombo aveva assunto il colore dell’oro.
Indietreggiò di qualche passo, restando con la schiena poggiata al muro.
Respirò ansimante mentre il sudore gli bagnava i vestiti, aumentando man mano che aumentava anche la temperatura torrida della fucina, con il fuoco che, invece di esaurirsi, sembrava innalzarsi sempre più, come posseduto, nonostante il carbone si stesse esaurendo.
- Ci siete riuscito??? Ce l’avete fatta?? – irruppe improvvisamente la voce tonante del Giudice, il quale aveva appena sceso le scale, entrando nel seminterrato, rimanendo accecato dal fumo scuro.
Spostò inutilmente il fumo con le mani colme di anelli, e si fiondò sulla fucina che conteneva la colata d’oro luminoso.
Blake smise di respirare, attendendo di vedere qualsiasi reazione sul volto stralunato del Giudice.
L’uomo, affacciatosi al grosso recipiente, sgranò gli occhi scuri, tremando visibilmente.
Allora lo vedeva anche lui.
Allora vedeva anche lui ciò che Blake non aveva fatto.
Perché Blake non aveva fatto nulla.
Eppure l’oro era lì. O almeno, qualcosa che sembrava oro.
- Quella donna aveva ragione … voi … siete l’alchimista più dotato dell’intero occidente!! – esclamò non riuscendo a trattenere tutta la sua gioia spropositata, la sua esaltazione esagerata nella voce.
Alzò gli occhi su Blake, ancora ancorato al muro, e gli si avvicinò, con gli occhi avidi che lo divoravano. - Come ci siete riuscito?? Come ci siete riuscito, Blake? Vi prego, rivelatemelo.
Il ragazzo negò con la testa.
Non poteva parlare, il Giudice lo sapeva, ma anche se la sua voce fosse tornata improvvisamente, non avrebbe saputo cosa dirgli.
Non ho fatto niente.
Io non ho fatto niente.
“Il veleno porta l’uomo alle azioni più funeste.” Rimembrò quelle parole, ripetendosele in testa, come una sorta di mantra, di blanda giustificazione a ciò che stava per fare.
In quel momento, non gli importò se l’uomo dinnanzi a lui lo avrebbe lasciato libero o avrebbe continuato a tenerlo rinchiuso come la sua personale gallina dalle uova d’oro in futuro, non gli importava poiché lo avrebbe fatto comunque.
Il Giudice era in uno stato troppo estatico per accorgersene, invaso dalla gioia, debole.
Blake si avventò di scatto sull’uomo che gli aveva reciso la gola, immobilizzandolo a faccia in su, con la schiena e la testa schiacciati al tavolino, stringendogli il collo con la presa ferrea di una sola mano.
Mentre l’uomo si dimenava inutilmente, Blake, con la mano rimasta libera, afferrò con le tenaglie un recipiente più piccolo, immergendolo nella colata dorata, riempendolo di quel liquido arroventato.
Dopo di che, prima che il Giudice se ne rendesse conto, il ragazzo fece colare alcune gocce bollenti prima su un occhio dell’uomo, poi sull’altro, accecandolo dolorosamente.
Le urla strozzate del Giudice rimbombarono intensamente nel piccolo ambiente.
Ma ancora non bastava.
Con la lingua e la mani ancora intatte, il Giudice sarebbe stato in grado di comunicare chi fosse stato a ridurlo in quello stato.
A ciò, mentre il Giudice urlava ancora, prosciugato anche della forza di provare a ribellarsi, Blake fece colare il metallo rovente prima sulle mani dell’uomo, in gran quantità, in modo da sfigurarle e liquefarne la carne, poi sulla lingua. Tirò fuori la lingua umida di quel rifiuto umano, tanto forte da staccargliela quasi, e la immerse di “oro” colato.
Ora, il Giudice sarebbe stato davvero incapace di rivelare a chiunque il nome del suo “dotato” aguzzino.
Una volta terminato il suo compito, Blake gettò le tenaglie a terra e lasciò il corpo inerme dell’uomo steso sul tavolo, allontanandosi da lui schifato. Poco prima di fiondarsi sulle scale per salire al piano superiore, il ragazzo si voltò indietro, dando un’ultima occhiata alla colata metallica: il suo colore era tornato ad essere il nero piombo.
Prima di lasciare quella casa, ancora scosso dal fumo, prese con sé solamente alcune monete d’argento, le necessarie per portare a termine il viaggio per il quale era partito, un pugnale e la mandragora ancora pulsante, avvolta dal telo.
Sfondò la porta chiusa a chiave, entrando a contatto, per la prima volta dopo due settimane, con il nascente sole dell’alba e con l’aria atrofizzante invernale, che fu in grado di farlo tremare da capo a piedi per il gelo, infiltrandosi con violenza dentro i leggerissimi vestiti che indossava.
Il gelo non era nulla, tuttavia.
Il suo corpo lo sentiva, ma la sua mente no, poiché era distante, distante da tutto.
Montò sopra uno dei cavalli legati all’esterno della casa, memore delle brevi lezioni teoriche che gli aveva impartito Gerda su come si cavalcasse, slegò la corda che teneva prigioniero l’animale e gli diede un colpo di caviglia all’addome, per farlo iniziare a correre, aggrappandosi fermamente alla sua lunga chioma bianco panna.
Non appena giunse dinnanzi all’abitazione di Selen, Blake scese da cavallo, il suo corpo si muoveva in automatico, entrò dalla finestra che dava alla camera degli ospiti, dove immaginava stesse dormendo Selma, sempre se fosse ancora in quel villaggio.
La trovò stesa su uno dei letti, apparentemente addormentata.
Dunque era rimasta davvero.
Ella aveva realmente atteso che egli sfuggisse da quell’uomo, in un modo o nell’altro, per qualche assurdo motivo a lui sconosciuto.
Come un oracolo paziente, in qualche modo, sapeva che avrebbero proseguito quel viaggio.
La donna si svegliò di soprassalto, ritrovandosi la mano impregnata di carbone del ragazzo premuta dolorosamente sulla bocca, e il suo corpo accasciato verso il letto, con i suoi occhi blu, intensi e tremendi, che la stavano uccidendo con lo sguardo, vicinissimi ai suoi.
Selma sorrise nonostante la mano glielo impedisse, accorgendosi, troppo tardi, di avere anche la lama di un pugnale premuta addosso, all’altezza della gola.
Blake tolse la mano dalla sua bocca, ma continuò a tenerle la lama puntata contro, facendole segno con la testa di uscire dalla finestra e di montare sul cavallo, gelido.
La donna raccattò velocemente le sue cose e obbedì consenziente, uscendo dalla finestra.
Poco prima che Blake uscisse a sua volta da dove era entrato, la porta della camera si aprì, rivelando una figura piccola e bassa, avvolta da pesanti vestiti di lana, che lo guardava assonnata.
Gerda sgranò gli occhioni, non appena mise a fuoco la sua figura.
Blake fece giusto in tempo a portarsi l’indice sul naso, spronandola a fare silenzio.
A ciò, senza dire nulla, la bambina si pose l’indice sul naso a sua volta, acconsentendo. Poi, con la manina, gli fece segno di attendere, dirigendosi verso un’altra stanza.
Quando Gerda tornò, dopo nemmeno un minuto, aveva con sé tre o quattro coperte di lana e pellicce, un ammasso quasi più grande di lei. Le porse al ragazzo e rimase a guardarlo, con il suo sguardo puro, innocente, lieto di rivederlo.
Blake le sorrise dolcemente in risposta, prendendo le pellicce e le coperte, mimandole un “grazie” in labiale.
In risposta, la bambina si rabbuiò lievemente, domandandogli anche lei qualcosa in labiale: “ci rivedremo un giorno?”
“Sì ci rivedremo” le disse muto, facendola sorridere.
Dopo di che, la piccola lo osservò uscire dalla finestra, salire sul cavallo con Selma, e sparire dalla sua vista.
 
 

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Capitolo 19
*** Carne della mia carne, sangue del mio sangue ***


Carne della mia carne, sangue del mio sangue
 
Da qualche giorno, non nevicava più.
Faceva troppo freddo per nevicare e l’erba e il terreno erano ricoperti da una leggera patina di ghiaccio.
La grotta in cui avrebbero alloggiato quel giorno, per riprendersi dalla lunga camminata, era tanto profonda da ripararli dal freddo e da permettere al fuoco di rimanere acceso, se costantemente e adeguatamente alimentato.
Per assicurarsi che ciò avvenisse, Blake aveva quasi deforestato il boschetto a pochi metri da loro, tagliando e raccogliendo legna per una legione, fino a riempirne la grotta; mentre Selma era andata a caccia.
Quando la strega tornò nella grotta, con un coltello insanguinato che sporgeva dalla cintura, i quanti che le coprivano le mani tagliati sulle dita fradici e la pelliccia che indossava coperta di una sottile brina, lanciò la lepre senza vita e penzolante che stringeva per le zampe vicino al fuoco.
Trovò Blake impegnato ad intrecciare alcune corde, mentre alimentava il fuoco di tanto in tanto, sopra il quale aveva riposto un liquido dal buon odore a scaldare.
Selma aguzzò le narici e si accorse che il ragazzo avesse preparato un brodo, di radici, tuberi e altre erbe e spezie strane che aveva trovato nei dintorni.
Blake sapeva muoversi bene.
Selma glielo aveva riconosciuto già dopo poche ore che avevano messo piede fuori da Bliaint.
Il ragazzo osservò il corpo della lepre gettato accanto al fuoco, mentre Selma si sfilava la pelliccia e lo raggiungeva, sedendosi sull’altro tronco che circondava il focolare e riafferrando l’animale che aveva ammazzato poco prima.
- Non appena lo avrò spellato a dovere, lo abbrustoliremo e avremo una cena da re stasera – gli garantì.
In risposta, il ragazzo le indicò il coltello che ella aveva infilato nella cintola, facendole segno di darglielo.
Selma obbedì e lo vide iniziare ad affilarne adeguatamente la lama smussata, fin quando, una volta soddisfatto, glielo riconsegnò.
A ciò, la donna accennò un ghigno e cominciò a usare la lama per spellare l’animale.
Anche i cavalli sembravano godere del caldo provocato dal focolare, dentro la profonda grotta che sembrava senza fine.
- Non ti vengono i brividi nemmeno un po’ nel tenerla tra le mani, dopo che l’hanno usata per farti quello che hanno fatto? – gli domandò improvvisamente la donna, senza alzare lo sguardo dalla lepre.
Blake comprese che si stesse riferendo alla corda che egli stava intrecciando. Si portò una mano al collo istintivamente, sulla cui pelle liscia e tesa imperava una sporgente cicatrice circolare, con la ferita ancora fresca in alcuni punti. Non le rispose, continuando ad intrecciare la corda.
Selma era convinta non si sarebbe mai davvero abituata alla sensazione di star parlando da sola, nonostante avessero lasciato il villaggio di Carbrey oramai da qualche giorno.
La donna non aveva mai posseduto doti mediche, ma sapeva che, prima o poi, la voce del ragazzo avrebbe fatto la sua ricomparsa, ancor più dirompente e forte di prima.
Cercò di fare mente locale, per ricordarsela, per rimembrare il timbro, la musicalità, il ritmo, il tono e l’altezza della voce di Blake, nonostante le sembrasse quasi un secolo che non la udiva più.
Chiunque avrebbe pensato fosse un peccato, che una bella voce andasse sacrificata in quel modo, e che qualunque voce, a prescindere da chi ne fosse il proprietario, andava preservata e trattata preziosamente, poiché tutti meritavano da farla ascoltare, di far ascoltare cosa avevano da dire.
Tuttavia, Blake sapeva essere tagliente anche senza quella, e di ciò era grata.
Una volta terminato di spellare la lepre, le aprì la pancia in due, per sventrarla.
- Lo sai che, se ne fossi in grado e ne avessi il potere, te la farei tornare, vero? – gli disse improvvisamente la donna, alzando lo sguardo su di lui, il quale fece lo stesso, capendo immediatamente a cosa si riferisse.
Le rivolse un’espressione strana, a metà tra l’intenerita, il ghignante e un briciolo sprezzante, uno sguardo che a Selma trasmise una qualche sorta di  provocazione simile a un “non sei una strega abile come ti vanti di essere”.
Selma riprese a sventrare la lepre, sentendosi lievemente più leggera, mentre il calore del fuoco la scaldava gradualmente.
- Non mi hai ancora detto come sei riuscito a scappare da lui – riprese poi, facendosi prendere da una genuina curiosità, che sapeva non sarebbe stata colmata.
Il ragazzo lasciò perdere la corda, prese una radice e cominciò a masticarla lentamente, quasi come se non avesse nemmeno udito quella domanda implicita.
 - Ad ogni modo, sapevo che ce l’avresti fatta, ne ero certa – quelle parole, invece, sembrarono suscitare l’interesse di Blake, il quale volse le iridi su di lei. - Avresti fatto di tutto per tornare da lui, da tuo fratello – spiegò Selma, un’espressione di soddisfazione e di convinzione a plasmarle i lineamenti temprati dal tempo, ma pur sempre forti, duri e intriganti nella loro particolarità. – Anche io avevo un fratello, un tempo. E una sorella – esalò, senza neanche pensare. I ricordi le avvolsero le membra impertinenti, sfuggendo al suo controllo.
Smise di parlarne, continuando a preparare il loro futuro pasto in silenzio, infilzandolo in un ramo e riponendo il tutto sopra il fuoco, non prima di aver spostato la pentola con il brodo.
Blake scrisse qualcosa su un pezzo di stoffa, degnandola del suo pensiero.  
Passò il cencio a Selma, attendendo che ella leggesse. – “Il territorio che stiamo attraversando è sempre più freddo. Ci stiamo spostando sempre più a Nord. Conosci questa zona?”
La strega annuì, senza aggiungere altro per il momento. Guardò all’esterno, verso l’uscita della grotta, la quale, gradualmente si stava facendo più buia.
Quella notte, sogni infausti assalirono la mente della donna, ricordi risalenti alla sua travagliata infanzia e adolescenza.
Non poteva fare a meno di avere i loro volti davanti agli occhi, ora che si stavano avvicinando sempre più al luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
Non immagini lontanamente cosa ti attende, Blake.
Ti pentirai amaramente di non essere rimasto a Bliaint per la brama di raggiungere le tue mete inumane e utopiche.
Qualsiasi cosa ti sia accaduta in quel villaggio e in quella casa con quell’uomo, ciò che ti aspetta sarà sconfinatamente peggiore.
Il mattino seguente, i due vennero svegliati da dei fievoli rumori provenienti dall’esterno della grotta.
Oramai il loro udito era diventato talmente acuto da far invidia a quello delle bestie selvagge che abitavano quei boschi. Il fuoco si era spento dopo l’intera nottata e oramai il freddo era penetrato all’interno delle pareti umide del luogo.
Blake si alzò lentamente, cercando di non emettere il minimo rumore; mentre Selma iniziò a cercare cautamente il pugnale che avevano portato con loro, accorgendosi che lo avesse preso Blake prima di lei.
Si accontentò della corda che aveva intrecciato il ragazzo la sera prima, si alzò restando dietro di lui, intercedendo lentamente e adagio.
Quando il ragazzo uscì dalla caverna, aggredì la presenza incappucciata che vi era all’esterno con uno scatto, puntandogli la punta del pugnale alla gola, restandogli a distanza, con il braccio teso e alzato, quasi fosse un prolungamento dell’arma.
La punta affondò di pochissimo nella gola dello sconosciuto, macchiandosi di qualche goccia di sangue, mentre quest’ultimo alzava le braccia in segno di innocenza, provvedendo ad abbassarsi il cappuccio per mostrare il volto.
Selma sgranò gli occhi scuri non appena vide il suo viso, roteandoli al cielo. – Che il Signore ti perdoni! Che accidenti ci fai qui?! – gli disse sorpassando Blake e avvicinandosi all’altro, il quale ricambiò sorridendole con confidenza.
- Lieto anche io di rivederti, Selma.
Blake, confuso, puntò lo sguardo interrogativo sulla strega, in attesa di spiegazioni.
- Si tratta di Ephram. Lo stregone a capo della mia compagnia, insieme a Beitris. Lei deve avertene parlato.
- Finalmente ho l’onore di conoscere il famoso Blake – disse lo stregone, riattirando l’attenzione del ragazzo su di sé, sorridendogli soddisfatto mentre lo osservava.
- In carne ed ossa – rispose Selma al suo posto.
- Siete diventato quasi una leggenda nella nostra compagnia, Blake, sapete? Voi e la vostra amica, Judith. L’implacabile folle ricercatore della polvere nera. Il visionario – gli disse, infarcendo la voce di una buona dose di calore e teatralità.
- Da quando ha lasciato Bliaint, bisogna ammettere che i suoi appellativi potrebbero essersi ampliati notevolmente – aggiunse Selma. – Il ragazzo ha la fama di prestigioso alchimista, oramai. Senza contare che gli è stata quasi staccata la testa dal collo. Ma è scampato anche a quello.
- Quali maledette vicende vi siete trovati a vivere in questo infausto viaggio…? – domandò Ephram sbigottito.
- Non avremmo il tempo per narrartele neanche se lo desiderassimo. Vuoi dirmi cosa ci fai tu qui? – gli chiese la donna, impaziente di sapere la risposta.
- Volevo seguirvi già da quando siete partiti, ma ho preferito aspettare.
Blake, finalmente, si decise ad abbassare il pugnale, azione che Ephram ringraziò con un gesto eloquente.
- Dunque, hai intenzione di proseguire il viaggio con noi …?? – domandò Selma allibita.
- Per quale motivo vi avrei raggiunti altrimenti? Voglio vivere questa scoperta con voi. E se davvero ne varrà la pena come Blake crede, e il potere di questa polvere nera è tanto intenso e devastante come Selma racconta … vorrà dire che questa sarà senza dubbio una delle decisioni migliori che avrò mai preso – confermò il giovane stregone sorridendo sicuro.
- Come ci hai trovati?
- Ho i miei metodi, dovresti saperlo.
- E gli altri?? Dove hai lasciato i tuoi devotissimi seguaci? Li hai abbandonati a loro stessi? – ribatté Selma.
- Ho preferito andarmene prima che la situazione degenerasse, non ho voluto rimanere invischiato in qualcosa che li porterà ad autodistruggersi neanche troppo lentamente, solo perché Beitris non ha voluto attenersi alla mia idea iniziale.
- Invischiato in cosa …?
- Meglio non sapere ora, tempo al tempo. Sappiate solamente che, una volta tornati a Bliaint, le cose non saranno più come le avete lasciate.
I due, non essendosi accorti che Blake si fosse allontanato per scrivere qualcosa su un cencio, vennero distratti dal ragazzo che lanciò la palla di stoffa tra le mani di Ephram, per poi ridirigersi verso la grotta.
Quest’ultimo l’aprì e lesse. – “Prova ad intralciarmi e ti ucciderò, per poi gettare il tuo corpo lungo la strada. I cavalli sono due, lo dividerai con la tua amica” – terminò il giovane stregone, alzando lo sguardo su Selma confuso.
- Giusto, dimenticavo: ha perso la voce e non sappiamo quando gli ritornerà. Prendi la tua roba e raggiungimi.
 
Myriam tornò nel salone principale della cattedrale dei servi del Creatore, nella quale il crocefisso sopra l’altare era stato capovolto.
Beitris era seduta su una delle sedie, guardava fissa dinnanzi a sé.
Myriam prese posto accanto a lei.
- Come sta? – chiese subito la corvina.
- Deve riposare. Sembra sia febbre. Un’invadente forma di febbre, dalla dubbia gravità. Padre Cliamon, Judith e Maringlen si stanno occupando di lei – rispose atona Myriam.
- Avrei dovuto ascoltarla, prestarle davvero attenzione e accontentarla, tutte le volte in cui voleva che mi rivolgessi a lei al maschile, che desiderava la ritenessi davvero un ragazzo, come lei bramava apparire ed essere – esalò Beitris, con la voce pregna di rimorso.
- Non è colpa tua ciò che le è accaduto. Semplicemente, è successo e basta.
Ognuno di noi vive, sapendo che potrebbe morire il giorno seguente o persino il giorno stesso.
Per nessuno è differente.
In questo siamo tutti uguali.
- Ieri stava bene. Sino a ieri era piena di vitalità e di forza trascinante, quando li ho finalmente riabbracciati.
Se il suo stato fosse colpa dei giorni trascorsi in prigionia, non riuscirei mai a perdonarmelo.
- Per questo non vai da lei? Perché ti senti in colpa? – le domandò Myriam.
Beitris non rispose.
- Presto saranno tutti morti. Coloro che hanno provocato tutto questo. Ogni giorno ne bruceremo uno, ricordi? Il primo è già pronto sul soppalco. Aspetta solo te.
Beitris sospirò, rimanendo con gli occhi fissi sull’altare. – Pensi mai che sarebbe potuto andare tutto diversamente?
Myriam si voltò a guardarla. – Cosa intendi?
Il volto della corvina era distorto da un’espressione di tristezza, mista a rimorso. – Se fossimo nate serve del Creatore. Ora non avremmo tutto questo odio da covare. Ci hai mai pensato?
- E se fosse stato così, che vita avremmo ora? Credi sarebbe stata molto migliore? Credi che i servi del Creatore non soffrano nel vedere tanti ragazzi e ragazze, anche se del credo opposto, incenerire su quel soppalco? – ribatté Myriam.
- Non quanto noi.
- Siamo tutti prigionieri di qualcosa, Beitris.
Loro hanno altri mostri da combattere.
Non credere che avremmo avuto una vita molto migliore di quella che abbiamo se fossimo stati come loro.
Noi ce la siamo scelta, questa vita.
- Il popolo si rivolterà – appurò Beitris, con disarmante consapevolezza.
- C’è la probabilità che accada. Eppure abbiamo noi le redini del villaggio ora.
Beitris si alzò in piedi. – Vado ad accendere il rogo.
A ciò, Myriam le afferrò il polso per fermarla. – Non vuoi neanche sapere il nome del monaco che brucerai?
- Non mi serve sapere il suo nome – affermò categorica, percorrendo il salone, infilandosi il mantello pesante e uscendo dalla cattedrale, per raggiungere la piazza.
Il monaco piangeva e spirava, con il corpo molliccio e coperto dalla tunica logora legato al palo, tanto stretto da togliergli quasi il respiro.
Era buio.
La luna piena dipingeva il cielo di una tinta ipnoticamente bella.
Beitris prese la fiaccola che gli porse uno degli stregoni e salì sul soppalco, percorrendo i pochi gradini che la dividevano dal luogo dell’esecuzione.
Nessuno era presente ad assistere nella piazza.
Andava bene così.
Non serviva che nessuno vedesse, solamente che sapessero.
Ripensò ai suoi compagni, ai suoi compagni che aveva perduto in quel modo, che aveva guardato bruciare senza poter reagire, fare nulla per evitarlo.
Pensò ai volti di Maroine e Maringlen e le si gelò il sangue al solo pensiero che vi sarebbero potuti essere loro legati su quel palo, se solo non fosse intervenuta.
- Alzò la fiaccola, illuminando il corpo accasciato e stretto dalle corde del miserabile uomo che aveva davanti agli occhi.
- Vi prego, mia signora, vi prego … - esalò il monaco in lacrime.
Beitris sorrise disgustata.
Non gli disse nulla, né si degnò di donare a quel verme i suoi occhi o il suo sguardo, nemmeno per un momento.
Gettò la fiaccola ai suoi piedi, aspettando che le fiamme divorassero tutta la paglia sparsa intorno a lui, fino a raggiungere le sue gambe, il suo busto e il suo intero corpo.
Le urla dell’uomo sembravano quelle di un bambino capriccioso, che strillava perché gli era stato tolto qualcosa.
Erano versi acuti, snervanti, insopportabili per quanto ridicoli, agli occhi della ragazza.
Tuttavia rimase lì, ad ascoltarli, a bearsene, fino all’ultimo singolo stridulo soffocato.
Sin quando il volto dell’uomo non venne sfigurato e la sua carne colò come acqua dalle sue ossa nude.
Solo quando il fuoco si estinse, Beitris si rese conto che, ad assistere al rogo, vi fosse un’altra presenza oltre lei.
Alzò la fiaccola per illuminare in basso, verso il punto della piazza in cui vi era la figura in silenziosa osservazione.
Egli aveva un mantello e una fiaccola accesa tra le mani a sua volta, ma il volto scoperto.
Beitris ghignò divertita nel notare si trattasse proprio di lui.
- Cosa volete ancora, monaco straniero? Questo non è posto per voi e il nostro patto è sciolto.
Il volto di padre Craig, tuttavia, era deciso, imperturbabile, illeggibile, mentre la guardava fisso, con la fiaccola in mano. – Quella notte di settimane fa, noi due ci siamo scambiati di corpi – disse inaspettatamente.
- Dunque? State cercando di fare leva su qualcosa, padre? Su cosa esattamente? Lo scambio di corpi avvenuto quella notte è l’unica cosa che ci lega, oltre all’affezione che condividiamo per Blake. Vi avverto che nessuna delle due basterà per persuadermi, se siete venuto qui con tale insulso intento.
- So che ciò non basterà, ma so anche che avete un cuore buono – disse sorprendendola. – Ho avuto modo di osservarlo, da quelle poche volte che abbiamo avuto l’occasione di passare del tempo insieme, per fini funzionali a entrambi. Sono un ottimo osservatore, Beitris, e so di non sbagliarmi.
So che ciò che avete fatto è stato provocato da sentimenti repressi, da una tremenda frustrazione e dolorosa impotenza che avete vissuto, nell’esser costretta ad osservare i vostri cari bruciare su quel soppalco, senza poterli salvare. Voi non siete …
- Voi non sapete nulla di me!! Solo perché avete vissuto nel mio corpo per una notte e conoscete Blake, non vuol dire che sappiate qualcosa riguardo i miei sentimenti e il mio animo!
Se volete la pace, avete fatto male i conti, padre; poiché noi non ci muoveremo di qui e continueremo a bruciare ogni monaco che teniamo rinchiuso nelle segrete, finché non li avremo sterminati.
- E poi …? Dopo aver compiuto tale carneficina cosa farete…?? Beitris, per favore, sono qui per …
- So benissimo per quale motivo siete qui! – esclamò imperterrita e sprezzante. – E non ho intenzione di giungere ad accordi con voi. Se l’alternativa è la guerra … che guerra sia – disse alzando la fiaccola al cielo e cominciando ad intonare una canzone che fece raggelare padre Craig, una litania che aveva già sentito dalle labbra di Blake e di Ioan:
- Cala la luna, cala la luna
Cala la luna, il cielo la inghiotte
Cala la luna, cala la notte
Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più.
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù.
 
Quel villaggio sembrava un villaggio come tanti altri, non tanto diverso da Carbrey agli occhi di Blake.
Le persone camminavano serenamente in mezzo alle stradine innevate, riuscendo a non scivolare nonostante la neve ghiacciata. Si chiese quale fosse il nome di quel villaggio e per quale motivo Selma si fosse ammutolita da quando erano giunti in quel luogo.
Molto probabilmente Ephram sapeva cose che lui ancora non conosceva sul passato di Selma, per questo sembrava così apparentemente rilassato mentre varcavano quelle strade.
- Hai detto che una delle famiglie di questo villaggio ci ospiterà. Ci stiamo dirigendo lì o stiamo facendo tappa altrove? – domandò lo stregone alla donna, continuando a camminare tranquillamente, mentre si guardava intorno incuriosito.
Probabilmente, neanche lui aveva avuto molte occasioni di uscire da Bliaint, prima di quel momento.
Le persone sorridevano con naturalezza quasi surreale, mostrando un’invidiabile leggerezza.
Perché erano tutti così tranquilli e sereni in quel luogo?
Non che a Bliaint non lo fossero, ma vi erano molte tensioni all’interno del suo villaggio di appartenenza, e ciò era palpabile.
- Dovreste imparare la lingua dei segni – gli disse improvvisamente Ephram, distogliendolo dai suoi pensieri.
I cavalli camminavano appena dietro di loro placidamente, senza disturbare troppo la stradina gremita di persone, col loro passaggio, trascinati dalle corde che avevano usato come redini.
In quei pochi giorni, Blake aveva imparato che i cavalli fossero animali indomabili, ma con un grande spirito di adattamento, se guidati e disciplinati a dovere, dunque molto affidabili.
Guardandosi intorno di nuovo, ad occhio e croce, valutò che quel villaggio dovesse avere più abitanti di quelli che vi erano a Bliaint.
Tuttavia, c’era qualcosa che non andava. Era come una sensazione dirompente che scalpitava sottopelle.
- Mi avete sentito? – riattirò la sua attenzione lo stregone, a quanto pare molto poco disposto a comprendere che non avesse alcuna voglia di intrattenere una conversazione con lui.
- So che conoscete alcune lingue straniere, parlate a Nord e ad Est – continuò Ephram. – Mi sorprende che voi non conosciate anche quella dei segni. Vi sarebbe molto di aiuto in questo caso. Posso insegnarvela senza problemi – propose.
Imparare la lingua dei segni avrebbe significato ammettere che quella non fosse solo una situazione temporanea, perciò no, non era quello che gli serviva. Presto non ne avrebbe più avuto bisogno.
- Insomma, non potete continuare a scrivere ogni volta che volete comunicare, è un’inutile perdita di tempo.
Ecco cosa mancava in quel villaggio: ragazzi. Giovani, fanciulli e fanciulle che superassero l’età infantile, persone all’incirca della sua età, pensò Blake ignorando le parole di Ephram.
Ve ne erano, ma, in confronto agli uomini e alle donne vecchi o di mezza età erano in netta minoranza.
- Inoltre, quella fasciatura intorno al collo attira parecchio l’attenzione.
Se non ci fosse, attirerebbe molto di più l’attenzione.
- Non tutti dovrebbero sapere l’entità di ciò che avete vissuto. Le nostre cicatrici rivelano troppo di noi e non dovrebbero essere mostrate con tanta facilità, per tale motivo è un danno quando queste sono in porzioni del nostro corpo scoperte e in evidenza.
Già, chissà cosa aveva spinto Ephram a pensarla in quel modo, cosa doveva aver vissuto all’interno della sua compagnia di eremiti per avere un visione tanto drastica e chiusa. Blake non lo conosceva, ma da quelle poche ore che avevano trascorso insieme, aveva già capito che tipo di persona fosse: non accettava compromessi, imponeva le sue ideologie, pretendeva che ogni cosa che gli uscisse dalla bocca fosse l’egregia e inoppugnabile verità.
A Blake non interessava minimamente sapere cosa l’avesse reso in tal modo, neanche se avesse avuto tempo da perdere gli sarebbe interessato.
Oh, ecco la sua opportunità proprio davanti agli occhi: un vecchio passeggiava distrattamente esattamente dinnanzi a lui, verso di lui, diretto nel verso opposto, con gli occhi fissi chissà dove.
Fu sin troppo facile andare a sbattergli contro.
- Oh, scusatemi, giovanotto! Stavo guardando altrove – si scusò il vecchio, per poi riprendere a camminare adagio.
A ciò, Blake palesò il suo bottino: la saccoccia di quell’uomo non era particolarmente piena ma non gli importava granché, finché avesse trovato qualcosa di utile.
La aprì e cominciò a visionarne gli oggetti che si trovavano all’interno mentre continuava a camminare.
Ephram lo guardò con la coda dell’occhio, accennando un sorriso. – Siete solito farlo, questo giochetto? Non vi facevo un ladro, tanto meno in grado di rubare con tale leggerezza all’aria aperta.
Un ladro? Chiamarlo ladro per ciò che aveva appena fatto sarebbe stato un grande insulto all’intera arte del rubare pensò il ragazzo, rivolgendogli uno sguardo eloquente, la prima risposta che si degnò di dargli da diversi minuti, per poi continuare a tirare fuori piccoli oggetti dalla saccoccia: un ciondolo, una sorta di talismano di legno e un libro di piccole dimensioni sgualcito, con un carboncino legato ad esso con un cordoncino.
Blake slegò il cordoncino e lo sfogliò, leggendo qualche riga sbiadita ai limiti del leggibile. Una sorta di piccolo manuale di pesca, forse.
Meglio così, gli servivano delle pagine su cui poter scrivere.
A ciò, il ragazzo sventolò il libricino davanti agli occhi dello stregone, in una chiarissima risposta al quesito di poco prima, tanto che Ephram si arrese. – D’accordo, ho capito il messaggio, niente lingua dei segni. Ma dovreste riflettere almeno sull’utilizzare qualcosa per coprire quella – gli disse indicandosi il collo.
Blake non aveva notato prima che Ephram indossasse una collana spessa e scura intorno al collo, una fascia di cuoio che assomigliava ad uno dei cimeli che indossavano anche gli altri membri della sua compagnia di stregoni, una qualche sorta di riconoscimento estetico. Ora che ci pensava, anche uno dei due gemellini che aveva incontrato nella piazza quel giorno ne indossava una.
Ephram comprese che la stesse osservando. – Non devo coprire nulla con questa, non sono stato quasi impiccato come voi. Tuttavia, voi potreste usarla per convenienza, in modo da nascondere la cicatrice.
Lui non aveva bisogno di nascondere le sue cicatrici agli occhi di nessuno.
Non aveva bisogno di nasconderle, così come non aveva bisogno di ostentarle.
Non gli serviva dimostrare nulla a nessuno.
- Siamo arrivati – li avvertì Selma, avanzando di qualche passo avanti a loro, salendo i pochi gradini che li separavano dall’entrata della casetta vicina a tutte le altre.
La donna bussò, restando in silenzio, trasmettendo agli altri due dietro di lei la palpabile agitazione che la animava.
Quando la porta si aprì, rivelò la figura di una giovane donna sorridente, con alcuni lineamenti simili a quelli di Selma, ma più dolci e giovanili. In braccio ad ella, vi era una bambina di circa tre o quattro anni, con grandi occhi grigi e dei ricci neri.
La donna sgranò gli occhi, sorridendo d’emozione, non appena riconobbe Selma.
- Cugina…? Sei tu?? Sei proprio tu?? Quanto tempo è passato! – esclamò abbracciandola a sé con vigore e sorridendo ancora.
- Anche per me è bello rivederti, Julia – ricambiò Selma con sincera affezione nella voce, ma anche una lieve nota di disagio.
Quando si staccarono dopo un tempo indefinito, la donna non mancò di guardare e sorridere anche ai due ragazzi rimasti un passo indietro.
- Oh, Selma, che giovani compagni attraenti porti con te! – esclamò, facendosi da parte per permettere loro di entrare. – Se avessi saputo saresti tornata, per di più con degli ospiti con te, avremmo cucinato molto di più per la cena! Ad ogni modo, il cibo è già in tavola, e gli altri sono già seduti, vedrai che bella sorpresa farai loro! Vi sono delle camere in più anche per i tuoi compagni, potrete rimanere quanto desiderate! Prego, cosa fate ancora fuori?? Entrate! Mio marito si occuperà di riporre i cavalli nella stalla con gli altri animali.
A ciò, Selma voltò il viso verso di loro. – Benvenuti a casa mia.
Ephram sorrise consapevole in risposta, mentre Blake rimase immobile e sorpreso.
Quando i due furono entrati e si furono presentati agli altri componenti della famiglia, non persero tempo a sedersi a tavola a mangiare. La casa era abitata da quelli che Blake aveva capito essere gli zii di Selma, probabilmente il fratello di sua madre e la moglie di lui, una coppia allegra, cordiale e servizievole; dalle due cugine di Selma, tra cui vi era Julia, la giovane donna che li aveva accolti alla porta, sposata con un uomo sorridente e silenzioso, e l’altra, una ragazza curiosa, dall’atteggiamento provocatorio e vivace, una fanciulla che doveva avere grossomodo l’età di Blake. Infine, vi era l’unica e giovanissima figlia di Julia e Jeremy, la piccola e dolce Maila. Dovevano essere una famiglia numerosa, poiché il ragazzo aveva compreso che Julia e la sua giovane sorella Sibyl, non erano figlie degli zii di Selma che si trovavano lì con loro, Cam e Anya, nonostante l’età avanzata della coppia e i loro atteggiamenti materni e paterni facessero pensare di sì.
Dunque, dovevano essere figlie di un ulteriore fratello o sorella non presenti. Cam e Anya sembravano non avere figli, dei genitori di Julia e Sybil non vi era traccia, così come di quelli di Selma, colei che era scappata di casa da ragazza.
Non sapeva altro, per il momento, ma vi era qualcosa di strano in quella situazione.
Di nuovo, il suo sesto senso ebbe la meglio.
Il peggio era che non riusciva a capire se Ephram sapesse qualcosa in più che anch’egli avrebbe dovuto sapere e che avrebbe a breve scoperto, o se stesse solo facendo buon viso a cattivo gioco.
Ad ogni modo, quelle persone erano tra le più ospitali che Blake avesse mai conosciuto. Non che ne avesse conosciute molte, dato che era stato precedentemente ospitato solo dalla sfortunata Selen, e anche lei traboccava di spirito ospitale.
Si chiese se anche loro, a Bliaint, sembrassero tanto ospitali, dall’esterno.
Probabilmente no, considerata la loro fama.
Eppure, quando padre Craig era giunto a casa sua, a Blake sembrò di esser stato sin troppo ospitale nei suoi confronti.
Il chiacchiericcio della tavolata lo riscosse dal pensiero del prete straniero.
- Oh, Selma, avresti potuto dirci che stavi tornando, cara! – esclamò per la decima volta la dolce Anya, con la sua vocina stridula e un vassoio di verdure tra le mani, pronto per essere posto nella tavola insieme a tutte le altre deliziose pietanze.
- Non ne ho avuto modo, zia Anya. Questa tappa non era in programma. Difatti, resteremo qui solo fino a dopo domani, il necessario per riprendere le forze e ripartire.
- A cosa è dovuto questo viaggio che avete intrapreso? – domandò Julia.
- Si è trattato di una scelta improvvisa. Io e Blake siamo voluti partire senza pensare …
- Giusto, Blake – Selma venne interrotta dallo zio Cam, il quale voltò i suoi occhi gioviali verso il succitato, seduto accanto alla nipote. – Cosa vi è successo alla voce?
- Probabilmente avrà a che fare con la fasciatura che ha al collo, Cam – suppose zia Anya.
- Prima di giungere qui ci siamo fermati in un villaggio che non … ci ha accolti bene come ci aspettavamo - liquidò Selma. Blake non aveva mai visto la donna accanto a lui tanto turbata come in quel momento.
Lei che solitamente sembrava così sicura di sé, con la risposta sempre pronta, le doti persuasive dietro l’angolo pronte a colpire con scaltre bugie e discorsi incantatori, consapevole delle proprie armi e pronta ad usarle. Ora, invece, tutta la sua scaltrezza e la sua vanità erano soppiantate da una maschera di finta lietezza, contaminata ad un evidente disagio, nonostante le premure con le quali l’aveva riaccolta la sua famiglia.
Blake se ne accorse ancor di più quando fece virare gli occhi alla sua sinistra, per guardarla.
Egli non era sicuro che la propria famiglia l’avrebbe riaccolto così calorosamente se avesse deciso di non fare più ritorno a Bliaint. Molto probabilmente no. Eppure … perché lei sembrava così scossa?
Quelle domande dentro la mente non lo fecero accorgere che, in seguito alle parole di Selma, fosse calato il silenzio, il quale venne spezzato dalla voce preoccupata di zia Anya. – Oh, povero ragazzo … che cosa vi hanno fatto?
- Qualsiasi erbe medicinali vi servano, sappiate che ne abbiamo a bizzeffe, potete usufruirne quanto volete - commentò Jeremy, imboccando la piccola Maila, la quale sembrava un po’ troppo grande per venire ancora imboccata come una poppante.
- E voi, Ephram, non siete partito con loro? – domandò Julia.
- Io ho deciso di unirmi a loro dopo, raggiungendoli in un secondo momento – rispose Ephram sorridendo cordiale.
- Dunque, diteci … Blake e Ephram – intervenne la briosa Sybil ponendo le braccia sottili sul tavolo, incrociandole tra loro, sporgendosi col volto sorridente e curioso. – Com’è questo famoso Bliaint di cui tanto si parla e da cui provenite, e per il quale la nostra Selma ci ha lasciati, decidendo di stabilircisi rinnegando la sua terra natale? – domandò melliflua e tagliente. – Deve essere spettacolare per esercitare un tale fascino su nostra cugina.
- Ci sono parecchie storie e leggende che girano su quel villaggio – commentò anche Julia, aiutando sua zia ad imbandire la tavola.
- Non che crediamo siano tutte vere, ovviamente. Raccontaci qualcosa, Selma, della tua vita a Bliaint! – la spronò zio Cam. – Si dice persino che gli esseri immondi che servono il Creatore si divertano e provino piacere nel bruciare al rogo donne, uomini e bambini senza distinzioni, appartenenti alla metà di bell’aspetto del villaggio.
A quelle parole, Ephram non poté fare a meno di sorridere e ghignare, mentre finiva di ingoiare il boccone che stava masticando.  – Direi che tali voci non si allontanino di molto dalla realtà – commentò lo stregone, non riuscendo a trattenersi.
- Si dice anche che tutti i servitori del Diavolo a Bliaint siano streghe e stregoni – intervenne nuovamente Sybil, portandosi il bicchiere alla bocca. – È così? Insegnate ai bambini a praticare le arti occulte sin da piccoli?
- Sappiate che qui, ad ogni modo, non trattiamo in maniera tanto barbara coloro che praticano la magia, come fanno in altri villaggi! – si premurò di rassicurarli Julia.
- Voi due lo siete? Siete stregoni come Selma? – continuò Sybil.
- Ephram lo è, mentre Blake … - si bloccò Selma, volgendo gli occhi verso il ragazzo accanto a lei, accennando un lieve sorriso incerto. - … non saprei davvero come definirlo, se non …
- Alchimista. Il nostro giovane Blake è un alchimista – terminò la frase per lei Ephram, con una saccenza immotivata che fece saltare i nervi al succitato.
Quella storia sarebbe dovuta finire, prima o poi.
Apparentemente soddisfatta delle risposte date alle sue domande, Sybil si acquietò, poggiando la schiena allo schienale della sedia, ma continuando ad osservare i due.
- Ed ora… ecco il piatto principale della cena – esultò zia Anya facendosi avanti con un vassoio colmo di un’invitante e ben condita tagliata di carne, la quale emanava un odore quasi ipnotizzante per quanto buono.
Blake si chiese che tipo di carne fosse, mentre questa veniva servita nei piatti.
- Il piatto principale di ogni cena da circa una luna … - si lamentò Sybil.
- Oh avanti, Sybil, non fare la bambina. La carne si conserva egregiamente grazie alle rigidissime temperature del nostro inverno. La neve fa rimanere il suo sapore sempre appetitoso e la consistenza morbida alla cottura - la riprese Julia.
Dunque doveva essere un grosso animale, pensò il ragazzo, mentre gli veniva posto dinnanzi agli occhi di zaffiro il piatto riempito di due grossi pezzi di carne, conditi con numerose spezie.
Tagliò la carne e ne assaggiò un pezzo, percependo la lingua venire avvolta da una prelibatezza senza precedenti.
Di certo non era come la lepre che aveva mangiato il giorno prima.
Quella carne era talmente buona che fu in grado di provocargli quasi assuefazione, spingendolo a mangiarne ancora e ancora.
Mentre Blake e Ephram gustavano il loro piatto con tanto deliziato vigore, zia Anya e zio Cam sorrisero.
- Vedo che apprezzate la nostra specialità. Ne siamo lieti – dissero, per poi posare lo sguardo su Selma.
Il loro sorriso si spense non appena notarono gli occhi sgranati e incerti, la presa sulla forchetta traballante della nipote, la quale non sembrava intenzionata ad assaggiare neanche un pezzo della tagliata nel suo piatto.
- Avanti, cara, assaggia. Sai che ogni volta ha un sapore differente – la incoraggiò zia Anya, facendola irrigidire ancora di più, una reazione che venne notata da Blake e da Ephram.
Sybil cominciò a mangiare annoiatamente, prendendo ad osservare Selma a sua volta.
- Quando metti su quella strana smorfia che non si addice affatto ad una donna della tua età mi ricordi moltissimo il mio caro Derick – commentò Anya.
A quelle parole, Selma gelò sul posto, alzando immediatamente gli occhi sgranati su sua zia. – Derick …?
- Derick, sì. Mio figlio. Abbiamo avuto un altro figlio diversi anni fa. Tu te ne eri già andata da un po’ - rispose, per poi continuare. – Ora che ci penso, Derick somigliava moltissimo a tuo fratello Islay. Era quasi identico a lui nelle movenze e negli atteggiamenti.
In seguito a quelle parole, Selma si alzò con violenza dalla tavola, quasi come se dovesse scaraventare il tavolo a terra da un momento all’altro. Senza dire nulla, si diresse a passo di marcia verso quella che doveva essere la sua vecchia stanza, richiudendosi la porta dietro le spalle senza aver toccato cibo.
L’unica cosa che Blake riuscì a comprendere da quelle poche informazioni casuali che aveva dato Anya parlandone al passato, il figlio di quest’ultima doveva essere morto.
- Vostro figlio, Derick, dunque … è morto? – chiese conferma Ephram.
- Sì, sfortunatamente. Aveva dieci anni.
- Quando è accaduto?
- Circa una luna fa.
- Oh, mi dispiace molto.
- Oh, non angustiatevi per questo, caro. Siamo tutti dispiaciuti per la sua scomparsa, ma stiamo cercando di andare avanti.
Andare avanti …?
Nella mente di Blake parecchie informazioni stavano cominciando ad incastrarsi tra loro inconsciamente.
Come sarebbero potuti andare avanti dopo la morte di un figlio avvenuta solo un mese prima…?
- Selma si è solo intristita ripensando a suo fratello – intervenne Cam, andando lentamente a completare il mosaico del ragazzo. – Anche Islay, il fratello di Selma, è morto, ma è accaduto molti anni fa, prima che lei se ne andasse. Ancora non riesce a superarlo, ahimè.
Blake cominciò a capire, sbiancando.
Tutte le persone assenti a quel tavolo dovevano essere morte prematuramente: i genitori di Julia e Sybil, i genitori di Selma, il fratello di Selma, il figlio di Anya e Cam.
Derick era morto un mese prima, Sybil aveva detto che stavano mangiando sempre carne da un mese intero.
Blake tossì, tossì portandosi la mano alla gola, avvertendo nella bocca ancora il sapore della carne squisita da poco ingerita, ora divenuto improvvisamente nauseante, nonostante avesse smesso di mangiare da un pezzo.
Catapultò gli occhi nuovamente sulla carne avanzata nel suo piatto, provando un’irrefrenabile esigenza di infilarsi due dita in gola e rigettare tutto ciò che aveva mangiato.
Quando rialzò gli occhi stralunati dinnanzi a sé, trovò il viso di Cam che lo stava osservando, comprendendo che avesse capito. – Sì, è quello che state pensando, ragazzo mio: è la carne di nostro figlio quella che vi siete appena gustati.
 
La giovanissima Selma agitò l’infuso d’amore che aveva appena preparato, sperando tra sé di aver reperito tutte le giuste componenti.
Prima di allora, tutti gli intrugli che aveva preparato non erano serviti allo scopo.
Tutto ciò che aveva letto lo aveva imparato dal libro di medicina di sua madre.
Tuttavia, la fanciulla sapeva bene che l’arte medica non era esattamente come quella magica.
Vi erano delle sostanziali differenze che era decisa a scoprire.
Quella era la terza commissione che aveva ricevuto in sei lune, da parte di un ragazzo di tre anni più grande di lei. Egli le aveva chiesto un filtro d’amore. Un filtro d’amore per far innamorare la fanciulla che amava di lui, per essere ricambiato.
La ragazza sembrava non mostrare il minimo interesse per lui, perciò il lavoro sarebbe stato il triplo più arduo, pensò Selma, agitando con maggior vigore la boccetta: se il filtro avesse funzionato, era fatta. Sarebbe stata sulla buona strada per diventare una negromante.
Sorrideva mentre pensava a tutto ciò, ai risultati che avrebbe ottenuto.
All’improvviso, due mani dal profumo che conosceva sin troppo bene, le coprirono gli occhi giocosamente.
- Indovina chi sono? – le chiese la voce furba e più adulta di sua sorella.
- Non potresti lasciarmi tregua almeno oggi, Fie?? – si lamentò la fanciullina, divincolandosi dalla presa della sorella più grande, la quale, non soddisfatta, le avvolse il petto ancora piatto con le sue braccia soffocanti, sporgendo il volto dalla sua spalla per osservare ciò che stesse facendo. – Che c’è in quella boccetta? Non dirmi che si tratta di uno dei tanti filtri di tentativi falliti che stai collezionando, Selly.
Selma odiava quando Fie la chiamava così. Lo odiava meno quando era il fratello a chiamarla in quel modo.
- Ehi, non fare quella faccia, ragazzina! Sono venuta qui per essere la prima a festeggiarti per i tuoi undici anni appena compiuti! – si lamentò Fie, rendendosi ancor più odiosa di proposito.
Adorava stuzzicarla.
- Non dovresti aiutare la mamma e la zia Anya con i preparativi per i festeggiamenti? – cercò di scacciarla Selma senza successo.
- No, preferisco restare qui con te. E poi oggi la mamma è strana. Allora?? Vuoi rispondere alla mia domanda??
- Sì, è un filtro d’amore questa volta.
- Cosa??? Un filtro … d’amore?! – esclamò la ragazza ridendo divertita, facendola innervosire ancor di più.
Non vi era mai una volta che Fie credesse minimamente in lei, anzi. Sembrava esultare per i suoi fallimenti.
- E per chi sarebbe questo fantasmagorico filtro d’amore? Una giovane ninfa ha per caso accecato e sedotto con la sua bellezza un povero giovane garzone??
- Più o meno.
- Quindi si tratta davvero di un ragazzo che vuole conquistare una ragazza? E non vuoi dirmi di chi si tratta, vero?
- Potresti lasciarmi finire, Fie? Per favore, almeno il giorno in cui compio undici anni dovrei avere il diritto di essere lasciata …
La piccola Selma non fece in tempo a terminare la frase, che Fie, con un leggiadro e fintamente distratto gesto della mano colpì la boccetta, facendola cadere a terra e rompere in mille pezzi.
- Ops … non sai quanto mi dispiace. Ad ogni modo, tanto non avrebbe comunque funzionato – disse sorridendo, cominciando a correre via.
- Faresti meglio a correre … a correre più veloce che puoi, Fie, perché se ti prendo … se ti prendo ti uccido e ti strappo tutti quei bei capelli uno per uno!!! – esclamò la piccola Selma cominciando a correre per le scale a perdifiato, inseguendo la sorella dispettosa.
Fie, per correre più velocemente, tenne la stoffa della sottana alzata con le mani, mentre sfrecciava come il vento, spalancando la porta di casa e avventurandosi all’esterno, schiantandosi con il freddo mattutino.
Non appena individuò il fratello impegnato ad allenarsi nell’arte della spada con un bastone, si fiondò su di lui, nascondendosi dietro il suo corpo. – Islay!! Islay, quel demonio di Selma mi sta inseguendo, proteggimi!! - esclamò divertita, usando il corpo del fratello, ancora confuso, come scudo.
Quando Selma li raggiunse, guardò la sorella in cagnesco, avvicinandosi lentamente, mentre questa le rivolgeva una smorfia, stringendo le spalle di Islay e alzandosi sulle punte per riuscire a sporgersi dalla spalla di lui per guardarla. D’altronde, nonostante Islay forse il fratello di mezzo e Fie fosse la prima, dunque la più grande dei tre, egli era comunque più alto di lei.
- Selly? Che è successo tra voi due? – chiese confuso il ragazzo, rivolgendo uno sguardo di rimprovero ad entrambe, oramai abituato alle dispute e ai battibecchi delle sorelle.
Egli, ad ogni modo, era il più responsabile dei tre. Non a caso, sarebbe presto diventato un guerriero, unendosi alle truppe dei cavalieri. Si stava allenando da anni per diventarlo, e nonostante avesse solo quattordici anni e fosse ancora poco più che un fanciullo, aveva già mostrato delle doti da combattente molto promettenti.
Tutto ciò si sarebbe realizzato sempre se loro tre fossero riusciti a sopravvivere a quello che li aspettava.
A quello che spettava a tutti i figli delle famiglie del loro villaggio.
Ogni genitore era riuscito a diventare tale solo perché aveva vinto la sua personale e sanguinaria battaglia da ragazzino, come avrebbero dovuto fare loro a breve.
Eppure, non sapevano ancora quando, non sapevano quando sarebbe arrivato il giorno.
Solitamente, questo arrivava quando il figlio più piccolo compiva dieci anni.
Eppure, Selma, che era l’ultima nata dal ventre di sua madre, aveva compiuto dieci anni un anno prima e non era successo nulla.
E quel giorno ne compiva undici. E ancora nulla era accaduto.
I tre sapevano di dover restare sempre all’erta, era il destino che toccava a tutte le nuove generazioni di Morag. Eppure, finché non accadeva nulla, sentivano di poter stare tranquilli.
I loro sogni erano ancora perfettamente intatti nelle loro menti: Islay sarebbe diventato un cavaliere, Selma sarebbe diventata una negromante, Fie sarebbe divenuta sarta … se solo avessero uccisero la loro madre, quando sarebbe arrivato il momento tanto temuto.
Era una lotta all’ultimo sangue: o loro o la donna che li aveva cresciuti. O i figli o i genitori, sarebbero stati le vittime. Non potevano continuare a vivere entrambi. Non a Morag.
Così era la tradizione e a questo tutti loro dovevano la prosperità e la buona sorte del loro villaggio. Se ciò non fosse avvenuto e la catena si fosse spezzata, anche se solo per una delle famiglie, una maledizione sarebbe piombata sul loro villaggio, non risparmiando nessuno.
Chiunque fossero stati i vincitori di quella tremenda lotta, che fossero stati i figli o i genitori, questi avrebbero dovuto mangiare la carne dei perdenti, per completare il rito.
Così era accaduto ai loro cugini Harin e Jean, i figli di zia Anya e zio Cam, i quali erano stati mangiati da tutti loro un anno prima, dopo essere stati uccisi dai loro genitori. Harin e Jean avevano perso la loro battaglia, non erano stati pronti. Selma ricordava la loro carne come buonissima, la più squisita che avesse mai mangiato, nulla a che vedere con la carne degli animali. Selma era affezionata ai suoi cugini grandi, e l’idea di non poterli più vedere e di non essere più circondata da loro la intristiva, eppure era comunque riuscita a mangiare le loro carni, così come vi erano riusciti tutti.
Presto, dopo di loro, sarebbe toccato anche alle sue cugine più piccole, Julia e Sybil, le figlie della zia Blair e dello zio Arran. Chissà, in quel caso, chi avrebbe vinto.
Chissà, nel loro caso, nel caso della sua famiglia, dei suoi fratelli e sua madre, chi avrebbe trionfato.
Sapeva che i figli non vincevano quasi mai a causa della giovanissima età, venivano uccisi dai genitori nella maggior parte dei casi. Era quello che era accaduto ad Harin e a Jean, d’altronde.
Eppure, Selma ci sperava, sperava realmente che lei e i suoi fratelli avrebbero vinto, riuscendo ad assassinare la mamma, prima che lei facesse lo stesso con loro.
Sua madre era sempre stata attenta e premurosa con loro, in ogni circostanza.
Sua madre li amava e loro amavano lei.
Eppure … eppure, da un momento in particolare, i figli smettevano di essere figli e i genitori di essere genitori.
Poiché non potevano vivere figli e genitori insieme, era sbagliato, dannoso.
Da un momento in particolare, doveva prevalere o la nuova generazione, o la vecchia.
- Lasciamela prendere, Islay! Lasciami mettere le mani su di lei e le staccherò braccia e gambe! – esclamò furiosa la piccola Selma, affondando le scarpette nel fango con astio, avvicinandosi al fratello e alla sorella.
- Proprio per questo motivo non posso permetterti di avvicinarti a lei – la ammonì Islay sfoderando uno degli sguardi più persuasivi e convincenti del suo repertorio, riuscendo parzialmente nel tentativo di farla calmare.
Selma abbassò la testa, per poi puntare il dito su Fie, che se la rideva dietro il fratello. – Lei mi ha rovinato la vita!
- Oh, non esagerare ora! – esclamò la ragazza rivelandosi e scostandosi lievemente dal fratello.
- Lui non può proteggerti sempre!
- Oh, se è per questo lui non potrà proteggere sempre neanche te!
- Ehi – richiamò l’attenzione delle due il ragazzo. – Si dà il caso che io sia ancora qui. Si può sapere perché dovete sempre accapigliarvi?? Se non ci sono io a dividervi finite sempre per bisticciare come due belve feroci - si lamentò egli.
- Beh, Islay, ma tu sei venuto al mondo proprio per questo – lo informò con finta innocenza Fie, alzandogli il mento con un dito. – Sei nato per evitare che ci uccidiamo. Sei nato per portare la pace!
- Beh, si dà il caso che, ben presto, lui non sarà più qui con noi e ciò che andrà a fare non sarà di certo portare la pace, ma tutt’altro – commentò Selma, non riuscendo a nascondere la tristezza e la frustrazione, abbassando lo sguardo ora incupito.
- Ehi – la richiamò Islay avvicinandosi maggiormente a lei e abbassandosi lievemente per arrivare con il viso alla sua altezza. – Cercherò di portarla comunque, la pace, anche se prima dovrò combattere per ottenerla. Per questo motivo voglio entrare a far parte dell’esercito.
- Se diventerai cavaliere, non ti vedremo quasi mai – si lamentò la piccola.
- Ci scriveremo un sacco di lettere e sarà come se fossi qui. E poi, non sei tu stessa ad aver detto che il tuo desiderio è quello di viaggiare e di visitare terre lontane? – le chiese lui, rivolgendole quel sorriso che era sempre in grado di scioglierla un po’. – Le nostre strade si sarebbero divise in ogni caso. La crescita è anche questo, non credi, sorellina? Ma ci saremo sempre l’uno per l’altra – le disse carezzandole dolcemente una guancia, per poi volgere gli occhi anche verso Fie, rimasta indietro e apparentemente disinteressata alla loro conversazione. – E anche se nostra sorella finge che non le importi, vedrai che anche lei ci sarà sempre per noi, per me e per te. Perché è la più grande e sotto sotto, so che ha una gran voglia di prendersi cura di noi. Vero, Fie?? – le domandò provocatorio, vedendola rivolgergli un ghigno sornione.
Fie e Islay si somigliavano d’aspetto più di quanto Selma somigliasse loro. E ciò le dava un po’ fastidio.
Loro due avevano preso dal loro defunto padre, morto per malattia poco dopo la nascita di Selma, mentre quest’ultima era colei che somigliava di più alla loro madre, tanto da sembrarne la sosia in miniatura.
- Rimane il fatto che voglio ucciderla! – esclamò Selma sentendo rimontarle la rabbia dentro, avventandosi con uno scatto su sua sorella lontana qualche passo da lei, venendo riacciuffata da Islay giusto in tempo, il quale la trattenne per il busto, mentre la fanciullina si dimenava tra le sue braccia, sporgendosi verso Fie.
Prima che i tre potessero rendersene conto, troppo impegnati a ridere, la mamma li raggiunse in silenzio, con il suo solito passo silente e tranquillo come quello di un gatto.
Sarah, questo era il nome della donna che li aveva messi al mondo e cresciuti con ogni cura, si avvicinò a loro a testa bassa e una mano dietro la schiena.
I suoi capelli neri le coprivano in parte il viso, le lunghe ciocche le circondavano le guance, la frangia formava un’ombra sui suoi occhi svuotati, lucidi, quasi irriconoscibili.
- Mamma? – Fie fu la prima ad accorgersi di lei, tra un riso e l’altro, facendo voltare anche i suoi fratelli verso la donna, la quale, oramai, era distante solo qualche passo da loro.
Il freddo esterno li avvolse di nuovo, in una folata silenziosa, mentre, pian piano, i tre si zittirono, accorgendosi dell’atmosfera tesa e pesante formatasi all’arrivo della madre.
Islay fu il primo a realizzare.
Selma aveva gli occhi fissi sul viso del fratello, quando vide i suoi lineamenti dolci cambiare totalmente, assumendo una forma differente, mortalmente seria, ma per nulla sorpresa o delusa, pregna di determinata consapevolezza.
In quel momento pensò, per l’ennesima volta, che fosse proprio adatto a diventare cavaliere, e ad infondere coraggio e speranza nelle persone.
Islay, con la sua presa salda ancora su di lei, la posò a terra, spostandola dietro di lui, prendendo posto davanti a lei e a Fie, proprio come un vero scudo inamovibile.
Indietreggiò, tenendole sempre dietro di sè.
Dal canto suo, Fie, avendo preso coscienza a sua volta che il momento fosse giunto, si strinse alla sua sorellina, restando dietro al fratello, facendo scontrare il corpicino acerbo di Selma al proprio più procace, in un primordiale istinto protettivo che raramente le aveva mostrato.
Selma alzò il volto verso Fie, vedendola indicibilmente seria mentre la stringeva a sé e teneva gli occhi scuri fissi su sua madre. Anche Selma fece virare gli occhi sulla madre, a sua volta.
Dove era finita la donna con lo sguardo dolce, amorevole e di rimprovero? Dove era finita la mamma che la cullava e le rimboccava le coperte ogni notte di pioggia, restando con lei fin quando non riusciva ad addormentarsi?
Sarah era una statua di marmo, mentre si muoveva a passi lenti, calibrati e artificiosi verso di loro.
Le sue labbra sottili tremavano, mentre l’aria e le parole uscivano da esse. – Sapevate che il momento sarebbe arrivato, angeli miei … - sussurrò balbettando, rivelando finalmente ciò che nascondeva dietro la schiena: un grosso coltello da cucina. – Avete visto cosa è successo ad Harin e a Jean … avete visto cosa è successo ai vostri amici … sapete com’è la tradizione … o me o voi … ve ne ho già parlato.
- Lo sappiamo – rispose con sicurezza Islay, indietreggiando ancora, facendo indietreggiare anche le sorelle.
- Mi dispiace … mi dispiace tanto. Ma non posso esimermi. Mi perdonerete …?
Senza ascoltarla, Islay voltò di poco il viso verso le sue sorelle, sibilando loro con determinazione di ferro. - Qualsiasi cosa accada …
- Mi perdonerete … per quello che sto per fare?
- Qualsiasi cosa accada … restate sempre dietro di me.
- Mi perdonerete, angeli miei…?
- Va tutto bene, Selly. Resta stretta a me. Resta vicino a me, Selly, e andrà tutto bene – le disse Fie, stringendola ancora.
- Restate dietro di me … - ripeté Islay con calma.
Erano diventati un muro. Loro tre erano diventati un muro inespugnabile contro di lei, uniti, saldi, senza nessuna intenzione di arrendersi.
- Mi perdonerete …?
Quelle parole risuonarono nella mente di Selma improvvisamente, facendola risvegliare di scatto dal suo breve e tormentato sonno, disturbato dalla tempesta di tremendi ricordi piombati su di lei come sciabole, da quando aveva rimesso piede nella sua terra natale, dopo tutti quegli anni di lontananza.
Rivarcare quel terreno, quella casa, sede di così tanti preziosi momenti che conservava nella sua memoria … contaminati da ciò che le aveva cambiato la vita per sempre.
Quanto aveva vissuto dopo di loro? Quanto tempo aveva vissuto senza il sorriso rassicurante di Islay, senza il ghigno strafottente di Fie? Senza la voce melodiosa di sua madre?
Si asciugò le lacrime che le avevano bagnato gli occhi inevitabilmente dopo quel sonno.
Julia era passata poco prima che si addormentasse, poco dopo la cena, con la speranza di parlare con lei, ma non era riuscita a permetterle di entrare e ad aprirsi.
Aveva sempre avuto un buon rapporto con Julia e con Sybil, ed era stata felice di scoprire che almeno loro fossero riuscite a trionfare sui loro genitori e ad avere salva la vita.
Le erano mancate molto anche loro e le era dispiaciuto lasciarle, al tempo.
Ora che aveva dormito, per quanto il suo sonno non fosse stato leggero, né tantomeno rigenerante, era riuscita a calmarsi, in seguito alla scenata che aveva fatto dinnanzi alla carne arrostita di un nuovo cugino che non sapeva di avere, e al solo sentir ripronunciare il nome del suo amato fratello.
Tuttavia, aveva bisogno di vedere meno persone possibili finché sarebbero rimasti lì.
Sapeva che zia Anya e zio Cam l’avrebbero convinta a trattenersi qualche giorno in più, poiché non la vedevano da troppo tempo, e, inoltre, erano esaltati dalla presenza dei suoi ospiti, incuriositi e affascinati dai due abitanti di Bliaint.
E poi … non vi era più nulla da temere, oramai. Ciò che dovevano fare lo avevano già fatto, anni addietro. Ora vi era solo un’atmosfera di pace e serenità tra loro.
Islay, Sarah, Harin, Jean, Derick, Blair e Arran non c’erano più. Il destino aveva voluto così, decretandoli perdenti.
Loro, invece, c’erano ancora, e avrebbero dovuto e voluto recuperare il tempo perso.
Selma si rammaricò per aver dovuto inconsapevolmente costringere Blake e Ephram a vivere una situazione come quella.
Quella tappa non era realmente prevista nel loro programma inziale del viaggio che li avrebbe condotti all’uomo che custodiva il segreto della polvere nera, se solo non fossero dovuti scappare via da Carbrey in fretta e furia.
Eppure ora loro erano lì, e se Ephram conosceva un minimo di ciò che ella aveva dovuto subire nella sua giovane età; per Blake, d’altro canto, era tutto completamente nuovo e aberrante.
Qualcuno bussò improvvisamente alla sua porta, facendola trasalire.
Parlando del Diavolo.
Selma capì si trattasse di lui nel momento in cui chiese chi fosse e non ricevette risposta, così gli diede il permesso di aprire.
Blake fece capolino dalla porta, rivolgendole uno sguardo che sembrava quasi velato da una sorta di strana preoccupazione, assolutamente non da lui, considerando il loro rapporto teso, diventato ancor più gelido da quando erano fuggiti da Carbrey.
Ciò fece riscaldare un po’ il cuore della donna, la quale lo vide porgerle un biglietto.
Ella si alzò dal letto, lo prese e lo lesse. – “Ti va di parlare?”
Selma alzò il volto sul ragazzo e si sforzò di accennargli un sorriso. – Non ora, Blake. Ora sono stanca, vorrei riposare – gli disse, risedendosi sul suo giaciglio, vedendo il ragazzo accontentarla, uscendo e richiudendosi la porta alle spalle.
Tante domande vorticavano nella testa del ragazzo in quel momento.
Non aveva mai sentito parlare di quel villaggio e non sapeva nulla riguardo le loro usanze, eccetto il fatto che usassero mangiare le carni dei propri figli come se si trattasse di animali qualsiasi.
Riprese a camminare per il corridoio, diretto verso la camera che avevano preparato per lui, scontrandosi nel tragitto, con un esserino alto fino al suo ginocchio.
Blake si arrestò e abbassò lo sguardo verso terra, notando la piccola Maila che sventolava la testa di qua e di là, massaggiandosi il nasino che aveva sbattuto contro la gamba del ragazzo.
La bambina alzò lo sguardo a sua volta verso di lui, fissando i suoi tondi occhi grigi sui suoi celesti.
Blake le accennò un sorriso che la piccola ricambiò spontaneamente.
A quanto sembrava al ragazzo, Maila non sapeva parlare. Era strano per una bambina di quattro anni non saper ancora parlare.
- È nata speciale – riscosse la sua attenzione la voce esuberante della giovane cugina di Selma, avvicinandosi a lui. Sybil sorrideva come sempre, con quella smorfia sensuale e sicura di sé sul viso, mentre abbassava lo sguardo sulla sua nipotina. – Va’ a letto, Maila. Si è fatto tardi.
A ciò, la piccola obbedì, prendendo a correre verso la camera dei suoi genitori.
- Gli indovini dicono che gli dèi hanno voluto punirla, per un peccato commesso in passato dai suoi antenati. Eppure, i nostri antenati hanno sempre seguito fermamente le regole – spiegò la ragazza con un pizzico di evidente amarezza nella voce. – Il suo danno non è nel corpo, ma nella mente. Non si sviluppa e non cresce come una bambina normale. Non mangia da sola, non fa i suoi bisogni di sola, non parla, si esprime solo a gesti, piange spesso come una neonata e deve essere accudita praticamente in tutto. In più, non riesce a fare due cose contemporaneamente. Non riesce a guardarti e, al contempo, ad ascoltarti se le parli. È nata così. È nata mancante. Eppure, posso garantirti che è dolcissima – terminò Sybil riportando lo sguardo interessato su di lui e avvicinandosi lentamente, puntando i suoi occhi languidi e provocatori dritti nei suoi, mentre, con voce eloquente, gli sussurrò: - Se mi lasci entrare in camera con te, ti racconterò tutto ciò che vuoi sapere.
 
 Il ragazzino si stese sul letto vicino a sua sorella, la quale aveva il volto stanco e spossato rivolto verso il soffitto.
Maringlen fece toccare il suo naso con la guancia di Maroine, avvolgendole il braccio intorno al busto per avvolgerla delicatamente, facendole sentire il proprio respiro sulla pelle.
- Sono qui, Ira. Sono qui con te … - le sussurrò.
La ragazzina accennò un sorriso malinconico in risposta, continuando a fissare il soffitto. – Non essere triste per me, Ira. Starai bene senza di me.
- Non ti azzardare a dirlo – la ammonì lui. – Guarirai presto.
- Sento le forze uscire dal mio corpo …
- Guarirai. Troverò una cura. Padre Cliamon e Judith troveranno una cura. Starai bene, te lo prometto.
- Non puoi fare promesse del genere, fratello mio – sibilò ella sorridendo ancora, posando debolmente una mano sulla sua guancia. – Solo il Signore può fare queste promesse. Dovresti pregare, pregare come fanno gli altri.
Vi fu una breve pausa, nuovamente spezzata dalla ragazzina. – Infondo … è stato bello. La mia vita con te è stata bella. Mi sono sempre divertita … con te. Solo grazie a te … sono qui solo grazie a te.
- Maroine, zitto, non parlare. Non voglio sentirti dire altro.
La ragazzina voltò il volto verso di lui, facendo scontrare i loro nasi, fissandolo negli occhi. - Piccola cicatrice sulla fronte, scheggia verde dentro l’iride e voglia bianca sul collo – esalò, facendo immediatamente sorridere l’altro, che ricambiò come di rito.
- Poche lentiggini sul naso, due nei sulla guancia, bocca di pesce e … - si bloccò, osservando il suo viso più attentamente. - … una cicatrice sul mento.
- Vedi? Ora abbiamo qualcosa in più che ci differenzia – disse la ragazzina. – Devi promettermi una cosa, Maringlen.
- Non ti prometto nulla.
- Ti odio quando fai così.
- Anche io.
- Maringlen … - lo richiamò, vedendolo distogliere lo sguardo da lei, per puntarlo lui sul soffitto, questa volta.
- Una stupida febbre non ti porterà via da me.
- Se dovessi restare solo … farai tutto quello che avresti fatto come se io fossi ancora con te. Vivrai una lunga vita, bella e avvincente. E parlerai agli altri di me come tuo fratello, non come tua sorella. Voglio che ascolti padre Cliamon e che te ne vai via di qui, il più presto possibile, per andare in quei bei posti di cui ci parla. E poi … per ultima cosa, voglio che un giorno smetterai di pensare a me. Perché io sarò in te, ogni volta che ti guarderai allo specchio. Non servirà più il mio ricordo.
Maringlen si voltò verso di lei, facendo scontrare ancora i loro nasi. – Dormi, fratello mio. Riposa, e quando ti sveglierai, sarai un passo più vicino alla guarigione.
Non importa cosa dovrò fare, lo farò.
Farò qualsiasi cosa.
 
Judith, seduta sul giaciglio della sua camera, sorvegliata esternamente da due streghe per non permetterle di uscire, osservava il candelabro che aveva creato con le sue mani, arredato con pietre e perle delle più varie combinazioni. Allungò la mano, passando le lunghe e sottili dita sopra le fiammelle, sentendo il calore irradiarsi sui polpastrelli.
Improvvisamente, la porta della sua stanza si aprì, rivelando la figura della strega dalla pelle color carbone, la quale si avvicinò lentamente a lei.
- Non siete solita bussare? – le domandò atona, vedendola sedersi accanto a lei.
Myriam, senza dire nulla, tirò fuori una boccetta di vetro dalla tasca del suo abito, porgendogliela.
Questa conteneva un liquido trasparente come l’acqua limpida.
Judith la prese con sguardo interrogativo.
- Sapete sin troppo bene cosa comporterebbe la nascita di questo bambino per il villaggio.
Il primo bambino nato da un’unione mista.
Non vi sarebbe una sola persona a Bliaint a non volerlo morto.
Inoltre … voi non lo volete. Avete cambiato idea a riguardo?
Judith deglutì, senza rispondere.
- Bene, vedo che avete già compreso – riprese Myriam. – Bevetela. Sarà indolore e insapore. La vita che cresce nel vostro ventre se ne andrà senza lasciare traccia, come se non fosse mai esistita.
- Chi mi garantisce che state dicendo la verità?
- Non avrei alcun motivo per avvelenarvi. La vostra presenza mediatrice ci serve e siete un ostaggio prezioso, al momento. Non ho alcun motivo per mentirvi.
- Non avete detto di aver sempre desiderato avere un ventre fertile? Come avete fatto ad ottenere un rimedio per porre fine ad una vita che deve ancora nascere?
- Ho fatto di tutto per rendere il mio ventre più fertile. Ma, per ottenere ciò, ho dovuto imparare anche come estirpare una vita da esso - le disse con semplicità, rialzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta, fermandosi poco prima di andarsene e lasciarla sola, con la boccetta che avrebbe decretato il suo futuro. - Più attenderete per fare ciò che volete fare, più sarà difficile farlo. Se aspetterete troppo, sarà troppo tardi e sarete in pericolo entrambi. Se volete vivere, Judith, e volete che lui muoia, questo è il metodo migliore e più veloce per farlo. Vi sto dando un’opportunità che nessun altro vi darà mai. Non sprecatela – terminò uscendosene dalla stanza.
Judith si rigirò la boccetta tra le mani, aprendola, portandosela lentamente alle labbra.
Combatto continuamente tra la brama di sfiorarti e il desiderio di distruggerti.
Tu, che non ci sei ancora.
Per quale motivo mi angustio tanto…?
Se non sono fatta per essere madre, non lo scoprirò mai.
Una madre è sempre una madre.
Ma una madre è anche sempre una figlia.
Una madre è sempre una donna.
Nessuno mi ha imparato ad esser figlia, nessuno mi ha imparato ad esser donna, ma nessuno mi ha imparato neanche ad esser madre.
C’è un momento in cui … si può scegliere di non essere nessuna delle tre, anima mia?
 

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Capitolo 20
*** Epidemia ***


Epidemia


Il caldo soffocante lo raggiungeva sempre.
Si artigliava alla sua pelle, alle sue ossa, come lava incandescente.
Una lava tossica, velenosa, che puzzava di zolfo, di piombo e di mercurio.
Non era il fuoco che lo spaventava, ma il veleno dentro di esso.
Si era scottato, innumerevoli volte, con il metallo fuso.
Ma mai come in quel momento.
- Blake … - lo richiamava quella voce tremendamente arrochita.
- Blake … - non riusciva più a sentire il suo nome pronunciato da lui.
Lui non avrebbe più dovuto essere in grado di parlare.
Il Giudice, senza più occhi, con la lingua mozzata e due i moncherini in fondo alle braccia, deambulava pesantemente, totalmente ricoperto d’oro: collane, pepite, crocefissi, gioielli di ogni tipo, tutti suoi, proprio come desiderava.
- Dovrei essere felice … che tu mi abbia ricoperto d’oro … proprio come ti ho chiesto … sei stato tremendamente diligente … - esalò nuovamente la voce gracchiante, mentre l’uomo continuava a cercarlo a tentoni. – Dove sei finito, Blake …? Non credi sia il momento che il tuo viaggio maledetto giunga al termine …?
Sentiva di star soffocando, con quella voce a rimbombargli nelle orecchie in lontananza.
Era immerso in qualcosa di pregnante, pesante, nero, vischioso.
Cercò di nuotare immerso dentro quel liquido velenoso, percependo il peso dei massi legati al collo trascinarlo giù, insieme all’asfissiante abbraccio del piombo bollente.
Si liberò dei sassi e risalì in superficie, la vista ostruita dal liquido che gli si era incollato addosso. Si aggrappò ai bordi della superficie con le mani e fece leva per tirarsi su, scivolando fuori, tossendo e sentendosi consumato.
Il Giudice era in piedi dinnanzi a lui, che lo attendeva pazientemente.
- Eccoti qui … - disse, nonostante non riuscisse a vederlo. – Non ti libererai di me, figlio del Demonio.
Non ti libererai mai di me …
D’altronde … sei la mia gallina dalle uova d’oro …
Sarai in grado di darmi tutto ciò che voglio …
Sarai in grado di rendermi il più ricco del mondo …
Il mio alchimista, fatto della stessa sostanza di cui è fatto il metallo …
Attento, Blake, attento …
Fai attenzione a diventare oro e non piombo, quando arriverà il momento … - gracchiò non lasciandogli il tempo di riprendersi, poiché, con solo l’aiuto dei moncherini, gli avvolse una corda d’oro intorno al collo e cominciò a tirare e a tirare sempre più forte, fin quando non gli staccò la testa dal collo.
- Mi hai ingannato. Come è potuto accadere …?
Blake si svegliò di soprassalto facendo scattare il busto in avanti, respirando affannosamente, ritrovandosi, per la terza notte tormentata di fila, dentro al letto della stanza nella casa della famiglia di Selma.
Un corpo caldo si mosse accanto a lui, sotto le coperte pesanti.
Sybil aveva solo una leggera vestaglia addosso, e le uniche fonti in grado di infondere il calore necessario alla sua pelle erano le coperte di lana e il corpo che dormiva accanto a lei, dentro il giaciglio.
Blake la guardò muoversi in dormiveglia, infastidita dalla sua improvvisa lontananza.
La fanciulla aprì gli occhi chiari, sbattendo le palpebre più volte per mettere a fuoco la sua figura, il suo busto eretto e teso come la corda di un’arpa e le sue dita artigliate al lenzuolo sotto di loro.
In quei tre giorni aveva imparato alcuni aspetti della personalità di Sybil.
Ella si infilava nel suo letto ogni notte, approfittando dei piaceri che il corpo del ragazzo era in grado di donarle, piaceri che egli non le negava mai.
E lei era come certa che non glieli avrebbe negati, come se fosse abituata ad ottenere tutto ciò che voleva, a prenderselo senza guardare in faccia nessuno.
Blake era rimasto incuriosito da quell’atteggiamento pretenzioso, quasi prepotente e capriccioso a volte ma, al contempo, contaminato da una tristezza e una necessità di calore sconfinate, date dal suo turbolento vissuto.
E dopo ogni notte passata con lui, a soddisfarsi a vicenda e a dormire avvinghiati sotto le coperte, ella se ne andava da Ephram la mattina, facendo lo stesso con lui, fino all’ora di pranzo.
Se poteva e, soprattutto, voleva averli entrambi, perché privarsene?
Questa era stata la spiegazione di Sybil riguardo il proprio comportamento.
E ad entrambi andava bene, poiché ella era solo uno sfogo temporaneo, un effimero vezzo che sarebbe durato fin quando fossero rimasti in quel luogo maledetto, sempre se non si fossero stufati di lei prima.
Questo lo sapevano Blake ed Ephram, e sembrava saperlo anche Sybil.
Come promesso, ella gli aveva raccontato tutto riguardo le credenze e le usanze del proprio villaggio, non risparmiandosi in dettagli neanche per quanto riguardava la storia della propria famiglia allargata.
Se si stavano trattenendo qualche giorno in più del previsto, la colpa era solo di Selma e delle insistenze dei suoi zii, i quali sembravano intenzionati a recuperare gran parte del tempo perduto con lei.
- Che hai …? Un altro incubo? – gli sussurrò la ragazza, restando a guardarlo con la testa ancora sprofondata nel cuscino.
Blake sospirò e lasciò ricadere la testa all’indietro, cercando di rilassare le membra.
Dopo di che, si voltò verso di lei, la quale gli sorrise subito con uno sguardo lievemente turbato e il volto ancora insonnolito. – Che cosa ti è successo in quel villaggio …? – sussurrò.
Blake appoggiò la schiena alla parete con la quale combaciava il fronte del letto, restando seduto e allungando un braccio per afferrare il libricino sgualcito e il carboncino, abbandonati sopra un piccolo comodino. Strappò un foglio e vi scrisse sopra qualcosa, per poi porgerlo alla ragazza sdraiata accanto a lui.
- “Non mi hai detto in che modo lo avete fatto. In che modo tu e Julia avete ucciso i vostri genitori.” – lesse ella, ripiegando il foglio su se stesso e sistemandosi più comodamente sul cuscino, lo sguardo ora incupito, ma con il pieno controllo di sé. – Julia ha pensato alla mamma. Io ho pensato a nostro padre – rispose con semplicità. – Julia è riuscita a disarmarla per miracolo, facendola cadere per le scale. La mamma ha battuto la testa, svenendo. Julia si è semplicemente assicurata che non si risvegliasse più – fece una pausa prima di riprendere. – Io l’ho attirato dentro la stalla, correndo a perdifiato per scappare da lui. Sono sempre stata molto più veloce di lui a correre. In realtà, sono sempre stata la più veloce di tutti, qui al villaggio – disse accennando un piccolo sorriso pregno di nostalgia. – Quando è entrato nella stalla, io ero già nascosta sotto una montagna di fieno. La mia puledra, quella che lui mi ha dato in dono per imparare a cavalcare, era in calore e io conoscevo bene tutti i metodi per farla imbizzarrire. Ho atteso che lui fosse di spalle e ho agito, liberando il cavallo dalle corde e facendolo scagliare contro mio padre, tramortendolo. Quando fui certa che lui non riuscisse a muoversi e fosse in fin di vita, volevo lasciarlo lì, ma lui mi fermò. Con voce ansimante mi disse che dovevo completare il lavoro, finire ciò che avevo iniziato. A ciò, mi sono sfilata una scarpa e ho cominciato a colpirlo forte in testa, fin quando non ho visto la sua fronte schiacciarsi e del sangue fuoriuscire copioso dalla ferita sopra di essa.
Blake rimase a guardarla assorto, mentre ella gli rivolse i suoi occhi nuovamente, poiché, durante il racconto, era entrata in un calmo stato di trance.
- Sembrerà qualcosa di tremendo alle tue orecchie.
Cause di forza maggiore hanno plasmato il tuo istinto di sopravvivenza. Eri costretta a commettere delle atrocità.
Io che scusa ho, invece?
- A quell’età, i bambini vengono considerati al pari degli adulti nella battaglia per la sopravvivenza. Ed effettivamente, è così. Qualche genitore decide di agire qualche anno prima o qualche anno dopo, a volte. Chi decide di agire prima ha solo voglia di vivere più di quanto gli si imponga e non vuole a nessun costo rischiare di lasciare il posto alla generazione successiva. Sono spinti unicamente dall’egoismo.
Blake scrisse qualcos’altro su un foglio e glielo porse.
- “Non potrebbero, invece, desiderare di porre fine a tutto il prima possibile, prima di affezionarsi troppo ai loro figli, sapendo che, prima o poi, dovranno ucciderli?” – lesse la ragazza, riflettendovi su. – Potrebbe essere. Non l’avevo mai vista sotto quest’ottica, in realtà. Ad ogni modo, coloro che agiscono dopo l’età prevista, invece, come immaginerai, lo fanno perché vorrebbero posticipare il più possibile il momento funesto, e godersi quanto più tempo possibile con i propri figli. È ciò che ha fatto zia Sarah con Fie, Islay e Selma. Ha atteso. Più del previsto.
Ad ogni modo, sono contenta per come sia andata. Alla fine zia Sarah è morta e Selma è ancora qui con noi.
Blake la guardò esprimendogli qualcosa che alla ragazza parve limpido come l’acqua. – Sì, lo so, è morto anche Islay, tuttavia. E hai ragione, la sua vita è stata sacrificata invano. Eppure, non posso fare a meno di essere felice che almeno una delle mie cugine sia di nuovo qui con me, malgrado la morte di Islay e di zia Sarah.
Oramai Sybil aveva imparato a leggere la sua espressività meglio di chiunque altro e a comprenderlo anche senza che egli si esprimesse scrivendo, quasi come se fosse sempre stata in grado di leggerlo.
Blake pensò fosse una dote innata di quella fanciulla, poiché non era possibile fosse riuscita in ciò in soli tre giorni. Sybil accennò un sorriso curioso, alzandosi dal cuscino e avvicinandoglisi maggiormente, segno che volesse cambiare discorso. – Voglio sapere che cosa hai sognato. Voglio sapere cosa invade la tua mente, quando ti agiti ogni notte. Non posso leggertelo negli occhi, questo.
A ciò, Blake l’accontentò, prendendo a scrivere su un foglio.
- Che cosa hai intenzione di fare se la voce non dovesse più tornare? – gli domandò ella, mentre lui continuava a scrivere. – Perdere la voce alla soglia dei diciassette anni sembra una catastrofe, ma non credo sia così grave come appare. Sono certa che impareresti a farne una peculiarità, un dono. E poi, le persone imparerebbero a leggerti gli sguardi, come faccio io – gli disse facendo scorrere le dita sottili sul suo polso, percorrendo tutto il braccio, sino alla spalla.
Blake terminò di scrivere velocemente e porse il foglio alla ragazza, la quale prese a leggere nuovamente.
La calligrafia era chiara e concisa come sempre, alcune parole erano fuori dal gergo che si usava solitamente a Morag, erano più ricercate e inusuali, mentre alcune lettere, con quel tratto elegante e allungato, sembravano quasi voler uscire via dal foglio, sfuggendole.
- “L’uomo che mi ha tenuto prigioniero mi perseguita nel sonno.
La sua avidità, la sua fame mi tormenta.
La mia crudeltà mi perseguita.
Non so neanche io, di cosa ho realmente paura, nel sonno. Se di me, di lui o del metallo.”
Sybil rialzò lo sguardo su di lui. – Non te ne libererai – gli disse schietta. – Dovrai convivere con questo. Lui sarà sempre nella tua mente, a tormentarti. Così come i miei genitori con me e Julia. E zia Sarah con Selma. E Jean, Harin e Derick con zia Anya e zio Cam. Non puoi liberartene, Blake.
“Non è la stessa cosa” le mimò egli in labiale.
- Lo so che non lo è. Non potresti neanche immaginare i tuoi genitori che cercano di ucciderti, non è così? Ma se fossi nato e cresciuto qui, credimi, non ti sarebbe sembrato tanto mostruoso. Ho visto come sei, Blake, sebbene abbiamo trascorso poco tempo insieme. E, credimi, se ti dico che, se tu fossi nato a Morag, non solo saresti riuscito ad uccidere i tuoi genitori, ma lo avresti anche fatto in modi molto peggiori rispetto a quelli che ti ho narrato io. Non ti saresti ribellato. Non lo fa nessuno, poiché è inconcepibile anche solo pensarlo.
A Bliaint, un padre e una madre sarebbero stati capaci di uccidere i propri figli solo per gelosia, riflettè il ragazzo.
Per tale motivo, a Blake non parve tanto assurda l’idea di immaginarsi i suoi genitori tentare di ucciderlo in fasce.
Myriam non lo avrebbe mai fatto, invece.
Myriam non lo avrebbe mai fatto, poiché Myriam non era sua madre. Ironia della sorte.
E lui? Lui sarebbe stato in grado di porre fine alla vita delle persone che lo avevano messo al mondo e cresciuto? La facilità con la quale avrebbe potuto farlo era a dir poco disarmante.
“Egoismo” mimò nuovamente con le labbra.
- Egoismo? Immagineresti un figlio che uccide suo padre o sua madre … se fosse l’egoismo a spingerlo? – chiese conferma ella, ed egli annuì, alzandosi dal letto e rivestendosi con calma.
- In ogni caso ciò che è passato, è passato, oramai.
Il ciclo si ripete sempre – affermò la ragazza rialzandosi a sua volta.
- Sai cosa ha tormentato Selma al punto da farla scappare lontano da qui, e che non fa altro che tormentarla ancora? – gli domandò dopo essersi rivestita a sua volta, poco prima di uscire dalla stanza.
A ciò, Blake si voltò a guardarla, in attesa.
L’aria fredda della stanza stava cominciando gradualmente a scaldarsi grazie alle lampade a olio che aveva appena acceso Blake, le quali diffondevano una luce calda e fioca, in contrasto con i colori gelidi e cerulei che entravano dalla finestra sulla parete, i primi colori di una mattinata d’inverno come tante altre.
Sybil abbassò lo sguardo. – Non essere riuscita a permettere che suo fratello realizzasse i suoi progetti di vita. Non aver avuto la forza e la prontezza di essere lei a proteggere lui e non viceversa.
Si porterà questo rimorso sino alla tomba.
Detto ciò, la ragazza uscì dalla stanza, lasciandolo solo.
 
Anche quella mattinata trascorse placida, tra le chiacchiere della colazione, le letture dei tarocchi di Selma ai membri della famiglia, e le partite a quel nuovo e complesso gioco giunto da poco da oriente, che portava il nome di “Scacchi”, per il quale Ephram sembrava aver sviluppato una sottile ossessione.
Come ogni mattina, dato che era quasi l’unico momento in cui i membri della famiglia allargata erano riuniti, senza contare i pasti, Blake si fermò a parlare un po’ con la piccola Maila, o meglio, a “comunicare” con lei. Sembrava essere uno dei pochi, se non l’unico, che riuscisse nell’impresa.
La bambina era seduta su una sediolina, con le gambine penzolanti, e lo guardava con espressione persa e ridente.
Blake era seduto a terra, sul legno del pavimento a gambe incrociate, dinnanzi a lei.
Le chiuse gli occhi con la mano, poi le poggiò un oggetto tra i palmi aperti, una semplice candela spenta dalla forma allungata. La bambina la tastò e la toccò attentamente, poi Blake la riprese con sé e la poggiò a terra, accanto ad un’altra candela dalla forma tonda.
Dopo di che, tolse la mano dagli occhi di Maila e le indicò le due candele, chiedendole implicitamente quale fosse quella che aveva toccato quando i suoi occhi erano tappati.
Maila indicò la candela giusta ricevendo un sorriso di assenso da parte Blake, che la fece ridere di gusto e auto applaudirsi soddisfatta, mentre il vociare degli altri faceva da soffice sottofondo.
Sybil e Julia, sedute al tavolo, iniziarono a guardare i due, interessate.
Dopo ciò, Blake sventolò la candela lunga dinnanzi agli occhi della bambina, per farle concentrare l’attenzione su di essa, e cominciò a muoverla, prima da una mano all’altra, poi a nascondersela dietro la schiena e sotto le gambe piegate.
Quando la bella candela sparì dalla sua vista, Maila non la cercò con lo sguardo. Semplicemente e passivamente, guardò il ragazzo in attesa che facesse qualcosa, rassegnandosi alla scomparsa dell’oggetto che l’aveva attratta.
- Non riesce a capirlo – commentò Sybil da lontano, continuando a guardare la sua nipotina e Blake interagire. – Non riesce ad appurare l’esistenza tangibile di un oggetto, a meno che non le rimanga davanti agli occhi. Pensa semplicemente che non esista più se sparisce dalla sua vista – spiegò, disillusa.
Blake, senza prestarle davvero ascolto, proseguì. Indicò con un dito Maila, facendole ben intendere di riferirsi a lei, poi indicò se stesso, vedendola ridere e annuire. A ciò, cominciò a muoversi lentamente, per darle il tempo di osservare i suoi movimenti a dovere: alzò un braccio verso l’alto, piegandolo, e aprì la mano precedentemente chiusa a pugno.
Maila, lentamente, lo imitò, facendo esattamente le stesse mosse.
Dopo di che, il ragazzo spostò la mano alzata dietro il collo e l’altra la fece scorrere dalla gamba sulla quale era abbandonata, fino agli occhi, tappandoseli. Un secondo dopo, divise le dita della mano che gli copriva gli occhi, aprendo un varco tra indice, medio, anulare e mignolo, per lasciar di nuovo libera la vista. Ripeté gli stessi movimenti due volte e il tutto apparve come una sorta di strano ballo visto dall’esterno.
Blake la guardò attendendo, indicandola di nuovo, per farle comprendere fosse il suo turno.
A ciò, la bambina, fino a quel momento concentrata fissa su di lui e sui suoi movimenti, sembrò tornare in sé, prendendo a fare la medesima serie di movimenti susseguiti che aveva compiuto Blake poco prima, senza tralasciarne neanche uno.
A quella vista, Julia si riscosse, scostando la mascella poggiata mollemente al palmo della mano e rizzando il viso sorpreso, incorniciato dalle ciocche castane che le scendevano sottili e morbide come veli dall’acconciatura scomposta. – Ha imitato tutti i vostri movimenti … - constatò sussurrando attonita, fissando la figlioletta.
A ciò, Blake sorrise a Maila, carezzandole una guancia, per poi rialzarsi in piedi e dirigersi verso Julia e Sybil, entrambe positivamente sorprese. Si sporse sul tavolo e scrisse qualcosa sopra un foglio, spostandolo sotto gli occhi di Julia. – “L’imitazione è impossibile senza una buona memoria e consapevolezza di sé. Vostra figlia è più dotata di quanto pensiate” – lesse la donna, per poi voltare lo sguardo su di lui e scoprirlo ad osservare ancora i gesti ingenui di Maila.
Sybil sorrise di rimando, alzandosi e andando a prendere in braccio la sua nipotina, stringendola a sé e sorridendole teneramente. – Ma come siamo brave, mia piccola dolce ninfea! – esclamò baciandole la guancia, facendo sorridere gioiosa anche sua sorella nel guardarle.
Lo sguardo di Julia si fece lievemente velato di qualcosa di cupo, nonostante sembrasse sinceramente emozionata di osservare la sua bambina tanto felice e reattiva al contempo.
Anya sembrava non prestare attenzione loro, troppo impegnata a seguire sua nipote Selma che le spiegava con minuzia e accortezza le figure che le sue mani avevano scoperto, durante la lettura dei tarocchi.
Cam e Jeremy erano appena andati alla stalla, ad abbeverare gli animali; mentre Ephram sembrava totalmente assorto a giocare la sua partita a scacchi in autonomia, giocando le proprie mosse e anche quelle del suo eventuale sfidante. Blake gli si sedette dinnanzi, osservando prima la scacchiera, poi la sua prossima mossa incerta, con un sopracciglio alzato.
Dopo che Ephram, dall’alto del suo orgoglio, fece una smorfia seccata, capendo di essersi imbrigliato da solo e di aver fatto lo stesso col suo avversario, mosse rassegnato la torre orizzontalmente.
Blake spostò la regina al centro della scacchiera, mangiando un pedone e sbloccando la situazione, lasciando campo libero di agire ad Ephram e al suo avversario assente.
Lo stregone accennò un ghigno soddisfatto, muovendo un ulteriore pezzo. – Ho vinto due volte contro Jeremy questa mattina, ma ho perso una partita contro Cam. Quell’uomo ha una mente incredibilmente strategica, nonostante le apparenze – commentò, per poi alzare gli occhi e le iridi nocciola su Blake, poggiando il mento sopra le mani congiunte tra loro e rialzate. – Volete farmi l’onore di questa partita? Mi avete battuto abbastanza da esser certo di poterlo fare di nuovo.
Blake distolse lo sguardo , posandolo altrove, senza la particolare intenzione di indispettirlo.
- Che cosa vi preme? – gli domandò lo stregone, spingendolo a catapultare i suoi occhi blu nuovamente su di lui, interrogativi.
- Deve esservi qualcosa, a spingervi a voler rimanere qui – dedusse lo stregone. – E sono quasi certo non si tratti della tormenta dal corpo da fanciulla o lo sguardo felino che noi due condividiamo – aggiunse accennando un sorriso furbo, spostando poi un pedone. – Ella non è abbastanza da distrarre un animo impetuoso dalla sua meta e dai suoi obiettivi. Dunque, cosa?
“E voi?” gli mimò in labiale.
- Io? Io attendo paziente che il viaggio si dirami e si compia in tutta la sua lunghezza e complessità, osservando e facendomi da parte. Non ho alcuna fretta, come l’avete voi. Dunque voi rimanete l’unico mistero. Selma resta poiché la sua famiglia esercita ancora un dolce potere su di lei, tanto da trattenerla. Cos’è che trattiene voi, invece? – insistette il giovane stregone.
Blake fece virare gli occhi nuovamente verso la piccola Maila, la quale mangiava allegramente una pagnotta sopra le gambe di sua madre, pura, ingenua, inconsapevole della maggior parte del mondo che la circondava.
Un’anima dannata, destinata a vagare nel limbo tra l’umanità e l’inumanità, tra l’intelligenza e l’istinto.
Uno spirito perduto, ma luminoso, raro come era raro trovare un frammento di ossidiana nella galleria di Bliaint.
Ephram seguì il suo sguardo, prendendo a guardare la piccola a sua volta. – La compassione che risiede nel vostro cuore è grande e fremente a tal punto? Sapete bene che debbono trascorrere ancora anni prima che quella dolce e stupida creatura venga uccisa dai suoi genitori. E quando accadrà, ella non se ne renderà neanche conto, considerando quanto invadente sia il germe di idiozia che ha messo radici in lei. Sybil vi avrà spiegato come funziona.
Blake si voltò nuovamente a guardarlo, con uno sguardo incerto, un’espressione velata da una strana fragilità che era raro vedere contaminare i lineamenti del suo bel volto.
A ciò, Ephram realizzò. – Si tratta davvero di questo, dunque. Provate empatia per la demente. Un’assurda, fuori luogo, inesplicabile empatia. Cosa vi impietosisce davvero di lei? Il fatto che non sia in grado di fare nulla, senza il costante supporto dei suoi genitori? Individui come lei sono ciò che vi è di più dannoso per un villaggio - il giovane stregone non si era accorto che Blake avesse scritto qualcosa su un foglio e lo avesse trascinato verso di lui, mentre egli parlava e guardava la stupida creatura.
- “Dieci anni è l’età in cui i fanciulli sono pronti a difendere la loro vita e ad attaccare quella altrui, secondo la loro tradizione, l’età in cui potrebbero vincere questa lotta sanguinaria imposta loro, se sono forti, furbi, determinati e preparati a sufficienza.
Dieci anni. Al compimento dei dieci anni dei ragazzini, sono considerati alla pari, genitori e figli.
Ora ditemi, dunque: quella bambina, secondo quale contorto equilibrio o legge naturale dovrebbe essere alla pari con i suoi genitori, che sia all’età di dieci, di venti o di cinquant’anni?
Come potrebbe anche solo provare a difendersi, a comprendere cosa accade intorno ad essa, quando avverrà il fatidico momento?
Non è leale. Non è giusto. Non è paritario. Non è onesto.” – terminò di leggere Ephram, prendendosi qualche secondo di silenzio, prima di rispondere.
Il vociare in sottofondo riempì nuovamente le loro orecchie, ora che né le parole dello stregone, né il rumore dei pezzi mossi sulla scacchiera, fendevano più l’aria tra loro.
Ephram rialzò lo sguardo sul ragazzo.
- Da quando vi importa di ciò che è giusto?
 Da quando vi importa di ciò che è onesto, Blake …?
 
L’aria si fece improvvisamente pesante nel pomeriggio.
Qualcosa di sbagliato aleggiava nella casa.
Selma e Blake sembravano averne preso coscienza.
Il ragazzo si richiuse nella sua camera, la testa dolente e invasa di troppi pensieri che volevano prendere il predominio su di lui.
Avrebbe voluto scrivere una lettera a Ioan, per informarlo sull’andamento del suo viaggio e rassicurarlo, per chiedergli come stesse.
Sperò vivamente che il ciondolo che aveva creato per lui stesse dando gli effetti sperati.
Improvvisamente, qualcuno bussò alla porta, distraendolo dalle sue elucubrazioni.
Andò ad aprire, trovando dinnanzi a sè una Sybil dallo sguardo palesemente turbato.
Era strano di per sè che la ragazza si trovasse dinnanzi alla sua porta a quell’inusuale ora del pomeriggio, considerando che erano le notti quelle che i due condividevano insieme.
Il ragazzo la guardò interrogativo, senza lasciarla entrare.
- Ho un brutto presentimento ... – esalò lei spostando gli occhi da una parte e dall’altra, nervosa. – Insomma, quando Maila ha compiuto un anno di età, temevo che mia sorella l’avrebbe lasciata sulla riva di un fiume, attendendo che annegasse, per liberarsi di lei e della disabilità che la affligge. Invece non è accaduto ... - cominciò, buttando parole al vento, non sapendo neanch’ella dove volesse esattamente arrivare. – Ho paura che ... non so, ho il presentimento che ... insomma, Julia, questa mattina, aveva un volto turbato, che non prometteva nulla di buono ... guardando te giocare con Maila, forse si è resa conto che, quando sarà il momento, rinunciare a lei sarà tremendamente doloroso.
“Non è qualcosa che sapete e al quale siete avvezze oramai da un po’?” le disse in labiale il ragazzo.
- Non è la stessa cosa! Viverlo da genitori non è la stessa cosa! Viverlo da carnefici e non da vittime ... è completamente diverso! – delirò la ragazza, guardandolo mentre attendeva qualcosa, una qualsiasi reazione o risposta da lui.
- Ho bisogno di parlare con te ... Devo schiarirmi le idee – gli sussurrò, massaggiandosi le tempie nervosamente.
In risposta, Blake negò con la testa.
- Perchè no ...? Perchè mi stai rifiutando?
“Se pensi che tua sorella possa far qualcosa di male a Maila, allora fermala. Parlale, agisci, fa’ qualcosa” le mimò in labiale.
Trovandosi con le spalle al muro, la ragazza annaspò, non sapendo cosa rispondere. – Che cosa potrei fare ...? Che cosa potrei fare, Blake? Non ho potere su di lei!
“Sei sua sorella!”
- Ma le leggi sono chiare e il dolore che proverebbe sarebbe capace di far uscire di senno ogni uomo o donna su questa terra! Ucciderla ora limiterebbe il suo dolore in futuro, come mi hai fatto notare tu questa mattina!
“Che cosa vuoi da me, dunque?”
- Voglio solo parlare con te! Voglio solo il tuo conforto! È un tale fardello per te quello che ti sto chiedendo...? - chiese sconvolta.
“A cosa servirebbe...?”
Quella risposta la fece raggelare. – Sei ... indescrivibile. In questi ultimi giorni, ho cercato di instaurare un contatto con te... ed ora, ora mi tratti come se non meritassi un minimo della tua considerazione...? - sussurrò delusa.
“Non potrei comunque fare nulla per confortarti per la morte di tua nipote. Sta a te impedire di dover soffrire un dolore così grande.”
- Stai cercando di smuovere qualcosa in me in questo modo, per caso??
“Parla con lei, Sybil.”
 - Il tuo atteggiamento mi ripugna – disse ferita.
“Se ti recassi da Ephram ora, sono certo ti parlerebbe nello stesso modo. Nel dubbio, va’ da lui a cercare conforto.”
Quando le sue labbra terminarono di mimare quelle parole, il ragazzo ricevette un violento schiaffo in pieno volto.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, fin quando Sybil non riprese la parola. – Sono venuta da te. Non da lui. E, di certo, non andrò da lui perchè tu mi hai rifiutata – disse con voce rotta.
Blake si voltò nuovamente a guardarla, percendo un velo di senso di colpa che non provava da un po’ risalirgli su per lo stomaco.
La fissò in quegli occhi grandi e liquidi, tacendo.
La ragazza accennò un sorriso stanco.
- Chissà cosa racconterai di me, quando tornerai a casa.
Se tornerò a casa.
- Chissà cosa dirai di Morag, il villaggio dei cannibali, a coloro che ami.
Chissà cosa dirai ... della mia vigliaccheria.
Blake rimase in silenzio, attendendo che continuasse, bramoso di udire le sue prossime parole.
- Forse ... l’unico motivo per il quale ho cominciato a provare queste emozioni contrastanti ... l’unico motivo per il quale voglio salvare Maila ... risiede nel mio destino. Quello di madre.
Un destino che si sta materializzando davanti ai miei occhi, molto prima di quanto mi aspettassi.
Blake negò con la testa con convinzione.
No, non era possibile.
Erano stati più che parsimoniosi, nel corso di quei tre giorni, lui in particolar modo.
Nessun seme avrebbe fecondato quel ventre ancora incontaminato. Non il suo.
La ragazza gli rivolse uno sguardo che fu in grado di sostituire più di mille parole.
Blake sembrò realizzare. “Ephram. Lui non ha mostrato la stessa attenzione che ho mostrato io.”
- No, non lo ha fatto – confermò ella. – Sembra che a lui non importi minimamente chi, come o quando inseminare. Ho la vaga impressione che abbia figli bastardi sparsi in tutta la pianura e che sia felice di ciò - rispose Sybil alle sue domande implicite.
“Dunque accadrà. Ne sei quasi certa.”
- Se le previsioni sull’invidiabile fertilità del mio ventre profetizzate dalla profetessa del villaggio non mentono, sì, sono quasi del tutto certa accadrà.
“Lui lo sa?”
La ragazza negò con la testa. – Credo se lo immagini. Ad ogni modo, tu sei il primo a cui l’ho detto. E pensare che non era neanche mia intenzione fartelo sapere. Eppure ... sono stranamente sollevata di avertelo detto - riflettè, sorridendo tristemente.
Le labbra le tremavano enormemente.
- Mi farò uccidere da mio figlio o da mia figlia quando sarà il momento – esalò. – Non alzerò un dito per far andare le cose diversamente. Lascerò che egli o ella vinca, perchè così dovrebbe essere, sempre, ed è infinitamente meglio di porre fine alla sua vita e nutrirmi della sua carne.
“Oppure, te ne andrai via di qui e farai nascere e crescere tuo figlio o tua figlia altrove. Rinnegherai la tua terra e le leggi che promulga, come ha fatto Selma” mimarono le sue labbra mentre si avvicinava maggiormente a lei.
Ella lo guardò con occhi confusi. – Dio non volterà la testa dell’altra parte se dovessi abbandonare il villaggio e vivere a modo mio, trasgredendo le leggi di Morag. E se dovesse scagliarsi sulla mia famiglia per punire il mio peccato non me lo perdonerei mai.
A ciò, il ragazzo le sorrise, poggiandole le mani ai lati del viso. “Se il tuo dio ha voltato la testa dall’altra parte quando hai giaciuto per tre notti e tre giorni con due figli del diavolo ... forse potrebbe farlo anche quando scapperai via di qui”
A tale risposta, il volto vispo della ragazza si rianimò e accennò un sorriso mentre lo guardava. – Se lo facessi davvero ...
“Sì.”
- Sarei davvero libera come mi aspetto di essere?
“Non ho le risposte a tutto, Sybil” stava continuando a parlarle in labiale, eppure lei comprendeva tutto ciò che egli le diceva. “Ma posso garantirti che lo sarai molto più di quanto lo sei ora.”
Ella annuì, infilandogli una mano dietro la nuca e spingendolo verso il basso. Si alzò sulle punte dei piedi e posò le sue labbra su quelle di lui, come aveva fatto numerose volte, ma in maniera del tutto differente dal solito, con dolcezza, fragilità e lentezza.
Blake ricambiò premendo la mano sulla sua guancia morbida.
Quando si staccarono, Sybil sorrise ancora lievemente, tra le sue labbra. – Hai una fanciulla che ti aspetta, nel luogo da cui provieni...?
Egli negò con la testa.
- Ne hai molte di più di una...?
Il ragazzo le rivolse uno sguardo divertito, negando nuovamente.
- Bene – disse ella rivolgendogli il solito sorriso furbo e lascivo che la contraddistingueva, di una che aveva giaciuto con molti uomini. – E anche se l’avrai quando e se ci rincontreremo, farai un’eccezione per me e mi delizierai e sazierai con il tuo corpo ancora una notte, come hai fatto in questi ultimi giorni?
Egli annuì, lasciandole un ultimo bacio a fior di labbra, certo che non avrebbe trascorso un’altra notte in quel villaggio.
Il loro viaggio avrebbe dovuto riprendere.
- Blake ... non dimenticarti ciò che ti ho detto: dovrai convivere con lui. Con l’uomo che hai condannato.
“Lo so. Lo terrò a mente.”
- Inoltre ... nel profondo, spero che la voce non ti torni mai – gli rivelò, sorprendendolo ancora una volta. - Amo interpretare ogni tuo sguardo, ogni tuo gesto, e amo capire quello che vuoi dirmi solo percependo le vibrazioni sulla tua gola e la tua bocca che si muove sulla mia.
“Sappi che, se mai dovessi avere bisogno di qualcosa, potrai raggiungermi in ogni momento.”
- Lo stesso vale per te. Ricordalo.
In tal modo, si salutarono sul ciglio di quella porta, incerti sul futuro, ma decisi sul da farsi.
Blake sapeva che la decisione che aveva preso Sybil richiedeva un’immensa dose di coraggio, e la spavalda ragazza che aveva imparato a conoscere ne era del tutto provvista.
Nonostante fosse stato lui a darle la spinta per farlo, ella avrebbe di certo fatto da sè quel passo verso la libertà, partendo quella sera stessa, da sola, con solo poche provviste e coperte con sè, in sella al suo cavallo.
Alla volta del mondo enorme e sconosciuto, senza una meta precisa.
O forse, una meta l’avrebbe avuta, proprio come loro.
Per quanto riguardava la questione di Maila, Sybil avrebbe preso l’ardua decisione di lasciare che per la sua amata nipote le cose seguissero il loro inevitabile e infausto corso.
Non poteva di certo portarla con sè, poichè non avrebbe mai privato sua sorella, una madre, della propria figlia.
Invece, avrebbe salvato il suo, di figlio, agendo come aveva deciso di agire, lasciandosi ogni cosa alle spalle, per il suo bene. Su ciò aveva potere, lo aveva avuto da sempre e nessuno avrebbe potuto toglierglielo.
Quella sera, poco prima della sua partenza, e di quella di Selma, Blake e Ephram, i quali avrebbero preso una direzione diversa dalla sua, Sybil si recò nella camera di sua cugina.
La donna, intenta a preparare i sacchi per il viaggio, la fece entrare e le sorrise con confidenza, abbracciandola.
- Mi mancherai, piccola e scalmanata Bi.  
- Anche tu, Selma – le rispose l’altra ricambiando il caloroso abbraccio.
- Sono felice che te ne andrai anche tu di qui. Tua madre sarebbe stata fiera di te – le disse, provocandole una piacevole stretta al cuore. – Avrei voluto mostrarti Bliaint, se ne avessimo avuto l’occasione.
- Lo farai. Sono certa ve ne sarà l’occasione – la rassicurò la fanciulla sciogliendo l’abbraccio e stringendole le mani sulle sue.
- Ti ho lasciato che eri una bambina e ti ho ritrovata donna. Una donna impavida e determinata.
Sybil le sorrise ancora.
- Dove andrai? – le domandò Selma dopo qualche secondo trascorso a stringersi le mani tra loro.
- Proprio di questo volevo parlarti – le disse la fanciulla, tirando fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un pezzo di carta sgualcito e scolorito, che aveva evidentemente attraversato le più varie intemperie.
- Mi è arrivata circa cinque anni fa – le disse Sybil porgendogliela. – Andrò a cercarla.
Non capendo a chi la ragazza si riferisse, Selma prese la lettera e la aprì, confusa.
Non appena lesse il contenuto, i suoi occhi scuri si sgranarono totalmente e le gambe quasi le cedettero al suolo.
Il corpo della donna che le aveva messe al mondo e cresciute giaceva senza vita al suolo, accanto a quello di Islay.
Ognuno dei due era morto orrendamente, in maniere diverse.
Islay ucciso dalla donna che giaceva accanto a lui, e quest’ultima ... da loro due.
Fie e Selma guardarono prima il cadavere del loro giovane fratello, poi della loro madre, restando ferme, ansimanti, in silenzio, senza guardarsi, mentre il vento freddo entrava dentro la casetta, scuotendo i loro capelli.
Le mani delle due erano sporche di sangue fino ai gomiti, così come lo erano i loro abiti, le maniche e le sottane.
Fie fu la prima a prendere la parola, con una voce totalmente lontana dalla propria: fredda, distante e dura. - Dobbiamo portarli nella stanza da macello. Entrambi. Gli zii vorranno che ci nutriamo di loro a partire da questa sera.
Quella sera, come previsto, dopo che le due si furono ripulite da capo a piedi, senza, tuttavia, calmarsi o riprendersi minimamente dall’inferno vissuto quello stesso pomeriggio, furono fatte accomodare al tavolo nel quale avevano consumato tutte le loro cene dalla nascita, in presenza di tutti i familiari.
La gioia imperversava nei volti di tutti, tranne che in quelli delle due sorelle, le quali, non si erano guardate in faccia nemmeno una volta dopo ciò che era accaduto.
Zia Anya servì a Fie il suo piatto contenente le carni di Islay e di Sarah mischiate insieme, uniti nella morte, e zio Cam servì a Selma il suo.
Le due si nutrirono delle carni dei loro familiari, poi si alzarono dalla sedia e si congedarono.
Selma, avendo visto Fie uscire dalla sua camera durante la notte, la seguì, fino all’esterno della casa.
Fie si infilò due dita in gola e vomitò violentemente tutta la carne che aveva ingerito durante la cena, riversandola nella terra fresca, in un miscuglio scuro ripugnante e maleodorante.
La ragazza si voltò verso la sua sorellina, che la guardava dall’uscio della casa.
- Non mi nutrirò mai più delle loro carni – esalò superandola e rientrando nell’abitazione senza dire altro.
La mattina seguente, non vi era più traccia di Fie.
La ragazza sembrava sparita nel nulla, senza lasciare niente dietro di sè, nè una lettera, nè delle spiegazioni.
Le uniche cose che mancavano, erano una caciotta di formaggio dalla cucina e un cavallo dalla stalla.
Da quel giorno, nessuno di loro l’avrebbe più rivista.
“Se la mia sparizione fosse servita a far comprendere alla mia unica sorella rimastami di doversene andare via da Morag per sempre... a tal punto, saprei che la mia vita finora ha avuto un senso.
Ti porto i miei migliori saluti, cara cugina, informandoti che sto bene e di non rispondermi a questa lettera, nè di venire a cercarmi.
Sto bene dove sto e non ho bisogno di altro.
Non dire a nessuno che ti ho scritto, nè tanto meno a Selma, se ti capiterà di incontrarla.
Probabilmente, forse non ti ricorderai neanche di me, tanto eri piccola quando me ne andai.
Casualmente, l’anniversario del giorno della tua nascita, lasciai il villaggio.
Ti scrivo proprio per tale motivo. Per farti i miei migliori auguri e per scusarmi con te, per aver, forse, rovinato questo giorno importante per te.  
Spero che tu sia ancora in vita, piccola Bi.
Se così non fosse, probabilmente sto scrivendo questa lettera a vuoto.
Vivi la tua vita e dimenticati della sciocca che disonorò la famiglia nell’anniversario del giorno in cui venisti al mondo.
Con amore, Fie.”
Leggere nuovamente quel nome, dopo così tanto tempo, dopo così tanti anni ... fu in grado di farle venire quasi un mancamento.
Lei e Fie non avevano mai avuto un buon rapporto.
Ogni volta che si vedevano si accapigliavano tra loro, finendo sempre alle mani.
Ogni volta era una lotta, Fie la indispettiva sempre, la innervosiva continuamente e non le lascaiva un attimo di respiro.
Eppure ... eppure quante volte nel corso di tutti quegli anni, si era chiesta dove fosse, perchè l’avesse lasciata sola, per quale motivo anche lei se ne fosse andata dalla sua vita.
Non erano enumerabili. Tutte le volte che aveva invocato il suo nome, insieme a quello di Islay, durante la notte, quanto aveva sperato che, un giorno, anche fosse stato l’ultimo, l’avrebbe rivista.
Ce l’aveva con lei, ce l’aveva infinitamente con lei per essersene andata.
La odiava. La odiava per il troppo amore che nutriva nei suoi confronti.
- È viva ... è ancora viva...! – esclamò con immensa gioia la donna, cadendo in ginocchio a terra. – Mia sorella è viva!
I tre partirono proseguendo il loro viaggio e Sybil partì per iniziare il suo.
I tre in cerca della polvere nera, Sybil in cerca di Fie.
E mentre Selma proseguiva il suo cammino con il cuore infinitamente più leggero, dopo tanti anni che aveva vissuto estraniata da se stessa, grazie alla notizia che la sua sorella di sangue fosse viva, magari in capo al mondo, ma viva; una settimana dopo la loro ripartenza, giunse loro notizia, per lettera, che la piccola Maila fosse disgraziatamente morta per un banale incidente in casa, a causa di una candela che la piccola aveva cercato di afferrare, che le aveva bruciato e sfigurato il volto.
 
 
UNA SETTIMANA DOPO, VILLAGGIO DI BLIAINT
 
Judith si infilò la maschera ingombrante che le coprì tutto il volto, lasciandole scoperti solo gli occhi, come era oramai abituata a fare.
Becco lungo e nero sul davanti, con fiori secchi sparsi all’interno per ridurre al minimo il rischio di contagio.
Si infilò i guanti e uscì dalla cattedrale, dirigendosi verso l’altra cattedrale, oramai divenute entrambe baracche per la cura dei malati.
Non appena mise piede fuori, all’esterno, incontrando l’aria fredda, dinnanzi a lei si diramò una visuale torbida e orrida, ai limiti dell’umanamente accettabile: le strade della piazza principale di Bliaint erano letteralmente cosparse di cadaveri, uccisi dalla terribile epidemia diffusasi da qualche giorno.
Forse, erano davvero destinati a morire tutti, come oramai profetizzavano i maggiormente disillusi.
Si avvicinò ai corpì che avevano una cera leggermente migliore degli altri, controllandoli uno ad uno, ponendo due dita sul loro collo per carpirne il battito.
Morto, morto, morto, morto.
Non cedette, e continuò a controllarne altri.
Si avvicinò al corpo di un bambino.
Morto anche lui.
I sintomi erano stati gli stessi per tutti: iniziava con una febbre alta, proseguendo con spossatezza, dimagrimento, inappetenza, difficoltà a respirare, pustole in tutto il corpo e un tremendo male alla testa.
Maroine era stata la prima in assoluto a manifestarli.
Toccando il collo dell’undicesimo corpo che aveva trovato lungo la strada, quello di una donna di mezza età, udì un lieve battito.
- Presto, qui ce ne è una! – esclamò a gran voce verso i pochi che si trovavano all’esterno delle cattedrali a loro volta, con le maschere ben in vista a proteggersi dal contagio.
Accorsero verso di lei e si accinsero e prendere la donna, per portarla dentro una delle cattedrali.
Per alcuni, per coloro che avevano dei corpi più forti e sembravano reagire meglio alla malattia, forse c’era ancora speranza di guarigione.
Venivano tenuti al caldo e a riposo nelle cattedrali, curati e accuditi con cibo e infusi caldi.
Si accinse anch’ella ad entrare nella cattedrale, venendo a contatto col tanfo dei malati.
Si avvicinò al letto di Maroine, guardando con apprensione e dolcezza suo fratello Maringlen addormentato accanto a lei, che le era sempre vicino, non lasciando mai il suo capezzale, se non per recarsi a fare commissioni per i malati, dovunque lo spedissero: a raccogliere fiori, erbe, provviste, acqua e coperte.
Fortunatamente, le maschere create appositamente per situazioni come quella sembravano fare effetto: Maringlen stava bene, non aveva dato segno di mostrare alcun sintomo, anzi, sembrava in salute e in forze come non mai, ora che il contributo e l’aiuto di ciascuno era prezioso e fondamentale.
Ognuno di coloro ancora graziati e miracolosamente in salute, indossava la maschera minuziosamente, quasi sempre, se non nei luoghi frequentati solamente da altri sani.
La ragazza si avvicinò ad alcuni tra i malati, tra chi avesse bisogno di aiuto per bere un po’ d’acqua o per alzarsi.
Una di loro, qualcuno che Judith aveva imparato a conoscere e ad identificare bene da quando vi era stata la rivolta, tossì violentemente, attirando la sua attenzione.
Judith si avvicinò alla corvina che era alla guida delle rivolta, aiutandola ad alzare la testa per tossire e ponendole un panno pulito davanti alla bocca, che la giovane sporcò di sangue.
- Grazie ... – esalò Beitris con voce rauca.
Vicino a lei, padre Craig steso a sua volta su uno dei giacigli improvvisati, era accudito da uno degli stregoni.
Purtroppo, neanche il giovane prete straniero era riuscito ad evitarsi la pestilenza.
Tuttavia, era stato proprio lui, involontariamente, a spargere la voce che stava diffondendosi riguardo il “bambino miracolato” di Bliaint, il secondogenito del proprietario della galleria, dal quale il prete era stato ospitato nel suo soggiorno nel villaggio. Dalle parole di padre Craig, sembrava che Christopher Ioan, uno dei bambini con l’aspettativa di vita minore a Bliaint a causa di una malattia che si portava dietro dalla nascita, da quando aveva cominciato ad indossare un particolare e meraviglioso ciondolo, il suo male fosse come sparito nel nulla. E, in aggiunta a ciò, il ragazzino sembrava quasi immune anche all’epidemia che aveva cominciato a dilagare negli ultimi giorni, continuando a mostrare perfetta salute.
Ciò non aveva fatto altro che suscitare le invidie e i sospetti delle malelingue, le quali si diffondevano a macchio d’olio, sprigionando odio.
Eppure, non vi erano prove che Ioan avesse acquisito una sorta di immunità miracolosa, se non magica, ai malanni, poichè il ragazzino indossava sempre la maschera come tutti coloro rimasti sani.
Improvvisamente, la presenza di padre Cliamon dietro di lei la distrasse dai suoi pensieri, mentre era intenta a massaggiare un panno bagnato sulla fronte bollente di Beitris.
- Per quale motivo stiamo accudendo anche costei...? – domandò pieno d’odio il monaco.
Judith sospirò stancamente, alzandosi in piedi. – La rivolta e la guerra sanguinaria tra le due fazioni del villaggio è passata in secondo piano da quando siamo stati colpiti da questo tremendo flagello, padre.
Guardatevi intorno: si sono ammalati stregoni, così come si sono ammalati monaci e altri componenti del villaggio. La malattia ha colpito tutti, indistintamente. Non ha alcun senso continuare a farci guerra tra noi per il potere e il controllo del villaggio se moriamo come mosche da un giorno all’altro. La vita e l’aiuto di ognuno di noi sono infinitamente preziosi, al momento. Dunque, cerca di superare l’odio che nutri nei confronti di questa donna – lo esortò seria.
- Questa donna ha guidato la rivolta, ci ha imprigionati tutti ed è ossessionata dai gemelli in un modo a dir poco spaventoso – protestò Cliamon.
In quel momento, i due vennero raggiunti da Myriam, con la maschera sul volto a sua volta, la quale li affiancò in silenzio, abbassandosi e aiutando Beitris a bere un po’ d’acqua.
- Questa donna è malata, così come è malata la ragazzina alla quale tenete tanto.
Se non siete in grado di guardarvi intorno e di comprendere dov’è che stiamo precipitando tutti, siete un uomo cieco, oltre che stolto e vigliacco come già sapevo foste – commentò con fredda acidità la strega.
Judith venne distratta dal battibecco tra i due non appena udì delle voci roche, tra un tossicchio e l’altro, provenienti da qualche giaciglio lì vicino:
- Dio ci sta punendo ... Dio ci sta punendo e il Diavolo con lui ...
 Ci stanno punendo con questa calamità ...
Ci stanno punendo perchè uno di noi ha superato i limiti del concesso ...
Uno di noi si è recato oltre i confini del villaggio per cercare il Flagello dell’umanità ... La maledetta polvere nera ...
- Sì, Dio e il Diavolo ci stanno punendo ... per colpa di quel ragazzo ...
Judith sospirò.
Erano in molti a pensarla così, da quando si era sparsa la voce che Blake si fosse recato chissà dove per cercare la polvere nera e portarla al villaggio.
E lo voci sul ciondolo dato in dono da Blake al suo fratellino “miracolato” di certo non aiutavano.
“Il Flagello dell’umanità”.
E la colpa di tutto ciò, in gran parte, era sua. Judith ne era consapevole.
Era vero che Blake fosse un vulcano di curiosità e spavalderia, tuttavia, se lei non lo avesse coinvolto nei suoi piani, ora il ragazzo probabilmente non sarebbe disperso chissà dove e odiato da mezzo villaggio.
Sì e, probabilmente, se fosse rimasto lì egli si sarebbe aggiunto a quell’infinità di malati spiranti su quei giacigli, pensò la ragazza, autoconsolandosi nel pensare che il tenerlo lontano da Bliaint almeno fosse servito a proteggerlo.
Sperò vivamente non tornasse, per il momento, almeno finchè le acque non si fossero calmate.
- La colpa è del ragazzo ...
- No, la colpa è della seguace del Diavolo rimasta gravida del servo del Creatore ... la colpa è del bambino figlio del peccato che ha messo radici nel suo ventre maledetto...
La loro lussuria e il loro disprezzo per le leggi del villaggio ci uccideranno tutti!
A quella seconda ondata di mormorii e deliri, Judith si voltò, afflitta.
Blake non era il solo ad essere ritenuto la causa scatenante dell’epidemia che li aveva colpiti.
Le voci riguardo la sua gravidanza si erano diffuse a loro volta, scatenando il panico tra i più malpensanti, nonostante Judith e Naren avessero negato più e più volte che il bambino fosse di quest’ultimo.
Era divenuta a sua volta catalizzatrice di quell’odio represso e incombente, che non faceva altro che animare quei corpi in fin di vita che con tanta attenzione lei si stava premurando di aiutare e di tenere in vita.
Ironia della sorte.
La odiavano, ma lei era l’unica, insieme ai pochi ancora in salute rimasti a Bliaint, a poterli aiutare e soccorrere.
Naren le si avvicinò, posandole una mano sulla schiena. – Non ascoltare quello che dicono. Non fanno bene al tuo corpo tutte queste malelingue – le disse premuroso.
- Al bambino non fa bene neppure che io respiri la stessa aria pregna di tonfo di morte di questi malati, Naren, eppure lo faccio lo stesso – gli rispose dura.
- Ci dovrà essere una ripresa, quando tutto questo sarà finito – le disse. – La domanda è: quando costoro guariranno dall’epidemia, il capro espiatorio da bruciare al rogo per scongiurare tutto questo odio sarà il tuo amico Even Blake, o saremo noi due e nostro figlio?
Judith gli rivolse uno sguardo fuliminante, nonostante egli non potesse vederlo a causa delle maschere che indossavano.
- No, vi prego, non parlate in questo modo ...
Dio e il Diavolo non ci stanno punendo per ciò che ha fatto quel ragazzo – quella voce dolce e immacolata attirò l’attenzione dei due.
Judith la riconobbe nonostante la maschera: si trattava di quella fanciulla, la serva del Creatore che aveva incontrato un dì dentro la cattedrale, e che le aveva chiesto di Blake.
Ora, era impegnata a versare dell’acqua nella bocca di un malato e a smentire con fermezza e tranquillità le malevoci che si stavano accumulando tra gli infetti.
- Non è nè colpa del ragazzo in cerca della polvere nera, nè della fanciulla che porta in grembo il suo bambino. Ella ha detto che il bambino non è del servo del Creatore, ma di un servo del Diavolo.
Io le credo. Dobbiamo crederle tutti.
La colpa non può essere di quei due ragazzi, non hanno fatto nulla di male.
Vi prego, abbiate fede.
Abbiate fede che tutto questo passerà.
Abbiate fede che non sia una punizione di Dio o del Diavolo, ma che sia solo frutto del caso e che, ben presto, con la tenacia, la forza di volontà e l’aiuto di tutti, ne verremo fuori.
Riusciremo a sconfiggere l’epidemia.
Judith e Naren  si fissarono a guardarla, a distanza.
Judith si voltò verso colui che, un tempo, era stato il suo amore, e lo vide fissarla senza distogliere mai lo sguardo, come abbagliato dalla candidezza, dalla profonda fede e dalla genuinità di quella ragazza.
Una ragazza del suo stesso credo.
Judith sorrise amaramente, sapendo già quale sarebbe stato l’epilogo di quella scena a cui stava assistendo e il suo cuore, in risposta, fece solo un lievissimo balzo, in memoria dei vecchi tempi.
Poi, tornò a concentrarsi su questioni ben più importanti, che le premevano davvero.
Certo che ne sarebbero usciti.
Ma, prima di ciò, ogni minaccia sarebbe dovuta essere neutralizzata, per il bene del villaggio, delle persone che amava, per se stessa e per il bambino che, forse, l’avrebbe uccisa.
Ne sarebbero usciti, nel bene o nel male, ne sarebbero usciti, ne era certa.
 
 
 
 

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Capitolo 21
*** Fame ***


Fame
 
“Caro fratello,
non sono sicuro di star scrivendo bene, come mi hai insegnato tu ...
Sai, mi mancano le nostre lezioni di lettura e scrittura insieme.
Siamo riusciti a non far scoprire nulla alla mamma e a nostro padre, e ancora adesso non sospettano nulla.
Non so per quale motivo non sto ricevendo lettere da te.
Così ho deciso di mandartene una io, nonostante non sono bravo come te a scrivere.
Qui sta cadendo tutto a pezzi, Even.
Non so cosa sta succedendo. Nel giro di qualche giorno è come cambiato tutto.
Gli stregoni sono impazziti, i monaci anche, e noi tutti con loro.
Poi, sembra che i nostri due signori si siano alleati per punirci.
Per lo meno è quello che dicono tutti.
Dicono anche che è colpa tua... tua e della ragazza dai capelli rossi, la tua amica.
Io ovviamente non credo sia colpa tua, non lo crederò mai.
E anche se è colpa tua, sono i nostri signori che sbagliano allora.
Sai, da quando te ne sei andato non mi sono mai e poi mai tolto il ciondolo che mi hai donato.
Da quando lo indosso, la mia salute è migliorata tantissimo.
Il merito è tutto tuo, mio amato fratello.
Spero che sono nei tuoi pensieri come tu sei nei miei.
Ma soprattutto, spero che stai bene.
Sappi che prego per te tutte le sere, per saperti al sicuro.
Anche nostra madre, nostro padre e padre Craig pregano per te.
Riguardo quest’ultimo, purtroppo si è ammalato. Come oramai quasi tutti.
La terribile epidemia ci sta decimando. Non sappiamo più cosa fare.
Vorrei che tornassi, ma ho paura che ti ammaleresti anche tu.
Non so che cosa sperare.
Vorrei solo che mi avessi portato con te.
Se avessi saputo che saresti stati via così tanto ...
Nostro padre dice che sono dipendente da te. Dice che dovrei imparare a stare senza di te.
Ma, quello che penso io, è che tra fratelli dovrebbe sempre essere così, giusto?
Se vuoi sapere cosa pensa la mamma, invece ... lei sta vivendo peggio di chiunque questa situazione.
Ha costantemente paura ed è tremendamente agitata per qualcosa ... a volte la sento piangere e urlare, con nostro padre a consolarla ... sembra che qualcosa, o meglio qualcuno, la stia turbando.
Vorrei sapere dove sei, Blake.
Non so dove inviare questa lettera.
Io sono qui, sempre in attesa del tuo ritorno.
 
Con amore, Christopher”
 
Christopher Ioan prese la pergamena in cui aveva scritto la lettera con una certa difficoltà nel ricordare tutte le lezioni di grammatica impartite da Blake, e la chiuse su se stessa, richiudendola poi con della cera fatta colare sull’apertura.
Dopo di che, corse a lavarsi accuratamente le mani e andò a prendere la maschera, la indossò con minuzia, poi si recò in cucina e cominciò a riempire una cassa di tutta la frutta e la verdura che trovò sul bancone.
Infine, prese il cappotto e il mantello, infilandoseli.
- Dove stai andando? – gli domandò Heloisa entrando in cucina con sguardo stanco.
- A portare delle provviste ai malati – le rispose il bambino, prendendo la cassa e accingendosi ad uscire dalla porta.
- Fa’ attenzione – si raccomandò ella, vedendolo uscire.
 
Il ragazzino si svegliò di soprassalto, sospirando, rendendosi conto di essersi addormentato per l’ennesima volta con la maschera addosso, accanto al corpo emanciato della sorella.
Ad averlo svegliato, era una mano posata delicatamente sulla sua spalla, della quale si accorse sin troppo tardi.
- Ti sei appisolato di nuovo così. Non fa bene al tuo corpo dormire con la maschera addosso e passare così tanto tempo accanto a lei.
All’udire quella voce familiare, Maringlen si scansò immediatamente come scottato, senza neanche voltarsi a guardarla.
A ciò, Myriam gli si avvicinò nuovamente, senza scoraggiarsi. – Ora non vuoi neanche più parlarmi?
- Non voglio mai più vederti, è diverso – disse duramente lui, stringendo la mano debole della sorella.
- Marin-
- Hai maledetto padre Cliamon costringendolo ad uccidere o me o lei!! – esclamò egli, svegliando alcuni degli infetti presenti nell’enorme salone. – È colpa tua se ora lei è in queste condizioni!! Solo colpa tua!
- Abbassa la voce – lo esortò ella con calma. – Sai che non è così. L’epidemia è una disgrazia che può provenire solo da una forza superiore. Tua sorella si è ammalata indipendentemente da me.
- Non provare a rabbonirmi con questi mezzucci, Myriam.
Non sei altro che una bestia, una bestia spregevole.
Avresti comunque costretto padre Cliamon a scegliere chi uccidere tra noi due, incurante delle nostre vite, quasi come fossimo un tributo, carne al macello destinata ad essere sacrificata per placare i tuoi antichi tormenti! Non fai altro che condannare chiunque pur di ottenere un po’ di illusorio conforto! Hai agito sempre e solo per te stessa, da sempre! Ma ora ... ora hai passato il limite – le disse scattando in piedi, lontano da lei.
A ciò, Myriam si guardò intorno, notando quanti di quei malati semideliranti si fossero svegliati a causa della loro discussione.
Posò lo sguardo nuovamente sul ragazzino in piedi a qualche passo da lei.
Quelle parole le rimasero incise addosso, riuscendo nell’intento di riscuoterla, anche se di poco.
- Stai crescendo, ometto – realizzò ad alta voce, continuando a mantenere la calma. – Che tu fossi molto sveglio l’ho sempre saputo, ma ora parli come un adulto. È stata anche l’influenza di quella ragazza nel periodo che hai trascorso qui, a farti diventare così maturo ai miei occhi? – gli domandò alzandosi a sua volta, e riavvicinandoglisi con cautela.
- Voglio guardarti negli occhi quando ti parlo, faccino d’angelo. Vieni, andiamo nella stanza incontaminata, così potremo respirare un po’ di aria pulita mentre parliamo.
- No – si oppose egli.
A ciò, la giovane donna lo afferrò per il braccio fermamente. – Se dovrò trascinarti per costringerti a uscire da questa sala infetta e pregna di morte, lo farò senza problemi.
Maringlen cercò di sottrarre il braccio dalla sua presa, ma ella rinforzò la presa e lo strattonò.
Notandoli a distanza, la giovane serva del Creatore dalla pelle scura, oramai nota per la sua fervida fede e la capacità di placare gli animi delle malelingue grazie alla sua fiducia nell’uomo, si avvicinò ai due. – Vi è qualche problema qui? – chiese attirando la loro attenzione, rivolgendosi soprattutto a Myriam, fissando la mano della giovane donna arpionata al polso del ragazzino reticente.
- Non sembra che costui voglia venire con voi – aggiunse, in difesa di Maringlen.
A ciò, Myriam la fissò negli occhi, studiandola.
Era una creatura interessante, quella serva del Creatore, si ritrovò a pensare la strega.
- Mi permetto di dissentire. Il mio giovane amico intende farsi pregare quando gli si fa una richiesta semplice. Vorremmo solamente spostarci nella stanza incontaminata per non svegliare i malati.
A ciò, lasciandosi convincere, Maringlen sospirò, riuscendo finalmente a sfilare il braccio dalla presa della donna. – D’accordo, d’accordo. È inutile continuare a dare spettacolo – detto ciò, si avviò per primo verso la stanza incontaminata, seguito da Myriam.
Una volta entrati, entrambi si tolsero la maschera, liberando finalmente i loro volti dalla costrizione.
Erano soli.
Myriam prese posto in una delle sedie, mentre Maringlen rimase in piedi. – Che cosa vuoi da me, dunque?
- Solo parlare, te lo garantisco.
- E di cosa, di grazia?
- Non voglio nulla da te, Maringlen, te lo ripeto. Non vi è nessun tornaconto personale questa volta.
- Non ti credo.
- Sei davvero convinto che, in tutto questo tempo che avete trascorso con noi, tu e tua sorella, io non abbia iniziato a nutrire del sincero affetto nei vostri confronti, esattamente come Beitris?
- Certo che no. Ci hai sempre e solo usati – rispose deciso egli.
- Questa volta non si tratta di ciò che bramo, Maringlen.
È la mia vendetta personale contro chi mi ha tolto tutto, anni e anni fa, quella che sto mettendo in pratica.
Non riguarda voi due.
- E invece ci riguarda eccome, perchè sono nostre le vite che stai chiedendo in dono.
È sempre stato così. Non ti è mai importato chi bisognasse sacrificare.
L’importante era ottenere quello che volevi.
Ci hai costretti a fare di tutto, mettendoci in pericolo innumerevoli volte, per trovare una dannata cura al tuo ventre sterile.
Niente ha mai funzionato, ma tu hai sempre continuato a chiedere, a pretendere, a forzarci – disse velenoso, avvicinandosi. – Anche quel bambino. Quel bambino che Beitris ha dovuto uccidere per recuperare la tua adorata Mandragora, quel bambino che ha rinchiuso dentro una teca di vetro come fosse una statua da adorare e servire, di giorno in giorno.
Alla fine ha funzionato? No, non ha funzionato neanche la pianta maledetta.
Quel sacrificio, come tanti altri prima di lui, non sono serviti a nulla.
E tu, tu continui a struggerti per questo.
La freddezza con cui disse tutto ciò, con le luminose iridi di miele impenetrabili puntate sulle sue, la sorprese non poco.
- Maringlen.
Ho sbagliato, me ne rendo conto.
- È tardi per rendersene conto.
- Ne sono consapevole – rispose, rimanendo in silenzio, restando a guardarlo, così come egli fece con lei.
Inconsciamente, lo sguardo le si posò su uno dei complessi disegni, di linee nere tracciate con cura, che marchiavano il suo corpo e la sua pelle indelebilmente, facendo comprendere a chiunque lo guardasse, a quale compagnia appartenesse. Allungò la mano sul suo collo, sfiorando una piccola porzione di quel marchio, armonioso e bello da guardare. – Lo ricordi? – gli domandò. – Questo te lo feci io, quando avevi all’incirca sette anni. Eri una piccola bestiolina inferocita, e tua sorella più di te. A Maroine lo fece Ephram, invece.
Maringlen, scagliato improvvisamente in quel ricordo distante, cambiò lievemente espressione, rimanendo immobile.
– Mi impegnai moltissimo a fartelo senza sbavature, nonostante ti muovessi e scalpitassi come un ossesso, sebbene ti avessi minacciato più e più volte che sarebbero stati guai se non avessi smesso di fare i capricci.
Ricordo ancora tutto, di quel giorno, sai? – lo informò, inclinando la testa di lato, osservando la sua reazione quasi impassibile. – Come puoi pensare che non mi importi minimamente di voi, di te, dopo tutto quello che abbiamo vissuto?
Maringlen non le rispose, volgendo gli occhi di miele altrove.
- Lo sai che il mercante dell’Est che sarebbe dovuto essere qui per voi due, la vecchia conoscenza del tuo caro padre Cliamon, ritarderà il suo arrivo a causa dell’epidemia?
La tua protettrice dai capelli rossi non te lo ha detto? – gli domandò cambiando nuovamente discorso.
- Come fai a sapere del mercante che dovrebbe venire a prenderci?
- Ho i miei metodi, lo sai.
Pover’uomo, appena avrà saputo dell’epidemia e di quanti morti ha seminato, gli si saranno rizzati tutti i pochi capelli rimasti sulla sua testa! – ironizzò, per poi riprendere. – Tuttavia, Judith ha confermato che egli non ha ancora rinunciato all’allettante possibilità di avere voi due. Intende raggiungere Bliaint non appena non vi sarà più traccia dell’epidemia.
- Judith o padre Cliamon lo hanno già avvertito che Maroine si è ammalata e che potrebbe non ...? – il ragazzino non riuscì neanche a pronunciare quelle fatidiche parole per completare la frase.
- ... che potrebbe non farcela? Certo, è stato avvertito da Judith e da Cliamon tramite lettera, diversi giorni fa. Ma lo hanno anche informato del fatto che tu sei sano come un pesce: egli ha detto che verrà comunque solo per te.
Maringlen schiuse la bocca, lievemente sorpreso.
- Sei d’accordo con questo? Saresti d’accordo sull’andartene di qui, sul lasciare la tua terra natale, le tue origini, solo per fuggire da qualcosa che non esiste?
Io, Beitris e gli altri ci siamo sempre presi cura di voi. Beitris soprattutto.
Ella vi ama più della sua vita, ultimamente ve lo ha dimostrato ampiamente.
Oramai, è come se il fulcro della sua stessa vita siate voi due gemelli. Non più la rivolta, non più la nostra libertà, ma voi due.
Quando ella guarirà, sperando che guarisca ... il vostro abbandono la farebbe soffrire terribilmente, portandola alle soglie della pazzia.
Non ne uscirebbe viva, Maringlen.
- In ogni caso, uno di noi due, tra me e Maroine, morirebbe comunque “grazie” a te, giusto? Anche nel caso in cui mia sorella dovesse guarire – esalò velenoso.
- Non è questo il punto ora. Se la malattia portasse via Maroine, come sicuramente accadrà, considerando quanto ella si sia oramai indebolita ... se anche tu te ne andassi, hai idea dell’immane dolore che provocheresti a Beitris?
- Non usarmi come scusa per autogiustificarti e scaricare la colpa su di me, solo perchè sei la prima a nutrire sensi di colpa nei suoi confronti, dal momento che le porteresti via uno di noi due, in ogni caso!
Saresti tu a portarla alla pazzia, non io.
- Ma se le rimanesse almeno uno di voi due, lei non –
- Oh, risparmiami le tue luride manipolazioni per convincermi a fare ciò che desideri!
Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’abbandonare la mia terra e le mie origini! Ha a che fare solo con i tuoi sensi di colpa nei confronti dell’unica persona che si avvicini ad un’amica che tu abbia mai avuto.
Nascere a Bliaint è sempre stata una maledizione per me e per Maroine, fin dalla nostra nascita.
Abbiamo sempre vissuto tra la vita e la morte, in strada, abbandonati a noi stessi, trattati come animali, sfruttati e maltrattati solo perchè senza dimora!
L’unica cosa che ci avete davvero donato voi della compagnia, quando ci avete preso sotto la vostra ala, è stato insegnarci a difenderci.
Null’altro. Non ci avete dato davvero amore. Ci avete usati per i vostri scopi e null’altro.
Vi siete serviti della nostra furbizia, della nostra resistenza e capacità di sopravvivenza, di sfruttare anche le peggiori situazioni a nostro vantaggio. Vi siete serviti dei nostri corpi acerbi in grado di infiltrarsi ovunque, della nostra strabiliante somiglianza, del fortissimo legame che vi è tra noi, dei nostri bei visini, della nostra ignoranza.
Vi siete serviti di tutto. Di tutto ciò  che avevamo da offrire, per ottenere ciò che volevate.
E ci avete fatto improgionare, senza opporvi ai piani di Ephram, rischiando di farci finire al rogo solo per ottenere l’appoggio di Judith.
Ora non abbiamo più nulla da offrirvi, Myriam. Niente.
Non vi è più niente che posso darvi. Nè a te, nè a Beitris, nè a nessun altro.
- Accetteresti di essere svenduto nelle mani di un mercante di quei luoghi, dunque ...?
Accetteresti di finire nelle mani di quella gente immonda, totalmente diversa da noi, che non aspetta altro che ...
- Che cosa? So benissimo che le persone esterne al nostro villaggio ci considerano dei pezzi da collezione unici, e non vedono l’ora di mettere le mani sugli inestimabili abitanti del leggendario villaggio di Bliaint. Non mi preoccupa, sono pronto. Meglio lì che qui. Meglio altrove, qualsiasi sia il luogo, che qui.
Myriam sgranò gli occhi in risposta.
- Hai solo una vaga idea di cosa potrebbe accaderti ...? La tua amica e il tuo monaco ne hanno una vaghissima idea? Forse no perchè non sono mai stati fuori di qui, ma io sì, io ci sono stata. E ti garantisco, Maringlen, che quelli che sono là fuori non hanno il minimo ritegno per coloro che provengono dal nostro villaggio.
- Per quanto mi riguarda, non ne avete avuto neanche voi verso di noi.
Myriam affilò lo sguardo, cercando di carpire qualsiasi informazione in più dal viso deciso del ragazzino di fronte a lei.
Improvvisamente, comprese. – Capisco. Stai ancora sperando di riuscire a salvare tua sorella, non è così? Non sopporteresti la sua morte, d’altronde, ti conosco troppo bene. Come ho fatto a non pensarci prima?
La vuoi portare via di qui, vuoi che tu e lei siate lontani da tutti, da noi, da me.
Vuoi proteggerla da me.
Ancora non riesci a comprenderlo, faccino d’angelo? Maroine è una cadavere ormai.
A ciò, il ragazzino le si fece vicino in un batter d’occhio, arrivando ad un palmo dal suo viso. – Forse non ti è chiaro qualcosa di me, Myriam, qualcosa che non ti è mai stato chiaro: io non mi arrendo fin quando non ottengo quello che voglio. E se ti dico che mia sorella non morirà, ella non morirà.
Faresti meglio a fidarti sulla parola, prima di continuare con le tue speculazioni.
- Non puoi salvarla!
- Certo che posso! Io sarei disposto a fare di tutto pur di salvarla, qualsiasi cosa!
Qualsiasi cosa!! – esclamò a perdifiato. – E quando dico qualsiasi, intendo davvero qualsiasi!
A ciò, Myriam sgranò gli occhi.
- Cosa c’è...? Non avevi pensato a questo ...?
Non hai pensato neanche al fatto che potrei tranquillamente prendere il suo posto, se è uno di noi due che deve essere sacrificato per te, vero? Padre Cliamon ne soffrirebbe in egual, sia che sia io o lei. Avresti la tua tanto agognata vendetta su di lui in ogni caso – affermò senza vacillare minimamente.
- Non avrebbe alcun senso. Lei è già malata, mentre tu no. Devi rassegnarti a questo fatto.
- Io non mi rassegnerò a nulla e sappi che non te la darò vinta.
Anche a costo di finirci io sottoterra, lei vivrà.
Calò il silenzio tra i due, i quali rimasero in quelle posizioni, fin quando la porta della stanza che si aprì non distrasse entrambi.
Da giorni, gli abitanti del villaggio ancora sani avevano cominciato a dividersi a gruppi, per assistere i malati nella cattedrale.
Il primo gruppo era già giunto la mattina, portando viveri, erbe e fiori per infusi e altri beni.
Dopo di che, alla sera, si riunivano tutti a pregare i rispettivi signori, per chiedere loro perdono e supplicarli di liberarli dalla tremenda epidemia.
Il primo gruppo di volontari varcò la porta della stanza incontaminata per togliersi la maschera e respirare un po’ di aria pulita, riprendendosi.
Tra loro, Maringlen notò la presenza di un ragazzino con un bellissimo ciondolo appeso al collo.
Realizzando fosse il ragazzino miracolato di cui parlavano tutti, si avvicinò a lui, allontandosi da Myriam.
- Ehi – richiamò la sua attenzione, facendolo voltare verso di sè.
- Oh .. buongiorno a voi – lo salutò educatamente il fanciullo. – Voi ... siete uno dei due gemelli, vero? Siete uno dei due ragazzini cresciuto da stregoni che erano stati imprigionati e che rischiavano il rogo, prima della ribellione?
Maringlen sgranò gli occhi sorpreso. – Sì, sono io. Ci conosciamo, per caso? Chi siete voi?
- Mi chiamo Christopher Ioan. Ho capito foste voi perchè vi ho visto spesso inginocchiato vicino al giaciglio di vostro fratello malato, nel salone. Voi due vi somigliate davvero tantissimo. L’ho capito per questo – gli spiegò sorridendo timidamente. – Sapete, sono venuto spesso a portarvi del cibo in più quando eravate imprigionati. La volta in cui avete visto un dattero cadere dalla grata della vostra cella, sono stato io a farlo cadere.
- Oh ... beh, grazie, allora. Per la vostra gentilezza.
- Non dovete ringraziarmi. L’ho fatto con piacere. Ad ogni modo, volevo dirvi che mi dispiace molto per vostro fratello – gli disse afflitto.
Dopo aver udito tali parole, gli occhi di Maringlen si posarono inconsciamente sul ciondolo che imperava nel petto di Ioan.
Quest’ultimo se ne accorse e abbassò il viso per osservarlo a sua volta, andando a toccarlo con una mano. – Vi piace il mio ciondolo?
Maringlen annuì. – Dunque è vero quel che dicono? Questo ciondolo vi ha fatto guarire dal vostro malanno? Inoltre, vi protegge anche dall’epidemia?
Indeciso se rispondere o no, Ioan annuì dopo qualche minuto, abbassando lo sguardo.
- Funziona anche con altri oltre voi?
- Non lo so ... – rispose sinceramente il fanciullo.
- Potreste ... potreste usarlo per aiutare mio fratello? – gli domandò speranzoso, puntando i suoi occhi chiari dritti nei suoi, senza lasciargli scampo. – Dato che voi ora state bene, potete farlo indossare anche a lui solo per un po’, giusto il tempo di farlo guarire dall’epidemia.
- Ma se lo farò indossare a vostro fratello ... poi dovrei farlo indossare a tutti i malati.
- No, non ce ne è bisogno. Non lo dirò a nessuno, lo prometto. Voglio solo che mio fratello guarisca. Vi prego, Ioan ...
Dinnanzi a quel viso colmo di speranza e di disperazione malcelata, il fanciullo cedette.
D’altronde, quel ragazzino non era come i maleintenzionati del villaggio che avrebbero voluto strappargli il ciondolo dal collo con la forza se solo avessero avuto la conferma che fosse proprio quello a farlo restare sano.
Glielo aveva domandato con gentilezza, quasi arrivando a supplicarlo.
Improvvisamente, si immedesimò in lui, immaginando ci fosse Blake su quel giaciglio, morente, al posto del fratello gemello del ragazzino dinnanzi a lui.
Avrebbe potuto concederglielo, se ciò fosse davvero servito a salvare suo fratello.
Poi, una volta che il fanciullo fosse guarito, si sarebbe ripreso il ciondolo di Blake. E non lo avrebbe ceduto più a nessuno.
A ciò, Ioan, lentamente e accuratemente, si accinse a togliersi il ciondolo, sotto lo sguardo infinitamente riconoscente di Maringlen.
Tuttavia, improvvisamente, non appena il ciondolo non fu più intorno al collo di Ioan, poichè questo lo poggiò tra le mani di Maringlen, il primo cadde addosso al secondo, come morto, cominciando a tremare tremendamente.
Maringlen si spaventò non appena notò il suo colorito quasi blu e quanto fosse fredda e dura la sua pelle.
Era come se, gradualmente, la vita del ragazzino stesse venendo dolorasemente risucchiata via da lui.
A ciò, avendo assistito alla scena a distanza, Myriam accorse dai due fanciulli biondi, aiutando Maringlen a reggere il corpo come senza vita di Ioan.
Fortunatamente, nessuno dei presenti intorno a loro sembrava prestare attenzione alla scena.
La strega resse Ioan come una bambola rotta tra le braccia, smuovendolo delicatamente, cercando di comprendere che cosa gli stesse succedendo.
- Maringlen, questo ragazzino sta morendo ...
- Cosa ... ma come ... come è possibile?
- Che cosa gli è successo?? Vi ho visti poco fa, sembrava essere sanissimo.
- Si è tolto il ciondolo!
- Dunque le voci sono vere ... è merito del ciondolo – realizzò la giovane donna. – Dammelo, dobbiamo rimetterglielo addosso o morirà tra le mie braccia.
Maringlen non se lo fece ripetere due volte e riallacciò la cordicella del ciondolo dietro la nuca di Ioan, il quale, dopo qualche secondo, sembrò quasi risvegliarsi dalla morte.
Spalancò gli occhi chiarissimi in un ansimo e riprese a respirare, seppur col fiatone.
- Cosa è successo ... cosa mi è successo ...? – domandò con un filo di voce, guardando la sconosciuta che lo stava reggendo tra le braccia, inginocchiata a terra.
Ella gli sorrise spontaneamente senza rendersene conto, cercando in ogni modo di cogliere nel volto di Ioan qualche somiglianza con lui.
A ciò, Ioan la fissò negli occhi. – Chi siete voi ...? – le domandò.
- Nessuno che conoscete, caro – gli rispose aiutandolo a rimettersi in piedi. – Come vi sentite?
- Ora bene ... ma prima ... non ricordo nulla di prima. Era come se ... se fossi ...
- Morto – rispose per lui Maringlen, facendo gelare il sangue del fanciullo appena ripresosi.
- Io ... mi dispiace, ma non posso dare il mio ciondolo a vostro fratello ...
- Lo so bene, l’ho visto con i miei occhi giusto un attimo fa che effetto vi provoca togliervelo anche solo per qualche secondo. Con quale potente magia è stata stregata quella collana?
- Non lo so. Me lo ha dato mio fratello prima di partire. Io non ...
Myriam lo guardò fisso negli occhi, senza distogliere mai lo sguardo.
Delicatamente, avvicinò le dita al ciondolo, sostandovi sopra solo per un po’, senza toccarlo, sotto gli occhi dei due fanciulli biondi.
Ciò che percepì provenire da quella pietruzza ovale dal colore indefinito, fu un’energia oscura, consumante, pericolosa.
Tolse la mano e posò di nuovo gli occhi su quelli di Ioan. - Vostro fratello deve amarvi molto – gli disse con voce dolce. – Abbiate cura di questo ciondolo e della vostra vita.
- E accettate un consiglio: non parlate a nessuno di ciò che è accaduto oggi. Evitate astutamente tutti coloro che vogliono mettere le mani sulla vostra collana. Non so cosa stia accadendo dentro quel ciondolo, ma se è la vostra vita ad essere in gioco dovete proteggerlo a qualsiasi costo.
Siete stato gentile con me e con mio fratello quando ne avevamo bisogno.
Questo è il minimo che posso fare per voi, Ioan.
- Vi ringrazio. Vi ringrazio moltissimo.
 
Finalmente, la destinazione era dinnanzi ai loro occhi, vivida e reale.
Dopo settimane di viaggio e di turbolenti ostacoli, erano finalmente giunti nel villaggio in cui viveva l’uomo che conosceva la corretta composizione della polvere nera.
Ephram si voltò a guardare Blake quando si palesò ai loro occhi la casa che Selma aveva indicato loro come la dimora di un certo von Hohenheim; mentre la strega si accinse a raggiungere la porta dell’abitazione prima di loro.
- Ce l’avete fatta, finalmente.
Al vostro posto farei i salti di gioia sul posto senza trattenermi – gli disse osservando il suo sguardo cupo, come velato da un lieve timore, ma con una determinazione di ferro.
Blake si avviò a sua volta verso la casa von Hohenheim, sapendo che, una volta entrato in quell’abitazione, non sarebbe più potuto tornare indietro.
Era arrivato fino a lì, sudando sangue e quasi perdendo la testa dal collo.
Era il momento.
Selma sembrava conoscere ciò a cui stava andando incontro, proprio come si aspettava.
Seguì i movimenti della donna, la quale bussò alla porta sbattendo il picchiotto dinnanzi ad essa due o tre volte.
Attesero per più di dieci minuti, provando a bussare più volte.
- Forse non è qui – ipotizzò Ephram.
- Impossibile – affermò la strega. – Lui è sempre in casa – aggiunse bussando per l’ennesima volta, stavolta facendo scontrare il picchiotto con la superficie della porta con più aggressività e più volte consecutivamente. - Philippus! Philippus, apri questa dannata porta prima che la apra con i miei metodi! – esclamò Selma. - Philippus!
A ciò, la porta venne aperta, ma non vi fu nessuno dietro di essa. Semplicemente si schiuse, permettendo ai tre di entrare.
Senza attendere oltre, Blake varcò la soglia, venendo invaso da un caldo innaturale, dato dalle finestre totalemente sbarrate della casa e dal camino al centro della stanza acceso e ben animato da un potente fuoco. Per un attimo, gli sembrò quasi di essere entrato nella fucina di suo padre.
- Che puzza di stantìo ... da quanto questo individuo non fa passare un po’ d’aria qui dentro? – si lamentò Ephram coprendosi il naso con un panno.
- Ah! Voi abitanti di Bliaint! Così ossessionati dalla pulizia da trovare ripugnanti anche i fiori che calpestate! - esordì una voce gracchiante per il disuso, ma giovanile.
A ciò, i tre seguirono la traiettoria di quella voce, giungendo ad una seconda stanza aperta, adiacente a quella più grande col camino.
Dentro, vi scorsero la figura di un uomo piegato su se stesso.
Osservandolo solo parzialmente, Blake avrebbe detto che avesse non più di trent’anni.
Quella stessa voce udita poco prima si elevò da quel corpo ricurvo. – L’ultima volta che ti ho vista, Selma, ero un mocciosetto spaurito e tu eri una ragazzina traumatizzata dalla scomparsa della sorella e dalla morte del fratello venuta a rovinare le giornate a mio nonno – disse senza voltarsi a guardarli. – Chi sono coloro che hai portato con te? – chiese poi.
- Come hai ben dedotto dall’affermazione schizzinosa di Ephram, sono con due abitanti di Bliaint.
Non sei contento? Se non sbaglio, quando eri quel moccioso impertinente che ho conosciuto, sognavi di incontrare un abitante di Bliaint.
In risposta, il giovane padrone di casa rise in una maniera bizzarra, alzando finalmente la testa, per volgere gli occhi stralunati e arrossati sui suoi “ospiti”.
- Ho udito talmente tante voci e chiacchiere di paese su di voi, senza che le avessi richieste, da ricordarmele una per una, nonostante nessuna delle bocche che le avesse pronunciate avesse mai visitato il “villaggio impenetrabile” che fa tanto parlare di sè.
Ed ora, mi rendo conto che qualcosa di quelle voci fosse effettivamente vero: belli e spocchiosi. Ma pericolosi neanche un centesimo di quanto si pensa siano.
Detto ciò, l’uomo sorrise di nuovo, senza motivo, questa volta voltando il viso verso la parte della stanza ancora non visibile dalla loro posizione.
A ciò, i tre avanzarono di qualche passo, notando la presenza di un letto che occupava quasi l’intera stanzetta, e sul quale imperava il corpo di un vecchio decrepito.
Nonostante la cera pessima e l’immobilità, sembrava ancora in vita.
- Vedo che il vecchio Philippus è giunto alla fine dei suoi giorni. Me ne rammarico – disse Selma con voce quasi divertita.
Blake si chiese dove fosse il padre del giovane uomo.
- Non ho tempo per badare a te, Selma.
- Certo. Voi von Hohenheim non avete mai tempo per nessuno.
- Non ti ho più vista dopo il piccolo “incidente” avvenuto a cinque giorni dal tuo arrivo e dalla tua sgradita permanenza in casa nostra.
- Ero in fuga dalla mia terra natale e in cerca di un riparo. Non potevo sapere a cosa sarei andata incontro.
- Cosa ti ha spinta a tornare qui dopo ciò che hai rischiato quel giorno? – le domandò egli alzandosi in piedi e avvicinandosi a loro, guardandola meglio. – Buon Dio, ora hai l’aspetto di una di quelle sciamane pagane vagabonde che pretendono di profetizzare nascita, morte e miracoli dell’universo.
- Sempre meglio che apparire come un fallito, che non ha realizzato neanche un quarto di ciò che la sua prestigiosa famiglia e le sue pretenziose ambizioni avrebbero voluto raggiungesse.
Non credevo di trovare una tale miserabilità nei tuoi occhi e nella tua persona, Philippus.
Sei rimasto in questo buco tutti questi anni a badare a tuo nonno, senza fare altro, senza neanche costruirti una famiglia come desideravi?
- Una famiglia ce l’ho ora.
- Ah sì? Bene, almeno è qualcosa – rispose ella derisoria. – E dove sono i fortunati, ora?
- Al di là del mare, lontano da qui. Dovevo continuare a restare al fianco del padre di mio padre fino alla sua dipartita. Questo non è posto per una donna e un bambino.
- “Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus”, ricordo bene? – pronunciò Selma attirando l’attenzione di Ephram e Blake. – Sarà questo il nome del bambino che avrà sulle spalle il peso di possedere il sangue dei suoi ostinati avi, tramandato da generazioni, così come suo padre, suo nonno, i suoi antenati e tutti i discendenti dopo di lui, giusto? Ah! Ho sempre trovato l’usanza del vostro villaggio di tramandare il vostro infinito nome intero di figlio in figlio a dir poco conturbante – aggiunse la donna. – Dunque, cos’è quella faccia stravolta? Non sei felice che il tuo vecchio spiri, così potrai raggiungere la tua bella e il tuo poppante?
- Non osare parlare così di mio nonno, maledetta – la ammonì lui puntandole il dito contro. – Devo portare a termine le sue ricerche, il suo operato. Per fare in modo che non vada sprecato ...
- Oh, povero Philippus ... mai stato al livello del suo prodigioso e noto nonno ... lui sì che è riuscito a dare un contributo a questo mondo buio e spento. Tu, invece? Eccoti qui, a cercare di non disperdere tutto quello che lui è riuscito ad ottenere, senza successo.
- Non riuscirai ad atterrirmi con la tua lingua biforcuta come facevi un tempo, donna – resplicò lui rivolgendole un sorriso distorto.
Il suo viso aveva qualcosa di strano.
Come se avesse trascorso intere lune rinchiuso, parlando solamente con un corpo privo di coscienza e con la fiamma del fuoco che si preoccupava tanto di tenere animato.
Oppure, di un uomo che aveva trascorso un’intera vita sotto il giogo di qualcuno che lo aveva costretto ad assistere ai suoi esperimenti sovrannaturali, isolandosi dal mondo esterno.
Philippus si grattò la testa e la chioma scompigliata con fare agitato, alternando stati di forte ansia, con momenti di incredibile lucidità, in un lunatico sali e scendi che stava dando la nausea a Blake.
- Oh, credimi, tra i tuoi tre ospiti, non sono certo io ad avere la lingua biforcuta – disse Selma voltando lo sguardo verso Blake.
A ciò, Philippus parve come riprendere coscienza della presenza degli altri due. – Giusto, giusto ... perdonatemi se non vi offro un infuso caldo, mi rendo conto di non essere il padrone di casa migliore del mondo – disse con finto sarcasmo, osservando i due. – Possiedi gli stessi segni che ha lui, sul corpo? - domandò a Selma, notando uno dei complessi marchi che copriva la pelle di Ephram sbucare sul suo polso.
La donna sbuffò, spazientita. – Se la mia conferma ti serve a fare una delle tue affermazioni banali e scontate sul mio vissuto a Bliaint come penso, non serve che te la dia. Piuttosto, siamo qui per un motivo.
- Già, mi stavo proprio chiedendo quale fosse ... il potente mordente, lo stringente motivo che ti ha spinta a tornare nel luogo dei tuoi più bui terrori ... – disse Philippus concentrandosi a guardare Blake questa volta.
- Ho udito la voce di tutti e due i vostri compagni sinora, tranne la vostra, ragazzo. Parlate – lo esortò con decisione.
A ciò, Blake gli rivolse uno sguardo eloquente che servì a fargli capire che gli sarebbe stato impossibile udirlo, unito ad un gesto di negazione con la testa.
- Cosa vi è accaduto al collo? – gli chiese poi.
- Come immaginerete, il mutismo forzato ha origini lì, buon uomo – lo informò Ephram.
- Non sono stupido, ragazzo – lo zittì Philippus, per poi tornare su Blake. – Fatemi indovinare: siete voi che siete voluto venire qui, non è così? A causa vostra Selma ha violato la promessa solenne fatta a se stessa di non mettere più piede in questa casa, per non affrontare le sue paure remote ... ho indovinato?
Che cosa cercate da me, ragazzo?
- Ciò per cui sono scappata da qui e ho giurato di non tornare – rispose per lui Selma.
A ciò, Philippus scoppiò in una grassa risata. – Davvero?!? Si tratta di questo?? Nonostante il pericolo che comporta l’utilizzo di quella miracolosa polvere del demonio, hai comunque accettato di portare queste due ignare “gemme” di Bliaint proprio qui??
- È stato lui a volerlo vedere con i suoi occhi – lo informò Selma.
- E tu glielo hai permesso?
Stavano parlando quasi come se lui non fosse nella stanza e ciò gli stava cominciando a dare sui nervi, in aggiunta alla situazione in generale.
Blake credeva che, una volta giunto in quella dimora, si sarebbe trovato davanti un uomo cosciente e consapevole di ciò che faceva, non un giovane erede folle che stava cercando di rimettere insieme i pezzi di un lavoro non suo, non sapendo da dove cominciare.
Avrebbe preferito parlare con il nonno di quell’uomo, se solo questo non fosse stato sul letto di morte.
Philippus ritornò con lo sguardo su di lui. – Sapete per quale motivo Selma è rimasta fortemente turbata da ciò a cui ha assistito qui, nel periodo in cui, casualmente, mio nonno stava lavorando sulla composizione della polvere nera?
- Non c’è bisogno di ricordarlo, Philippus ...
- Ha visto una persona che ha inghiottito la polvere nera, dinnanzi ai suoi occhi – disse a bruciapelo l’uomo. - Il corpo di costui è scoppiato e si è frantumato in decine e decine di pezzi di carne che fendettero l’aria, in un tripudio di sangue e viscere. Il rumore assordante è forse ciò che l’ha spaventata di più.
Io ho visto talmente tante volte mio nonno usarla sulle sue cavie animali, che, quando è accaduto il suddetto “incidente”, ciò non ha provocato in me alcun effetto, nonostante fossi un bambino – spiegò con naturalezza. - Ah, dimenticavo: la nostra cara amica in comune stava per rimetterci la pelle. Credo porti ancora i segni sul suo corpo di quel giorno – concluse riportando gli occhi stralunati su di lei.
Selma distolse gli occhi altrove.
Non poteva affermare che riportare alla mente quel funesto ricordo non le provocasse più alcuna reazione.
- Per quale motivo dovrei cedervi la composizione della polvere nera? A cosa vi serve? – domandò Philippus avvicinandosi ancor di più a Blake. – Voglio sentirlo dalla vostra voce.
Ephram e Selma rimasero attoniti di fronte a quella richiesta.
- Forse non ti è ancora chiaro un fatto più che lampante, mio vecchio amico ...
- Lo so, Selma: ha perso la voce. Ma voglio comunque sentirlo da lui – disse Philippus, continuando a guardare il ragazzo, fissando quegli occhi taglienti e sfidanti. – Facciamo un patto – continuò l’uomo. – Se riuscirete a dirmi il vostro nome e per quale motivo siete venuto fino a qui per ottenere la composizione della polvere nera, convincendomi a darvela, sarà vostra.
Dinnanzi a quella sfida pressocché fisicamente impossibile, Blake sorrise amaramente divertito e frustrato, serrando la mascella.
In una situazione normale, in una circostanza in cui avessi ancora ciò che mi appartiene di diritto dalla nascita, avrei ottenuto quella polvere in meno di un minuto di conversazione con voi, von Hohenheim.
State giocando sporco e sappiate che, in caso di necessità, non mi farò alcun problema nel farlo a mia volta.
Ephram si sedette, come in procinto di godersi tutto ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti da una buona visuale.
- Vi state divertendo, stregone? – domandò Philippus al giovane appena accomodatosi, il quale sorrise di gusto.
- Molto, grazie per averlo domandato.
- Anche voi siete uno stregone? I vostri occhi dicono di no – disse Philippus rivolgendosi nuovamente a Blake. – Se lo foste anche voi, vi avrei cacciato via da casa mia senza neanche riflettere sulla possibilità di cedervi ciò che la metà degli uomini occidentali brama o comincerà a bramare da qui a qualche secolo.
Voi siete solo in anticipo sui tempi, a differenza degli altri.
Per quale motivo dovrei cambiare idea? – lo sfidò ancora. – Parlate. Voglio che mi parliate. E no, quello che sto dicendo non ha nulla di simbolico o metaforico. Pretendo che tiriate fuori la voce dalla vostra gola per riferirmi tutto quello che vi ho chiesto, in senso letterale.
Blake cercò di mantenere la calma e di ragionare lucidamente dinnanzi alla subdola e falsa furbizia di quell’uomo.
Continuò a guardarlo, rivolgendogli un’espressione di disprezzo, che Philippus accolse con un ghigno soddisfatto. – Ad ogni modo ... in attesa che voi soddisfiate la mia richiesta, ritengo che avere una dimostrazione pratica di ciò a cui andrete incontro se continuerete a voler giocare con quest’arma estranea a cielo e terra, potrebbe solo giovarvi.
Selma spalancò gli occhi, sbiancando impietrita, a quelle parole. – Philippus, no! Non vorrai ...
- Questa è casa mia, Selma! Posso fare ciò che desidero, ed è mia intenzione farlo – si impose lui. – I tuoi trucchetti da negromante non mi spaventano, in quanto io posseggo armi molto più potenti della tua magia nera, donna.
Ora stava delirando, la lucidità sembrava averlo momentaneamente abbandonato, e Blake si chiese se avesse assunto qualche sostanza particolare che gli provocasse tali effetti o ciò fosse solamente frutto del suo stile di vita.
- Che cosa vuoi fare, Philippus...? Rispondimi!! – insistette la donna, seguendolo mentre egli vagava per la casa come in cerca di qualcosa.
- Siamo ancora in tempo per uscire da questa casa e fare ritorno a Bliaint tutti interi - gli propose Ephram. - Diremo a chiunque che la polvere nera è solamente una leggenda che usano gli uomini orientali per incuterci timore, come già credono tutti coloro che ne hanno sentito parlare.
Ephram credeva di risultare allettante ai suoi occhi con una tale offerta in un momento di difficoltà come quello, non rendendosi neanche lontanamente conto quanto si sbagliasse di grosso.
Blake non gli prestò attenzione, continuando a concentrarsi sui movimenti sconnessi di Philippus, il quale cominciò ad imbottire la bocca di suo nonno mezzo morto di qualcosa che il ragazzo non riuscì a vedere a quella distanza, ma che potè ben immaginare.
- Non ha coscienza ... non ha più coscienza ... non sente più niente ... è più morto che vivo ... – continuava a ripetersi, autoconvincendosi di star facendo un favore al vecchio che lo aveva cresciuto, invece che di stargliela facendo involontariamente pagare per la vita solitaria, crudele e miserabile a cui l’aveva condannato.
- Philippus ... fermati, ti prego – lo supplicò Selma cercando di mantenere la calma, nonostante tutto. – Non commettere lo stesso errore che tuo nonno commise al tempo ...
- Quell’uomo era un millantatore e un truffatore accanito, Selma! – esclamò Philippus persistendo nella sua delicata operazione. – Meritava quella fine!
- Nessuno meriterebbe una fine simile!! Tuo nonno era un folle!
- Dovresti essere felice di ciò che sto per fare, dunque!
- Stai delirando! L’esplosione colpirà anche noi qui dentro, dobbiamo uscire di qui!
- Il ragazzo deve vedere a cosa sta andando incontro!
- No, che non deve! Se vuoi morire con il tuo vecchio, fa’ pure ma lasciaci fuori da tutto questo!
- Io sono Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus e decido io cosa accade nella mia dimora!
Blake cominciò a pentirsi di aver fatto tutta quella strada per giungere nella dimora di quel ciarlatano, ed Ephram con lui.
I due raggiunsero Selma e Philippus.
- Allontanatevi di qui! – li implorò Selma.
- Meritiamo di morire tutti qua dentro solo per aver preteso di eguagliare Dio con le nostre azioni impenitenti! – esclamò Philippus nel pieno del suo delirio, continuando a riempire il corpo del vecchio di polvere nera.
- Cosa possiamo fare per farti cambiare idea?? – domandò Selma arrendevole.
Erano tre contro uno, avrebbero potuto immobilizzarlo in qualsiasi momento.
Tuttavia, se lo avessero fatto, egli non avrebbe mai rivelato la composizione della polvere nera.
Avrebbero dovuto farlo parlare in un modo o nell’altro, rifletté Blake tra sè.
Decise che ci avrebbe provato.
Aprì la bocca, sforzando la gola fino all’inverosimile.
- B... Blake ... – la voce, se quel distorto e bassissimo rumore così si poteva davvero chiamare, gli uscì fuori grave, rotta, innaturalmente graffiante e dolorosa da udire.
Il suo nome. Era la prima informazione che lui voleva sentir uscire dalla sua bocca.
Non appena esalò quel suono, gli altri tre si immobilizzarono, voltandosi a guardarlo.
Lo sguardo di Philippus si accese di una strana luce. Soddisfatto di se stesso, si avvicinò al ragazzo, con ancora le mani sporche di polvere nera. – Avete visto?! Sapevo che ne eravate capace! Era questo quello che volevo!! Avanti! Avanti,  Blake, continuate! Continuate a parlare e a dirmi quello che voglio sapere da voi!!
La gola gli bruciava come se fosse percorsa da rovi ardenti, motivo che lo spinse a provare ancor più odio cieco nei confronti di quel folle.
- Ditemi a cosa vi serve!! – insistette l’uomo.
- Se ... ve lo dirò ... – la voce era sempre più rotta e rauca, come provenisse dagli antri degli inferi, e il dolore che sentì corroderlo per lo sforzo lo stava logorando. - ... mi direte la ... composizione ...
- Sì, lo farò.
- ... E me ne darete ... due sacche ... da portare a Bliaint ...
- Avete la mia parola!
Improvvisamente, la gola cominciò a bruciargli insopportabilmente, portandolo a stringersi le mani intorno al collo, trattenendo le urla di dolore.
Ciò fu tuttavia utile a distrarre Philippus il tempo necessario che permise a Blake di afferrare il pugnale che teneva al riparo nella sua cintola e a puntarlo al collo dell’uomo senza quasi essere visto.
Philippus indietreggiò, con la lama a premergli sulla pelle che ricopriva la giugulare.
Blake lo fulminò.
“La composizione” gli disse, ma senza che dalla sua bocca uscisse alcun suono.
- Non posso rivelarvela ... – disse Philippus indietreggiando ancora, alzando le mani al cielo.
A ciò, la lama perforò una piccola porzione della gola dell’uomo, ma senza andare in profondità.
“Non ve lo ripeterò un’altra volta”
Per quale motivo bramavate udire qualcosa che non esiste più, insulso inetto?
Ottenere l’impossibile? Questo è quello che desiderate?
Questo è quello che vorremmo tutti, ma non per questo saremmo tutti ad ottenerlo.
Prima che qualcuno riuscisse a realizzarlo, Philippus indietreggiò tanto da far precipitare la lampada ad olio a terra, rompendola.
Il pavimento di legno cominciò a prendere fuoco, arrivando velocemente al giaciglio in cui era sdraiato il corpo quasi senza vita e imbottito di polvere nera del vecchio.
Fu una frazione di secondo.
Selma afferrò il braccio di Blake con forza, trascinandolo fuori casa con sè; Ephram fu il primo ad affrettarsi ad uscire dall’abitazione, lanciandosi sul vetro della finestra più vicina; mentre Blake fu l’unico a preoccuparsi di trascinare fuori dalla dimora in fiamme anche Philippus.
Uno scoppio tremendo e dal rumore assordante fendette il vento gelido.
Non seppe quanto tempo fu trascorso, quando riaprì gli occhi, ritrovandosi sdraiato sul prato intorno alla dimora, circondato dalle macerie bruciate della casa e da quelli che riconobbe come pezzi di carne e di sangue vivo, nonostante la vista abbannata. Blake tossì più volte, percependo le orecchie fischiargli terribilmente, una sensazione che non aveva mai provato prima, e che lo atterrì dal dolore.
Fortunatemente, era riuscito ad uscire dalla casa in tempo a non rimanere ferito dalla terribile esplosione, anche grazie alla prontezza e all’esperienza di Selma.
Solo dopo qualche secondo visualizzò le figure di decine di uomini, donne e bambini intorno a loro, intenti a fissare la catastrofe inorriditi.
- Di nuovo!!
- È accaduto di nuovo!
- Il flagello divino ci ha colpiti ancora!!
- La polvere del Demonio è piombata su di noi tramite questa dimora maledetta!
- Von Hohenheim!! A morte, von Hohenheim! A morte voi e tutte le vostre generazioni avvenire! Siate maledetti!
La voce del villaggio si stava facendo sentire, ma Blake riuscì a carpire a malapena qualche sillaba provenire da quelle bocche distorte, contorte e terrorizzate, a causa dell’interminabile e rumoroso fischio alle orecchie.
- Tutto bene...? – udì quel suono ovattato provenire da una voce familiare.
- Sì ... – rispose voltandosi verso la fonte di quella voce, trovando Ephram accovacciato accanto a lui, con il volto stravolto e parecchi graffi addosso.
Il giovane stregone spalancò gli occhi nocciola nell’udire per la prima volta la voce del ragazzo, provenire quasi totalmente pulita e immacolata dalle sue labbra.
Blake se ne accorse a sua volta e ammutolì, attonito, ma troppo invaso da mille sensazioni diverse per realizzare tutto ciò che stava realmente accadendo.
- Avete il labbro spaccato... – lo riscosse nuovamente Ephram, portandolo a toccarsi il mento macchiato di sangue.
- Dov’è Selma? – domandò sentendo anche la propria voce ovattata.
Ephram lo aiutò a rimettersi in piedi e i due accorsero verso la sagoma di Selma accartocciata a qualche metro da loro.
La donna si stringeva la coscia in maniera convulsa, imprecando a denti stretti e urlando di dolore.
- Maledizione ...! Ho scampato già una volta la morte o la mutilazione a causa di quel flagello ... sapevo che il nostro Signore mi avrebbe punita se fossi tornata qui!! – urlò verso i due, i quali le scoprirono la gamba dalla sottana per controllare l’entità della ferita.
- Hai visto ora?! – esclamò prendendo il viso di Blake e alzandolo verso di lei per guardarlo negli occhi. – Hai visto che cosa è in grado di fare?!? Hai appurato quanto pericolosa e temibile sia l’onnipotenza di quella polvere?! Ora, dimmi, vuoi ancora portare quel flagello a Bliaint?!?
- Selma, devi calmarti! – la esortò Ephram mentre le fasciava la coscia semi scorticata.
- Non sento niente!! – gli rispose Selma disperata. – Non sento più niente!!!
Dopo diverse altre urla, la donna svenne per il dolore e lo spavento, portata via da due fanciulle del villaggio, che la condussero a casa loro per medicarla.
Il giovane Philippus lo trovarono steso su un’altra porzione di prato, a faccia in giù, con una ferita aperta alla testa.
I due ragazzi convinsero le levatrici a prendersi cura anche di lui, a medicarlo, garantendo loro che, in cambio della loro gentilezza, non avrebbero più rivisto l’uomo mettere piede nel loro villaggio.
Lo avrebbero esiliato, non permettendogli più di tornare alla sua terra natale, pena la morte.
Nonostante non avesse ottenuto la composizione per creare la polvere nera, Blake non si diede per vinto e, la sera del disastro, dopo essersi ripreso dall’accaduto, tornò sul luogo dell’esplosione, in cerca anche solo di qualche granello rimasto.
Cercando e ricercando tra le macerie, tra le pagine dei libri arsi sparsi ovunque, tra gli appunti, le formule e i risultati degli esperimenti, trovò anche un piccolo sacco ancora intatto, contenente l’agognata e tanto odiata polvere nera.
Soddisfatto, Blake racimolò tutti i frammenti di pagine di appunti che riuscì a recuperare, insieme al sacco, e tornò nella dimora in cui avrebbero trascorso la notte prima di rimettersi in viaggio per tornare a Bliaint.
Il suo interminabile viaggio era finalmente giunto al termine.
Rientrato nella casa della famiglia della levatrice che li stava ospitando, Blake venne richiamato da Ephram, il quale, gli fece segno di avvicinarsi al giaciglio in cui era sdraiato e accudito Philippus.
L’uomo sembrava avere appena ripreso conoscienza e possedeva uno sguardo vuoto, totalmente differente da quello che aveva avuto fino a prima dell’esplosione.
Blake si avvicinò, guardando prima Ephram, poi Philippus, il quale ricambiò la sua espressione rivolgendogliene una interessata e curiosa, quasi come fosse la prima volta che lo vedesse.
- Che succede? – domandò il ragazzo, sedendosi accanto al giaciglio.
- Come vedete ... si è svegliato. Tuttavia ... – pronunciò Ephram, non sapendo esattamente quali parole utilizzare.
- Tuttavia ...? – insistette Blake.
- Qual’è il vostro nome, signore? – domandò Ephram allo stranamente spensierato Philippus, facendo storcere il naso a Blake per una domanda tanto banale.
Ma il ragazzo si ricredette non appena udì la risposta dell’uomo:
- Non lo so. Non ricordo il mio nome – rispose con tranquillità Philippus, con la stessa espressione persa di un bambino che aveva perduto la strada di casa.
- Non ricordate chi siete? – continuò Ephram.
- No – confermò l’uomo, guardando prima uno e poi l’altro, accennando un sorriso ingenuo. – Voi due ... sapete dirmi chi sono io, cosa ci faccio qui e qual è il mio ruolo?
I due ragazzi si guardarono tra loro rivolgendosi, a vicenda e tacitamente, tante di quelle domande da risultare innumerabili.
Era davvero possibile?
Come era possibile che fosse accaduto?
Perchè non avevano mai udito una cosa simile accaduta a qualcun altro, altrove?
Poteva accadere anche ad altri?
Che significava tutto ciò?
Quell’uomo era davvero una persona nuova, da poter plasmare a piacimento da capo a piedi?
Ma soprattutto: in lui erano rimasti ancora stralci di ricordi della sua vita passata e degli esperimenti che aveva condotto suo nonno? Ricordava la composizione della polvere nera e i vari usi che se ne potevano ricavare?
- Ditemi ... ditemi qualcosa. Chi sono io? Chi siete voi? – lo riscosse nuovamente colui che un tempo era stato Philippus e che ora non era più nessuno.
Blake distolse lo sguardo da Ephram e lo riportò sull’uomo, rivolgendogli un sorriso incoraggiante e rassicurante.
Evidentemente lo stregone non gli aveva ancora detto nulla e aveva preferito aspettare lui per capire il da farsi.
A ciò, Blake prese le redini della situazione, ben felice di farlo. – Potrete decidere voi chi essere, d’ora in avanti – gli disse. – Decidete voi da solo il vostro nome, signore – lo esortò sorridendogli.
L’uomo sorrise di rimando e si guardò intorno, genuinamente combattuto, per poi posare gli occhi dal taglio felino sul piatto con gli avanzi della pietanza che aveva consumato poco prima, al suo risveglio.
- Come avete detto che si chiama quello che mi è stato servito da mangiare?
Ephram alzò un sopracciglio in risposta. – Intendete la carne che avete consumato? È carne di uccello.
- E come avete detto che si chiama?
- Quaglia. È carne di quaglia.
- Bene. Questo. Questo sarà il mio nome: Quaglia – disse fieramente a Blake, come se avesse appena raggiunto un grande traguardo.
- Molto piacere, Quaglia – gli rispose Blake sorridendogli ancora incoraggiante. – Io sono Even Blake e, d’ora in poi, saremo compagni di viaggio.
 
Un dolore allucinante invase il suo corpo.
Delle immagini sconnesse si susseguirono nella sua mente: il prato bagnato di vino, di stralci di sangue e altri liquidi; le persone sopra di esso che si muovevano convulsamente, confusi e fuori di sè.
Il focolare che avevano acceso e che aveva animato i festeggiamenti fino a quel momento, ora era quasi spento.
Stava litigando, litigando furiosamente con qualcuno che sembrava ... se stessa.
Le lunghe ciocche cremisi arruffate, gli occhi rabbiosi e più neri del buio pesto che li circondava, il bellissimo vestito che aveva indossato quel giorno al matrimonio ...
Non vi era alcun dubbio.
Judith si stava accapigliando con un corpo che era il suo, ma dominato da qualcun altro che non era lei.
Con chi stava discutendo tanto selvaggiamente...?
In quale corpo si trovava lei?
Era più alto, sicuramente più alto del suo.
Spinse il proprio corpo dinnanzi a sè, facendolo barcollare tremendamente all’indietro e quasi perdere l’equilibrio.
Non ricordava di possedere una forza tale ... non era mai stata così forte fisicamente.
Non vi era abituata e non sapeva come gestirla ...
Il corpo maschile che stava abitando quella notte venne improvvisamente attaccato da colui o colei che abitava il suo, che, ripresosi dalla violenta spinta, gli si scagliò contro.
Il dolore che sentiva nelle zone basse di quel corpo nuovo, la stava lasciando quasi senza fiato ...
- Perchè...?!? – le chiese la sua stessa voce, nonchè la voce disperata di chiunque si trovasse lì dentro.
Avrebbe dovuto ricordare ... perchè non ricordava ...?
- Perchè, Judith?!?! Quel corpo è mio!! Mio!! Non puoi servirtene come vuoi!!
Dunque era così...? Che cosa gli aveva fatto? Che cosa aveva fatto a quel corpo estraneo che ora le stava facendo provare tanto dolore ...? Era stata lei stessa a provocarsi un dolore simile...?
Che cosa aveva fatto a colui che le stava urlando contro con gli occhi lucidi di furia, annebbiati dal vino e dagli effetti del rito a cui si erano sottoposti.
Con la coda dell’occhio, notò Naren seduto a terra e rannicchiato su se stesso.
Stava ... piangendo?
- Sai ... non ho alcun problema ... nel ricambiare il favore. – esalò la propria voce dominata dallo sconosciuto, ora gelida, che sembrava così diversa da come l’aveva sempre udita uscire dalla propria bocca.
Era algida, ribolliva di un’ira velenosa, pericolosa, vendicativa ...
La spaventò. Chiunque stesse abitando il proprio corpo la spaventò.
- Non ti dispiace, vero ...? Se faccio lo stesso ...
Non ti dispiace se mi servo del tuo corpo come più mi aggrada ...?
Per farti sentire come mi sento io ora e come mi sentirò quando tutto questo finirà ...
Una vendetta degna della tua spregevolezza ... del tuo egoismo ... della tua fame ... della tua spietata noncuranza ... – continuò colui che si trovava dentro il suo corpo, avvicinandosi gradualmente a Naren, persistendo nel guardare lei, tuttavia.
Le sue forme, le sue curve, il suo vestito sporco e strappato che aderiva alla sua pelle ...
Vedersi dall’esterno, da occhi non suoi ... le fece rendere conto quanto fosse peccaminosa quella visione, quanta lussuria e voluttà sprigionasse il suo giovane corpo, carezzato dalla chioma infuocata, distortamente ornata da quello sguardo freddo e vendicativo che non le apparteneva ... ma che, tuttavia, rendeva tutto quel quadro ancor più accattivante e irresistibile.
Quando Naren alzò lo sguardo in lacrime e distrutto dai sensi di colpa sulla Judith fasulla .. la sua espressione si incrinò.
Egli sapeva che non era lei ad abitare quel corpo ... lo sapeva ...
Eppure, la carne ... la debolezza della carne dell’uomo che amava e la crudele sensualità di colui che stava abitando il proprio corpo, contribuirono a far agire Naren, senza che quest’ultimo lo volesse davvero.
Era guidato dal desiderio, completamente accecato da esso ...
Era dominato dalle sensazioni che il corpo della sua amata, quel corpo che aveva desiderato così tanto stringere, assaporare, penetrare, fondere a sè, gli stava provocando.
Un momento di debolezza.
Un momento di debolezza che vale una vita intera ...
Mentre la Judith fasulla allargava le cosce e si sedeva addosso al suo amore proibito, esattamente dinnanzi ai suoi occhi, continuando a guardarla crudelmente, sentì il proprio cuore fermarsi ...
- No ... – esalò con quella voce maschile che non riconosceva come sua.
- No! Van, no! Non farlo!! Non sono io, Naren!! Non sono io!!! Io sono qui! C’è qualcun altro lì dentro! Non sono io!!! Si sta vendicando!! Si sta solo vendicando!
Di cosa si stava vendicando...?

Quella domanda martellò la sua mente mentre continuava a urlare a Naren, avvicinandosi ai due per dividerli.
Nonostante il corpo maschile che abitava fosse troppo dolorante per permettersi di compiere movimenti troppo avventati, fece per scagliarsi su di loro, ma, non appena incontrò gli occhi di Naren a distanza, si bloccò.
Gli occhi lucidi di Naren che la guardavano, consapevole di non star stringendo davvero lei, ma qualcun altro, qualcuno che della sua amata non possedeva nulla se non il suo bellissimo contenitore.
Gli occhi di Naren lucidi di lussuria, di senso di colpa, di cedevolezza, di frustrazione, di perdizione.
Le mani del suo uomo strinsero, strinsero senza timore le carni delle cosce del meraviglioso corpo che si trovava sopra di lui e lo dominava, conducendo le danze. Strinsero non riuscendo a fare a meno di farlo, non riuscendo a fare a meno di toccare, di saggiare, di lasciarsi trascinare da quel desiderio che da troppo tempo gli stava tormentando i lombi senza dargli tregua.
Egli le rivolse un’ultimo sguardo ancora lucido, pronunciandole qualcosa in labiale che la fece rabbrividire:
“Perdonami, amore. Perdonami, per ciò che sto per fare ...”
E lei restò a guardarli, da spettatrice, per tutto il tempo dell’atto, selvaggio e spettacolare, nonostante Naren non resistette quasi per nulla dentro quel corpo tanto bello e bramato.
Venne, la inseminò più e più volte, ripetendolo, come insaziabile, maneggiando quel corpo vivo e caldo come fosse una bambola, una splendida bambola che ha acquisito vitalità con lo scopo di soddisfare i peggiori e più proibiti appetiti.
E colui che era causa di tutto questo, che era responsabile di aver sedotto Naren senza il minimo sforzo, che si stava vendicando crudelmente di lei, stringeva i denti e serrava la mascella, sopportando tutto, pur di farle del male, pur di ferire, macchiare e contaminare quel corpo, che avrebbe abbandonato la mattina seguente.
Quando Naren si liberò del suo seme per l’ennesima e ultima volta, svuotato nell’anima e nel corpo, crollò, ansimante e sull’orlo delle lacrime, sopra colui che aveva l’aspetto della donna amata.
Senza alcuna espressione in volto se non un velo di soddisfazione, colui che abitava il corpo della fanciulla si liberò schifato del peso morto di Naren sopra di sè, e si rialzò in piedi, riabbassandosi l’abito sulle gambe bagnate fradice di seme, senza alcuna cura.
- Che cosa hai fatto ...? – esalò con quella voce maschile che stava iniziando ad odiare, distorta dai suoi ricordi confusi e ovattati.
A ciò, la se stessa fasulla si avvicinò a lei.
- Sei un demonio... – gli disse, vedendolo sorridere ferito in risposta.
- Lo sei stata tu prima di me. Conosci la regola dell’occhio per occhio.
- Che cosa ho fatto...? Che cosa ho fatto con il tuo corpo...?
- Non lo ricordi più?
- Ha dei vuoti di memoria... Io lo amo ... Lo amo, e tu me lo hai portato via ...
- Non temere: è solo una notte.
Sarà pur sempre tuo il corpo che dominerà le sue memorie.
- Non possiamo. Noi non avremmo potuto farlo! Hai rovinato tutto!! Tutto! Tutti i sacrifici che avevamo fatto finora!
- Lui lo voleva. Lo voleva così tanto, da star per impazzire – le rispose velenoso. - Gli ho dato semlicemente quello che voleva, Judith.
Il proprio sguardo, il proprio viso dominati da lui ... erano totalmente diversi, pensò la ragazza, memore della propria immagine allo specchio.
- Ora che il suo seme è dentro di me... finiremo bruciati entrambi!! E con noi il bambino che potrei mettere al mondo!! – realizzò orrendamente, sentendo il proprio spirito disintegrarsi, pezzo dopo pezzo.
- É per tale motivo che lo hai fatto? Per questo hai commesso un’azione tanto ripugnante, Judith, usando il mio corpo per provare quelle sensazioni che bramavi tanto provare e sentire sulla tua pelle, senza rischiare di venire fecondata dal seme del mostriciattolo per cui hai perso la testa?
Lui si è divertito quanto ti sei divertita tu, quando lo hai convinto ad assecondare le tue voglie e i tuoi vizi? – gli domandò rabbioso. – É bastato a te ma non a lui a quanto pare ...
- No ... non posso averlo fatto. Stai mentendo ... io non ricordo ...
- Toglimi una curiosità: com’è stato? Appagante? Doloroso? Avvilente?
Ti sei ricordata di essere in un corpo da uomo e non da donna mentre godevi?
Sai, io non l’ho sentito perchè ero nel tuo corpo in quel momento, come lo sono ora.
Ma, ahimè ... ho visto tutto.
Eppure ... sarò io a pagarne le conseguenze domani mattina, quando tornerò ad occupare quel corpo che hai massacrato con tanta sconsideratezza.
Solo a causa della tua fame.
La tua mostruosa fame.
- Non puoi star dicendo il vero ... non puoi star dicendo il vero! Io non l’ho fatto! Io non ti ho fatto nulla! Non ho costretto Naren, non ho costretto nessuno! Io non ricordo!
- Credevo avresti impiegato molto di più a forzarlo a violare un corpo che non era quello della sua amata.

Speravo in questo.
E invece ... ti sono bastate due paroline dolci e lussuriose sussurrate al suo orecchio.
Che cosa gli hai detto, eh?
Gli hai detto di immaginare te mentre consumavate l’atto?
Gli hai detto che tu avresti goduto e sentito tutto con lui, fino all’ultimo potente e vigoroso gemito?
Gli hai detto che sarebbe stato come farlo con te, ma solo con l’anima?
Non si è lasciato neanche pregare, il mostriciattolo ... ha eseguito ogni tuo ordine senza fiatare, con solo un insignificante velo di turbamento su quel visetto tondo e ripugnante.
E gli è piaciuto. Eccome se gli è piaciuto... il suo volto e il suo corpo parlavano per lui.
Ma mai quanto è piaciuto a te ... schifosa serpe.
- Smettila!! Taci quell’antro velenoso e menzognero!!
- Ti credevo diversa – le disse avanzando verso di lei, spingendola a indietreggiare sempre più.
- Taci!! Vattene da me, dannato!!
- Finchè avrò il tuo corpo e tu il mio, non me ne andrò da nessuna parte.
- No!!
Troppo tardi si rese conto di aver indietreggiato troppo: quando il piede si posò nel vuoto, incontrando solamente rami secchi, rovi e spine sul ciglio di una fossa, prese coscienza di non potersi aggrappare a nulla.
Cadde dentro la fossa, piombando dentro un enorme cespuglio di rovi e di rose spinose.
Si svegliò di soprassalto da quel sogno che solo un sogno non poteva essere.
I capelli rossi sudati e attaccati alla fronte, le membra tremanti, le mani artigliate alle lunzuola del giaciglio, il fiato spaventosamente corto.
Non aveva mai avuto un ricordo tanto vivido e ovattato insieme, durante un sogno.
Finalmente, stava riuscendo a recuperare dei ricordi di quella maledetta nottata che aveva segnato la sua intera esistenza.
Tuttavia, non era più certa di voler sapere.
L’ira infiammante nei confronti di colui che un tempo amava la animò ancor di più, facendole venire voglia di urlare a squarciagola durante la notte, incurante di svegliare l’intera cattedrale.
Cercò di calmarsi e di regolarizzare il respiro, ripercorrendo dolorosamente tutto ciò che aveva appena sognato e ricordato.
Non poteva aver commesso qualcosa di tanto orrido e marcio.
Lei non era tanto marcia.
O, per lo meno, era sempre stata convinta di non esserlo, autoconvincendosi di aver sempre voluto agire per il bene comune.
“La tua mostruosa fame.”
Ricordò quella frase pronunciata con tanto ribrezzo e astio.
Provò a ricordare anche il timbro e il colore della voce appartenuta al corpo maschile che aveva abitato quella notte.
Ma non riusciva a ricordare, poichè lo sentiva distorto, come lontano.
L’unico indizio che aveva, risiedeva nell’atteggiamento e nelle parole che le aveva pronunciato egli, annebbiato dal disprezzo e dalla vendicativa rabbia che lo animava.
L’unico con il quale avrebbe voluto sfogarsi e parlare di tutto ciò, l’unico che stava vivendo un tormento simile al suo in merito a quella nottata, al momento era disteso su un giaciglio in mezzo agli altri malati, in bilico tra la vita e la morte.
Judith si massaggiò le tempie, trattenendo la rabbia e le lacrime.
Oramai non sarebbe più riuscita a riprendere sonno, perciò si alzò in piedi, prendendo a massaggiarsi il ventre.
Accese una candela e raggiunse lo specchio appeso sopra il tavolino della stanza.
Guardò la propria immagine riflessa.
Improvvisamente, la voglia di sfogare tutte le lacrime che aveva in corpo si fece più intensa.
Poggiò la candela sul tavolino, unica fonte di luce che le permetteva di accedere alla vista del suo procace corpo da fanciulla coperto dalla vestaglia di lana pregiata che gli fasciava seno, ventre e fianchi.
Si abbracciò da sola, stringendo le dita sulle braccia candide, premendo fino a farsi male, senza alcun motivo.
“Ma a me non fa male” . La frase che ripeteva sempre da bambina.
Naren aveva violentato il suo corpo.
Lei non l’aveva sentito perchè l’aveva sentito qualcun altro, ma ne stava subendo le disastrose conseguenze.
E i giorni seguenti all’accaduto non aveva provato alcun dolore solamente perchè da bambina aveva sperimentato dolori ben peggiori.
A me non fa male.
Eppure, quella notte era affamata.
Aveva fame di violenza su di sè, non solo di lussuria.
Aveva talmente tanta fame, da aver commesso una violenza irreparabile sul corpo di un altro, solo per provare il brivido e l’ebbrezza di un uomo che la violava ancora, ferocemente, fino alla pazzia, tanto bramoso di lei fino al punto di godere e provare piacere nell’intrattenere un rapporto sessuale con un altro uomo.
Quest’ultimo, invece, sicuramente l’aveva sentito il dolore, nei giorni seguenti, e, forse, lo sentiva ancora.
A tanto era arrivata la sua fame.
 
 
 
 
 

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Capitolo 22
*** Angelo e Bestia ***


Angelo e Bestia
 
 
Il sole dell’alba rifulgeva in cielo nonostante il freddo, a differenza delle altre mattine, in cui era schermato dalle nuvole vanesie.
Facendo attenzione a non emettere rumore, Judith scese le scalinate che dalla sua stanza conducevano al salone principale della cattedrale, nel quale riposavano le decine e decine di malati nei giacigli sul pavimento.
La sua fretta l’aveva spinta a tal punto, da uscire dalla camera in vestaglia bianca, senza indossare l’abituale lungo abito nero col corpetto.
La maschera, tuttavia, l’aveva infilata, di quella non avrebbe potuto dimenticarsi.
Si avvicinò cautamente al giaciglio in cui riposava padre Craig, a passo felino, per non disturbare il sonno di nessuno.
- Padre ... – lo richiamò sussurrando scuotendogli una spalla. – Padre, vi prego, svegliatevi – insistette.
A ciò, il giovane prete aprì gli occhi sbattendo le palpebre un paio di volte, mettendo a fuoco la figura accovacciata di fianco a sè, nonostante la maschera a coprirle il viso.
Il suo dolce tocco, la sua lieve aroma, le forme del suo giovane corpo coperto dalla vestaglia.
La riconobbe subito. – Judith ... cosa ci fate qui così presto? Che ore sono? – le domandò con la bocca impastata dal sonno.
- Padre ... – lo richiamò la ragazza con voce positivamente sorpresa.
- Cosa ...?
- Voi ... sembrate stare meglio. La malattia ... nel vostro volto non vi sono più i segni della malattia così prorompenti: le piaghe si stanno cicatrizzando, il colorito è migliorato, l’odore anche, così come i vostri occhi. Trasmettono molta più vitalità di prima. Come vanno i mal di testa e la tosse?
- Meglio ... effettivamente, ora che mi ci state facendo pensare, mi sento molto meglio – realizzò padre Craig, per poi guardarsi intorno, osservando i corpi dormienti. – Guardate. Anche molti degli altri malati sembrano apparire più in salute.
- Avete detto bene: appaiono. Non siamo certi che stiano davvero meglio e che la malattia stia lasciando il loro corpo.
- Concordo. Sempre meglio essere prudenti. Dunque? Di cosa siete venuta a parlarmi?
La ragazza riflettè, cercando di trovare le parole giuste per narrare quel che aveva sognato quella notte.
- Ho vissuto una notte d’incubo, padre.
- Per quale motivo?
- Ho visto ... ho ricordato delle cose.
- Avete ricordato? Cosa avete ricordato?
- Voci, persone, eventi, gesti, conversazioni ... di quella notte. La notte maledetta. La notte dei festeggiamenti dopo il matrimonio.
A tale informazione, il giovane prete sgranò gli occhi sconvolti e bramosi di conoscere la verità riguardo quella notte. – Parlate, cara, vi prego. Non ne posso più di rimanere all’oscuro riguardo quello che è accaduto quel giorno. La mia fede ha iniziato a vacillare fortemente da quell’episodio funesto, e non solo quella ...
- Tuttavia, nei miei ricordi non c’era traccia di voi.
- Quella notte eravamo tutti nei corpi di altri, Judith. Io occupavo quello di Beitris.
- Non ho visto nè voi nè Beitris nei miei ricordi.
- Capisco – rispose il giovane prete non riuscendo a nascondere un pizzico di delusione nella voce. – Vorrei poter ricordare qualcosa di quella notte ... mi basterebbe qualche strascico. Solo per capire cosa ho fatto.
- Vedrete che i ricordi riaffioreranno anche in voi, padre. E poi, forse, scoprirete che ciò che avete fatto quella notte non è tanto terribile come vi aspettate.
- Naren ha detto che mi ha visto commettere delle atrocità mentre ero nel corpo di Beitris. Ha usato queste parole.
Al solo udire quel nome, Judith si irrigidì. – Beh, almeno voi vi state basando sulle parole di un semplice uomo estraneo a voi. Io, invece, qualche ora fa, ho avuto la conferma di aver commesso dei peccati ai quali mai porrò rimedio.
- Judith ... cosa state dicendo? Parlate sul serio? – le chiese padre Craig preoccupato, mostrandosi il più rassicurante e comprensivo possibile. – Avanti, parlate. Sapete che con me potete confidarvi.
- Lo sa, padre e vi ringrazio – rispose accennando un sorriso che il giovane prete non poté vedere. – Senza di voi, probabilmente sarei impazzita in questi ultimi giorni. Nonostante foste malato, sono comunque riuscita a sentire la vostra presenza e il vostro supporto, in qualche modo – gli disse stringendogli la mano.
- Ne sono lieto. Non immaginate quanto.
- Spero che ciò che ho visto stanotte non vi farà cambiare idea su di me e non vi farà brillare di meno gli occhi quando mi guardate.
So che di voi posso fidarmi. E so anche che questa faccenda vi sta opprimendo più di chiunque altro.
- Judith, non fatemi stare in pensiero. Parlate.
- Ero in un corpo maschile. Suppongo di un giovane uomo. Ma di questo ero già consapevole parzialmente. Ho visto il mio stesso corpo dinnanzi a me – fece una pausa, per trovare il coraggio di continuare. – Era abitato dal propietario del corpo che stavo possedendo io. Eravamo l’uno nel corpo dell’altro.
Egli ... aveva il fuoco negli occhi. Un fuoco addolorato e spaventoso.
Era talmente adirato con me che ... mi sono sentita istantaneamente male, nonostante non ricordassi cosa avessi fatto di sbagliato.
- Perchè era adirato con voi ...?
- Egli ha cominciato ad attaccarmi. Verbalmente e corporalmente. Tuttavia, il mio corpo maschile era più forte e sono riuscita a prevalere.
Dopo ciò ... ho visto Naren, appollaiato a terra, come se avesse appena commeso il più atroce dei peccati.
Lo sconosciuto che abitava il mio corpo si è avvicinato a lui e lo ha sedotto, giacendo con lui, facendosi penetrare più e più volte.
Naren ... ha abusato del mio corpo senza il mio consenso, mentre era un altro ad abitarlo, per di più inseminandolo senza alcun riguardo, maneggiandolo come se ... fosse inanimato – confessò cercando di trattenere le lacrime che si stavano facendo strada sui suoi occhi. – Almeno ora ho la funesta conferma e sicurezza che il bambino sia di Naren. Avrei preferito rimanere nell’ignoranza, tuttavia.
Il volto di padre Craig era a dir poco costernato. – Per ... per quale motivo costui ... chiunque egli sia, ha fatto una cosa tanto riprorevole col vostro corpo...?
- Per vendetta.
- Vendetta?
- Dopo che lo ha fatto, è tornato da me, godendo nel vedermi distrutta di fronte a ciò a cui avevo appena assistito.
- Che cosa potete avergli fatto di tanto tremendo per spingerlo ad agire in tal modo contro di voi, facendovi inseminare da un servo del Creatore senza alcun riguardo per le orrende conseguenze derivanti?? – chiese padre Craig sentendo la rabbia montargli addosso, alzando la voce inconsapevolmente.
- Abbassate la voce ... – lo esortò Judith. – Padre, non vi rendete conto. Non vi rendete conto di cosa ho fatto.
- Che cosa avete fatto?
- Ho approfittato del corpo maschile in cui mi trovavo. Ne ho approfittato per provare un piacere che non avevo mai provato prima, per farmi violare ... senza correre rischi e doverne subire le conseguenze.
Il corpo da donna è un corpo fecondabile. Quello di un uomo no.
Ho approfittato di ciò , traendone vantaggio, assecondando i miei desideri e piaceri più marci e dissoluti. Desideri che non credevo di nutrire in maniera tanto prorompente e sregolata.
Dalle parole di costui ... sembra che io abbia convinto e costretto Naren a giacere con me nel corpo nuovo che stavo abitando temporaneamente quella notte.
- Lo avete convinto a violare e a godere del corpo di un uomo...? Ma soprattutto ... l’avete convinto a giacere con un corpo che non fosse il vostro? – domandò padre Craig sempre più sconvolto.
- Ma dentro c’ero io ... dentro quel corpo c’ero io ... Devo averlo comunque convinto, in qualche modo.
E sembra che io ne abbia tratto un piacere intenso e incomparabile, godendone in pieno.
Capite sino a che punto arriva la gravità di ciò che ho commesso, padre?
Potrei attribuire la colpa agli effetti dell’incantesimo, all’assenza di freni inibitori, al fatto che non ricordo affatto l’atto, nè di averlo desiderato, ma resta la consapevolezza che l’ho commesso ...
La mia anima è macchiata.
- No, non dite questo...
- È così. Ho usato quel corpo non mio come più mi aggradava, servendomene nel modo peggiore possibile, senza chiedere il permesso, nè pormi alcuno scrupolo.
E lui ... il proprietario di quel corpo ... mi ha ripagato con la stessa moneta.
- Non eravate in voi, Judith, come nessuno di noi. Naren, invece, l’uomo di cui eravate innamorata ... egli che scusa ha per aver agito in modo tanto osceno, egoista e bestiale? – disse il giovane prete, con voce fremente e velenosa verso colui appena nominato.
- Egli non ha scusanti – confermò Judith dura. – Tuttavia, per quanto riguarda me, se realmente non ero in me, per quale ragione stanotte ho ricordato cosa è successo dopo, come se fossi stata lucida?
- Sono solo stralci di ricordi. La tremenda azione che avete compiuto non è da voi, non sarebbe mai da voi. Voi non sareste mai capace di fare una cosa simile.
- Come sapete che non ne sarei mai capace...?
- Lo so perchè ho imparato a conoscervi in questo poco tempo che sono qui e scommetterei la mia fede in Dio e la mia vita nella bontà e nell’onore che ho visto nel vostro cuore.
Judith trattenne a stento le lacrime, a quelle parole tanto sincere e nobili.
- Resta il fatto che l’ho fatto e l’ho voluto ... anche se non ero in me.
- Ora non pensate a questo. Ciò che è necessario scoprire non appena ci sarà possibile, è l’identità del corpo che avete posseduto. Avete una minima idea di chi possa essere costui? La sua voce aveva qualcosa di familiare? Ricordate qualche dettaglio, come un odore particolare? Avete avuto modo di prendere un minimo confidenza col corpo che abitavate?
- No, nulla, nessun indizio.
- Beitris era accanto a me quando ho perso la coscienza quella notte. Se io ero nel corpo di Beitris, vuol dire che, forse, l’incantesimo ha agito facendoci scambiare i corpi con coloro che ci erano fisicamente vicini.
Judith rifletté, per ricordare chi avesse accanto nell’ultimo momento di lucidità durante i festeggiamenti. Sgranò gli occhi non appena le venne in mente. – Il gioco dello specchio ... Blake ...? – sibilò quasi senza emettere suono, non avendo neanche il coraggio di formulare un pensiero del genere.
Ma padre Craig la udì comunque. – No, impossibile.
- Vi state rifiutando come me di pensare anche solo lontanamente ad una possibilità simile...?
- No, è impossibile sia lui: quando si è svegliato, egli era sdraiato a terra spalmato sul corpo di Beitris e ricoperto di sangue – disse con tono grave. – Sono stato io ad abitare il corpo di Beitris ... suppongo di essere stato io ad aver a che fare con lui quella notte.
- Allora chi?? A chi potrebbe appartenere il corpo che ho abitato?
- Non ne ho idea. Ad ogni modo, quando Blake tornerà, dovremo capire se anche lui ha ricordato qualcosa.
- Sì, dovremmo parlarne anche con lui, sono d’accordo.
- E ... se dovesse essere davvero lui ad aver subìto il destino peggiore quella notte...? – domandò padre Craig con le lacrime agli occhi, quasi più a se stesso che a Judith.
La ragazza si ritrovò incapace di rispondere.
Trascorso qualche minuto di silenzio tra i due, minuti in cui anche altri dormienti si svegliarono grazie ai raggi solari penetrati dalla finestra, Judith riprese la parola.
- Van Naren sposerà ben presto un’altra donna – disse improvvisamente, scaricando in quel nome tutto il disprezzo possibile.
Padre Craig si riprese dal suo stato di riflessione cupa e tormentata, tornando a guardarla, alzando un sopracciglio per la sorpresa. – Che cosa intendete dire ...? Egli è sempre stato totalmente assuefatto da voi.
- Io e quell’uomo non abbiamo futuro, padre. Non l’abbiamo mai avuto. Lo abbiamo sempre saputo, eppure abbiamo sempre ritardato il nostro distaccamento necessario.
Purtroppo, non abbiamo agito in tempo, ed ora il danno è fatto.
Dobbiamo sviare i sospetti del popolo dalla nostra possibile relazione peccaminosa e dal bambino che porto in grembo, ora che tutto comincerà a tornare come prima.
- Nulla potrà più tornare come prima in seguito alla rivolta degli stregoni e all’assissinio dei monac-
- Non siatene tanto certo, padre – lo interruppe ella. – Come ci siamo ripresi dalla catastrofe divina precedente alla divisione di Allister Chaim, ci riprenderemo anche da questo.
Tutto tornerà come prima.
- E a voi sta bene ...?
- Fin quando mi permetterà di agire nell’ombra e indisturbata, e di portare i cambiamenti che desidero dall’interno ... mi andrà sempre bene – rispose serafica.
- Dunque ... come sapete che Naren ha già addocchiato qualcun’altra?
A ciò, Judith spostò il viso in una direzione ben precisa.
Seguendo la traiettoria verso cui era rivolta, padre Craig individuò la figura di una giovane serva del Creatore dalla pelle scura che stava distribuendo ad alcune donne appena guarite dei bellissimi soprabiti di lana.
- Io ho già visto quella ragazza, negli ultimi giorni ... – riflettè padre Craig mettendo a fuoco la figura della fanciulla. – Si è adoperata moltissimo per fornire tutti gli aiuti possibili ai malati. Non l’ho ancora vista in volto, ma indossa sempre quell’abito di feltro color limone – commentò, per poi tornare a guardare Judith. – Dunque, è lei? Come lo sapete? Come potete esserne certa?
- Negli ultimi giorni li ho visti parlare diverse volte. Naren la guarda e la cerca, come stregato dalla sua purezza e dalla sua bontà. Suppongo che, infondo, sia sinceramente interessato a lei.
- No, è impossibile – la smentì fermamente il giovane prete, riattirando la sua attenzione su di sè. – Non conosco quella donna, dunque non posso esprimermi su di lei, ma conosco voi, Judith.
Tutto ciò che posso dire, sapendo che ogni uomo o donna in questo villaggio si troverebbero d’accordo con me, è che Naren sarebbe davvero uno sciocco, stolto e idiota a preferire qualsiasi altra fanciulla a qualcuno come voi, lasciandovi scappare.
Judith rimase sorpresa da quella sentita e sincera confessione.
- Per tale motivo – continuò l’uomo. – Se egli si sta avvicinando ad una creatura tanto pura e fedele, è solo per infantile curiosità o per convenienza, per sviare le malelingue del villaggio dalla vostra attenzione.
- Naren sa che tra noi è finita, padre. Ne è consapevole, gliel’ho detto e ripetuto chiaro e tondo.
È vero, sto portando suo figlio in grembo, tuttavia, ciò non dovrebbe impedirgli di ricostruirsi una vita, con una donna che può guardare, toccare, sposare e fecondare, senza rischiare il rogo.
Nulla lo lega a me e nulla mi lega a lui – disse con apparente indifferenza nella voce.
- Judith ... siete sicura di non provare più nulla nei suoi confronti?
- Dopo ciò che ho scoperto questa notte, ne ho ricevuto la conferma definitiva: non nutro più nulla nei confronti di quel verme, eccetto rabbia e rancore.
Padre Craig abbassò lo sguardo, cercando di non lasciar trasparire quanto fosse rincuorato di ciò. – Ad ogni modo – riprese. – Come sapete che ella ricambia il suo interesse nei suoi confronti?
- Non lo so. Non ho mai avuto modo di parlare con lei, se non una sola volta, ma prima dello scoppio della rivolta e dell’epidemia.
- L’avete già incontrata? In che occasione?
- Era venuta a pregare da sola, una mattina. L’ho incrociata e ho avuto una bizzarra e piacevole conversazione con lei. Ella deve aver parlato anche con Blake.
- Blake? Cosa ha a che fare ella con Blake?
- Lo ha conosciuto – rispose semplicemente la ragazza. – Non so cosa si siano detti, ma so che lo ha conosciuto.
- Blake non mi ha mai menzionato una cosa simile.
- Vi sorprendete ancora che Blake non vi racconti ogni singola cosa gli capiti e lo riguardi, padre? – lo provocò dolcemente Judith, per poi accingersi a rialzarsi. – Ora riposatevi, padre. Se davvero la malattia sta abbandonando il vostro corpo avrete bisogno di essere al massimo delle forze.
A ciò, il giovane prete le sorrise, le baciò la mano e si sdraiò nuovamente, vedendola allontanarsi.
Judith camminò sovrappensiero, vagando per il salone senza una meta precisa, ripensando a ciò che aveva ricordato quella notte.
Improvvisamente, un debilitante dolore al ventre la fece barcollare ed emettere un’evidente smorfia di dolore.
Si premette la pancia con la mano, cercando un appiglio inesistente con l’altra, trovandosi lontana da qualsiasi sedia o appoggio di altro tipo.
Prontamente, una mano si poggiò sulla sua schiena delicata ma salda, reggendola per non farla cadere, mentre l’altra le si posò sulla spalla.
Judith si voltò verso la sua buona samaritana, avendo già percepito si trattasse del tocco dolce e calibrato di una donna.
La serva del Creatore di cui stava parlando poco prima con padre Craig, con l’asettica maschera a coprirle il viso uguale alla sua, la riassicurò, accompagnandola pazientemente verso la stanza incontaminata. - Appoggiatevi a me – la esortò leggiadra, entrando nella stanza, richiudendo la porta dietro di sè, e facendo sedere Judith su una delle sedie disponibili, per poi accomodarsi accanto a lei.
La serva del Creatore si tolse la maschera e Judith fece altrettanto.
- Come vi sentite? Quali sintomi avvertite? – le domandò con calma.
A ciò, Judith si voltò a guardarla, premendosi ancora il ventre con il palmo della mano, percependo un lieve sollievo in quel gesto. – Qualche fitta e crampo di dolore di tanto in tanto.
- Oh, allora non è nulla di preoccupante. Il vostro bambino sta bene – disse sorridendo raggiante la ragazza, riuscendo a trasmetterle almeno un po’ della sua positività.
Come la prima volta che aveva incontrato il suo viso, lo trovò fedele a quello di qualsiasi altra serva o servo del Creatore: una bocca larga, troppo larga per quel viso piccolo e ovale stonava non poco, gli occhi grandi e tondi erano infossati e molto neutri e insipidi, il grosso naso incurvato e aquilino attirava l’attenzione più di tutto il resto, i capelli, seppur folti lunghi e ricci, erano crespi e tenuti legati malamente indietro, facendola sembrare ancor più anonima di quanto già non apparisse.
Era brutta, dall’aspetto sgradevole, come lo erano tutti coloro che servivano il suo stesso dio, tuttavia, il suo sorriso e la genuina luce che emanava naturalmente la facevano apparire interessante, degna di attenzione.
Judith ricambiò il suo sorriso. – Vi ringrazio per avermi aiutata. Non vi era bisogno.
 - Oh sì, invece. Sono contenta di essermi trovata lì al momento giusto. Chissà cosa sarebbe accaduto al vostro bambino se foste caduta a terra con violenza come stava per succedere – le disse sinceramente preoccupata, per poi tirar fuori dal mucchio di capi di vestiario che stava distribuendo ai malati e ai guariti, uno splendido scialle con elaborati e raffinati ricami che ritraevano una distesa fiorita, di notte, con la luna alta in cielo. Porse il capo a Judith. – Tenete. Terrà al caldo il vostro bambino. Avrei voluto già darvelo nei giorni scorsi, ma non c’è stato mai modo di incrociarvi.
Judith, rimasta sorpresa da tanta gentilezza, prese lo scialle tra le mani, osservandolo e tastandone la morbidezza. – È davvero bellissimo, grazie – la ringraziò sinceramente. – Lo avete ricamato voi?
La ragazza annuì, felice che le piacesse. – Sapete, ultimamente sto intrattenendo delle conversazioni con il giovane che le malevoci dicono essere il padre del vostro bambino – le disse improvvisamente.
Judith riportò l’attenzione su di lei, non lasciando trasparire nessuna emozione. – Van Naren. Siamo buoni amici, sì. Le persone retrograde di questo villaggio, purtroppo, credono ancora sia impossibile la nascita di una qualsiasi sorta di amicizia o di relazione affettiva tra servi del Diavolo e servi del Creatore, motivo per cui credono che abbiamo commesso peccato contro i nostri signori e contro le leggi di Bliaint.
- Non mi spiego tutto ciò. D’altronde, se credono nell’impossibilità anche solo di un sincero rapporto di amicizia tra i componenti delle due fazioni, non sarebbe ancor più assurdo credere in una relazione carnale e amorosa che coinvolga una serva del Diavolo e un servo del Creatore? – si interrogò la fanciulla, con un velo di tristezza ad adombrarle il volto.
- Ad ogni modo, vi trovate bene con lui? – indagò Judith senza eccessivo interesse.
- È sempre stato lui ad avvicinarsi a me. Qualche giorno fa si è presentato e mi ha chiesto che mestiere svolgessi, e abbiamo iniziato a conversare.
Judith studiò il suo volto. – Nutrite dell’interesse nei confronti di costui? – le domandò, facendola voltare di scatto a guardarla, notando del dubbio e dell’indecisione nei suoi lineamenti.
- Non lo so, a dir la verità. Ci conosciamo da pochissimo – rispose sinceramente.
Judith annuì, decidendo fosse meglio cambiare discorso. – Siete una ricamatrice?
A ciò, la ragazza si rianimò a tal domanda. – No, in realtà.
- Eppure siete molto brava a farlo.
- Lo faccio solo per passatempo. Mi ha insegnato la sorella di mio nonno a farlo, è l’unico ricordo che io e mia sorella avevamo di lei. Certo, forse avrei preferito che mi insegnasse a leggere, dato che era una monaca. Ma le leggi lo vietano, perciò va bene così.
- Avreste voluto imparare a leggere?
La fanciulla la guardò accennandole un sorriso lievemente malinconico. – Non lo vorrebbero tutti? Voi sapete farlo, non ne avete mai sentito la mancanza, poichè avete avuto la fortuna di crescere dentro una cattedrale a stretto contatto con i monaci, pur non prendendo i voti.
Ma, d’altronde, non ho l’aspirazione di prendere i voti e diventare monaca, perciò mi sta bene così.
- Non la considererei proprio una fortuna, quella di aver vissuto a stretto contatto con i monaci – rispose Judith stringendo il tessuto del vestito sul proprio pugno. – Sono diventata orfana in seguito alla tragedia che ha colpito la mia casa, quando mia madre è stata bruciata al rogo. Perciò, credetemi, posso affermare con convinzione che avrei decisamente preferito non saper leggere, restando nell’ignoranza, se ciò avesse significato riavere mia madre.
- Scusatemi tanto ... ho scelto male le parole, non volevo in nessun modo insinuare ...
- Non preoccupatevi, nessun offesa – la rassicurò Judith, accennandole un sorriso. – Ad ogni modo, c’è chi decide di imparare a leggere autonomamente, pur non avendo l’aspirazione di donare il proprio corpo e la propria vita al suo Signore, sapete? – le informò Judith.
- Ma è vietato.
- Ma non è una trasgressione punibile con il rogo – le ricordò la ragazza.
- Chi è che ha avuto il coraggio di imparare da solo, nonostante le proibizioni?
- Esattamente il servo del Diavolo che avete conosciuto nella cattedrale dei servi del Creatore, e che vi ha parlato di me.
A tali parole, la fanciulla si voltò nuovamente a guardarla, interessata. – Davvero?
Judith annuì sorridendo.
- È lui il ragazzo di cui parlano tutti? Colui che ha lasciato il villaggio settimane fa, in cerca di una certa ... polvere nera?
- Proprio lui.
- L’ho compreso perchè non l’ho più rivisto, nè tra la folla di malati, nè tra i sani, nè tra gli stregoni ribelli, perciò ho pensato si trattasse di lui. Allòra, voi mi avevate detto che sarebbe tornato dopo qualche giorno.
- Sembra si stia trattenendo più del dovuto – la informò Judith, sovrappensiero. – Eravate lì per lui, il giorno del nostro primo incontro, non è vero? – le domandò a bruciapelo, facendola sussultare per l’imbarazzo di quella domanda improvvisa.
La serva del Creatore negò ripetutamente e con vigore, cercando di riprendersi dall’imbarazzo. – No, ero lì per pregare per mia sorella.
- Giusto, vostra sorella. Come sta, ora?
- Non ce l’ha fatta ... l’ho perduta – la informò la ragazza, lasciandola sconvolta per la fermezza e la stabilità con la quale lo disse.
- Mi dispiace molto ...
La serva del Creatore negò ancora, accennandole un sorriso malinconico ma luminoso. – L’ho accettato. Ho fatto tutto ciò che era in mio potere per salvarla, così come i nostri genitori. I Signori hanno deciso di prendersela con sè. Eppure, non so ancora quale dei due se la sia presa.
Quell’ultima frase destabilizzò Judith, la quale la guardò confusa. – Che cosa intendete dire ...?
Le due furono interrotte dalla porta della stanza che si aprì, rivelando la figura di padre Cliamon che entrò. – Oh, Judith, cara, sei qui – disse egli richiudendosi la porta dietro di sè. Solo in quel momento Judith fece caso al fatto che il monaco non indossasse la maschera, nonostante provenisse dal salone colmo di infetti
- Padre ... dov’è la tua maschera?- domandò allarmata.
- Sembra che la maggior parte dei malati sia quasi guarita o, per lo meno, sul punto di guarigione – la informò con un sorriso l’uomo. – Anche i pochi che sono ancora tremendamente deboli e in bilico tra la vita e la morte sembrano non essere più contagiosi. Padre Sower che se ne intende di arti mediche, l’ha confermato, e gli stregoni sono d’accordo con lui.
- Dici sul serio...? – domandò traboccante di gioia Judith, con la ragazza al suo fianco ancor più gioiosa di lei.
- Sì, sul serio!
- Oh, sia ringraziato il Signore!
- Entrambi!
- Ad ogni modo, Judith cara, ti stavo cercando perchè questa sera ci sarà il secondo turno per portare provviste di cibo e controllare le condizioni di salute di coloro che si sono barricati nelle case senza più uscire, per paura di essere contagiati. Maringlen si occuperà della zona accanto alle paludi, Myriam di quella esterna, verso la vallata, e io di quella adiacente alla piazza. Ci serve qualcuno che si occupi della zona che circonda la galleria. Dovrai passare di casa in casa, bussare, controllare che vada tutto bene, che non ci siano infetti all’interno, e lasciare un po’ di provviste, nel caso manchino. Puoi occupartene?
- Posso occuparmene io, padre – rispose la serva del Creatore, per poi posare lo sguardo su Judith. – Poco fa Judith ha avuto un malore e dei crampi al ventre. Non è saggio lasciarla girare da sola per il villaggio. Posso farlo io – confermò, stringendo la mano della serva del Diavolo calorosamente.
A ciò, padre Cliamon annuì con un sorriso. – Mi raccomando, Judith, riguardati e riposati. Il bambino sta crescendo dentro di te e ha bisogno di tutte le cure e le attenzioni possibili.
- Starò attenta, padre – lo rassicurò, per poi vederlo uscire dalla stanza.
- Non mi avete ancora detto il vostro nome – disse infine Judith alla ragazza. – Voi il mio lo conoscete, oramai.
A ciò, la serva del Creatore sorrise nuovamente. – Hinedia. Mi chiamo Geenie Hinedia.
 
- Che luogo è quello in cui stiamo andando? – domandò Quaglia.
- E con questa siamo a cinque, in tre giorni di viaggio – sbuffò Ephram seccato, contando le volte in cui l’uomo aveva posto loro l’ennesima delle tante domande che affollavano la sua testa, una tabula rasa tutta da riempire come quella di un neonato.
- Nel villaggio da cui proveniamo io e Ephram – rispose Blake.
- I villaggi sono delle divisioni di terre e di gruppi di persone che hanno le stesse leggi e lo stesso credo, giusto? – continuò Quaglia. – L’enorme porzione di terra su cui camminiamo è divisa in villaggi, corretto?
- Corretto.
- Il villaggio da cui provenite si chiama Bliaint?
- Dopo l’ottava volta che te lo abbiamo ripetuto, finalmente te lo sei ricordato – commentò Ephram semiesasperato.
- E com’è? Il vostro villaggio intendo.
- Un luogo isolato, pieno di verde, nel quale si servono due signori, due dèi differenti. Metà del villaggio di bell’aspetto e l’altra metà sgradevole e per lo più malformata.
- Cosa intendi dire con “servire un signore”?
- Gli rendiamo grazie, lo preghiamo di perdonare i nostri errori, di realizzare i nostri desideri, erigiamo altari in suo onore per venerarlo – proseguì Blake con la spiegazione, pronunciando quelle parole come fossero una litania fissa e inconsistente.
- Che aspetto hanno questi due dèi?
- Non hanno corporeità. Sono due entità invisibili, immateriali.
- Chi sono costoro?
- Uno è colui che ci ha creati e l’altro è colui che ha provato a salvarci – rispose Ephram questa volta.
- E voi due quale dei due servite?
- Dalla risposta di Ephram dovresti comprenderlo da solo.
- Da cosa dovrei comprenderlo da solo?
A tale domanda, Blake bevve un sorso dal suo boccale e si voltò a guardarlo, perforandolo con le sue iridi blu, intimorendolo. – Se vorrai restare con noi, ma, soprattutto, sopravvivere a Bliaint, avrai bisogno di sviluppare un po’ di capacità deduttiva, di logica, di istinto e di senso critico, Quaglia.
- Vuol dire che quando arriveremo a Bliaint potrò rimanere con voi?? – domandò speranzoso l’uomo.
- Se farai ciò che ti diremo di fare, ovviamente. Per chi ci hai presi? – rispose Blake con ovvietà, lanciando uno sguardo complice ad Ephram, che venne colto immediatamente. – Potresti persino diventare il mio apprendista, se lo vorrai – aggiunse Blake.
- Che cos’è un apprendista?
- Il mio aiutante, mi assisterai e io ti insegnerò tutto ciò che sarò in grado di insegnarti.
- Davvero?? Sarebbe meraviglioso!
- Chissà, magari ti torneranno in mente dei ricordi utili con il tempo, memorie che credi di aver perduto per sempre ... – aggiunse il ragazzo fintamente casuale.
Ephram sorrise in risposta, addentando una forchettata di carne dal suo piatto.
Erano tutti e tre seduti al bancone di quella locanda che avevano trovato lungo la strada di ritorno.
Si stava facendo buio e avevano viaggiato ininterrottamente per tre giorni, dunque avevano deciso di fermarsi per placare la fame dei loro stomaci e per passare lì la notte.
Quella locanda non aveva nulla a che fare con la Taverna di Bliaint, nonostante vista da fuori potesse sembrare di sì: una volta entrati nella struttura in legno situata in mezzo alla boscaglia e illuminata dalle lanterne, l’avevano trovata affollata di donne di ogni età e corporatura, tutte vestite in abiti succinti, sudate e con atteggiamenti che variavano dalla volgarità più oscena ad una lascivia un po’ più sensuale. Saltavano letteralmente addosso agli uomini, facendosi toccare e maneggiare nelle maniere meno pudiche possibili, spillando loro monete d’oro, d’argento e di rame e infilandosele nelle sottane con velocità felina, mentre li conducevano nelle camere al piano superiore o permettevano di approfittare di loro direttamente sopra i sudici divani della locanda.
In quel luogo, la regola “vedere ma non toccare” non valeva in alcun caso.
Appena entrati erano stati letteralmente avvinghiati da un gruppo di locandiere accaldate e decisamente insistenti, sin troppo sovraesaltate nel vedere tanta beltà varcare le porte della loro modesta locanda. Costoro non si erano convinte a lasciarli andare nemmeno quando avevano rifiutato per la quarta volta i loro servigi, ripetendo che volevano solamente mangiare un boccone e occupare tre camere per la notte. Solamente le sottili pessime maniere di Ephram erano state in grado di allontanarle, riuscendo a suscitare in loro offesa, all’affermazione: “Se l’aspetto lascia a desiderare, l’esperienza colma tutto. Eppure, questa sera non mi accontenterei di così poco.”
Non appena si erano seduti al bancone, avevano ordinato un abbondante quantità di cibo e Quaglia aveva calmato i bollori che coloravano le sue guance come avrebbero colorato quelle di un undicenne dinnanzi a dei seni semiscoperti, alla vista di tanta carne femminile in vulcanica e violenta esposizione. Quest’ultimo aveva ricominciato a riempirli di domande come aveva fatto per i precedenti tre giorni, da quando si erano messi in viaggio, non lasciando ai due un attimo di tregua.
- Dov’è la vostra compagna di viaggio? – riprese l’uomo.
A tale domanda, la mente di Blake tornò a quell’ultima conversazione avuta tre giorni prima con la strega:
 
- Le ferite che ho riportato alla gamba sono meno gravi di quanto mi aspettassi – aveva detto Selma finendo di riempire il suo sacco per rimettersi in viaggio. – Andrò da sola a cercarla.
- Come ha fatto Sibyl?
- Come ha fatto Sybil, esatto. Non mi fermerò fin quando non la troverò.
- Non sai dove sia. Non hai alcun indizio su dove si trovi Fie. Da dove inizierai a cercarla? Cosa diremo di te quando torneremo a Bliaint?
- La verità: è partita in cerca della persona che credeva di aver perduto per sempre.
Senza di te, Blake, se non fossi partita con te per questo viaggio tremendo e meraviglioso insieme, non avrei mai saputo che mia sorella, la mia unica sorella, è ancora viva.
Durante quell’ultima conversazione, lui e la donna si erano detti tutto ciò che in settimane di viaggio avevano taciuto.
- Non avrei mai voluto uccidere quella ragazza, ne avrei voluto provare ad avvelenare la famiglia che ci stava ospitando.
Quello che ti è capitato, Blake, le atrocità che ti ha fatto quell’uomo, ciò che hai patito a causa sua ... sarebbe potuto capitare anche a me. Invece, sei stato il solo a dover vivere tale supplizio sulla tua pelle.
Mi dispiace, Blake. Mi dispiace che, l’unica cosa che io sia riuscita ad evitarti, sia stata la morte.
Mi dispiace.
L’aveva guardato negli occhi, e gli aveva detto tutto ciò, con una fragilità e una sensibilità che non avrebbe mai pensato possedesse, nascosta in lei.
Di così tanto era capace Fie e la speranza riaccesa che fosse ancora viva?
Avrebbe desiderato conoscerla, questa Fie, che con la sua sola aura a distanza, era capace di far uscire fuori i lati migliori di un animo turbolento come quello di Selma.
Tuttavia, anche altre parole erano uscite dalle labbra della sua compagna di viaggio:
- Ho fiducia in te, Blake.
Sono certa che tu ti renda conto della mostruosa arma che hai tra le mani, ora che hai visto con i tuoi famelici occhi cosa è in grado di fare, dopo averci rimesso quasi la vita a tua volta, nell’esplosione.
Se c’è qualcuno a questo mondo che possiede tanto giudizio e intelligenza da saperla usare nel modo giusto, quella persona sei tu e nessun altro.
- Non temere riguardo a ciò: quando Quaglia ricorderà la giusta composizione della polvere nera, e quando rimetterò insieme gli appunti di suo nonno che sono riuscito a raccattare, saprò come utilizzarla senza provocare alcuna catastrofe.
- “Quaglia”, eh? – aveva ripetuto ella con un ghigno divertito.
- È il nome che si è scelto lui.
- Dunque, immagino abbiate intenzione di portarvelo dietro come un animaletto da compagnia, uno schiavo fedele.
Abbi cura di lui, Blake.
Per quanto io abbia odiato quel borioso arrogante, non augurerei mai ad un uomo che è regredito allo stato di bambino, di vivere eventi infausti e traumatici.
Maroine e Maringlen hanno solo dodici anni, eppure me li ricordo molto più maliziosi e maturi di quanto lo sia lui ora.
- Lo farò. Egli deve ancora scoprire il mondo, per lui è tutto nuovo ora.
- Fa’ attenzione, Blake, ora che le nostre strade si divideranno. Bliaint potrebbe essere molto diversa da come l’hai lasciata, motivo per cui potrebbero aspettarti spiacevoli sorprese al tuo ritorno.
Anche se le nostre strade si divideranno, spero di rivederti un giorno – gli aveva detto alzandosi sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia, che lui aveva ricambiato con un sentito abbraccio.
- Mi dispiace di averti fatto impazzire, Selma – le aveva detto, facendola sorridere già nostalgica. – Nessuno meriterebbe di essere gudicato tanto superficialmente e velocemente come ho fatto io con te.
- Non importa. Sai qual è la cosa che mi rende più felice ora? – gli disse staccandosi da lui.
- Quale?
- Risentire di nuovo la tua voce dopo tutto questo tempo.
Può essere merito solo di un miracolo del nostro Signore, non credi?
Gli sarebbe mancata, non avrebbe potuto negarlo a se stesso.
- La nostra compagna di viaggio ha deciso di percorrere una strada diversa dalla nostra, in cerca di una persona appartenente al suo passato – la risposta di Ephram lo riscosse dai suoi pensieri e da quel ricordo.
- Beh, è un peccato... – commentò Quaglia abbassando lo sguardo timido. – Ella aveva un aspetto ... gradevole.
- Chi? Selma?? – aveva commentato Ephram contrariato guardando l’uomo. – Se trovi attraente una come Selma, vorrà dire che striscerai ai piedi delle bellezze che abbiamo a Bliaint.
- Hai mai conosciuto una donna straniera che ti è piaciuta più delle tue conterranee? – gli aveva domandanto Quaglia incuriosito, facendo sorridere Blake impegnato a terminare le uova strapazzate nel suo piatto.
- C’è stata qualcuna effettivamente, la considererei l’unica eccezione, a dir la verità. Si tratta niente meno che della fanciulla che ha intrattenuto me e Blake durante il nostro soggiorno nel villaggio di Selma. Ah, la spavalda Sybil! – esclamò chiudendo gli occhi in estasi. – Nonostante io abbia intrattenuto numerose relazioni e rapporti carnali con donne e uomini bellissimi, l’intraprendenza, la creatività e la grinta di quella ragazza sotto le lenzuola le superano tutte! Sei d’accordo con me, Blake? Anche con te ella era un animale a letto? – gli domandò lo stregone sporgendosi a guardarlo, infastidito dalla presenza di Quaglia seduto tra i due.
In risposta, il ragazzo gli rivolse un sorriso semiesasperato. – Smetti di percuotere l’innocente e genuina mente di Quaglia con discorsi di questo tipo – lo esortò.
- E perchè?? A mio parere il nostro Quaglia avrebbe proprio bisogno di imparare come ci si approccia ad una donna, oltre che come la si soddisfa – disse Ephram in tono provocatorio, portando gli occhi maliziosi su Quaglia, il quale abbassò lo sguardo immediatamente. – Posso richiamare l’attenzione di una di loro immediatamente, sai? Sarebbe ben felice di prendersi cura di te. Inoltre, abbiamo denaro a volontà dal bottino che Blake si è preso dalla casa di quel Giudice quando è scappato.
Blake lo fulminò in risposta.
- Quale Giudice? Quale bottino?
- Nulla! Sono questioni di nessun interesse per te, Quaglia, te lo garantisco – si affrettò ad arrestare la raffica di domande che sarebbe susseguita di lì a breve, per poi tornare a fulminare lo stregone - E terrei ad informare Ephram che non abbiamo a disposizione una somma illimitata, al contrario di ciò che lui crede - gli rispose a tono, mentre il diretto interessato richiamava a distanza l’attenzione di una fanciulla dai folti capelli ramati e un seno di dimensioni quasi sconvolgenti.
La donna sorrise e si avvicinò a loro tempestivamente. – Posso fare qualcosa per voi, miei signori? - domandò melliflua, osservando ampiamente tutti e tre.
- Il nostro amico qui di fianco avrebbe piacere di intrattenersi con voi al piano di sopra – le disse schietto, mentre Quaglia avrebbe preferito sotterrarsi per l’imbarazzo.
Dopo qualche minuto, l’uomo riuscì ad alzare lo sguardo su di lei e incontrò i suoi occhi che lo guardavano inteneriti: ella aveva una chioma ribelle, alcuni denti neri, ma un bel viso e una scollatura che metteva ancor più in evidenza il seno prosperoso, rendendo impossibile distogliere lo sguardo dal suo petto.
- Qual è il vostro nome, mio signore? – gli domandò avvicinandoglisi.
- Quaglia.
- È davvero il vostro nome? – domandò ella alzando un sopracciglio.
Egli annuì, ancora bordeaux di vergogna, fin quando la ragazza non lo prese per mano e lo condusse su per le scalinate di legno che conducevano al piano superiore.
- Noi saremo qui ad aspettarti al tuo ritorno! – esclamò Ephram ghignando e alzando il suo boccale.
- Perchè l’hai mandato con quella locandiera? – gli domandò Blake continuando a guardarsi intorno con noncuranza, mentre Ephram prendeva posto accanto a lui, nella sedia prima occupata da Quaglia. – Vuoi dilettarti a voltare al contrario ogni crocefisso presente in questa locanda, per caso?
Ephram accennò un lieve sorriso in risposta. – L’ho fatto solo appena sono entrato, con quello appeso nella parete vicino alla porta, e nessuno si è accorto di nulla, per tua informazione – gli rispose in tono volutamente infantile.
- Allora perchè?
- Non è ovvio? Per rimanere da solo con te. Per una volta che abbiamo l’occasione di fare una chiacchierata senza la presenza molesta di Selma o di quella spina nel fianco con la mente di un neonato, intendo sfruttarla.
- Bugiardo.
- Avanti, Blake, lasciamela vinta per una volta.
A ciò, il ragazzo scosse la testa divertito, decidendo di accontentarlo. – Mi sono sempre chiesto se tu sapessi già a cosa saremmo andati incontro quando hai deciso di unirti a noi, in questo viaggio.
A tali parole, Ephram si voltò a guardarlo, studiandolo. – Sono uno stregone. Consulto quotidianamente il nostro Signore per farmi dare uno strascico del suo potere, per permettermi di fare ciò che gli uomini non dovrebbero essere in grado di fare. È normale che tu te lo chieda.
- Non la pensiamo allo stesso modo riguardo ciò che l’uomo dovrebbe essere in grado di fare.
- È questo quello che mi ha sempre affascinato di te, Blake, ciò che mi ha spinto ad unirmi a voi – ammise lo stregone. – La tua visione e il tuo approccio individualista e miscredente nei confronti del mondo non smetteranno mai di attirarmi. Tuttavia, per salvaguardare il mio rapporto con il nostro Signore, non posso permettermi di continuare ad affiancarti.
La strada che hai scelto di tracciarti sarà angusta e tortuosa: se vuoi perseguire a percorrerla , devi prendere consapevolezza del fatto che coloro che ti supportano potrebbero subire le tremende conseguenze dello starti accanto. Dovrai diventare dieci volte più furbo e scaltro e cento volte più bugiardo di quanto lo sei ora.
Ciò che mi domando è: sei pronto ad affrontare tutto ciò?
Saresti pronto a venire perseguitato a Bliaint per la tua miscredenza e fuori da Bliaint per essere sempre e comunque riconosciuto come servitore del Diavolo?
Blake non rispose, restando con gli occhi puntati nel vuoto, dinnanzi a sè.
- Vedresti te stesso più come Adamo o come il Diavolo? – ruppe il silenzio dopo un po’.
- Mi sembra ovvio. Il nostro Signore non ha fatto nulla di male quando si è ribellato ai dettami tirannici di Dio – gli rispose lo stregone voltandosi a guardarlo nuovamente, osservando i suoi occhi che non lasciavano trasparire più nulla. – Stai dicendo che tu ti vedresti più come Adamo?
Blake si prese qualche secondo prima di rispondere. – Il Creatore era orgoglioso di Adamo. Riflettendoci, non vi è molta differenza tra Adamo e il Diavolo, non sei d’accordo? L’unica differenza che riesco a trovare, è che uno è stato elevato a dio, mentre l’altro no – concluse puntando i suoi occhi fulgidi in quelli dello stregone, non lasciandogli il tempo di rispondere. – Selma mi ha raccomandato di fare attenzione quando torneremo a Bliaint. Dice che potrebbero attenderci spiacevoli sorprese. Cosa ne pensi tu, a riguardo? Sai cosa troveremo quando torneremo nel nostro villaggio?
La conversazione tra i due venne interrotta dal ritorno di un Quaglia stravolto, appagato e inebetito.
Sembrava quasi un uomo nuovo quando prese posto nella sedia vuota alla sinistra di Blake.
- Già terminato? Siete stati veloci – commentò quest’ultimo.
- Dunque?? Com’è andata? – gli domandò Ephram senza perdere tempo.
- È stato ... inspiegabile. Splendido .. – rispose con sguardo trasognato che, pian piano, tornò alla realtà.
- Visto? Che ti dicevo? Dovresti ringraziarmi almeno dieci volte per avertelo fatto fare.
Prendendolo in parola, Quaglia cominciò: – Ti ringrazio, ti ringrazio, ti ringrazio, ti ringra-
- Non interpretare letteralmente tutto quello che ti viene detto – lo interruppe Blake rimproverandolo, roteando gli occhi al cielo mentre Ephram se la rideva.
- Credo che un po’ mi dispiaccia, che il nostro viaggio sia giunto al termine – commentò lo stregone.
- Ammetto che sei stato un compagno di viaggio meno detestabile di quanto credessi – confessò Blake, sorridendo a sua volta.
- Il “leggendario” Even Blake sta ammettendo di aver tratto delle conclusioni affrettate??
- Taci, Ephram, non lo ripeterò di nuovo.
- Non avete ancora risposto ad una delle mie domande – riattirò la loro attenzione Quaglia.
- Quale domanda?
- Quale dei due signori servite voi due? Blake ha detto che avrei dovuto dedurlo autonomamente, ma non l’ho ancora compreso.
A ciò, Blake fece vagare lo sguardo per tutto l’affollato e rumoroso salone, fin quando i suoi occhi non si posarono su un dipinto appeso ad una delle pareti. In esso era raffigurata la cacciata del Diavolo dal cielo, e la sua discesa sottoterra, rappresentando il Demonio nella sua forma più bestiale: delle corna enormi e appuntite spuntavano dalla testa ferina dell’enorme e mostruosa creatura dal corpo animalesco coperto di peli, le fauci tremende e minacciose spalancate, le zampe piene di artigli che cercavano con tutte le forze di aggrapparsi alla terra che lo stava gradualmente inghiottendo come una madre divoratrice, rivolte verso l’alto, verso il Padre, il quale imperava su di lui rabbioso, imponente e spietato.
L’Angelo più bello di tutti.
Il più amato da Dio.
- Lui – rispose Blake alla domanda, indicando la bestia dipinta. – È lui che serviamo.
Quaglia rimase sorpreso da quella risposta, quando i suoi occhi si posarono sull’orrenda creatura. – E perchè avete scelto di servire lui?
- Non lo abbiamo scelto.
Devi sapere che vi sono due scuole di pensiero, mio caro amico: una di queste crede che tutti gli uomini nascano imperfetti, senza possibilità di redenzione, innatamente macchiati dal peccato commesso dal primo uomo, Adamo. Per tale motivo gli uomini avrebbero bisogno della costante assistenza di una divinità al loro fianco, un volere superiore al quale chiedere perdono per un errore mai davvero commesso. L’altra scuola di pensiero, invece, ritiene che, quando veniamo al mondo, la nostra anima sia pura, immacolata, e che siano solo le nostre singole azioni a renderci peccatori o no; rendendo, in tal mondo, l’esistenza di una forza superiore all’uomo totalmente superflua, inconsistente – terminò Blake.
Ephram continuò ad osservarlo in silenzio, con sguardo atono, mentre la curiosità sul volto di Quaglia cresceva sempre più.
- Dunque no – confermò Blake. – Non l’abbiamo scelto.
Il primo giorno, Dio creò la terra, separando la luce dalle tenebre.
Il secondo giorno, Dio creò il cielo che avvolge la terra.
Il terzo giorno, Dio creò piante e frutti, separando le acque dalla terra.
Il quarto giorno, Dio creò il sole, la luna e le stelle.
Il quinto giorno, Dio creò gli animali.
Il sesto giorno, Dio creò l’uomo e la donna, facendoli a sua immagine e somiglianza.
Il settimo giorno, Dio trovò pace, restando ad ammirare il suo operato, certo che tutti i prodotti della sua mano suoi sarebbero rimasti, in eterno.
 
Quando giunsero a Bliaint, era notte inoltrata.
Preferendo aspettare l’alba e non volendo svegliare e spaventare i suoi genitori nel sonno, Blake decise, tuttavia, di incontrare l’unica persona la cui mancanza era stata in grado di paralizzarlo e di spingerlo ad andare avanti allo stesso tempo, lottando con tutte le sue forze per tornare da lui.
Disse ad Ephram e a Quaglia di aspettarlo nel bosco, mentre lui si dirigeva nella propria casa furtivo e silenzioso come un ladro. Riuscì ad aprire la porta chiusa con una tecnica astuta che avave appreso, ed entrò felino, lasciando la porta semiaperta dietro di sè, già pronta per quando sarebbe uscito.
Si diresse verso la camera di suo fratello, trovandola vuota.
A ciò, memore di tutte le volte in cui Ioan si fosse addormentato sulla poltrona dinnanzi al camino, tornò verso l’entrata, trovandolo, come si aspettava, sdraiato sulla poltrona, beatamente addormentato.
Il suo cuore perse un battito non appena si rese conto che, nonostante il buio pesto, il colorito di suo fratello sembrasse molto migliorato, così come il suo corpo magro ai limiti dell’umano aveva preso consistenza.
Come sperava, dopo aver creato quel ciondolo alla Mandragora e averglielo donato, suo fratello aveva sconfitto il suo malanno.
Si inginocchiò di fianco a lui, osservandolo dolcemente e prendendo ad accarezzargli delicatamente la guancia e i sottili capelli chiari.
- Christopher ... – sibilò con un fil di voce, vedendolo muoversi nel sonno ed emettere qualche parola confusa.
- Mmmm – mugugnò il bambino accucciandosi ancor di più verso la mano di Blake, inconsapevole. – Sto sognando...? Sto sognando ...
Blake sorrise ancora, continuando ad accarezzarlo. – Christopher ...
- Sento persino la tua voce ... e il tuo odore ...
- Sono qui, Christopher. Sono davvero qui ... – gli sussurrò, vedendolo sbattere lentamente le palpebre, aprendole gradualmente, per realizzare chi si trovasse realmente di fianco a lui.
Christopher Ioan spalancò gli occhi non appena si rese conto che egli fosse reale. – Even ... sei tu ... sei qui ...
- Ehi, combattente ... – lo salutò sorridendogli raggiante. – Sì, sono qui ...
- Credevo non saresti più tornato da me ... credevo mi avresti lasciato solo ... volevo venire a cercarti – balbettò con voce rotta, tremando, saltandogli addosso per abbracciarlo, lasciandosi stringere e inglobare a sua volta.
- Non pensare mai più una cosa simile – gli disse deciso Blake carezzandogli la schiena per calmarlo. – Tornerò sempre da te. Non credere mai il contrario, Christopher.
Il bambino si lasciò andare alle lacrime, sfogandosi in silenzio, inzuppando il mantello di suo fratello che continuò a stringerlo rincuorato, con gli occhi lucidi.
Restarono stretti l’uno all’altro per un tempo indefinito, fin quando, improvvisamente, un rumore provienente dalla porta della casa a qualche metro da loro li attirò, spingendoli a catapultare gli occhi verso l’origine di quel rumore.
Una terza presenza era appena entrata in casa, una giovane serva del Creatore che, esterrefatta alla vista di Blake, per la sorpresa aveva lasciato cadere a terra uno dei cestini colmi di cibo che aveva in mano, mentre l’altro, in bilico sull’altra mano, rischiava di precipitare a terra a sua volta, provocando ancor più rumore del primo.
A ciò, Blake si avvicinò a lei lentamente, facendole segno di fare silenzio con la mano, per poi prenderle il cestino di viveri dalle mani e poggiarlo sul tavolino con calma.
Una serva del Creatore dal viso stranamente familiare stava portando provviste in casa sua nel cuore della notte, realizzò.
La ragazza, dal canto suo, rimase a fissarlo, ancora sconvolta di trovarselo davanti, in carne ed ossa, prendendo coscienza di essere probabilmente l’unica a sapere del suo improvviso ritorno, per pura casualità, insieme al ragazzino che li guardava dalla poltrona. Cercò di schiarirsi la voce il più silenziosamente possibile e di tornare in sè. – Mi dispiace di aver fatto rumore e di essere entrata in casa vostra senza permesso ... - sussurrò.
- Non scusatevi.
- Stavo portando viveri a tutte le famiglie di questa zona, ma si è fatto tardi, così ho cominciato a lasciare solo alcuni alimenti davanti ad ogni porta chiusa, per non svegliare i proprietari delle case. Tuttavia, quando sono giunta qui, ho trovato la porta semiaperta, così ho deciso di entrare ... – si giustificò ancora.
- Io vi ho già vista – realizzò lui, ricordando quando l’avesse incontrata.
Ella annuì distogliendo lo sguardo. – Non svegliate i vostri genitori...?
- Li lascerò dormire. Si troveranno una bella sorpresa domani mattina – le rispose, riattirando l’attenzione di lei su di sè. – Io sono Even Blake – si presentò, memore di non averlo fatto quando si erano conosciuti nella cattedrale del Creatore.
- Conosco già il vostro nome – gli rispose la ragazza accennandogli un lieve sorriso. – Geenie Hinedia. Onorata di fare la vostra conoscenza. 
 
 

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Capitolo 23
*** Il giudizio ***


Il giudizio
 
Gli effetti dell’epidemia si riuscivano a scorgere sin da lontano.
Come un flagello, scagliatosi ovunque e su chiunque, aveva lasciato rimasugli, tracce indelebili non solo sui volti e sui corpi, ma anche sugli occhi, sugli sguardi di ogni abitante del villaggio, anche di quei pochi che avevano scampato il tremendo morbo.
Le conseguenze erano palesi e non facevano fatica ad esporsi ed ostentarsi come trofei di umano orrore: la puzza di morte, di piaghe, di fiato torbido, cumuli di vestiti, stracci e cenci sporchi di sangue e di altri liquidi corporei, l’aria pregna di paura e di turbamento.
C’era qualcosa di insano. Chiunque avesse fatto il suo ingresso a Bliaint come aveva fatto lui quella notte, si sarebbe accorto di quanta disperazione e terrore aveva circolato in quel luogo fino a qualche giorno prima.
C’era chi nascondeva tutto il dolore provato dietro sorrisi di circostanza, ricolmi di rinnovata ma temporanea speranza.
I due Signori li avevano traditi.
E per quanto nessuno di loro osasse pronunciare ad alta voce parole simili, Blake sapeva che dal primo all’ultimo abitante del suo villaggio pensava ciò.
Ma i due dèi non si potevano incolpare, perciò serviva un capro espiatorio.
Ora capiva a cosa si riferisse Ephram con quelle parole di ragguardamento.
Come facesse a saperlo, non gli interessava più, forse non gli era mai davvero interessato.
Aveva scampato per un pelo l’epidemia, ma avrebbe lottato con le unghie e con i denti anche contro un cumulo di stregoni e di monaci incalliti se ne fosse stato necessario.
Camminò tra la sporcizia generata da resti di cibo marci, da panni luridi abbandonati a terra, da cenere e resti di ossa e altri rifiuti bruciati.
Giunto dinnanzi alle due cattedrali, si rese finalmente conto di quanto la situazione fosse mutata nel giro di qualche settimana.
Poi, improvvisamente, una figura in particolare attirò la sua attenzione.
Non appena anche lei lo individuò a distanza, si paralizzò quasi.
Sgranò i grandi occhi d’ossidiana e cominciò a camminargli incontro a passo svelto, senza attendere che lui la raggiungesse.
Si mosse anch’egli velocemente verso di lei, fin quando non se la ritrovò dinnanzi.
Si fermarono a fissarsi negli occhi per qualche minuto, ognuno dei due mancante del coraggio necessario a fare qualsiasi altra cosa.
Non erano sorpresi, non erano impazienti, non erano commossi.
Erano solamente distrutti. Distrutti e sollevati come non lo erano mai stati in vita loro, di rivedere l’altro.
Blake prese le mani fredde di Judith tra le sue, stringendogliele.
Automaticamente le loro dita si sciolsero e impazienti avvolsero il corpo dell’altro, in un abbraccio più che mai sentito, lungo e accorato.
- Siete qui – disse la ragazza apparentemente senza inflessione nella voce, con il viso affondato sulla sua spalla.
- Sono qui – rispose lui, sentendo il bisogno di darle quella necessaria rassicurazione, quella risposta ovvia. - E non me ne andrò per un bel po’.
Judith accennò un sorriso in risposta, stringendolo e facendosi stringere un altro po’, in balìa del freddo invernale.
Da quando la loro amicizia si era rafforzata fino a tal punto? Da quando rivedersi dopo tanti giorni di lontananza era diventata una salvezza l’uno per l’altra?
La loro inaspettata e causale conoscenza e alleanza aveva portato a dividerli, e a ritrovarsi.
Ed ora, erano entrambi consapevoli non fosse più solamente un’alleanza.
Se ne resero conto quando presero coscienza che non avrebbero mai ammesso che la mancanza dell’altro fosse stata tanto presente.
Si staccarono quando una terza presenza attirò la loro attenzione, uscendo da una delle due cattedrali, infagottato adeguatamente sotto diversi strati di vestiti.
I segni della malattia erano ancora presenti e in fase di guarigione nel suo corpo, ma non per questo il suo sguardo risultò meno espressivo di quanto non fosse.
- Siete tornato... Siete tornato! – sussurrò esterrefatto padre Craig, restando all’entrata della cattedrale non appena lo scorse, poi urlandolo e prendendo a camminare velocemente verso la loro direzione.
Blake lo guardò con un sorriso a metà tra l’intenerito e l’amareggiato nel constatare che anche lui fosse rimasto vittima del tremendo morbo.
A quanto pare, il suo strano ospite, oramai meritevole dell’appellativo di “amico”, non era ancora tornato nella sua terra natale, restando ancorato a Bliaint.
- Padre non dovreste correre in questo modo, state ancora guarendo ... dovreste mostrare più attenzione alla vostra salute – lo mise in guardia Judith, ma lui non la sentì neanche, mentre continuava ad avvicinarsi.
- Buongiorno, padre.
Credevate che avrei smesso di tormentare le vostre giornate così facilmente? – fu la prima cosa che gli disse Blake, scaldandogli il cuore più di quanto fosse disposto ad ammettere.
- Padre, comprendo la vostra gioia, ma sono costretta a dirvi di non avvicinarvi troppo a lui: non sappiamo ancora con certezza se la malattia sia totalmente svanita e innocua in voi. Meglio non rischiare alcun contagio.
- Sì, sì, certo, avete ragione – ritornò in sè padre Craig, già proteso verso di lui per abbracciarlo, smettendo di sorridergli e riprendendo la sua razionalità. – Pretendo che mi raccontiate per filo e per segno qualsiasi cosa vi è accaduta in questo viaggio eterno.
- Non esagerate, padre. Sono stato via alcune settimane, non è stato un viaggio eterno. Anche se lo è sembrato. Eppure, a me sembra che anche qui siano accadute parecchie cose in mia assenza – rispose Blake guardandosi di nuovo intorno, ancora incredulo della desolazione trovatosi dinnanzi.
- Avete parlato con vostra madre? I vostri genitori sanno che siete tornato?
- Ancora no. Ho incontrato solo Ioan.
- Voi!! – cominciarono ad esclamare diverse voci tra la folla di neo-guariti usciti dalla cattedrale, indicando Blake. – Voi siete il demonio che se ne è andato e che, con la sua proibita ricerca, ha provocato questa tremenda pestilenza che ci ha decimati!
- Siete voi! Il figlio di Dun Rolland!
- Siete voi che ve ne siete andato in cerca della polvere nera per portare quel tremendo flagello qui nel nostro villaggio sacro!
- La colpa è solo vostra!
- Dovreste morire bruciato seduta stante, insieme a quella polvere portatrice di stragi!!
- A morte!!
Hinedia accorse verso la folla con il fiatone, assistendo alla tremenda scena, e dandosi immediatamente da fare per placare la massa di fedeli e monaci accaniti contro Blake.
- Vi prego, calmatevi!! Non arrivate a conclusioni affrettate e infondate!
- Ha ragione! – la sostenne Judith, ponendosi al suo fianco. – State giungendo a conclusioni assurde e senza alcuna logica!!
- Sono secoli che viviamo nella pace e nella prosperità! Sono secoli che non ci colpisce una calamità come questa!!
Intanto Blake si guardò intorno, notando che vi fossero molti meno monaci di quanto ricordasse.
- Dove sono finiti tutti i monaci del Diavolo? E perchè non sono qui anche loro per puntarmi il dito contro? - domandò a gran voce il ragazzo, interrompendo la fiumana di accuse e condanne a morte nei propri confronti.
- Vi è stata una rivolta – gli spiegò padre Craig afflitto. – Gli stregoni eremiti hanno attaccato le cattedrali e hanno ucciso tutti i monaci del Diavolo. Beitris ha preso il comando della compagnia in assenza di Ephram, scatenando una rivolta, per riprendersi i gemelli improgionati giorni prima, e per vendicarsi di tutte le morti dei suoi compagni provocate e volute dai monaci. Aveva intenzione di sterminare tutti i monaci, dal primo all’ultimo, ma l’epidemia piombata in seguito ha, in un certo qual modo, giovato sui monaci del Creatore, salvandoli. Sono gli unici superstiti e sono in pochi. Da quando l’epidemia ci ha colpiti abbiamo unito le forze e messo da parte gli screzi e i conflitti, aiutandoci a vicenda a superare la malattia – riassunse padre Craig.
- Difatti, ora che abbiamo sconfitto l’epidemia, è ora di farla pagare anche agli stregoni che hanno provocato la rivolta trasformatasi in carneficina!!! – si animò un coro di voci tra monaci del Creatore e fedeli del Creatore.
- Al rogo gli stregoni!
- Al rogo il demonio che ha portato qui la polvere nera!!
- Vi scongiuro, placatevi!! – si frappose tra loro e Blake anche padre Craig.
- Dove sono finiti gli stregoni? – domandò uno dei tanti accaniti.
- Alcuni sono ancora dentro la cattedrale, per riprendersi dagli effetti dell’epidemia!!
- Rientriamo dentro e catturiamoli!
- Catturate prima il ragazzo!
- Catturate il ragazzo!!
- Non credo sia il caso di agire in maniera tanto sconsiderata e molesta nei confronti di entrambi i nostri signori – si elevò la voce ferma e imponente di Ephram, il quale fece a sua volta il suo ingresso in scena, affiancato da un Quaglia sconvolto e impaurito dall’intera faccenda.
Lo stregone intervenne giusto un attimo prima che la folla si scagliasse su Blake.
- Che cosa intendete dire??
- Chi siete voi??
- Egli è Ephram. Colui a capo della compagnia di stregoni eremiti, scomparso anche lui, alcuni giorni dopo la scomparsa di Blake – rispose per lui Judith guardandolo con sguardo indefinibile.
A ciò, lo stregone le accennò un sorriso di ringraziamento per quella gentile presentazione.
- Nonchè colui che ha fatto condannare ingiustamente Maroine e Maringlen – aggiunse tuttavia la ragazza, facendo roteare gli occhi ad Ephram, il quale alzò le mani in segno di resa.
- D’accordo, d’accordo, ammetto le mie colpe. Mi scusero con i due topolini in seguito, avete la mia parola - le garantì, per poi rivolgersi alla folla, ancora in attesa che lui parlasse. – Quanto a voi: nella vostra ingenua avventatezza, avete mai preso in considerazione che, molto probabilmente, è stato proprio il nostro ritorno, mio e di Blake, il giovane che tanto demonizzate, a porre fine all’epidemia?
A quelle parole, tutti ammutolirono.
- Riflettete un attimo – continuò lo stregone avvicinandosi alla folla, venendo fissato con circospezione sia da Blake che da Judith. – Credete sia una semplice coincidenza che la tremenda epidemia che ha colpito Bliaint abbia avuto fine esattamente il giorno prima del nostro ritorno? Dovete sapere che io mi sono unito a Blake nella ricerca della misteriosa polvere nera.
A tali parole, padre Craig e Judith volsero lo sguardo verso Blake, tacitamente in cerca di spiegazioni.
- Credevo che aveste intrapreso il viaggio solo con Selma. Invece, di lei non c’è traccia e, al suo posto, avete fatto ritorno con Ephram – gli sussurrò padre Craig.
- Avrò modo di spiegarvi tutto in seguito – gli rispose Blake, restando concentrato sulle intenzioni di Ephram, impegnato a difenderlo brillantemente e a spada tratta.
- Alla fine... siete riusciti a trovarla..? – domandò una donna tra la folla.
- No. Ma siamo riusciti a scoprirne la composizione. Ora, Blake ha tutto il necessario per farne uso con intelligenza e giudizio, in quanto egli possiede anche tutte le conoscenze che servono per lavorarla adeguatamente e non abusarne. Il motivo che lo ha convinto a spingersi così lontano per cercarla, è tra i più nobili, potete credermi. Per quanto il mio Signore sia solo uno e lo sapete bene, io li rispetto entrambi, e posso dare la mia parola dinnanzi ad entrambi i nostri immensi signori: Blake ha intenzione di fare della polvere nera un dono e un bene per Bliaint. I signori conoscono le sue buone intenzioni e, per tale motivo, hanno fatto in modo che la loro ira si esaurisse e vi hanno liberati dall’epidemia proprio nel momento in cui  Blake ha fatto ritorno al villaggio. Invece di accusarlo, dovreste ringraziare ed inchinarvi dinnanzi a questo giovane, il vostro liberatore! – concluse impetuosamente Ephram, convincendo ogni monaco e fedele all’ascolto.
- Allora ... se non è colpa di Blake ... chi è stato a far adirare i nostri signori, tanto da spingerli a punirci con l’epidemia? – si elevò una voce tra la folla, nel silenzio.
- Già... non è ovvia la soluzione? – commentò un altro fedele, realizzando. – La colpa, a tal punto, ricade solo e solamente sugli stregoni eremiti che hanno scatenato la tremenda rivolta! La colpa è loro!
In quel rinnovato caos della folla, questa volta non rivolto verso di lui, Blake prese a fissare lo sguardo di Ephram, intento a guardarlo in modo indefinibile.
Fu in quel momento che comprese: egli, in qualche modo a lui sconosciuto, era riuscito a scoprire cosa stava accadendo al villaggio in loro assenza. Egli sapeva già cosa si sarebbero trovati dinnanzi, esattamente come Selma. Sapeva i rischi che correvano e gli aveva letteralmente salvato la pelle dalla furia cieca del villaggio, non senza una motivazione a spingerlo. Ephram era un uomo che non agiva mai disinteressatamente. Blake capì che lo aveva salvato perchè voleva che egli gli restituisse il favore. O meglio, che egli si sentisse costretto a restituirgli il favore, a saldare quel debito.
Ephram sapeva che Blake avesse la furbizia e il potere di salvare lui e la sua compagnia di stregoni dal crudele giudizio del popolo, se solo lo avesse voluto. Così, lo aveva messo nella condizione di volerlo, di doverglielo, per essere in pace con se stesso.
Ma una cosa che Ephram sfortunatamente non sapeva, era che, per Blake, non esistevano debiti di alcun tipo. Non aveva mai dato importanza a cose simili, agendo solamente nel suo interesse e in quello di coloro a cui teneva. Non aveva bisogno di salvargli la pelle a sua volta per sentirsi in pace con se stesso.
Eppure, quel piccolo spiraglio di coscienza sepolto dal suo orgoglio stava gridando per farsi sentire, incoraggiandolo a compiere quella buona azione per evitare altri spargimenti di sangue inutili, e perchè, in futuro, Ephram gli sarebbe sicuramente tornato utile.
A ciò, rifletté sul da farsi, e fortunatamente, Judith andò in suo aiuto inconsapevolmente. – Non riuscite a comprenderlo?? – esclamò la ragazza. – Gli stregoni sono stati plagiati dalla mentalità malata e distorta di colei che ha preso il comando in assenza di Ephram: Beitris. Lei è la causa della rivolta. È stata lei che, spinta dalla sua cieca rabbia e dalla sete di vendetta, ha guidato gli altri stregoni a compiere quelle atrocità, non lasciando loro altra scelta, e convincendoli che quello fosse il volere del loro Signore! Non incolpate tutti per il peccato di una sola persona.
- Esatto – si aggiunse a lei Blake, affiancandola e lanciando un furtivo sguardo ad Ephram. – Inoltre, pensate anche a questo: siete stati duramente decimati, sia dall’epidemia, che dai danni che ha provocato la sanguinaria rivolta di Beitris, soprattutto i monaci. Oramai siamo in pochi e rischiamo di restare sempre meno. La natalità diminuirà e, senza gli stregoni, noi servitori del Diavolo rimarremmo in molti meno rispetto ai servi del Creatore. Vi sarebbe un grande disequilibrio che non vi è mai stato prima, e che non sarebbe affatto gradito ad entrambi i signori. Senza contare che, con così pochi monaci rimasti, provocare una strage di stregoni implicherebbe istigare il malcontento e la furia delle persone care agli stregoni in questione, dunque dare loro il via libera per creare un’altra tremenda rivolta, e sterminare i pochi monaci rimasti, generando, in tal modo, l’ira incontenbile dei nostri signori, nuovamente.
- Dunque è questo che volete? – gli diede man forte Judith, anche lei evidentemente estenuata da tutti gli spargimenti di sangue a cui aveva assistito. – Volete rischiare di irritare nuovamente il Diavolo e il Creatore e di scagliarci addosso un’altra epidemia, o qualcosa di peggio? Volete che questa catena di odio continui e aumenti la rabbia che già c’è in abbondanza nei confronti del clero? In tal caso, noi servitori del Diavolo saremmo assistiti dal nostro Signore, se anch’Egli riterrà che voi monaci del Creatore abbiate commesso un così grave peccato.
- Siete disposti a rischiare tanto? – insistette Blake, alternandosi con la ragazza con invidiabile complicità. Le loro doti persuasive che li accomunavano si scatenarono e ottennero il risultato voluto.
- D’accordo, il vostro ragionamento è sensato. Tuttavia, non possiamo non punire nessuno per la rivolta provocata. Una tale tragsressione non può restare impunita – intervenne un monaco, portavoce della maggioranza.
Blake comprese di non poter far molto altro, giunti a quel punto.
Ai lupi affamati serviva un capro.
E anche se nessuno sapeva chi fosse il diretto responsabile della venuta dell’epidemia, poichè probabilmente un responsabile non c’era; per la rivolta, invece, un colpevole c’era eccome e aveva fatto di tutto per rendersi tale, quantomai indifendibile.
Blake era consapevole che non sarebbero bastate parole argute e discorsi plagianti per convincere la folla in quel caso.
Non avrebbe potuto fare nulla per salvarla.
- Colei che ha istigato la rivolta è ancora dentro la cattedrale.
- Dobbiamo catturarla e sbatterla nelle segrete, in attesa della sua esecuzione.
- Lasciate che ci parli io – si frappose tra loro Blake, facendosi spazio tra la folla. – Parlerò con lei. Poi la lascerò a voi – disse, poco prima di entrare dentro il portone della cattedrale e sparire dietro di esso.
 
- Padre nostro, sia santificato il tuo nome, sia fatta la tua volontà! Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal peccato ... – sussurrò la ragazza corvina, china di fronte all’altare del crocefisso posto al contrario, inginocchiata, con le ossa sporgenti che premevano dolorosamente sul cemento freddo, ormai magra al limiti dell’umano, a causa dell’epidemia che l’aveva colpita, forse più duramente di altri.
Ora stava meglio, stava riprendendo gradualmente le forze come tutti, ma sentiva ancora su di sè il pesante giogo del fantasma del morbo, e del senso di colpa che le premeva sul petto.
Dentro di sè, sapeva cosa l’aspettava. Ora che l’epidemia, ciò che li aveva unificati e aveva placato i conflitti laceranti, se ne era andata, il pesante giudizio del popolo nei suoi confronti l’avrebbe condannata alla peggiore delle punizioni.
- Padre nostro, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal peccato... – gli stracci luridi che indossava, per quanto di tessuto pesante, facevano comunque passare l’aria gelida sotto di loro, facendo rabbrividire la sua pelle chiara, delicata e marchiata.
Aprì i grandi occhi di smeraldo e li rivolse verso l’alto, verso il crocefisso.
- Liberaci dal peccato!
Liberaci dal peccato! – Improvvisamente, la ragazza udì dei passi cadenzati farsi strada per il corridoio centrale della navata, avvicinarsi gradualmente a lei.
Le trasmisero calma e tranquillità, non la allarmarono.
Attese che quei passi la raggiungessero, continuando a pregare sottovoce la stessa preghiera.
Lo riconobbe, nonostante non si voltò verso di lui per guardarlo.
Si era inginocchiato accanto a lei e aveva alzato il volto verso il crocefisso, non provando nulla, se non compassione e tristezza, per la giovane donna che gli era accanto, alla quale aveva inevitabilmente voluto bene.
Blake si voltò lievemente a guardarla, osservando le sue mani lungue e ossute, ferite in diversi punti, strette e sbiancate in gesto di umile preghiera, poggiate alla fronte.
La ragazza smise di pregare e accennò un sorriso perso, abbassando lo sguardo verso le proprie ginocchia doloranti. – Hai trovato ciò che cercavi ...?
Blake ci mise un po’ a risponderle, facendo trascorrere qualche attimo di silenzio. – Sì.
- E ne hai pagato le conseguenze ...?
- Ho perso Selma.
Beitris sorrise amaramente ancor di più. – Non la considererei una grande perdita. Non mi riferivo a quello – gli disse alzando finalmente lo sguardo verso di lui e allungando la mano sul suo collo, sfiorando con le dita fredde la sua fasciatura bianca.
- Ne hai pagato le conseguenze – ripetè.
- Anche tu.
Beitris ritirò la mano, ancora coperta dei segni della malattia.
- Come ti senti? – le domandò lui.
- Sto guarendo.
- Ne sono felice.
- Ed io sono felice che tu ti sia scampato tutto questo, Blake. Almeno questo.
Il ragazzo rimase in silenzio.
- Stanno venendo a prendermi, vero? – ruppe il silenzio lei, riniziando a tremare per il freddo.
Blake, non rispose, nuovamente.
Una lacrima solitaria solcò gli zigomi alti e definiti di Beitris. – Ricordi la leggenda di Eva e del viandante...?
Blake accennò un sorriso nostalgico a tali parole. Una domanda che lei gli aveva posto più volte in passato, quando il loro legame era più stretto.
- Sì, la ricordo.
- Ricordi che ti ho sempre detto che sei più simile tu ad Eva, rispetto a tutto il nostro popolo?
- Sì.
Beitris accennò un altro sorriso rotto. – Avrei voluto essere anche io così. In cerca di conoscenza, curiosa, assetata di scoperta. Impavida – si bloccò, cominciando ad udire la folla che scalpitava fuori dalla cattedrale, poi proseguì. – Ho commesso tanti errori nel corso della mia vita. Ho ucciso un bambino innocente a sangue freddo, per prendere una maledetta mandragora. Ho ascoltato ciecamente, senza pensare, senza oppormi, un leader che agiva non sempre per il nostro bene. Ho imbrogliato, ho maledetto, ho usato la magia nera per scopi illeciti e ho aiutato altri a far uso della magia nera per provocare il male. Ho lasciato che ... – la sua voce si ruppe. – Ho lasciato che i miei due tesori preziosi venissero rapiti, maltrattati e quasi uccisi, senza muovere un dito... senza accorgermi di quanto tenessi a loro.
Ho sbagliato. Innumerevoli volte.
- Beitris – la richiamò lui, facendola voltare a guardarlo. – Tutti sbagliamo. Non esiste il giusto e lo sbagliato nella nostra realtà.
La folla scalpitò ancor di più sul portone, incontenibile e in procinto di entrare.
Gli occhi lucidi di Beitris si alzarono di nuovo verso il crocefisso. – Ancora non ci credi, vero? Non ci credi e non ci hai mai creduto... – sussurrò, tornando poi su di lui. – Fa’ attenzione.
Egli annuì, per poi togliersi il mantello pesante e porlo intorno alle spalle di Beitris per scaldarla.
Si avvicinò a lei e la guardò negli occhi lucidi.
- Chi è lei? – gli sussurrò.
- Lei chi?
- Ho indovinato. Sei stato con un’altra fanciulla durante questo viaggio. Com’era lei? – gli domandò accennandogli un sorriso, tremando tra le sue braccia e stringendogli la mano.
Blake ricambiò il sorriso malinconico e le diede un dolce bacio sulla fronte, che le provocò un brivido lungo la schiena. – Verrò a trovarti – le sussurrò, poco prima di alzarsi in piedi e di allontanarsi da lei.
Beitris strinse la sua mano tra le sue fin quando potè e la distanza che lui pose fra di loro non li divise, annuendo tremante e guardandolo dirigersi verso l’entrata della cattedrale.
In quel momento, una folla di popolani e monaci piombarono nella struttura, fiondandosi su di lei.
Quando Blake uscì dalla cattedrale, ritrovò Judith e padre Craig ad attenderlo, mentre Ephram sembrava essersi volatilizzato.
In compenso, Quaglia era rimasto lì, e gli rivolse un genuino sorriso non appena lo vide ricomparire.
- Ephram non ti ha portato con sè? – gli domandò Blake, vedendolo avvicinarglisi.
- Ma come, non te lo ricordi? Avevi detto che sarei diventato il tuo apprendista! – esclamò semioffeso, lasciando perplessi padre Craig e Judith, che già lo stavano osservando interdetti da quando era comparso a fianco di Ephram.
- Ah, giusto. Stai migliorando con la memoria e l’acquisizione di termini nuovi, Quaglia – si complimentò Blake.
- Grazie!
- Chi sarebbe il bizzarro nuovo arrivato, Blake? – gli domandò finalmente padre Craig.
- Lui è Quaglia, padre.
- Quaglia...? È davvero il suo nome?
- Certo! È il mio nome, signore. E il vostro?
- Padre Craig. Potete chiamarmi “padre”, non “signore”: sono un uomo di Dio – gli rispose padre Craig divertito dal suo strano comportamento.
- Un “uomo di Dio”? – chiese Quaglia confuso. – Blake, cosa...?
- Non è il momento delle domande ora – lo interruppe il ragazzo.
- Dove diavolo lo avete pescato questo qui? – gli domandò allibita Judith.
- Vi spiegherò tutto. Ad ogni modo, è innocuo. Potete fidarvi – la rassicurò, poi rivolgendosi a Quaglia. – Ehi, Quaglia, lei è Arley Judith, una mia cara amica.
A ciò, l’uomo arrossì fino alla punta delle orecchie, come non gli era mai capitato prima.
Solo in quel momento comprese le parole di Ephram, riguardo le donne di Bliaint e la loro bellezza leggendaria.
La signorina Judith era indubbiamente milioni di volte più bella rispetto a Selma e a qualsiasi donna avesse visto in quella locanda e altrove, tanto da intimorirlo.
Abbassò lo sguardo e, intimidito, si fece forza e le baciò elegantemente la mano guantata, inchinandosi a lei.
A ciò, Judith sorrise intenerita, per la prima volta dopo settimane. – Non vi è bisogno di tali formalità, non preoccupatevi.
- Oh, ma io voglio mostrarvele, signorina!
I quattro vennero interrotti da alcuni popolani ritornati all’esterno della cattedrale.
- Non crederete che ci siamo dimenticati di voi, scelerata peccatrice! Anche voi e il vostro amante meritate il rogo: avete provocato l’ira dei nostri signori con il vostro atto tra i più impuri mai visti!!
- Vi ho già ripetuto più volte che il bambino che porto in grembo non appartiene ad un servo del Creatore. Quante altre volte ve lo devo ribadire per farvelo comprendere? – rispose prontamente Judith, facendo sgranare gli occhi blu di Blake a tali parole.
Un bambino ...?
Ella lo guardò come se volesse comunicargli tutto con un solo sguardo.
- Non vi crediamo! State solo cercando di salvarvi e salvare l’abominio che portate in grembo!
- Se non esiste alcun legittimo padre del bambino qui presente, che può testimoniare di esserlo, per quale motivo dovremmo fidarci delle vostre parole??
In quel momento, Blake comprese cosa volesse trasmettergli lo sguardo di Judith.
Ella si trovava in una situazione terribile al momento, persino peggio della sua.
La ragazza lo guardò ancora, a ciò lui prese prontamente la parola. – Sono io il padre. Il bambino è mio - disse mettendo a tacere ogni malalingua. - Ora che sono tornato a Bliant posso testimoniarlo.
A tal punto, non si alzò più alcuna voce dalla folla, e ognuno di loro prese la direzione che gli spettava, verso la propria abitazione.
Judith si avvicinò a Blake e gli strinse la mano, mimandogli un “grazie” in labiale.
- Lo sai che dovrai aggiornarmi a dovere su questa questione, vero? – le sussurrò lui ricambiando la stretta.
- Altrettanto vale per voi. Attenderò con ansia di rincontrarci – gli disse lei facendo cenno alla sua fasciatura sul collo.
Egli annuì. - Ora è il momento che io torni a casa. Devo ancora far sapere a mio padre e a mia madre che sono qui.
A tali parole, padre Craig si rabbuiò visibilmente, dettaglio che non sfuggì a Blake.
- C’è qualcosa che dovete dirmi, padre? È accaduto qualcosa alla mia famiglia mentre ero via?
- Dovete tornare a casa, Blake. È giunto il momento. Torniamo a casa – si limitò a dirgli il giovane prete.
A ciò, Blake si incamminò in direzione di casa sua, seguito da padre Craig e da Quaglia, ignaro di cosa si sarebbe trovato dinnanzi.
 
Quando i tre varcarono la porta di casa Rolland, era oramai pomeriggio inoltrato e il primo che trovarono ad aspettarli fu Ioan, sprizzante di energia e di salute come non lo era mai stato, in parte anche per il ritorno tanto atteso del fratello.
- Sto preparando lo stufato! – esclamò Ioan andandogli incontro pimpante.
- Lo stai preparando da solo? – gli domandò Blake incredulo.
- Mi sta aiutando nostro padre! Gli ho detto che sei tornato, sai? – il bambino non fece in tempo a terminare la frase che Rolland varcò la porta dell’atrio della casa, rimanendo pietrificato per alcuni attimi dinnanzi a suo figlio.
- Quando Christopher me lo ha detto ... non riuscivo a crederci.. il mio figliol prodigo! – esclamò l’uomo piombandogli addosso e stringendolo forte a sè.
- Anche tu mi sei mancato, papà – gli rispose Blake ricambiando la stretta.
A fissare quel bel quadretto, sul ciglio della porta, si stagliò la figura di Heloisa.
Quando Blake la vide, scorgendola da sopra la spalla di suo padre, quasi non la riconobbe: sua madre sembrava letteralmente il fantasma di se stessa, non era dimagrita particolarmente, ma le sue occhiaie viola e il volto scavato davano l’idea che non avesse chiuso occhio da giorni, i capelli folti e solitamente ricci e vivaci, ora erano spenti, totalmente increspati, tanto da somigliare ad un cespuglio di ragnatele, mentre i vestiti erano quelli che indossava solitamente la notte. Piedi e gambe nude, e una sgualcita vestaglia bianca. Null’altro. Gli occhi a metà tra lo spento e lo stralunato.
Non era da lei. Non era da lei trascurarsi in tal modo.
Sua madre era sempre stata una donna attenta alla cura della persona, alla pulizia, e all’apparire impeccabile, in ogni circostanza, persino in casa e nelle situazione più intime.
Nascose la sorpresa come meglio riuscì, mentre la vedeva avvicinarsi a lui, con quel passo incerto e tremante.
- Dove sei stato per tutto questo tempo ...? – gli domandò osservandolo attentamente da capo a piedi, studiandone ogni dettagli.
- Sei ancora più alto – constatò, nella sua voce una nota addolorata. – Devi iniziare a legarti questi capelli, sono troppo folti e sono cresciuti troppo. Sembri più adulto. Quanto è passato, Blake...? Che cosa ti è successo? – gli domandò in una fiumana di domande, avvicinando infine una mano incerta sul suo collo fasciato. Senza chiedere, nè aspettare che Blake rispondesse, iniziò a sfilargli la fasciatura.
- Mamma, è meglio di no – la ragguardò lui.
- Voglio vedere cosa ti hanno fatto – insistette con voce distorta dal pianto. – Voglio vedere cosa ti hanno fatto quelle bestie che vivono fuori da questo villaggio.
- Alma .. – la richiamò Rolland, inutilmente, volgendo a Blake uno sguardo esasperato.
A ciò, il ragazzo la lasciò fare, osservando il suo volto nel momento in cui i suoi occhi si posarono sull’imponente e lungo taglio non ancora del tutto cicatrizzato che circondava il suo collo.
Heloisa barcollò facendo due passi indietro, mentre delle calde lacrime le rigarono le guance e il palmo della mano le copriva la bocca aperta.
- Ti avevo detto di non farlo – le disse lui con calma.
- Chi è stato...? Che ti è successo...?
- Heloisa – tentò anche padre Craig.
- Voglio sapere chi è stato!! – esclamò stralunata la donna, riavvicinandosi al suo primogenito con impeto selvaggio.
Blake ricambiò il suo sguardo in silenzio, impiegando qualche attimo prima di rispondere. – Perchè ti stai comportando in questo modo?
- Tu mi farai morire ... mi farai morire!!
- È da giorni che va avanti così – lo informò il piccolo Ioan, preoccupato.
- Zitti! Non parlate come se non ci fossi! E tu, quando pensavi di dirmi che diventerai padre?? – riprese Heloisa lasciandolo interdetto.
- Quella è solo una menzogna che ho dovuto dire per proteggere Judith. Il villaggio deve continuare a crederlo fin quando non si saranno calmate le acque – le rispose, vedendola alterarsi inspiegabilmente ancora di più.
- Tu mi stai mentendo!! Tu mi menti sempre! Come tutti!!
Ma tu ... tu più di qualsiasi altro!
Sai, ho pregato! Ho pregato il nostro Signore onnipotente, gli ho chiesto di aiutarmi a comportarmi con saggezza!
Dopo la tua partenza non sapevo che cosa fare... ho creduto il peggio, e poi sono anche venuta a conoscenza della gravidanza di quella ragazza..
Io mi prenderò cura di quel bambino! Voi non ne siete in grado! Sei stato un incosciente, un ingenuo, un irresponsabile.
- Ora stai esagerando – la riprese di nuovo Rolland con severità questa volta, mentre Blake continuava a guardarla con sguardo neutro, ascoltando i suoi deliri con una calma che padre Craig trovò a dir poco ammirevole.
- E poi ... come se non bastasse ... è tornata.
- Di chi parli? – domandò Blake.
- Non chiederlo! Non azzardarti a chiederlo, Even! Lei non può vederti! Non può vedere nessuno di noi! Lo so, lo sento che è tornata. È tornata solo per portare discordia e farmi del male! È tornata per portarmi via tutto quello che ho, la vita che mi sono costruita tanto duramente! È tornata per rovinarmi! Per vedermi morire ai suoi piedi, come ha sempre voluto! Per appropriarsi di tutto ciò che è mio!!
- Di chi stai parlando? – insistette il ragazzo.
- Di nessuno!! Non deve interessarti!! – gli urlò contro, dritto in faccia, per poi scoppiare in lacrime. – Blake, promettimi che non la incontrerai! Devi promettermelo!
- Non so di chi tu stia parlando, ma te lo prometto.
All’inizio ella parve rincuorarsi, ma poi divenne nuovamente una furia vacante. - Vattene via di qui! Se devi andartene di nuovo e recarmi ancora tanto dolore, vattene via ora!!
Blake le si allontanò, sentendola protestare, per avvicinarsi a suo padre, il quale se ne stava fermo, incapace di agire in qualsiasi modo. – Da quanto è in questo stato..?
Rolland negò con la testa, scostando lo sguardo, non sapendo cosa rispondere.
Blake lo continuò a guardare confuso. – Non sei stato capace di fare nulla. Come sempre – disse tagliente. – La vedi in che stato è, papà?
- Non ho potere, Blake – gli rispose arreso l’uomo. – Non ho mai avuto potere su di lei. Ce l’hai tu. E ce l’ha Ioan. Non io.
- Troppo facile lavarsene le mani così, non credi?
- Prima era più tranquilla. La tua vicinanza la porta a reagire cento volte peggio, che il Signore mi sia testimone.
- Che il Signore sia testimone anche della tua inguaribile inettitudine.
- Che cosa hai detto ...?
- Blake, vi prego – interruppe la nascente discussione tra padre e figlio il giovane prete, avvicinandosi con cautela. – Vostro padre non ha colpe. Abbiamo tentato di parlare con Heloisa, ma non c’è verso. Sembra che, da quando si è convinta che al villaggio sia riapparsa una certa presenza, il suo umore sia divenuto incontrollabile. Tanto che neanche la guarigione di Ioan e il vostro ritorno paiono influire su di lei.
Blake lo guardò per qualche secondo, in silenzio, mentre padre Craig tratteneva ancora lo sguardo basso.
Il ragazzo sospirò, per poi voltarsi verso Quaglia, il quale era rimasto in silenzio tutto il tempo, immobile, ad osservare la scena allibito. – Benvenuto a casa mia – gli disse il ragazzo, con sarcasmo pungente, mentre Rolland a sua volta si accorgeva della nuova presenza.
- Hai portato un ospite, Blake – ribadì l’ovvio Rolland. – Perdonate la terribile accoglienza, spero non vi siate spaventato.
- Oh niente affatto! – si affrettò a rispondere Quaglia con voce tremante, facendo uno sforzo sovrumano nel mentire.
- Purtroppo stiamo già ospitando padre Craig, perciò non abbiamo altre camere per gli ospiti libere – disse Rolland desolato. – Dovrete accontentarvi della poltrona nell’atrio.
- Va benissimo, signore!
- Che ragazzo educato – si sorprese Rolland.
Heloisa, calmatasi notevolmente e sembrando quasi un’altra persona, si riavvicinò a Blake. – Even, tesoro, vieni a letto, ti accompagno in camera tua, sarai stanco dopo il lungo viaggio sostenuto – gli disse prendendogli il braccio, cercando di trascinarlo con sè. – Ti ho sistemato la tua stanza impeccabilmente mentre eri via. Le lenzuola sono immacolate e profumate, senza la minima piega, sui mobili non vi è neanche un granello di polvere. È tutto perfetto.
- Mamma, ti sei accorta che abbiamo un ospite? – le domandò resistendole.
- Non mi importa nulla dell’ospite – gli rispose senza voltarsi a guardare Quaglia nemmeno una volta. – Mi importa solo di mio figlio, che è tornato a casa dopo tanto tempo che lo aspettavamo con ansia.
L’alto livello della sua lunaticità preoccupò il ragazzo, il quale restò tranquillo dinnanzi a lei, cercando di non agitarla. – Va bene, mamma. Vado a riposarmi.
- Blake, non te ne andrai più, vero..?
- No, non me ne andrò.
A ciò, Heloisa sorrise, poggiandosi una mano sul cuore. – Sia ringraziato il Signore. Ora devi riprenderti. E... Blake – lo richiamò, prima di vederlo chiudersi la porta della sua camera dietro le spalle. – Dico davvero: che ti è successo al collo? Voglio saperlo, ti prego – disse col tono più allarmato che le avesse mai udito.
- Te lo dirò, mamma. Ma ora è tardi, va’ a riposare anche tu. Domani sarà un giorno migliore.
 
L’uomo varcò le soglie del villaggio in tarda serata in groppa al suo cavallo, stretto nei suoi abiti sin troppo leggeri per il clima di Bliaint, e con una mappa tra le mani.
Dopo la lunga traversata affrontata, giunse dinnanzi alla cattedrale dei servi del Creatore, come era indicato nella mappa, e come suggeritogli dal suo amico monaco, che aveva avuto modo di conoscere solamente tramite scambio epistolare, anni addietro.
Bussò sul grande portone, in attesa che qualcuno gli aprisse, stringendosi infreddolito negli abiti di seta e guardandosi intorno nel buio pesto. Da dove proveniva lui, a quell’ora del giorno, con il sole appena tramontato, il cielo si mostrava di un azzurro lievemente scurito.
Invece, lì a Bliaint sembrava quasi notte fonda.
Dopo qualche minuto di troppo padre Cliamon aprì il portone, facendolo entrare.
Il monaco osservò l’esuberante mercante proveniente dall’Est dinnanzi a lui: un uomo dai capelli scuri e sottili, sistemati indietro in uno strano modo sicuramente tipico del luogo da cui proveniva, gli occhi allungati e scuri come la pece, la pelle caramellata e lucida, come fosse oliata, la statura alta, il corpo slanciato e molto magro, i vestiti di seta di un vivace color pesca, e i lineamenti estremamente spigolosi e ossuti, molto particolari. Padre Cliamon se lo immaginava diversamente.
Anche l’uomo dinnanzi a sè lo osservò a sua volta, con un sorrisino quasi strafottente ad ornargli il viso. - Perdonate mia poca padronanza di lingua comune. Devo dire che voci che ho sentito sono vere: trovo vostro aspetto ripugnante. Però ne ho visti di peggio.
Padre Cliamon, in difficoltà sulla risposta da dargli dinnanzi a tanta sfacciatezza, sorrise forzatamente. – Credo sia il complimento migliore che abbia mai ricevuto sul mio aspetto, signor Göil. Spero di aver pronunciato bene il vostro nome. Ci siamo spesso scritti per lettera, ma l’approccio dal vivo è totalmente diverso.
- A volte persone si rivelano diverse da come ci si aspetta, Cliamon.
- “Padre” Cliamon, se permettete. È l’appellativo usato qui per gli uomini di dio.
- Giusto, vostri due dèi! Non sono stessi dèi a cui credo io.
- Si tratta di rispetto – insistette il monaco cercando di non perdere la pazienza, sorprendendosi di quanto fosse diverso e notevolemente più irritante, rispetto a come apparisse per lettera.
- Ad ogni modo... perchè avete messo tanto ad aprire? Questo posto mette brividi là fuori.
- Ero occupato a discutere di alcune faccende con gli altri monaci sopravvissuti alla rivolta, perdonate l’attesa. Dovete aver fatto un lunghissimo ed estenuante viaggio per giungere qui.
- Ho fatto viaggio in barca durato due settimane. Ho bisogno di riposo e di ristoro. Avete luogo in cui divertirsi qui? – disse facendo un allusione non troppo velata.
Il suo sguardo già languido non prometteva nulla di buono, considerando le rigidi leggi di Bliaint a cui quell’uomo non era neanche lontanamente avvezzo.
- Che ne dite se ci dirigiamo subito verso l’unica motivazione che vi ha spinto ad intraprendere questo tortuoso e lunghissimo viaggio, signor Göil? Per lettera, sembravate molto impaziente di fare la conoscienza dei due piccoli servitori del Diavolo. Ho bisogno che li portiate via di qui il prima possibile. Vi è una terribile minaccia che grava sulle loro spalle.
- Vostra collaboratrice che mi ha contattato con voi, dov’è?
- Judith sta riposando al momento. Non vorrei svegliarla, ma se avete intenzione di rimanere uno o due giorni qui, ella avrà tutto il tempo di salutare i gemelli prima della partenza.
- Me li farete vedere ora? – domandò il mercante, palesando una strana emozione nel volto.
In quel momento padre Cliamon si domandò se avessero fatto bene a rivolgersi a lui per portare via i gemelli dalle grinfie di Myriam. Cominciò a nutrire dei seri dubbi, ma preferì aspettare, per testarlo ancora.
Non avrebbe mai lasciato Maringlen e Maroine nelle mani di un uomo inaffidabile e dalle intenzioni poco chiare. Forse si era lasciato prendere dalla fretta, fidandosi troppo velocemente, un errore assolutamente non da lui.
Padre Cliamon lo condusse nelle proprie stanze. Nel grande letto in mezzo alla stanza illuminata solo da due candele ancora accese, dormivano beatamente appisolati  e vicini Maroine e Maringlen.
Il mercante sgranò gli occhi nel guardarli. Occhi nei quali comparve una scintilla sinistra che non piacque per niente a padre Cliamon.
- Sono più belli di quanto credessi... – sussurrò lo sconosciuto avvicinandosi piano a loro, per non svegliarli e osservarli più da vicino. – Sono persino più belli di quanto mi avete narrato... io non credevo..
- Tutti i servi del Diavolo sono molto belli, signor Göil – rispose serafico padre Cliamon. – Non destano particolare stupore qui a Bliaint.
- Da dove vengo io scolpirebbero statue a loro immagine invece – disse incantato, sfiorando i soffici capelli chiari e sparsi sul cuscino, di una Maroine beatamente addormentata. – Quanti anni?
- Dodici.
- Sono piccoli. E ancora androgini – disse l’uomo sorridendo, ancor più soddisfatto.
- Perdonate, signor Göil – intervenne padre Cliamon cercando di contenere l’irritazione. – Credevo che per lettera ci fossimo accordati per portare via i gemelli nel vostro paese natale e trovare loro un’occupazione degna e stabile, che non li esponesse a rischi – sottolineò Cliamon, vedendo il mercante scoppiare in una fragorosa risata un secondo dopo e alzarsi dal letto, spostandosi dall’altro lato per osservare anche l’altro gemello assopito. Gli spostò i capelli che gli coprivano il viso e restò a guardarlo. – Sono completamente identici ...
- Sto aspettando una risposta, signor Göil – ripetè Cliamon spazientito.
- Vostra ingenuità mi diverte molto! Davvero credevate avrei sprecato queste due preziose perle relegandoli a lavorare in bottega?? – disse ridendo ancora. – Mi pagherebbero montagne di pepite d’oro per avere anche solo uno di loro due! Soprattutto se dicessi che vengono da Bliaint! Mi renderanno ricco per il resto della vita!
- Non vi azzardate a toccarli! – esclamò padre Cliamon facendo per avvicinarsi a lui, ma si bloccò nel momento in cui il mercante tirò fuori da un lembo del suo vestito di seta una strana e affilatissima daga, e la puntò a velocità quasi inumana sul collo di Maringlen.
- Altrimenti...? Cosa farete, monaco...?
A ciò, prima che padre Claimon ebbe modo di rendersi conto di cosa stesse accadendo, Maroine si rigirò svelta nel letto, e si scagliò dritta sul collo del mercante con ira incontrollata, pugnalandogli la gola con un vecchio pugnale che teneva nascosto sotto il cuscino.
La stanza del monaco si riempì del sangue del mercante urlante, con il pugnale conficcato in gola, e una ragazzina rabbiosa sopra di lui.
Quando il signor Göil esalò l’ultimo respiro, Maroine si voltò a guardare padre Cliamon, quasi tutta coperta di sangue, con uno sguardo a metà tra l’inorridito, il colpevole e il furioso.
- Volevi farci portare via da un uomo simile?!
- Non lo avrei mai permesso, Maroine! Non sapevo quali fossero le sue vere intenzioni! Se eri sveglio, hai potuto sentirlo anche tu! – le disse, osservando poi il letto macchiato e le pareti schizzate di sangue. - Dobbiamo ripuliare tutto qui. Dobbiamo portare via il corpo al più presto... questa rimane pur sempre la casa del Signore.
Solo a quel punto, Maringlen si svegliò dal suo sonno, totalmente inconsapevole e ancora per metà addormentato. Puntò un veloce sguardo su sua sorella in piedi accanto a lui e sussurrò: - Maroine ... che fai in piedi? Sei guarito da poco dalla malattia... non dovresti fare sforzi... – le disse non facendo caso al sangue che la macchiava e al corpo riverso a terra sotto di lei.
- Ben svegliato, vostra maestà! – esclamò lei dandogli uno schiaffo nella spalla per svegliarlo adeguatamente. - Questo verme qui a terra ti ha puntato una lama sulla gola e tu neanche ti sei svegliato! Incredibile! Non devi aver dormito per giorni interi per avere un sonno così profondo. Chissà cosa sarebbe successo se non ci fossi stato io qui! Non voglio neanche immaginarlo ...
Solo in quel momento Maringlen sembrò svegliarsi completamente e rendersi conto dell’accaduto, mettendosi seduto sul letto, osservando prima il cadavere riverso a terra, poi sua sorella, poi padre Cliamon.
- Lui era la nostra unica occasione per andarcene di qui! – fu la prima cosa che disse il gemello.
- Stai scherzando spero! Quest’uomo aveva intenzione di venderci alla peggiore feccia della sua terra natale per arricchirsi a sproposito!
A ciò, Maringlen si zittì, posando poi lo sguardo su padre Cliamon. – E adesso? Come faremo ad andarcene di qui prima che Myriam perda la pazienza? – gli domandò, in attesa di ricevere una risposta soddisfacente da lui.
Trascorsero infiniti attimi di silenzio, in cui padre Cliamon si scervellò per trovare una soluzione.
- Judith ... – esalò ricordando. – Judith aveva studiato le rotte delle navi che partono dal porto del villaggio più vicino a Bliaint, per ogni evenienza, nel caso, appunto, in cui l’opzione del mercante dell’Est non fosse più praticabile! Il porto è a tre giorni di cammino da qui, e, se non ricordo male, lei mi aveva detto che non dovreste attraversare altri villaggi, oltre quello che ospita il porto, in quanto si tratta di una strada di collina semideserta e senza apparenti pericoli.
- E cosa dovremmo fare, una volta giunti al porto..?
- Per i giovani ragazzini maschi è molto facile entrare a far parte della ciurma come mozzi, iniziando dalle mansioni più umili. Dovreste fare sempre molta attenzione nel passare inosservati e non destare l’attenzione, ma siete molto bravi nei travestimenti, giusto? Potrebbe essere una valida alternativa. Nessuno vi farà del male se entrerete stabilmente a far parte della ciurma e viaggerete in mare. I pericoli vi sarebbero in ogni caso, ragazzi, ma sarebbe la soluzione migliore per far scampare a morte certa uno di voi due – disse il monaco, guardandoli con sguardo accorato.
- Potremmo non avere abbastanza tempo... – esalò Maringlen immerso nei suoi pensieri. – Myriam scoprirebbe subito l’inganno e ci inseguirebbe, per uccidere uno di noi. Tre giorni di cammino sono troppi.
- Non dire sciocchezze, Ira – cercò di tranquillizzarlo Maroine. – Vedrai che ce la faremo. Partiremo domani stesso.
- Non possiamo partire già domani, Maroine: tu stai guarendo, la tua salute non è ancora stabile, devi rimanere a riposo.
- Ma ...
- Ci penseremo domani – li interruppe padre Cliamon riportandoli all’ordine. – Ora dobbiamo pulire la stanza e portare via il corpo. Aiutatemi, svelti.
- Padre! – lo richiamò Maringlen prima di mettersi all’opera, con un’insana idea a balenargli già in mente.
- Sì?
- Myriam sa che Maroine sta guarendo dalla malattia?
- Non credo. Non la vedo da due giorni, da prima che Maroine iniziasse a stare meglio, così come il resto del villaggio. Perchè me lo chiedi?
- No, nulla.
Per tutta la durata di tempo che impiegarono a sistemare il misfatto appena avvenuto in quella stanza, Maringlen ebbe quel pensiero fisso, inchiodato nella mente.
Tanto che, non appena ebbero terminato, si diresse furtivamente verso la stanza di Judith.
La ragazza addormentata venne svegliata dal persistente bussare alla porta. Si alzò in piedi, accese una candela e andò ad aprire, incerta su chi potesse essere.
- Ehi.. cosa ci fai qui? – chiese incuriosita al fanciullo biondo con lo sguardo più che mai determinato, dinnanzi alla sua porta.
- Ho urgente bisogno dell’aiuto del tuo amico, il ragazzo della polvere nera.
 
 
 
 

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Capitolo 24
*** L'albero della conoscenza del bene e del male ***


L’albero della conoscenza del bene e del male
 
La ragazza dai lunghi capelli ramati ondulati e selvaggi, camminava, nuda e spensierata, nelle lande del giardino dell’Eden.
Nessun pensiero affliggeva la sua leggerezza, all’apparenza.
Con sè aveva solo una sacca contenente un po’ di bacche, per nutrirsi, e dell’acqua, per abbeverarsi: era lontano dal fiume al momento, e i frutti degli alberi di quella particolare parte del giardino non andavano mangiati.
Aveva tutto l’Eden per sè, eppure amava andare sempre lì, in quel luogo, tra tutti.
Le piacevano quegli alberi. Le piaceva la pace dell’assenza di rumore, forse persino del vento stesso.
Ispirò l’odore fresco che impregnava l’aria e girovagò senza stancarsi.
La liscissima pelle ambrata era beatamente illuminata dal sole del mattino, rinvigorendola.
All’improvviso, mentre passeggiava, trovò un giovane rannicchiato a terra e poggiato sul tronco di un albero, sofferente e tremante.
Aveva addosso una sorta di sacca trasandata e logora a coprirgli il corpo, il suo viso era coperto da una chioma di folti e scarmigliati capelli neri come il carbone, la sua pelle chiara come la luna, nonostante la sporcizia nera che la macchiava.
Il giovane tossicchiò, continuando a tremare e a stringersi su se stesso, senza accorgersi di lei.
- Ragazzo – richiamò la sua attenzione avvicinandosi. Non venendo ancora notata, ritentò. – Ragazzo!
A ciò, egli si voltò lentamente verso di lei, con una certa diffidenza, una diffidenza che la ragazza non aveva mai scorto nel volto del suo amato, l’unico uomo che avesse mai visto e conosciuto. Fino a quel momento.
Lo osservò con curiosità, accovacciandosi di fianco a lui. Osservò i suoi occhi, luminosi e limpidi come due fiori coperti di brina ghiacciata. Occhi spaesati e ancora diffidenti.
- Che cos’hai? – domandò lei ingenuamente. – Ti è successo qualcosa di brutto?
- No ... – rispose lui tossendo ancora. – È solo che ho camminato per molto, molto tempo. Non ce la faccio più...
- Posso darti un po’ d’acqua, se vuoi. Così forse non tossirai più – gli offrì lei, tirando fuori dalla sua sacca la sua noce di cocco colma di acqua e porgendola allo sconosciuto.
Egli annuì e bevve l’acqua con foga, come un assetato. – Grazie – le disse porgendole nuovamente la noce, scoprendosi di poco il volto, per guardarsi meglio.
- Qual è il tuo nome? – le domandò.
- Eva – rispose lei. – Non ho mai visto prima un altro uomo oltre il mio compagno. Credevo non esistesse nessun altro qui – ammise, rivelando la sua curiosità nei suoi confronti. – Dov’eri fin’ora?
Lui la guardò sorpreso questa volta. – Cosa intendi quando dici che credevi ci foste solo voi qui?
- Quello che ho detto – rispose semplicemente. – Che non ho mai visto nessuno da quando sono qui, nell’Eden.
- È il nome di questo posto? – domandò lui guardandosi intorno meravigliato.
Eva si mostrò sempre più confusa. – Non conoscevi il nome di questo luogo...? Non ti è stato detto?
- Non sono mai stato qui. È la prima volta che vengo.
- Se non eri qui, allora dov’eri?
Lui la guardò, sempre più sorpreso dalle risposte di lei. – In un altro luogo, in un’altra città. Nella mia città natale.
- Non capisco ...
A ciò, lui sembrò realizzare e le rivolse uno sguardo diverso questa volta. Di compassione mista a tristezza. - Credevi esistesse solo questo posto al mondo? Non sapevi ci fossero altri luoghi all’infuori di qui? Lui non te l’ha detto..
- Perchè... perchè non me l’ha detto? Perchè ci ha tenuta nascosta una cosa simile?
- Il Signore non ti ha detto neanche che esistono altre persone al mondo, oltre te e il tuo compagno?
Ella annuì, sempre più incuriosita e immensamente sorpresa. – Quante ce ne sono?
- Non si possono contare.
- Perchè no?
- Ne sono troppe.
- E quante altre cose ci sono al mondo che io non so?
- Molte – le rispose lui di nuovo, con un pizzico di dolcezza nella voce stavolta.
Lo sconosciuto si alzò in piedi, apparentemente senza fatica, rivelandosi nella sua altezza, superiore a quella di Eva e del suo compagno Adamo, la quale gli permetteva di arrivare a toccare con la testa i primi rami dell’albero sul quale si erano poggiati.
Eva si rese conto solo in quel momento che oramai i capelli del ragazzo non coprivano più il suo viso, la sua espressione ora era più rilassata, più sicura.
- Perchè hai quegli stracci a coprirti il corpo? – gli domandò guardando i suoi vestiti.
- Perchè le altre persone usano coprirsi il corpo con degli abiti, composti da porzioni di stoffa legati insieme.
- Perchè lo fanno?
- Per coprirsi dalle intemperie, dai pericoli, dal sole, e per pudore.
- Cos’è? Il pudore, che cos’è?
A ciò, egli sorrise ancora, teneramente. – Oh Eva, ci sono terre sconfinate oltre l’Eden. Luoghi talmente vari e vasti da non poterli neanche lontanamente descrivere. E tu, tu non sapevi nulla.
La ragazza lo fissò per attimi che parvero anni. – Puoi insegnarmi tutto tu.
- Perchè vieni sempre in questo posto, Eva? – le domandò improvvisamente lui.
 - Non lo so. Mi piace qui.
- Con tutto l’immenso giardino a disposizione, perchè vieni sempre nell’unica parte dove non puoi gustarne i frutti?
Eva vi pensò su, non riuscendo a trovare una risposta.
- Io sto rispondendo alle tue domande. Ma tu non sai rispondere alle mie – le disse voltandosi e facendo per andarsene.
- No, aspetta! – esclamò lei bloccandolo con la sua voce, allarmata. – Ti prego – insistette, vedendolo voltarsi di nuovo e tornare da lei.
- Allora perchè?
- Mi piace il silenzio che c’è qui.
Il giovane non sembrò contento della risposta ricevuta, ma restò, per il momento.
- Cos’altro c’è là fuori?
- Un’infinità di cose.
- Quali?
- Non posso rispondere a tutte le domande che hai, Eva.
- E chi può farlo?
- Il tuo Signore.
- Ma lui non mi ha detto tutte queste cose.
- Perchè non ha voluto dirtele? – le domandò lui. – Perchè a me sì e a te no?
- Non lo so.
A ciò, il ragazzo voltò i suoi occhi lucenti e chiarissimi verso l’alto, verso i frutti dell’albero sotto cui sostavano. – Questa parte del giardino è piena di alberi il cui frutto è proibito. Gli alberi del bene e del male. Ti sei mai chiesta il perchè? – domandò tristemente, carezzando il tronco con la punta delle dita, lentamente e dolcemente.
- Sì, l’ho fatto – rispose sinceramente lei. – Ma non ho mai trovato la risposta.
- Ci sono troppe cose che non sai, Eva.
Tu sei un’anima curiosa e spavalda.
Sarebbe stato impossibile nascondertele tutte, persino per il tuo Signore che tutto può e tutto vuole – le disse, mentre un piccolo serpente a sonagli sbucò da uno dei rami e strisciò con naturalezza dietro il collo e i capelli del ragazzo, avvolgendolo e sbucando dalla sua spalla.
Eva si spaventò, facendo un passo indietro preoccupata. – Sta’ attento!
- Non angustiarti. È innocuo – la rassicurò poggiando un dito sotto al muso sonante del rettile placido.
A ciò, la ragazza si riavvicinò osservando e ammirandolo l’animale.
- Voglio scoprire tutto quello che non so. Tutto quanto – disse lei decisa.
- Anche se il tuo Signore non vuole che tu lo scopra?
Lei annuì.
- Anche se dovessi venire punita da lui?
- Perchè io dovrei venire punita e tu no?
- Oh – rispose lui rivolgendole un sorriso strano, che ella non riuscì a comprendere. – Sono stato punito, io.
- Cosa posso fare?
- Il frutto degli alberi proibiti ti darà tutte le risposte che cerchi. Ti basterà mangiarne uno e saprai tutto ciò che vuoi sapere, scoprirai tutto ciò che vuoi scoprire. Vedrai e sentirai tutto quello che ho visto e sentito io – la sussurrò avvicinandosi, vedendole brillare gli occhi color mandorla matura.
Il ragazzo allungò una mano, prese un frutto e lo staccò dal ramo, rigirandoselo tra le mani.
- Ti rivedrò? – domandò lei, riscuotendo la sua attenzione di nuovo.
- Vuoi rivedermi?
- Sì.
- Non avrai più bisogno di me se farai quello che ti ho suggerito.
Eva lo osservò e notò solo in quel momento che non fosse più minimamente malandato. Sembrava un altro ora, e il cambiamento era stato tanto graduale da sfuggirle totalmente. Ora era alto, imponente, stabile sulle sue gambe forti, in posizione eretta e sicura, con il volto totalmente scoperto e la pelle miracolosamente immacolata e ripulita dalla sporco che vi era prima.
Eva prese il frutto dalle mani di lui e lo osservò. – Cosa vuoi in cambio?
- Cosa?
- Cosa vuoi in cambio? – ridomandò la ragazza. – Tu mi stai donando tutto questo, mi stai donando la conoscenza. Io, invece, ti ho solo dato un po’ d’acqua. Ci sarà qualcosa che posso donarti, per ringraziarti per ciò che stai facendo per me.
- Non ti sto donando la conoscenza, Eva. Ti sto donando il libero arbitrio. La libertà di agire che acquisirai nel momento in cui mangerai quel frutto, sarà il dono più grande che potrai farmi.
Mi basta questo – le disse avvicinandosi e posandole una mano sulla guancia, con delicatezza. – Non è giusto vivere senza avere nulla di quello che potresti avere. Non conosci ancora l’amore e la bellezza. Non conosci la soddisfazione, l’eccitazione, l’euforia, la cultura, la grandezza. Non conosci l’odio, l’amarezza, la tristezza e il dolore.
- Voglio conoscere. Voglio conoscere tutto, voglio tutto questo – gli disse guardandolo con decisione, mentre egli le sorrideva allontanando la mano dalla sua guancia e allontanandosi a sua volta, il serpente a sonagli ancora accoccolato alla sua spalla seminuda.
A ciò, Eva morse il frutto e lo gustò come non aveva mai gustato nessun altro frutto al mondo.
Quando terminò di masticare, gli porse un’ultima domanda. – Chi sei tu?
Lo sconosciuto si tirò su il cappuccio e le rivolse un’ultimo sorriso.
– Solo un angelo caduto, che ha smarrito la via. Un viandante. Il figlio di un padre rinnegato.
 
Padre Craig entrò furtivamente dentro la porta dello studio di Rolland, un luogo solitamente frequentato solo da Blake. Rolland ci entrava raramente, motivo per cui, nel periodo in cui Blake era stato via non vi era entrato praticamente nessuno.
Era l’alba, ed era probabile che, ben presto, si sarebbero svegliati tutti.
Non seppe perchè si diresse in quella piccola stanzetta piena di pietre preziose e metalli rari, con la speranza e la quasi certezza di trovarlo già lì, mentre tutti dormivano.
Come da previsione, lo vide lì, in piedi, che gli dava le spalle, intento a trafficare con qualcosa che il giovane prete non poteva vedere da quella prospettiva.
Restò in silenzio e immobile ad osservare la sua schiena fasciata dai vestiti, lunga e ben proporzionata, scoprendo che guardarlo gli piaceva più di quanto credesse.
Gli piaceva guardarlo almeno quanto gli piaceva guardare Heloisa, se non di più.
Sarebbe rimasto ad osservarlo per ore senza mai annoiarsi, trovandolo, al contrario, sempre più interessante e piacevole, di attimo in attimo.
Quella consapevolezza lo colpì come acqua fredda sul viso, riscuotendolo.
Blake era tornato solo il giorno prima, e padre Craig non si era mai reso conto di tutto ciò prima di quel momento.
Ad un tratto, il giovane si voltò verso destra per cercare qualcosa, e lo scorse con la coda dell’occhio a guardarlo.
Non si spaventò, era quanto mai impossibile spaventarlo con così poco. Anzi, accennò un lieve sorriso sardonico. – Avete ripreso questa vecchia abitudine di fissare le persone senza dire una parola, ora che sono tornato, padre.
- Oh, mi spiace. Buongiorno, comunque – disse entrando in stanza, invadendo i suoi spazi, senza neanche essere invitato. Qualche settimana prima non avrebbe fatto una cosa simile, stava diventando sempre più irrispettoso, pensò pentito.
- Buongiorno a voi. Che ci fate sveglio a quest’ora?
- Avevo voglia di fare colazione.
- E l’avete fatta?
- No.
A quella risposta, Blake lo guardò confuso.
- E voi l’avete fatta? – riprese padre Craig non lasciandogli modo di dire altro, ponendoglisi di fronte, dall’altra parte del tavolo.
- Non avevo fame.
- State cercando di evitare vostra madre, per caso?
- Da quando mi conoscete così bene, padre?
Il giovane prete sorrise in risposta, soddisfatto, mentre Blake si legò i capelli con la prima spilla che trovò lì a portata di mano, di rame. Con quel gesto, il ragazzo mise involontariamente in evidenza il suo collo fasciato, incurante di ciò. Padre Craig, vedendolo, provò un brivido di dolore. La sua curiosità emerse ancora di più, una delle ragioni che, molto probabilmente, l’aveva spinto a cercarlo subito quella mattina. – Arriverà il momento, prima o poi, in cui dovrete affrontarla e raccontarle tutto ... – disse lasciando la frase in sospeso, con uno strano timore di continuare.
Intanto, Blake continuò a maneggiare quel qualcosa che era contenuto in una teca di vetro. Padre Craig si accorse essere di nuovo la mandragora, che Blake stava studiando, ma non vi concentrò maggiormente la sua attenzione, tornando piuttosto su di lui. - ... arriverà il momento in cui dovrete raccontare anche a me tutto ciò che vi è accaduto nel mondo là fuori.
A quelle parole, Blake lasciò momentaneamente perdere la madragora e alzò lo sguardo verso di lui, guardandolo fisso negli occhi.
- Non siete mai stato fuori da Bliaint. Allora? Com’era il mondo là fuori? Terribile come ve lo hanno sempre descritto?
Il ragazzo impietrì, e il giovane prete se ne accorse visibilmente, capendo che avesse vissuto un trauma che l’aveva segnato indelebilmente e lo aveva cambiato. Riposò lo sguardo sulla fasciatura. – Avete tentato di disinfettarla più approfonditamente? Magari potrei...
- No – rispose il ragazzo categorico. – Non c’è più nulla da fare. Se volete davvero sapere tutto ciò che mi è successo, padre, mettetevi comodo. Sarà una storia lunga.
 
Trascorsa più di un’ora in cui Blake narrò ininterrottamente tutte le fasi del suo lungo e tortuoso viaggio ad un giovane prete sconvolto e presissimo dalla storia, non omettendo nulla, pose le braccia conserte e osservò lo sguardo a dir poco sconcertato di padre Craig.
- Tutto qui – terminò.
- Tutto qui??? State scherzando??
- Abbassate la voce o sveglierete gli altri, padre.
- E voi non vorreste raccontare nulla di tutto questo nè ai vostri genitori, nè a Ioan?? Loro meritano di sapere..!
- Hanno già sofferto abbastanza per tutto ciò che è accaduto al villaggio – rispose serafico. – Perchè dovrei riversare su di loro anche il dolore che ho vissuto io?
- Ma Blake!
- Sì, è il mio nome, padre, evitate di urlarlo.
- Questi sono eventi che devono necessariamente essere detti! I vostri familiari vorrebbero saperlo! Insomma, tutto ciò che vi è accaduto al terribile villaggio dei cannibali, dove viveva la famiglia di Selma; il modo in cui Philippus sia giunto qui, le sue origini, la terribile esplosione della polvere nera che vi ha coinvolti tutti e tre e chi vi stava per massacrare!
- Il suo nome ora è Quaglia. Oramai sembra non esserci più alcuna traccia di Philippus in lui – lo interruppe Blake, riprendendo a fare ciò che stava facendo prima di iniziare a narrare.
- Credete che non riacquisirà mai i suoi ricordi? Insomma.. anche se si dimentica.. si possono cominciare a ricordare dei dettagli di memorie rimosse, in modi diversi .. – disse il giovane prete, rendendosi conto di aver fatto un riferimento ben conciso a quella notte maledetta, un riferimento che Blake sembrò non voler cogliere, in quanto non gli interessava neanche, in apparenza. Era cosciente che lui e Judith avrebbero dovuto parlarne con Blake prima o poi, per saperne di più, soprattutto dopo le ultime inquietanti scoperte fatte da Judith a riguardo, ma non era ancora arrivato il momento.
Vi era troppa carne al fuoco ora, tutta sul punto di carbonizzarsi.
- Secondo voi per quale altro motivo lo starei tenendo qui con me? Per lo più con gli appunti di suo nonno ben conservati nella mia stanza?
- Perchè vi diverte.
A quelle parole, Blake aprì la bocca per replicare ma non disse nulla, venendo colto in fallo, sorridendo colpevole. – Ve lo ridomando, padre: da quando avete iniziato a conoscermi così bene?
Ma padre Craig non si arrese, e ritornò al discorso principale, quello che gli interessava: - Ma soprattutto, che mi dite dell’orrida vicenda che avete vissuto sul vostro corpo nel primo villaggio in cui siete capitati, con il Giudice che vi ha accusato ingiustamente, torturato, quasi giustiziato, imprigionato, usato per i suoi luridi scopi e vi ha strappato via la vostra voce! Tutto questo è...
A tali parole, Blake si paralizzò completamente.
Una serie di immagini veloci e di ricordi intensi di sensazioni dolorose lo attraversarono, come un sogno ad occhi aperti sin troppo reale:
Coloro che praticano la magia oscura sono un pericolo ovunque vadano...
Non metterete piede fuori da questa casa e da questa stanza, non verrete baciato dalla luce del sole e dell’aria esterna, fin quando non avrete trasmutato quindici chili di piombo che mi sono fatto trasportare nella mia cantina, in quindici chili d’oro. Solo allora, avrete la vostra tanto bramata e attesa libertà..
Questo giovane, tramite le sue funeste e oscure pratiche, serve il suo Signore nella maniera più torbida e maligna che si possa immaginare!
A morte l’eretico, a morte lo stregone!
Non ti libererai di me, figlio del Demonio.
Non ti libererai mai di me …
Sei fatto della stessa sostanza di cui è fatto il metallo …
Fai attenzione a diventare oro e non piombo, quando arriverà il momento …
- Blake! Blake!! Blake?! – quando riprese coscienza della stanza in cui si trovava, era ancora in piedi, nella stessa posizione di prima.
Padre Craig aveva artigliato le sue braccia con le mani e lo stringeva, scuotendolo con impeto.
- Blake..?? Ci siete?? Siete come andato via di qui .. per un attimo.. mi avete fatto allarmare.
Blake lo fissò con sguardo perso. – Non è niente. Non è stato niente. Era solo un leggero mal di testa.
Padre Craig continuò a studiarlo, poco convinto.
- Almeno a Judith dovrete dirlo, però, lo sapete? Lei vuole saperlo, lo pretende, e vi anticipo che non vi darà tregua fin quando non glielo direte.
- A Judith racconterò solo il minimo indispensabile, padre. Mi fido molto di lei, ma non vi è alcun bisogno che sappia tutto, in quanto è già afflitta dai suoi insidiosi problemi.
- Lei era in pensiero per voi mentre eravate via, sapete?
- Anche io ero in pensiero – rispose prontamente il ragazzo.
- E lei ... lei non è l’unica ad essere stata in pensiero per voi – ammise il giovane prete lasciando l’ovvia fine della frase in sospeso, sentendosi inspiegabilmente in errore per aver rivelato una cosa simile. In quel momento, si rese anche conto di avere ancora le mani strette alle braccia di Blake.
Fu il ragazzo il primo a sfilarsi giocosamente da quella presa. – Oh, padre.. non ditemi che vi sono mancato - disse sorridendo e stuzzicandolo.
- Beh ... credo sia anche normale!– rispose immediatamente sulla difensiva padre Craig, senza alcun motivo logico.
- Non vi alterate, padre, suvvia! Anche voi mi siete mancato. Oramai siamo amici, è naturale.
Sentirlo dire da lui rassicurò il giovane prete di tutti i dubbi che aveva.
- Perchè non mi avete portato con voi? – gli domandò poi improvvisamente, sorprendendolo.
- Avreste voluto venire via con me? Perchè?
- Avrei potuto evitare che accadessero alcune delle tragedie che avete vissuto.
- E avreste lasciato Judith da sola in balìa di tutte le stragi avvenute al villaggio nelle ultime settimane?
- No..
- Anche lei ha avuto bisogno di voi.
- Lo so, e sono quantomai felice di averla sostenuta nell’affrontare tutto ciò.. però anche a voi serviva un sostegno.
- Lo è stata Selma – lo interruppe Blake, ristabilendo un necessario spazio vitale, tornando a trafficare con la teca contenente la mandragora.
- Già, Selma. Sembrate esservi legato molto a lei – disse il giovane prete, caricando involontariamente quella frase di un significato più profondo ed evidente. – Lei, tuttavia, non è un’abitante di Blaint e ha più del doppio della vostra età.
- Difatti, padre, preferirei che evitaste di fare supposizioni che mi fanno accaponare la pelle, grazie – gli rispose il ragazzo. – Però siamo diventati amici. Ho compreso di averla giudicata male inizialmente - aggiunse facendo cadere un liquido dentro la teca con un contagocce.
- Avete giudicato male anche me inizialmente. È un vostro difetto abituale.
Di nuovo, lo sguardo di Blake si puntò su di lui. – State cercando di provocare in me una sorta di senso di colpa con le vostre tecniche da uomo di dio, e di spingermi a confessarmi?
- Niente affatto!
- Meglio, perchè non mi confesso da anni, e non ci sareste riuscito. E poi, non vi ho giudicato male più di quanto mi abbiate giudicato male voi, all’inizio – gli rispose per le rime, facendo valere, ancora una volta, la sua lingua tagliente.
Padre Craig sospirò semiesasperato. – È bello riavervi a casa, Blake. E vi chiedo perdono.
- Per cosa?
- Quando ci siamo salutati, alla Taverna.. prima che partiste, vi ho promesso che, al vostro ritorno, avreste ritrovato tutto esattamente come lo avete lasciato. Vi ho promesso che mi sarei occupato di Ioan e della vostra famiglia. Invece, una volta tornato, avete trovato vostra madre in quelle condizioni...
- Padre, smettetela di incolparvi e flagellarvi per eventi e circostanze che non dipendono da voi. Lo fate sempre e dovete smetterla.
Io neanche ricordavo che mi aveste detto tali parole.
Inoltre, di Ioan vi siete preso cura. Anche troppo – gli disse facendo emergere il suo sollievo nella voce.
- Lo sapete che, se Ioan sta improvvisamente meglio ed è diventato sano come un pesce, è solo merito vostro e del vostro ciondolo. C’entra la madragora, non è vero? – gli domandò posando finalmente lo sguardo sulla teca di vetro sul tavolo, accorgendosi finalmente che vi fosse qualcosa di diverso in quella mandragora, rispetto a quella che ricordava. – Che cos’ha di differente..? Sembra più... viva.
- Non ha nulla di differente. Semplicemente, questa è un’altra mandragora.
- Cosa?! Come avete fatto a...?? Chi avete sacrificato per raccogliervela?? – gridò quasi padre Craig, venendo immediatamente colpito al petto da una pepita d’argento lanciata da Blake.
- Volete abbassare la voce?
Non ho fatto uccidere nessuno. Per lo meno non io. L’ho fatta raccogliere ad uno sconosciuto scelto dal Giudice, mentendogli, dicendo che mi sarebbe servita per la trasmutazione.
Ora che ho una mandragora viva tra le mani, potrò finalmente curare Ioan in maniera definitiva – disse soddisfatto il ragazzo, puntandosi le mani sui fianchi e osservando la radice nella teca.
- Fareste meglio ad essere certo di ciò che fate. C’è la vita di vostro fratello in gioco. E già sta ricevendo attenzioni sgradite da diversi abitanti del villaggio che si chiedono in che modo il “miracoloso” ciondolo fabbricato da suo fratello gli abbia ridato piena salute, dal momento in cui è risaputo che Ioan sia malato gravemente dalla nascita.
- Se riceverà altre attenzioni sgradite ci penserò io. Le controindicazioni della mandragora morta, che ho usato per il ciondolo, temo non siano affatto da sottovalutare. C’è la probabilità che la mandragora che indossa gli stia risucchiando quella poca salute che gli è rimasta e la stia trattenendo per sè, donandogli tutta la vita e la buona salute di cui lui ha bisogno solo quando la indossa. Per tale motivo non deve assolutamente togliersela al momento.
- Non se l’è mai tolta, neanche una volta, da quando ve ne siete andato.
- Ero certo che non lo avrebbe fatto.
- Allora, se sospettavate già delle possibili conseguenze, come mai avete comunque deciso di fabbricare quel ciondolo e di donarglielo?
- Perchè prima di partire credevo che questa fosse l’unica opzione praticabile, al momento. Avete visto anche voi che Ioan stava peggiorando di giorno in giorno. Non avrei mai permesso che morisse, e mai lo permetterò. Perciò ho scelto per lui il male minore, donandogli buona salute, ma con un prezzo da pagare. Non credevo che sarei mai riuscito a trovare un’altra mandragora. Come vi ho già detto, è una pianta molto rara. Invece, è successo, fortunatamente. Ed essendo viva, sarà diverso. Perciò ora posso mettermi all’opera.
- E per quanto riguarda la questione della polvere nera e di Quaglia? E riguardo la ricerca che state portando avanti con Judith?
- La questione della polvere nera è strettamente collegata alla ricerca che sto portando avanti con Judith, padre. Penserò anche a quello.
Ad ogni modo, oggi ho un favore da chiedervi che voi, in quanto uomo di gran cuore e persona timorata di Dio, farete senza lamentele.
- Di cosa si tratta..? – gli domandò padre Craig, già spaventato da quella premessa.
- Poco fa, all’alba, mi è stata recapitata una lettera inviatami da Judith. Vi era scritto che vuole vedermi con urgenza, da solo, oggi pomeriggio, nella biblioteca. È sicuramente accaduto qualcosa.
- Dunque? Cosa devo fare?
- Una cosa da nulla, padre. Dovrete solo badare a Quaglia al mio posto per tutto il pomeriggio.
 
Quaglia si alzò dalla poltrona nella quale aveva passato la sua prima notte a Bliaint, stiracchiandosi beatamente e scrocchiandosi qualche osso. Si tolse la coperta pesante che Rolland, il capo famiglia, gli aveva lasciato, e si alzò in piedi, intenzionato a controllare se Blake e gli altri fossero svegli, per fare colazione.
Percepiva un languore allo stomaco persistente, che necessitava di venire soddisfatto.
Camminò piano per la casa, per non svegliare nessuno, prendendo a guardarsi intorno.
Notò che fosse un luogo molto pulito, un dettaglio di cui si era accorto anche la sera prima, appena arrivato.
Si poteva anche dire che fosse accogliente, con i rimasugli del camino acceso che aveva scaldato l’atrio durante la fredda nottata, il piano della cucina molto ampio e pieno di cibo svariato, tra frutta e verdura, e la presenza di molte finestre che facevano entrare la fievole luce del mattino invernale attraverso gli spiragli.
Si diresse verso il corridoio che portava alle camere, intento ad esplorare ancora un po’ la casa in solitudine, quando si scontrò con il corpo soffice e poco coperto di quella che aveva scoperto essere la madre di Blake, nonchè la consorte del capo famiglia.
- Perdonatemi! – si scusò immediatamente imbarazzato sino all’inverosimile, mentre la reggeva per le spalle per non farla precipitare a terra, a causa dello scontro appena avvenuto.
- No, sono io che sono uscita dalla mia camera all’improvviso, mi spiace ... non credevo che qualcun altro fosse sveglio – disse lei alzando il volto su di lui, e sorridendogli stanca.
Nonostante lo stato non proprio ottimale di Alma Heloisa e la sua trasandatezza dell’ultimo periodo, l’uomo sembrò non notare nemmeno questi dettagli, e si perse a guardarla involontariamente, pensando che fosse a dir poco stupenda. Il suo corpo ancora giovane e formoso, coperto dalla sua abituale vestaglia leggera da notte, esaltava le più proibite fantasie di Quaglia, da poco riscoperte.
Anche Heloisa si fermò a guardarlo per un po’, azzardando poi una frase pericolosa, che in uno stato mentale normale e abituale, non avrebbe mai e poi mai pronunciato. – Sapete... per essere uno straniero, vi trovo un uomo affascinante. È strano – gli disse facendolo imporporare immediatamente.
- Ne sono a dir poco lusingato, mia signora.
- Quanta formalità... siete mio ospite, potete chiamarmi Heloisa.
- Dove ... dov’è vostro marito?
- Si è alzato molto presto per andare alla galleria. Quando mi sveglio la mattina, sono solita trovare il suo lato del letto già freddo. Non riesco a ricevere da lui neanche metà del calore che vorrei ... – esalò, con una voce inaspettatamente sensuale che sconvolse a dir poco il povero Quaglia.
- Vostro marito è un uomo a dir poco fortunato.
- Provate a dirglielo voi, magari vi crederà – gli rispose con amarezza. - Avete visto Blake? – domandò poi, facendo ritornare a Quaglia un briciolo di razionalità.
- No, non l’ho visto. Lo stavo cercando anche io.
- Ditemi, Quaglia ... da dove venite?
Fortunatamente, o sfortunatamente, i due vennero interrotti dal piccolo Ioan, che comparve in corridoio, appena sveglio. – Mamma? È pronta la colazione?
Heloisa distolse lo sguardo dal suo nuovo ospite e lo concentrò subito sul suo secondogenito, come colpevole. - No, tesoro, ora la prepariamo. Vieni con me.
 
Hinedia entrò dentro la cattedrale del Creatore, come era solita fare, ma, questa volta, non per assistere i malati dell’epidemia.
Finalmente, in una sola giornata, i monaci e alcuni popolani erano riusciti a ripulire le cattedrali di tutto il tanfo e la sporcizia che si erano annidati lì dentro, essendo divenuti i principali rifugi durante l’epidemia.
Era svanita la puzza, così come non vi era neanche più tracce di sangue o di altri liquidi corporei sui pavimenti. Era quasi tutto ripulito perfettamente, e senza alcun pericolo di contagio.
Nessuna ombra delle maschere anticontagio, alle quali, forse, si era abituata sin troppo.
Grazie a quelle, sembrava quasi non esserci più distinzione tra servi del Creatore e del Diavolo, con il volto nascosto dalle maschere e il corpo dai vestiti pesanti.
La ragazza si abbassò il copricapo che le proteggeva la testa dal freddo, si inginocchiò, si fece il segno della croce e si diresse subito verso il confessionale.
Dopo qualche minuto che si era seduta nella stanzetta minuscola, in attesa, una monaca entrò, e si sedette nella sua postazione di fronte a lei.
- Che il nostro Signore e Creatore ci assista in questa confessione.
- Che il nostro Signore e Creatore ci assista in questa confessione – ripeté Hinedia.
- Perchè siete qui, figliola?
- Per confessare i miei peccati.
- Quali peccati volete confessarmi dinnanzi al Signore?
- Ho dubitato del nostro Signore onnipotente nelle ultime settimane.
A causa dell’epidemia e della rivolta, dopo aver visto tanti corpi orrendamente stroncati e ammassati tra loro... ho creduto che i signori ci avessero abbandonati. Entrambi.
- Non dobbiamo nulla all’altro signore, figliola.
L’unico verso cui potete nutrire dei sensi di colpa è il nostro Creatore.
Quello che fa il Diavolo non ci concerne.
- Lo so, bene, madre. Tuttavia, entrambi i signori hanno potere nelle nostre sorti. Entrambi dominano, proteggono e salvaguardano questo villaggio in egual modo. Dunque, ciò che ho pensato ... è che, anche se uno dei due non è adirato, ma l’altro sì, dovremmo preoccuparcene, in quanto potrebbero ripetersi tragedie come quelle accadute negli ultimi giorni.
- Ciò che concerne il Diavolo non è di nostra competenza e interesse – ripetè duramente la monaca.
- Avete ragione. Mi dispiace.
- Per quanto riguarda la vostra sfiducia nei confronti del nostro Creatore, è normale nutrire dei dubbi quando si è annebbiati dal dolore e dalla rabbia, e non si possiede la razionalità e il giudizio di comprendere che tutto ciò che i signori fanno, è guidato da delle motivazioni incontestabili.
- Ma io possedevo la razionalità quando l’ho pensa-
- Vi basterà venire a pregare qui sette volte consecutive, per sette mattine consecutive, prima di ogni funzione. Non appena riprenderanno le funzioni. A quel punto, il vostro peccato potrà considerarsi perdonato – disse la monaca facendosi il segno della croce nuovamente e uscendo dal confessionale.
- Grazie .. – sussurrò Hinedia, nella solitudine della stanzetta.
Uscì di lì e uscì anche dalla cattedrale, memore dell’appuntamento che le era stato strappato per quella mattina.
Prima di dirigersi alla Taverna, ossia il luogo dell’incontro, la ragazza passeggiò tra le bancarelle della piazza principale, sempre colma di vita e di persone di entrambi i culti, nonostante la grave decimazione avvenuta a causa dell’epidemia.
Quell’energia invernale e pullulante le faceva sperare ancora in un futuro, a Bliaint.
Passeggiò con tranquillità tra le bancarelle, fermandosi dinnanzi ad un bancone più isolato rispetto agli altri, che non destava l’interesse di nessuno. Un bancone che vendeva libri.
Dietro quel bancone vi era un fanciullino seduto, un servo del Creatore, con sguardo distratto.
Hinedia si avvicinò e cominciò ad osservare timidamente alcune copertine di quei libri sottili, per lo più sgualciti e malandati. Si domandò dove il ragazzino li avesse trovati, mentre sfiorava curiosamente quelle copertine di carta fredde e vissute, saggiandone la consistenza.
Una in particolare destò la sua attenzione: le piacevano i colori accesi con cui erano tracciate le lettere, e la calligrafia seducente di queste ultime. L’immagine sotto il titolo era eccessivamente sbiadita per permetterle di osservarla bene, ma le parve di scorgervi il disegno di un cantore di storie.
La ragazza alzò lo sguardo sul ragazzino apparentemente annoiato dietro il bancone. – Come li avete avuti? - gli chiese attirando la sua attenzione, indicando i libri esposti.
A ciò, il fanciullo sorrise, con i suoi denti storti in bella vista. – Mio nonno aveva una bottega fuori da Bliaint, in cui li vendeva, un tempo. Ce li siamo ritrovati in casa senza sapere cosa farcene.
- Come mai vendete dei libri qui nella piazza principale, che pullula di popolani? Solo i monaci riuscirebbero a leggerli e ne potrebbero essere interessati.
Il ragazzino fece spallucce in risposta.
- Voi sembrate interessata anche se non sapete leggere – le disse poco dopo, vedendola prendere tra le mani il libro che stava osservando da un po’.
- È talmente vecchio che le pagine stanno per staccarsi – commentò la ragazza sfogliandolo. – Lo compro – disse poco dopo, in un istinto di incomprensibile impulsività.
Il ragazzino sorrise in risposta, di nuovo.
- Quanto vi devo?
- Una moneta di rame.
- Così poco?
- L’avete detto anche voi. Sono talmente vecchi che stanno per disintegrarsi – le disse prendendo la moneta dalle mani della ragazza e facendole un cenno con la mano per salutarla.
Di contro, Hinedia riprese a camminare e nascose immediatamente il libro dentro la sua saccoccia, guardandosi intorno circospetta, quasi come se avesse commesso un peccato indicibile.
Giunta alla Taverna, entrò e cercò con lo sguardo il ragazzo che l’aveva invitata e che la stava oramai corteggiando da qualche giorno.
Subito, intravide la sua mano che sventolava per indicarle dove fosse seduto, e lo raggiunse, sedendosi sul tavolo accanto a lui.
- Dunque, eccovi qui – esordì Van Naren sorridendo e strofinandosi le mani nervosamente.
Hinedia gli accennò un sorriso gentile in risposta. – Come mai avete voluto incontrarmi proprio qui alla Taverna? – domandò poi, osservando le numerose e bellissime locandiere di cui pullulava quel luogo, che le passavano vicine, intente a portare da bere ai vari clienti che non si stancavano mai di ammirarle.
- Vi mette a disagio questo posto? Se vi mette a disagio possiamo andare altrove ...
- No, è che .. mi chiedevo solamente il perchè di questa scelta – spiegò la ragazza, scorgendo anche diversi servitori del Diavolo appena entrati nella locanda.
- Beh, è un luogo di svago, in cui possiamo parlare a inoltranza, e in cui possiamo anche bere qualcosa se ci va - disse Naren con naturalezza.
Hinedia annuì, accennandogli un altro sorriso cordiale.
- Allora... ditemi qualcosa di voi, Hinedia. Sapete che mi avete colpita sin da subito, questo ve l’ho già detto ..
- Cosa vi ha colpito di me, nello specifico? – domandò lei curiosamente.
- Beh, la vostra voce delicata, di primo impatto.. poi anche la vostra bontà, gentilezza e posatezza.
- Capisco. Voi.. avete avuto altre donne, prima d’ora?
Naren deglutì a vuoto. – No, in realtà.
- Nessuna?
- No, nessuna.
- Che strano, pensavo di sì.
- Per quale motivo lo pensavate? Insomma, non crederete mica alle voci che circolano tra le malelingue del villaggio ...
- Le stesse voci che stavano per far condannare a morte ingiustamente la vostra amica Judith, mentre voi non c’eravate? – gli disse con un tono più tagliente di quanto volesse, non rendendosene conto.
- Ma alla fine lei sta bene, non le è accaduto nulla.
- Grazie a Blake, il ragazzo della polvere nera. Lui ha affermato che il bambino è suo e la folla si è acquietata.
A tali parole, Naren si irrigidì visibilmente.
- Cosa vi prende? Vi sentite male? – gli domandò lei.
- No, no, è che qui fa un caldo soffocante.
- Se volete possiamo uscire e continuare a conversare altrove – propose la ragazza questa volta.
- No, sto bene.
- Ad ogni modo, ho avuto occasione di parlare con Judith e lei mi ha detto che voi due siete buoni amici.
- Posso confermarlo, siamo ottimi amici e nulla di più.
- Come avete fatto ad instaurare un’amicizia con una serva del Diavolo? – chiese sinceramente curiosa.
- Cosa intendete?
- Io non sono mai riuscita ad instaurare un legame con un servo o una serva del Diavolo. È molto raro.
- Beh, è stata una casualità.. abbiamo scoperto di andare molto d’accordo tra noi. E voi, invece? Non parliamo solo di me: avete frequentato altri uomini prima di me?
- In realtà sì – rispose ella. – Ma non è stata una bella esperienza. Egli era mio cugino. I miei genitori volevano combinare un matrimonio tra noi due per sistemarmi subito, appena compiuti i quattoridici anni.
- Che cos’è accaduto..? Come mai non vi siete più sposati?
- Lui ... non era una bella persona. Affatto. Oserei dire che fosse un uomo disgustoso. Non mi va di parlarne, perdonatemi.
- Ma certo, perdonatemi voi.
- Dunque non avete mai desiderato conoscere una donna prima di me?
- Beh, è proprio questo che mi ha spinto ad avvicinarmi a voi: oramai ho diciotto anni, ho quasi passato l’età da matrimonio e mio padre ci terrebbe a vedermi sistemato con una buona moglie.
Hinedia annuì sorridendo ancora con naturalezza.
- Abbiamo la stessa età, a quanto pare – gli rispose, in assenza di altri argomenti di cui parlare.
Naren sorrise di rimando in risposta e fece vagare casualmente lo sguardo verso alcune locandiere che stavano ridendo e scherzando con alcuni clienti, servi del Diavolo come loro. – Non credete che siamo fortunati rispetto a loro?
Hinedia portò gli occhi dove li stava puntando lui, osservandoli a sua volta. – Cosa intendete, esattamente? In cosa saremmo fortunati..?
- I sentimenti che proviamo l’uno per l’altra sono autentici, al contrario dei loro. La loro bellezza è talmente preponderante che annebbia tutto il resto, spesso. Deve essere arduo amare una serva o un servo del Diavolo solo per la persona che è interiormente..
Hinedia rimase in silenzio in risposta, riflettendo su quelle parole.
- Ho comprato un libro ad una bancarella, poco fa. Il primo libro che abbia mai comprato in vita mia. È stata una sensazione molto strana. Mi sono sentita stranamente bene – ammise improvvisamente, riattirando l’attenzione di un sorpreso Naren su di sè, non capendo neanch’ella per quale motivo gli avesse detto una cosa simile.
Spostò gli occhi su di lui per osservare la sua reazione. – Ora crederete che io sia pazza, molto probabilmente. Ve lo leggo negli occhi – smorzò con una lieve risata di circostanza.
- No, non lo penso, mia signora. Mi sto solo chiedendo per quale motivo lo abbiate comprato.
- Non avete mai desiderato acculturarvi e imparare a leggere? Scoprire qualcosa di più riguardo le nostre origini?
- No, non è un desiderio che è sorto in me, per ora. Beh, potete sempre farvelo leggere da un monaco.
- E se.. volessi imparare a leggerlo da sola? – azzardò, vedendo il suo sguardo mutare e divenire serio.
- Non credo sia opportuno. Sapete bene quali sono le regole di Bliaint.
- Già. Avete ragione.
 
- Mi state dicendo di trovare un modo per far apparire quel ragazzino come fosse totalmente morto, nonostante sia vivo? – chiese perplesso Blake, sedendosi sulla sedia dinnanzi al tavolo principale dell’enorme e oramai familiare biblioteca.
- So bene che non sei onnipotente e non troverai la soluzione con uno schiocco di dita – si giustificò Judith ponendo le mani avanti. – Tuttavia, gliel’ho promesso, Blake. Ieri sera è venuto da me e mi ha narrato tutto quello che è accaduto, e il mio cuore si è frantumato..
- Judith ..
- Sono la prima a non essere d’accordo con il folle piano di Maringlen per salvare sua sorella: fingersi morto e venire addirittura seppellito, da vivo, è una delle idee più pericolose e assurde che io abbia mai udito. Tuttavia... è disperato. E lo conosco, farebbe qualsiasi cosa per evitare che a sua sorella venga fatto del male. In tal modo, quella donna lo vedrebbe morto e sepolto e si metterebbe l’anima in pace. E quando lei sarà lontana, lo tireremo fuori da sottoterra e permetteremo ad entrambi di scappare via. Questa è l’unica soluzione rimastaci per permettere loro di salvarsi entrambi e di fuggire da questo villaggio, che sembra volerli morti ad ogni costo.
- Questa strega di cui mi avete accennato .. per quale motivo avete detto che vuole morto uno dei due gemelli? – domandò Blake sospettoso.
- Per un conto in sospeso che ha con padre Cliamon. Perchè questa domanda? Cosa pensate?
- Nulla. Come si dovrebbe organizzare il tutto, dunque?
- Fingeremo che Maringlen sia Maroine. I due si somigliano talmente tanto che non sarà affatto difficile. Lo vestiremo con gli abiti che Maroine aveva quando era ancora malata e in fin di vita. Quella strega non sa che Maroine è quasi guarita e sta meglio. Sfrutteremo questo vantaggio. Non sarà difficile farle credere che il morbo si è portato via anche la giovane Maroine, considerando quante vite ha strappato negli ultimi giorni. Padre Cliamon, che è d’accordo con noi, porterà in braccio il corpo di Maroine, nonchè di Maringlen, piangendo disperato, urlando contro di lei, e accusandola di avergliela portata via. Lo seppelliremo dinnanzi a lei, e quando ella se ne andrà via, faremo uscire Maringlen da là sotto prima che sia troppo tardi e lo faremo scappare insieme alla vera Maroine, verso il porto.
- Anche sua sorella è d’accordo?
- No, lei no, difatti non deve saperlo; altrimenti si opporrebbe con tutte le sue forze. Dobbiamo cercare di tenerla lontana dal luogo in cui si terrà il tutto.
- Dovrete sfruttare un luogo nascosto. Il terreno dietro la cattedrale potrebbe essere idoneo.
- Sì, avete ragione.
- Come avete convinto padre Cliamon ad accettare tutto ciò? Non sa che Maringlen correrà un enorme rischio tramite questo assurdo piano di fuga?
- Sì, lo sa.. ma Maringlen, in qualche modo a me sconosciuto, è riuscito a costringerlo a convincersi, dopo mille tentativi.
- Mi sfugge qualcosa in tutto questo.. – riprese Blake rialzandosi in piedi. – Per quale motivo il ragazzino non si è rivolto direttamente ad Ephram, chiedendo invece aiuto a me? Ha vissuto praticamente tutta la vita con lui nella compagnia, ed è uno stregone, probabilmente ci riuscirebbe con facilità grazie ad uno dei suoi trucchetti.
- Dopo ciò che Ephram ha fatto a lui e a sua sorella, non vuole più averci nulla a che fare, giustamente. Inoltre, sa che avete fabbricato il “miracoloso” ciondolo per vostro fratello.
- Ha conosciuto Ioan?
- A quanto pare sì.
- Beh, potete dire al vostro giovane amico che c’è una bella differenza tra il donare la vita e il toglierla.
- Non fate il melodrammatico.
Piuttosto, non mi avete ancora narrato nulla del vostro viaggio.
Non volete raccontarmi del mondo là fuori? Il mondo che volevate tanto conoscere?
- State presupponendo che, in seguito a quello che ho visto e vissuto durante queste ultime settimane, io abbia cambiato idea riguardo al fatto di volermene andare via di qui?
- Io non stavo insinuando nulla, la mia non era una provocazione, ma, a quanto pare, ho toccato un tasto dolente – disse la ragazza, poggiando le mani sul tavolo dietro cui era lui, avvicinandosi.
- Quello che ho vissuto questi ultimi giorni non pregiudica ciò che farò in futuro, Judith – chiarì lui. – Ci sono innumerevoli luoghi che devo ancora scoprire. Troverò il posto che fa per me, un giorno. Non mi scoraggerò solo perchè quello che ho trovato durante questo primo viaggio mi ha quasi fatto ritrovare sottoterra, più di una volta.
- Dunque non volete ancora dirmi nulla – concluse lei.
- E voi, invece? Quando vi deciderete a parlarmi della questione del bambino che portate in grembo?
- Non è il momento ora. Più avanti ve ne parlerò.
A ciò, Blake le rivolse un sorrisetto di scherno, ponendo le braccia conserte. – È diventata una gara a chi dice di meno ora?
Lei sorrise di rimando, rivolgendogli uno sguardo fintamente innocente. – Certo che no! Come potete pensarlo?
- Siete infantile.
- E voi più di me.
Conclusero sorridendo entrambi.
Con loro funzionava tutto tacitamente. Anche senza dirsi nulla, riuscivano a comprendersi.
- Siete fortunati che io abbia trovato proprio la fonte della soluzione che vi serve, durante il mio viaggio - disse poi Blake, tornando al tema principale.
- Di che si tratta?
- Non pretendo che sappiate di che cosa sto parlando.
- Testatemi.
- Conoscete le proprietà e gli effetti della mandragora?
Judith alzò un sopracciglio. – La pianta maledetta? Che uccide con il suo urlo? Credevo fosse una leggenda.
- Esiste davvero.
- Non conosco le sue proprietà.
- Tra queste, negli scritti che la riguardano, si annoverano anche delle particolari capacità di rendere il corpo e la mente “dormienti”.
- Cosa intendete dire con “dormienti”?
- Come morti – le disse senza mezzi termini.
Judith impietrì per un attimo. – Ed è pericoloso? Insomma, la mandragora è capace di farlo come morire per davvero o è solo una parvenza?
Blake non le rispose, restando a guardarla, facendole comprendere che l’effetto fosse più profondo di quanto pensasse.
- Oh Signore. Sarà davvero morto..?
- Non è possibile far morire qualcuno per poi riportarlo alla vita. In quello può riuscire solo la magia nera proibita, da che ne sappiamo, forse. Semplicemente, credo che il suo corpo entrerebbe in un sonno simile alla morte, ma che non è la morte: non sarebbe più cosciente, non avrebbe più il controllo del suo corpo e non sentirebbe dolore. Tutto questo solo se io riuscissi a scoprire come utilizzare questa particolare proprietà della mandragora nel modo giusto. Ma non vi sono scritti che testimoniano che qualcuno prima di me vi sia riuscito, o almeno non ne ho trovati, ed ora non abbiamo il tempo per cercarli.
- Per quanto tempo riuscireste a farlo restare in quello stato..?
- Non lo so. È un’altra grande incognita da capire.
Quanto tempo ho?
- Un giorno, massimo due.
Il ragazzo sgranò gli occhi in risposta, ridendo nervosamente. – Vi state prendendo gioco di me.
Judith negò con la testa, al massimo della sua serietà.
- È impossibile che io vi riesca in un giorno! Se non volete vedere il vostro giovane amico morto per davvero, dovrete lasciarmi più tempo.
- Non sono io che decido le tempistiche, Blake. Se fosse per me, vi lascerei un mese intero, pur di far andare questo folle esperimento a buon fine. Tuttavia, i gemelli non hanno tempo. La strega che li sta minacciando potrebbe rifarsi viva a momenti, e a quel punto tutti i nostri sforzi sarebbero vani.
- Non posso farlo.
- Se non lo farete, avrete sulla coscienza la vita e il sangue di un ragazzino che avreste potuto salvare. So bene che dietro quel muro di cinismo che vi fa da seconda pelle, soffrireste anche voi per un fatto simile.
Blake sospirò, sovrappensiero.
- Farò un tentativo. Ci lavorerò su giorno e notte – si arrese. – Ma se dovesse andare male ... non mi riterrò colpevole della sua morte. Così come non dovreste ritervene voi.
Mettetevi l’anima in pace, Judith, e accettate l’idea che, se decidessimo di farlo davvero, quel ragazzino potrebbe non svegliarsi mai più.
 
 

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Capitolo 25
*** Dolorosi addii, inaspettati ritorni ***


Dolorosi addii, inaspettati ritorni
 
Ansimava.
Ansimava in mezzo al bosco buio e indefinito intorno a lei.
Le mancava il respiro.
Continuava a sentire quelle mani su di sè.
In alcuni momenti le piacevano, in altri le davano la nausea. Eppure continuava ad esortarlo a fare sempre di più.
- Arley ... – le sussurrava quella voce familiare, sulla pelle, sui capelli, dietro di sè, a gravare sulla sua schiena seminuda.
- Van ... – gli rispose ancorando una mano sul suo polso e stringendoglielo fino a fargli male mentre percepiva una spinta più forte e intensa delle altre, spaccarla dall’interno.
- Vuoi che rallenti...? – le domandò lui a fatica, eccitandosi ancor di più grazie a quella presa salda che gli stava stritolando il braccio
- No. Più forte. Voglio che aumenti. Più forte – gli disse lei decisa, con quella voce che non riconosceva come sua.
- Emani letteralmente fuoco dentro questo corpo, Arley... Quando eri nel tuo corpo non ti ho mai vista così accaldata.. così lussuriosa e feroce ... – sussurrò mordendole con ingordigia la spalla seminuda, tesa in un fascio di muscoli. - Ti sta piacendo ...? Era proprio come desideravi...? Dimmelo ... dimmi tutto... – gemette lui sull’orlo del piacere più estremo.
- Non osare smettere – gli ordinò autoritaria, percependo che si stesse quasi per svuotare, sentendolo tremare tutto, artigliato convulsamente a lei e a quel corpo bollente.
- Ma non riesco più a resistere...
- Resisti! – urlò quasi, artigliandogli nuovamente quei polsi sudati impegnati a stringere la carne di quell’addome piatto, ben definito e delineato.
Sentiva tutte le sensazioni amplificate rispetto alla norma.
Sentiva tutto.
Il dolore, il piacere, la violenza. La violenza che l’uomo che amava stava praticando su di lei, su quel corpo di cui si sarebbe liberata la mattina seguente.
Voleva quella violenza su di sè.
Altrimenti, non sentiva niente.
Più era violento, e più riusciva a goderne.
A ciò, Naren, in risposta si sforzò con tutte le sue forze di resistere ancora, di non svuotarsi, per far perdurare quel piacere il più possibile, per se stesso e per lei.
Venne invaso da un intenso spasmo di piacere, misto all’estremo sforzo di trattenersi e alla foga di averla solo per sè, stretta addosso con quel corpo che, inaspettatamente, lo stava facendo impazzire. Ella lo sentì pienamente. Lo sentì mentre le afferrava i capelli con una violenza che non credeva che possedesse, e le faceva riversare la testa tutta all’indietro, in maniera innaturale, prendendo a morderle e a succhiarle il collo, fino quasi a staccarle la pelle.
- Credi che verremo puniti...? – sussurrò lui in un gemito roco e intenso.
- Non verrai punito per aver goduto del corpo di un uomo – gli rispose in un ansimo di dolore.
- Ma verrò punito per averne goduto come un animale, come una bestia ... ? Verrò punito per aver violato le sacre leggi e aver consumato un rapporto con una serva del Diavolo ... io.. un uomo con l’aspetto di un mostro ho goduto di una bellezza proibitami... Verrò punito ... per aver massacrato questo corpo... pur di far provare il piacere più estremo a te.. e a me stesso?
- La tempesta implacabile di sensazioni intense come mai ne proverai in vita tua, che stai vivendo ora, Van ... – gli disse interrompendosi e voltando la testa verso di lui, oramai avendo raggiunto un’elasticità notevole nonostante la scomoda posizione. Lo fissò negli occhi e sorrise diabolica, incatenandolo al suo sguardo. – Quello che stiamo vivendo ora... ripagherà tutto – concluse in un sussurrò soffiato direttamente sulla sua bocca schiusa, la quale non perse un attimo di tempo e le agguantò le labbra con disperata urgenza, coinvolendola in un bacio senza fiato.
Intorno a loro, vi erano decine e decine di corpi che stavano commettendo i loro stessi peccati. Corpi bellissimi, seminudi e infuocati dall’interno, dagli effetti di quell’incantesimo maledetto.
Persino la luna si era allontanata da loro, sparendo e riufiutandosi di illuminare uno spettacolo tanto blasfemo.
- Judith...? Judith? – si ridestò improvvisamente da quel ricordo, rendendosi conto di essere in piedi, dinnanzi allo specchio della propria stanza, con alcune candele accese ad illuminarla.
Maringlen la fissava, dietro di lei, con sguardo incerto. – Sei come sparita per alcuni attimi.
A ciò, Judith si ricompose nel minor tempo possibile e si voltò verso di lui, rivolgendogli un sorriso rassicurante. – Va tutto bene.
- Sei sicura?
- Assolutamente.
Maringlen era seduto su una seggiola in mezzo alla stanza, con le mani abbandonate sulle gambe e un’evidente agitazione nello sguardo.
Judith si avvicinò a lui con delicatezza, prendendo la sedia che si trovava davanti allo specchio della propria stanza, e portandola davanti alla sua.
Si sedette davanti a lui e lo osservò, con gli occhi sorridenti e traboccanti d’affetto.
- Che c’è? – le domandò lui.
- Nulla – rispose negando con la testa. – Penso solo che tu sia molto coraggioso.
Il ragazzino continuò a guardarla in silenzio, per poi schiudere le labbra e parlare. – Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto e che stai facendo per noi. Senza di te, ora saremmo morti entrambi.
- Non ringraziarmi – gli lei prendendogli la mano. – La vostra preziosa fiducia, ottenuta sputando sangue, è il ringraziamento più grande che avreste potuto darmi. Sono contenta di avervi aiutati, e non mi darò pace fin quando non sarete al sicuro.
Maringlen sorrise illuminando la stanza in risposta, di uno di quei sorrisi timidi, sinceri e riconoscenti, affatto da lui.
- Hai paura? – gli domandò poi.
- Un po’.
- Padre Cliamon ci aspetta già fuori la cattedrale, mentre Blake è nella stanza qui accanto, in attesa del mio segnale.
- Vi siete assicurati che Maroine resti lontana da qui per tutto il tempo, nel mentre?
- Padre Cliamon le ha dato un sacchetto pieno di monete e l’ha incaricata di andare a comprare tutte le provviste che vi serviranno per il viaggio, e le ha ordinato di non tornare fin quando non avrà finito. Suppongo ci impiegherà un bel po’.
Egli annuì in risposta. – Come sapete che Myriam è qui nei paraggi?
- Padre Cliamon è riuscito ad accordarsi con uno stregone della compagnia, chiedendogli di farla venire qui.
Maringlen annuì di nuovo, prendendo un bel respiro. – Devi fare qualcosa al mio aspetto. Per farmi somigliare di più a lei – disse incerto.
- Cosa intendi? Voi due vi somigliate già tantissimo – rispose Judith.
- Agli occhi di tutti, ma non dei membri della compagnia di stregoni con i quali siamo cresciuti. Loro ci hanno letteralmente visti crescere e sanno tutto di noi, ogni nostra differenza – le disse, per poi spostarsi i capelli dalla spalla e scoprirsi il collo dai vestiti, mostrando uno dei disegni neri che marchiavano il suo corpo. - Myriam mi ha inciso questi sulla pelle quando avevo circa sette anni. Lo ha fatto anche sulle mie caviglie e sulla schiena, mentre io scalpitavo come un forsennato, incapace di stare fermo e di lasciarmi toccare. Riesce persino a distinguere i nostri odori – spiegò. – Se non appaio quanto più simile possibile a mia sorella, lei se ne accorgerà.
A ciò, Judith comprese e si mise all’opera, rialzandosi in piedi e dirigendosi verso una bacinella colma di acqua limpida. Prese una boccetta contenente della polvere dal colore grigiastro dal mobile sottostante allo specchio, e la versò nella bacinella, cominciando a mischiare fin quando il liquido non assunse il colore di acqua sporca.
- Che cos’è? – le domandò il ragazzino.
- Colorante. Estratto da alcune pietre speciali provenienti dalla galleria – rispose avvicinandosi. – Sei fortunato che Maroine usi apparire sempre come un ragazzo, altrimenti dovremmo intervenire anche sui vestiti e sulle forme del tuo corpo. Vi sono cose per cui il trucco e il vestiario non bastano, e su cui può intervenire solo la magia. Per tua sfortuna, io non padroneggio le arti magiche – gli disse sorridendo e risedendosi davanti a lui, cominciando a spargergli l’acqua sporca sul viso e sui capelli con un panno. - Cominciamo a farti sembrare malato, prima di tutto.
Egli annuì e chiuse gli occhi, lasciandosi sporcare.
Dopo di che, Judith gli pettinò la sua esplosione di capelli biondi scompigliati con cura e pazienza, rendendoli più ordinati e facendoli sembrare più lunghi in tal modo.
Fortunatamente i vestiti larghi che Maringlen indossava coprivano tutti i disegni neri che marchiavano il suo corpo, i quali differivano per Maroine. I due erano soliti indossare gli stessi vestiti, talvolta anche scambiarseli, perciò su quelli non sarebbe servito intervenire.
- Ora copriamo il tuo odore con un po’ di questo – gli disse prendendo un’altra boccetta di vetro e porgendogliela. Maringlen l’aprì e l’annusò, scostandosi immediatamente schifato e cominciando a tossire.
- Che diavolo di roba è..? – domandò.
- Escrementi di usignolo mischiati ad alcune erbe affumicate. Il loro cattivo odore assomiglia vagamente a quello del pesce marcio, e quindi delle piaghe che si formavano sulla pelle dei malati durante l’epidemia. Lo ricordi? Spargitelo addosso, anche sui vestiti: non devi solo essere Maroine, ma devi anche puzzare come lei quando era malata.
Maringlen obbedì ancora con una smorfia schifata a regnare sul suo viso, facendo sorridere Judith. – E tu che cosa te ne fai degli escrementi di usignolo?
- Sono ricchi di benefici per la pelle – gli spiegò attendendo che finisse, andando a recuperare delle polveri colorate e dei pennelli da dentro il cassetto.
- Ora devi restare fermo immobile – gli ordinò iniziando a tracciare delle profonde macchie marroni sotto i suoi occhi chiari, per poi sfumarle, creando delle spaventose occhiaie.
Dopo di che, provvide a rendere la sua pelle di un colorito pallido e malconcio, e passò alle sue labbra, ingrandendo un po’ la parte superiore, un dettaglio che presentava solo Maroine e che le dava un’aria più femminea.
- Ora arriva la parte difficile – disse Judith, ammirando il risultato finale, soddisfatta del suo operato. – Se vogliamo che sia tutto davvero perfetto e che Myriam non possa nutrire il minimo sospetto, dovremo fare un’ultima modifica, ma dovrai farla da solo – gli disse andando a recuperare un rotolo di fasciatura e porgendoglielo?
Maringlen la guardò interrogativo. – Cosa devo fare?
A ciò, Judith indicò il proprio inguine. – Devi comprimertelo, usando quella.
Il ragazzino sgranò gli occhi e negò più volte con la testa. – Non c’è bisogno. I vestiti sono larghi, non si vede nulla.
- Maringlen – lo esortò lei. – Maroine lo ha fatto per quasi tutta la sua vita. Ha coperto e compresso una parte fondamentale della sua femminilità con una di quelle, per apparire meno donna di quanto sia.
Ora tocca a te. Fallo per lei – concluse, sapendo di averlo convinto con quelle parole.
Il ragazzino abbassò lo sguardo sulla fascia e si diresse in silenzio dietro il separè che vi era nella stanza.
Dopo una decina di minuti uscì e Judith gli andò incontro, conducendolo davanti allo specchio, per fargli osservare il suo riflesso.
- Ti riconosci? – gli domandò.
- No.
- Allora ci siamo riusciti. Ora sei lei.
Gli occhi grandi e neri della ragazza divennero lucidi nel dire quelle parole e nell’osservarlo allo specchio, mentre stringeva le sue spalle con l’intenzione di non lasciarlo andare.
Maringlen la fissò dallo specchio, voltandosi poi verso di lei, sorridendole dolcemente. – Allora anche tu hai un cuore, Arley Judith – sussurrò. – Hai il viso sempre così serio e concentrato. Pensavo non fossi capace di piangere – le disse alzandosi sulle punte e lasciandole un delicato bacio sulla guancia.
Dopo di che, Judith andò a chiamare Blake, dicendogli che era il momento.
- Sei sicuro che funzioni? – gli chiese per la millesima volta la ragazza, mentre Blake si alzava le maniche e rimescolava per l’ultima volta la dose pesata al millilitro dentro l’ampolla.
- L’ho sperimentato più volte in piccole dosi su alcuni topi questa notte – le disse chiudendo l’ampolla e scuotendola.
A ciò, la mente di Judith ritornò improvvisamente a quel disturbante ricordo riemerso poco prima, risalente a quella notte, che non le dava pace. – Blake.
- Che cosa c’è?
- Quando avremo finito qui, dovrò parlarvi di qualcosa.
- Abbiamo tutto il tempo d’ora in avanti, Judith. Non c’è fretta – le rispose con naturalezza, per poi voltarsi verso il ragazzino, il quale si era seduto sul letto di Judith, con gli occhi fissi su di lui.
Blake gli sorrise con sguardo incoraggiante, prima di avvicinarsi. – Non preoccupatevi, non vi ucciderò con questo siero.
- Sarà doloroso? – fu la prima cosa che gli chiese Maringlen, poco prima che Blake prese una sedia e gli si sedette accanto.
- No, anzi, il contrario: non sentirete più nulla. Sarete come addormentato in un sonno profondissimo, ma da fuori sembrerete morto.
Maringlen annuì con decisione.
- Ci ho lavorato tutto il giorno ieri, perciò dovrebbe andare tutto liscio.
Tuttavia, non posso sapere come il vostro corpo reagirà.
- Come funziona?
- Lo berrete, e in qualche secondo vi addormenterete. Non sentirete più niente. Nè il freddo, nè le urla, nè la terra che vi cadrà addosso e che ricoprirà il vostro corpo. Nulla.
Poi, in base a quanto impiegherà il vostro corpo a smaltirlo, vi sveglierete.
Ovviamente, contiamo ti tirarvi fuori da sottoterra prima che ciò accada: non dovrebbe essere bello svegliarsi e ritrovarsi sepolto vivo.
Basandomi sul vostro peso ho creato questa dose, l’ho realizzata appositamente leggera e abbastanza facile da smaltire – lo rassicurò un’ultima volta. – Quando siete pronto.
Judith, in piedi dietro Blake, lo guardò un’ultima volta, attendendo.
A ciò, Maringlen prese un bel respiro e puntò le sue iridi determinate su Blake.
- Sono pronto – gli disse.
A ciò, il ragazzo sorrise e gli porse l’ampolla aperta.
- Ora rilassatevi, svuotate la mente e mandatelo giù con calma.
 
Myriam accorse in direzione delle cattedrali. Era partita dalla nuova dimora della compagnia degli stregoni eremiti, situata nella porzione della palude ancora più esterna rispetto alla parte abitata del villaggio, impiegando almeno un’ora di corsa quasi ininterrotta.
Gli stregoni con Ephram a capo, avevano deciso di cambiare dimora e di spingersi ancora più lontano, più isolati di quanto già non fossero, per distanziarsi maggiormente da tutto il male che avevano ricevuto e ricambiato ai monaci del villaggio, in quegli ultimi tempi.
Non appena Yarin le aveva riportato la notizia riferitagli da padre Cliamon, non era riuscita a crederci.
Era quello che voleva, in fondo.
Era ciò che era disposta a fare con le sue mani, pur di ottenere la sua tanto agognata vendetta.
Eppure... eppure ora che aveva ricevuto la notizia... il suo corpo si era mosso da solo, e in un istinto di rabbia misto a infinita tristezza, aveva iniziato a correre, a correre e a correre, fin quando non si era ritrovata davanti alle cattedrali.
Aveva corso per riuscire ad arrivare in tempo, per vedere per l’ultima volta il corpo acerbo e morto di una dei due ragazzini che aveva cresciuto insieme a quella che era divenuta la sua nuova famiglia negli ultimi anni.
Morta, stroncata dall’epidemia.
Un’epidemia che l’aveva esonerata del gravoso compito di ammazzare uno dei due solo per tornaconto personale.
Myriam raggiunse il retro della cattedrale, dove padre Cliamon le aveva detto di trovarsi, con il corpo di Maroine pronto per essere seppellito.
Si bloccò sul posto non appena individuò la figura piegata a terra e inginocchiata del monaco, invaso e cosparso dal dolore e dalla più cieca disperazione, che stringeva convulsamente a sè il corpo freddo, rigido, spettralmente bianco della giovanissima Maroine stesa sulla terra soffice.
Judith era lì accanto, in piedi, che si stringeva da sola in un abbraccio tremante, devastata dalle lacrime a sua volta.
L’unico che inspiegabilmente mancava in quel terribile quadro, era proprio la persona più cara a Maroine, e che di certo sarebbe stata disposta ad uccidere Myriam con le sue mani solo per la rabbia cieca di aver perso sua sorella, nonostante fosse stata la malattia a portarsela via: Maringlen.
- Non sono pronto a vederla andarsene...! Non sono pronto a vederla andarsene!! – urlò con la voce rotta e arrochita il monaco, piangendo disperato, mentre stringeva tra le mani il cespuglio di capelli biondi di Maroine e le baciava la testa a ripetizione, bagnandola con il suo dolore.
Myriam non osò avvicinarsi, non osò fare alcun passo avanti.
- Siete contenta ora...? Siete contenta?!? – le urlò il monaco, guardandola con uno sguardo di puro odio.
A ciò, il corpo della strega si mosse da solo, e si avvicinò ai due, non sapendo cosa dire.
- Dov’è Maringlen...? – fu l’unica cosa che riuscì ad uscire dalle sue labbra.
- Lui non deve saperlo!! Non deve saperlo!! Altrimenti seguirà sua sorella sottoterra!! – esclamò padre Cliamon piangendo ancora, non volendo dividersi dal corpo inerme della gemella.
- Non c’è bisogno che vi alziate, padre ... – disse Myriam con la testa totalmente svuotata e il corpo che si muoveva come un automa. Raccolse la pala adagiata a terra e iniziò a scavare con vigore, per creare un fossa. - Rimanete con lei. Rimanete con lei fin quando potete. Come io non ho potuto fare con mia madre. Rimanete con lei – continuò a ripetere, persistendo a scavare, fin quando non si sentì strappare la pala dalle mani con furia. Padre Cliamon iniziò a scavare al suo posto, quasi come se non volesse che il sacro rito di sepoltura venisse contaminato da lei.
A ciò, la strega indietreggiò e si inginocchiò accanto al corpo di Maroine.
Il bellissimo viso angelico rivolto verso il cielo terso, le labbra piene innaturalmente chiare, gli occhi scavati.
Allungò una mano per toccarle una guancia e la sentì ancora calda.
Una stretta al cuore prese possesso di lei, quasi fino a toglierle il respiro.
Quando il monaco terminò di scavare la buca in lacrime, Myriam lo aiutò a trascinarci dentro il corpo di Maroine, adagiandocelo con delicatezza.
Dopo di che, Cliamon iniziò a ricoprirla di terra.
Il cielo divenne sempre più scuro, e i pianti di Cliamon si intensificarono, così come i tremiti di Judith.
Myriam rimase fissa, a guardare quella buca riempita, fin quando qualcosa spezzò bruscamente quell’inquietante catena.
Un urlo acutissimo attirò la loro attenzione, facendo pietrificare Judith e padre Cliamon sul posto, e sconvolgendo Myriam, la quale fissò gli occhi sgranati sulla nuova arrivata: quella era sicuramente Maroine. Ora che non forzava la voce rendendola appositamente più rauca, era uscita fuori tutta la femminilità che nascondeva, nel suo urlo al cielo disperato simile a quello di una dea esiliata; così come Myriam notò che il suo seno fosse cresciuto, in quanto la fasciatura non riusciva più a contenerlo come prima, ed ora era lievemente visibile nonostante i vestiti larghi.
Eppure quella che aveva visto seppellire poco prima era Maroine...
Come aveva fatto a non accorgersene...?
No, non era lei ad essere stata seppellita. Non era lei.
- Chi avete sepolto lì..? – chiese Maroine sul punto di esplodere, con una furia cieca che le animava gli occhi e la faceva sembrare una leonessa inferocita. – Vi ho chiesto chi avete sepolto lì, padre?!?! – urlò inviperita, scagliandosi su padre Cliamon, che per poco non perse l’equilibrio.
- Maroine, fermati!! – la supplicò Judith.
- Che significa tutto questo...? – domandò Myriam con il viso sconcertato e confuso. – Che cosa significa..?
- No! No!!!! – urlò la ragazzina gettandosi a terra e cominciando a scavare con le mani e con le unghie, disperata e distrutta. – Tiratelo fuori! Tiratelo subito fuori!!! Fino a ieri stava bene!!! Era sano come un pesce!! Ero io ad essere malata, non lui!! Lui stava bene!!! Cosa gli è successo?!? Cosa è successo a mio fratello?!? Rispondetemi!!
Padre Cliamon cercò di avvicinarsi a lei, di trattenerla a sè e di abbracciarla, ma fu tutto inutile, in quanto Maroine lo scaraventò via malamente, facendolo piombare con la schiena a terra.
Nessuno ebbe il tempo di metabolizzare, nè di contenere la furia sconfinata della bestia che era diventata Maroine: in un batter d’occhio, la ragazzina si avventò su Myriam con un pugnale stretto tra le mani.
- La colpa è solo tua!!!! – urlò cercando di pugnalarla al ventre, ma, sfortunatamente, Myriam possedeva dei riflessi persino più veloci di lei: la strega la afferrò per la gola e la staccò sù da terra con la sola forza della sua mano destra.
Il pugnale cadde a terra e Maroine portò le mani a stringere il polso di Myriam, ansimando in cerca di respiro, ma scalciando ancora rabbiosa.
- Non lo fate!!! Mettetela giù!!
- Non la toccate!!! La state uccidendo!!
Le voci di padre Cliamon e di Judith le scivolarono via dalle orecchie come eco di una pioggia lontana, nemmeno le udì.
Poi, come un uragano che squarcia in due la terra, arrivò un’altra voce alle sue orecchie, proveniente dalle sue spalle.
Una voce cambiata, più adulta, virile e autoritaria di come se la ricordava, ma sempre la stessa.
- Basta così, Myriam.
Tremò da capo a piedi e lasciò immediatamente ricadere a terra la ragazzina in cerca di respiro, la quale venne subito raggiunta da Judith e da padre Cliamon.
Nel frattempo, Myriam si voltò lentamente verso di lui, per guardarlo, dopo otto anni di totale e implacabile assenza.
I suoi occhi scuri si puntarono su quelli blu del ragazzo.
Il volto di lui era distante, determinato, meno sorpreso di vederla, di vederla ancora viva, di quanto si aspettasse.
Restarono a guardarsi fissi e immobili, come sotto effetto di un incantesimo.
Poi Myriam si avvicinò a lui, alzò il volto per guardarlo negli occhi a causa della differenza di altezza, e osò, osò posargli una mano sulla guancia.
Sembrò passare un infinità in cui rimasero in quella posizione, in realtà protrattasi solamente per un minuto e interrotta da qualcosa di a dir poco grottesco.
Lo sguardò di Blake si precipitò dietro lo spalle di Myriam, verso il basso, così anche quest’ultima si voltò per guardare cosa stesse succedendo.
Un braccio sbucò fuori con irruenza dal terreno scuro, iniziando a muoversi.
- Non posso crederci... ha funzionato!!! Il siero ha funzionato!! Si è risvegliato!! – urlò di gioia Judith, adoperandosi immediatamente per tirare fuori dalla buca Maringlen, aiutata da una sconvolta e felicissima Maroine. Padre Cliamon, invaso da troppe emozioni tutte insieme, cadde a terra in preda ad una violenta vertigine, poi si riprese immediatamente e iniziò a piangere dalla gioia, raggiungendo le due ragazze e aiutandole a dissotterrare il coraggioso gemello.
Judith scavò con la pala con vigore, fin quando un Maringlen stralunato e in cerca d’aria non riuscì a sbucare fuori da terra, aiutato dalla sorella e dal monaco.
Maroine gli saltò al collo e gli rimase ancorata addosso, lo picchiò e lo abbracciò insieme, piangendo, insultandolo, ripetendogli all’infinito parole d’amore e d’odio insieme, in una litania commovente che padre Cliamon trovò pregna di sacralità nella sua bestialità.
Judith rise, rise senza motivo, continuando a guardarli, mai sazia di quella bellissima visione.
Myriam li guardò a sua volta, riuscirendo ad incastrare i pezzi e a comprendere cosa fosse accaduto.
Tirò un sospiro di sollievo.
Voleva vederli vivi e vegeti, non poteva negarlo, e decise in quel momento che avrebbe rinunciato parzialmente alla sua vendetta, per loro.
Tuttavia, il suo cuore scalpitava ancora incessantemente, senza tregua.
- Ti lascerò cantare la tua vittoria, monaco – gli disse improvvisamente, attirando la sua attenzione. – Ma anche io avrò la mia.
Detto ciò, Myriam lo guardò negli occhi a distanza, pronunciando una formula stregonesca in una lingua sconosciuta.
- Prima che ve ne andiate .. – riprese poi, questa volta rivolgendosi ai due gemelli. – ..vi prego di andare a trovare Beitris nelle segrete. Fatele solo sapere che state bene.
Detto ciò, quando si voltò nuovamente verso Blake, il ragazzo era già scomparso nel nulla.
 
La mattina seguente, quando padre Cliamon si alzò dal suo giaciglio, si accorse con orrore di essere cieco.
 
 
 
 

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Capitolo 26
*** Snaturata ***


Snaturata
 
Padre Craig quella mattina si svegliò a suon di urli in casa.
Aprì la porta della sua stanza per capire cosa stesse succedendo, venendo pervaso dalla voce infuriata di Blake.
- Quaglia, tornate subito qui!! – esclamò il ragazzo rincorrendo l’uomo dal volto terrorizzato.
Al contempo, una fastidiosa puzza di bruciato fece storcere il naso al giovane prete.
Ioan, dal canto suo, li guardava divertito.
- Che sta succedendo? – gli domandò padre Craig con la voce ancora impastata dal sonno, raggiungendo il ragazzino.
- Quaglia ha quasi dato fuoco allo studio di nostro padre mentre provava a fare degli esperimenti per conto suo – gli rispose.
- Ecco spiegata la puzza di bruciato, dunque.. è tanto grave? – chiese angustiato il prete.
- No, ha bruciato solo qualche scartoffia e qualche esemplare unico di metallo trovato nella galleria.
- ... capisco perchè tuo fratello è infuriato. Dovremmo evitare che lo uccida, ora che ci penso. Insomma, ma cosa gli è preso a Quaglia?
- Non lo so. Dato che ieri ha assistito Blake a fare esperimenti giorno e notte sulla mandragora per la questione dei gemelli, credo sia stato preso da un impeto di sicurezza e di creatività, e abbia voluto fare qualche esperimento da solo, senza la supervisione di Blake. Io e Blake ce ne siamo accorti perchè abbiamo inziato a sentire puzza di bruciato stamattina. E ovviamente Blake sta dando di matto – concluse divertito il ragazzino.
Padre Craig rise a sua volta, sentendosi bene, a casa, nonostante l’assenza sia di Heloisa, che di Rolland.
Rolland era alla galleria come al solito, mentre Heloisa passava giornate intere sepolta sul suo letto, alzandosi solamente per deambulare in giro per la casa.
Ad un tratto, padre Craig venne travolto da Quaglia, il quale gli piombò addosso in tutta velocità, nascondendosi dietro la sua schiena, facendosi scudo col corpo del giovane prete.
Immediatamente, si trovò dinnanzi anche un Blake fumante di rabbia come non l’aveva mai visto, una visione che lo fece tremare a sua volta insieme a Quaglia per un attimo, nonostante non avesse fatto nulla.
- Cerchiamo di mantenere la calma, ragazzi – tentò padre Craig volgendo a Blake uno sguardo di supplica, che venne prontamente ignorato dal ragazzo, il quale aveva gli occhi fissi solamente sulla figura nascosta dietro le spalle del prete.
- Spostatevi, padre  - gli ordinò.
- No, padre, non lo fate, ve ne prego! So che siete un uomo di estremo buon cuore! – lo supplicò Quaglia in quella maniera infantile che lo fece sorridere di rimando.
Gli piaceva Quaglia. Aveva avuto modo di mostrargli il villaggio e di insegnargli un po’ di maniere e di usi comuni quando erano rimasti soli quel pomeriggio di due giorni prima. Era come se in lui risiedessero l’animo di un bambino pronto alla scoperta e quella nascosta e dimenticata di un uomo di alto rango, da un passato travagliato e misterioso. 
- Blake, cerchiamo di ragionare... – ritentò, venendo nuovamente ignorato dal ragazzo, il quale si pose a braccia conserte e iniziò a picchiettare nervosamente un piede a terra.
- Avanti, uscite, Quaglia, non vi faccio niente.
- No, state mentendo ... – rispose l’uomo terrorizzato, con le mani tremanti strette alle spalle di padre Craig, rendendo quella scena ancor più comica.
- Prometto che non vi faccio niente!
- No! Siete troppo arrabbiato!
Blake si trattenne visibilmente dallo scaraventare via padre Craig, per avere campo libero nello strangolarlo, facendo un altro bel respiro.
- Vi faccio così tanta paura, Quaglia? – gli domandò poi il ragazzo, in tono apparentemente calmo.
- Sì!
- Che cos’è che vi fa più paura di me?
A ciò, Quaglia si affacciò dalla spalla del prete. – In questo momento i vostri occhi e lo sguardo di pura morte che emanano verso di me.
Blake sorrise maligno in risposta, facendolo rabbrividire. – Per quale diavolo di motivo questa mattina avete brillantemente deciso di dilettarvi nell’arte di distruggere pezzi di inestimabile valore, strumenti delicati e la casa intera, oltre che di farmi diventare il sangue acido?
- Perchè ieri mi avete insegnato molte cose utili quando mi avete permesso di assistervi durante i vostri esperimenti con la mandragora... avete delle conoscenze sconfinate, e siete anche molto abile in ciò che fate! - aggiunse quel complimento sincero sperando di farlo addolcire un po’, provocando esattamente l’effetto contrario.
- E quindi questo vi dà il dannato diritto di bruciare il mio studio?!?
- Ma è stato un incidente! Non accadrà più, promesso! Non toccherò mai più un vostro strumento o qualsiasi altro oggetto di vostra proprietà a meno che non sia con voi, e non entrerò mai più nello studio senza di voi!
Il ragazzo sembrò lievemente calmarsi in seguito a quelle parole. – Nella giornata di ieri vi ho insegnato un nulla in confronto a quello che dovete ancora imparare se volete diventare davvero il mio apprendista e aiutarmi nel vero senso della parola. Se vi galvanizzate solo dopo una banale giornata di formazione, mi fate capire che non avete compreso nulla di ciò che vi ho detto fino ad ora. D’altronde, posso sempre scoprire da solo come utilizzare la polvere nera come desidero. Il vostro aiuto non è così necessario – terminò in quella minaccia non troppo velata che fece immediatamente uscire allo scoperto Quaglia, il quale sorpassò padre Craig e si avvicinò a Blake con le mani congiunte e gli occhi da gattino abbandonato. – Vi prego! Vi prego, non cacciatemi via di casa! Prometto che non farò più nulla di sbagliato, lo prometto!
- Smettetela di piagnucolare. Ringraziate che le perdite non siano così gravi e restatemi lontano almeno per l’intera giornata – si arrese Blake sbuffando esasperato, allontanandosi da loro e dirigendosi verso la cucina.
- Cosa c’è da mangiare?? – proruppe improvvisamente Ioan saltellando energico e raggiungendo il fratello in cucina. – Sto morendo di fame, Blake – si lamentò il fanciullino.
- Anche io – rispose il ragazzo rovistando tra i vari scaffali della cucina, cercando ovunque con impazienza.
Ioan lo guardò in attesa.
Padre Craig li raggiunse insieme a Quaglia. – Cosa c’è, Blake?
- C’è che è terminato il cibo, a quanto pare. Non è rimasto niente – disse continuando a cercare.
- La mamma non è andata al mercato a comprare nulla? E nostro padre? – domandò Ioan.
- La mamma non va più da nessuna parte, Christopher. Papà si è accasato nella galleria ormai. Dobbiamo arrangiarci da soli – gli disse, trovando finalmente gli ultimi resti del cibo avanzato.
- Quanto è rimasto?? – gli domandò Ioan avvicinandoglisi.
- Due pagnotte e due uova – rispose Blake aprendo il sacchetto che conteneva le misere pietanze.
- Ma non bastano per tutti! Siamo in sei in casa! Inoltre, abbiamo saltato anche la colazione, io sto morendo di fame e anche tu hai la pancia che brontola.
- Posso uscire io a comprare qualcosa da mangiare al mercato questa mattina. Tanto, tra poco dovrò prepararmi per andare a partecipare alla funzione – si propose padre Craig.
- No, vado io. Devo comprare il cibo per tutti, e ho bisogno di uscire di casa – disse Blake.
- Vengo con te! – esclamò Ioan.
- Anche io! – si unì Quaglia.
- Voi non venite da nessuna parte, stupida canaglia – lo zittì immediatamente Blake. – Vi avevo detto di starmi a distanza per oggi. Non se ne parla. E non se ne parla neanche che rimaniate a casa senza nessuno a supervisionarvi.
A ciò, Ioan capì e si sacrificò. – Va bene, rimango io con Quaglia questa volta. Controllerò che non faccia nulla che non deve fare mentre tu non ci sarai, Even.
Blake sorrise in risposta al suo fratellino, accovacciandosi dinnanzi a lui. – Vedrai, ti porterò tanto di quel cibo da avere la pancia che scoppia per almeno una settimana intera – gli promise, facendolo sorridere a sua volta.
- Però mangiamo le ultime due pagnotte insieme, prima che tu vada.
- No, mangerò dopo. Lascerò le ultime due pagnotte e due uova a te e a Quaglia. Starà morendo di fame anche lui, vero, Quaglia?
L’uomo, in risposta, lo guardò quasi con le lacrime agli occhi. – Davvero la posso mangiare io..?
- Sbrigatevi a mangiarla prima che cambi idea.
- Certo!
Blake si infilò gli stivali e andò a recuperare il suo mantello pesante, salutando gli altri tre e uscendo di casa. L’aria fredda entrò in contatto con il suo viso con irruenza, scompigliandogli i capelli e spingendolo a tirarsi su il cappuccio. Appena mosso il primo passo, il suo stivale calpestò qualcosa. Abbassò lo sguardo e trovò una lettera, sapendo benissimo chi gliel’avesse spedita: l’unica persona che gliele spediva periodicamente, nonchè l’unica che sapesse leggere e scrivere tra le sue conoscenze di Bliaint.
“Padre Cliamon si è svegliato cieco questa mattina.
Il motivo di ciò è inspiegabile, ragion per cui crediamo che la maledizione che gli ha lanciato ieri Myriam, quando ha rinunciato ad uccidere i gemelli, abbia fatto effetto.
Questa mattina la trascorrerò con lui nella cattedrale del Creatore, insieme ai gemelli, per aiutarlo e sostenerlo.
Tuttavia, volevo esortarvi a passare dalla cattedrale del Diavolo: nella biblioteca vi ho lasciato tutti gli appunti che ho accumulato senza di voi, durante queste ultime settimane. Vi sono informazioni che potrebbero tornare utili per le nostre ricerche, perciò cominciate a dargli un’occhiata senza di me.
In attesa di vostre notizie, vi auguro buona giornata.
                                                                                                                                            Arley Judith”
Il ragazzo sorrise, scuotendo la testa e intascandosi la lettera, prima di prendere a camminare in direzione della cattedrale.
Il suo stomaco avrebbe dovuto aspettare ancora un po’.
 
Dopo aver aiutato padre Cliamon nei suoi bisogni primari quella mattina, facendolo abituare a quel suo nuovo stato, probabilmente permanente, Judith rimase sola nella biblioteca della cattedrale del Creatore. Era da un po’ che desiderava quel momento di solitudine, solo per se stessa, dalla fine dell’epidemia.
Non per pregare, no.
Quello non lo faceva da un po’, in realtà.
Si sedette in mezzo all’enorme salone, illuminato dal sole alto in cielo, i cui raggi penetravano dalle grandi vetrate delle finestre. Il sole di mezzogiorno.
Incrociò le gambe, alzandosi la lunga gonna, e abbandonando le mani sopra le ginocchia.
Il freddo del pavimento non la disturbò. Si sfilò i guanti aderenti e rimase a mani nude, chiudendo gli occhi e provando a rilassarsi, concentrandosi sul bambino che cresceva dentro di lei.
Non si era più fatta visitare da una levatrice dopo quella prima volta, dunque non poteva essere certa al cento per cento che non avesse perso il bambino, tra la rivolta e l’epidemia.
Eppure ... lo sentiva.
Lo sentiva ancora, quel bambino non voluto.
Si concentrò per sentire quella vita dentro di sè, quando venne interrotta da una voce che la spaventò e le fece spalancare gli occhi immediatamente.
- Non credevo praticaste la meditazione – esordì Myriam, seduta comodamente sopra il tavolino della biblioteca.
- Come siete entrata...? La porta era chiusa a chiave – disse Judith senza scomporsi.
- Sapete, conosco qualche metodo per rendere questo “contatto” con il bambino molto più potente e concreto, rispetto alla meditazione. Ma immagino non siate interessata, in quanto non volete avere a che vedere con la magia, per lo meno non direttamente. Mi spiegate per quale motivo siete tutti così maldisposti nei confronti della magia? – disse la strega, scendendo con un salto leggiadro dal tavolino e sedendosi a gambe incrociate di fronte alla ragazza.
- Vi devo ricordare che fino a che qualche minuto fa sono stata con l’uomo che avete accecato tramite maledizione, e anche con i due ragazzini che volevate assassinare con puro tornaconto personale?
- Ne sono ben consapevole, ma so anche che voi siete sin troppo intelligente per farvi influenzare in tal modo dai vostri stati emotivi – le rispose a tono, attirando il suo sguardo di ossidiana su di lei.
- Ciò che avete fatto a padre Cliamon è irreversibile, vero? Non tornerà più come prima.
- Ho rinunciato a qualcosa, a una vendetta che attendevo da vent’anni, pur di veder continuare a vivere quei due ragazzini. Ora anche lui deve rinunciare a qualcosa.
Judith annuì, senza replicare.
- Vi avevo offerto la possibilità di sbarazzarvi in modo indolore di questo bambino, dato che non lo volete ... – disse Myriam poggiando la mano scura sul ventre della ragazza. – Ma voi non l’avete sfruttata. Per quale motivo?
Judith non rispose, ponendole invece un’altra domanda. – Non vi avevo mai vista prima della rivolta, Myriam. Ora, invece, vi sto vedendo sin troppo spesso. Perchè siete qui e non alla nuova dimora degli stregoni?
- Ho deciso che resterò qui al villaggio per qualche tempo. Mi stabilirò in un alloggio temporaneo – le rispose, sorprendendola.
- C’entra Blake, per caso? – dedusse. – Non avevo idea che vi conosceste. Quando l’avete visto ieri, era come se aveste visto il fantasma di un figlio perduto. Cos’è accaduto tra voi?
Myriam esitò, guardando altrove, restando in silenzio.
- E voi, Arley Judith? Come lo conoscete? – capovolse la domanda.
- Stiamo svolgendo una ricerca insieme, preziosa per entrambi. Siamo amici.
- Il bambino non è suo come affermate che sia. Lo sento.
- Come facevate a sapere che non volevo questo bambino? – le domandò Judith cambiando discorso.
- Ritorno sempre a ripetervi che la magia, se ben utilizzata, è estremamente potente. Maneggiata con abilità, porterebbe risultati grandiosi.
- E voi siete in grando di maneggiarla con tale abilità?
- La pratico sin da quando ero in fasce, ragazza – disse disegnando una strana figura con le dita a terra, con una precisione e una manualità ammirevoli.
Dopo di che, fece segno a Judith di poggiare le mani sopra le proprie, abbandonate sulle sue ginocchia con i palmi verso l’alto.
Judith fece come le era stato indicato e chiuse gli occhi, sottoponendosi a quel trattamento.
- Sento il vostro bambino anche io .. – sussurrò Myriam tra una formula e l’altra, pronunciata in quella lingua che Judith non conosceva. – Sento la sua energia che scorre da voi ... e sento anche la vostra energia. Sento qualcosa di funesto che non fa altro che turbarvi da diversi giorni. Riesco a vedere solo strascichi, che consistono nelle energie che emanate. Non posso e non potrò vedere cosa è accaduto, nè le persone coinvolte, ma so che è accaduto qualcosa.
- Quella notte ... – confermò Judith, stringendo le palpebre.
- Quale notte?
- La notte in cui il mio bambino è stato concepito. La notte in cui ognuno di noi si è dimenticato cosa fosse accaduto.
- Cosa vi angustia di quella notte?
- Stavamo festeggiando un matrimonio e uno dei riti a cui ci siamo sottoposti si è spinto troppo in là, facendoci piombare nella depravazione più estrema.
- I nostri festeggiamenti prevedono sempre dei riti perversi e dissoluti, fa parte della tradizione.
- No, questa volta era diverso. È accaduto qualcosa. Ho commesso un peccato mostruoso, e sono stata punita per questo.
- Perchè avete peccato quella notte, Judith?
- Perchè volevo. Ricordo che lo volevo ardentemente. Totalmente priva di inibizioni ero diversa dalla persona che sono ora. Ero spaventosa.
- Spaventosa?
- La mia anima era marcia, turpe. Ho avuto la conferma di essere marcia dentro.
- Se foste marcia dentro non vi sarebbe stato concesso il dono di rimanere gravida.
- Ma non è stato un dono!
- Invece sì.
- Solo perchè voi lo considerate un dono e vi considerate maledetta per il fatto di non averlo, non vuol dire che lo sia.
- Siete stata violata da bambina. Da quel monaco che amava costringere i bambini a soddisfarlo sessualmente - si concentrò ulteriormente Myriam. – Questo è il motivo per cui credete di essere marcia?
- Lo sento ... sento il bambino anche io – sussurrò Judith.
- E siete felice di ciò? Siete felice di sentirlo? – le domandò Myriam stringendole le mani nelle sue.
La ragazza, ancora con gli occhi chiusi, distante della realtà, sorrise in risposta, di un sorriso storto in modo quasi innaturale, un sorriso che spaventò la strega.
- Sapete... a volte immagino che, un tempo, la terra era sollevata dal dovere di donarci la vita e noi venivamo giù dal cielo, come pioggia durante una tempesta. Eravamo appesi ad un soffitto, con una corda legata ai polsi e un macigno agganciato ai piedi. Quando il macigno diventava troppo pesante, noi piombavamo a terra, provando finalmente la sensazione di gravare su qualcosa. Poggiare i piedi, calpestare, lasciare un’impronta, era come sentire di star sprofondando verso il basso, essere attratti dagli abissi di una terra che era stato in grado di donarci solo indifferenza.
- Quando le cose cambiarono? – domandò la strega, assecondando quella fantasia.
- Non lo so esattamente ...
- Quando la terra iniziò a curarsi di noi? – insistette Myriam.
- Non lo so!
Non so esattamente ... quando le cose cambiarono.
Non so quando la terra iniziò a curarsi di noi.
Cominciammo a nascere in un altro modo, molto più doloroso, traumatico e violento.
Ogni donna venne incaricata di portare un carico che solamente un corpo forte come il suo avrebbe potuto reggere.
- E poi? Poi che accadde?
Judith si ammutolì, non parlando più.
- Judith? Arley Judith, rispondete alla mia domanda.
- Morirà.
- Chi morirà?
- Il bambino che cresce in me. Morirà.
- Quando vi deciderete a ucciderlo?
- Non so quando. Ma so che morirà.
Improvvisamente, Myriam fece terminare bruscamente il contatto magico.
Judith spalancò gli occhi, stralunata, come di ritorno dall’oltretomba, non rendendosi conto che Myriam si fosse avvicinata sin troppo al suo volto.
Senza preavviso, Myriam la baciò, infilandole la lingua in bocca senza attendere che ella ricambiasse, facendola impietrire.
Judith non si ribellò inizialmente, lasciando che Myriam la baciasse con irruenza; ma quando percepì le mani della strega stringerle i fianchi morbidi e sinuosi, si staccò dalla sua bocca, con il respiro affannoso.
- Che cosa state facendo ... ? – sibilò sconvolta.
A ciò, Myriam sorrise con naturalezza, riallontanandosi.
- Judith..?
Quella terza voce destabilizzò completamente la ragazza, la quale catapultò gli occhi verso l’entrata della biblioteca, in cui sostava un padre Craig rosso in volto e mortificato.
- Padre ... da quanto siete qui..?
- Da ... non da molto, posso garantirvelo!
- Abbastanza da aver visto – commentò provocatoria Myriam rialzandosi in piedi e versandosi un bicchiere d’acqua.
- Ho bussato più volte, ma nessuno rispondeva – spiegò imbarazzato.
Judith si alzò in piedi, ancora frastornata, e lo raggiunse. – Come mai siete qui, padre?
- Sono stato alla funzione questa mattina e, dato che ero qui, ho salito le scale e sono giunto in biblioteca, per chiedervi come state.
Judith gli rivolse un sorriso premuroso in risposta. – Siete molto gentile, padre. Sto bene.
- Siete sicura?
- Certo. Dato che siete qui, venite con me, ho delle commissioni da sbrigare. Blake non è con voi?
All’udire quel nome, l’attenzione di Myriam si ridestò di colpo, improvvisamente interessata a ciò che i due si stavano dicendo. Il bicchiere che aveva in mano quasi le cadde a terra, attirando lo sguardo del prete e della ragazza.
- Blake è qui...? – chiese in un bisbiglio.
- No, non è qui – le rispose padre Craig sospettoso.
- Ad ogni modo, Myriam, prima che io e padre Craig ce ne andiamo, sappiate questo: se avete deciso di trasferirvi qui nel villaggio per rincontrareBlake, fareste bene ad andare a fargli visita. Immagino sappiate dove viva - concluse Judith, vedendola riabbassare lo sguardo e non rispondere nulla.
Dopo ciò, uscì dalla biblioteca seguita da padre Craig. – Quella donna ha avuto una reazione strana ed  esagerata. Che cos’ha a che vedere con Blake? – le domandò il giovane prete.
- Non lo so neanche io, padre – disse la ragazza entrando dentro la sua stanza e iniziando a raggruppare dentro un sacco di tela diversi capi di abbigliamento, tra cui molti dei suoi abiti di lusso e splendida fattura.
- Avete visto riaffiorare in voi altri ricordi di quella notte? – le domandò cautamente padre Craig.
- No – mentì la ragazza. – E voi, padre? Avete iniziato a ricordare qualcosa?
- Purtroppo no. L’unica che mi ha aiutato a ricordare qualcosa è stata Beitris.
- Potreste andare a farle visita nelle segrete prima della sua esecuzione – propose Judith.
- Invece, per quanto riguarda voi? Quella donna vi stava importunando poco fa?
- No, padre. Ella mi stava aiutando ad entrare maggiormente in contatto con il bambino.
Padre Craig restò a guardarla raggruppare tutti i suoi abiti, pensieroso.
- Vi vedo turbata a riguardo. Riguardo il vostro bambino. Avete voglia di parlarne..?
- Sinceramente, padre? Non ho voglia di parlare con nessuno ora – gli rispose, per poi prendere il sacco colmo di vestiti e metterselo in spalla.
- Lasciate fare a me, ve lo porto io – si propose gentilmente il giovane prete.
- Grazie, ma ce la faccio – gli disse Judith rivolgendogli un sorriso gentile. – Andiamo?
- Dove andiamo?
- Ho un sacco di vestiti sulla schiena, padre: a fare il bucato al fiume ovviamente.
A ciò, il giovane prete sorrise imbarazzato. – Suonerei strano se dicessi che non sono mai andato a fare un bucato in vita mia?
A quella parola, la ragazza sgranò gli occhi totalmente. – Che cosa...?
- Nel mio villaggio di provenienza sono solo le donne che se ne occupano – si giustificò.
- Ma qui a Bliaint non è così, ed è passato più di un mese da che vivete nell’abitazione dei Rolland.
- Difatti ho visto andare a farlo sia Blake, che Ioan ed Heloisa, molte volte. Tuttavia, nessuno di loro mi ha mai chiesto di accompagnarlo. Immagino sia per il fatto che sono loro ospite.
- Beh, dato che non siete ospite a casa mia, io ve lo chiederò e vi insegnerò anche a farlo: volete venire a fare il bucato con me, padre?
Padre Craig rise di gusto a quella richiesta. – Certo, signorina Judith, con piacere.
I due si recarono al fiume, già colmo di uomini, donne e bambini di entrambi i credi, tutti impegnati a lavare i vestiti.
Il giovane prete si meravigliò di quell’ammirevole quantità di persone. – Non immaginavo ci fosse tutta questa gente ... è strabiliante che siano tutti venuti a fare il bucato proprio ora.
Judith rise in risposta, andandosi a sedere su uno spazio libero alla riva del fiume rigoglioso. – Non sono venuti tutti ora, padre. Qui è sempre colmo di gente. Oramai, stando qui, avrete imparato che Bliaint è un villaggio molto pulito. Il culto della pulizia viene tramandato di padre in figlio come da tradizione. Qui le persone sono solite andare a fare il bucato quasi ogni giorno per la propria famiglia.
- Ogni giorno...?
La ragazza annuì, si tolse i numerosi anelli che decoravano le sue mani dolci, li infilò nella tasca del vestito e cominciò a prendere il primo abito e ad immergerlo con cura nell’acqua fresca e limpida.
Intanto, padre Craig si guardò intorno meravigliato, trovando una gioia e una spensieratezza che non si aspettava di trovare, considerando come fossero gli abitanti di Bliaint solitamente: i bambini correvano e giocavano nell’acqua, nonostante il vento gelido, incuranti del freddo; le donne chiacchieravano amabilmente tra loro e con gli uomini.
L’unica nota costante e dolorosa agli occhi di padre Craig, era che non vi fosse alcun contatto tra servi del Diavolo e del Creatore. Nè uno sguardo, nè una parola. 
- Qui è davvero un idillio ... – commentò.
Judith sorrise in risposta. – Padre, venite ad aiutarmi.
- Oh, sì certo, scusate! – esclamò sedendosi discretamente accanto a lei e prendendo la saponetta profumata che la ragazza gli porse tra le mani. Judith gli illustrò la tecnica per lavare adeguatamente i vestiti per non rovinarli e non lasciare alcuna traccia di sporco, ed entrambi cominciarono a dividersi i vestiti, strofinandoli nell’acqua.
Continuarono placidamente, lavando e scambiandosi pensieri e riflessioni, fin quando non vennero raggiunti da una vocina che riconobbero entrambi.
- Padre! – esclamò Ioan correndo a per di fiato verso di loro, con un sorriso stampato sulle labbra.
- Ioan! Cosa ci fai qui?? – gli domandò confuso e felicemente sorpreso. – Sei uscito di casa da solo?
- No, ho portato Quaglia con me! – esclamò indicando l’uomo a qualche metro di distanza che li stava raggiungendo a sua volta, non riuscendo a correre veloce quanto Ioan.
- Buongiorno – li salutò Quaglia ansimante, cercando di riprendere fiato.
- È quasi l’ora di pranzo, Quaglia. Non è proprio corretto dire “buongiorno” – lo corresse docilmente padre Craig, sorridendo ancora per la gradita sorpresa.
A ciò, Ioan, che il giovane prete aveva sicuramente imparato fosse il più affettuoso della famiglia Rolland, gli saltò alla schiena, mentre egli era piegato a finire di lavare un abito, avvolgendogli le mani intorno al collo e osservandolo finire di risciacquare il tessuto. A padre Craig non pesò averlo addosso, anzi, gli scaldò il cuore.
Inoltre, il ragazzino era leggero come una piuma.
 - Blake non è con voi? – gli domandò Ioan.
- No. Non è ancora tornato a casa? – gli domandò padre Craig, attirando anche l’attenzione di Judith.
Il ragazzino negò con la testa.
- Chissà dove sarà – commentò Quaglia. – Oh, salve, signorina Judith! – la salutò adorante.
- Salve, Quaglia.
- Ad ogni modo, volevo aiutarlo a farsi il bagno, ma questa piccola scheggia non ha voluto e se ne è scappato via.
Ioan sorrise colpevole, facendo sorridere anche Judith di rimando. – Non ne avevo voglia. Posso sempre farmelo qui nel fiume! – esclamò facendo già per buttarsi, venendo fermato da una mano di padre Craig che gli afferrò il polso trattenendolo.
- Sei pazzo? L’acqua è gelida! Qui non possiamo scaldarla come possiamo fare a casa grazie al fuoco – lo rimproverò.
- Ti prego, padre! Ci sono anche altri bambini che lo stanno facendo! – si lamentò facendogli notare che vi fossero anche altri ragazzini immersi nel fiume a insaponarsi e a giocare allegramente nell’acqua.
- Lasciateglielo fare, padre. Un po’ di acqua fredda non lo ucciderà – lo incoraggiò Judith, ottenendo uno splendido sorriso riconoscente da parte del fanciullino.
A ciò, padre Craig volse gli occhi sul ciondolo di mandragora che indossava Ioan, il quale gli stava ancora facendo gli occhi dolci per convincerlo. – Non toglierlo per nessun motivo al mondo – gli disse indicando il suo ciondolo, per poi rivolgersi alla ragazza. – E voi, sappiate che, se dovesse ammalarsi, manderò Blake a sfogare la sua rabbia su di voi – le disse in tono allegro, facendola ridere ancora.
Amava vederla sorridere così spensieratamente.
Così come sembrava amarlo anche Quaglia, che restò a guardarla incantato.
A ciò, il bambino non ci pensò due volte e si tuffò nel fiume con tutti i vestiti addosso, ridendo gioioso e facendo ridere anche gli altri. Prese una delle saponette che gli porse la ragazza e iniziò ad insaponarsi da sotto i vestiti.
Tuttavia, Quaglia non demorse e restò imperterrito a fissare Judith, e i suoi ciuffi di capelli rossi che sfuggivano all’acconciatura alta, il collo latteo esposto al vento, il vestito elegante che le fasciava elegantemente il busto dalle curve perfette.
Accorgendosene, padre Craig ne rimase infastidito, in quanto sapeva che ciò stesse infastidendo anche Judith stessa, nonostante ella non lo facesse notare.
A ciò, il giovane prete si alzò in piedi e prese Quaglia da parte.
- Cosa c’è, padre? – gli domandò l’uomo.
- C’è che è maleducazione fissare in modo così tanto insistente una donna. È un gesto irrispettoso.
- Davvero?? Ma, padre, lei è così bella ... anche tra tutte le altre serve del Diavolo, io non riesco a non guardare che lei – disse con lo sguardo sognante.
Padre Craig non seppe cosa provare dinnanzi a tale confessione.
Non poteva dire di essere felice per l’ammirazione fisica che Quaglia nutriva per Judith.
La guardava in un modo che al giovane prete infastidiva.
Improvvisamente, si chiese se ciò che provasse non implicasse anche altro.
Non sarebbe stato possibile.
L’affetto e l’ammirazione che nutriva per Judith sfociavano in un bel sentimento di amicizia e null’altro.
Improvvisamente, gli tornò in mente anche Blake, e l’episodio della mattina dopo il suo ritorno, quando si era reso conto che gli piacesse sin troppo restare a guardarlo.
Anche con lui sentiva le stesse cose?
Era geloso di Blake e lo era anche di Judith? Di chiunque si avvicinasse a loro più di quanto gli fosse vicino lui?
Era assurdo, impensabile, indagare riguardo a sensazioni ed emozioni simili per il giovane prete, tanto che si diede dello sciocco e preferì non pensarvi più, archiviare quel discorso e seppellirlo chissà dove, per non ritirarlo fuori più.
Sarebbe stato meglio non sapere, piuttosto che scoprire verità pericolose, illecite e insidiose.
- Ciò non vi aiutorizza a fissarla, a meno che non sia lei ad avere il piacere che voi lo facciate – gli rispose, tornando alla ragione.
Quaglia annuì e i due tornarono da Judith e da Ioan, notando che i due stessero ridendo e insispettendosi a vicenda.
Ioan schizzava lievemente Judith non appena ne aveva l’occasione, mentre lei lo ripagava schizzandolo a sua volta dalla riva, mentre terminava di strofinare gli abiti.
- Padre, Quaglia! Avanti, venite anche voi! – esclamò il bambino in un fiume di energia.
I quattro risero di gusto, e padre Craig pensò che, per una volta, fosse tutto perfetto.
L’unico che mancava a completare quel suo quadro di meraviglioso idillio era Blake.
Ma ci sarebbe stata sicuramente occasione di rimediare.
Ora, si sarebbe goduto quel pomeriggio di spensieratezza come meglio avrebbe potuto.
 
Hinedia si ritrovò dinnanzi alla cattedrale del Creatore. Era partita troppo in anticipo per partecipare alla funzione, ed ora non sapeva come occupare il tempo. Avrebbe potuto tranquillamente entrare e iniziare a sedersi, come già stavano facendo alcuni, approfittando per pregare. Tuttavia, il suo sguardò saettò automaticamente verso sinistra, in direzione della cattedrale dell’altro culto.
La guardò per un po’, provando una strana voglia di visitarla, dato che non vi entrava da un po’.
Sapeva che le due cattedrali erano esattamente identiche internamente, perciò non c’era nulla di particolare da guardare; tuttavia, provò il desiderio di entrare comunque, senza alcun motivo apparente giustificabile.
D’altronde, la cattedrale del Diavolo era quella in cui era avvenuta la strage di monaci durante la tremenda rivolta degli stregoni, difatti, ora non vi erano più nè monaci nè monache per i servi del Demonio. Sapeva che quello fosse un problema a cui avrebbero dovuto porre rimedio ben presto.
La giovane serva del Creatore entrò, trovando la cattedrale vuota.
Rincuorata di non essere vista da nessuno, nonostante non stesse commettendo alcun peccato, cominciò a vagare per il salone immenso, avvicinandosi all’altare con il crocefisso posto al contrario.
Si continuò a ripetere che bastava che non pregasse e non facesse nessun altro atto di adorazione al Creatore lì dentro, e nessuno avrebbe potuto dirle nulla, nè tanto meno cacciarla.
Vagò ancora per un po’, fin quando non udì il rumore di passi che stavano scendendo le scalinate che portavano al piano superiore.
Il primo istinto fu di correre via a gambe levate prima che chiunque vi fosse lì la scorgesse, ma sapeva che i suoi passi svelti avrebbero comunque rimbombato per tutto il salone, perciò non sarebbe scampata all’essere scoperta.
Rimase lì dov’era, dinnanzi all’altare, con i piedi fissi a terra, mentre metteva a fuoco la persona che stava scendendo le scale a distanza.
Hinedia spalancò gli occhi non appena lo riconobbe.
Quando Blake terminò di scendere le scale e si accorse di lei, l’unica altra persona presente nella cattedrale oltre lui, le rivolse uno sguardo confuso e sorpreso. – Cosa ci fate voi qui?
Hinedia abbassò immediatamente lo sguardo, imbarazzata e colpevole. – Volevo solo vedere come fosse stata ripulita la vostra cattedrale dopo la sanguinosa rivolta che l’ha vista protagonista giorni fa.
Vi fu un attimo di silenzio in cui la ragazza si sentì ancora più in soggezione.
- Non vi sto cacciando via, non temete. Mi avevate detto di chiamarvi Hinedia, giusto?
Quelle parole tolsero un peso dal cuore della ragazza, allietandola.
Annuì e prese anche il coraggio di avvicinarsi a lui, come buona educazione voleva, dato che stavano parlando. 
- Come mai siete qui? – gli domandò.
A ciò, il ragazzo sventolò un mazzo di chiavi che aveva in mano. – Sono venuto per recuperare degli appunti che Judith mi ha lasciato nella biblioteca. Avete conosciuto Judith, giusto?
Ella annuì di nuovo, ricordandosi le parole di Judith riguardo il ragazzo che era di fronte a lei, e sulla sua capacità di leggere e scrivere, che egli aveva ammirevolmente acquisito autonomamente, incurante delle proibizioni.
- Come avete fatto ad avere accesso alla biblioteca? Non dovrebbe essere proibita al popolo?
- Tutti gli uomini e le donne di culto di questa cattedrale sono morti ormai. Chiunque può entrare e uscire come e quando vuole dalla biblioteca. Io ho le chiavi per precauzione – le rispose. – Beh, potete continuare a perlustrare la cattedrale, se volete. Nessuno vi caccerà via o si lamenterà della vostra presenza, neanche durante la funzione – le disse, facendole comprendere che si stesse per avviare verso l’uscita.
- Blake – lo richiamò lei in un istinto che non riuscì a controllare, sorprendendosi di se stessa e di quell’audacia mai avuta prima.
- Cosa c’è?
Hinedia afferrò la propria sacca a tracolla, infilò una mano al suo interno e tirò fuori il sottile e sgualcito libro che aveva comprato tre giorni prima, mostrandoglielo. – L’ho comprato pochi giorni fa e non l’ho ancora tirato fuori dalla sacca – confessò.
Blake lo osservò incerto, in attesa che lei parlasse, per dargli spiegazioni.
- Ve lo sto mostrando perchè vorrei ... che lo leggeste per me. Se lo desiderate.
Quando si rese conto di aver pronunciato le parole che aveva appena detto, oramai era troppo tardi per rimangiarsele e scappare via. Non sapeva perchè glielo avesse chiesto. Sicuramente se ne sarebbe andato senza dirle una parola dopo quella richiesta assurda, oppure le avrebbe riso in faccia. Le avrebbe potuto rispondere che aveva altro di ben più importante da fare, avrebbe potuto deriderla per la sua curiosità fuori luogo, insensata.
Di fronte al silenzio di Blake, si rese conto ancor di più dell’errore commesso nel chiederglielo. – Sapete, non so cosa mi sia preso, non so perchè ve l’ho chiesto. Non so neanche il perchè io l’abbia comprato, in tutta onestà.
- Perchè non imparate a leggerlo voi stessa? – le rispose lui nell’unico modo che la ragazza non si aspettava minimamente le rispondesse, destabilizzandola.
- Io .. non posso – rispose semplicemente.
- Judith può insegnarvi. O posso farlo io. D’altronde, sto già insegnando a leggere a mio fratello, e a breve dovrò insegnare anche a Quaglia, con l’aiuto di padre Craig. Insegnare ad una persona in più non mi peserebbe.
- No – rispose categorica, spaventata da quanto le risultasse elettrizzante l’idea.
- Va bene.
- Che cosa...?
- Avete udito bene: ho detto che va bene. Leggerò per voi – le rispose.
Dopo tutte quelle sorprese, una dopo l’altra, Hinedia non seppe più come reagire, e rimase ferma immobile, senza dire una parola.
- Volete farlo ora? – le domandò lui, vedendo che la ragazza non si decideva a risistemare il libro dentro la sua sacca.
- Sì – si affrettò a rispondere lei senza neppure pensarci, nonostante ricordasse perfettamente che stesse per iniziare la funzione nell’altra cattedrale, e che si fosse recata lì quella mattina appositamente per quella. Improvvisamente, non era più importante.
- Tuttavia, vi devo avvertire: io sto letteralmente morendo di fame e voglio andare a mangiare. Potrei dare di matto se non metto qualcosa sullo stomaco.
- Vi accompagno. Sempre che a voi non dispiaccia.. forse avevate altri piani per oggi.
Blake vi pensò su, e il volto di Quaglia gli invase immediatamente la mente, sgradito e ancora in grado di farlo uscire di senno.
- No, non ho altri piani – le rispose, venendo poi attirato da alcuni servi del Diavolo che stavano entrando dentro la cattedrale per l’inizio della funzione, alle spalle di Hinedia.
La ragazza se ne accorse e osservò il suo sguardo, senza voltarsi per guardare a sua volta. – Che cosa c’è? – gli domandò.
- Alcuni si stanno chiedendo perchè io e voi stiamo parlando insieme. Sono sconvolti e infastiditi da ciò.
A quella parole, Hinedia abbassò il volto, eternamente mortificata. – E a voi ciò crea problemi..? – osò domandargli.
- Affatto. Perchè dovrebbe? Vogliamo andare? – la sollecitò, avviandosi per primo verso l’uscita della cattedrale.
Hinedia sorrise sommessamente e lo seguì, dimenticandosi definitivamente della funzione per la quale era giunta lì. – Dove volete andare a saziarvi? – gli domandò affiancandolo.
- Vicino alla galleria vi è una piccola locanda che serve cibo principalmente agli scavatori della galleria dopo giornate e nottate di lavoro sfinenti. Preparano pietanze dal gusto strabiliante.
- Davvero? Non lo sapevo, non frequento quella zona solitamente.
- Difatti la conosciamo in pochi.
Non appena raggiunsero il luogo descritto da Blake, presero posto su uno dei tavoli.
L’ambiente era piccolo, decandente e illuminato da varie luci calde e soffuse, composte solo da lampade a olio.
Intorno a loro non vi erano molte persone, solo alcuni scavatori intenti a svagarsi un po’ mangiando un boccone, quasi tutti servi del Diavolo.
Tuttavia, Hinedia non si sentì a disagio in mezzo a loro, stranamente.
Blake si tolse il mantello e Hinedia il copricapo.
Subito, un vecchio arrivò al loro tavolo, con un atteggiamento di notevole confidenza verso Blake. – Cosa vi porto da mangiare? – domandò sorridendo.
- Tutto quello che volete, basta che sia veloce – rispose il ragazzo, facendo ridere l’uomo.
- Siete molto affamato, vedo. Pagnotte calde con spezie e patate arrostite?
Blake annuì eloquente. – E anche delle uova – aggiunse, per poi volgere lo sguardo alla ragazza. – Voi cosa volete mangiare?
Lei vi pensò su, non avendone minimamente idea. – Vanno bene solo le patate arrostite per me, grazie.
A ciò, l’uomo sorrise di nuovo e se ne andò.
Improvvisamente, Hinedia venne presa dalla curiosità di scoprire qualcosa in più riguardo la galleria, grazie al fascino che le suscitava quella strana e accogliente locanda, che sembrava  un luogo estraneo a Bliaint.
La galleria era uno dei luoghi più famosi di Bliaint, anche all’esterno, per la gran quantità di ricchezze e metalli preziosi che possedeva, ma anche il meno conosciuto dagli stessi abitanti di Bliaint, e il più enigmatico.
Solo i proprietari della galleria e i lavoratori che scavavano al suo interno avevano il privilegio di saperne qualcosa in più.
Ma ora che la ragazza si ritrovava dinnanzi al figlio del proprietario della galleria, si rese improvvisamente conto di non essersi mai interessata a quell’affascinante mistero che era la galleria.
- Ditemi, com’è lavorare nella galleria? – gli domandò, tenendo sempre lo sguardo basso.
A ciò, Blake si poggiò con la schiena allo schienale della sedia, pensandovi su e sorridendo lontano. - Soffocante. Non vi è aria lì dentro, e quella poca che c’è, è velenosa. Tuttavia, amo stare lì dentro.
- Come fate ad amarlo, se vi uccide..?
- Trovate così strano amare qualcosa che ci uccide?
Hinedia ammutolì.
- Ad ogni modo, circolano molte leggende sulla galleria, sapete? – le disse, proprio mentre la locanda venne colpita da un violento tremolìo che allarmò totalmente la ragazza. Le pareti vennero scosse, le lampade ad olio vacillarono e alcuni granelli di polvere caddero dal soffitto.
Tuttavia, Hinedia si rese conto di essere stata l’unica ad essersi scomposta: Blake e tutti gli altri nella locanda erano rimasti tranquilli.
- Cos’è stato...?
- Non temete, è normale: siamo esattamente sopra la galleria in questo momento. Sotto di noi stanno avvenendo degli scavi. Alcuni sono molto invasivi e complessi. La locanda subisce l’eco di tutto ciò che sta avvenendo là sotto – spiegò con naturalezza.
- Quali leggende circolano sulla galleria? – domandò Hinedia calmandosi dallo spavento e riprendendo il discorso di prima.
- Si dice che, se vi si spinge troppo in là negli scavi, si potrebbero fare delle scoperte terribili. Talmente tremende da forzare chiunque vi si addentri a non voler più uscire nel mondo esterno, alla luce del sole.
- Ciò ha a che vedere con l’esilio del vostro Signore da parte del Creatore, nella parte più bassa della terra? Secondo alcune dicerie popolane, i servi del Diavolo sarebbero come attirati dalla galleria, in quanto permetterebbe loro di avvicinarsi maggiormente al loro Signore.
A quelle parole, Blake rise, e Hinedia alzò gli occhi per un attimo, sorpresa.
- No, non mi riferivo a quello – disse il ragazzo, sorridendo ancora. – Però sì, circolano anche queste voci, immagino. Mi riferivo a qualcosa di più ... oscuro e indefinito. Sapete, ho praticamente misurato e tracciato ogni angolo della galleria, esplorandone ogni meandro, fin dove siamo riusciti a spingerci con gli altri scavatori. Eppure, sento che manca ancora qualcosa e solo spingendomi ancora più in là potrò scoprirlo. Ad ogni modo, la leggenda più comune, è quella del Mostro Dietro di Me.
- Mostro Dietro di Me...? – domandò Hinedia incuriosita.
- Si crede che il Mostro Dietro di Me, una figura solitamente usata per spaventare i bambini servi del Diavolo, e per farli obbedire agli ordini dei genitori senza capricci, risieda proprio nella galleria. Mio padre mi parlava sempre di lui quando lo facevo arrabbiare, e mi minacciava dicendomi che il Mostro Dietro di Me sarebbe venuto a prendermi e non mi avrebbe riportato più indietro – ricordò con un sorriso nostalgico. – Le leggende che prendono questa figura più seriamente, riportate nei libri, lo descrivono come il mostro che fa la sua comparsa e ti sta addosso, rimanendo dietro di te, solo quando non lo guardi. Senti la sua presenza dietro, lo percepisci, avverti il pericolo e il terrore della sua vicinanza, ma nel momento in cui ti volti verso di lui, sparisce. È il Mostro Dietro di Me perchè sta sempre e solo dietro di te. Il suo unico scopo è spaventarti a morte, fino a farti perdere la testa e a farti credere di essere pazzo perchè non riesci a vederlo. Si dice risieda nella galleria.
La ragazza, che fino a quel momento aveva ascoltato concentratissima e inquietata, venne riscossa dal vecchio di poco prima, che poggiò le pietanze fumanti e dal succulento odore sul loro tavolo.
Blake ringraziò e il vecchio se ne andò, mentre un’altra presenza si avvicinò a loro.
- Vi prego, fanciulli ... datemi una moneta per comprare del pane – chiese loro una mendicante, anch’essa serva del Diavolo, porgendo la mano verso i due.
Hinedia fu più veloce di Blake e prese una moneta d’argento dal suo borsello, poggiandola poi nella mano della donna, tornando con lo sguardo basso.
A ciò, la donna fece per ringraziarla, poco prima di accorgersi che fosse una serva del Creatore. Un sorriso maligno si dipinse sul suo volto marchiato dai segni della fame e dell’età avanzata, ma ancora sin troppo bello. – Cosa ci fa una serva dell’altro Signore qui con un servo del Diavolo?? – chiese in tono di scherno, facendo aumentare la soggezione della ragazza, la quale nascose il volto il più possibile, abbassando il viso ancor di più. – Oh, povera cara! Avete le stesse reazioni che hanno tutti gli altri servi del Creatore quando provi a scambiar con loro una parola: abbassano lo sguardo, in soggezione! Ditemi, vi incutiamo così tanto timore? O siete solo mortalmente invidiosi del nostro aspetto, tanto da non riuscire neanche a guardarci?
A quelle parole della donna, Blake osservò in silenzio le reazioni di Hinedia, la quale stava trattenendo la frustrazione e il disagio che provava dinnanzi a tali provocazioni.
- Avanti, guardatemi, serva del Creatore. O almeno guardate lui, dato che siete seduti qui insieme! Quanto potrà costarvi degnarvi di guardarlo mentre conversate?
- Vi state comportando in maniera indicibilmente molesta con una persona che è appena stata generosa con voi – la interruppe Blake fulminandola con lo sguardo. – Dovreste vergognarvi. Andatevene via – le ordinò truce, vedendola inchinarsi a loro come per scusarsi frettolosamente, e sgattaiolare via.
Hinedia rimase in silenzio, non pronunciando più nulla.
Il ragazzo, dal canto suo, iniziò ad inforchettare alcune pietanze.
- Avete mai conversato in questo modo con una serva del Creatore, prima d’ora? – gli domandò lei, trattenendo gli occhi fissi sulle proprie gambe sedute. 
- Sapete ... quella donna è stata indubbiamente molto maleducata poco fa, ma una cosa vera l’ha detta: mi piacerebbe che mi guardaste negli occhi quando parliamo. Rispondere alle vostre domande mentre voi guardate altrove è un po’ ... strano e di certo non confortevole. Vi posso garantire che se mi guardate non accadrà nulla di male – le disse con calma, senza alcun tono di rimprovero.
A ciò, la ragazza fece uno sforzo a se stessa, sapendo che egli aveva ragione, decisa a non rendere ulteriormente l’atmosfera tesa e sgradevole per lui. Alzò il volto per guardarlo e incontrò i suoi accesi occhi blu, fissi nei suoi.
Il ragazzo inclinò la testa, accennando un sorriso. – Vi ringrazio. Per rinspondervi alla domanda che mi avete fatto, no, non avevo mai avuto una conversazione così lunga con una serva o un servo del Creatore, nè tanto meno vi ho consumato un pasto insieme.
- Come mai?
Blake alzò le spalle in risposta. – Nessun servo o serva del Creatore mi si avvicina mai, solitamente. E la cosa è reciproca. Credo sia così per tutti i servi del Diavolo.
- Con me è stato diverso, però.
- Voi mi avete parlato con naturalezza fin da subito.
- Avete ragione – concordò la ragazza, riconoscendosi quel merito, accennando un sorriso tra sè.
- Voi, invece? Avete mai parlato in questo modo con un servo o una serva del Diavolo?
- Beh con Judith ho avuto modo di parlare un po’.. tuttavia, lei è abituata ad essere circondata costantemente dai servi del Creatore, perciò credo che il merito sia stato di ciò. No, non è mai capitato neanche a me, prima di oggi – confermò. – Principalmente per le vostre stesse motivazioni, credo. I servi del Diavolo non si avvicinano a noi. Ed io.. non mi sono mai avvicinata a loro.
- Perchè con me lo avete fatto?
- È stata una casualità, inizialmente – gli rispose continuando a guardarlo. – Però, non credete sia strano? Insomma, in alcuni casi non è così. In alcune circostanze i servi dei due credi sembrano saper interloquire tra loro senza problemi.
- In quali casi, esattamente? Vi riferite ai monaci di entrambi i credi che riescono a comunicare tra loro e con i condannati a morte, o delle locandiere della Taverna che sono abituate a servire da bere per lo più a servi del Creatore che si recano lì appositamente per ammirarle incantati? – le disse con un velo di amarezza nella voce, facendole rendere conto che non vi fossero delle vere eccezioni, in realtà.
- Beh ... avete ragione.
Forse non era stato saggio addentrarsi in quel discorso ostico in quel momento, pensò Hinedia, desiderando rimediare al danno fatto.
Ora che aveva finalmente modo di osservarlo, gli occhi di Hinedia si posarono sul suo collo coperto dalla fasciatura bianca, un dettaglio che le fece immediatamente ricordare del suo lungo e tortuoso viaggio fuori da Bliaint. Blake prese un’altra forchettata di patate, accorgendosi dello sguardo della ragazza e capendo cosa stesse pensando. Hinedia fece per parlare, ma Blake la anticipò. – So cosa state per dire. Non ditelo – le chiese lui, con un tono di lieve supplica.
A ciò, la ragazza richiuse le labbra, attendendo spiegazioni. – Ogni singola persona che ho incontrato e che incontro da quando sono tornato a Bliaint, non fa altro che domandarmi cosa mi è accaduto nel mondo là fuori, e perchè sembra che io sia stato colpito da un fato quasi peggiore del vostro in queste lunghe settimane lontano da qui. Gradirei che voi continuaste ad essere l’unica persona che non me lo abbia domandato. Non è un tema di cui amo parlare, tutt’altro.
- D’accordo. Non dovete dire altro – lo rassicurò lei, iniziando a mangiare a sua volta, ricordandosi solo in quel momento di avere del cibo nel piatto a sua volta. – A proposito, quasi dimenticavo – aggiunse prima di imboccare la prima forchettata. – Non vi ho ancora fatto i miei migliori auguri e auspici per il bambino.
- Il bambino? – per un attimo, Blake non comprese.
- Il bambino che Judith porta in grembo. Avete affermato essere il vostro.
- Oh, sì, il bambino. Vi ringrazio.
- Deve essere esaltante stare per diventare genitori. Non riesco ad immaginarlo. Judith non mi aveva detto vi fosse quel tipo di rapporto tra voi due.
Blake non rispose a quelle riflessioni della ragazza, spostando invece l’attenzione su altro. – Volete ancora che vi legga il libro che avete comprato?
- Certo. Non volete aspettare di finire di mangiare?
- Posso farlo anche ora – le disse, attendendo che ella lo ritirasse fuori dalla sacca e glielo porgesse.
Blake lo prese dalle sue mani e iniziò a sfogliarlo con calma, accennando immediatamente un bellissimo sorriso genuino non appena lesse solo la copertina, contagiando anche Hinedia.
- Che cosa c’è? – gli domandò lei impaziente, continuando a guardarlo, non riuscendo a smettere di farlo.
- È un libro di fiabe.
- Davvero?
- Sì, è diviso per fiabe – le confermò sfogliando la prima pagina, in cui iniziava la prima fiaba.
- Come si intitola la prima?
- “Snaturata” – le rispose il ragazzo sorprendosi, sorprendendo anche la sua ascoltatrice.
Hinedia osservava ogni minima espressione del ragazzo mentre le sue iridi scorrevano veloci tra quelle parole.
- Credo siano fiabe arcaiche, scritte da un cantore. Sembra di star leggendo una canzone. Questa prima fiaba credo parli di una madre, che ha perduto i suoi figli – la informò, facendola incuriosire ancor di più.
- Vi prego, leggete, vi voglio udire.
A ciò, il ragazzo iniziò:
- “C'era.. una volta.. in inverno, una bella madre
Seduta a una finestra incorniciata d'ebano
E lì, la madre cuciva.
E cucendo e mirando la neve, si punse un dito con l’ago.
E nella neve, caddero tre gocce di sangue.
Tanto tempo fa, c'era un uomo ricco che aveva una bella moglie e i due si amavano molto. Non avevano figli.
Ma come li desideravano.
Finchè la moglie, sotto il ginepro, in un giorno d’inverno,
E quell'inverno i fiocchi di neve cadevano come piume dal cielo..
S’era seduta a sbucciare una mela.
Bambina: Voglio una mela. Una bella mela dalla cassa. E la cassa ha un gran coperchio pesante, con un chiavistello di ferro tagliente. Madre, posso averne una anche io?
Madre: Sì, certo, bambina mia.
Bambina: Madre... che sguardo torvo che hai! Sì, dammi una mela. Ah! Hai chiuso la mia testa dentro la cassa! Hai colpito così forte che la testa mi si è staccata dal collo!  È rotolata tra le mele! Come farai a cacciarti da questo guaio?”
L’inquietudine prese possesso di Hinedia, la quale rimase comunque concentrata ad ascoltare affascinata la voce calda ed espressiva di Blake raccontare quella storia dalla grottesca bellezza.
- “Madre: La bambina è seduta davanti alla porta e ha un'aria pallidissima. Ha una mela in mano e io gli ho chiesto di darmela, ma lei non ha risposto e mi fa tanta paura. Torna da lei e se non ti risponde dagli un pugno nell'orecchio. Ah! Ho staccato la testa alla bambina! Che hai fatto?! Non raccontare a nessuno che cosa è successo, ma ormai non c'è più rimedio. Ho paura. Ho paura come quando arriva un gran temporale. Mi sento come se la casa stesse per bruciare. Vorrei essere mille piedi sottoterra per quello che ho fatto. Mi sento come alla fine del mondo. Ho pregato tanto. Non arrivava. Nel cortile sotto il ginepro sbucciavo una mela, in inverno, e il coltello mi tagliò il dito, e il sangue gocciolò sulla neve. Ahi! Un gran sospiro, mentre guardavo il sangue davanti a me, ero sempre più triste. Dopo un mese la neve svanì; dopo due tutto era verde, dopo tre la terra fioriva, dopo quattro il bosco suonava; il quinto mese io stavo sotto l'albero, e il cuore traboccava dalla gioia; il sesto mese i frutti erano sodi ed io sempre più quieta; il settimo colsi tante bacche dal ginepro e tante ne mangiai, e mi feci triste e malata; l'ottavo mese piansi. Ho un problema senza nome.. ma cos'è? A volte dico «Ogni tanto mi sento vuota..», oppure «Mi pare di non esistere, di non essere madre di nessuno..». Specchio, se muoio.. seppelliscimi sotto il ginepro.” – Blake si bloccò per un attimo, riprendendosi da quel racconto fitto e intenso. Alzò lo sguardo su Hinedia, per vedere come stesse reagendo alla storia, e la trovò col volto totalmente immerso nelle lacrime.   - Meglio terminare qui la lettura per oggi.
 
 
 

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Capitolo 27
*** Oh, Dio, non di salvezza ma di dolore, chi ti presterà la vita, o chi prenderà da altri per dartela ancora? ***


Oh, Dio, non di salvezza ma di dolore, chi ti presterà la vita, o chi prenderà da altri per dartela ancora?
 
- “... E la tua forza si seccherà come erba
Riarsa da un sole spietato
E il vigore della tua mano passerà
E le sabbie della tua vita scorreranno.
Oh, Dio Sovrano, non di salvezza, ma di dolore
La cui gioia è nei lamenti degli uomini,
Chi ti presterà la loro vita, o chi prenderà
Da altri per dartela ancora?
Oh, Dio Sovrano, pieno d’ira e senza lacrime,
Oh Dio non del giorno ma della notte ...” – la donna, serva del Diavolo, coperta da un velo grigio mosso dal vento, continuava a pregare in mezzo al terreno deserto cui sottostava l’immensa galleria di Bliaint.
Quello era un giorno strano.
Il ragazzo lo avvertiva, sotto strati di pelle, quanto l’aria, quel giorno, fosse diversa dal solito.
Ne attribuì la causa al fatto che non scendeva nella galleria da molto, troppo tempo.
Ora che si trovava dinnanzi alla sua entrata, era come bloccato da una forza invisibile, che gli impediva di entrare, come aveva sempre fatto, sin da quando era bambino.
Suo padre lo attendeva dentro, come sempre.
Ma Blake non riusciva a scendere lì sotto, sorprendentemente e stranamente.
Si sentiva più a casa in quel buco buio e asfissiante, piuttosto che nella sua vera casa.
Eppure, cosa lo tratteneva?
Perchè non voleva entrare?
L’aria era meno fredda dal solito, eppure la nebbia era fittissima.
Il tempo pareva rallentato.
Si vestì con le vesti macchiate di polvere e di terra che si usavano indossare per entrare nella galleria, e fece per accendere una delle lampadine che gli sarebbero servite per farsi luce là sotto, mentre la donna continuava a pregare ad alta voce, in piedi, in mezzo al nulla, ignorata da chiunque.
Blake conosceva quella preghiera dei servitori del proprio culto.
Era una delle più lugubri.
Ad un tratto, il ragazzo venne trattenuto dal bordo di uno dei cenci che aveva indossato.
Si voltò per vedere chi lo stesse trattenendo, e abbassò lo sguardo, trovando la piccola Bonnie, che era venuta per attendere che suo padre terminasse di lavorare e uscisse dalla galleria, come ogni giorno.
La bambina gli rivolse un tenero sorriso furbetto, che lo fece sorridere a sua volta, malgrado la pessima sensazione che avvertiva, e che aumentava di secondo in secondo.
- Bonnie, ehi, quanto tempo.
- Oggi non hai nessun trucchetto per me, Blake? – gli domandò la bambina osservandolo dal basso.
Blake negò. – Non sono dell’umore oggi, Bonnie.
- Ti senti bene? – gli domandò poi la piccola. – Hai un colorito strano. Hai freddo?
- No, in realtà. Sto bene.
La donna accanto a loro iniziò a pregare più forte, alzando la voce, attirando l’attenzione dei due.
Bonnie restò a fissarla come assorta, e la donna si voltò immediatamente a guardarla, di scatto.
Si scambiarono uno sguardo strano, che Blake non riuscì a comprendere.
Dopo un tempo indefinito, Bonnie si girò di nuovo verso di lui, questa volta con un’espressione bizzarra nel visino infantile, come vuota.
- Perchè non entri nella galleria? – gli domandò ella atona. – Rolland ha detto a mio padre che oggi saresti entrato anche tu nella galleria.
Blake non rispose, osservando l’entrata.
Accadde tutto in un attimo sospeso nel tempo.
Ad un tratto, la terra iniziò a tremare.
Si iniziarono ad udire delle voci dall’interno, e sempre più scavatori iniziarono ad uscire dalla galleria in fretta e in furia, accaldati, col fiatone e sconvolti, con la paura dipinta nel volto.
- Attenzione, c’è un crollo in corso!!
- Avete udito?! C’è un crollo in corso all’interno della galleria!! Uscite tutti!!! Alla svelta!!
Fortunatamente riuscì ad uscire in tempo anche Rolland, raggiungendo Blake nell’immediato. – Per fortuna non sei entrato!! – esclamò l’uomo a suo figlio.
- Stai bene? – domandò Blake a suo padre.
- Sì, fortunatamente, figliolo ... sono usciti quasi tutti.
Tutti erano talmente impegnati a riprendersi dallo spavento da non star prestando attenzione all’entrata della galleria.
Sapendo che Bonnie le fosse vicina, Blake si voltò verso di lei per controllare se si fosse spaventata, ma non la trovò più accanto a sè.
La cercò in giro con lo sguardo, non trovandola, perciò catapultò le iridi verso l’entrata della galleria, sgranando gli occhi: la bambina era appena entrata dentro quel buco buio, in procinto di crollare.
Non credendo ai suoi occhi, Blake urlò il suo nome, fiondandosi verso l’entrata a sua volta, senza curarsi di porsi la stoffa a coprirsi naso e bocca.
- Bonnie!!! Bonnie, che stai facendo?! Torna qui!! – esclamò correndo verso l’entrata, ma venendo prontamente fermato da suo padre, che lo artigliò per il busto per riuscire a tenerlo fermo e a trattenerlo.
- Blake, fermo!! Che stai facendo?!?
- Lasciami!! È appena entrata lì dentro!! Posso ancora fermarla! Lasciami!! – si ribellò selvaggiamente, tanto che Rolland fu costretto a buttarlo con la schiena a terra e a gettarsi su di lui.
- Blake!! Blake, ascoltami: parte della galleria sta crollando! Non puoi entrare lì dentro, mi hai sentito?! Non possiamo fare più niente per lei!! – gli urlò prendendogli il viso tra le mani.
A ciò, il ragazzo smise di ribellarsi e restò a fissarlo con sguardo sconvolto e stralunato.
Dopo qualche istante, si udì il pianto terribile del padre della piccola, il quale si inginocchiò a terra e urlò a squarciagola a causa della disgrazia appena avvenuta.
- Signore!! Signore, perchè mi fai questo?!? Perchè me l’hai portata via, perchè?! – urlò il servo del Diavolo iniziando a dare dolorosi pugni sul terreno, in preda alla pena più tremenda.
Rolland lo guardò a distanza con compassione, rimanendo ancora sopra suo figlio, paralizzato dalla paura di soffrire lo stesso dolore di quell’uomo se solo avesse lasciato i polsi di Blake.
Poi riportò lo sguardo su Blake, trovando il suo volto come perso, inerme sotto la sua presa.
- Ehi..? Perdonami, se mi sono scagliato su di te con tale violenza, figlio mio, ma ho avuto il terrore di ... – sussurrò lasciando la presa con cautela, ma restandogli comunque molto vicino.
- Ora... – sibilò Blake. – Ora... tutti i progressi che abbiamo fatto nella galleria andranno perduti..?
- Non è importante ora ... l’importante è che stiamo tutti bene ...
- Ma non stiamo tutti bene.
- Sai per quale motivo quella bambina possa ... aver compiuto un gesto così insensato e improvviso? Cosa le è passato in mente? Bonnie solitamente aspetta sempre suo padre fuori dalla galleria, non entra mai, ha paura di entrarci. Non sa neppure come si indossano gli abiti per entrare nella galleria..
- Difatti quando è entrata non li stava indossando. È entrata così com’era, senza abiti, nè una luce, nè la stoffa a coprirle la bocca.
- Tutto ciò è inspiegabile ... Ma non possiamo salvarla. Oramai sarà già morta sepolta e asfissiata.
Lo sguardo di Blake si catapultò immediatamente sulla donna che aveva pregato ad alta voce sino a quel momento, notando che si fosse fermata e che ora fosse in piedi, immobile, intenta a fissarlo.
Un sussurro terribile giunse alle sue orecchie, come di una voce proveniente dalle più profonde fauci dell’oltretomba.
Si tappò le orecchie per non udirlo, ma era tutto inutile, poichè proveniva dall’interno.
Rolland se ne accorse e se ne preoccupò. – Blake? Blake?? Stai bene? Che hai? È normale che le orecchie fischino quando accadono eventi come questo. Vedrai che passerà.
Avrebbe voluto dirgli che le orecchie non gli stavano fischiando, bensì spaccando dal fastidio che provava in quel momento.
Non era reale.
C’era qualcosa o qualcuno che doveva esser entrato nella sua mente e improvvisamente i suoi occhi lucidi si puntatono sulla donna in piedi, che lo fissava ancora a distanza.
- Blake, ascolta ... – iniziò a dirgli suo padre, prendendo un bel respiro, sedendosi accanto a lui. Avvertiva la sua voce come ovattata e scomposta. – Ho l’impressione che ultimamente tu ti sia allontanato molto da me. Avverto dell’astio da parte tua. Mi sto sbagliando?
A ciò, Blake provò a rispondergli, ma nel momento in cui aprì la bocca per farlo, nessun suono uscì dalla sua gola arsa.
Improvvisamente, portò una mano a toccarsi il collo, iniziando a respirare a fatica.
Non poteva essere.
Non di nuovo.
L’aveva riavuta, era ritornata, ed ora la sua voce non poteva andarsene di nuovo, senza alcuna motivazione.
Provò ancora ad emettere una parola, ma dalla sua gola non uscì nulla.
Rolland scambiò la sua impossibilità nel parlare in silenzio volontario. – So che ora probabilmente non vuoi affrontare questa conversazione, con quello che è appena accaduto, lo capisco ... ma stanno accadendo troppi eventi destabilizzanti ultimamente, ed io non so più quale sia ... la via da percorrere. Capisci cosa intendo?
Di nuovo, il ragazzo tentò di parlare, e ancora una volta non vi riuscì.
- D’accordo. Non dire nulla. Lo capisco. Ora sei sconvolto, come è giusto che sia. D’altronde, se non ti avessi fermato io, saltandoti addosso con la forza, ora saresti morto là sotto con lei per salvarla.
Dimmi, cosa diavolo ti è saltato in mente, Blake ...?
In questi momenti mi chiedo come tu abbia fatto a sopravvivere fuori di qui, con tutti i pericoli che vi sono per noi di Bliaint fuori dalla sacra protezione del nostro villaggio.
Ma tu non mi hai raccontato nulla di ciò che è accaduto. E immagino che non me lo dirai, vero?
Sei cambiato così tanto. Sento di averti perso e non voglio darmi per vinto così facilmente.
Non voglio che pensi che non mi importi di te e dei sentimenti negativi che provi nei miei confronti, figliolo.
Se mi stai incolpando per lo stato di tua madre, o per non prendermi abbastanza cura di te e Ioan, o addirittura per non far sentire padre Craig accolto come dovrebbe... puoi parlarmene. Possiamo affrontare il discorso insieme – concluse guardandolo, attendendo che, almeno stavolta, gli rispondesse.
Blake tentò ancora, per la terza volta, ma ancora nulla.
A ciò, Rolland abbassò lo sguardo affilitto, sospirando.
- Va bene. Ho afferrato il concetto. Ne parleremo in un secondo momento. Ma sappi che non mi arrenderò. Ora va, e avverti tua madre e gli altri dell’accaduto, con cautela. Si preoccuperanno da morire non appena lo sapranno. Tutto il villaggio sarà in lutto non appena saprà cosa è successo alla piccola Bonnie – concluse rialzandosi in piedi e avvicinandosi agli altri scavatori, per controllare stessero tutti bene.
Blake si ritrovò improvvisamente isolato, in presenza della donna che ancora lo guardava.
Sembrava che ella stesse solo aspettando che Rolland si allontanasse da lui per avvicinarsi lei.
Lo raggiunse a passo svelto e, il ragazzo, involontariamente, nonostante la posizione semisdraiata in cui si trovava ancora, indietreggiò puntando i gomiti sul terreno.
La donna gli si accovacciò accanto e avvicinò il viso al suo.
- Le vostre azioni provocheranno giorni funesti.
Farete del male a coloro che amate continuando ad agire come agite, figlio del Demonio.
Il Nostro Signore vi osserva e non è contento del vostro operato.
Lo state disonorando, state infangando il Suo nome sacro, state danneggiando il Suo dominio.
Voi state cercando di superarlo.
Vi state spingendo troppo oltre e questo vi porterà alla rovina – gli soffiò ad un palmo dal viso.
Blake la guardò sconvolto, volendole rispondere in mille modi diversi ma non essendone in grado.
- State usufruendo della magia proibita che alcuno conosce senza ringraziare il Nostro Signore.
State scoprendo e servendovi di qualcosa di ancor più grande e immenso della magia, di cui non riuscite ancora ad intravedere lontanamente i confini.
La pena a tutto ciò è il rogo.
La pena è il rogo.
La pena è il rogo.
La pena è il rogo.
Smettete di usare la mandragora.
Smettete di cercare la composizione della polvere nera.
Smettete di leggere e scrivere ciò che dovrebbe rimanere celato.
Smettete di cercare qualcosa che non dovete cercare dentro la galleria.
Blake le rivolse uno sguardo incerto e ancor più smarrito a quell’ultima frase.
- Siete intelligente, una caratteristica che porta alla dannazione chiunque non la sappia controllare, a Bliaint.
Placate la vostra fame, la vostra sete e il turbinio che vi anima, e le persone a voi care saranno salve.
Voi sarete salvo.
Blake non potè fare a meno di rivolgerle le parole che voleva dirle, nonostante alcun suono uscì dalla sua bocca, oramai sin troppo abituato a quella sensazione.
La donna, tuttavia, sembrò leggergli il labiale e comprenderlo.
- Sì, esatto: se vostro padre non fosse intervenuto, sareste morto là sotto.
Il fato ha provato a fermare le vostre gesta nella maniera più estrema, a farvi comprendere che dovete cessare ogni vostra pratica. Ma vi siete salvato comunque. Che vi serva da lezione.
Se ho guidato io quella bambina dentro la galleria appositamente per uccidere anche voi con lei, sapendo che avreste tentato di salvarla? Io non posseggo tutto questo potere.
Chi sono non deve interessarvi.
E per quanto concerne la vostra voce ... questa non è una punizione.
Riguardo ciò, siete l’unico che può trovare una risposta a riguardo.
Ora calmatevi, regolarizzate il respiro e alzatevi.
Avete bisogno di riposare, Even Blake – detto ciò, la donna si rialzò e se ne andò, sparendo tra la nebbia.
 
- “Signore, potessi solo vedere il tuo volto
Sono giunto fin qui
Dove una volta incedettero i tuoi demoni
Che videro la terra spalancarsi
La morte non verrà più troppo presto” – pronunciò il piccolo Blake con voce atona, inginocchiato nella posizione che gli avevano insegnato e che era consona ai momenti di preghiera.
Padre Mitcael, uno dei monaci incaricati di istruire nella preghiera e nelle sacre leggi e comportamenti richiesti dal loro Signore i bambini servi del Diavolo, li stava assiduamente controllando, facendo in modo che tutti seguissero attentamente le sue indicazioni, e che ricordassero a memoria ogni parola con la quale avrebbero dovuto invocare il Diavolo.
Stava insegnando loro nuove preghiere, e lo faceva in maniera soave e comprensiva, non era uno di quei monaci che sgridavano i bambini per ogni minimo errore compiuto.
Eppure, come ogni monaco, non sopportava le malefatte, e questo, al piccolo Blake di sette anni non piaceva.
Era buono e dolce solo sin quando ogni bambino seguiva le sue indicazioni senza disobbedire volontariamente.
Blake in quanto a memoria era migliore degli altri bambini e questo padre Mitchael lo sapeva bene, per tale motivo non faceva che lodarlo quando egli recitava ad alta voce le preghiere appena imparate e si ricordava sempre tutto, senza sbagliare una parola, a differenza degli altri bambini.
A Blake non piaceva venire lodato, non per quello.
Non sentiva niente quando pronunciava quelle parole vuote, senza spessore, nè significato per lui.
Continuava a ripetersi che sicuramente da grande sarebbe stato diverso, e avrebbe iniziato a comprenderle, a sentirsele come se le sentivano gli altri.
A Blake non piaceva sentirsi diverso dagli altri bambini.
Ma forse non gli dava tanto fastidio come lo avrebbe dato ad altri.
Avrebbe voluto trovarsi altrove, in mille altri posti diversi, ma non lì, dentro la cattedrale, a imparare preghiere su preghiere che non lo facevano sentire altro che arido.
Una volta, preso dalla noia e dalla curiosità, Blake aveva azzardato chiedere a padre Mitchael che preghiere pregassero i servi del Creatore, e quali fossero le differenze. Era una domanda ingenua, priva di malevolenza.
Solitamente, quando un bambino faceva arrabbiare padre Mitchael, questi si beccava un violento schiaffo in faccia da lui.
Quella volta, Blake ne ricevette sei di schiaffi in faccia, tutti di seguito, per quell’unica domanda.
Quando era tornato a casa con le guance completamente rosse, sua madre si era spaventata a morte ed aveva iniziato a piangere, mentre Myriam si arrabbiò terribilmente col monaco, ma lasciò correre.
A padre Mitchael piaceva anche la sua voce. Glielo diceva spesso, davanti agli altri bambini, provocando le invidie di qualcuno, delle bambine in particolare, che desideravano da sempre avere una bella voce.
Improvvisamente, il piccolo Blake percepì la presenza di padre Mitchael dietro di lui e le sue mani forti poggiarsi sulle proprie spalle.
- Bravo, Blake – lo lodò di nuovo dinnanzi agli altri. – Avete visto, bambini? In questo modo si imparano le preghiere da rivolgere al nostro Signore. Non è così difficile – detto ciò, si abbassò per avvicinarsi al suo volto e sussurrargli fiero: - Continua così, figliolo.
A ciò, Blake riprese, proprio come gli era stato detto, pronunciando quelle parole senza importanza, fin quando non avvertì la presa salda del monaco afferrargli il mento e alzarglielo, per fargli rivolgere il viso verso l’altare del crocefisso al contrario, mentre pregava.
- “Signore, potessi solo vedere il tuo volto
Così il mio cuore non sarà più stanco
Qui io volgo il mio viso verso la tua casa
A cui appartengo e a cui sempre apparterrò
Perchè io sono tuo, anima e corpo
Lunga è la via
E la morte non verrà più troppo presto”
Quel ricordo lontano gli invase le mente, forse proprio perchè era fisso e fermo a fissare il crocefisso al contrario appeso alla parete di casa sua.
Lo guardava con sguardo indefinito, a braccia conserte e con il fondoschiena poggiato al tavolo.
Lo stesso crocefisso che, quando era piccolo, cadendo a terra, aveva provocato l’ammaccatura che svettava ancora sul pavimento, a distanza di anni.
Era caduto a terra improvvisamente dopo ciò che aveva fatto per placare il dolore di Myriam quel giorno, anni prima.
Tutti i ricordi che riguardavano la presenza di Myriam nella sua vita erano annebbiati nella sua mente, per qualche motivo.
Quel pomeriggio, i dubbi e i turbamenti affollavano la sua mente come non mai.
La voce era ritornata, fortunatamente.
Ma ciò che era accaduto con Bonnie e con quella donna alla galleria poche ore prima, quello sarebbe rimasto sempre.
La voce al villaggio si era diffusa, e già vi erano i preparativi per riservare una degna sepoltura alla piccola, non appena il suo corpicino sarebbe stato estratto da sotto le macerie.
Quel pomeriggio voleva portarsi avanti con i suoi esperimenti, ma le parole di quella donna sconosciuta lo avevano bloccato.
Così, si era ritrovato da solo in casa, intento a fissare quel crocefisso per ore intere, senza alcun motivo.
Si era ritrovato solo perchè Rolland era a casa della famiglia di Bonnie, per consolare il padre e la madre della piccola sfortunata, in quanto amico stretto del padre. Heloisa, invece, dopo aver saputo ciò che Blake aveva rischiato, si era disperata e aveva tentato svariate volte di approcciarsi a lui nei suoi modi molesti che Blake odiava, per cercare di capire se stesse bene, davvero bene. Ma Blake l’aveva allontanata malamente. In quel momento, dinnanzi al reale rischio di perderlo, Heloisa sembrava tornata quella di sempre, senza l’opprimente follia che ostentavano i suoi occhi ogni giorno oramai.
Anche Ioan, padre Craig e Quaglia si erano spaventati molto, e gli avevano chiesto di poter rimanere con lui quel pomeriggio, ma Blake aveva rifiutato, dicendo che volesse restare solo, per riflettere sull’accaduto.
A ciò, tutti insieme si erano diretti nelle cattedrali, per pregare e ringraziare i rispettivi signori di aver salvato lui e Rolland da tale disgrazia. Heloisa e Ioan nella cattedrale del Diavolo, e padre Craig in quella del Creatore. Non sapeva con quale dei due si fosse diretto Quaglia, considerando che, nello stato mentale in cui si trovava al momento, egli non credeva in nessun dio.
Non gli capitava mai di ritrovarsi a casa da solo, senza essere disturbato da alcuna voce e presenza.
Era una sensazione quasi ultraterrena, quel silenzio.
Talvolta, sentiva la necessità di parlare solo per appurare che la sua voce ci fosse ancora, e temeva, perchè credeva che quella potesse trasformarsi in una fissazione.
- Cala la luna, cala la luna …
Cala la luna, il cielo la inghiotte … - quella voce improvvisa, un tempo amata e sin troppo familiare, proveniente dalle sue spalle, lo congelò sul posto.
- Cala la luna, cala la notte ... – continuò quella voce femminile, dolce e penetrante insieme, attendendo che egli completasse la canzone.
Trascorsero minuti che parverò secoli, in cui la donna attese, e non mosse un solo altro passo verso di lui.
- Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più.
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù – concluse senza voltarsi a guardarla, restando nella stessa posizione, dandole le spalle.
A ciò, Myriam sorrise, compiendo uno sforzo titanico nel trattenere le lacrime e nel non piombare su di lui e stringerlo a sè per ore intere.
Restò a guardare la sua schiena e si avvicinò lentamente, sedendoglisi accanto, sul tavolo, posando gli occhi sul crocefisso appeso a sua volta.
- Ricordi ancora la canzone che ti ho insegnato – fu la prima cosa che gli disse, dopo anni di assenza ingiustificata. Dopo anni di bugie.
- L’ho insegnata anche a Ioan – rispose lui.
Myriam accennò un amaro sorriso. – Ricordi quando quel crocefisso cadde a terra ammaccando il pavimento? Quando sfruttasti il tuo talento e la tua meravigliosa intelligenza per salvarmi dal mio dolore, quel giorno?
Blake non rispose, restando a fissare l’oggetto.
- Non oso immaginare l’entità dell’odio che provi nei miei confronti, Blake – ripronunciare quel nome fece rinascere in lei delle emozioni seppellite da tempo.
- Non ti odio, Myriam – le rispose con voce piatta.
A ciò, lei si voltò a guardarlo, osservando il suo profilo.
- Come potrei? A te devo gran parte di ciò che sono – aggiunse il ragazzo. – Come sei entrata?
- Ho i miei metodi, lo sai.
Erano giorni che volevo venire da te.
Che aspettavo intrepidamente che fossi solo, per incontrarti.
Ho atteso che tornassi dal tuo lungo viaggio, con pazienza.
In realtà, non è passato un solo giorno, da quando sono stata costretta a lasciarti, che io non abbia provato l’intenso desiderio di tornare da te e di rompere la promessa fatta.
La promessa a cui mi ha costretta ...
- Mia madre – rispose per lei Blake, interrompendola. – Una parte di me lo immaginava. È come se lo avessi sempre saputo, che mia madre ti avesse costretta ad andartene e si sia inventata la menzogna che tu fossi morta in uno sfortunato incidente, per forzarti a non farti più viva.
- Mi ha minacciata di morte, se non avessi acconsentito.
Mi ha minacciata dicendomi che mi avrebbe accusata dinnanzi ai monaci di corruzione nei tuoi confronti, e di usare impropriamente la magia nera su di te.
Accuse che mi sarebbero valse una condanna al rogo.
Per questo ho preferito piegarmi alla sua volontà, soffrire in silenzio per lunghi anni, e aspettare, imparare ad attendere, per poi avere l’occasione di rivederti, in futuro.
Ed ora... ora non mi sembra vero.
- Non sembra vero neanche a me – le continuò a rispondere, senza apparente inflessione nella voce. - Quando mia madre mi disse come fossi morta da bambino... ho pianto, rinchiuso in camera mia, per settimane.
- Non hai neanche una vaga idea di quanto abbia sofferto anche io, nell’abbandonarti.
Ero solo una ragazzina all’epoca. Nonostante sapessi quanto Heloisa mi odiasse, eravate la mia famiglia.
Mi sono sentita di nuovo orfana, per la seconda volta.
Mi sono unita alla compagnia di stregoni eremiti per praticare la mia arte indisturbata e per allontanarmi da te come ero stata costretta a fare, trovando una nuova famiglia, che mi ha accolta con benevolenza.
Sono rimasta con loro, nascosta.
E poi ... due anni fa è accaduto qualcosa: Beitris è tornata nella nostra dimora iniziando a descrivere un giovane ragazzo, per il quale aveva perso la testa in quel periodo.
Quando ti descrisse avevo già capito, ma ne ebbi la conferma quando disse il tuo nome.
Trascorsi quei lunghi mesi in cui tu e Beitris passavate la maggior parte del vostro tempo insieme, al villaggio, con l’amara consapevolezza che mi fossi così vicino, ma di non poterti raggiungere ugualmente.
Intanto, ho continuato a portare avanti le mie volontà, a lottare contro i miei demoni, nella speranza di dimenticarmi di te.
Ma non ha funzionato. Non ho mai davvero creduto e sperato funzionasse, in realtà.
Improvvisamente, in seguito a quelle parole, il ragazzo si voltò a guardarla, facendola rabbrividire di commozione.
- Per quale motivo hai deciso di rompere il giuramento fatto a mia madre? – le domandò. Ora i suoi occhi erano lucidi esattamente come quelli di Myriam, ma ciò durò solo pochi secondi. La corazza che il ragazzo aveva innalzato in quegli ultimi anni, anni in cui era maturato avvicinandosi all’uomo che sarebbe diventato,  era salda, inscalfibile, e Myriam lo comprese. O semplicemente, la crescita lo aveva portato a reagire in maniera diversa alle emozioni.
- Perchè non ce la facevo più, Blake. Ho tentato di colmare il vuoto che sentivo in mille modi differenti, ma non ci sono riuscita – gli rispose allungando cautamente la mano verso il suo viso, in un istinto involontario.
Tuttavia, il ragazzo indietreggiò di un passo, e lei la ritirò.
Sorrise malinconica. – Ricordo che quando eri bambino mi saltavi addosso e mi abbracciavi, ricambiando il mio affetto nella maniera più dolce che conoscevo.
- Non sono più un bambino, Myriam. Ho modi diversi di esprimere quello che provo e di ricambiare l’affetto e l’amore ora.
- Lo so, lo so bene. Ed è giusto così. Ma sappi che, d’ora in poi, voglio essere presente per te.
Voglio far parte della tua vita, accompagnarti, anche se dovrò farlo da lontano, non mi importa.
Voglio esserci.
Il ragazzo acconsentì annuendo e Myriam sorrise di nuovo, spontaneamente.
- Ho saputo anche cosa è accaduto questa mattina alla galleria. Come ti senti, ora? – gli domandò poi.
Rammentando l’accaduto, a Blake tornò in mente la donna di quella mattina, che forse era stata la causa diretta della morte di Bonnie e quasi della sua. Improvvisamente, un’idea gli balenò in testa. – Tu vivi con gli altri stregoni eremiti, nella stessa dimora. Giusto?
- Sì. Ma ho deciso che d’ora in avanti vivrò qui al villaggio, almeno fin quando le circostanze me lo permetteranno.
- Sì, ma sei comunque in stretto contatto con Ephram.
All’udire quel nome, lo sguardo di Myriam si rabbugliò. – Non voglio aver nulla a che fare con quella creatura spregevole. Cosa cerchi da lui?
- Myriam, tu non eri con noi nel viaggio che abbiamo vissuto insieme. Conosco una parte di lui che forse egli non ha mai mostrato, ma ho bisogno di vederlo. Oggi alla galleria è successo qualcosa che...
- ... che cosa? Cosa è successo, Blake?
- Devo parlarne con lui. Lui forse sa chi è la persona che ho incontrato questa mattina. Hai detto che mi sarai accanto e che mi assistiterai se ne avessi bisogno, giusto?
A ciò, Myriam ammutolì, sapendo che avesse ragione.
- Non se si tratta di farti incontrare Ephram. Egli ha sempre e solo pensato a se stesso, al suo tornaconto personale, e pur essendo a capo della compagnia, non ha mai agito per il bene comune. Inoltre, dopo ciò che ha fatto, dopo aver messo in pericolo la vita dei gemelli, e aver scatenato in tal modo la furia di Beitris, facendola uscire di senno, essendo causa indiretta di una ribellione e di una situazione scomoda che potevamo tranquillamente evitarci, sono ancor più decisa a non voler più avere un contatto diretto con quell’uomo. Ha tradito tutti noi, ci ha messi in pericolo, e sarà anche causa dell’imminente morte al rogo di Beitris – disse la strega con tono grave e voce rotta.
Blake fece passare qualche minuto di silenzio, prima di riprendere. – D’accordo. Lo capisco. Se non vorrai riferirgli personalmente che voglio incontrarlo, sarò io ad andare da lui.
- Blake ... – riprese lei. – So della tua voce. La cosa ti preoccupa?
Blake la guardò sorpreso, in risposta. – Non puoi averlo saputo con la tua magia. Gli unici che lo sanno sono Ephram, padre Craig e Quaglia. Non può avertelo detto uno di loro. Come hai fatto?
- È strano. Forse non ci crederai, ma è stata solo una sensazione. Ora che ti vedo e che posso ascoltarti, avverto qualcosa nella tua voce che mi ha fatto pensare inevitabilmente a questo. Sembra impossibile, ma non lo è.
- Non è impossibile – rispose lui. – Mi hai sempre conosciuto meglio di chiunque altro. A quanto pare, almeno questo non è cambiato.
Il cuore della donna si riscaldò nell’udire quelle parole soavi alle sue orecchie.
- A proposito del tuo viaggio e del motivo per cui lo hai compiuto ...
- So cosa stai per dire – la interruppe lui voltandosi, dandole di nuovo la schiena. – Non l’ho fatto per trovare una cura alla malattia di Ioan. Altri motivi mi hanno spinto. Per Ioan ci ho già pensato. Devo solo trovare un rimedio definitivo e non temporaneo al suo malanno.
A ciò, Myriam lo raggiunse di nuovo, ponendoglisi davanti, guardandolo negli occhi seria. – Lo sai che posso pensarci io a guarirlo. Si tratta di un incantesimo molto pericoloso e potente, ma per te lo farei. Con la magia sarei capace di guarirlo subito, senza che tu debba addentrarti in pratiche che non ...
- “Che non”... cosa? – la interruppe lui, già pronto a risponderle per le rime. – Hai sempre creduto che la magia fosse meglio, meglio di qualsiasi altra cosa, ma non è così, Myriam. La magia non porta mai a risultati a lungo termine, è evanescente. Tu ne sei la prova vivente.
Quella frase la spezzò in due, ferendola più di quanto avesse fatto il distacco e il gelo con cui le parlava.
- Non mi fido della magia – insistette lui. – Voglio farcela da solo, senza l’aiuto di pratiche in cui non credo, che non riconosco, e senza dover ringraziare ogni volta un Signore in cui non ... – Blake si bloccò, non terminando la frase, vedendo che Myriam si fosse pietrificata.
- Senza dover ringraziare ogni volta il nostro Signore per avermi dato una potenza che non mi appartiene - terminò. – E il fatto che sia io a pronunciare queste parole, proprio io che sono stato cresciuto da te, è abbastanza ironico, lo so.
- Blake – lo richiamò nuovamente lei, riavvicinandoglisi. – Ciò che stai facendo è molto, molto pericoloso. Lo sai. Te lo ripeterò sin quando non lo avrai compreso appieno. Devi essere cosciente di star camminando già sul bordo del soppalco infuocato agendo in tal modo. Ma, d’altronde ... io non posso fermarti – riconobbe, guardandolo dal basso con gli occhi che pizzicavano di nuovo. – Nessuno può tarparti le ali. Sei sempre stato uno spirito libero, ostinato e benissimo in grado di scegliersi la propria strada e costruirsi il suo destino con le proprie mani, anche da bambino. Per questo ora non posso fare a meno di essere fiera dell’uomo che stai diventando, per quanto ciò mi allarmi notevolmente. Ma sappi che, se vorrai il mio aiuto, lo troverai sempre.
- Myriam..
- Non temere: non ti starò addosso, ti lascerò i tuoi spazi.
Ad ogni modo, per quanto vorrei, non è il caso di chiederti che cosa hai fatto per tutto questo tempo – gli disse ella allontandosi di un passo.
Blake accennò un sorriso in risposta, il primo sorriso che le rivolse dopo anni. – Potrei chiederti anche io cosa significava tutto ciò a cui ho assistito qualche giorno fa, quando sono stato quasi costretto da Judith a creare un siero per far sembrare morto Maringlen; il tutto per proteggere sua sorella da te.
- Riguardo la questione dei gemelli ...
- Non voglio saperlo – la bloccò.
Trascorsero degli attimi di silenzio tra i due, che Blake occupò sedendosi su una delle sedie dinnanzi al tavolo.
- Mia madre con gli altri potrebbero tornare a momenti – la ammonì Blake.
- Non importa.
- Dovrebbe importarti, invece. Da quando ha il sospetto che tu sei tornata, mia madre è uscita completamente di senno.
- Non mi sorprende. È un classico di Heloisa – disse non riuscendo a nascondere del feroce disgusto nella voce. – La sua sola infinita gelosia per il rapporto che avevamo io e te l’ha spinta ad agire in tal modo, facendo soffrire indicibilmente te, l’oggetto del suo amore. Da ciò si evince in modo a dir poco palese quanto la sua mente abbia radici folli e malate. E mi sto trattenendo dal definirla in altri modi e dall’ucciderla solamente per l’amore e il rispetto sconfinati che nutro nei tuoi confronti.
Blake accennò un sorriso tra l’amaro e il divertito in risposta.
- Mi dispice di averti lasciato solo con lei, Blake.
- Perchè? Avresti dovuto, prima o poi. Infondo, lei è mia madre – le rispose risultando più freddo di quanto volesse.
- Già – commentò Myriam abbassando lo sguardo amaro. - Infondo è lei che ti ha messo al mondo. Io sono solo la donna che ti ha fatto nascere. Non sono null’altro.
- Sei stata molto più e lo sai.
- Ed è per questo che lei ha voluto strapparti via da me. Sai, credo che lei non ti senta suo e questo la terrorizza.
- Ma sono suo. Tu lo sai meglio di chiunque altro.
- Lo so. E lo sa anche lei, perchè lo sente. Ma questa paura la sta divorando comunque, a causa del legame che ci unisce.
Blake fece una pausa di riflessione, per poi riprendere. - Perchè per voi è così importante la questione del figlio legittimo e del legame di sangue?
Quella domanda la destabilizzò totalmente, facendole ricordare la frase che il ragazzo aveva pronunciato poco prima, e che l’aveva disarmata.
- Perchè hai detto quella frase poco fa? “Tu sei la prova vivente che la magia è evanescente” – gli domandò.
- Perchè anche io ti conosco, Myriam. E te lo leggo negli occhi. Tentavi di avere un bambino tuo persino quando avevi ancora me, ad occupare le tue giornate completamente, quando mi facevi da madre più di quanto lo abbia mai fatto la mia madre naturale. Eppure, ciò non ti bastava. Non ti basta. Non ci vuole un indovino per capire che, anche in tutti questi anni di lontananza, tu abbia cercato in ogni modo di rendere il tuo ventre fertile, facendo tutto ciò che è in tuo potere, ma fallendo ogni volta. Avendo perduto anche me, la mancanza si è accentuata ancor di più; ma nonostante tutto quello che hai tentato, non hai ottenuto nulla dalla magia. Il tuo Signore non ti ha concesso il dono di avere un figlio tuo – le disse quella dolorosa verità con solenne serietà, sapendo di starla trafiggendo con una lama.
Non gli importò. Voleva porla dinnanzi alla verità.
Myriam non rispose subito, continuando a guardarlo.
- Mi vergogno.
Non passa giorno che non mi vergogni per questa esigenza cieca che sento e che non riesco a controllare. Ho cercato di sopprimerla in ogni modo, credimi.
Ma se ne sta sempre lì, in agguato, a farmi sapere che sono mancante di qualcosa che tutte le altre donne hanno – gli disse riavvicinandoglisi.
- Si tratta solo di questo?
- Sì, Blake. Quello che volevo avere in quanto madre l’ho già avuto e in abbondanza.
Ma la sola idea che io non possa avere ciò che Heloisa ha avuto avendo te, un legame di sangue che tutte le altre donne hanno, senza alcuna fatica, mi avvelena l’anima, da sempre.
- Il legame di sangue non è nulla, Myriam.
Figli e figlie smettono di essere proprietà dei genitori nel momento in cui escono fuori dal loro ventre.
Il problema è che nessuno se ne rende conto.
Noi non apparteniamo a nessuno, solo a noi stessi.
Riconoscerlo renderebbe il mondo un luogo migliore – le disse rialzandosi in piedi. – Ora è meglio che tu vada. Se Heloisa dovesse trovarti qui al suo ritorno ne morirebbe – aggiunse distaccato.
- Tornerò presto – gli promise lei, compiendo un doloroso sforzo su se stessa nel salutarlo.
Ma prima che svanisse dalla casa così come era entrata, Blake la richiamò. – Myriam..
- Sì?
- Sei andata a visitare Beitris ... nelle segrete?
- Non ancora. Non ne ho la forza.
- Neanche io.
Non ce l’ho con te, Myriam, te lo ripeto.
Ma ho bisogno di tempo.
- Ti aspetterò. Ti aspetterò sempre.
 
- “Ho il corpo divorato da una fiamma
I piedi doloranti per il cammino
Poichè invocando il nome di una donna
Le mie labbra non sanno più cantare
Intona al mio amore la tua melodia
Ella è troppo bella perchè un mortale
La vegga o elegga a bene del suo cuore
Ha i capelli legati da foglie di mirto
La sua bocca, fatta per baciare
Per piangere amaramente di dolore
Le sue guance sono come pesche
Il corpo fatto per amore e dolore
I suoi occhi, pallidi fiori percossi dalla pioggia” - lesse la ragazza con un’intonazione magneticamente poetica che solo lei sapeva dare, seduta al tavolo con le gambe accavallate, e l’abituale abito elegante che indossava in ogni circostanza, e toglieva solo per giacere nel suo letto a fine giornata. – Alcune sono scritte in una versione arcaica della lingua poetica che si usava parlare a Blianit. Vi sono diverse parole che non riesco a tradurre neppure io – commentò sfogliando ancora quel tomo di poesie trovato casualmente nella biblioteca durante la catalogazione. – Alcuni versi potrei usarli per integrare il copione che dovrò scrivere e insegnare ai bambini per lo spettacolino teatrale.
- I bambini a quell’età non sono ancora minimamente interessati al corteggiamento. Ioan non sa neanche cosa voglia dire essere attratto da una fanciulla – commentò casualmente il ragazzo a distanza, intento a consultare un tomo di natura del tutto diversa, in piedi.
- Date per scontato che vostro fratello sia attratto dalle fanciulle – replicò con naturalezza Judith, facendo alzare il volto di Blake dalle pagine del suo libro per rivolgerlo a lei. – Vi sarebbe qualcosa di male? - continuò la ragazza.
- Si dà il caso che Bliaint abbia il pregio di essere uno dei villaggi più libertini, almeno su questo – rispose lui, riconcentrandosi sul tomo.
- Dunque cosa ne pensate, della poesia? Non la trovate intensa e tristemente romantica?
- No, trovo che sia eccessivamente zuccherosa.
- La trovate zuccherosa?
- E petulante.
- Oh, Blake ... siete fatto di ghiaccio – commentò con un sorriso esasperato Judith. – Volete che ve ne legga un’altra? Ce ne sono moltissime davvero interessant-
- Oh, no, vi scongiuro! – la supplicò lui contrariato. – Se volete passare il tempo a leggermi quei versi da latte alle ginocchia, me ne andrò seduta stante.
- Siete il solito esagerato!
- A tal proposito: per quale motivo avete voluto vedermi ugualmente questa sera, nonostante vi avessi avvertita che non fossi disposto a continuare le nostre ricerche oggi? – le domandò.
- Potrei porvi la stessa domanda e chiedervi come mai siete venuto qui comunque – gli rispose alzando lo sguardo verso di lui la ragazza, e alzandosi dalla sedia con tranquillità. - Perchè avevamo sin troppe cose da raccontarci, ad ogni modo.
- Considerando che avete passato l’ultima ora a insistere affinchè vi narrassi ciò che mi è accaduto nel mio viaggio fuori da Bliaint, non faccio fatica a crederlo.
- Era necessario che io sapessi. Inoltre, voglio anche capire cosa è accaduto esattamente alla galleria questa mattina. Le voci che girano a riguardo sono incerte e si contraddicono tra loro. Voi ne sembrate molto turbato, e ho la sensazione che non sia solamente perchè stavate per rimetterci la pelle insieme a quella fanciullina. E poi, mi avete detto che avete perso la voce nuovamente questa mattina? Ciò ha a che fare con quello che è accaduto alla galleria? – gli domandò, vedendolo chiudere pesantamente il tomo e avvicinarsi al tavolo a sua volta.
- Non lo so, Judith. Oramai non so più nulla – rispose sospirando. – Tutto ciò che so è che devo parlarne con Ephram.
- Con Ephram?
- Vi era una donna che pregava davanti alla galleria. Suppongo fosse una strega, che ha cercato di maledirmi.
- Dite sul serio..? – gli domandò, avvicinandosi allarmata.
- Mi ha minacciato di terminare i miei esperimenti, i miei studi, le nostre ricerche.
- Per quale motivo?
- Perchè non sono gradite al nostro Signore.
- Cos’ha a che fare il nostro Signore con il nostro progetto per salvare le sorti del villaggio dalla tortura del rogo? La polvere nera non è uno strumento magico.
- Lo so bene. Per come la usava il nonno di Philippus e per come viene usata in Oriente non lo è, ma mi ha fatto intendere che, per come abbiamo intenzione di usarla noi, potrebbe esserlo. Era solo una delle tante accanite che non distinguono le differenze tra alchimia e magia nera.
- Voi le credete? Credete che al nostro Signore non sia gradito ciò che stiamo facendo e che abbia cercato di uccidervi Lui questa mattina, alla galleria?
Il ragazzo si voltò a guardare Judith, alzando un sopracciglio. – Parlate sul serio ...?
- Che cosa ho detto di tanto strano? Sappiamo che i due signori posseggono immensi poteri. Il modo in cui voi parlate e reagite ogni volta che si parla di Loro mi fa intendere che voi faticate quasi a credere nella Loro esistenza – Judith fece quella tremenda supposizione di blasfemia in una maniera del tutto diversa da come l’avrebbe fatta qualsiasi altra persona. Riusciva a parlarne in maniera naturale e non animata dalla cieca devozione, dal sospetto e dall’accanimento che vi era nel villaggio nei confronti di tutti coloro che osassero disobbedire ai due signori. Judith capiva il suo punto di vista ma non lo condivideva, affatto. – Non guardatemi come se fossi così diversa da voi, Blake – disse ella abbassando lo sguardo. – Anche io ho peccato contro il nostro Signore, forse più tremendamente di quanto lo stiate facendo voi mettendo in dubbio la Sua esistenza.
- E come?
- Ho amato e intrattenuto una relazione e un rapporto sessuale con un servo del Creatore.
Quella confessione riuscì a generare un’espressione di pura sorpresa nel volto di Blake.
- Dunque, il bambino è suo..?
- Questo è un altro argomento.
- Un argomento di cui, prima o poi dovremmo parlare, Judith – la ammonì lui.
- Lo so, perfettamente, ed è mia intenzione farlo dato che ho la colpa e il rammarico di avervi coinvolto in tutto questo, nonostante avrei voluto evitarvi questo supplizio, almeno a voi.
- Non avete nessuna colpa, avete solo fatto ciò che era necessario fare, nonchè quello che avrebbero fatto tutti per salvarsi la pelle – rispose lui. – E poi, voletevate informarmene solo perchè mi avete coinvolto..? Avete voluto che vi raccontassi ciò che mi è accaduto in viaggio nonostante non vi riguardasse; ma d’altro canto mi avreste lasciato all’oscuro di una cosa come questa?
- Ho commesso un grave peccato contro entrambi i signori, Blake. Sono due situazioni del tutto differenti.
- Così come è del tutto differente il peccato che avete commesso voi, dettato da un’emozione o un sentimento incontrollabile; da quello che si suppone stia commenttendo io. Io non sono guidato da alcun sentimento puro e potente come il vostro. Semplicemente, quello che avverto io è il vuoto totale, la più completa indifferenza – ammise, credendo che in questo modo l’avrebbe spaventata, ma incontrando invece uno sguardo fermo e serio, da parte della ragazza, che non tradiva alcun timore. – Capite cosa significa ora, avere a che fare con una persona come me, Judith?
- Sì, lo capisco. Ora che ho ancor più chiara la natura dei vostri più reconditi pensieri nei confronti del nostro culto, state pur certo che non mi tirerò indietro – gli disse decisa, avvicinandoglisi. – E non solo perchè ho bisogno del vostro aiuto per completare il progetto, e perchè abbiamo stretto una reciproca alleanza, ma anche perchè nessuno di noi due oramai può negare che sia sorto un surreale rapporto di amicizia tra noi. Un legame forte che, almeno per quanto mi riguarda, non ho mai provato con nessuno prima – gli disse.
Blake rimase in silenzio a ricambiare il suo sguardo, prima di risponderle. – Condivido.
- Ne sono lieta.
- Tuttavia, non mi spiego come non possiate nè giudicare e condannare aspramente la mia credenza blasfema, nè condividerla. Se non la condannate, nè la condividete, allora cosa provate?
- La comprendo e la rispetto, Blake. Io credo nell’esistenza dei nostri signori, credo nella loro influenza sul futuro del nostro villaggio, credo nel potere che il Diavolo è in grado di dare a chi pratica la magia nera. Tuttavia, vi sono molti campi e ambiti in cui sono fermamente convinta che il nostro cammino debba venire delineato dalle scelte dell’uomo singolo, dal nostro volere e libero arbitrio, indipendentemente dall’esistenza di qualsiasi entità ultraterrena. Se esistiamo in questo mondo vi è un motivo. Non siamo stati creati solamente per servire, venerare e adorare ciecamente gli dèi, altrimenti non saremmo così come siamo. Abbiamo un nostro scopo, abbiamo ampio margine di azione, per determinare l’andamento del nostro destino. Se così non fosse, allora non avrei niente in cui credere.
Vi fu un attimo di silenzio, poi Judith riprese. – Per quale motivo esisterebbe una creatura come voi, altrimenti? Una persona animata da una costante sete di scoperta e conoscenza, che vuole spingersi oltre, non importa come e a che prezzo, ma deve farlo. Questo è il vostro sentimento incontrollabile. Non dovreste esistere in questo mondo se fossimo stati creati tutti solo per idolatrare un dio.
- Una persona in cui non crede in nulla – aggiunse lui con un pizzico di amarezza. – Una persona priva della stabilità e della sicurezza che solo la fede in un’entità superiore può donare.
- Non vi angustiate per questo. A mio modesto parere, si tratta di una conseguenza arginabile, di poco conto.
Blake le accennò un sorriso riconoscente in risposta. – Mi sorprendete sempre.
- Anche voi.
- Ad ogni modo, tornando alla questione del vostro bambino: avete chiuso i rapporti con questo servo del Creatore?
- Sì, totalmente. Oramai più nulla ci lega, i miei sentimenti nei suoi confronti sono svaniti, e i suoi ugualmente.
- Bene. Perchè per evitare che vi brucino entrambi al rogo, dovremo essere molto cauti, se vogliamo portare avanti questa farsa – la avvertì. – Intendo dire che, se dobbiamo davvero far credere a tutti che il bambino sia mio e che tra me e voi vi sia un legame sentimentale, e sventare così ogni sospetto, dovremmo metterci molto più impegno rispetto a quello che ci abbiamo messo prima che partissi – sottolineò, facendole intendere ampliamente cosa le sue parole implicassero.
- Mi trovo completamente d’accordo. Appunto per questo mi sento di rivolgervi la stessa domanda: avete qualcuno nella vostra vita che potrebbe ... non essere d’accordo con la nostra frequentazione e relazione pubblica?
- No.
- Ne siete certo? Chessò, Beitris ad esempio. So che tra voi vi fosse qualcosa.
- Judith, oramai mi sto abituando all’idea che Beitris sia più morta che viva. Non è stata decisa la data della sua esecuzione, ma è certo che morirà. E anche se così non fosse e lei non fosse rinchiusa nelle segrete, non avrebbe nulla da ridire, tra me e lei è finita da un po’ e siamo sempre stati molto liberi a riguardo – la informò.
- Bene.
Volevo parlarvi anche di qualcos’altro – tentò la ragazza, prendendo il coraggio di iniziare quel discorso.
- Mi avete già ringraziato per quello che ho fatto per i gemelli, non temete – le disse lui facendola sorridere.
- Lo so, non intendevo quello.
- Cosa, allora?
- Riguardo il modo in cui è stato concepito il bambino ... ricordate qualcosa della notte dei festeggiamenti? Quella in cui tutti noi abbiamo perso la memoria ed è avvenuto uno scambio collettivo di corpi?
- No, non ricordo ancora nulla di quella notte.
- Assolutamente niente?
- Assolutamente niente – confermò il ragazzo sinceramente. – Cosa c’entra quella notte?
- Naren, il servo del Creatore di cui ero innamorata, ci ha raggiunti nel bosco dopo i festeggiamenti. Era presente anche lui quella notte ...
Fu in quel momento che Blake realizzò e sgranò gli occhi. – Non ditemi che vi ha...
Ella annuì. – Non ero cosciente. O meglio ... non ero in me, letteralmente. Qualcun altro abitava il mio corpo.
- Avete iniziato a ricordare?
- Qualcosa, sottoforma di sogno. E quei frammentari ricordi che si presentano nella mia mente... funesti, tremendi, in cui non mi riconosco ... mi stanno destabilizzando molto.
Ho visto il mio corpo dall’esterno, mentre veniva fecondato da Naren.
Da quel momento non ho fatto altro che provare solo intenso odio nei suoi confronti.
Il ragazzo ammutolì dinnanzi a quella rivelazione.
- Volevo chiedervi se ... voi ricordaste qualcosa almeno dal momento in cui vi siete svegliato. Credete sia possibile che i nostri corpi, il mio e il vostro, si siano scambiati?
- Non credo sia possibile. Quando mi sono risvegliato ero vicino a Beitris, lei era sopra di me, lo ricordo.
- Ricordate dei segni in particolare che avete trovato sul vostro corpo al risveglio, che possano ricondurre a qualcosa o fornirci qualche indizio su cosa vi sia successo quella notte?
- Nulla di particolare. Ricordo che sono stato male, ho percepito molto dolore, ed ero ferito.
- Tuttavia, eravamo tutti feriti e molto doloranti dopo quella notte. Quindi questo non ci fornisce alcun indizio.
- Appunto. Non credo di poter essere molto d’aiuto – le confermò lui, scrutandola. – Cos’è che vi turba? Non è solo il fatto  che lui vi abbia violentata, vero? C’è altro?
- Nulla – liquidò la conversazione lei, non volendo più rivivere quelle tremende sensazioni.
- D’accordo. Sarà meglio che vada ora. Devo provare a dormire almeno qualche ora, si sta facendo notte fonda – disse il ragazzo andando a recuperare il suo mantello.
- Blake?
- Sì?
- Non sottovalutate ciò che è accaduto stamani alla galleria e ciò che vi ha detto quella donna.
Fate attenzione.
- Lo farò.
 
Era notte fonda e la tempesta imperversava fuori dalla finestra.
Il giovane Philippus osservò suo nonno mischiare alcune componenti, restando fisso e concentrato sul suo lavoro, come sempre.
Erano settimane che restavano chiusi lì dentro, in quella casa, senza uscire mai.
Oramai l’aria era stagnante e il camino estendeva il suo calore fino a divenire soffocante.
- Nonno? – tentò il giovane Philippus, restando seduto sulla sua sedia, rannicchiato.
- Cosa vuoi, Philippus?
- Non sarebbe il caso di spegnere il fuoco?
- Fuori è inverno, Philippus – rispose l’uomo distaccatamente, come d’abitudine.
Il giovane non osò più replicare, fin quando i due non udirono bussare alla porta.
Le iridi di entrambi, di nonno e nipote, dello stesso colore ceruleo, si catapultarono sulla porta.
Philippus guardò suo nonno, per ricevere tacitamente il suo consenso, poi si recò ad aprire.
Si chiese chi diavolo fosse, a quell’ora della notte.
Solitamente, nessuno nel villaggio bussava alla loro porta, mai.
Philippus non aveva amici.
Il ragazzino aprì la porta, trovandosi davanti una fanciulla della sua età, se non di qualche anno più grande, incappucciata, fradicia e tremante.
- Vi prego... vi prego, gentile signore... non ce la faccio più... – sussurrò ella scoprendosi di poco il cappuccio, giusto per guardarlo in faccia.
Philippus sgranò gli occhioni e rimase fisso a guardarla. Non aveva mai visto una ragazzina, una donna, così da vicino, non avendo appunto amici.
Il cuore cominciò a battergli più forte, e le fece immediatamente spazio per lasciarla passare senza domandarle altro, ma venne bloccato da suo nonno, che ancorò saldamente il piede nello spazio lasciato libero, senza farla entrare. L’uomo la fissò in cagnesco, in modo totalmente diverso da come la stava guardando il giovane nipote. – Che cosa ci fai qui? Da dove vieni? – le domandò in tono informale, come ci si rivolge a una serva.
- Vengo da un villaggio non molto lontano da qui ... sono scappata via perchè ... non ce la facevo più a rimanere lì.
- Che villaggio?
- ... Morag.
A quella informazione, il vecchio spalancò gli occhi. – Capisco perchè sei scappata ora. Tua madre o tuo padre stanno cercando di ucciderti?
La ragazzina mentì, annuendo. – Vi prego... resterò solo per qualche notte, per ripararmi dalla pioggia e riprendere le forze, poi me ne andrò via e non mi vedrete più. Sono giorni che cammino senza fermarmi...
Lo si poteva notare, in quanto aveva gli occhi scavati, tremava, e sembrava stesse per svenire da un momento all’altro.
Philippus fissò suo nonno in trepida attesa che egli la facesse entrare.
Fortunatamente, l’uomo si decise. – Se la tua vita è in pericolo come dici, non mi rimane che ospitarti, straniera. Qual è il tuo nome?
- Selma.
- Io sono Philippus e questo è mio nipote Philippus – disse l’uomo ponendo una mano pesante sulla spalla del ragazzino, il quale sorrise timidamente alla fanciulla.
A ciò, i due la fecero entrare.
Selma venne allietata dall’aria calda che vi era in casa, fiondandosi accanto al camino per asciugarsi e scaldarsi, senza neanche togliersi il mantello e le scarpe fradice.
Il giovane Philippus la raggiunse subito. – Dovete essere davvero molto stanca e affamata. Vi preparo qualcosa da mangiare?
A ciò, la ragazzina si tolse direttamente tutto il cappuccio, lasciando scoperta la sua folta chioma di capelli lunghi, che attirò ancor di più l’attenzione di Philippus.
- Lo gradirei, grazie.
- Bene.
- Philippus – lo richiamò imponente suo nonno, osservando la scena. – Non guardarla come se fosse un’abitante di Bliaint, figliolo! – esclamò ridendo. – Ella è semplicemente una normalissima ragazzina.
- Le abitanti di Bliaint non avremo mai occasione di vederle dal vivo, nonno! – rispose suo nipote sorridendo per la prima volta spensieratamente, dopo settimane.
A ciò, Selma li guardò dubbiosa. – Cos’è Bliaint? – domandò.
- Ma come, non lo sapete..? Il villaggio di Bliaint è famoso in quasi tutto il mondo.
Selma negò con la testa, in attesa di spiegazioni.
- Beh, Bliaint è famoso perchè è un villaggio in cui vivono due fazioni di persone: i servi del Creatore e i servi del Diavolo. Quei pochi che hanno avuto l’occasione di visitarlo, sono rimasti folgorati dai servi del Diavolo. Si dice posseggano una bellezza ultraterrena. E poi, i servi del Diavolo sono autorizzati a praticare la magia senza subirne le conseguenze.
Dopo quell’ultima informazione, gli occhi di Selma si spalacarono di stupore, e in loro si accese una scintilla che non sfuggì al giovane Philippus. In quel momento, capì quale sarebbe sicuramente stata la prossima tappa nel viaggio di Selma.
Quando Philippus ebbe finito di preparare da mangiare, lui e Selma si misero seduti sul tavolino, iniziando a gustare lo spezzatino di carne caldo, mentre il nonno continuava a trafficare con una strana polvere nera, la quale attirò l’attenzione della ragazzina.
- Che cos’è? – domandò ingenuamente.
- Oh ... questa? – chiese conferma il vecchio Philippus, prendendola tra le mani, maneggiandola quasi come fosse oro. – Questa è l’Inferno e il Paradiso uniti insieme, ragazzina.
Quaglia si ridestò improvvisamente da quel sogno, ritrovandosi nella poltrona di casa Rolland, a notte fonda.
Comprese che doveva trattarsi di un ricordo, un ricordo della vita passata che aveva dimenticato, la vita che Blake voleva aiutarlo a ricordare.
Ora sapeva anche quale fosse il suo vero nome. Tuttavia, egli non sapeva e possedeva nulla di quel Philippus, non si riconosceva affatto in lui. Lui ora era Quaglia.
Pose un palmo sulla sua testa, sentendola dolorante.
Quel ricordo improvviso lo aveva destabilizzato non poco, in quanto non riusciva a contestualizzarlo e a collocarlo, poichè non ricordava null’altro.
Tuttavia, apparve distintamente quel qualcosa che Blake e Ephram stavano cercando, il motivo per cui si trovava lì: la polvere nera.
Cercò di capire se riuscisse a ricordare altro, e per farlo, corse nella camera di Blake, dove sapeva fossero tenuti sottochiave gli appunti che il ragazzo aveva recuperato tra le macerie della casa di suo nonno.
Fece meno rumore possibile nell’aprire la porta per entrare, per non rischiare di svegliarlo, ma tirò un sospiro di sollievo non appena si accorse che Blake non fosse ancora rientrato in casa.
Si recò davanti al cassetto che sapeva contenere gli appunti, recuperò la chiave di scorta da sotto il vaso e lo aprì, sfogliando le varie carte, leggendovi dentro formule e scritti senza senso.
La testa iniziò a dolergli ancor di più; tuttavia, per qualche motivo quella calligrafia gli sembrava familiare.
Poi, si rese conto anche di qualcos’altro: si ricordava come si leggesse.
Improvvisamente, un rumore di passi lo fece quasi saltare in aria per lo spavento.
Si voltò verso la porta della camera lasciata socchiusa, e trovò Heloisa in piedi, a guardarlo sull’uscio, con uno sguardo indefinibile. – Che cosa ci fate voi qui ...?
 
 
 
 

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Capitolo 28
*** Gli otto vizi capitali (parte 1) ***


GLI OTTO VIZI CAPITALI (parte 1)
 
ACCIDIA
 
- Voi siete totalmente uscita di senno! – esclamò padre Petrit, cercando di tenere il passo deciso di Judith a grandi falcate.
I monaci del Creatore erano tutti estremamente attoniti e contrariati dalla decisione presa dalla loro pupilla.
Da sempre Judith non si era mai conformata alle regole e alle leggi in maniera standard, ma aveva sempre messo un pizzico di pepe, del proprio temperamento ed estro in ogni azione che faceva o che le veniva detto di fare.
- Oh, suvvia, state esagerando, tutti quanti – rispose con naturalezza ella, inamovibile, continuando a camminare per la propria strada, diretta verso il salone principale.
- Vi rendete conto di quanto destabilizzamento potrebbe destare la loro presenza nella nostra cattedrale?! La cattedrale del nostro Creatore!
- È l’alba, padre, non c’è nessuno nel salone principale. Inoltre, si tratta solo per questa mattina, poi non capiterà più, e terrò sempre le mie lezioni nella cattedrale del Diavolo, per non urtare la vostra sacra sensibilità. E poi ... – proseguì ella arrestando le sue falcate e volgendo lo sguardo verso uno dei monaci. - Sono bambini. Semplici bambini. Non sono demoni in miniatura con un paio di piccole corna che spuntano sulle loro testoline.
- Non è questo il punto!
- Allora dovreste cessare di fare tante storie a mio parere – disse a gran voce lei, rivolgendosi a tutti loro. – Vi siete sempre fidati di me, del mio giudizio e della mia sensibilità, giusto, padri?
I monaci si videro costretti ad annuire.
- Ordunque, mi sembra assurdo che non riusciate ad approvare proprio ora la mia decisione, per una sciocchezza come questa.
Tutto quel trambusto era nato semplicemente perchè quella mattina Judith avrebbe dovuto tenere la prima lezione ai bambini servi del Diavolo che intendevano partecipare allo spettacolino teatrale annuale.
Solitamente, il compito di istruire i bambini, scrivere il copione e assegnare loro le parti spettava ai monaci del Diavolo stessi. Ma, oramai, essendo questi ultimi tutti morti, il compito era stato affidato a Judith, per la prima volta. Era sembrata la scelta più saggia, dato che un tale compito andava affidato ad un uomo o una donna di culto, e che non avrebbero potuto occuparsene i monaci dell’altro culto, in quanto si sarebbe incappati in un problematico dilemma etico. Nessun monaco del Creatore poteva insegnare qualcosa ad un servo del Diavolo e viceversa, pur trattandosi di bambini. Dunque, Judith era la giusta via di mezzo: essendo la protetta dei monaci del Creatore era oramai considerata da tutti alla pari di una donna di culto, e, inoltre, era anche serva del Diavolo. Oltre al fatto che fosse ben acculturata.
Quella prima mattina di lezione avrebbero dovuta tenerla, ovviamente, nella cattedrale del Diavolo.
Tuttavia, quest’ultima era attualmente occupata dalla veglia e dalla preghiera per la prematura tragedia e scomparsa della piccola Bonnie, che aveva riunito un grandissimo numero di servi del Diavolo e che sarebbe perdurata per l’intera giornata.
Dunque, avrebbero dovuto trovare un altro luogo, ugualmente comodo, spazioso e agevole, per fare lezione ai piccoli servi del Diavolo cui i genitori avevano dato il permesso di partecipare allo spettacolo.
E quale luogo migliore della cattedrale del Creatore, totalmente libera alle prime luci dell’alba?
A Judith era sembrata una soluzione ovvia.
Ma i monaci del Creatore che la abitavano con lei non erano dello stesso parere.
Chissà, forse avevano paura che la presenza di quei bambini avrebbe contaminato la sacralità di un luogo dedicato unicamente all’adorazione del Creatore.
Eppure, ai servi del Diavolo non era vietato entrare nella cattedrale del Creatore, e così viceversa.
L’importante era che non compissero atti di adorazione all’altro Signore lì dentro, ma non era quello che avevano intenzione di fare, ovviamente.
Si trattava di una semplice e innocua lezione di teatro.
Perciò Judith trovava davvero inappropriate tutte quelle lamentele e opposizioni da parte dei monaci  che l’avevano cresciuta.
- Sono una serva del Diavolo anche io, vorrei ricordarvelo e sottolinearvelo. Loro sono esattamente come ero io anni fa. Che problema vi è nell’accoglierli qui, dunque? – ribadì. – Vi invito a venire a conoscerli se ne avete voglia, inoltre. Sicuramente si sentiranno più accolti se vedranno anche voi.
Ma ovviamente nessuno di loro fiatò minimamente di fronte a tale proposta.
Già era una conquista averli convinti a farli rimanere lì per la mattinata, pensò amaramente Judith.
Un passo alla volta.
L’unico che decise di seguirla e di assistere a parte della lezione con i piccoli servi del Diavolo, fu padre Cliamon, il quale aveva appoggiato la sua decisione fin da subito, con un sorriso ad ornargli il volto.
Il monaco cieco affiancò Judith nel momento in cui entrarono nella sala principale, trovando gli otto bambini già seduti composti nella navata di destra, intenti a guardarsi intorno incuriositi e in attesa.
- Sono già qui? – domandò Cliamon, non potendo vederli.
- Sì – rispose lei sorridendo intenerita nel guardarli. – Alcuni sembrano davvero piccoli. Avranno massimo nove o dieci anni. Sono curiosi.
- È normale che lo siano. Probabilmente molti di loro è la prima volta che entrano nella cattedrale del Creatore – rispose bonariamente l’uomo.
- Grazie per il sostegno, padre. Come al solito, sei l’unica spalla su cui posso affidarmi, sempre – lo ringraziò lei stringendogli una mano nelle sue, per fargli sentire il proprio calore.
- Non dirlo neanche, cara. Per qualsiasi cosa, sarò sempre al tuo fianco e ti appoggerò.
Non badare agli altri – le disse riferendosi agli altri monaci. – Loro ci tengono molto a te, ma sono ottusi e annebbiati.
- Sì, lo so.
- Inoltre, lo sai che cosa pensano riguardo allo spettacolo annuale per bambini: credono che sia solo una trovata dei servi del Diavolo per mettersi in mostra, per esporsi. Non vogliono che i bambini del loro culto facciano lo stesso. La ritengono una mancanza di umiltà, quasi un eccesso di vanità – disse sconsolato, mostrando chiaramente di non essere d’accordo con la loro opinione. – A mio parere... se avessimo dato sin da subito la possibilità di partecipare allo spettacolo anche ai bambini servi del Creatore, insieme ai servi del Diavolo, avremmo fatto un grande passo avanti verso l’unificazione dei fedeli dei due credi, evitandoci tante sfiducie e diffidenze che vi sono ora. 
- Non potrei essere più d’accordo.
Padre Cliamon voltò lo sguardo verso la direzione che sapeva essere quella in cui si trovava la sala principale. - Dici che si spaventerebbero se mi vedessero? Se vedessero un vecchio mostro seduto accanto a loro? - domandò sorridendo, facendo sorridere anche la ragazza.
- Sono certa che in molti si avvicineranno a voi di loro sponte.
E così fu: quando Cliamon si sedette su un posto della navata di destra, Judith dovette richiamare l’attenzione dei bambini, i quali avevano raggiunto padre Cliamon per riempirlo di domande di qualsiasi sorta.
- Dunque ... eccoci qui. Mi presento: io mi chiamo Arley Judith, sono una serva del Diavolo come voi come vedete, e quest’anno sarò io ad essere la vostra insegnante nello spettacolo teatrale che realizzeremo. Immagino sappiate come mai vi ho detto che ci saremmo incontrati nella cattedrale del Creatore, invece che nella nostra cattedrale, questa mattina.
I bambini annuirono, attenti.
- Vi sembra strano, trovarci qui dentro? – domandò la ragazza, guardandoli con un sorriso furbo, ognuno di loro.
Una bambina alzò la mano per parlare e Judith le diede la parola.
- Questa cattedrale non è tanto diversa dalla nostra. Sono uguali – osservò la fanciullina con un voluminoso cespuglio di ricci color carota, e tante lentiggini ad ornarle il bellissimo visino.
- Hai ragione. Qual è il tuo nome?
- Sorie. Zarah Sorie.
- Bene, Sorie. D’ora in avanti, ognuno di voi mi dirà il suo nome quando vorrà prendere la parola, in modo da imparare molto facilmente i nomi di tutti – disse la ragazza, proprio nel momento in cui il suo sguardo si posò su una nuova figura che era appena entrata nella cattedrale.
La serva del Creatore che Judith oramai aveva imparato a riconoscere, si fece strada nel corridoio intermezzo, osservando incuriosita la scena, a distanza, non aspettandosi affatto di trovare ciò che si stava trovando dinnanzi agli occhi.
Nonostante fosse mattina presto, Judith non aveva fatto i conti con gli orari assurdi in cui Hinedia era solita andare a pregare; memore della prima volta in cui l’aveva incontrata, sempre intenta a pregare di prima mattina, quando gli unici rumori che si udivano nella cattedrale appartenevano solamente allo zampettìo degli insettini che si infilavano sotto i candelabri.
Judith le rivolse un saluto a distanza, che la ragazza ricambiò gentilmente.
Quel gesto di Judith attirò l’attenzione di tutti i bambini, che improvvisamente si voltarono a guardare la nuova presenza entrata.
Subito la ragazza ricatalizzò il loro sguardo su di sè, riprendendo a parlare.
- Prima di iniziare voglio sapere da tutti voi se i vostri genitori vi hanno dato il permesso di partecipare. Se qualcuno di voi è venuto qui senza ottenere il loro consenso, dovrò chiedergli di andarsene e di tornare dalla sua famiglia – dicendo ciò, la giovane donna visualizzò una faccia familiare tra quegli otto bambini, osservandola sorpresa e sorridendogli. – Ioan? Ci sei anche tu? – domandò al fratellino di Blake.
Il fanciullino ricambiò il sorriso in risposta e alzò le spalle.
Intanto Hinedia li guardava interessata, non riuscendo a trovare la concentrazione per pregare, troppo incuriosita da quel gruppetto poco distante da lei.
- Hai il permesso di Blake e dei tuoi genitori di partecipare allo spettacolo? – domandò Judith al fanciullo, considerando che Blake non le avesse accennato nulla della presenza del fratello allo spettacolo.
Ioan annuì con convinzione. – L’ho chiesto sia a mio padre, che a Blake e loro hanno detto di sì. Se vuoi posso ridomandarlo a mio padre. Tanto lui è qui vicino, proprio nella nostra cattedrale, a partecipare alla veglia per Bonnie – le rispose.
- Non serve, ti credo in pieno – gli rispose lei, gioendosi anche della sua presenza. – Ora vi esporrò in breve di cosa tratterà lo spettacolo di quest’anno – iniziò la ragazza. – Ho pensato molto a cosa farvi portare, al copione che avreste potuto interpretare, alla trama, ai personaggi, al testo da cui trarre spunto.
- Lo avete scritto tutto voi?? – le domandò incuriosito un altro bambino, dalla pelle color cacao e i capelli di pece, senza alzare la mano.
- Quasi – gli rispose lei accennandogli un sorriso dolce. – Ho deciso che lo spettacolo che porterete in scena quest’anno sarà sui vizi capitali.
Si udì un verso di esclamazione da parte di tutti i bambini dinnanzi a quella rivelazione.
Rinunciando ai suoi tentativi di concentrarsi, Hinedia prese posto accanto a padre Cliamon, ascoltando interessata a sua volta.
- Come ben sapete, i vizi capitali non sono considerati dei peccati dal nostro credo, il credo del Diavolo. I vizi capitali sono dei vizi insiti in noi, che ogni essere umano possiede, chi più e chi meno, un elemento che ci rende tutti uguali.
Ci tengo a sottolineare, che non esiste un vizio peggiore, migliore, più degenerante o meno. Tutti i vizi capitali hanno la stessa importanza.
Ora vi starete chiedendo dove sono le differenze, dunque.
La diversità sta nella maniera e nella portata con cui ogni uomo e donna vivono, affrontano, subiscono e provano questi vizi. La differenza sta nelle azioni, negli effetti di questi vizi, di tutti, di alcuni, o solo di uno di loro.
I vizi capitali sono dannosi solo quando sommergono la nostra anima, prendendo il sopravvento su di noi.
Come ogni cosa, se dosati bene, non provocheranno alcun male; ma se esagerati e portati all’eccesso, saranno fonte di catastrofi.
Tuttavia, anche reprirmerli completamente, negando la loro esistenza, è altrettanto dannoso.
Bisogna conoscerli e imparare ad accettarli, a domarli, ma anche a lasciarsi domare da loro, nel giusto equilibrio, senza vergogna, nè alcun senso di colpa.
Solo in questo modo riusciremo a conoscerci e a capirci davvero: non negando noi stessi e la nostra natura.
Quelle parole di Judith lasciarono Hinedia totalmente attonita.
- Ora che vi ho illustrato la base dalla quale partiremo, vi spiegherò come avevo pensato di articolare le varie fasi dello spettacolo, la trama e i ruoli.
Sappiate, in ogni caso, che per riuscire ad immergerci completamente in questo spettacolo, in questo periodo di lezioni con me, indagheremo insieme ogni aspetto dei vizi capitali: impareremo a riconoscerli nelle persone intorno a noi, impararemo ad individuarne i rischi, i vantaggi, i lati nascosti, gli effetti inaspettati, come convergono tra loro, come vengono domati ...
Ogni aspetto che li riguarda.
Impareremo anche a riconoscerli in noi.
E non avremo paura di dirlo ad alta voce, di legittimizzarli, senza reprimerli.
Ognuno di voi interpreterà un vizio capitale.
Con mia grande fortuna, siete proprio del numero giusto.
Se foste stati di più o di meno avrei dovuto inventarmi qualcosa per colmare il disequilibrio, ma non sarebbe stato un grande problema.
- Che cosa vuol dire che siamo del numero giusto? – domandò un’altra fanciullina, dubbiosa. – I vizi capitali sono sette e noi siamo otto. C’è una persona in più – osservò la bambina dal capelli corti e neri, in contrasto con la pelle perlacea.
- Ottima osservazione. Forse non ne siete a conoscenza, perchè i testi sacri non lo riconoscono come un vero e proprio vizio capitale. Eppure c’è un ottavo vizio, al pari di tutti gli altri legittimati, di cui dobbiamo prendere coscienza e che dovremmo rappresentare. Non è così inusuale come pensate. Tuttavia, è raro che questo vizio sovrasti gli altri, che sia presente in eccesso in noi.
- Qual è? – domandò incuriosito Ioan.
- Il peccato di Tracotanza, meglio riconosciuto come Hybris.
Gli ascoltatori erano sempre più interessati.
- Il peccato di Hybris è simile e spesso avvicinabile alla superbia, ma non è assolutamente da confondere con quest’ultimo, poichè si tratta di qualcosa di totalmente diverso: nell’antichità si riferiva a un'azione ingiusta che produce conseguenze disastrose su persone ed eventi. Si tratta della brama di andare oltre, di prevaricazione rispetto alla natura, a ciò che ci è umanamente concesso, senza badare alle conseguenze.
Ora, elenchiamoli tutti insieme, per capire se ognuno di noi conosce bene la natura di ogni vizio capitale: dite i vostri nomi ed elencate un vizio a testa, spiegandolo in due parole.
Non servì altro da aggiungere da parte della ragazza, in quanto la sua era una platea di bambini svegli e reattivi: il primo bambino si fece avanti quasi subito.
- Gabe Jogger. Invidia: desiderare ardentemente qualcosa che ha qualcun altro.
- Jydaline Gwen. Accidia: indifferenza, negligenza nell'esercizio della virtù.
- Myreah Dionne. Lussuria: voglia incontrollabile e ricerca del piacere sessuale.
- Lucinda May. Gola: eccessiva fame e ingordigia.
- Christopher Ioan. Ira: rabbia vendicativa che si trasforma in ferocia e violenza.
- Ruben Kilian. Avarizia: morboso attaccamento verso le proprie cose, possessività pericolosa.
- Belinet Edith. Superbia: convinzione della propria superiorità sugli altri, orgoglio e vanità.
- Zarah Sorie. Hybris o Tracotanza: ribellione catastrofica all’ordine delle cose, sfidare la natura.
Judith rivolse loro un sorriso di pura fierezza.
- Bene. Ora possiamo cominciare.
Terminata la prima lezione incentrata sull’illustrazione dell’idea dello spettacolo in sè e sugli otto peccati, i bambini si fermarono un po’ a parlare tra loro, seduti, mentre Hinedia si avvicinò a Judith.
- Allora? Vedo che vi è piaciuta la mia spiegazione, tanto da aver rinunciato a pregare per udire ciò che faremo – la stuzzicò Judith, vedendola sorridere con una rinnovata sicurezza in se stessa che non le aveva visto prima. Doveva esserle accaduto qualcosa, nel corso di quei giorni, per ritrovarla così stranamente più ... solare.
- Mi avete davvero sorpreso - le rivelò Hinedia, guardando i bambini che discutevano e chiacchiaravano tra loro. – Non avevo mai provato a vedere le cose sotto questo punto di vista, che ho trovato decisamente illuminante. Nel nostro credo, per noi fedeli del Creatore, i vizi capitali sono visti in modo totalmente diverso. Vengono condannati aspramente, in qualsiasi forma essi si presentino. Sono considerati il male in terra.
- Lo so bene. Dimenticate che io, talvolta, mi ritrovo a confessare i fedeli del Creatore, sostituendo i vostri monaci – le fece notare Judith.
- Non riesco a spiegarmi come possiate fare.
- A fare cosa?
- A stare da entrambe le parti.
- Io non sto da entrambe le parti, Hinedia. Io servo il Diavolo.
- Lo so.. mi sono spiegata male, non intendevo dire quello – si corresse Hinedia, mortificata. – Intendevo che.. io ho sempre voluto entrare in contatto anche con l’altro Signore, il Diavolo. Non mi fraintendete, io amo il Creatore, e lo voglio servire con tutto il mio cuore. Eppure, ritengo che sia giusto e doveroso da parte nostra rispettare e conoscere nel dettaglio entrambi i credi. Mi sento vicina a entrambi i signori in una maniera inspiegabile, ecco tutto.
Judith si sorprese notevolemente nell’udire quelle parole. Un’idea inusuale le balenò in mente. – Se la tematica desta il vostro interesse, perchè non mi assistete nella realizzazione dello spettacolo? Potremmo insegnare ai bambini insieme.
A quella proposta, Judith vide palesemente mille domande e dubbi affollarsi nella mente della ragazza.
- Ma... ma... io non saprei.
Insomma, io? Ad insegnare a dei bambini servi del Diavolo?
Inoltre... io non so leggere.
E poi... gli insegnamenti di voi servitori del Diavolo sui vizi capitali sono molto diversi dai nostri ...
- La scelta sta a voi – le disse Judith senza metterle pressione. – Io non vi forzerei in nessun modo. Ve l’ho chiesto solo nel caso vi facesse piacere. Ad ogni modo, non preoccupatevi, ho già padre Craig che mi ha offerto il suo aiuto con i bambini, nel caso ne avessi bisogno.
- Padre Craig vi aiuterà e non Blake? Blake non vi assisterà?
Giusto. Oramai tutti erano convinti che lei e Blake fossero una coppia, e Judith doveva ancora abituarsi in pieno a quella consapevolezza.
Non le dispiaceva essere associata a lui spesso e volentieri, data la stima, l’ammirazione e l’affetto che nutriva nei confronti di quel ragazzo pieno di ingegno e di tante altre qualità e caratteristiche che l’attiravano a lui inevitabilmente. Tuttavia, voleva anche mantenere la sua indipendenza in quanto persona.
Non potè fare a meno di chiedersi cosa provasse Hinedia, nel profondo, alla consapevolezza che lei e Blake fossero legati in tal modo, e che egli fosse il padre del figlio che portava in grembo; nonostante la ragazza avesse avuto il sospetto di ciò sin dall’inizio.
Si domandò anche se Hinedia avrebbe risposto e reagito diversamente alla sua proposta di partecipare con lei alla realizzazione dello spettacolo, se solo anche Blake ne avesse fatto parte.
In ogni caso, preferì non stuzzicare il can che dorme, e cercare di non urtare la sua elevata sensibilità.
- No, Blake non mi aiuterà. Ho cercato di convincerlo ad aiutarmi con lo spettacolo, ma se ne è tirato fuori immediatamente – rispose sinceramente, sorridendo al ricordo del ragazzo, il quale non voleva avere nulla a che vedere con quella piccola mandria di bambini.
A ciò, Hinedia pensò nel profondo a quel che avrebbe comportato la richiesta di Judith: assisterla in quello spettacolo avrebbe significato andare contro agli insegnamenti del proprio culto, anche se indirettamente; avrebbe significato mettere in pericolo il suo legame con il Creatore; mentire ai suoi genitori, e probabilmente anche a Naren, che ultimamente le stava chiedendo sempre più spesso di passare del tempo insieme a lui, nonostante lei non sapesse ancora cosa provasse nei suoi confronti.
Di una cosa era certa: non lo amava. E non sapeva se mai lo avrebbe amato.
Non vi era qualcosa di male in lui, tutt’altro, si era mostrato premuroso, gentile, accorto e tavolta romantico.
Eppure, Van Naren in lei suscitava qualcosa che la ragazza aveva paura a nominare ad alta voce, per paura di essere sbagliata: indifferenza.
La stessa emozione che Hinedia stava provando in quel momento, all’idea che i monaci, la sua famiglia, Naren, e chiunque altro avrebbe potuto giudicarla male per la scelta di insegnare a dei piccoli servi del Diavolo che i vizi capitali non hanno nulla di sbagliato.
Era consapevole di star camminando sulle braci ardenti.
Eppure ... stranamente... non le importava.
Geenie Hinedia era indifferente all’idea di innalzare la sua anime e la sua relazione col Creatore, in quanto, per la prima volta, sentiva di poter approfondire quella col Diavolo, che credeva di non potersi mai permettere di avere.
Dunque, non se ne curò.
Non se ne curò di farlo sapere ai suoi genitori, nè a Naren, nè ai monaci del proprio culto.
Se lo avessero scoperto, poco le sarebbe importato.
Lei avrebbe proseguito per la sua strada.
Perchè quell’indifferenza, quella strana negligenza le stava piacendo.
- Sì. Realizzerò lo spettacolo con voi, istruendo i bambini – rispose di getto la ragazza, lasciando Judith attonita, positivamente sorpresa.
- Bene, ne sono felice allora – le rispose lei sorridendole, per poi riportare lo sguardo sui bambini. Alcuni di loro sembravano non poter fare a meno di bisticciare scherzosamente, altri parlavano seri di chissà cosa, mentre altri ancora si limitavano a rimanere in silenzio e ad osservare.
Judith fu felice di notare che Ioan aveva già fatto praticamente amicizia con tutti.
- Avete partecipato anche voi ad uno di questi spettacoli da bambina? – le domandò Hinedia.
- No, in quanto protetta dei monaci del Creatore, essendo loro i miei tutori, non me lo hanno permesso. Non so neanche se Blake abbia mai partecipato da bambino. Non gliel’ho mai chiesto.
Rimasero a guardarli in pace, fin quando qualcosa attirò inevitabilmente l’attenzione di Judith, catapultando il suo sguardo sulla porta d’entrata della cattedrale.
Dei ciuffi di capelli color miele sbucarono da dietro il legno scuro, facendo capolino e illuminando l’intero luogo.
“È ora” mimarono le labbra di Maroine facendole quasi fermare il cuore, di colpo.
Era ora.
Judith puntò lo sguardo su padre Cliamon, ancora seduto, anche se lui non poteva vederla, così come non avrebbe potuto vedere neanche, per l’ultima volta prima di salutarli, i volti delle sue due preziose gemme.
- Perdonami, Hinedia, devo assentarmi.
Devo fare una cosa importante ora.
 
La nebbia era gelida, motivo per cui Judith fece fare un altro giro di sciarpa intorno al collo di Maringlen.
Il ragazzino sbuffò sorridendo, provando debolmente a ribellarsi.
Le sarebbe mancato. Le sarebbero mancati da morire quei ghigni furbetti, quei nasi arricciati e quegli occhi luminosi quanto i raggi del sole.
- Potevate trattenervi un altro po’ e posticipare ancora la partenza – fece un ultimo tentativo Judith, con un sorriso forzato che trattaneva un mare di lacrime. – Ora stiamo organizzando lo spettacolo con gli altri bambini servi del Diavolo. Voi due saresti stati perfetti per questo spettacolo. Ci saremmo divertiti un mondo.
A ciò, Maringlen le sorrise dolcemente. Le tolse delicatamente i guanti e le strinse la mani nelle sue. – Sai che non sarebbe stato così. Noi due non siamo mai andati d’accordo con gli altri. Non sarebbe stato il posto per noi. Avrebbero continuato a trattarci e ad etichettarci come gli orfani figli di stregoni quali siamo – le disse, vedendola vacillare.
- Maringlen ... non siete più costretti ad andarvene da Bliaint. Oramai nessuno vi vuole più morti. Siete al sicuro qui. Molto più che in qualsiasi altro luogo. Io e padre Cliamon vi proteggeremmo..
- Siamo stanchi di vivere come abbiamo vissuto sinora, Judith. Abbiamo bisogno di cambiare, di cambiare luogo, di conoscerci davvero. Non possiamo restare a Bliaint.
Di nuovo un colpo al cuore fece avvertire una lunga vertigine alla ragazza.
- Avete preso tutto per il viaggio? – gli domandò come una madre apprensiva.
- Cibo, acqua, coperte, erbe medicinali... tu e padre Cliamon ci avete rimpinzato le sacche! Ci potremmo sopravvivere per un intero inverno dispersi con tutta quella roba – scherzò il ragazzino.
Ad un tratto, anche Maroine si unì a loro, dopo aver salutato accuratamente padre Cliamon, il quale era ancora in lacrime.
Judith mise una mano anche sulla guancia di lei.
- Vi troverete bene a cavalcare quella creatura bestiale? – domandò la ragazza rivolgendo il suo sguardo sprezzante al cavallo che li avrebbe portati fino al porto.
- È stata una fortuna che il mercante sia venuto qui con quel cavallo! Altrimenti ci avremmo impiegato il doppio del tempo ad arrivare – disse Maringlen.
- E poi, questi giorni di riposo, oltre ad averli passati a riprenderci, a visitare Beitris nelle segrete e a trascorrere il tempo rimanente con te e padre Cliamon, li abbiamo impiegati anche ad imparare a cavalcare. Dovresti vedere Maringlen! È bravissimo a farlo! – esclamò Maroine.
- Siete sicuri che non vi manchi nulla, quindi? Sapete, oggi fa freddo, è inverno, e nel pomeriggio potrebbe-
- Sì, Judith – risposero in coro i due gemelli interrompendola e sorridendo semiesasperati.
La ragazza non lasciò ancora le mani dei due, e impiegò ancora qualche secondo a decidersi a farlo.
Prima di vederli allontanarsi, Maringlen si avvicinò a lei con il volto e le sussurrò qualcosa all’orecchio: - Fatti valere per ciò che sei, Judith. Fallo per noi. Hai un animo molto più buono e luminoso di quello che pensi. Grazie. Grazie per tutto ciò che hai fatto per me e per avermi fatto scoprire me stesso – terminò lasciandole un lievissimo bacio sulla guancia, come una carezza del vento.
Judith lo guardò voltarsi e raggiungere sua sorella, che lo aspettava ai piedi del cavallo.
Improvvisamente, comparve quasi dal nulla anche Myriam, sorprendendoli tutti.
Judith non seppe come potessero reagire i due gemelli alla presenza della strega.
La donna si avvicinò a loro lentamente, per poi fermarsi dinnanzi a loro e osservarli, con quel suo sguardo indefinibile.
- Vi porgo le mie più sentite e sincere scuse.
Non pretendo il vostro perdono, non ambisco a tanto.
Spero solamente che non vi succeda nulla, mai, neanche quando saremo distanti.
Voglio che sappiate che veglierò su di voi a distanza – disse loro porgendo ai fanciulli due anelli, sui quali era incastonata una pietra dal colore magnetico e quasi ipnotico.
Padre Cliamon si chiese ardentemente cosa Myriam stesse facendo.
I gemelli presero ciascuno il proprio anello dalle mani della strega.
- È incantato.
Infilatevelo e indossatelo sempre.
Nel caso doveste avere bisogno di me in futuro, vi basterà sbatterlo violentemente contro una superficie, come se voleste romperlo. Ma non si romperà, e al posto di rompersi riuscirete a mettervi in comunicazione con me e a farmi sapere dove siete – spiegò, per poi vederli infilarseli e salire sul cavallo, uno dietro l’altra.
Li guardò dal basso e i due fecero altrettanto.
- Addio, per ora, faccini d’angelo. Fate buon viaggio.
- Addio, Myriam – le rispose Maringlen.
Dopo di che, i due partirono al galoppo, diringendosi verso le colline, sparendo tra la nebbia.
Judith si avviò quasi immediatamente di nuovo verso la cattedrale, trattenendo le lacrime, ma proprio quando anche padre Cliamon stava per fare lo stesso e raggiungerla, venne fermato dalla voce della strega che lo aveva condannato a quella maledizione.
- Aspetta, monaco.
 
INVIDIA
 
Quella voce.
Che gli ricordava terribilmente la voce di lei. Della sua condanna nella gioventù.
Si erano ritrovati dentro le stanze di padre Cliamon, senza alcuna ragione apparente.
Myriam lo aveva aiutato a salire le scale e ora erano lì dentro. Con la strega che curiosava ovunque.
Aveva avuto modo di osservarla bene, Myriam, prima che questa gli togliesse la vista.
Ed era tanto simile a lei da spaventarlo quasi.
Aveva il suo nome inciso a fuoco nelle sue tempie: Henni Adaira.
La pelle scura, liscissima, gli occhi color carbone intenso, l’ovale del viso che sembrava disegnato da un artista più che perfezionista.
Nonostante avesse avuto tutto il tempo per prepararsi mentalmente all’addio dei gemelli, era ancora scosso tremendamente dalla loro partenza, dall’orrida prospettiva di non vederli più.
Eppure.. eppure ora quella strega era riuscita a catapultarlo completamente verso il suo primo e unico peccato commesso in tutta la sua vita.
Che gli pesava addosso come un macigno, ricordandogli le radici tanto odiate della sua deturpazione.
Myriam gli ricordava di essere sbagliato, di essere peccatore, di non valere nulla, solamente non dicendo nulla, con la sua sola esistenza e l’odio che provava nei suoi confronti.
- Non ti è bastato togliermi la vista per sempre ...? Cosa vuoi ancora da me?
- Oh, non parlare come se ti dispiacesse, monaco – rispose ella, fermandosi dinnanzi allo specchio.
- Cosa intendi ...?
- Non parlare come se ti dispiacesse non essere più costretto alla condanna di guardare costantemente, ogni giorno, tutta la bellezza che ti circonda. Mentre tu sei ...
Cliamon ammutolì, boccheggiando.
L’unico modo per cui Myriam sapesse, era che che fosse presente quel giorno, nella cella, anni prima, quando aveva condannato sua madre, ma era impossibile. Allora come..?
- Sai, monaco, sono brava a leggere le persone. Molti pensano sia dovuto solo alle mie capacità esoteriche, ma non è solo quello. È una dote che mi ha tramandato mia madre – gli disse avvicinandoglisi con calma. – Ti ho fatto un favore privandoti della possibilità di assecondare l’ossessione che ti costringe a guardarti allo specchio ogni sera, e a struggerti per non possedere la bellezza che tanto agogni.
- Smettila.
- Mia madre credeva che la bellezza non fosse solo una dote superflua e “dannata”, come credono tutti. Ella credeva che fosse un dono estramente importante, e che andasse sfruttato sempre,  in tutte le sue sfaccettature, in quanto avrebbe potuto farci guadagnare il mondo. Con un battito di ciglia – ora era talmente vicina a lui da fargli sentire il proprio respiro sulle sue labbra.
- Non puoi vedermi, monaco, ma immagini come sono, vero ...? E sei divorato, divorato ... dall’invidia. Di nuovo. Come lo sei sempre.
I belli si buttano tra le fiamme senza preoccuparsi di venire sfregiati, mentre i mostri hanno l’ardire di guardarsi allo specchio, senza curarsi del dolore che deriverà da ciò.
Ognuno ha il suo giogo da portare – gli soffiò sulle labbra, rivolgendogli quella frase in modo completamente differente da come l’aveva detta a Blake anni prima.
- Cosa vuoi da me...?
- Voglio che pensi alle persone più belle che tu abbia mai visto con i tuoi occhi, da vicino, e che hai potuto ammirare e invidiare più di quanto pensavi ti fosse concesso.
Voglio che pensi a loro, a cosa ti piace di loro, a tutto ciò che invidi di loro, voglio che materializzi i loro visi nella tua mente al minimo dettaglio.
Voglio che pensi a quanto ti piace guardarli ... per immaginarti avere il loro stesso aspetto.
Questo è l’unico sentimento che provi quando parli con loro.
- Non è assolutamente vero! Io provo anche amore per alcuni di loro! Un amore sincero e puro!
- Un amore non dettato solo dal desiderio di continuare a guardarli?
- No, no! Un amore REALE!
- Voglio sapere i loro nomi.
Tutti quanti.
O, almeno, quelli che ricordi distintamente, e che ti sono rimasti così impressi da restare nella tua memoria indelebili, anche ora che la tua vista ti è stata sottratta.
I nomi! – esclamò lei crudelmente.
- Maringlen! Maroine! Judith!
- Questi sono coloro che ti sono più vicini. Voglio i nomi di tutti quanti!
- Blake! Beitris! Myriam! – si bloccò, prima di pronunciare anche quel nome.
- Avanti... dillo. Voglio sentirlo da te.
- Adaira – l’accontentò, tremando nel pronunciarlo.
A ciò, Myriam serrò la mascella, allontanandosi dal suo volto.
Cliamon per un attimo pensò che finalmente avesse deciso di lasciarlo in pace, di smettere di tormentarlo, che fosse soddisfatta.
Si illuse.
- Ho scoperto il tuo vero nervo scoperto, monaco.
I gemelli lo erano, ma lo erano solo in apparenza.
Il tuo vero punto debole è questo – disse la strega con trionfante fierezza.
- Cosa ... cosa vuoi farmi ancora?
- Oh nulla. Ho già deciso di risparmiare le vite dei gemelli, più per egoismo che per pietà nei tuoi confronti.
Sono stata così buona con te che ti ho persino privato della vista della tua immagine riflessa allo specchio, per l’eternità – gli disse sedendosi accanto a lui sul giaciglio. – Ho deciso di metterti alla prova, monaco. La tua personalità mi intriga molto – gli confessò, sorprendendolo non poco.
Quella strega voleva giocare con lui?
D’accordo, si sarebbe sottoposto al suo gioco, non si sarebbe tirato indietro.
- Che tipo di prova?
- Ti farò un dono.
Puoi chiedermi tutto quello che vuoi. Tutto ciò che desideri e io te lo darò con l’uso della magia. Ovviamente nei limiti che la magia mi permettono. Posso garantirti che il campo d’azione è molto esteso, quindi sbizzarrisciti.
- Che cosa...?
- Mi hai sentito bene. Chiedimi qualsiasi cosa.
A ciò, il monaco le chiese la prima cosa che gli venne in mente nel momento in cui la sua lista di desideri si palesò nella sua testa. Una lista molto corta.
- Voglio rivedere Maroine e Maringlen! Li rivoglio qui a Bliant con me. Vorrei averli convinti a restare e che ora fossero qui – disse con convinzione estrema, senza neanche pensare alle implicazioni etiche che avrebbe avuto sulla sua anima sottoporsi alla magia nera.
Oramai la sua anima era già corrotta, il suo rapporto con il Creatore freddo e distante.
A ciò, Myriam sorrise quasi teneramente. – L’unica clausula che ti pongo, è che non avvererò richieste che riguardano i faccini d’angelo.
- Come sarebbe..?! Cosa significa?? Allora farai meglio ad andartene di qui, non voglio null’altro da te!
- Oh, invece c’è qualcosa che vuoi e lo sai bene.
- Cosa vuoi portarmi a dire, Myriam..?
- Sai, io sono in grado di replicare alla perfezione uno degli incantesimi più ambiti – lo informò. – Hai presente il famoso gioco dello specchio? Quello che caratterizza i festeggiamenti di matrimonio dei servi del Diavolo in particolare? Tu non eri ovviamente presente la notte in cui è avvenuto lo scambio di corpi collettivo nel bosco, dopo il gioco dello specchio e i festeggiamenti. Tuttavia, Judith deve avertelo narrato.  Io ho ricevuto un racconto molto confuso e caotico da Beitris a riguardo.
Cliamon riflettè, la testa gli andò in pallone.
Poi, comprese.
- Lo specchio ... lo scambio.. tu puoi ...?
- Sì.
- Tu puoi farmi entrare nel corpo di qualcun altro..? A mia scelta? E quella persona, al contempo ..
- .. Entrerà nel tuo. Oh, non temere, non farai del male a nessuno in tal modo.
Prendilo come un favore che ti faccio, per allietare il tuo animo da un tormento che dura una vita: per un giorno solo, potrai avere l’aspetto che desideri avere da una vita intera.
Giovane, bellissimo, apprezzato, ammirato, venerato dagli sguardi altrui.
Un giorno solo che vale una vita intera.
Inoltre, potrai vedere ancora. Quando sarai nel corpo del prescelto annullerò l’incantesimo che ti rende cieco.
Potrai anche rimanere tutto il giorno a fissarti allo specchio.
Cliamon non credette alle sue orecchie.
La sua mente si svuotò e la brama, una brama che non provava da una vita, iniziò a farsi strada dentro di lui come una malattia.
- Accetto. Mi sottoporrò all’incantesimo dello specchio.
Per un solo giorno – disse in tutta fretta. – Se mi garantirai che non verrà fatto alcun male alla persona che abiterà il mio corpo nel frattempo.
- L’unico male che avrà, sarà quello di ritrovarsi nel tuo corpo, monaco. Hai la mia parola.
- Allora fallo.
- Il malcapitato in questione verrà scelto da me.
- Mi va bene. Qualsiasi servitore del Diavolo andrà bene.
- Bene. Abbiamo raggiunto un accordo – concluse la strega rialzandosi dal letto. – Domani mattina, all’alba, sarai un’altra persona, padre. Riposa bene.
 
 
Quaglia era pensieroso quella mattina, sin troppo.
Solitamente aveva la testa talmente vuota da ogni preoccupazione, che passava il tempo a riempirlo di domande e a commentare ogni cosa.
Erano entrambi seduti sul tavolo della cucina quella mattina, intenti a fare colazione, mentre Blake sfogliava gli appunti del nonno di Quaglia di tanto in tanto, beandosi della sorprendente calma di quest’ultimo.
Non gli domandò se andasse tutto bene o cosa gli stesse passando per la testa di tanto destabilizzante da averlo zittito. Preferì che fosse lui a parlargliene, perciò rimanse in silenzio.
Ad un tratto, Quaglia rivolse lo sguardo su Blake, iniziando ad osservarlo.
- Sapete, in realtà non sono spaventato da voi – se ne uscì con quella frase all’improvviso, alla quale Blake non seppe come reagire. Il ragazzo alzò lo sguardo a sua volta dalle carte e lo guardò incerto, aspettando che continuasse.
- Non sempre, almeno – aggiunse Quaglia accennandogli un sorriso impacciato. – Ad esempio adesso non sono sono spaventato da voi. Sembrate tranquillo e rilassato.
Blake accennò un sorriso divertito a quelle parole.
Quell’uomo era senza speranza. – È normale essere spaventati da qualcuno se la persona in questione è arrabbiata, Quaglia. Soprattutto se qualcuno l’ha fatta irritare particolarmente – gli rispose lanciandogli quella frecciatina con tranquillità, mentre continuava a sfogliare le carte.
- Trovo che siate molto piacevole quando non siete irritato.
- Presto dovrò reimpararvi a leggere e a scrivere – commentò Blake troncando quell’argomento inutile.
- Credo di saperlo già fare – gli rispose come se nulla fosse, provocando un’immensa sorpresa nel viso del ragazzo, il quale si voltò immediatamente verso di lui, sgranando gli occhi.
- Che cosa?? Vi siete ricordato come si fa?? Vi siete ricordato qualcosa?? – gli domandò rivolgendogli un accecante sorriso che non gli aveva mai rivolto prima.
- Sì, ho ricordato ... un episodio. Credo fosse il mio primo incontro con Selma, ma non sono riuscito a ricordare molto altro, purtroppo.
- Ma è fantastico, Quaglia! È un grande passo avanti!
- Davvero..?
- Certo! – confermò Blake continuando a sorridere, contagiando anche l’altro.
Blake gli pose davanti agli occhi gli appunti di suo nonno. – Dunque riuscite anche a leggere cosa vi è scritto qui, giusto?
- Sì, ma ... ci ho già provato, li ho letti, ma non riesco comunque a capire cosa vogliano dire, esattamente come voi – disse sconsolato.
- Non importa! Ci lavoreremo. L’importante è che stiate iniziando a ricordare. Mi sembra quasi impossibile crederci – disse nuovamente il ragazzo, sorridendo ancora trionfante.
- Quando sorridete sembrate un’altra persona, sapete? È molto piacevole guardarvi sorridere.
A quelle parole innocenti di Quaglia, che a quanto sembrava, quel giorno aveva voglia di esplorare la propria emotività, Blake ritornò serio improvvisamente, quasi per smacco.
Ma si sorprese ancora di più quando Quaglia si allungò verso di lui dalla sua sedia, allargando le braccia nella sua direzione.
- Che state facendo..? – domandò il ragazzo ritirandosi indietro e alzandosi dalla sedia come scottato.
- Beh, non è ovvio? Vi sto per abbracciare. Ioan questa mattina mi ha abbracciato prima di uscire di casa, per salutarmi; dunque grazie a lui ho scoperto che le persone si abbracciano quando sono felici, si salutano e fanno pace tra loro. E noi ora abbiamo ristabilito la pace tra noi, Blake. La nostra amicizia merita un abbraccio.
- Cos’è, adesso pensate di sapere tutto riguardo le relazioni umane solo perchè mio fratello vi ha abbracciato? Ioan abbraccia sempre tutti, non per questo dovete farlo anche voi – gli rispose scorbutico, vedendolo poi alzarsi in piedi anche lui e ignorare le sue parole, avvicinandosi ancora con l’imperterrito intento di abbracciarlo.
- Non avete sentito cosa ho appena detto, Quaglia?? Cos’è, devo scappare da voi tutto il giorno ora..? E non mi toccate! – esclamò allontanandosi ancora, frapponendo il tavolo tra loro.
Quella situazione aveva un che di comico e paradossale.
- Avete paura dei contatti fisici? – gli domandò l’uomo.
- Non ho paura dei contatti fisici, Quaglia.
- Allora perchè non mi volete abbracciare? È una dimostrazione di affetto, per farmi capire che anche voi tenete a me.
- Ma non ve ne è alcun bisogno! Non ho paura dei contatti fisici, semplicemente non sono abituato ad abbracciare persone casuali. Soprattutto dal nulla e senza motivo.
- Ma io non sono una persona casuale.
- Quaglia. Se vi avvicinate ancora vi taglio la mano. Sono stato chiaro? – lo minacciò facendolo finalmente desistere dal suo intento di abbracciarlo.
A ciò, i due vennero interrotti, per fortuna di Blake, dal bussare della porta di casa.
Il ragazzo si recò ad aprire, strabuzzando gli occhi nel trovarsi dinnanzi la figura che era davanti al suo uscio.
Il giovane stregone gli rivolse un piccolo ghigno nel rivederlo a sua volta, e si tolse il cappuccio.
Non si vedevano da giorni oramai, da quando erano tornati insieme dal loro eterno viaggio fuori da Bliaint.
- Ephram..? Cosa ci fai qui? – gli domandò sorpreso.
- Caspita, che bella accoglienza! – si lamentò scherzosamente l’altro, entrando in casa prima che Blake lo invitasse a farlo. - Quindi questa è casa tua. Molto carina devo dire. Nel classico stile di tutte le case del villaggio – disse guardandosi intorno e togliendosi il mantello.
- Immagino la tua dimora sia molto più accogliente di questa casa – gli rispose Blake per le rime, reggendogli il gioco. – Come sta procedendo la ripresa della compagnia e il cambio di dimora?
- Non c’è male. Ci siamo stabiliti definitivamente e stiamo cercando di raccogliere i cocci del disastro che Beitris si è lasciata dietro dopo la rivolta.
- I cocci del disastro causato anche dalla tua scomparsa.
Ma prima che Ephram potesse replicare, venne travolto dal caloroso abbraccio di Quaglia, che lo lasciò basito.
- Buon ... giorno anche a te, Quaglia – lo salutò incerto, ma ricambiando comunque l’abbraccio, guardando Blake con espressione interrogativa.
- Sembra una vita intera che non ci vediamo! Sono felice di vederti, Ephram! – esclamò l’uomo staccandosi da lui, facendogli quasi scaldare il cuore.
- Beh, sono anche io felice di vederti, Quaglia. Vedi, Blake? Queste sono le vere accoglienze da riservare ai tuoi ospiti. Prendi esempio! – gli disse punzecchiandolo.
- Oh, lascia stare. Oggi Blake non è dell’umore.
- La volete smettere, voi e la vostra rinnovata sete di affetto, Quaglia? Tutto questo soltanto perchè avete ricevuto un unico abbraccio da un bambino!
- Oh, hai cominciato a rivolgerti a lui in maniera formale, Blake? Avverto della tensione – peggiorò le cose Ephram.
- Beh, è naturale, dato che Blake mi odia.
- Oh, dio! Io non ti odio ... Quaglia. Oggi sei insopportabile.
- Sono felice di vedere che andate d’accordo, da quando vi ho lasciati – disse Ephram ridendo di gusto, mentre Blake avrebbe voluto tagliarsi i polsi per porre fine alle sue sofferenze.
- Dunque, perchè sei qui? – gli domandò il ragazzo arrivando al punto.
- Giusto – si ricompose lo stregone accingendosi a tirare fuori dalla sua sacca un biglietto che porse a Blake. - Myriam mi ha riferito di consegnarti questo – gli disse.
A ciò, Blake lo prese in mano, sorpreso. – È stata Myriam a dirvi di venire qui..?
Ephram annuì in risposta, vedendolo aprire il biglietto e leggerlo.
“Dato che questo è il tuo desiderio, ho acconsentito alla tua richiesta, nonostante mi sia costato molto.
L’ho portato da te, come volevi. Spero che egli possa darti le risposte che cerchi, come speri.
L’ho fatto solo perchè si tratta di te, e per te farei di tutto, voglio che lo tieni a mente.
                                                                                                                              Tua, Myriam”
Blake lo lesse mentalmente e sorrise di sottecchi.
- Che nostalgia! Siamo di nuovo tutti e tre insieme, come ai vecchi tempi. Dunque? – domandò Ephram sedendosi su una delle sedie e addentando un pagnotta che era sulla tavola, avanzata dalla loro colazione, proprio come fosse a casa sua. – Per quale motivo hai voluto vedermi?
Il ragazzo si avvicinò alla tavola. – Alla galleria, la scorsa mattina, quando è avvenuto il crollo e la tragedia della morte di Bonnie ... mi è accaduto qualcosa. Qualcosa di inspiegabile, al quale, forse, tu puoi darmi una risposta – disse diretto, attirando lo sguardo attonito di Quaglia.
- Non me lo avevi detto.. – commentò l’uomo.
- Ve lo sto dicendo ora. A entrambi.
- Dal modo in cui parli sembri allarmato. Se ciò che ti è accaduto è stato in grado di scuoterti sino a tal punto, proprio tu che hai affrontato di tutto là fuori ... allora devo davvero preoccuparmi – commentò lo stregone serio.
- Inoltre ... questa mattina ho anche appreso che Quaglia sta iniziando a ricordare – rivelò, facendo sgranare nuovamente gli occhi di Ephram.
- Davvero ..??
- Solo un episodio sporadico e senza importanza per ora.
- Beh, sembra che abbiamo molte cose di cui parlare.
- Ma non lo faremo qui – li ragguardò Blake. – Mia madre è di là, nella sua camera, e per quanto sia fuori dal mondo e di sè, vorrei evitare che ficchi il naso nelle nostre faccende. Inoltre, Ioan potrebbe tornare da un momento all’altro.
- Non vi è alcun problema. C’è solamente un luogo in cui potremmo andare a parlare di qualsiasi cosa volessimo, senza venire disturbati – commentò lo stregone alzandosi in piedi, già pronto per uscire di casa, per poi rivolgere uno sguardo sornione verso Quaglia. – Ora ti mostreremo la vera classe dei nostri luoghi di svago a Bliaint, Quaglia, molto meglio di quello squallore di locanda in cui siamo stati costretti a fermarci nel viaggio di ritorno. Andremo alla Taverna.
 
IRA
 
Padre Craig camminò sovrappensiero tra la nebbia.
Quella notte aveva fatto un altro di quegli strani sogni, sicuramente appartenenti a quella notte dannata.
Aveva sognato se stesso, visto da fuori, ma che non sembrava affatto lui.
Il non sapere lo stava portando ad impazzire, sempre più.
Continuò a camminare, senza una meta precisa.
Aveva solo bisogno di schiarirsi le idee, per poi recarsi a pregare.
Improvvisamente, scorse una figura familiare camminare placidamente, con in volto un’espressione serena e per nulla turbata, a dispetto di quella che avrebbe dovuto avere.
Provò una rabbia cieca montargli dentro, al solo vederlo camminare allegramente, senza preoccupazioni.
Si rese conto di non aver mai visto Naren dopo ciò che Judith gli aveva rivelato, sui peccati che quello squallido, indecente e impunito ragazzo aveva compiuto quella notte.
Provò un violento fastidio e una sensazione di schifo solo nel guardarlo.
Decise di seguirlo, involontariamente, per capire dove stesse andando.
Lo seguì a grandi falcate, ma senza farsi notare.
D’altronde, grazie al freddo erano incappucciati entrambi, così come ogni abitante per la strada, tanto da non riuscire a distinguire subito i loro volti.
Improvvisamente, si ritrovò davanti all’entrata della Taverna.
Naren entrò dentro e si tolse il cappuccio, prendendo posto su uno dei pochi tavoli rimasti vuoti.
A quell’ora, la Taverna era particolarmente piena.
Padre Craig entrò a sua volta, non sapendo bene come agire.
Era solamente guidato da quella cieca rabbia.
Si tolse il mantello a sua volta, e rimase in piedi, a fissarlo, sull’entrata.
Quell’uomo aveva stuprato Judith, e anche il corpo di qualcun altro, di colui che lei stava abitando quella notte.
Quell’uomo l’aveva ingravidata, mettendola indicibilmente in pericolo, dissacrando la sua dignità in quanto donna, il suo volere, il suo onore. E ora se ne stava alla Taverna, a bere vino e ad ammirare le bellissime locandiere con un sorriso stampato  in faccia.
Quel maniaco,
oltraggiatore,
perverso,
buono a nulla,
inutile,
inetto,
dissacrante,
violentatore,
depravato,
mascalzone.
Improvvisamente, si immaginò intento a strozzarlo nel più violento dei modi, e provò piacere nel visualizzare quell’immagine nella sua mente.
La forza della sua furia, dell’affetto che nutriva per Judith, della volontà di proteggerla e di proteggere altre donne che avrebbero potuto subire il suo stesso destino a causa di quell’essere immondo, lo spinsero a muovere i piedi velocemente verso l’inconsapevole Naren seduto al suo tavolo, intento a bere dal suo boccale.
Si mosse verso di lui velocemente, con le mani che fremevano per stringersi intorno alla sua gola proprio lì, in mezzo a tutti, per mostrare al mondo quanto quel ragazzo fosse putrido.
Neanche la sua ferma razionalità riuscì a fermarlo stavolta.
Ma giusto un secondo prima che compisse il misfatto di cui si sarebbe pentito a vita,  una voce salvifica lo bloccò inconsapevolmente, ponendo la sua anima ai ripari, richiamandolo a sè.
- Padre..? Siete voi? Cosa ci fate qui anche voi? – gli domandò Blake, seduto su uno dei tavoli a qualche metro da lui, avendolo notato di sfuggita e ora guardandolo con un’espressione confusa in volto, ma lieta di vederlo lì.
Improvvisamente, tutta la rabbia che muoveva ogni muscolo del giovane prete scemò, liberandolo da quella presa artigliante, facendolo voltare immediatamente verso Blake, e sorridergli, ringraziandolo internamente di aver bloccato lo scempio che stava per commettere.
 
Padre Craig aveva preso posto sul tavolo in cui sedeva la combriccola di Blake, Quaglia ed Ephram, nonchè lo stregone a capo della famosa compagnia.
Le maggior parte delle cose che sapeva su quest’ultimo provenivano dai racconti di Blake sul loro viaggio fuori da Bliaint. Ad un primo approccio, a padre Craig parve un giovane uomo eccentrico, ambiguo e a tratti presuntuoso.
Non era giunto lì per un motivo preciso il giovane prete, a parte seguire Naren assecondando quella rabbia sconfinata, dunque poteva tranquillamente rimanere lì con loro, nonostante non fosse certo di essere completamente gradito a tutti e tre.
- Dunque la tua voce se ne è andata non appena Bonnie è morta là sotto e la terra ha smesso di tremare.
- Non ricordo con precisione, ero molto confuso in quel momento.
Ephram parve riflettervi su. – Non credo che si tratti di una donna della mia compagnia, dalla descrizione fisica che ne hai fatto. Non so chi possa essere. Ad ogni modo, non è da escludere che abbia ragione: il nostro Signore potrebbe aver deciso di lanciarti un avvertimento.
A tale ipotesi, Blake pose le braccia conserte e alzò un sopracciglio, rivolgendogli uno sguardo a metà tra il divertito e lo sprezzante.
- Non farmi quella faccia. Sei tu che hai voluto il mio aiuto e io te lo sto dando.
- Confermandomi i vaneggiamenti di quella pazza? Sì, sei di grande aiuto.
- Dimmi cosa vuoi sentirti dire e io te lo dirò, Blake – gli disse lo stregone sporgendosi verso di lui sul tavolo, questa volta utilizzando un tono intimo che padre Craig non si aspettava, e che lo lasciò attonito.
- Non sto utilizzando la magia nera. Non l’ho mai fatto e non inizierò a farlo ora. Dunque, il nostro Signore non ha nulla di cui essere in collera con me – gli rispose fermamente il ragazzo.
- Ne sei sicuro? Quali sono i tuoi sentimenti nei Suoi confronti?
Blake non rispose, facendo calare il silenzio, contornato dai forti rumori di sottofondo della locanda affollata.
- Io continuerò con quello che ho sempre fatto sinora.
Non saranno le Sue minacce a fermarmi.
E se tu non hai le risposte che cerco, significa che farò ricadere la faccenda e me ne dimenticherò – disse Blake con determinazione di ferro.
Ephram restò a osservarlo con sguardo indifinibile.
- Non mi sarei aspettato nulla di diverso da te.
Padre Craig si limitò a non commentare, in quanto sapeva che palesare le sue preoccupazioni avrebbe fatto innervosire Blake.
- Inoltre, ora che Quaglia sta iniziando a ricordare il suo passato, la scoperta della formula della polvere nera è sempre più vicina. Nessuno potrà farmi desistere dal trovarla – aggiunse Blake, sorprendendo padre Craig.
- Avete iniziato a ricordare...? – domandò il giovane prete al diretto interessato.
- Giusto qualche sciocchezza – rispose Quaglia. – Ma ho scoperto di sapere ancora leggere e scrivere!
- C’è un modo per facilitare il ritorno della sua memoria riguardo la polvere nera? – domandò Blake a Ephram.
- Non mi viene in mente nulla – rispose lo stregone. – Tuttavia, qualcosa potrebbe esserci.
- Che cosa?? – domandò Quaglia incuriosito.
- Un incantesimo di evocazione.
- Evocazione...?
- Per evocare i tuoi antenati, Quaglia. Forse loro sono a conoscenza delle informazioni che ci servono. E, magari, riusciremo a metterci in contatto anche con tuo nonno, chissà.
L’uomo raggelò in risposta, e così anche padre Craig.
- Potrebbe essere una buona idea. Possiamo farlo già oggi? – disse Blake con infinita naturalezza, facendo impietrire ancor di più i due.
- Certo, non mi servirà molto, sono esperto in questo tipo di incantesimo
- E... questo incantesimo ha mai portato a risultati concreti? – si azzerdò a chiedere padre Craig, quasi balbettando alla sola idea.
- Talvolta. Ma è un processo lungo e difficoltoso. Ci serviranno altre sedute, oltre quella di oggi. L’arte sciamanica della divinazione e dell’evocazione di antenati non è priva di rischi e di vicoli ciechi – rispose Ephram con solennità. - Ci serve un luogo isolato e all’aperto.
- Quale luogo migliore dell’infinita porzione di terreno deserta che sovrasta la galleria di mia proprietà? - propose Blake.
Quella storia stava piacendo sempre meno a padre Craig, che percepì degli spiacevoli brividi risalirgli lungo la schiena. Ephram era uno stregone ed era una persona pericolosa, priva di qualsiasi scrupolo. D’altro canto, il giovane prete posò lo sguardo su Blake, il quale aveva una determinazione di ferro dipinta nei lineamenti del volto, decisi, fermi e risoluti. Ciò lo convinse a prenderne parte, sapendo già che se ne sarebbe pentito prima della fine della giornata.
Voleva stare accanto a Blake in una situazione così pericolosa e cercare di salvare il salvabile, considerando che raramente riusciva a farlo, dato che il ragazzo si cacciava spesso in circostanze scomode e molto rischiose, quasi come se ne fosse dipendente, senza che lui potesse fare nulla per impedirlo.
Tuttavia, fece un ultimo tentativo. – Non è sin troppo rischioso..? – osò chiedere, attirando l’attenzione degli altri tre.
Come temeva, Ephram gli rise in faccia platealmente dinnanzi a tali parole. – Sentite il prete straniero! Come ogni straniero, è terrorizzato dalla magia, tanto da tremare sulla sedia – lo provocò avvicinandoglisi. – Beitris mi ha parlato di voi, sapete? Non capirò mai per quale motivo avete destato la sua attenzione. Ad ogni modo, non temete: sono esperto in queste pratiche e posso garantirvi che non brucerete tra le fiamme dell’Inferno se mi guarderete evocare degli spiriti defunti. Ma siete sempre in tempo a tagliare la corda e a tornarvene a casa se non vi sentite a vostro agio.
- Vengo con voi.
- Bene.
 
Appena giunti tra gli immensi ettari di terreno che sovrastavano la galleria di Bliaint, Ephram iniziò a tirare fuori tutto l’occorrente per compiere il rito di evocazione.
Padre Craig lo osservò entrare completamente nel suo mondo, nel suo habitat naturale: il ragazzo si spogliò del mantello, rimanendo con le braccia nude, scoprendo alcune porzioni di pelle colme dei segni neri tracciati con l’inchiostro che il giovane prete non aveva notato prima. Era imponente, impetuoso e ipnotico mentre, con le sue dita affusolate colme di anelli, si accingeva a prendere un cespuglietto di erbe strane dall’odore acre legato da un laccio, e a dargli fuoco, spargendo i fumi che emanava nell’aria fredda, con eleganza e maestria.
Dopo di che, Ephram infilò due dita in un liquido rosso che aveva pronto dentro un piccolo recipiente di legno, e tracciò sei strisce di quel liquido sulla pelle delle proprie guance, con i polpastrelli.
- Per evocare gli antenati non dovrebbe servire un cimelio di famiglia? Qualcosa appartenuto a loro in passato? – domandò Blake, che li osservava da parte, come padre Craig, ma molto meno sorpreso di quel che il giovane prete pensasse. Era come se il ragazzo avesse già assistito numerose volte a rituali simili a quello, e possedesse ancora alcune delle conoscenze acquisite a riguardo.
- Non è necessario – rispose con calma lo stregone, iniziando a tracciare delle forme strane sul terreno, con un bastone. Delle forme talmente estese da inglobarli.
- Rimanete fuori dal mio tracciamento – esortò verso Blake e padre Craig, i quali fecero qualche passo indietro.
Quaglia, invece, rimase tutto il tempo seduto all’interno delle forme e dei simboli tracciati sul terreno, a gambe incrociate, in attesa.
Non sembrava particolarmente turbato o spaventato da quello che stava per avvenire, evidentemente si fidava ciecamente del giudizio di Ephram e di Blake, nonostante fosse un’esperienza totalmente nuova per lui.
Il giovane stregone gettò il bastone all’esterno non appena ebbe finito di fare il complesso tracciato, e si infilò qualcosa in bocca che padre Craig non riuscì a distinguere, iniziando a masticare.
Attorno a loro, vi era il silenzio, il nulla più totalizzante.
Era come se non vi fosse anima viva per chilometri e chilometri, e loro quattro fossero dispersi in una parte del mondo dimenticata dalle creature vive, morte, e da qualsiasi entità divina.
Ephram si pose di fronte a Quaglia, ma rimanendo in piedi, guardandolo dall’alto.
- Mi serve il tuo nome, interamente.
Fortunatamente, quello lo aveva letto negli appunti di suo nonno, ed era riuscito a memorizzarlo, perciò lo pronunciò ad alta voce, come gli era stato chiesto: -  Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus – Lo stesso nome, per ogni singolo discendente delle famiglia, per generazioni e generazioni.
A ciò, Ephram chiuse gli occhi, parlando ancora. – Affinchè il rito funzioni non vi deve essere paura nel tuo animo. Fin quando il tuo animo sarà infetto dalla paura della morte, non riuscirai mai a incontrare i tuoi antenati – disse Ephram in tono solenne, concentrandosi.
- Non posso garantirtelo – rispose sinceramente Quaglia, e in quel singolo momento, padre Craig lo trovò la reincarnazione della concretezza, anche più di Blake.
- Ci sarà tempo – esalò la voce rimbombante dello stregone, iniziando a pronunciare delle parole in una lingua sconosciuta che spaventò notevolemente padre Craig.
Gli sembrò quasi di assistere ad un esorcismo, mentre osservava rapito e spaventato insieme, lo stregone allargare le braccia e quasi urlare quelle parole arzigogolate e impossibili da pronunciare per chiunque, mentre uno strano potere prendeva possesso del suo corpo e della sua mente, lo faceva sembrare più forte, sovrumano e onnipotente.
Si chiese se ogni stregone di Bliaint apparisse in tal modo mentre compiva un rito o un incantesimo.
Il giovane stregone aumentò la velocità di pronuncia di quella formula, che divenne quasi inumana, mentre alzò il volto al cielo e si sedette improvvisamente, quasi contro la sua volontà, quasi come se una forza esterna avesse artigliato il suo corpo e lo avesse trascinato giù, a contatto col terreno.
Una ventata gelida li colpì inaspettatamente, facendo socchiudere gli occhi infastiditi di padre Craig.
Quando Ephram smise di pronunciare le parole che avrebbero portato a termine il rito, come di consuetudine e d’obbligo, ringraziò il proprio Signore della forza donatagli facendosi il segno della croce al contrario.
A ciò, padre Craig, guardò di sottecchi e cautamente l’espressione di Blake accanto a lui, trovandolo totalmente concentrato sulla scena, ma per nulla intimorito o stralunato, bensì serio e distaccato.
Sembrava non stesse succedendo nulla, quando, ad un tratto, Quaglia sembrò avvertire un tremendo mal di testa, che lo spinge a stringersi i capelli convulsamente.
- Non riesco ... non riesco a raggiungerli ... – sussurrò.
- Devi provarci. Sei solo tu a poterli vedere – gli ordinò Ephram con la stessa voce che avrebbe usato un dio nell’esortarlo.
- Non ce la faccio! Fa male!
- Non devi avere paura della morte.
Non devi avere paura dei morti.
Loro non possono farti nulla, non sono più nel mondo terreno al quale tu appartieni.
Devi cessare di vedere la morte come una digrazia e accoglierla in te come un evento naturale del corso della vita.
Non aver paura.
Non aver paura, Quaglia.
Loro non possono nuocerti – pronunciò solenne Ephram.
Quaglia iniziò a piangere disperato, una visione raccapricciante agli occhi di padre Craig, che lo guardava impietosito senza poter fare nulla per aiutarlo.
Era addirittura peggio di un esorcismo. Per lo meno di quelli a cui lui aveva assistito ad Armelle.
Ma Bliaint non era Armelle, per nulla.
A Bliaint un “banale” rituale di evocazione riusciva a risvegliare i venti e far crollare i cieli.
- Basta, ti prego!! Loro non mi vogliono, non mi vogliono!! – esclamò ancora l’uomo piangendo, in preda al mal di testa.
Padre Craig si voltò immediatamente verso Blake, cercando qualche sorta di aiuto in lui, sperando in un suo intervento.
Il giovane prete lo trovò quasi impassibile. Ma, tutt’un tratto, vide il suo sguardo svuotarsi e i suoi occhi blu piantarsi istantaneamente sull’entrata della galleria semicrollata, sgranandosi.
C’era qualcosa che aveva immediatamente attirato il ragazzo, tanto che spinse padre Craig a guardare l’entrata a sua volta, non trovandovi nulla, tuttavia.
Ora l’attenzione del giovane prete era tutta su Blake.
- Blake ... Blake! Cosa vi prende? – cercò di riscuoterlo afferrandogli un polso, ma il ragazzo si liberò immediatamente dalla sua presa, fiondandosi verso l’entrata come ipnotizzato.
- Blake!!
I suoni e i rumori esterni iniziarono a divenire ovattati alle orecchie del giovane.
Era come se una voce lo stesse richiamando da dentro la galleria.
Una voce tremendamente simile a quella di Bonnie:
- “Oh Vergine grande e potente,
Liberaci,
Salvaci,
Da tutto ciò che è male,
Da tutto ciò che è torbido,
Da tutto ciò che è vermiglio,
Dall’ira di Dio,
Dall’ira del Demonio,
Di un nemico o una nemica,
Di chiunque voglia farci
Ciò che è maligno.” – la voce inconsistente e assordante della bambina stava intonando la litania che avevano utilizzato i sacerdoti e il Giudice mentre lo torturavano con il metodo della vasca di acqua gelida e dei massi, prima che venisse condannato.
Poi, tornò anche la voce dell’urlo della Mandragora che aveva trovato lì sotto, dal nulla:
“La vita non è dei viventi
La vita non è dei viventi
La vita non è dei viventi”
- La vita è solo dei viventi!! – rispose energicamente Blake, avvertendo un tremendo mal di testa scuoterlo e farlo cadere a terra, proprio a pochi passi dall’entrata crollata.
Era estraniato da tutto e da tutti.
Esistevano solo lui e quel buco nero.
- “Il Mostro è dietro di te
Il Mostro è dietro di te
Il Mostro è dietro di te
Ha cercato tutti i suoi pezzi e li ha rimessi per bene insieme
Hanno iniziato a muoversi da soli
Guarda!
Lui è già qui!”
- Blake!! – all’ennesima esclamazione di Quaglia e padre Craig messi insieme, il ragazzo sembrò risvegliarsi dal suo stato di trance.
La canzone intonata da Bonnie era terminata.
Improvvisamente non udiva più alcuna voce attirarlo nella galleria, e aveva ricominciato ad udire i rumori del mondo esterno.
Il ragazzo, ancora seduto a terra, voltò lo sguardo sui tre.
I due stranieri erano mortalmente preoccupati, mentre Ephram lo fissava con un’epressione indefinibile ad adombrargli il volto.
Lo stregone gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi, e Blake l’afferrò dopo qualche istante, tirandosi in piedi, avvertendo ancora diversi capogiri alla testa.
- Il rito di evocazione ... è terminato? – domandò il ragazzo.
- Non ha funzionato. Andrà meglio nelle prossime sessioni che faremo, grazie a molto esercizio. Rimarrò qui per qualche giorno, mi farò ospitare da un vecchio cliente che mi deve un favore, in modo che prossimamente potremo portare avanti le evocazioni – lo informò Ephram, continuando a guardarlo.
- Tu ... non devi più mettere piede qui nella galleria.
Almeno finchè non avremo indagato sulla faccenda.
Sono stato chiaro? – si raccomandò il giovane stregone facendo emergere un velo di preoccupazione nel suo tono di voce.
Era evento alquanto raro e straordinario vedere Ephram preoccupato.
Blake non gli rispose, puntando nuovamente gli occhi sull’entrata della galleria.
- Ho bisogno di schiarirmi le idee. Da solo. Voi due tornate a casa, Quaglia e padre Craig – disse il ragazzo prendendo a camminare senza una meta definita, allontanandosi dai tre.
 
LUSSURIA
 
Padre Craig non riusciva a smettere di pensare a cosa avesse assistito quel pomeriggio, alla galleria, durante il rituale.
Era divenuto il suo nuovo chiodo fisso.
Oramai era notte fonda e Blake non era ancora tornato.
Il giovane prete cominciò a preoccuparsi, dato ciò che era accaduto al ragazzo, che aveva un che di totalmente inspiegabile e terrificante ai suoi occhi.
Si alzò dal letto, incapace di chiudere occhio, con l’intenzione di andare a prendere un bicchiere d’acqua.
Per raggiungere la cucina, passò davanti alla camera di Ioan, trovandolo beatamente addormentato. Sorrise nel guardarlo, e accostò la porta, riprendendo per la sua strada, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare nessuno.
In casa vi erano solamente lui, Ioan, Quaglia ed Heloisa, in quanto anche Rolland era assente, ancora impegnato a portare avanti la veglia per la piccola Bonnie nella cattedrale, insieme agli altri familiari e amici.
Forse anche Blake aveva deciso di prendere parte alla veglia con suo padre, sperò padre Craig.
Si verso un po’ d’acqua con la caraffa e iniziò a sorseggiare assorto, sin quando degli strani rumori non attirarono la sua attenzione.
Si autoconvinse che non fosse ciò che pensava, fin quando quei suoni non divennero inequivocabilmente palesi, facendolo inorridire: sospiri spezzati alternati a gemiti e a qualche verso roco, uno strusciare di abiti, bocche bagnate che entravano in contatto e schioccavano, voci trattenute e attenuate dalle labbra premute sulla stoffa dei vestiti per camuffarne l’intensità.
Il corpo di padre Craig venne invaso da brividi di varia natura, e si mosse da solo, sfuggendo al suo controllo, dirigendosi verso la fonte di quei rumori.
Cautamente, serrò la mano sulla maniglia che dava alla camera dei due coniugi, schiudendo la porta giusto quel poco per osservare la scena che si stagliò davanti ai suoi occhi costernati.
Il formoso e peccaminoso corpo nudo di Heloisa era steso sulle lenzuola bianche, bagnato di sudore e sottomesso ad un altro corpo, maschile.
Un corpo che non era quello di suo marito.
Egli la stringeva possessivamente a sè, gustandone e saggiandone le carni con foga e vigore, come un affamato, senza alcun pudore nè ritegno.
Heloisa si muoveva nella maniera più disinibita e seducente che avesse mai visto, con le sue membra da dea, e il volto cosparso di ricci, sconvolto dal più proibito piacere materiale e terreno.
Lei gli morse una spalla quasi con ferocia, mentre lui spingeva il suo sesso più in profondità dentro di lei, affondando tra le sue cosce spalancate nella maniera più dissoluta possibile, pronte ad accoglierlo in lei con gioia e clamore.
Sospiravano, sospiravano e ansimavano impazienti, famelici e ingordi del corpo l’uno dell’altra e del piacere in grado di donarsi.
Il ritmo era veloce e cadenzato, le stoccate secche, il rumore di bagnato ciò che di più perverso il giovane prete ebbe mai udito.
Improvvisamente, dei ricordi sfocati piombarono nella sua mente nell’osservare quella scena, ricordi di quella nottata maledetta.
Sospiri profondi, molto diversi da quelli di Heloisa, di un corpo sopra e sotto di lui, ma di cui non riusciva a visualizzare nè le forme nè i contorni.
Qualcosa che fu in grado di risvegliare anche i suoi, di bollenti spiriti, facendolgli avvertire il tremendo senso di colpa risalirgli le viscere.
Tornando con gli occhi sulla scena dinnanzi a sè, rimase schifato dall’atteggiamento senza vergogna di quella donna, moglie e madre di famiglia, che compiva tali atti mentre suo marito era fuori casa, col rischio che suo figlio tornasse da un momento all’altro.
Le unghie di Heloisa si conficcarono bisognose sulla schiena ampia e ben formata dell’uomo sopra di lei, fino a quando le sue iridi spiritate non si posarono con terrore sulla figura di padre Craig che li spiava dall’uscio.
La donna urlò, tappandosi la bocca immediatamente, nel ricordarsi che Ioan stesse dormendo qualche stanza più in là.
A ciò, anche il volto dell’uomo che stava commettendo l’atto degradante con lei, colto in flagrante, si voltò verso la porta, mostrandosi, dando finalmente modo a padre Craig di visualizzare anche i suoi lineamenti, nonostante avesse già immaginato chi fosse: Quaglia puntò le sue iridi chiare colme della più travolgente lussuria su di lui, spegnendosi quasi immediatamente.
L’uomo si spostò dal corpo della donna, indietreggiando sul letto, tentando invano di coprire le proprie grazie esposte; mentre Heloisa sembrava troppo sconvolta per possedere la lucidità di afferrare un lembo di coperta e usarlo per coprirsi i gonfi seni e l’inguine umido.
Quegli istanti di silenzio, in cui padre Craig spalancò completamente la porta, come per sottolineare maggiormente il loro peccato, trascorsero eterni.
Il giovane prete li fissò come un crudele giudice senza pietà avrebbe fissato il più sporco dei condannati, schifato, arrabbiato, incredulo, deluso, accusatore.
Ma, sorprendentemente, non geloso.
Un tempo, era convinto di provare qualcosa per Heloisa, che fosse mera attrazione fisica, o persino qualcosa di più. Motivo per cui si era infinitamente autoflagellato per i sensi di colpa, per aver solo lontanamente pensato ad uno scenario simile con lei, che non avrebbe mai e poi mai messo in atto.
Ne era anche uscita quella conversazione ambigua e imbarazzante con Blake, proprio perchè il ragazzo aveva intuito che tra lui e sua madre vi fosse dell’attrazione.
Anche padre Craig stesso se ne era convinto.
Tuttavia, ultimamente, molte delle sue certezze si stavano sgretolando sotto le sue dita, e altre, forse ancor più nefaste e pericolose, stavano prendendo il loro posto.
Il giovane prete si rese conto di non sentire nulla per Heloisa.
Nè alcuna gelosia, nè alcun rimpianto per non essere stato lui stesso a sfruttare le gioie che avrebbe potuto donargli quel corpo quando ne aveva avuto l’occasione.
Non era lei che desiderava.
- Vi prego ... – ruppe il suo flusso di pensieri e il macigno di silenzio creatosi la voce spezzata di Heloisa, che gli rivolse uno degli sguardi più supplichevoli e persuasori che avesse mai visto. – Vi prego, padre ... non dite nulla a Rolland, nè a Blake, o a Ioan.
Vi supplico ...
Sarei disposta a fare qualsiasi cosa per evitare che riveliate ciò che avete visto questa sera.
- Non ve ne sarà bisogno – rispose freddo e serafico il giovane prete, non concedendo loro uno sguardo in più e chiudendosi la porta dietro di sè, tornando nella propria stanza in silenzio.
Avrebbe fatto finta di non aver visto nulla.
Per la quiete, la pace e la già precaria stabilità di quella casa.
 
 

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Capitolo 29
*** Gli otto vizi capitali (parte 2) ***


GLI OTTO VIZI CAPITALI (parte 2)
 
- “ ‘I bambini nella foresta’
Madre: Ti è mai capitato, tutt'a un tratto, di non avere la più pallida idea di come si articola la parola «Moglie» o «Madre»? Perché se provi a scriverla non riesci a ricordare di aver mai visto quelle lettere una dietro l'altra? Per tutta la vita si vive così vicino alla verità che essa diventa come un'ombra permanente e indistinta nella coda dell'occhio, e quando qualcosa ne fa risaltare i contorni è come essere assaliti a tradimento da un essere grottesco..” – lesse il ragazzo, alzandosi in piedi mentre reggeva il libro, riflettendo su quelle parole.
Hinedia lo guardava assorta, come sempre, ragionando anche lei su ciò che sentiva.
La scorsa volta che si erano incontrati, quando Blake aveva iniziato a leggerle quel libro di fiabe che lei aveva comprato, alla locanda sopra la galleria, prima di salutarsi la ragazza gli aveva chiesto quando si sarebbero potuti ricontrare e dove, per continuare la lettura.
Blake le aveva risposto che sarebbe andato bene anche incontrarsi a casa sua, e che non avrebbe recato fastidio.
Hinedia pensò che la imbarazzasse oltremodo entrare nella casa di servi del Diavolo, e, per di più, dover spiegare ai genitori del ragazzo lo strano motivo per cui si trovasse lì.
Eppure Blake l’aveva rassicurata, dicendo che se fosse venuta di prima mattina, sarebbe stato probabile che non avrebbe trovato quasi nessuno in casa, a parte lui, suo fratello, e forse Quaglia, che non avrebbe costituito un problema, in ogni caso.
Quella mattina, fortunatamente, Heloisa aveva deciso di alzarsi all’alba e di unirsi insiema a suo marito alla veglia per Bonnie, la quale stava ormai durando da più di tre giorni.
Quaglia stava ancora dormendo come un ghiro, così come Ioan; mentre padre Craig si era recato presto alla cattedrale del Creatore a pregare, come di consuetudine.
Nell’altrio della casa, impegnati in quella lettura, vi erano solo loro due.
Era da quando gli aveva bussato alla porta quella mattina, e lui le aveva aperto, permettendole di entrare, che Hinedia non si sentiva del tutto a suo agio in quella casa, con il crocefisso al contrario che pendeva alle sue spalle. Tuttavia, la ragazza sapeva che la colpa del suo disagio era dovuta solamente alla bigotteria e alla ristrettezza di atteggiamento che veniva imposto agli abitanti di Bliaint di entrambi i credi, nei confronti dei fedeli del culto opposto. Non vi era nulla nel comportamento di Blake o nell’ambiente circostante che la mettesse davvero a disagio, anzi, il tutto la faceva sentire stranamente bene, felice quasi.
Felice come non lo era mai stata.
Felice di starsi finalmente acculturando un po’, scoprendo cose nuove, facendo qualcosa di diverso, che non avesse a che fare direttamente con l’adorazione del Signore.
Felice, soprattutto, di starlo facendo con lui, realizzò, abbassando lo sguardo, avvertendo di nuovo quel fastidioso senso di colpa attanagliarle lo stomaco, ricacciandolo subito via.
La ragazza lo guardò di nuovo, mentre era impegnato a scrivere, concentrato, rendendosi conto che egli avesse continuato a leggere e che lei si fosse persa nei suoi pensieri nel frattempo.
- Che cosa state scrivendo? – gli domandò sorseggiando il suo infuso caldo.
- Mi sto annotando le parti più interessanti della narrazione – le rispose scrivendo svelto.
- Potreste rileggere l’ultima parte, per favore? Me la sono persa – gli rivelò timidamente, sorridendo colpevole.
A ciò, Blake alzò lo sguardo su di lei. – Dove siete rimasta?
- Al “è come essere assaliti da un essere grottesco” se non ricordo male.
Blake tornò al punto che lei gli aveva indicato e riprese:
- “Madre: Ascolta, marito mio, domattina all'alba prendi i bambini, dai un pezzo di pane a ciascuno e portali fuori nel bosco, proprio nel mezzo dove è più folto, poi accendi un fuoco e vai, lasciali lì, chè da mangiare non ce n'è più.
Padre: No, moglie mia, non ho cuore di dare i miei figli in pasto alle bestie feroci, nel bosco li divorerebbero subito.
Madre: Se non lo fai moriremo di fame tutti insieme. Non ti darò tregua finchè non mi dirai di sì – Blake si fermò per un attimo. – Credo che da qui in poi la madre si stia riferendo a sua madre – disse, per poi riprendere la narrazione. - Madre: Ricordo quando sedevi accanto a me, e quando giravo la testa vedevo la luce dalla finestra, proprio come qui dove mi trovo adesso, ma là non c’era il mio ginepro odiato.
Questa mattina, all’alba, abbiamo preso i bambini, abbiamo dato un pezzo di pane a ciascuno di loro e portati nel bosco, proprio nel mezzo, dove è più folto. Abbiamo acceso un fuoco e li abbiamo lasciati lì, soli. Sapevi che si può detestare un albero? Una volta, in un altro tempo, con le mani ti ho circondato la testa per salutarti, la sua forma mi è rimasta come un marchio sui palmi, anche le mani hanno memoria. Queste mani hanno esplorato ogni punto del corpo dei miei figli. Vedo i loro occhi accanto alla finestra e non posso dimenticarli, il loro sguardo mi imprime una parola che prima non conoscevo: colpa. Il nostro segreto, mio e di lui, lo avvolgeremo ben stretto in una foglia e lo mangeremo guardandoci fissi negli occhi.”
Hinedia percepì nuovamente le lacrime pungerle gli occhi, ma cercò di trattenersi, per non rovinare la lettura di Blake. Il ragazzo prese a scrivere di nuovo, ad annotarsi qualcosa.
Nonostante Hinedia non potesse comprendere cosa scrivesse, trovò ipnotico osservare i movimenti delle sue mani esperte che scrivevano a velocità incredibile su quel foglio, con quella calligrafia bella, pulita e spigolosa.
- Sembra che la madre si sia pentita di aver abbandonato i figli nel bosco. Allora, perchè l’ha fatto? - domandò la ragazza.
- All’inizio lei dice che non ricorda come si articolino le parole “moglie” o “madre”. Ho la sensazione abbia perso se stessa. Non sa più chi è e chi vuole essere.
- Per questo sta parlando in tal modo a sua madre, forse. Sta iniziando ad odiare tutto ciò che l’ha resa madre.
- Forse il suo desiderio di abbandonare i figli non era dato soltanto dalla fame che stavano soffrendo, ma era qualcosa che lei avrebbe voluto fare dal profondo del suo cuore, per disfarsi di loro.
- Ma è terribile .. – commentò Hinedia.
A ciò, Blake alzò nuovamente gli occhi su di lei, risedendosi sulla sedia e poggiando la schiena allo schienale.
- Perchè dite così? – le domandò, come se la ragazza avesse detto qualcosa di strano.
A tale domanda, Hinedia si ritrovò spiazzata. Fissò con sorpresa i suoi occhi impenetrabili e stanchi, notando ancor di più le occhiaie scure che imperavano sul viso del ragazzo. Non che non le avesse notate anche prima; in quanto, quando egli le aveva aperto la porta, lei aveva immediatamente puntato gli occhi sul suo volto ancora quasi più addormentato che sveglio, con le palpebre semichiuse, il sorriso stanco e la sonnolenza che permeava i suoi meravigliosi lineamenti. Aveva l’aspetto di qualcuno che aveva passato l’intera notte in bianco.
- Beh ... perchè, da come siamo sempre stati cresciuti, per lo meno qui a Bliaint, è naturale e necessario che i genitori amino i propri figli, più di se stessi. E che vogliano tenerli vicini, proteggerli, guidarli – rispose con scontatezza.
- “Necessario” – ripetè quella parola il ragazzo, riflettendo tra sè. – Questo è quello che i vostri genitori hanno sempre fatto con voi, suppongo.
Hinedia rimase sconvolta ancora una volta. Che genere di rapporto vi era tra Blake e i suoi, di genitori, per farlo ragionare in tal modo? – I vostri genitori non lo fanno..? – azzardò a domandargli, vedendolo voltare lo sguardo altrove distrattamente, riflettendo assorto.
- Forse la penso in modo differente da voi perchè la mia visione delle cose si è allargata, dopo aver visitato un villaggio chiamato Morag, lontano da qui. Tuttavia, credo di averla sempre pensata in questo modo, anche prima del mio viaggio – realizzò il ragazzo. – Insomma, mettere al mondo un figlio non comprende necessariamente amarlo. Solo perchè è sangue del proprio sangue. Per quale motivo si dovrebbe amare qualcuno per una questione di sangue, o di appartenenza?
- Ma gli scritti sacri ci insegnano che dobbiamo ...
- “Dobbiamo”, avete detto bene. “Dobbiamo amare i nostri genitori” e “I genitori devono amare i propri figli”.
Blake stava mettendo in discussione tutto tramite quel discorso, e Hinedia se ne stava spaventosamente accorgendo. Erano discorsi pericolosi, più pericolosi di quanto trovarsi nella casa di un servo del Diavolo e passare del tempo con lui di nascosto già non lo fosse per lei, si rese conto.
Tuttavia, ammise amaramente a se stessa che, per quanto quelle rivelazioni pregne di un glaciale cinismo la spaventassero, il discorso del ragazzo non faceva una piega, dovette riconoscere.
Filava liscio come l’olio, e questa, era la consapevolezza più terrificante.
- Cosa accadrebbe se i nostri genitori non ci amassero? O se noi non amassimo loro? Cosa accadrebbe se ci comportassimo come vorremmo in realtà comportarci, senza seguire le regole stabilite, le regole che una presunta “natura” ci impone?
Hinedia delutì a vuoto in risposta.
Voleva rispondergli, lo voleva davvero.
Ma si trovava atterrita in quel momento, priva di certezze, in quanto il ragazzo dinnanzi a lei gliele aveva tolte con la stessa facilità con la quale avrebbe bevuto un bicchier d’acqua.
- Dovremmo amare perchè lo vogliamo, state dicendo. Giusto..? – riuscì a trovare il coraggio di rispondergli.
Egli annuì.
- E se non amassimo chi ci appartiene perchè ci appartiene.. non vi sarebbe nulla di male – continuò lei, cercando di nuovo conferme da lui, che arrivarono ancora.
- Trovo triste e degradante amare qualcuno perchè è mio. Perchè vorrebbe dire che, se non fosse mio, non lo amerei. Ma questo è l’intero senso che racchiude l’amore genitoriale. Dunque, trovo degrandante l’amore genitoriale, non posso dire altrimenti.
Hinedia impietrì di nuovo, ma non si lasciò intimorire come poco prima.
Voleva sapere di più, voleva conoscere tutto di lui, di ciò che pensava, che credeva, che gli passava per la testa in quel momento e in altri.
Perchè quel modo di pensare tanto cinico la terrorizzava e al contempo le piaceva, attirandola?
- State bene..? – gli domandò ad un tratto, riattirando la sua attenzione su di lei con quell’improvvisa domanda.
- Perchè me lo chiedete?
- Perchè vi vedo molto stanco. Non avete dormito questa notte?
La domanda di Hinedia venne lasciata senza risposta, in quanto i due vennero improvvisamente interrotti dall’ingresso di Ioan nell’atrio.
Uno Ioan ancora mezzo addormentato e in camicia da notte, che si stropicciava gli occhi sbadigliando.
- Even..? – lo richiamò il fanciullino in un sussurro, non rendendosi inizialmente conto che vi fosse un’altra persona nella stanza. – Facciamo colazione..?
- Buongiorno, gnometto. Ora la preparo anche per te.
Hinedia lo riconobbe immediatamente dal giorno prima, avendolo visto alla prima lezione per lo spettacolo annuale con gli altri bambini.
Anche Ioan, ora avvicinatosi al tavolo, sembrò accorgersi di lei e riconoscerla. – Ma ... ma voi siete la serva del Creatore che ieri mattina era con noi alla lezione di Judith! – esclamò sorpreso, poi sorridendole con una tale dolcezza che le scaldò il cuore.
- Sì, sono io. Buongiorno anche a voi, Ioan – rispose lei ricambiando il sorriso.
- E siete anche la ragazza che c’era quella notte, quando Blake è ritornato al villaggio! – esclamò il ragazzino prendendo posto nella sedia lasciata vuota da Blake, il quale si era alzato per preparargli due uova e un po’ di latte, lì accanto.
Hinedia rimase sorpresa che si ricordasse anche di quell’episodio. – Sì, sono proprio io.
- Christopher, non iniziare a riempirla di domande – si raccomandò il ragazzo, muovendosi esporto nella cucina.
- Oh, no, per me va bene, non mi dà alcun fastidio – lo rassicurò lei, sorridendo ancora al ragazzino.
- Vi chiamate Hinedia, giusto?
- Sì, esatto?
- Even, lo sai che Hinedia sarà la nostra insegnante nello spettacolo annuale di noi bambini servi del Diavolo insieme a Judith? Ce lo ha detto Judith ieri – lo informò innocentemente felice il fanciullino, facendo ricoprire di rossore il viso della succitata per l’imbarazzo.
A ciò, sorpreso, Blake distolse per un attimo gli occhi dalle uova che cuocevano, per voltare di poco il volto verso di loro. – Davvero?
- Sì... beh... è stata una scelta che ho preso su due piedi, all’improvviso, dato che la vostra compagna, Judith, mi ha chiesto di darle una mano con lo spettacolo. Ho deciso di accettare, sì – spiegò la ragazza timidamente.
- Non dovete vergognarvi – la spronò il ragazzino sorprendendola. – Sono sicuro che sarete una brava insegnante. Sembrate molto dolce, almeno quanto Judith, e mi sembrate simpatica – gli disse, facendola praticamente sciogliere sulla sedia per la tenerezza.
Ioan la guardava con quel sorrisino a trentadue dentini, i capelli più biondi del sole stesso e gli occhi più puri e limpidi del ghiaccio. Era quasi accecante, per quanta energia positiva emanasse e dispensasse a chiunque, illuminando l’ambiente circostante.
Il ragazzino dimostrava qualche anno in meno a causa della sua costituzione gracilina e sottile, a differenza di Blake, il quale dimostrava almeno diciotto anni, nonostante ne avesse sedici.
Quest’ultimo si riavvicinò al tavolo, posando il piatto con le uova e la tazza con il latte fumante dinnanzi a Ioan, facendo poi per sedersi su un’altra sedia, ma il fratellino fu più veloce e scattò in piedi, aguzzando l’olfatto affamato grazie al buon odore della sua invitante colazione.
- Posso sedermi sopra di te? – chiese al fratello, facendo gli occhioni da cucciolo di gatto e sbattendo le ciglia.
Blake roteò gli occhi al cielo e sbuffò fintamente spazientito, poi sorridendogli e prendendo posto sulla sedia, lasciandolo sedere sopra le proprie gambe, accondiscendente.
Ioan iniziò a mangiare di gusto.
- Che state facendo qui insieme? – domandò mentre stava finendo di masticare.
- Non parlare a bocca piena – lo riprese Blake.
A ciò, Ioan terminò di masticare e ripose la stessa domanda. – Che state facendo qui insieme?
- Stiamo leggendo.
- Per l’esattezza, lui legge e io ascolto – disse Hinedia sorridendo di nuovo e bevendo il suo infuso.
- E cosa le stai leggendo, Blake?? Perchè non leggi qualcosa anche a me? A proposito, è una vita che non mi fai una delle tue lezioni di lettura e scrittura! – si lamentò il fanciullino.
Hinedia sorrise e Blake accennò un sorriso stanco, scusandosi con lo sguardo. – Presto ne faremo una, Christopher. Sai che sono stato molto impegnato ultimamente.
- Vedi di non esserlo più. Oggi passerò tutto il giorno insieme a Quaglia? Padre Craig dov’è?
- Credo tornerà all’ora di pranzo.
- Perchè non fai una lezione di lettura e scrittura anche a Hinedia? Così può imparare anche lei – chiese genuinamente il ragazzino, facendo insorgere nuovamente un’espressione di imbarazzo nel volto della serva del Creatore.
- Lei non è ancora sicura di voler imparare, Ioan – gli rispose cautamente lui. – Magari un giorno vorrà imparare anche lei, ma se ora non vuole, non puoi costringerla.
Hinedia lo ringraziò internamente, sorridendo di sottecchi.
- Dunque, dove eravamo rimasti? – ritornò al tema principale Blake, mentre anche Ioan attendeva con ansia che riprendesse a leggere, mentre mangiava.
- “Il nostro segreto lo avvolgeremo stretto in una foglia e lo mangeremo guardandoci fissi negli occhi” – gli suggerì Hinedia, anche lei non stando più nella pelle dalla voglia di tornare a guardarlo leggere e ad ascoltare la sua voce, mentre narrava quella storia straziante e meravigliosa insieme.
- “Padre: Ci avranno pensato le belve feroci a divorarseli?
Madre: Sono ben felice di non averli ammazzati con le mie mani.
Padre: Potevamo privarcene?
Madre: Dovevamo privarcene.
Padre: Loro possono vivere senza di noi? Noi possiamo vivere senza di loro?
Madre: Noi possiamo vivere.
Padre: Se non sono più padre, che cosa sono?
Madre: Se non sono più madre, che cosa sono?
Padre: Ancora donna. C’è stato un tempo in cui non potevo distogliere lo sguardo da te. Chissà se le bestie feroci li stanno accarezzando? Vorrei farlo io.
Madre: Ora li chiami? Ora vuoi baciarli?
Padre: Sono stato io a volerli abbandonare nel bosco? A dare loro l’ultimo pezzo di pane? A dirgli di aspettare accanto al fuoco il nostro ritorno? Sono stato io a mentire? Tu mi hai ingannato. Assassina di figli!
Madre: Gli uomini preferiscono ritenersi ingannati dalle donne, piuttosto che ammettere di aver sbranato i propri figli per banale fame.”
 
Padre Cliamon sbattè le palpebre lentamente, avvertendo una sensazione strana, molto strana.
Il primo elemento di cui riuscì, con sua somma sorpresa, a rendersi conto nonostante la sonnolenza delle prime luci del mattino, era che la sua vista era tornata.
Ciò lo sconvolse e lo fece quasi saltare sul letto.
Un letto ... non suo.
Non era più nella sua agiata camera, nel suo agiato giaciglio di lenzuola di seta nella cattedrale del Creatore.
Si trovava in una stanza di piccole dimensioni, impregnata di un odore di chiuso, composta solamente da un letto, spazioso ma trasandato e ricoperto di coperte ispide, una finestrella da cui entrava il primissimo sole del mattino, una scrivania modesta e uno specchio che la accostava.
Si trovava dentro la casa di un abitante del villaggio, in tutta certezza.
Lì per lì non riuscì a ricollegare, ma lo fece quando, continuando a percepire il suo corpo strano, come se non fosse suo, posò lo sguardo sul proprio busto, e sulle gambe nascoste dalle coperte.
Sgranò gli occhi incredulo, trattenendosi dall’urlare: nonostante la presenza dei vestiti larghi, riuscì benissimo a visualizzare le forme del proprio corpo da sotto la stoffa. Un corpo lungo, virile, un busto slanciato, dalle linee perfette.
Si scoprì convulsamente anche le gambe, trovandole coperte da dei pantaloni leggeri.
Gambe lunghe e ben proporzionate.
Non riuscì a credere ai suoi occhi.
In quel momento gli rivennero in mente le parole di Myriam del giorno prima, e del patto che avevano stretto.
“Un solo giorno in un corpo bellissimo.”
Se era davvero come immaginava e si trovava nel corpo di un servitore del Diavolo, pensò iniziando ad ansimare dalla troppa gioia, portandosi le mani a toccarsi il viso con foga.. voleva sfruttare quell’intera giornata il più possibile, dal primissimo all’ultimissimo istante.
Si alzò dal letto di scatto e quasi gli girò la testa, non essendo abituato a quell’altezza veritiginosa, sentendosi incredibilmente in forze, in vigore, pieno di un’inesauribile energia che solo un corpo giovane avrebbe potuto avere.
Si catapultò immediatamente verso il lungo specchio a figura intera accostato su una delle pareti, e rimase totalmente sconvolto quando osservò la propria immagine.
Improvvisamente delle lacrime di immensa gioia, felicità e sollievo si affacciarono ai suoi occhi, mentre con le mani si tappava la bocca per non urlare davvero, per l’immensa soddisfazione che gli stava animando l’animo.
Sentiva che sarebbe potuto morire di crepacuore, per quanto lo sentiva battere velocemente in quel momento.
Non aveva mai provato una sensazione simile.
Voleva piangere, piangere e lasciarsi andare davvero, per sfogarsi di tutti i dolori che aveva patito fino a quel momento a causa del suo aspetto mostruoso.
Persino con quel volto semisconvolto dalle lacrime riusciva a non apparire patetico dentro quel corpo, bello da togliere il fiato.
Ma quel momento venne rovinato da una giovane e avvenente donna semisvestita che si avvicinò a lui da dietro.
Era stato talmente concentrato su se stesso da non averla notata, sdraiata accanto a lui in quel letto disfatto immerso nel loro profumo e negli umori della nottata che avevano appena consumato insieme, e di cui lui non sapeva nulla.
La serva del Diavolo, con lo sguardo e il corpo inconsapevolemente sensuali, come era per tutti loro del culto del Diavolo, gli infilò impudicamente una mano sotto la maglia larga, tracciando un lascivo percorso con il palmo curioso, su tutto il lungo e definito busto del ragazzo, carezzandolo con cura ed esperienza.
Padre Cliamon avvertì dei piacevoli brividi su tutto il corpo a quel delicato e malizioso contatto, dato anche dalla presenza dei bracciali sui polsi della giovane donna, dunque dalla sensazione del contatto del metallo freddo con la sua pelle calda e tesa.
Non aveva mai provato una sensazione simile, in tutta la sua vita.
Lei continuò, mugolando, e aggiungendo anche l’altra mano ad accompagnare la prima, facendolo diventare una sorta di lascivo e annoiato abbraccio da dietro, che aveva l’intenzione di ritrascinarlo a letto con lei, per continuare quello che avevano lasciato in sospeso nel momento in cui si erano addormentati, molto probabilmente. Percepì le labbra della donna baciargli la schiena nonostante la stoffa a coprirla, per poi intravedere il suo volto incantatore fare capolino da sotto le proprie spalle e lanciargli uno sguardo carico di voglia che gli fece quasi cedere le gambe.
- Perchè ti sei alzato così presto, Ephram ...? È solo l’alba.. torna a letto con me.
“Ephram”. Dunque era questo il nome del giovane uomo a cui stava rubando il corpo?
Si trattava di colui a capo della compagnia di stregoni eremiti?
Tuttavia, per quanto allettante l’idea, Cliamon era ancora un monaco del Creatore, un uomo di Dio, e di certo non aveva accettato quel dono dalla strega per sedurre bellissime donne con un solo sguardo e portarsele a letto.
Non era questo il suo scopo, nonostante, forse, sarebbe stato quello di molti altri servi del Creatore al suo posto.
- Non so ... cioè, non ricordo cosa abbiamo fatto questa notte, signorina. Ma devo chiedervi di andarvene, per favore – le disse gentilmente, percependo la propria voce così estramemente diversa dalla sua, ma così piecevolmente gradevole da udire.
La donna lo guardò sconvolta, quasi stranita, alzando un sopracciglio e svegliandosi del tutto. – Stai scherzando ...? Da quando parli come un castrato? E ti comporti anche come un castrato?
- Per favore, non mi sembra un linguaggio adeguato. Devo chiedervi di andarvene, ve lo ripeto.
- Ephram ...! Fai sul serio?? Sei stato tu a chiedermi di passare la notte insieme e io sono stata lieta di farlo! Ma ora cosa diavolo ti prende?!
Ora era davvero arrabbiata.
- Ve lo dico un’ultima volta: andate via o vi farò uscire io contro la vostra volontà – questa volta osò un tono di voce forte e autoritario, ostentando il colore forte e giovane di quella voce nella maniera più fruttuosa che potesse.
A ciò, mortalmente offesa, la serva del Diavolo raccattò velocemente le sue cose sparse per la stanzetta e se ne uscì, sbattendo la porta alle sue spalle.
Le chiese mentalmente perdono per le cattive maniere, ma non poteva permettersi di perdere altro tempo.
Immediatamente, fece ciò che avrebbe voluto fare da quando aveva aperto occhio quella mattina: si tolse ogni vestito che aveva addosso, spogliandosi e rimanendo completamente nudo davanti allo specchio a figura intera.
Nell’osservarsi avidamente e minuziosamente in ogni singolo e più impercettibile dettaglio, emise un sorrisino soddisfatto e infinitamente appagato.
Fece un giro su se stesso, piegò una gamba, la distese, alzò le braccia, si toccò i capelli...
Innanzitutto la pelle era chiara ma non troppo, priva di imperfezioni come si aspettava; tuttavia, era macchiata da dei disegni neri fatti da un inchiostro indelebile, dei segni che sicuramente erano stati dolorosi da imprimere, di forme delle più svariate. Marchi stregoneschi che gli delineavano il braccio e la spalla destra, terminando nel collo, piedi, caviglie, e parte del fianco e della schiena, apparendo, agli occhi del monaco, indescrivibilmente attraenti e seducenti impressi su quel corpo.
Cliamon li riconobbe subito, in quanto li aveva visti innumerevoli volte sui corpi di Maroine e Maringlen.
Il fatto di trovarsi dentro il corpo di un ventenne, non solo servo del Diavolo, ma anche stregone, riuscì ad animarlo ancor di più se possibile.
Le gambe lunghe erano ben allenate da ore e ore di camminate; le caviglie e i polsi erano colmi di bracciali, le mani affusolate adornate da qualche anello; il busto stretto; il torace e l’addome erano sinuosi, tonici, scolpiti, anche se non eccessivamente; le spalle larghe ma proporzionate con il resto del corpo, così come le braccia, lunghe e ben delineate.
Cliamon non riuscì a trovare nulla che non fosse pura bellezza. Neanche una singola imperfezione, nonostante la stesse cercando con inumana minuzia.
Dopo aver osservato e toccato attentamente il corpo, si avvicinò maggiormente allo specchio per osservare il viso.
Era convinto che se qualcuno avesse potuto vederlo da fuori, avrebbe pensato fosse un pazzo.
I capelli, di un bel color ramato, erano folti, densi e scarmigliati dalle ore di sonno, e gli arrivavano quasi fino alle spalle, solleticandogliele. Per lui era una sensazione completamente nuova, il calore che donava una chioma di capelli, e la forma che questi davano al volto.
Li spostò all’indietro per osservare meglio il viso e notò che avesse anche diversi orecchini a decorare le orecchie.
Quel ragazzo aveva una montagna di metallo addosso, tra bracciali e orecchini, ma quella caratteristica gli piaceva.
Le labbra erano decisamente l’elemento del volto che amava di più, insieme agli occhi, questi ultimi di un taglio affilato e di un colore vivido e chiaro, molto simile a quello della sabbia illuminata dal sole.
Fosse stato per lui , sarebbe rimasto davvero tutto il giorno a guadarsi allo specchio e a godersi quelle sensazioni tutte nuove, ma avrebbe dovuto anche sperimentare l’emozione di camminare all’aperto e di essere visto dagli altri. Senza rendersene conto, aveva passato così tanto tempo ad ammirarsi, che le ore erano trascorse veloci e il sole era già alto in cielo.
Così si tolse qualche bracciale che lo infastidiva e si rivestì con i primi abiti dello stregone che trovò a disposizione, consapevole che qualsiasi tipo di abbigliamento sarebbe stato bene su di lui.
Uscì dalla stanza cautamente, trovando dinnanzi a sè un vecchio servo del Creatore che stava ravvivando il camino nell’atrio della casa. Una casa evidentemente molto piccola.
Che cosa ci faceva un giovane servo del Diavolo, per di più stregone, dentro la casa di un vecchio servo del Creatore? Non era sicuro di voler conoscere la risposta a quel quesito.
- Vi siete divertito ieri notte? – gli domandò il vecchio a bruciapelo, continuando a trafficare col camino. - Ho visto la bambolina impettita che è uscita di qui tutta offesa poco fa – continuò ridendo burbero. – Non mi interessa conoscere i dettagli delle vostre sfrenate avventure notturne, nè i vostri drammi, potete fare quello che volete nel tempo che rimarrete mio ospite, ve l’ho detto. D’altronde, vi devo un favore. Tuttavia ... – si bloccò per un attimo, girandosi finalmente a guardarlo. – Abbiate almeno la decenza di fare meno rumore durante la notte. Si dà il caso che vorrei riposare.
- Certo, certo, assolutamente! Perdonatemi se vi ho disturbato la scorsa notte! – rispose con estremo rispetto, sorprendendo il vecchio.
- Che cosa vi prende..? Vi siete bevuto una delle vostre pozioni e avete cambiato personalità..?
- No, no, ma che dite..
Andando avanti così si sarebbe fatto scoprire da chiunque conoscesse lo stregone, in un batter d’occhio.
Preferì in ogni caso non indagare su quel “favore” che i due avevano in sospeso, sapendo già in quali loschi affari fossero immersi gli stregoni eremiti grazie alle informazioni che reperivano per lui i gemelli.
- Ad ogni modo, qua fuori c’è un giovanotto e un tizio straniero che vi cercano – lo informò.
A ciò, cercando di non farsi prendere dall’ansia, Ephram aprì la porta della casa, trovandosi davanti Blake e un uomo che non aveva mai visto, straniero come aveva detto il vecchio, in quanto chiaramente non era nè servo del Diavolo nè del Creatore.
- Alla buon ora – si lamentò Blake. – Abbiamo bussato più volte ma nè tu nè il padrone di casa ci avete aperto. Ad un tratto ho cominciato a pensare se fosse davvero questo l’indirizzo giusto della casa in cui alloggerai questi giorni, dato che lo hai dato a Quaglia, e sappiamo tutti e due quanto Quaglia abbia una buona memoria ...
- Ehi! Non credevo fossi malfidato a tal punto nei miei confronti! – si lamentò colui che doveva essere, a tal punto, “Quaglia”, facendo alzare un sopracciglio sorpreso a padre Cliamon, a causa di quello strano nome.
Blake accennò un sorriso divertito in risposta, per poi riportare gli occhi sullo stregone.
Gli rivolse uno sguardo incerto, osservandolo. – Ti senti bene, Ephram? Sembri ... diverso, stamattina.
Padre Cliamon si perse per un attimo a guardare Blake, il quale aveva più o meno la stessa altezza di Ephram.
Si rese conto che non si trovasse faccia a faccia con quel ragazzo da prima del viaggio di quest’ultimo fuori Bliaint.
Dopo così tanto che non lo vedeva, lo trovò cresciuto e ancora più bello di quanto già lo fosse prima, qualcosa che non credeva affatto possibile prima di trovarselo davanti.
Improvvisamente, dopo aver trascorso ore ad osservare il corpo di Ephram che ora era il suo, automaticamente e spontaneamente, la sua mente andò ad analizzare nel dettaglio anche la bellezza di Blake, per lo meno l’unica parte esposta all’occhio: i punti forti del suo viso erano decisamente il naso, gli zigomi e gli occhi. Oltre ai capelli, in tutta certezza.
Ma perchè lo stava facendo?
Adesso avrebbe iniziato a farlo con tutti i servi del Diavolo che incontrava?
Lo avrebbe fatto anche con la sua cara Judith, non appena l’avrebbe rivista?
Giusto, Judith!
Non appena la ragazza piombò nella sua mente entrò nel panico.
Lei si sarebbe sicuramente accorta che ci fosse qualcosa che non andava in lui, conoscendolo da così tanto, considerando che Ephram si fosse molto probabilmente svegliato nel suo corpo.
Lui ed Ephram erano troppo diversi e tutti si stavano accorgendo e si sarebbero accorti delle stramberie dei loro atteggiamenti.
Avrebbe dovuto andare da lei e dirglielo? Avvertirla prima che fosse troppo tardi? Magari lei avrebbe potuto aiutarlo e coprirlo con gli altri monaci del Creatore, in quanto, sicuramente Ephram avrebbe fatto fuoco e fiamme non appena si sarebbe trovato davanti ai tanto odiati monaci del Creatore, mettendolo nei guai.
O forse sarebbe stato meglio dirlo ora a Blake? Il ragazzo era molto sospettoso, e aveva ragione ad esserlo, dato che aveva trascorso il suo viaggio fuori da Bliaint con lo stregone, dunque lo conosceva parecchio.
Si stava facendo troppi problemi, forse? Magari era meglio evitare di dirlo a chiunque, in generale?
Poi qualcos’altro apparve alla sua mente, facendogli quasi fermare il cuore per l’emozione: quel giorno, sarebbe stata letteralmente l’ultima occasione che aveva, per guardare la sua Judith, un’ultima volta.
Se non si fosse sbrigato ad andare da lei, il giorno dopo sarebbe ritornato nel suo corpo, sarebbe diventato cieco di nuovo. L’incantesimo sarebbe svanito.
Certo, lei avrebbe sicuramente reagito male, non avrebbe capito, ma non gli importò.
Doveva farlo, costasse quel che costasse, lui avrebbe rivisto la sua splendida protetta, che aveva cresciuto con amore e integrità, un’ultima volta. 
- Ephram ... Ephram, mi stai ascoltando? Ma cos’hai oggi..? – lo richiamò Blake, riportandolo sulla terra ferma, alla domanda che gli aveva fatto qualche istante prima.
Anche l’altro, quel certo “Quaglia”, si stava accorgendo delle stranezze, considerando lo sguardo torvo che gli stava rivolgendo.
- Perdonatemi. Io .. ho avuto una nottata molto intensa, perciò ... mi sento frastornato – spiegò sorridendo.
I due non sembravano molto convinti, ma fortunatamente, Blake sembrava di fretta, perciò non indagò sulla questione. – Ascolta, frastornamento o no, dobbiamo portare avanti le sessioni di evocazione – gli disse il ragazzo. – Io oggi non potrò assistervi perchè ho altro da fare, ma ti affido Quaglia. Sarete solo voi due. Poi mi direte come è andata – disse loro, per poi salutarli con un cenno di mano e allontanarsi.
A ciò, rimasto solo con Quaglia, Cliamon lo guardò, cercando di trovare un modo gentile per liquidarlo e andare da Judith. – Mi dispiace molto, ma ... non posso restare con voi, oggi. Ho alcune faccende da sbrigare. Rimandiamo a domani! Che ne dite?
 
Ephram aprì gli occhi lentamente, sentendo la stanchezza pervaderlo a causa della nottata di follie che aveva trascorso con quella donna. O l’aveva trascorsa con un uomo? Non ricordava con esattezza.
Mugolò sfinito, avvertendo le coperte sulle quali era spalmato particolarmente lisce e morbide.
Le tastò e si rese conto che sì, decisamente quello era il tessuto più soffice che avesse mai toccato.
Ciò riuscì a destarlo, confuso.
Alzò la testa dal cuscino e si guardò intorno.
Non era a casa di quel vecchio buzzurro che lo stava ospitando per qualche giorno.
Tutto il contrario: si trovava in una camera immersa nel lusso: pareti che trattenevano il calore, un letto enorme, comodo e colmo di coperte di seta, un’immensa finestra, una grande scrivania, sopra cui si stagliava uno specchio imponente, con la superficie laccata d’oro.
Emise un verso compiaciuto nel trovarsi improvvisamente lì senza motivo, pensando che la persona che viveva in quella stanza dovesse essere sicuramente molto .. modesta.
Ma perchè si trovava lì?
Guardò l’altro lato del letto, e chiunque avesse passato la notte con lui, ora non c’era.
Si alzò dal giaciglio, ancora con i sensi troppo annebbiati per realizzare ci fosse qualcosa che non andasse in lui.
Da quando si sentiva così stanco e spossato di prima mattina?
Solitamente era energico, qualsiasi cosa facesse durante la notte.
La schiena gli doleva, il corpo reagiva lento ai suoi comandi, i piedi erano doloranti, quasi come se avessero delle vesciche.
Gli sembrò quasi di trovarsi nel corpo di un vecchio ..
Si alzò a fatica, sorprendendosi di quanto si sentisse basso di statura, e raggiunse lo specchio.
Urlò facendosi udire da quasi tutta la cattedrale quando realizzò, fissando il suo sguardo sconvolto e costernato alla parete riflettente.
Un monaco ... del Creatore???
Come era potuto succedere??
Ma, soprattutto, cosa ci faceva uno specchio così grande nelle stanze di un monaco del Creatore?
Essendo esperto di arti magiche, sapeva che vi fosse lo zampino di un incantesimo in particolare.
Non gli fu difficile passare per la mente tutti gli stregoni e le streghe che nutrivano del risentimento nei suoi confronti e che avrebbero potuto fargli una cosa simile.
La prima nella lista era sicuramente una: quella dannata di Myriam.
Cercò di mantenere la calma e di non entrare nel panico come un semplice popolano qualsiasi colpito da una maledizione.
Respirò con calma, e osservò schifato il suo corpo, vecchio, orribile all’occhio e pieno di acciacchi.
Gli occhi piccoli, il naso storto, la bassa statura, il corpo tarchiato e floscio, la testa schiacciata e calva.
Quest’ultima gli stava facendo avvertire parecchio freddo al capo, una sensazione che non aveva mai provato considerata la quantità di capelli che era abituato ad avere, spesso anche fastidiosi e difficili da domare.
Cercò di non badarci, mentre sentiva una sconfinata rabbia salirgli per le viscere.
L’incantesimo, se era quello che pensava, sarebbe durato un solo giorno.
Un giorno intero che avrebbe dovuto vivere in quel corpo straziante.
Avrebbe potuto farcela.
Il risvolto positivo, era che avrebbe vissuto un’intera giornata avvolto negli agi, qualcosa che, in vita sua, non era mai riuscito minimamente a sperimentare.
Non sarebbe stato il caso di dirlo a nessuno. Avrebbe aspettato che l’incantesimo svanisse da solo.
Sperò solamente che quel maledetto monaco non combinasse troppi danni dentro il proprio corpo.
Si ricordò che quel giorno si sarebbe dovuto rivedere con Blake e con Quaglia per continuare il rito di evocazione.
Imprecò a se stesso, indeciso se andare da Blake a parlargliene, ma scelse di non rendersi ridicolo e di pazientare, come era giusto fare.
Era giusto pazientare..? Davvero?
D’altronde nessuno avrebbe potuto fare nulla per annullare l’incantesimo, ora che era fatto.
Dunque tanto valeva “vivere” quella giornata come meglio potesse.
Tuttavia, l’irritazione, quella non avrebbe potuto togliergliela nessuno.
 
GOLA
 
Judith si specchiò nelle sue stanze, ponendosi di profilo.
Aveva perso peso, era ben visibile.
Aveva appena finito di allacciarsi il corpetto, stringendoselo più del dovuto, comprimendosi il ventre in cui cresceva quella vita sgradita.
Tutto era iniziato qualche giorno prima, appena terminata l’epidemia, quando le scorte di cibo era tornate floride come erano prima della ribellione.
Aveva iniziato a ridurre le sue porzioni di cibo abituali, inconsciamente sperando che il rigonfiamento della sua pancia si notasse meno.
Oramai stava iniziando lievemente a vedersi, ma con quella metodologia, e i chili persi, nessuno avrebbe potuto dire che fosse gravida, se non lo avesse saputo.
Ciò la fece sorridere soddisfatta.
Le sarebbe bastato persistere così e forse la pancia avrebbe continuato a non notarsi, per un po’.
Sapeva di aver sempre avuto una forma perfetta, non era mai stata troppo magra, in quanto la sua costituzione era procace: i fianchi erano curvilinei di natura; il busto, invece, era sempre stato stretto; mentre il seno era imponente, ma non eccessivo.
Non aveva mai desiderato avere le gambe magre come rami di alberi, nè delle anche che sporgevano troppo.
La ragazza si alzò il lungo vestito e prese ad osservarsi le gambe: la differenza si notava parecchio.
Forse si sarebbe dovuta fermare?
Lei era una giovane donna giudiziosa ed equilibrata, sicuramente avrebbe capito quando fermarsi, ne era certa.
Si legò la voluminosa cascata di capelli rossi in un’ordinata acconciatura alta, come d’abitudine, e uscì dalla sua stanza, imbattendosi improvvisamente in padre Cliamon.
- Ma buongiorno, padre – gli disse gentile, accorgendosi con un secondo di troppo di qualcosa di miracoloso: il monaco aveva inaspettatamente ripreso la vista.
Judith sgranò gli occhi e gli mise le mani sulle spalle, avvicinandolo al suo volto per guardarlo meglio.
- Che state facendo...? – chiese in tono abbastanza scorbutico il monaco, un atteggiamento assolutamente non da lui, notò la ragazza.
- Da quando siamo passati a rivolgerci tra noi di nuovo in toni formali, padre? Non abbiamo smesso di farlo quando avevo dieci anni? – gli domandò osservandolo ancora. – Padre, ma... ditemi, com’è possibile?
- Com’è possibile cosa?
- Come cosa?? Che riesci a vedere! Myriam ha annullato la sua maledizione?? Ma è fantastico! – esclamò abbracciandolo con molta confidenza, una confidenza che Ephram non si aspettava che la ragazza avesse con un monaco, e che lo lasciò basito per un attimo.
- Potrebbe essere solo qualcosa di temporaneo, non illuderti che duri – le disse distaccato, ricambiando comunque la stretta, per poi sentirla sciogliere l’abbraccio e guardarlo nuovamente felice, con quegli immensi occhi di ossidiana che non era riuscito a non notare anche la prima volta che l’aveva vista, per quanto il loro scambio fosse stato fugace e flemmatico.
Ad ogni modo, ora i pezzi del mosaico stavano iniziando ad incastrarsi tra loro nella testa dello stregone, dato che la ragazza aveva menzionato una maledizione perpetuata da Myriam e indirizzata al monaco.
I due dovevano essere in rapporti parecchio accesi, per dei motivi che sfuggivano al giovane.
- Vieni, andiamo a fare colazione insieme! Insomma, non sei contento?? Sei così strano oggi, padre.
- Sei tu ad essere più esaltata del solito.
- Beh, è normale, oggi terrò la seconda lezione con i bambini e tu sai quanto mi piaccia l’idea.
Ephram posò lo sguardo sulla ragazza, vedendola camminare con tranquillità, trovandola estremamente diversa da come l’aveva vista in quei pochi scambi che avevano avuto.
Il monaco sembrava avere un rapporto privilegiato con lei.
Viveva nel lusso più totale e aveva Judith sempre ancorata a lui: non si poteva dire avesse una vita spiacevole.
Quando arrivarono alla sala in cui si serviva la colazione, Judith non mangiò quasi nulla, mentre Ephram si abbuffò letteralmente di qualsiasi deliziosa pietanza trovò sotto il proprio naso, ben consapevole che un’occasione del genere non gli sarebbe più capitata in vita sua, lasciando la ragazza e gli altri monaci a dir poco allibiti: Cliamon solitamente mangiava il minimo indispensabile, compostamente e senza fretta.
Judith raggiunse la combriccola di bambini in sua attesa, turbata dal comportamento di padre Cliamon.
Tuttavia, non gli diede molto peso, distraendosi grazie ai bambini, e al seguente arrivo di Hinedia, la quale iniziò con cautela e timidezza, a prendere dimestichezza con il ruolo di insegnante.
Avevano deciso di riunirsi nel piccolo pezzo di terreno dietro la cattadrale, in quanto la cattedrale del Diavolo era ancora occupata dalla veglia, e fortunatamente, quel giorno sembrava essere una bella giornata nonostante il freddo, il sole era alto in cielo.
La mattinata procedetta quasi tranquillamente, se non fosse stato per i litigi di alcune coppie di bambini particolarmente vivaci e infiammati.
- Lasciami! Smettila di darmi gomitate, May!!
- Ritira tutto quello che hai detto e ti lascerò in pace – replicò l’altra facendo per picchiarla ancora, ma venendo bloccata da Hinedia, la quale si pose in mezzo tra le due bambine.
- Smettetela, per favore. Se continuate a bisticciare non combineremo nulla oggi.
- Ha iniziato lei! – puntò subito il dito Edith.
- Avete sentito cosa ha detto Hinedia? Calmatevi, e tornate qui – le diede man forte Judith.
Per quanto estremamente diverse, Judith riconobbe che loro due insieme fossero una bella squadra, si supportavano e si aiutavano a vicenda grazie ad una complicità che non credevano di poter avere, ed era bello percepire un po’ di quella solidarietà femminile che da tempo le mancava.
- Dunque – riattirò a gran voce la loro attenzione Judith. – Chi di voi vuole parlarci di ciò che ha avuto modo di osservare tra ieri e oggi? Siete riusciti a notare degli atteggiamenti in particolare in alcune persone a voi vicine, che possano rimandare ad uno dei vizi capitali?
Zarah Sorie alzò la mano e la ragazza le diede la parola. – Mia madre mi ha sgridata per aver dormito troppo. Vale come peccato di ira?
- Beh ... è già un inizio.
Hinedia sorrise, mentre Judith ebbe un giramento di testa.
I morsi della fame stavano iniziando a farsi sentire, e il suo corpo ne stava risentendo più degli altri giorni.
- Provate a pensare .. – iniziò, cercando di scacciar via quella sensazione di vertigine e nausea. – di impersonificare il peccato con un oggetto. Che oggetto sareste?
I bambini si distribuirono i peccati e iniziarono a pensarvi su assorti.
Hinedia li guardò presa da estrema tenerezza mentre erano così concentrati. Intanto, distribuì loro dei piccoli coprispalle colorati cuciti da lei, per tenerli al caldo.
- Vanno bene anche delle persone? – domandò Edith.
- Sì, se ve ne viene in mente una in particolare, sì.
La bambina vi pensò su ma non le venne in mente nessuno, perciò ritornò sdraiata a pensare, con la cascata di capelli color cenere che si spalmarono sul terreno morbido.
- Voi che oggetto portereste per uno dei vizi capitali?- domandò Hinedia a Judith, ad un tratto, a voce bassa per non distrarre i bambini.
La fame la stava consumando sempre più, fino a portarla a sentirsi le gambe e la testa leggere, ad adombrarle il pensiero. Si rese conto di essersi allacciata il corpetto troppo stretto quella mattina, e ciò la stava facendo uscire di testa.
Cercò di resistere e di non badarvi, mentre una delle storie che le raccontava sua nonna da piccola le ritornò improvvisamente alla mente.
- Conoscete la storia della donna-lupo che mangiava i sassi?
Hinedia negò con la testa.
- La storia narra di una donna-lupo che, per non rimanere gravida, si ingozzava di sassi, riempendosi la pancia, mangiando solo ed esclusivamente quelli.
Ma i sassi non sono fatti per mangiare. Sono aridi, non saziano l’appetito.
Perciò continuava a mangiare sempre, all’infinito, montagne di sassi, ma la sua pancia era sempre vuota, invece di riempirsi.
Voleva che non ci fosse più spazio lì dentro ... più spazio per nessun bambino.
Hinedia rimase agghiacciata per un attimo. – Non conoscevo l’esistenza di questa...
- Sassi. Sceglierei i sassi come oggetto, per il peccato di Gola – la interruppe Judith, immersa nei suoi pensieri.
- Judith... vi sentite bene? – le domandò la ragazza.
- Sì, perchè?
- Sembrate ... debilitata. Avete mangiato qualcosa questa mattina? Non so se è una mia impressione, ma... vi vedo sempre più magra – insistette allarmata Hinedia.
- Sto bene.
Ad un tratto, un monaco del Creatore le raggiunse con un vassoio colmo e ben coperto, sorprendendo notevolmente le due; mentre i bambini erano troppo concentrati per accorgersene.
- Come procede la mattinata? – domandò rivolgendosi alle due, per poi gettare un furtivo sguardo anche ai bambini seduti e sdraiati per terra.
- Bene, padre Thomas – gli rispose Judith guardandolo sorpresa, chiedendogli spiegazioni con lo sguardo. - Non avevate detto di non voler vedere i piccoli servi del Diavolo che stiamo istruendo per lo spettacolo?
A ciò, il monaco abbassò la testa, con aria pentita. – Sono venuto a portarvi del cibo, per voi due e per i bambini. Dentro la nostra cattedrale ve ne è altro e la sala è vuota ora.
- Ci state invitando ad entrare nella cattedrale del Creatore ...? – gli domandò Judith testandolo, quasi commossa da quel gesto.
Il monaco posò nuovamente gli occhi sui bambini sparsi a terra, che si rotolavano sul terreno pensierosi e incuranti, come animaletti.
- Fa freddo fuori, e poi ... i bambini non posso restare lì per terra.. si sporcheranno i vestiti. Fateli entrare e servitevi pure – disse velocemente, quasi come se temesse di pentirsene un momento dopo, e se ne tornò dentro.
A ciò, anche Hinedia sorrise addolcita, per poi prendere il vassoio dalle mani di Judith e aprirlo.
Era colmo di pietanze di ogni tipo, da pasticci di frutta, di patate, dolci e salati, verdure arrostite, pagnotte speziate e molto altro. Il tutto emetteva un odore squisito, che fece venire un altro capogiro a Judith, a causa dell’immensa fame.
I vuoti di stomaco divennero più potenti, tanto che si portò una mano sul ventre piatto e compresso dal corpetto.
- Vi prego, Judith, servitevi. Sto cominciando a temere che possiate perdere i sensi da un momento all’altro - la supplicò Hinedia.
A ciò, Judith afferrò solo una fragola dal vassoio, e la assaggiò, decidendo che quella potesse bastare.
Ma non appena la sua lingua venne infervorata in tal modo e il senso del gusto le si riaccese con foga e violenza, la ragazza non si trattenne e iniziò ad afferrare tutto ciò che trovò sul vassoio in un modo animalesco e bisognoso, che contrastava ampiamente col suo nobile portamento e aspetto.
Non distinse dolce e salato, dolce e morbido, aspro o salato. Afferrò tutto quello che le capitò tra le mani senza distizione, senza gustarselo neanche, portandoselo alla bocca e trangugiandolo avidamente.
Il suo stomaco bisognoso non le lasciava tregua e aveva fatto fuoriuscire il suo lato peggiore, quello totalmente fuori controllo, che odiava a morte.
Non badò ai bambini che la fissavano sconvolti, nè a Hinedia che la guardava spaventata e allarmata insieme, non sapendo come reagire.
Ad un tratto, udì una vocina che riuscì a farle riprendere il senno:
Kilian, un bambino con un folto cespuglio di ricci d’ebano e gli occhi verdi e chiari come la giada, la indicò con un dito, prendendo la parola. – Siete voi, Judith. Ho scelto voi. Per il peccato di Gola.
Dopo quell’episodio, la fanciulla corse dentro la cattedrale a darsi una ripulita, piombò nella sua stanza e si sfregò il viso, le braccia, il collo e i vestiti con l’acqua gelida di una tinozza, per togliere ogni più piccolo residuo di cibo rimasto.
Si diede qualche colpo al ventre, rabbiosa e pianse silenziosamente.
Dopo di che, il suo stomaco le fece rigettare fuori tutto quello che aveva appena mangiato, schifato più di quanto lo fosse lei.
Dopo essersi svuotata e aver vomitato tutto, si ricompose e tornò dai bambini, accompagnandoli dentro la cattedrale del Creatore.
 
SUPERBIA
 
Cliamon camminò velocemente verso la cattedrale del Creatore, sapendo di trovarvi dentro Judith.
Probabilmente a quell’ora del giorno ella stava ancora facendo lezione di teatro con i bambini.
Non stava letteralmente più nella pelle nel rivederla, quasi come se non la vedesse da anni.
Sapere che quella sarebbe potuta essere l’ultima occasione.. lo stava struggendo più di quanto volesse ammettere.
Si strinse nel mantello nero dello stregone, riparandosi dal freddo, e raggiunse la porta della cattedrale, entrandovi all’improvviso.
Il suo arrivo attirò l’attenzione di tutti, dei bambini, di Hinedia, e della sua cara Judith, la quale sgranò gli occhi sconvolta nel guardare la sua figura avvicinarsi a grandi falcate.
- Voi ... che diavolo ci fate qui?! – gli disse irritata. – Nessuno gradisce la vostra presenza qui, Ephram ...
Ma la ragazza non riuscì a terminare il suo rimprovero, in quanto Cliamon le prese le mani sulle sue e le rivolse uno sguardo di puro affetto e ammirazione, prendendosi tutto il tempo per guardarla a dovere.
Era meravigliosa, come sempre.
Intanto la ragazza lo fissava sinceramente costernata e infastidita, cercando di sfuggire come poteva alla sua presa, fallendo.
- Che diavolo state facendo, Ephram...!? Cosa vi prende così all’improvviso? Cosa volete da me..? Lasciatemi!
- Non ti trovo in salute come sempre, mia cara... che ti succede? – le domandò amorevolmente preoccupato, baciandole la mano con premura, un gesto che scioccò ancor di più Judith, e Hinedia dietro di lei, la quale non sapeva come, nè se intervenire.
- Ora me ne vado, lo prometto. Sono infinitamente contento di averti potuto rivedere ... non immagini quanto, Judith – le disse baciandole le mani di nuovo con profonda dedizione.
La ragazza lo fissò di nuovo sconvolta e in trance, ma lo lasciò fare, non sapendo più cosa dire e come reagire.
Detto ciò, Cliamon fece per andarsene, dirigendosi nuovamente verso il portone della cattedrale.
Tuttavia, per sua sfortuna, prima che potesse uscire, una figura scese le scale in quel momento e lo intravide, lanciandogli uno sguardo fulminante come non ne aveva mai ricevuti: era lui stesso.
Vedere la propria immagine, la propria gabbia corporea dall’esterno, era quanto di più strano vi fosse al mondo, pensò il monaco, prima di iniziare a correre a gambe levate, per non farsi raggiungere da colui al quale aveva rubato il corpo, il quale ora era costretto ad abitare il suo, e che lo stava rincorrendo con un’espressione inviperita.
Fortunatamente, ora possedeva tutta la forza e l’energia di un ventenne in piena salute, mentre Ephram si ritrovava imprigionato in un contenitore pieno di acciacchi e lento di riflessi.
Per tale motivo credette di esser riuscito a seminarlo con facilità, essendosi allontanato parecchio dalla cattedrale ora, ma comprese che la sua fosse solo un’illusione quando percepì una mano artigliarsi al suo polso e trascinarlo con sè, dietro alla prima stalla che si trovarono dinnanzi.
- Sbaglio o avete qualcosa che mi appartiene?! – iniziò lo stregone strattonandolo.
- Vi prego, non scagliate il vostro rancore su di me! – lo pregò il monaco, sperando di calmarlo. – Non sono stato io a chiedere, nè tanto meno a pretendere di abitare il vostro corpo!
- Ditemi, è stata Myriam, non è vero? – gli domandò Ephram guardandolo nuovamente in cagnesco, ma almeno lasciando la presa sul suo polso.
- Ella ha detto di volermi fare un dono ... e io l’ho accolto – ammise colpevole.
- Almeno siete sincero, una qualità che apprezzo – disse avvicinandoglisi e osservandosi dall’esterno. - Quella donna ce l’ha mortalmente con me.
- Ha detto che l’incantesimo durerà solo un giorno, perciò...
- Sì, lo so – gli disse lo stregone, calmando i toni.
Padre Cliamon si sorprese di trovarlo molto più sereno e meno infuriato di quanto si aspettasse.
D’altronde, il suo corpo gli era stato sottratto, e il monaco pensò che, al suo posto, sarebbe stato furioso.
Ephram gli rivolse uno strano ghigno nell’osservarlo, che lo fece rabbrividire, complice anche il fatto che vederlo sul proprio volto lo rendeva notevolmente bizzarro e inquietante.
- Immagino vi dispiaccia abitare il mio corpo. State facendo i salti di gioia all’idea che già domani lo lascerete, vero..? – lo provocò, poi abbandonando il sarcasmo. - Ci starete sguazzando dentro da stamattina, immagino. Mentre io, invece, mi ritrovo questo – disse indicandosi sprezzante.
- Avete la mia parola, Ephram, che non sto facendo e non farò nulla che possa dissacrare il vostro ...
- Potete farci ciò che volete – gli disse interrompendolo, lasciandolo basito.
- Che cosa...?
- Mi avete sentito, monaco. Desideravate un corpo come il mio? Allora non siate codardo e godetevelo fino all’ultimo ora che lo avete. Non siete il primo servo del Creatore che decide di rivolgersi a noi stregoni per ottenere una cosa simile. Forse siete il primo monaco, questo sì.
Cliamon lo fissò ancora come in trance, non sapendo cosa dire.
- Ora andate, monaco. Vi voglio fuori dalla mia vista.
- Dunque ... non lo rivolete indietro?
- Lo riavrò domani in ogni caso, conosco questo tipo di incantesimo e sono certo della sua durata.
- Ma voi dovrete vivere nel mio corpo nel frattempo..
- Avete paura che possa commettere peccati imperdonabili con il vostro corpo? Vi rassicuro, me ne starò buono e calmo, cercando di non far insospettire coloro che vi conoscono, un’accortezza che spero prenderete anche voi.
- Certo.
- Bene. Addio, padre – gli disse svoltando l’angolo e andandosene, lasciandolo lì solo e confuso.
Ephram non si pentì delle parole appena pronunciate e proseguì per la sua strada.
Mentre camminava, decise che avrebbe sfruttato i “privilegi” dell’aspetto che si ritrovava a possedere come meglio credeva.
Scese le scale che lo avrebbero condotto alle segrete in cui erano rinchiusi i prigionieri, sorridendo ai monaci che vi erano di guardia.
Prese una fiaccola e si fece strada tra le celle, cercando con gli occhi una figura in particolare.
Non appena individuò la sagoma rannicchiata a terra sulle mattonelle umide, infreddolita, tremante e consunta di Beitris, si tolse il mantello del monaco che stava indossando e glielo lanciò attraverso le sbarre.
La ragazza si destò di colpo, come se si fosse svegliata da un lungo sonno. Il suo corpo stremato e indolenzito si issò sulle mani puntate a terra, con i polsi magri circondati dalle strette catene, e alzò il volto per osservare chi le avesse fatto visita.
Ephram immaginò che gli unici che fossero andati a trovarla, con l’aiuto di qualche trucchetto magico per non farsi scoprire, dovessero essere Maroine e Maringlen; dunque ella era abituata a vedere solo i due gemelli. I suoi amati gemelli.
- Monaco ... - sibilò tra i denti la ragazza, confusa. – Cosa volete da me..?
- Sono io, Beitris – le disse, sapendo di doversi sprecare un po’ di più in spiegazioni per aiutarla a capire. - Sono Ephram.
- Che razza di assurdi vaneggiamenti passano per la testa a voi servi del Creatore...?
- Due anni fa sei caduta da un precipizio e ti sei quasi rotta un ginocchio, provocadoti una cicatrice sul polpaccio. Ti ho recuperata io.
La ragazza sgranò gli occhi di smeraldo a quell’informazione esatta, spalmandosi con la schiena al muro della cella.
- Virve Beitris, sei nata con la luna piena, fai parte della nostra compagnia da quando avevi dieci anni, ami i giochi infantili, ti piace sentire l’odore dell’erba bagnata di rugiada nelle prime ore dell’alba. Devo continuare? – le disse avvicinandosi alle sbarre, vedendola sbiancare ancor di più di quanto già non lo fosse a causa delle sue condizioni e del deperimento.
- Tu ... tu ... – sussurrò lei con voce roca, avvicinandosi lentamente alle sbarre a sua volta, con sguardo oltremodo confuso. – Tu, dannato ... cosa ci fai qui? – gli domandò, per poi realizzare completamente di averlo davanti, e ancorandosi alle sbarre con rabbia. – Tu, maledetto!!
- Immaginavo questa reazione da parte tua. A ragione – ammise, guardandola negli occhi scavati ma sempre luminosi. – Mi dispiace di avervi lasciati quando ne avevate più bisogno.
- Ti dispiace..? Di essertene scappato via con la coda tra le gambe quando sapevi cosa stesse per succedere?
- Non sapevo cosa stesse per succedere. Sei tu che lo hai fatto accadere – quelle parole provocarono maggiormente la rabbia della ragazza, la quale infilò un braccio tra le spalle, cercando di azzuffarlo.
Lui fece un passo indietro sfuggendo alla sua presa. – E poi, dovevo farlo. Dovevo raggiungere il tuo Blake per scoprirlo.
- Per scoprire cosa..??
- Cosa sarebbe potuto accadere a Bliaint da qui a breve. Cosa avesse in mente quel ragazzo. Cosa ci riservasse il mondo là fuori – le disse con calma riavvicinandosele.
- Non ti perdonerò mai per ciò che hai fatto ai gemelli.
- Lo so. So di non poter dire, nè fare nulla per farmi perdonare.
- Oh, Ephram, ti prego! Risparmiamelo – disse lei allontanandosi, sorridendo sfinita.
Dopo qualche attimo di silenzio, la ragazza riprese la parola. – Per quale diavolo di motivo hai l’aspetto di uno di quelli lì..?
- Myriam. Mi odia e ha deciso di donare ad uno di quei monaci la possibilità di abitare il mio corpo per un giorno.
Beitris non potè fare a meno di sorridere di sottecchi a tale rivelazione.
- Ridi, ridi pure. Vorrei vedere te al mio posto.
- Mi sono sempre piaciuti i modi di fare di quella donna. Dunque ora sei costretto lì dentro per un giorno intero, fino a domani mattina, quando l’incantesimo verrà annullato – dedusse Beitris ghignando compiaciuta.
- Sembra che questa sola consapevolezza ti abbia fatto tornare il sorriso – sottolineò l’ovvio lo stregone, sorridendo a sua volta.
- Come pretendi possa essere altrimenti?? Insomma, tu non hai idea di cosa significhi passare una vita con te, alzarsi ogni mattina con il tuo orgoglio, la tua supponenza e la tua tronfiezza, soffiati sul collo.
La tua aura è opprimente.
Certo, sai di essere presuntuoso, te lo si legge in faccia, e lo ostenti anche.
Ma non ti accorgi fino a che punto la tua vanità possa danneggiare e gravare sugli altri.
- Non ti stai risparmiando oggi.
- E non ho intenzione di farlo, Ephram.
Sai di essere potente, molto furbo e abile in ciò che sai fare meglio, sai di essere superiore a molti di coloro che ti circondano, ma non ti poni abbastanza una domanda fondamentale: gli altri sono inferiori a me perchè lo sono davvero, o perchè io credo e voglio lo siano, e lo faccio credere anche a loro?
Lo stregone alzò le braccia al cielo in segno di resa, non contraddicendola, nè ribattendo nulla.
- Perchè non dici nulla?
- Perchè hai ragione.
- Schuyler Ephram mi sta dando ragione?? Oggi è davvero un giorno epocale.
Il ragazzo accennò un altro sorriso esasperato, facendo calare altri istanti di silenzio tra loro.
- Pensavo avresti reagito molto peggio di così, sai?
Non mi aspettavo di trovarti così sereno dopo quello che ha fatto Myriam, considerando quanto tu sia ...
- Non ripetere tutto di nuovo, ora.
- L’hai detto a qualcuno oltre me?
- No. Non lo saprà nessuno, non servirebbe a nulla.
- Non pensavo che lo avrei mai detto, ma... è bello rivederti. Nonostante tu abbia un aspetto diverso .. molto migliore di quello che hai solitamente – disse lei, facendo nuovamente del sarcasmo, un dettaglio che sollevò l’umore dello stregone.
- Lo so, lo so bene.
Sai .. che tu ci creda o no, prima di oggi, in tutta la mia vita non ho mai creduto di essere nato fortunato.
Non ho mai ritenuto un “privilegio” la mia bellezza. L’ho sempre considerata scontata, senza alcuna importanza.
- Nessuno di noi, che la possediamo, la considera un dono, Ephram. Per i servi del Creatore è diverso.
Loro nascono senza, per loro non è affatto scontata ed è la “sola” cosa che ci invidiano.
Beh, forse ci invidiano anche la spavalderia, la libertà di praticare le arti magiche e di sentirci più coraggiosi e indipendenti nel rapporto con il nostro Signore. Ma la bellezza è la caratteristica di cui soffrono maggiormente la mancanza, nella maggior parte dei casi.
- Per me avere l’aspetto che ho o non averlo non avrebbe fatto differenza.
Vi sono una miriade di altri privilegi che ho da sempre desiderato e che non ho mai avuto: dei genitori ancora vivi e che mi amano, una casa stabile, poter fare tre pasti al giorno senza accaparrarseli con le unghie e con i denti, non dover rischiare la vita ogni volta che metto piede nel villaggio.
Beitris accennò un sorriso amaro in risposta, trovandosi d’accordo.
- Che cosa me ne faccio del mio bell’aspetto se non ho tutto questo..?
Oggi, invece, quando ho visto quel monaco dentro il mio corpo.. ho capito che, per lui, essere lì dentro era il dono più grande che potesse ricevere. Quasi l’unica cosa di cui gli importasse.
Per tale motivo gliel’ho lasciato, senza lamentele, rimproveri o battibecchi inutili.
Ho semplicemente deciso di fare qualcosa per ... accontentarlo. Per fare del bene – disse quelle ultime parole risultando strano persino a se stesso mentre le pronunciava.
- Un gesto assolutamente non da te, quello di “far del bene” senza ricevere nulla in cambio – sottolineò la ragazza, con una certa casuale nota di fierezza nella voce.
- D’altronde – sembrò come riprendersi lo stregone. – Non ricordo neanche con chi si sarà ritrovato a letto questa mattina. Ero talmente annebbiato dall’incenso ieri notte che non rammento chi mi sono infilato tra le lenzuola.
- Un grande classico, se si tratta di te. Immagino dunque il povero e casto monaco, che oggi si ritroverà ampiamente circondato da sguardi complici e da ammiccate indiscrete, considerando che hai giaciuto con almeno la metà della popolazione dei servi del Diavolo qui al villaggio, senza contare le orgie di piacere nella nostra dimora.
Ephram sorrise di sottecchi in risposta, immaginando la ridicola impacciatezza di quel monaco.
- Come ... stanno gli altri? – gli domandò la ragazza riavvicinandosi alle sbarre.
- Bene. Ci stiamo ambientando tutti. Si stanno riprendendo da ciò che è accaduto e sono contenti di aver avuto salva la pelle. I clienti sono diminuiti notevolmente ma, da una parte, credo sia un bene per ora.
Ovviamente sentiamo tutti la tua mancanza.
Beitris annuì, abbassando lo sguardo.
- E Myriam, invece?
- Non la vedo nella dimora da almeno tre giorni, dunque suppongo stia confabulando qualcosa qui al villaggio. Per questo ero già certo ci fosse il suo zampino ancor prima che me lo confermasse il monaco; oltre al fatto che gli incantesimi di camuffamento e di cambio volto sono il suo forte.
- Ma questo non è un semplice incantesimo di camuffamento, bensì di scambio di corpi. È lo stesso incantesimo che è stato fatto dopo il gioco dello specchio quella notte, durante i festeggiamenti.
- Cos’è accaduto quella notte? Io non ero presente, ma tu sì. Chiunque mi trovi intorno che ha partecipato a quei festeggiamenti emana un’aura di negatività evidente, non appena la si menziona solamente – le domandò egli.
- Non ti so dire cosa sia accaduto. Nessuno ricorda nulla, se non frammenti sfocati, simili a sogni. Per quanto mi riguarda personalmente, non credo mi sia successo nulla di eccezionale, anche se non ricordo - rispose senza eccessivo interesse, per poi cambiare argomento. - Dunque Myriam è tornata al villaggio. E suppongo abbia finalmente rincontrato Blake. Immagino che ora lui sappia che io sapevo che lei fosse viva e fosse con noi, per tutto il tempo in cui eravamo insieme, e che non gliel’ho mai detto.. – disse palesemente turbata.
- Nonostante abbiate tagliato da tempo i rapporti tra voi due ... ti preoccupi ancora così tanto della sua reazione – osservò lo stregone. – Non preoccuparti: Blake è abbastanza intelligente da capire il motivo per cui non potevi riferirgli nulla a riguardo, e per non condannare tale motivazione – la rassicurò. – Sai, prima non comprendevo come mai avessi una così alta considerazione dell’opinione di Blake e di Blake stesso. Pensavo fossi solamente accecata dai sentimenti che provavi per lui. Invece, ora, lo capisco bene.
Beitris gli sorrise in risposta, un sorriso malinconico e bellissimo, che riuscì a fargli perdere un battito.
- Ora va’.. i monaci si staranno chiedendo cosa stai facendo qua dentro per tutto questo tempo.
- Ti stanno nutrendo? – le chiese con un velo di preoccupazione.
- Abbiamo passato periodi peggiori alla dimora, credimi – lo rassicurò lei. – Va’.
- Voglio farmi perdonare, Virve, per tutto quanto – le disse rivolgendosi a lei in quel modo così confidenziale al quale lei non era più abituata.
- Che cosa vuoi fare?
- Non se ne accorgerà nessuno e nessuno potrà incolpare il monaco: l’aspetto che ho mi permette di fare ciò che non potrei mai fare se avessi il mio corpo.
- Ephram ... che cosa ti sta saltando in mente?
- L’incantesimo dello scambio di corpi a cui mi ha sottoposto a tradimento Myriam mi ha fatto venire un’idea: posso scambiarti di corpo con qualcuno e prolungarne la durata, fino alla data della tua esecuzione. Rifletti: questo tipo di rito presuppone che se una persona muore mentre è nel corpo di un’altra, allora l’altra rimarrà in vita sempre nel corpo che la ospita, un corpo non suo, senza effetti collaterali di alcuna sorta. Se faccio durare l’incantesimo abbastanza a lungo, un’altra morirà al posto tuo, nel tuo corpo, e nessuno le crederà se proverà a ribellarsi al suo destino o a rivelare qualcosa. Certo, sarai costretta a vivere tutta la vita nel corpo di qualcun altro, ma è sempre meglio che morire al rogo – concluse privo di qualsiasi scrupolo. - Inoltre, non correrei rischi neanche io. Nessuno sospetterebbe di un monaco e nessuno potrebbe accusare me, dato che non sono stato visto nè entrare nè uscire dalle segrete. Che ne pensi?
Beitris lo guardò stralunata e sbiancata in volto, negando con la testa, rivolgendogli uno sguardo amaro e a tratti desolato. – Non posso ... – sussurrò la ragazza con gli occhi lucidi.
- Cosa..? Perchè no? Ti sto offrendo la libertà. Ti sto salvando dalla morte.
- No, Ephram! Non voglio – disse ora con più convinzione lei.
- Spiegati.
- Ho già troppi sensi di colpa che gravano sulle mie fragili spalle.
Non voglio convivere anche con questo. Con la consapevolezza di aver sacrificato qualcun altro per aver salva la vita.
Sono stanca. Stanca di lottare, da tutta la vita.
Inoltre, non potrei mai vivere nel corpo di qualcun altra, chiunque essa sia.
Il mio corpo, quello con cui sono venuta al mondo, è questo. Per quanto debole, malato e deperito, è il mio, e voglio morire almeno con la dignità di essere nel mio corpo.
È la sola cosa che mi è rimasta. La dignità.
E poi... ora che so che i gemelli sono al sicuro, lontani da qui... sento di poter morire in pace, senza rimpianti - disse accennando un sorriso estremamente doloroso da guardare, per il giovane stregone.
Ephram si avvicinò alla cella, poggiando una mano su quella di lei ancorata alle sbarre, stringendogliela.
- Beitris, non voglio perdere anche te. Non voglio.
A ciò, la ragazza gli rivolse uno dei sorrisi più genuini, luminosi e sinceri che gli aveva mai rivolto a distanza di anni. – Mi devi lasciar andare. Come hai lasciato andare gli altri.
 
Cliamon camminò per le strade, sovrappensiero.
Oramai era quasi buio e, tra tutta l’esaltazione, la gioia e le varie sorprese di quella giornata, si rese conto che non avesse mai messo nulla sullo stomaco.
Eppure, non sentiva alcuno stimolo di fame, stranamente.
Da quell’elemento comprese che il giovane stregone non fosse abituato a fare pasti regolari.
Probabilmente, da quanto bene si sentiva e da quanta energia ancora aveva, era avvezzo a non mangiare anche per giorni interi. Eppure, il suo corpo non gli era sembrato troppo magro. Ma forse questo non significava nulla.
In quel momento ripensò a quanto fossero estremamente diverse le vite che conducevano.
Ephram era uno spirito libero, che avrebbe potuto fare quello che voleva per occupare il suo tempo infinito a disposizione. Tuttavia, era anche considerato una piaga da molti, per il solo fatto di vivere da eremita con una compagnia di stregoni. Parecchi servi del Creatore che aveva incrociato lungo la strada, per lo più uomini, gli avevano rivolto uno sguardo sospetto, diffidente e talvolta rancoroso, in quanto forse sapevano chi fosse, o molto probabilmente il suo aspetto e i segni che aveva marchiati sul collo lo tradivano. Le donne serve del Creatore, invece, abbassavano immediatamente lo sguardo quando lo scorgevano, imbarazzate. 
I gemelli gli avevano già narrato quale fosse il loro stile di vita nella compagnia, e quali sacrifici fossero costretti a fare per permettersi una convivenza quanto meno dignitosa, ma prima di quel momento non aveva avuto modo di toccarlo con mano.
Certo, quella mattina non si era risvegliato nella loro dimora in mezzo al bosco, bensì nella stanza di una casetta di un popolano, al limite della modestia, ma che, per il giovane stregone, doveva sembrare un lusso, persino quella.
Lui, invece, da parte sua, aveva da sempre condotto una vita molto agiata, in quanto uomo di Dio, prefissata in ogni minimo dettaglio, sempre impegnata e dedita a Dio, ai fedeli e agli studi.
Soffriva della mancanza di bellezza e di libertà, ma non soffriva affatto per le persecuzioni o per la mancanza di sostentamento.
L’atteggiamento relativamente calmo dello stregone, quando lo aveva incontrato qualche ora prima, gli era rimasto particolarmente impresso.
Immerso nei suoi pensieri, non stava dando molto peso agli sguardi eloquenti che gli venivano rivolti da molte serve del Diavolo, e anche da alcuni servi.
Sguardi ammiccanti, complici, languidi talvolta, come se avessero già avuto l’occasione di incontrarlo in qualche contesto privato, di cui il monaco non aveva minimamente idea.
Quegli sguardi lo imbarazzarono oltremodo, facendolo arrossire.
Voleva scoprire sulla sua pelle come ci si sentisse ad essere guardati, guardati veramente.
Ed ora lo sapeva.
Malgrado l’imbarazzo iniziale, si sentiva bene, desiderato, ammirato.
Camminò non ricambiando nessuno sguardo e si diresse verso la Taverna: anche se non percepiva la fame, avrebbe comunque dovuto mettere qualcosa sullo stomaco.
Tuttavia, si rese conto che quella mattina era uscito di casa senza prendere nulla con sè, tanto meno delle monete, che non si era minimamente disturbato a cercare tra le cose dello stregone.
Come avrebbe potuto mangiare senza dei soldi dietro, con sè?
Forse le locandiere alla Taverna sarebbero state misericordiose e gli avrebbero dato qualcosa.
Non appena entrò e si tolse il cappuccio, notò quanto fosse colma e rumorosa quella sera.
Non era mai stato lì dentro, e anche se non fosse stato un monaco, non ne avrebbe mai avuto il desiderio.
Si rivolse alla prima locandiera che trovò dietro il bancone, una bellissima fanciulla dai riccioli biondi.
- Potrei avere qualcosa da mangiare?
A ciò, la ragazza si voltò verso di lui, alzando un sopracciglio chiaro e sorridendo confusa. – Tesoro, qui non serviamo da mangiare. Dovresti saperlo ormai.
Non appena capì che Ephram e quella ragazza si conoscessero già, cercò di assumere un tono più confidenziale. – Scusami, pensavo che potessi comunque darmi qualcosa. Non mangio da tutto il giorno e non so dove andare ora.
- Potresti andare a casa con qualcuno di loro e avere da mangiare quanto vorresti – gli suggerì la giovane donna facendogli un cenno col volto verso i numerosissimi clienti che affollavano la Taverna quella sera. – Se cerchi una notte di piacere, come vedi oggi c’è l’imbarazzo della scelta – aggiunse versandogli del vino in un boccale e porgendoglielo con quelle mani leggere come petali, assolutamente inadatte per un mestiere simile. - Offre la casa – disse lei indicandogli il boccale e sorridendogli con intimità, per poi rivolgersi ad un altro cliente che stava richiamando la sua attenzione.
Cliamon guardò il boccale, provando un senso di nausea al solo vederlo.
Non voleva bere vino, non voleva passare la notte con qualcuno.
Non gli interessavano i piaceri della carne.
Si guardò intorno, senza l’intenzione di attirare qualche sguardo e incatenarlo al suo, ma lo fece involontariamente.
I suoi occhi si posarono su una donna, una serva del Diavolo, che stava facendo uno strano gioco da tavolo con altre donne, mentre bevevano vino e si divertivano tutte insieme.
Ella rideva sguainatamente, si toccava di tanto in tanto la sua lunghissima treccia morbida che le ricadeva sulla schiena, mentre il sudore le imperlava il collo di porcellana esposto.
Prima che riuscisse quasi ad accorgersene, la donna inchiodò i suoi grandi ed espressivi occhi castani nei suoi, sorridendogli sfacciata.
Distolse lo sguardo e ritornò a guardare il suo boccale, quando, inaspettatamente, se la trovò vicina.
Ella lo aveva raggiunto e ora lo stava guardando.
Quando alzò gli occhi su di lei nuovamente, si rese conto che fosse più matura di quanto si aspettasse, in quanto delle rughe evidenti si estendevano dai suoi occhi e ai lati della bocca carnosa.
- Chi si rivede ... – disse lei, cogliendolo alla sprovvista.
Non sapendo cosa rispondere rimase in silenzio, ma ella non si scoraggiò e continuò, con quel sorriso indefinibile che Cliamon non riuscì totalmente a decifrare.
- L’incantesimo che vi avevo chiesto di fare diverse lune fa... quello per cui mi avete anche fatta attendere parecchio ... non è andato come speravo.
Ora non sapeva davvero, minimamente cosa risponderle.
- Avete qualcosa da dire in vostra discolpa? – gli disse lei in tono provocatorio, a tratti malizioso, con la voce plasmata dal vino.
- Io non ho fatto nulla di sbagliato – le rispose improvvisamente, con un tono arrogante e sicuro di sè che sentiva non appartenergli affatto. – Talvolta la magia prende delle strade che non ci aspettiamo – aggiunse, sentendola ridere di rimando.
I segni dell’età non avevano affatto penalizzato la bellezza della donna, anzi, se possibile, l’avevano esaltata.
- Vi propongo un patto, Ephram, che ne dite?
- Non sono disposto a fare patti di alcun tipo questa sera.
- Beh, se voi non siete disposto, potrei andare dai monaci del Creatore a dire che avete usato la magia nera impropriamente su di me, anche stasera stessa. Vi rinchiuderebbero nelle segrete e vi brucerebbero su quella pira senza farvi attendere troppo.
Cliamon impietrì e venne totalmente invaso e nauseato dalla meschinità di quella donna.
Sarebbe stata disposta a tanto... per cosa?
E quante altre volte era accaduto qualcosa di simile, con altri servi del Diavolo e stregoni, senza che nessuno di loro ne fosse a conoscenza?
Lui e gli altri monaci avevano passato la vita a ... condannare innocenti?
- Ma io non ho usato la magia nera impropriamente su di voi ... – tentò.
- A quei maledetti monaci non importa se l’avete fatto o no. Non si fanno scrupoli in ogni caso con gli stregoni, lo sapete. Non si fanno scrupoli con noi servi del Diavolo in generale.
Cliamon rimase nuovamente costernato.
- Cosa volete, dunque ...?
A ciò, la donna gli si avvicinò ancor di più e gli passò l’indice sul braccio, per poi risalire fino alla spalla, con fare sensuale. – Io e mio marito vogliamo sperimentare qualcosa, da un po’. Stavamo cercando di trovare la persona giusta. Si dice che le streghe e gli stregoni siano estreamemente fantasiosi a riguardo, e che siano molto avvezzi a tali pratiche. Se capite a cosa mi riferisco ...
Nonostante l’innocenza, Cliamon lo capì, lo capì forte e chiaro, in quanto ogni poro, ogni strato di pelle di quella donna gridava un’inconfondibile eccitazione fisica.
La perversione sfociava nei suoi occhi lucidi, mentre lo guardava vogliosa.
- Allora...? Cosa ne pensate? Verrete in casa nostra e passerete la notte con noi?
Cliamon si ritrovò con le spalle al muro.
Non era giusto, non era corretto, usare quel corpo in tal modo.
Forse c’era un altro modo per sfuggire alle minacce della donna, ma quale?
Come si sarebbe comportato Ephram, se ricattato così?
Avrebbe trovato una soluzione differente o si sarebbe piegato al suo volere?
Forse, se lo avesse desiderato anche lui sì, ma se non lo avesse voluto?
Si fece tutte queste domande, ma non trovò una via d’uscita.
Poi, le parole di Ephram stesso, di quella mattina, gli tornarono in mente chiare e pregnanti: “Non siate codardo e godetevelo fino all’ultimo”.
Era stato lui stesso ad incoraggiarlo.
Eppure... in cuor suo il monaco non voleva piegarsi a tale bassezza d’animo.
La sua relazione col Creatore non c’entrava, in quanto la sentiva già macchiata da quando aveva accettato di rubare il corpo di qualcuno.
Tuttavia, era una questione di integrità morale. Di correttezza, di rispetto, di se stesso e del corpo che abitava.
- Vi posso garantire – ricominciò la donna, per persuaderlo maggiormente. – Che se accettate di passare con noi questa notte, considererò l’episodio dell’incantesimo inesistente, farò finta che non sia mai accaduto.
- Ve ne sarete dimenticata..?
- Me ne dimenticherò.
Oramai, non gli restava null’altro da fare.
Seguì la donna fino a casa sua e la accontentò.
Quella notte, per la prima volta, Cliamon sperimentò i piaceri della carne sulla sua pelle.
Dei piaceri portati all’estremo, portati al dolore fisico, subendo tutto come fosse un’esperienza di vita necessaria e dovuta.
Si sentiva vuoto dentro.
Quella notte, Cliamon capì che non fosse un dono nascere servi del Diavolo, così come non lo era nascere servi del Creatore.
Entrambi erano destinati a soffrire, a patire, a sopravvivere, in un modo o in un altro, chi per un motivo, chi per un altro.
Quella notte, Cliamon capì che nessuno era benvoluto dal Creatore, così come nessuno era benvoluto dal Diavolo.  
 
 

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Capitolo 30
*** Gli otto vizi capitali (parte 3) ***


GLI OTTO VIZI CAPITALI (parte 3)
 
Intorno a lui vi era la desolazione.
Riconosceva quel luogo, molto bene, dai suoi ricordi che risalivano dall’infanzia al presente.
Il terreno sconfinato della galleria.
L’assenza totale di suono era a dir poco destabilizzante.
Non c’era vento, nè pioggia, nè sole.
Poi, improvvisamente, cominciò a visualizzare dei corpi, delle figure muoversi, camminare barcollando.
Erano figure che riconobbe bene.
Sua madre, suo padre, suo fratello, padre Craig, Judith, Quaglia.
Tutti sfigurati e in punto di morte, a causa dell’epidemia che aveva colpito Bliaint.
Continuavano a barcollare senza vita, senza scopo, come cadaveri risvegliati.
D’un tratto, i suoi occhi vennero attirati dall’entrata buia della galleria.
Da essa fuoriuscì una figura. Minuta, con il vestitino troppo largo per il suo corpicino.
Bonnie gli sorrideva a distanza, appena uscita dalla galleria. Un sorriso inquietante e privo di preoccupazioni.
In mano aveva un’orribile Mandragora appena sradicata, con ancora la terra tra le radici.
Improvvisamente, il tremendo urlo acuto della Mandragora invase le sue orecchie e l’ambiente circostante, costringendolo a tapparsi le orecchie con forza.
Quando l’urlo terminò, si accorse di essere ancora vivo.
Ma lo stesso non valeva per le persone barcollanti che vi erano lì intorno: ora erano tutti stesi a terra, senza vita e con le orecchie sanguinanti.
Quando si rivoltò verso l’entrata della galleria, Bonnie non c’era più.
“Il Mostro è Dietro di te” udì quel sussurro roco da parte della bambina, proveniente alle sue spalle.
Si voltò di scatto, ma al posto della fanciullina trovò due calderoni uguali, contenenti due metalli fusi e bollenti che riconobbe immediatamente.
Il suo stomaco si attorcigliò in un groviglio: uno conteneva oro fuso, l’altro piombo.
“Infila le mani” sussurrò di nuovo la voce inconsistente di Bonnie nelle sue orecchie.
Tuttavia, il suo istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e non la ascoltò.
“Infila le mani” ripetè con più vigore quel sussurro agghiacciante, costringendo ad ascoltarla.
Il ragazzo infilò il braccio destro nel calderone contenente il piombo incandescente, bruciandosi e squagliandosi tutta la pelle e la carne dell’arto.
Afferrò qualcosa sul fondo, e lo tirò fuori, trovando il suo avambraccio divenuto un groviglio di ossa e sangue.
Le mani stringevano a sè un corpicino.
Il ragazzo lo osservò a lungo, senza capire cosa fosse: non era nè un bambino, nè una bambola.
Sembrava una via di mezzo: era troppo reale per essere un fantoccio, ma era anche troppo piccolo e deformato per essere un bambino.
 Sembrava più ... un ometto in miniatura.
“Infila l’altra mano”. Ascoltò nuovamente e infilò anche il braccio sinistro nel metallo bollente, questa volta nell’oro, avvertendo di nuovo il dolore inumano della sua carne che si liquefaceva, macchiando la superficie dorata.
Anche stavolta afferrò qualcosa sul fondo, ma stavolta molto più difficile da artigliare.
Quando lo tirò fuori, realizzò con orrore si trattasse della testa del Giudice, senza occhi e senza lingua, esattamente come lo aveva lasciato in quel seminterrato.
Lasciò andare quella testa immediatamente facendola rimmergere nell’oro fuso, restando con solo l’ometto inquietante nella mano.
Quest’ultimo aprì improvvisamente gli occhietti vitrei e iniziò a dimensarsi con impeto, spaventandolo.
“Dietro di Te” di nuovo Bonnie lo richiamò alle sue spalle, facendolo voltare di nuovo verso il “Mostro”.
Stavolta la trovò davvero, in piedi, sin troppo vicina a lui, che lo guardava dal basso con gli occhietti, il naso e la bocca orribilmente pieni di terra.
- Perchè lì ci sei riuscito?? - gli domandò la bambina con tono d’accusa.
- A fare cosa..?
- A trasformare il piombo in oro! Come ci sei riuscito??
- Non lo so!
- Come hai fatto?
- Non lo so. Quando me ne sono andato quell’oro è ritornato piombo!
- Ma ci sei riuscito comunque per un attimo!
- Non ne sono sicuro!

- Devi riuscirci di nuovo, Blake. Se non lo farai non avrai più pace. Io non ti darò più pace.
- Tu non sei reale.
Ella sorrise in risposta, in modo distorto, crudele. – Ne sei sicuro? – gli domandò poi voltando gli occhi verso la sua mano destra. – Dovresti stare attento a lui – gli disse osservando l’ometto. – Potrebbe mordere.
Si alzò di scatto da quel sogno, ansimando.
Era mattino e si era appisolato seduto su una sedia, con la testa sul tavolo della cucina, mentre faceva colazione.
Le numerose ore di sonno perse e arretrate si stavano facendo sentire, ma non avrebbe più ceduto.
Si alzò, si attivò, scrisse un messaggio da far recapitare a Judith e si preparò per uscire di casa.
 
Camminò spedito, con la testa completamente invasa da quel sogno fatto poche ore prima, tanto da farlo tremare mentre si muoveva. Le mani gli facevano ancora male a causa dell’ustione avvenuta nel sogno, nonostante sapesse benissimo non fosse stata reale.
Eppure, il dolore atroce lo era stato.
Se le guardò per l’ennesima volta, involontariamente, trovandole perfettamente intatte.
La mente gli tornò anche al ricordo avvenuto alcuni minuti prima, ancora vivido nella sua memoria:
Ephram aveva appena terminato di fare la seconda sessione di evocazione degli antenati di Quaglia.
Blake si era avvicinato all’uomo quasi immediatamente, con gli occhi avidi di conoscenza che gli brillavano più che mai. Quaglia aveva aperto gli occhi, trovandoselo davanti. Il suo sguardo era ancora vuoto, quasi in trance.
- Homuncolus – era stata la sua unica parola.
Blake ed Ephram si erano guardati, ognuno cercando risposte nello sguardo dell’altro.
- Che significa?
Quaglia era incerto, neanche lui sapeva come mai quella parola lo avesse scosso tanto. – I miei antenati. Lo hanno sussurrato una miriade di volte. Non so se l’ho solo sognato oppure ...
- Che altro?
- Homuncolus. Il fantoccio che contiene l’anima nera dell’uomo. Non so altro. Mi spiace ...
Blake camminò ancora velocemente, le sue falcate avrebbero messo in difficoltà persino un fuggitivo.
Entrò nella cattedrale del Creatore senza guardare in faccia nessuno, diretto verso la sua meta, completamente estraniato dalla realtà.
- Even Blake?
Quella voce sconosciuta che aveva improvvisamente chiamato il suo nome lo aveva riscosso e riportato alla realtà.
Il ragazzo si voltò verso chiunque lo avesse chiamato, togliendosi il cappuccio.
Un monaco, seguito da altri tre, tutti con un grande sorriso stampato in faccia, lo raggiunsero, osservandolo.
- Siete qui per la vostra amata, supponiamo. Ella ci ha riferito poco fa che le avreste fatto visita questa mattina. Oh, ma che maleducato, io sono padre Thomas! – gli disse affabile, stringendogli una mano nella sua, facendogliela ritirare immediatamente indietro a causa del dolore.
Padre Thomas gli rivolse uno sguardo preoccupato. – Avete dolore alle mani per caso? Vi è successo qualcosa?
- No – rispose secco Blake, pensando che quel monaco si stesse prendendo troppe libertà e confidenze per i suoi gusti.
Lo guardò incerto, alzando un sopracciglio. - Il piacere è mio – gli disse, cercando di sembrare normale. - Sì, sto andando da Judith.
- Oh, ma vi prego, toglietevi il mantello, fate come foste a casa vostra qui.
- No, grazie, preferisco tenermelo per ora. Sto risentendo ancora del freddo esterno – gli rispose continuando a guardare quei monaci in evidente stato di confusione.
Loro gli sorrisero ancora, e un altro gli si avvicinò. – Dunque? Avete già deciso la data di nozze?
Blake impietrì in risposta. – Cosa...?
- Certo, non c’è fretta, d’altronde la nostra cara Judith darà alla luce il vostro piccolo miracolo tra mesi. Nessuno vi corre dietro. Tuttavia, eravamo solamente curiosi di sapere se aveste già un’idea a riguardo.
- Per i preparativi! – aggiunse un altro, con sin troppa enfasi. – Sapete, noi conosciamo le migliori sarte del nostro culto. Elle non hanno mai realizzato abiti per dei servi del Diavolo, ma hanno da sempre realizzato splendidi vestiti per i matrimoni dei servi del Creatore. Sono delle vere professioniste! Sarebbero liete di realizzare dei bellissimi abiti di nozze per voi e per Judith, per valorizzarvi al massimo. D’altronde, tanta meraviglia deve essere necessariamente valorizzata – gli disse l’altro, avvicinandosi sin troppo a sua volta.
- Non abbiamo ancora parlato di nozze – rispose sinceramente, con la testa ancora più offuscata.
- Giusto, non vi tartasseremo ancora, non temete – tentò di rassicurarlo l’altro monaco sorridendo.
- Ad ogni modo, sappiate che qui siete sempre il benvenuto! Potete considerarci i vostri secondi padri se lo desiderate.
- Grazie – gli rispose frettolosamente il ragazzo, non vedendo l’ora di allontanarsi da loro.
- Siamo davvero felici che finalmente Judith abbia trovato un degno consorte per lei. Avevamo paura che data la sua elevata intelligenza, cultura e dato anche il suo rango, non sarebbe riuscita mai a trovare una persona alla sua altezza. E invece eccovi qui! Un ragazzo brillante, intelligente, perspicace e molto attento ai suoi bisogni.
- Come fate a dirlo? Voi non mi conoscete.
- Oh ma lo si deduce dall’aura che emanate. Inoltre, Judith ci ha molto parlato di voi, descrivendovi come il ragazzo più ingegnoso e interessante che abbia mai conosciuto.
Si sarebbe dovuto sentire lusingato da ciò che pensava Judith di lui? Forse sì, ma in quel momento, con il suo stato d’animo e il disagio che gli stavano incutendo quei monaci, voleva solo filarsene via e fu quello che fece.
- Ora devo andare da Judith, scusatemi – disse quasi volatilizzandosi, non attendendo una risposta da parte loro, fiondandosi su per le scalinate che lo avrebbero condotto verso il luogo in cui lei lo attendeva, come sempre.
Bussò, e non appena la ragazza gli aprì la porta dell’enorme biblioteca, permettendogli di entrare, non le diede neanche il tempo di salutarlo.
- Buongior-
- Cosa gli prende a quei monaci? – le domandò sorpassandola.
- Perchè? Vi hanno importunato o messo a disagio?
- Decisamente.
- Perdonateli. Sono fatti così. Loro sperano che io trovi la mia anima gemella almeno sin da quando avevo undici anni. Hanno questo sentimento paterno che li lega a me, che li fa agire in questo modo.
- Io mi lamento dell’unico padre che ho, mentre voi ne avete almeno una decina. Non deve essere facile per voi. Ad ogni modo sembra che voi li abbiate esaltati ancora di più con le vostre parole.
- Ho dovuto. Considerando il fatto che non ho neanche deciso se battezzarmi o no, nonostante i miei sedici anni stiano giungendo al termine, loro sono già in subbuglio per questo, perciò ho voluto rabbonirli. Questa mattina hanno voluto parlarmi e mi hanno riempito di domande su di voi. Non lo fanno con cattiveria, credetemi. Semplicemente, tengono a me e alla mia felicità, a loro modo.
- Se quei monaci sapessero davvero cosa regna nel mio cuore e tutti i “peccati” che ho commesso nel corso della mia breve vita, non sarebbero così contenti di vedermi al vostro fianco – le disse togliendosi il mantello, sentendola sorridere di sottecchi dietro di sè, un suono che riuscì lievemente ad acquietarlo, ma solo di poco.
- Ad ogni modo, come mai volevate vedermi questa mattina? Quando mi è giunto il vostro messaggio poco fa, ero incredula. Credevo che ci saremmo visti questa sera, piuttosto. Perchè tutta questa fretta? Blake? - domandò avvicinandosi alla sua schiena.
Il ragazzo si accorse che il suo tono stesse assumendo tinte preoccupate.
Ancora non si sentiva bene. La sua testa viaggiava da un piano all’altro, dalla realtà alla fantasia, dalla materialità al sogno, a velocità inaudita, insopportabile.
Improvvisamente, Blake si voltò verso di lei, trovandosela davanti, sorprendendola. – Vi vedo dimagrita. Ho saputo da padre Craig, che in questi giorni vi ha vista più di me, che stavate dimagrendo a vista d’occhio. Lui se ne è accorto, se ne è allarmato e me ne ha parlato. Ora che vi vedo, concordo con lui. 
A quelle parole, i grandi occhi di ossidiana della ragazza si spalancarono, abbassandosi. – Padre Craig avrebbe dovuto parlarne prima con me ed espormi le sue preoccupazioni in prima persona.
- Sarebbe cambiato qualcosa? – le domandò lui studiandola. – Volete dirmi per quale motivo avete smesso di mangiare?
- E voi invece? Volete dirmi per quale motivo avete smesso di dormire? – gli domandò rigirando la domanda, lasciandolo sorpreso. – Anche a me padre Craig ha parlato di voi. Mi ha detto che le ultime due nottate le avete passate fuori casa, non si sa a fare cosa. Mi ha detto che quando vi avrei rivisto avrei trovato delle profondissime occhiaie sotto i vostri occhi blu, e che mi sarei quasi spaventata dallo stato di caos e confusione che traspare dal vostro viso. Mi ha anche detto cosa è accaduto alla galleria l’ultima volta ...
- Quel dannato prete che non riesce a tenere la bocca chiusa ...
- Egli è preoccupato per noi, Blake. Potete biasimarlo? Allora? Volete dirmi cosa vi sta succedendo? Sto iniziando a preoccuparmi anche io.
- Voi conoscete il latino? – le domandò a bruciapelo, ponendo le braccia conserte convulsamente.
- Sì, ma perchè...?
- Sapete cosa vuol dire “homuncolus”? Credo sia latino, ma non ne sono certo.
- Sì, è latino – confermò la ragazza. – Significa “piccolo uomo”.
Blake vi riflettè su, ripensando all’ometto deforme che aveva ripescato nel piombo nel suo sogno, cercando di cancellare immediatamente quell’immagine.
- Questa mattina abbiamo fatto una seconda sessione di evocazione a Quaglia, per fargli incontrare i suoi antenati. Il nostro scopo era stimolargli alcuni ricordi, per carpire informazioni sulla polvere nera. Ma ciò che è venuto fuori è altro. Il mistero della generazione dei Philippus si sta infittendo sempre di più.
- Sembra che la questione vi stia ossessionando.
- Non è questo che mi sta ossessionando.
- Blake, state tremando. Ve ne siete reso conto?  – gli disse puntando gli occhi sulle braccia del ragazzo conserte, strette tra loro e frementi.
- La colpa è solo della mancanza di sonno – le rispose. A ciò, andò immediatamente in cerca di un foglio, di una piuma e di un calamaio.
- Che state facendo? – Judith era sempre più confusa dal suo atteggiamento.
- Ho bisogno di fare qualcosa che mi calmi – le rispose trovando ciò che gli occorreva, sedendosi dietro all’enorme tavolo e iniziando a tracciare convulsamente con l’inchiostro una serie di numeri e di calcoli che agli occhi di Judith risultarono quasi incomprensibili. La velocità con la quale scriveva quei numeri era quasi inumana, tanto che, in poco più di un minuto aveva già riempito un intero foglio, e si accingeva a prenderne un altro.
- E ... fare calcoli riesce a calmarvi, solitamente? – gli domandò lei alzando un sopracciglio incuriosita.
- Sì. Se volete sapere perchè non sto riuscendo a dormire, il motivo sta nelle visioni che mi stanno apparendo, nei sogni che sto facendo. Gli incubi sono diventati talmente frequenti che ho paura di addormentarmi.
- Ma se non dormirete, il vostro corpo crollerà...
- Lo so.
- Capisco come vi sentite, in parte. Quello che entrambi abbiamo vissuto mentre eravamo lontani, per quanto totalmente diverso, ci ha segnati nel profondo. Ed ora, solo ora ne stiamo subendo le conseguenze in prima persona, entrambi. Cosa vedete nei vostri sogni e visioni?
- Non posso spiegarlo.
A ciò, Judith sospirò, arrendendosi e abbassando le difese, cedendo al bisogno di sfogarsi. Di sfogarsi con lui. - Volete sapere perchè ho smesso di mangiare, Blake...? Perchè, inconsciamente, in questo modo mi sembra di impedire al bambino che è dentro di me di crescere. Di ucciderlo dolcemente. Perchè non voglio tenere il mio bambino. Non ho mai voluto.
A tali parole, Blake si bloccò immediatamente, smettendo di scrivere quel caos di numeri.
Era impietrito e aveva alzato lo sguardo su di lei, che era ancora in piedi, dall’altra parte del tavolo.
- Judith ...
- No, vi prego. Non dite niente. Non potrei mai accettare un giudizio da parte vostra. La vostra opinione è troppo importante per me.
- Non ho intenzione di giudicarvi, non lo farei mai.
- Voi... se foste me e non voleste questo.. cosa fareste al mio posto?
- Perchè continuate a farmi domande alle quali non potrei mai rispondere? Io non posso lontanamente immaginare come vi sentite ... – le rispose sorridendo amaramente, continuando a guardarla.
- Ma siete una persona empatica – ribatté lei. Il suo sguardo era quanto di più doloroso si potesse osservare in quel momento per Blake.
- Io ... credo solo che, ogni donna avrebbe il diritto di scegliere per sè. La scelta dovrebbe essere vostra e di nessun altro. Non dovreste farvi condizionare dai giudizi e dalle costrizioni di alcuna persona. Il corpo è vostro. Se volete ucciderlo ... avreste il diritto e il potere di farlo.
Judith rimase attonita da quella risposta. – Non credete ... non credete sia estremamente crudele essere costretti a scegliere per la vita di qualcun altro?
- Dovreste scegliere comunque per la sua vita, Judith, in quanto lui non può farlo, ahimè. Scegliereste per lui sia se decideste di farlo nascere e di donargli la vita, sia se sceglieste di privarlo della vita. Dunque, per quale motivo dovreste optare per una soluzione o per l’altra? Se lui potesse farlo da per sè, sarebbe sicuramente meglio. Ma non può.
Ad ogni modo, smettere di mangiare non è la soluzione.
- Lo so. Ma non posso farne a meno – non appena pronunciò quelle parole, la ragazza si sentì cedere le gambe. La fame non c’entrava questa volta.
Era debilitata dalla vita, dalle scelte che era costretta a compiere. Una tremenda voglia di lasciarsi andare, di piangere e di sentirlo accanto a sè, la invase, facendola avvicinare a lui e inginocchiare a terra, ai suoi piedi. Judith lo guardò dall’alto con gli occhi lucidi, distrutti, inverosimilmente belli. Ella gli prese le mani tra le sue e gliele strinse, lasciandolo sconvolto.
Improvvisamente il dolore alle mani del ragazzo si placò.
Judith avvicinò le nocche di lui alla proprie labbra e iniziò a trattenere le lacrime.
Avendo ben compreso cosa stesse accadendo in lei, di cosa avesse bisogno in quel momento, Blake non attese un secondo di più.  Si inginocchiò a sua volta sul pavimento freddo, di fronte a lei, e la abbracciò, stringendola a sè, mentre lei ricambiava bisognosa, invasa da piccoli spasmi.
Egli la cullò un po’, accarezzandole dolcemente la schiena e avvolgendole la nuca scoperta con le sue dita calde e rassicuranti.
Judith, dal canto suo, affondò il viso nel suo collo e nella spalla, stritolandogli la schiena con una mano, e stringendogli i folti capelli con l’altra.
I loro profumi si mischiarono, facendoli cadere in uno stato di piacevolissimo torpore, quasi una dipendeza l’uno dell’altra.
Sarebbero rimasti così, abbracciati stretti l’una all’altro, con i loro corpi quasi fusi tra loro, per una vita intera, senza stancarsi mai.
Erano comodi, al sicuro, felici, frementi nelle braccia dell’altro. Una miriade di sensazioni che non credevano di riuscire a provare.
- Ditemi cosa vi tormenta nei vostri incubi, vi prego.. voglio aiutarvi in qualche modo – sussurrò lei muovendo le labbra sul suo collo.
Lo sentì irrigidirsi lievemente tra le sue braccia.
- Nella casa del Giudice ... accadde qualcosa di inspiegabile. Mi è rimasto nella mente e mi martella, in cerca di risposte. Devo cercare di replicarlo. Per carpirne qualcosa.
- Di cosa stiamo parlando?
- Di alchimia, Judith.
- E poi? So che non è solo questo.
- E poi c’è la polvere nera ... è vero, è un’ossessione per me, e non solo per il nostro progetto. Voglio sapere come funziona, voglio crearla con le mie mani, e lo voglio ancora di più da quando ho assistito con i miei occhi a cosa è in grado di fare. Inoltre, voglio anche curare mio fratello definitivamente con la mandragora, ma ho paura. Ho il terrore che alcuni effetti negativi imprevisti si possano riversare su di lui e non me lo perdonerei mai se accadesse. Ed ora si aggiunge anche questa nuova scoperta dell’homuncolus...
La ragazza si staccò lievemente da lui, solo per porre il viso davanti al suo e prenderglielo tra le mani delicatamente. – Tutto ciò finirà per divorarvi, Blake ... Non voglio vedervi disintegrarvi davanti ai miei occhi. Dovete fermarvi. Riuscite a fermare i vostri pensieri?
- No – le rispose sinceramente lui.
- Voglio che facciate qualcosa per me oggi pomeriggio.
- Che cosa?
- Voglio che vi prendiate del tempo per dormire, sconfiggendo la paura. Potete provarci, almeno? Ne avete bisogno.
Lui la guardò combattuto. – Voi, in cambio, mangerete qualcosa di sostanzioso?
- Sì, lo farò – gli rispose con convinzione, non sapendo se sarebbe riuscita a farlo davvero o no. – Cos’altro vi turba?
- “Il fantoccio che contiene l’anima nera dell’uomo” ha detto Quaglia questa mattina, in riferimento all’homuncolus, sotto suggestione dei ricordi dei suoi antenati. Avete in mente cosa possa significare?
Judith vi pensò su. – L’anima nera? Beh, solitamente siamo avvezzi a distinguere in noi due anime, giusto? Un anima buona e una cattiva. Così è come lo spiegheremmo ai bambini. Due concetti binari, che in realtà non sono così semplici come li classifichiamo. Queste due anime, nera e bianca, si fondono tra loro, si intersecano, formando le persone che siamo.
- Nessuno di noi possiede solo una delle due anime – aggiunse Blake, ragionando di nuovo per concetti semplici. – Le possediamo tutti entrambe. Perchè siamo esseri umani.
Rimasero in silenzio a guardarsi, riflettendo.
- Queste informazioni non bastano. Dovremo scoprire qualcosa di più con le prossime sessioni di evocazione tenute da Ephram.
- A proposito di Ephram, ieri è accaduta una cosa strana.. è venuto da me ma non sembrava quasi lui..
Ma prima che la ragazza potesse terminare la frase, la porta della biblioteca venne aperta all’improvviso, e un monaco entrò con due infusi caldi tra le mani, paralizzandosi all’entrata.
- Oh, scusate, cari ... non pensavo di star per interrompere qualcosa – disse imbarazzato e mortificato.
Solo in quel momento i due giovani si resero conto di trovarsi ancora in una posizione abbastanza equivoca: Judith aveva ancora le dita affondate nei capelli di Blake, mentre quest’ultimo aveva le mani strette al busto della ragazza, ed entrambi erano ancora estremamente vicini, inginocchiati a terra.
I due si divisero e si rialzarono in piedi.
- Da quando non si bussa più, padre? – lo rimproverò lei.
- Oh cara, ho sentito che le vostre voci provenissero da qui in lontananza, e ho pensato di venire a portarvi qualcosa di caldo da sorseggiare. Insomma, per determinate pratiche è più adatta la camera da letto, non credete? E poi, vi devo ricordare che la biblioteca è vietata a qualunque popolano? – la rimproverò più con un tono che ricordava quello di un padre amorevole.
Blake si dovette trattenere dallo scoppiare in una risata di scherno, di seguito a quell’ultima domanda da parte del monaco.
- Blake è il mio promesso, padre. Lui non è un “qualunque popolano”, ha molti più privilegi.
Il ragazzo accennò un sorriso divertito a quella risposta per le rime, accorgendosi, tuttavia, che dal modo in cui aveva parlato Judith, i monaci più malfidati si sarebbero potuti tranquillamente fare un’idea sbagliata del loro rapporto, iniziando a sospettare che lui stesse recando vantaggio dalla sua relazione con Judith, per ottenere più privilegi, come un qualsiasi approfittatore senza scrupoli.
Un’accusa che gli era già stata mossa, ma in circostanze e con persone ben differenti.
Il monaco si scusò ancora mortificato e si dileguò, uscendo dalla porta.
Rimasti nuovamente soli, Judith tornò a guardarlo.
- Stasera ci rivedremo – le disse lui, accingendosi a prendere il suo mantello per rinfilarselo. – Tornerò qui e passeremo più tempo insieme.
Judith annuì, accennando un sorriso. – Credo ci rivedremo anche prima di stasera, tuttavia.
- Perchè? – domandò lui curioso.
- Blake ... ve ne siete dimenticato? Tra qualche ora ci sarà l’ultima veglia per commemorare la scomparsa della piccola Bonnie. Quella definitiva, a cui quasi tutti i servi del Diavolo parteciperanno.
A quell’informazione, Blake sbiancò completamente, ricordando l’immagine grottesca e terribile di quella bambina ridente e con gli occhi colmi di terra del suo sogno.
- Ve ne eravate dimenticato?
- Non ci stavo pensando.
- Eppure, voi avete assistito alla sua morte, avete anche tentato di salvarla. Usavate giocare e scherzare con lei. Credevo sareste stato il primo a voler partecipare, dato che non siete andato neanche ad una delle veglie in sua memoria. E considerando che a quest’ultima saranno presenti tutti, in rispetto e in sostegno alla sua famiglia. Avete intenzione di non venire?
- Verrò. Certo che verrò – rispose con convinzione.
Si diede dello stupido mentalmente. Bonnie era una bambina solare e meravigliosa in vita, che meritava certamente il suo ultimo saluto. Ella non aveva alcuna colpa per il suo atroce fantasma che gli compariva costantemente in sogno e in visione.
A ciò, la ragazza accennò un sorriso. – Allora ci vedremo lì.
Blake annuì, si accostò a lei, le diede un bacio sulla guancia e si avviò verso l’uscita della biblioteca.
- Aspettate – lo bloccò Judith con la sua voce, mentre egli stava per aprire la porta; tirando fuori un argomento che Blake non credeva avrebbero affrontato a breve, per lo meno non quella mattina, la quale stava prendendo una piega sempre più particolare:
- Ditemi ... voi avete già deciso se battezzarvi o no?
 
Gli ci vollero un bel po’ di impegno, di favori da riscuotere e di vecche conoscenze per scoprire dove abitasse temporaneamente Myriam.
Da quando quella mattina si era risvegliato di nuovo nel suo deprecabile corpo, un vuoto incolmabile aveva iniziato a divorare padre Cliamon dall’interno, facendogli desiderare di abitare nuovamente il corpo dello stregone.
Avrebbe dovuto immaginarlo. Tuttavia, credeva che un giorno gli sarebbe bastato.
Lo credeva davvero.
Non pensava che quell’unico giorno in un corpo diverso, e con la vista tornata, avrebbe alimentato la sua sete ancor di più.
Doveva parlarne assolutamente con la strega. Motivo per cui si era mosso sin da quella mattina stessa, per cercare chiunque l’avesse minimamente scorta in giro, rientrare in una casa in particolare.
Fortunatamente, era riuscito ad ottenere furbescamente le informazioni che gli servivano, mentendo, spargendo la voce che la donna fosse ricercata per essere interrogata dai monaci.
Se qualcuno gli avesse chiesto spiegazioni, gli avrebbe detto che la questione fosse oramai risolta.
Il monaco bussò alla casa che gli avevano indicato, sperando fosse quella giusta.
Il rumore della porta aperta gli giunse alle orecchie, un profumo pungente e di un’aroma che non riuscì a riconoscere gli invase i sensi, seguito dalla voce profonda di lei.
- Sapevo vi avrei trovato davanti al mio uscio – esordì Myriam atona, senza aggiungere altro.
Gli permise di entrare e lo fece sedere dinnanzi ad un tavolino, mentre ella continuava ad aspirare quei fumi intensi e densi.
- Volete favorire? – gli domandò, vedendolo tossire in risposta e rifiutare gentilmente.
La casa che le era stata lasciata, per viverci in solitudine sin quanto volesse, apparteneva ad una sua vecchia cliente, recentemente morta di vecchiaia.
- Dunque? Com’è stata la vostra elettrizzante esperienza nel corpo che avete sempre voluto avere?
- Lo rivoglio – pretese il monaco, sorprendendola.
- Che cosa rivolete?
- Voglio riprovare quelle sensazioni. È stato come trovarmi in paradiso, per la prima volta – disse con le lacrime agli occhi. – Certo, non è stato tutto rosa e fiori – ammise. – Ho appurato che la vita per voi servitori del Diavolo non è affatto semplice, anzi. È più dura di quanto mi aspettassi. Tuttavia, la consapevolezza di possedere tale aspetto ... per me, annulla qualsiasi altra cosa.
Myriam lo guardò assorta, ascoltando. – Siete un caso perso. Molto più di quanto mi aspettassi.
- Mi rendo conto di sembrare molto egoista e superficiale.
- È quello che siete.
- Eppure ... non riesco a farne a meno – confessò colpevole, mettendosi totalmente a nudo dinnanzi a lei.
Oramai non aveva più un briciolo di orgoglio. Oramai, più niente lo teneva a freno. Quanto repentinamente era giunto sino a quel punto..? - Non si tratta solo della piacevolezza che mi provoca osservare la mia immagine riflessa o essere guardato in un determinato modo. Si tratta di qualcosa che va decisamente oltre ...
- Avete anche goduto dei piaceri della carne quando eravate nel corpo di Ephram? – lo interruppe lei.
- Non voglio che riduciate tutto a questo. Per me non è così. I piaceri della carne sono l’ultimo motivo che mi ha spinto a ...
- Rispondete alla domanda, padre.
- Io ... non avrei voluto. Davvero, non è qualcosa che mi interessa. Tuttavia, sono capitato in una situazione che mi ha reso impossibile evitare di farlo.
- “Una situazione che vi ha reso impossibile evitare di farlo”? – ripetè lei sorridendo di scherno. – E quale sarebbe?
- Una donna mi ha minacciato di denunciarmi ai monaci del Creatore per un incantesimo che ... Ephram deve aver compiuto del tempo addietro.
- Minacce del genere per noi sono quasi all’ordine del giorno, padre, se abbiamo l’ardire di mostrarci al villaggio come stiamo facendo io ed Ephram. Avreste potuto farle passare la voglia di minacciarvi in quindici modi diversi, senza assecondarla. Eppure... avete comunque ceduto al richiamo della carne. “Con immensa fatica” immagino.
- Dunque credete che Ephram non avrebbe fatto lo stesso ...?
- Non lo credo, ne sono certa: ad Ephram non piace essere minacciato. Inoltre ... – disse lei avvicinandosi maggiormente al tavolo, poggiandovi i gomiti sopra. – Voi siete un monaco. Non dovreste avere dei principi?
Cliamon abbassò lo sguardo. – Cosa volete che ammetta, Myriam? Che mi avete in pugno? Sì, mi avete in pugno. Mi avete offerto ciò che ho sognato da tutta la vita ed ora non riesco più a farne a meno. Sono un peccatore.
Myriam aspirò ancora quei fumi, poi li lasciò sfuggire dalle sue labbra a piccole dosi.
- Cosa volete da me, monaco? Un patto?
- Un giorno nel corpo di un servo del Diavolo, ogni settimana.
- Non posso farvi rientrare nel corpo di Ephram. Egli è uno stregone come me, potente quanto me. Se gli rifilassi di nuovo uno scherzetto del genere me la farebbe pagare nel peggiore dei modi, dunque è escluso.
- Non deve essere per forza Ephram. Escludiamo tutti gli stregoni, dunque.
- Volete il corpo di un servitore del Diavolo qualsiasi, dunque? Un semplice contadino?
Cliamon annuì caldamente, già fremente all’idea.
- Qualcuno di più vicino alla vostra età, questa volta? Qualcuno di più maturo...
- No! – esclamò egli interrompendola, lasciandola nuovamente attonita. – Li voglio giovani. Solo ragazzi giovani – disse con decisione, senza vergogna.
- Sarebbe saggio ... – aggiunse poi il monaco. – che fosse sempre lo stesso. E che questi sia al corrente del nostro accordo e lo accetti.
- Impossibile.
- Allora, potreste rimuovere i suoi ricordi di quel giorno, ogni volta.
Myriam vi pensò su, facendo piombare la casa nel silenzio.
- Dunque ... potreste farlo? Potreste cancellare i suoi ricordi ...?
- L’unica cosa che potrei fare è distorcerli.
 - Andrà bene!
- E io cosa ci guadagnerei in cambio? Voi, vecchio monaco del Creatore, non avete nulla da darmi che possa lontanamente interessarmi.
- Posso offrirvi dell’oro. Tutto quello che volete ...
Myriam scoppiò in una sguainata e divertita risata, all’udire tali parole.
- Dovrei cacciarvi via da questa casa a calci all’istante, dopo ciò!! – esclamò spazientita dopo aver terminato di ridere.
- Aspettate! – il monaco si scervellò, alla disperata ricerca di una soluzione.
- Posso fare in modo di persuadere gli altri monaci a liberare la vostra amica, Beitris.
- Non è sufficiente.
- Posso darvi libero accesso alle biblioteche, in modo che potrete ...
- Non è sufficiente.
- Posso uccidere qualcuno per voi!
Myriam si pietrificò, e il monaco con lei, dopo quel che aveva appena pronunciato.
Non credeva che quelle parole potessero davvero provenire dalla sua bocca.
- Posso uccidere qualcuno per voi ... – ripetè. – E fare in modo che la colpa non ricada su nessuno.
Gli occhi scuri ed espressivi della strega si spalancarono ancor di più e si illuminarono.
- Tu ... ti macchieresti di un oltraggio simile, “uomo di Dio”? – gli domandò tra lo sprezzante e il fremente.
- Sì. Lo farò.
- Mi sorprendete sempre di più, padre – pronunciò la donna abbandonandosi con la schiena allo schienale della sedia, con gli scenari più temibili che le invasero la mente.
Due volti le comparvero improvvisamente in testa, con lampante nitidezza.
Sorrise di sottecchi, soddisfatta, già pregustando la sua vendetta, su entrambe.
- Ho due nomi per voi. Tuttavia, una di queste deve essere assassinata, mentre l’altra non la voglio morta, in quanto ho intenzione di farla soffrire.
Padre Cliamon deglutì, non realizzando pienamente neanche lui in che tremendo e inconcepibile guaio si stesse cacciando facendo quel patto col Diavolo, letteralmente.
- Parlate – le disse.
- Alma Heloisa. L’avete mai incontrata?
- Una volta sola. Ella è la madre di Blake, l’amico di Judith. Ricordo di aver creato un brutto equivoco con lei, per proteggere Judith – sussurrò il monaco, sentendo un magone insormontabile dentro al solo scoprire che uno di questi due nomi appartenesse ad una donna che aveva già incontrato, seppur una sola volta.
Ella gli era sembrata una persona buona, semplice, pura di cuore.
Eppure, avrebbe dovuto farla soffrire in un modo addirittura peggiore della morte stessa.
Era disposto davvero a così tanto per la sua fame di bellezza?
Improvvisamente i suoi rimorsi di coscienza ebbero la meglio. – Non credo di essere sicuro di volerlo ancora fare. Credo sia stato un errore venire qui – disse, facendo per rialzarsi in piedi e andarsene, sperando di essere ancora in tempo e che, se lo avesse fatto subito, sia Myriam, sia lui stesso, si sarebbero dimenticati del pericolosissimo discorso appena avvenuto tra loro. Forse, la sua coscienza si sarebbe redenta, col tempo, per aver quasi accettato quel tremendo patto. Magari aiutando Judith con lo spettacolo dei bambini, confessando e aiutando almeno una dozzina di fedeli al giorno, essendo di conforto e aiuto per tutti i bisognosi, unificando i due credi come lui e Judith si erano ripromessi di fare da anni.
Magari, quel giorno nel corpo di Ephram sarebbe scomparso dalla sua mente e dalla sua anima con facilità se avesse riempito il suo spirito con tutt’altro.
Non avrebbe più desiderato di possedere un corpo diverso, la sua invidia si sarebbe attenuata e forse ... forse persino Dio lo avrebbe perdonato.
Convinto da questi pensieri positivi, si alzò dalla sedia, ma venne improvvisamente bloccato dalla mano spigolosa e dolorosa della strega, la quale gli afferrò il polso con forza, facendogli male, ritrascinandolo seduto.
- Volete tirarvi indietro, padre...? Davvero..? Dopo tutto quello che mi avete appena detto? – gli domandò lei ridendo maligna. – Ora riaccomodatevi, in quanto siamo già a metà del nostro patto. Non potete lanciare il sasso e poi ritirare la manina, dopo avermi fatto già assaporare i risultati e i vantaggi che potrei ottenere col nostro accordo.
- Ma io non voglio più farlo. Vi prego, lasciatemi andare ... Vi domando immensamente scusa per avervi fatto perdere tempo.
- E siete totalmente certo che non ritornerete da me correndo con la coda tra le gambe tra qualche giorno? Quando il desiderio di abitare un corpo bellissimo non si ripresenterà in voi con più prepotenza di ora?
Padre Cliamon deglutì rumorosamente.
- Il tuo desiderio abita in te con radici talmente salde, da farmi impallidire, monaco.
Non lo estirperai.
In nessun modo al mondo.
Rimarrà lì, in te, a consumarti, sino alla morte, portandoti alla pazzia – gli sussurrò melliflua, avvicinando il viso al suo. – Ritornerai sempre da me. Sempre. Quando non riuscirai più a sopportarlo.
- Tuttavia ... tuttavia, se provassi a...
- Vi ridarò il dono della vista.
- Cosa...? – le domandò il monaco non credendo alle sue orecchie.
- Solo per oggi. Solo per convincervi che non riuscirete a rinunciare alla vostra natura invidiosa, al vostro desiderio malato e incommensurabile. Se riuscirò a convincervi a stipulare il nostro patto, col sangue, avrete ciò che avete sempre desiderato per un giorno a settimana, seppur ad un piccolo prezzo, che ora percepite come enorme, ma che si attenuerà col tempo, quando la vostra anima diverrà ancor più corrotta. Invece, se neanche col mio tentativo riuscirete a convincervi, vi lascerò andare e ci dimenticheremo di questa chiacchierata. Che ne dite?
Cliamon acconsentì.
A ciò, la donna osservò il sole fuori dalla finestra. – Dovrebbe essere quasi ora.
- Di cosa?
- Vi porterò nel luogo che oggi riunirà quanti più giovani servi del Diavolo possibile, tutti vicini tra loro, e senza stregoni. Un luogo in cui potremo osservarli indisturbati. Così potrete scegliere.
- Scegliere...?
- Scegliere chi sarà il “fortunato” che una volta a settimana ospiterà il vostro corpo. Sempre se accetterete di aderire al patto, sia chiaro ...
Quello si chiamava giocare sporco, pensò padre Cliamon.
Ridonargli la vista e fargli osservare così tanta bellezza tutta riunita insieme in un unico punto, tutta a sua disposizione, era crudele, immensamente crudele per la sua volontà debole.
- Cos’è questo luogo?
- La cattedrale del Diavolo, ovviamente. Vi porterò all’ultima veglia per commemorare la scomparsa della bambina morta sotto le galleria crollata.
Myriam si alzò già dalla sedia, poco prima che Cliamon le rivolgesse un’altra domanda:
- Non mi avete ancora detto il nome della seconda persona ... quella che volete che uccida – disse, sforzandosi di non tremare nel pronunciare quelle parole.
A ciò, la strega sorrise, animandosi ancor di più. – Tempo al tempo, padre. Lo saprete presto. Ora venite con me.
 
Myriam fece un banale incantesimo di camuffamento volto che usava fare di frequente nella sua giovinezza, e con il quale si divertiva spesso.
In quel semplice modo, per un tempo limitato, sia la strega che il monaco avrebbero posseduto un volto che non era il loro, seppur il corpo fosse lo stesso, in modo da poter sembrare altri e non destare l’attenzione dentro la cattedrale del Diavolo, lei perchè era una strega che aveva partecipato alla rivolta, mentre lui un servo del Creatore.
Si mossero di soppiatto, nascondendosi dietro una delle imponenti colonne che circondavano l’immensa sala, colma di servi del Diavolo di ogni età e sesso, e che riempivano le sedie di entrambe le navate.
La veglia consisteva fondamentalmente in dei canti comuni e preghiere in sintonia per commemorare la scomparsa di Bonnie. Nonostante non vi fossero più monaci del Diavolo in vita per poter presiedere la veglia, i servi del Diavolo avevano comunque trovato il modo per pregare e commemorare in comunità senza il bisogno di una figura di autorità che amministrasse il tutto.
Erano tutti seduti e cantavano.
Cliamon, ora con gli occhi di nuovo funzionanti, osservò quella scena ammaliato.
Non solo per la bellezza di tutti quei servi del Diavolo, bensì per la solennità di quell’evento, di quegli sguardi concentrati, che intonavano con le loro belle voci quelle parole splendide, con passione, trasporto e sacralità insieme. Persino gli anziani emanavano un’aura di intenso magnetismo.
Cliamon non capì come fosse possibile che risultassero così sacri e al contempo carnalmente intensi insieme.
Non aveva mai udito prima i canti e le preghiere dei servi del Diavolo e le trovò meravigliose.
- Osservali bene tutti ... – gli sussurrò Myriam all’orecchio, riportando la sua attenzione al motivo per cui fossero lì.
A ciò, il monaco fece vagare lo sguardo sui ragazzi più giovani, studiandone singolarmente e minuziosamente alcuni, quelli che attirarono maggiormente la sua attenzione.
I suoi occhi si fermarono per prima su un giovane dai capelli rossi.
Egli aveva il bellissimo volto macchiato di lentiggini che non facevano altro che donargli un aspetto più intenso, e anche più dolce rispetto ad altri.
La sua pelle era bianca come il latte, il naso dritto e ben proporzionato, le labbra decisamente carnose, gli occhi grandi e azzurri come il cielo limpido.
Rispetto ad altri della sua età era più basso, ma rimaneva comunque decisamente alto agli occhi di padre Cliamon, il quale vagò con lo sguardo anche sui suoi vestiti semplici, comuni ma ordinati, che nascondevano un corpo molto avvenente, dai tratti sottili. Era un corpo molto diverso da quello di Ephram, il quale risultava molto più imponente e alto, con le spalle più larghe e le curve più definite rispetto a quel ragazzino.
Sicuramente ciò era dovuto anche alle loro età differenti, in quanto quel fanciullo dimostrava non più di quindici anni.
I suoi occhi passarono ad un altro, poco lontano dal primo.
Ce ne erano talmente tanti da guardare e da osservare, che gli si accaponò quasi la pelle, sapendo già che, in seguito a quella paradisiaca visione, si sarebbe convinto ad accettare il patto della strega, abbandonando definitivamente ogni speranza di redimere la sua anima.
Era sicuro che non sarebbe minimamente riuscito a guardarli e a studiarli tutti, non sarebbe bastata un’intera giornata, e la veglia prima o poi sarebbe finita.
Inoltre, stava venendo distratto anche dall’avvenenza delle splendide creature di sesso femminile che popolavano quel luogo.
Si concentrò sul secondo ragazzo che aveva adocchiato, notando le differenze rispetto al primo. Egli era sicuramente un figlio di contadini, uno zappatore probabilmente. Lo dicevano chiaramente le sue braccia gonfie, il suo corpo scolpito e muscoloso che si intravedeva dai vestiti semplici, rovinati, rattoppati, lievemente anneriti, sicuramente i migliori che aveva.
Nonostante tutto, su di lui assumevano un fascino strano e quasi malsano quei vestiti, considerando il penetrante bell’aspetto del ragazzo.
La sua era una bellezza intensa e virile, molto più virile del primo giovane, con la mascella perfetta e squadrata, gli zigomi alti, la pelle ambrata, i capelli ricci e neri come l’ebano, e, infine, gli occhi che si stagliavano in quella distesa in modo quasi doloroso, di un colore che ricordava quello del ghiaccio, tendente al grigio.
- Se lo continuate a guardare in tal modo, quel povero ragazzo si consumerà – gli sibilò Myriam riscuotendolo. Ella osservava tutto, chiunque egli guardasse. – Avete scelto lui?
- Voglio guardarne anche altri, prima – le disse, cercando di passare gli occhi su ognuno, tremendamente e drammaticamente indeciso. Fosse stato per lui avrebbe passato un giorno nel corpo di ognuno di loro, ma sarebbe stato troppo rischioso.
Improvvisamente, i suoi occhi vennero attirati da una figura che conosceva e che aveva rivisto il giorno prima, involontariamente attratto da tutto di lui.
Ma il monaco non fece neanche in tempo ad incantarsi sui meravigliosi occhi blu tempesta di Blake, e sul suo corpo talmente bello da risultare quasi conturbante, che avvertì la sua mascella venire afferrata fermamente dalla strega, la quale gli voltò il viso con violenza verso di lei. – Non osate minimamente posare i vostri repellenti occhi su di lui. Non lui. Potete scegliere chiunque, ma non lui. Sono stata chiara? – gli sussurrò minacciosa come non l’aveva mai sentita.
A ciò, annuì fermamente, capendo che la strega dovesse essere legata in qualche modo a quel ragazzo, realizzando che vi fossero ancora parecchie cose che gli erano oscure in lei.
Lei gli lasciò andare la mascella con sdegno, ed egli, stavolta, venne attirato dalla figura accomodata di fianco a Blake: la sua splendida Judith cantava i canti del proprio credo con una lucentezza che adombrava quella di tutte le altre donne.
Si preoccupò di non starle abbastanza accanto dal momento che si accorse solo in quell’istante che fosse più magra del solito.
Chissà se il suo bambino stava bene. Chissà se lei stava bene. Era talmente concentrato su se stesso ultimamente, da non aver prestato attenzione alla sua pupilla.
Poi, inconsciamente, i suoi occhi sostarono sulla donna seduta sempre accanto a Blake, ma dalla parte opposta: Alma Heloisa. La donna che avrebbe dovuto far soffrire ...
Ricordava i suoi pomposi ricci scuri, che nessuno dei due figli aveva ereditato, e gli occhi sinceri, grandi, azzurri come un lago illuminato dal sole.
Ella cantava ignara, ignara di cosa le sarebbe accaduto.
Cliamon deglutì a vuoto.
- Non abbiamo tutto il giorno, padre – lo riscosse ancora Myriam.
A ciò, Cliamon, di nuovo in crisi, sapendo di non poter guardare e concentrarsi su tutti quegli splendidi giovani contemporaneamente, posò gli occhi sull’unico che era in piedi in quel momento.
Si chiese come mai si fosse improvvisamente alzato in piedi, e perchè proprio lui.
Essendo il ragazzo posizionato molto avanti rispetto al punto da cui il monaco osservava, in quanto era quasi davanti all’altare, Cliamon riuscì a vederlo solo di spalle.
Un istante dopo, tutti i servitori del Diavolo si zittirono improvvisamente, smettendo di cantare e facendo piombare il salone nel silenzio.
Il ragazzo si voltò verso le navate, verso tutti coloro che si erano recati lì, quel pomeriggio, per commemorare la piccola Bonnie.
- Dato che non ho mai preso la parola, durante tutte le veglie che abbiamo tenuto per mia sorella, in questi giorni... ho deciso che lo farò ora. Vi ringrazio, voi tutti, a nome mio e dei miei genitori, di esserci in così tanti, per darle un ultimo e accorato saluto – disse il ragazzo a gran voce.
Cliamon spalancò gli occhi, ora gli era tutto chiaro.
Si trattava del fratello della ragazzina deceduta.
Si perse ad osservarlo, non riuscendo ad ascoltare le sue parole, in quanto troppo preso e concentrato a scandagliarlo da capo a piedi, a nutrirsi di ogni dettaglio.
Egli aveva i capelli biondi e lunghi sino alla schiena, legati disordinatamente indietro.
Ma non era lo stesso biondo di Maroine e Maringlen, in quanto i suoi erano talmente chiari da tendere quasi al bianco.
Nonostante non li valorizzasse, e li trattasse con noncuranza, riuscivano comunque a risaltare nella loro bellezza, e a spiccare su tutto il resto.
La pelle liscia, d’avorio, il viso che sembrava intagliato con lo scalpello, dai tratti delicati, ammalianti.
I suoi occhi dal taglio affilato, quasi felino, erano due topazi verdi, preziosi, vivaci, con sfumature tutte diverse e difficili da categorizzare. Tuttavia, nonostante la distanza, riuscì a riconoscere dei filamenti di smeraldo che si diramavano nelle iridi, quasi potesse nuotarci dentro.
Il monaco non si spiegò minimamente come riuscisse ad osservare ogni più piccolo dettaglio del ragazzo come fosse a due centimetri da lui, nonostante la distanza.
Sicuramente, quando Myriam gli aveva ridonato la vista, aveva fatto in modo di potenziarla con qualche suo strano stratagemma, per dargli modo di osservare quei ragazzi da molto più vicino di quanto non fosse, per studiarli meglio.
Mise a fuoco nuovamente la sua giovane figura, in piedi e intenta a fare il suo discorso di saluto per la sorella, aguzzando la vista quasi fosse un animale selvatico, un rapace che adocchia la sua preda da chilometri di distanza. Il suo corpo era molto diverso dal secondo ragazzo visto, praticamente opposto, in quanto era tanto slanciato e tonico, quanto asciutto. I vestiti, non abbastanza stretti, lasciavano tuttavia intravedere quanto le linee del suo corpo fossero raffinate, affusolate, quasi femminee.
Era strano come riuscisse a far trasparire delicatamente la sua virilità, e al contempo quanto le forme del suo corpo trasmettessero un fascino incantatore tanto maschile quanto femminile.
Gli abiti che indossava davano l’idea di una certa agiatezza, in quanto il padre, essendo uno scavatore della galleria, veniva sicuramente pagato bene da Dun Rolland.
In fondo, era risaputo quanto Rolland fosse generoso con i suoi dipendenti, quanto li ripagasse della fatica abbondantemente e con gli interessi.
Era un grande pregio dell’entrare nella privilegiata schiera degli scavatori.
Il fardello che questi erano costretti a portare, tuttavia, consisteva nel non sapere se fossero riusciti a tornare vivi a casa la sera.
I lavori che svolgeva quel ragazzo in casa non dovevano essere troppo pesanti.
A parte qualche minuscola cicatrice sul collo e sulle mani, il monaco non notò marchi di fatica nel suo corpo.
Ma non avrebbe potuto dirlo con certezza, in quanto il giovane era quasi tutto interamente coperto dagli abiti.
Il suo sguardo era deciso, la sua voce potente e d’impatto.
Il ragazzo era indubbiamente bellissimo, e tutto in lui gli faceva pensare che sì, quel fanciullo etereo era la sua scelta e che sì, avrebbe stipulato il patto con Myriam. Avrebbe fatto di tutto, letteralmente di tutto, per abitare quel corpo.
- Accetto il patto.
- Oh, padre ... dunque abbiamo un prescelto. Sono così felice di sentirvelo dire – sussurrò trionfante la donna. – Tuttavia.. tra tutti, avete optato proprio per il ragazzo ferito, appena distrutto dal lutto della sorella amata. Siete un uomo crudele, ed egoista, fino al midollo – disse teatralmente amareggiata.
- Ed ora intoniamo di nuovo le nostre voci e diamo un ultimo saluto alla mia amatissima, dolcissima e compianta giovane sorella, Katrin Bonnie.
A te, raggio di luce dei miei giorni.
A te, giovane promessa.
Addio, Katrin.
 
AVARIZIA
 
Heloisa bussò alla porta della camera del suo primogenito, con mano incerta.
Avrebbe voluto vederlo e parlare con lui, da soli, lo desiderava da giorni oramai, era divenuto un punto fisso.
Tuttavia, non ci riusciva mai, per un motivo o per un altro.
Aveva compreso che lui stesse cercando di evitarla in ogni modo, e questa non era una novità per lei, considerando il carattere ribelle di Blake.
Tuttavia, egli sembrava stesse evitando tutti ultimamente, persino suo fratello, e questo era un dato preoccupante.
Non sentendo alcuna risposta, decise di entrare comunque in camera sua, rischiando di dover incontrare l’ira del ragazzo, ma non le importò.
Entrò e, come aveva iniziato a sospettare, lo trovò addormentato nel suo letto.
Quella visione la rilassò e la tranquillizzò visibilmente. 
Erano forse mesi che non lo vedeva dormire beatamente nel proprio letto.
Benchè volesse parlargli, ne fu felice, perchè stava finalmente riposando e ne aveva immensamente bisogno.
Si era accorta che qualcosa lo turbasse, si era accorta che avesse smesso di dormire.
Sono dettagli di cui una madre si accorge, prima di qualsiasi altro, pensò.
Cercò di camminare più silenziosamente possibile, poggiando i piedi nudi a terra con una delicatezza e una cura rarissime, mentre si avvicinava al suo giaciglio, osservandolo.
Si sedette sul bordo del letto, cercando di farsi piccola e di occupare meno spazio possibile.
Blake era sdraiato a pancia in giù sul letto spazioso, con le coperte tirate su fino alla bassa schiena, ma che lasciavano comunque intravedere la posizione lievemente contorta in cui si addormentato e in cui sempre si addormentava, con le lunghe gambe spalancate e un ginocchio piegato.
Aveva un braccio che pendeva a penzoloni dal bordo del letto e il volto per metà immerso nel cuscino e per metà rivolto verso l’esterno. I suoi capelli erano per la prima volta sciolti, lasciati liberi dalle costrizioni di spille o nastri che li tenevano tirati indietro, e alcune spesse ciocche scure gli ricadevano davanti al viso, rilassato, con i bei lineamenti totalmente distesi e placidi.
Heloisa sorrise dolcemente inebetita nel guardarlo dormire, allungando una mano per accarezzargli quella folta chioma ribelle di capelli castani, scoprendo il suo viso da quelle impertinenti ciocche e spostandole dietro il suo orecchio. Erano cresciuti davvero tanto, e sembrò realizzarlo solo ora.
Le dita leggere gli sfiorarono lo zigomo alto e definito, che somigliava a quello di suo padre in maniera strabiliante. Scorsero giù, fino alle labbra chiuse, morbide, lievemente screpolate.
Cercò di carpire una somiglianza, anche una sola, in quei lineamenti da vertigine, che potesse rincondurlo a lei. Forse, solo la forma di quelle labbra era l’unica cosa che avevano davvero in comunque.
E il naso. Sì, decisamente il naso, pensò la donna, osservando rapita il profilo del ragazzo, che gli invidiavano praticamente tutti.
La mano raggiunse il collo affusolato, e ben fasciato dalla benda bianca, non troppo stretta.
Sostò per troppo tempo su quella benda, desiderando posarsi sulla pelle sottostante, per avvertire il suo respiro calmo e bearsene, e per controllare di nuovo l’entità di quella ferita che quei mostri gli avevano provocato.
Come aveva fatto a creare qualcosa di tanto bello?
Se lo domandò, guardandolo. Così come se lo domandava sempre, sin dal giorno della sua nascita.
Probabilmente, la stessa domanda se la poneva ogni madre.
Eppure, quando lo aveva avuto stava per perderlo.
Eppure, averlo era stato il dolore fisico più grande che avesse mai vissuto.
Un dolore che avrebbe rivissuto milioni di volte quel dolore, se fosse significato averlo ancora.
Il solo pensiero che Blake potesse non esistere in quel mondo, e nella sua vita, le fece accaponare la pelle.
Non si era domandata neanche una volta se il suo fosse un amore troppo viscerale nei suoi confronti.
Non lo aveva mai fatto perchè c’era stato qualcuno, che lo aveva amato addirittura più morbosamente di quanto lo avesse amato lei, seppur non fosse sua madre.
Scacciò il pensiero di lei dalla sua mente, che da solo fu in grado di provocarle una rabbia che le infiammò le vene.
- Perchè mi odi...? – sussurrò di sottecchi, con la stessa innocenza di una bambina, avvicinando il volto alla sua testa e al suo orecchio, lasciandogli un delicato bacio tra i capelli. Aveva sempre avuto un buon profumo, sin da piccolo, tanto che Heloisa trascorreva ore a bearsi nell’inspirare l’odore della sua pelle quando era bambino, e dormiva tra le sue braccia, credendo di proteggerlo da tutti i mali del mondo. A quel tempo, lui si fidava ancora di lei. Ma, almeno, quel profumo era sempre lo stesso, e si era solo intensificato. – Perchè non mi vuoi, amore?
Continuò ad accarezzargli i soffici capelli, fin quando non lo sentì muoversi lievemente sotto di lei, strusciarsi sotto le coperte con dei mugolii sconnessi e sonnolenti.
A ciò, si scostò in fretta da sopra di lui, prima che egli si accorgesse della sua vicinanza e ne rimanesse indispettito.
Era arrivata al punto di aver paura di avvicinarsi, di rinunciare a toccarlo, per evitare di infastidirlo.
Rimase seduta sul bordo del letto, consapevole di averlo svegliato e sentendosi in colpa a causa di ciò, considerando quanto raramente Blake stesse dormendo negli ultimi tempi.
Aveva sempre avuto la sfortuna di possedere un sonno molto leggero.
Il ragazzo affondò totalmente il volto nel cuscino, spalmandocisi come se potesse immergercisi dentro, per poi realizzare la vicinanza della presenza familiare accanto a sè.
Sbattè le palpebre un paio di volte, la luce delle numerose candele nella stanza gli invase gli occhi semiaddormentati, facendogli quasi male.
Alzò la testa e si voltò nel letto, tirandosi su ponendosi in posizione seduta, con la schiena poggiata alla parete dietro al giaciglio, spostando lo sguardo indefinibile e penetrante su sua madre, per poi coprirselo con le mani, sull’orlo di un’esperazione sonnolenta.
Heloisa abbozzò un sorriso impacciato. – Ehi, tesoro – sibilò poggiandogli una mano su una gamba, in segno di confidenza.
Blake la osservò criptico, ancora con gli occhi non completamente aperti, ponendo le braccia conserte, come per alzare già un muro tra loro.
Ma la donna non si arrese e persistette, iniziando a carezzargli delicatamente il ginocchio da sopra le coperte, con movimenti rilassanti e circolari. – Come ti senti..? – tentò.
Le occhiaie nere e scavate sul volto di Blake non mentivano e sarebbero state palesi per chiunque.
- Mamma – sussurrò lui, con la voce arrochita dal sonno. – Cosa c’è? – le domandò diretto, senza preamboli.
- Mi dispiace tanto di averti svegliato ... ma sai – guardò altrove con sguardo perso, cercando di trovare le parole giuste. – Oggi, all’ultima veglia per Bonnie... le parole di suo fratello mi hanno fatto pensare. Mi hanno fatto riflettere su quanto, nella vita, potrei perdere. Su quanto siano fugaci gli attimi che trascorriamo con le persone che amiamo di più.
- Mamma, sono ancora qui. Non sono morto sotterrato nella galleria anche io – le disse schietto.
- Lo so, Blake.. – sussurrò, trattenendo a stento le lacrime e abbassando gli occhi sulle proprie gambe. – Ma ho paura lo stesso. Riesci a capirlo? Riesci a capirmi...?
- Non devi avere paura.
A ciò, vedendolo più approcciabile del solito, tentò una mossa azzardata e sperò che, complice il sonno e l’intorpidimento, Blake non si sarebbe scanzato: allungò una mano verso le sue braccia conserte e strette al petto, infilando le dita dentro quel groviglio, trovando la sua mano e tirandola fuori, stringendola nella sua.
Blake non disse niente e la lasciò fare, passivo.
- Sai ... le cose tra noi non devono essere sempre così difficili – tentò speranzosa, con la voce rotta e il sorriso tremante, guardandolo dritto negli occhi. – Posso cambiare, se lo desideri ... potrei essere come tu desideri che sia. Così, potremmo ...
- Io non te l’ho chiesto. Non ti ho mai chiesto di cambiare per me.
- Ma Blake, lo farei con piacere, se questo servisse ... servisse a sentirti più vicino.
- Perchè non riesci semplicemente ad accettare il fatto che siamo troppo diversi? – le disse lui con una naturalezza che la fece impietrire. – Insomma, dovrebbe essere semplice. Lo è per due persone che condividono un legame coniugale, perchè non dovrebbe esserlo per noi? Se si è troppo diversi, lo si accetta, e si cerca di convivere con la cosa, di non far funzionare il rapporto forzatamente.
- Blake, un conto sono due adolescenti che stanno scoprendo se si piacciono o no, un conto è il legame genitori-figli. Sono due cose completamente diverse.
- Perchè?
- Il nostro legame è sacro!
- No, non lo è.
- Ti prego ... ti prego, tesoro ... non voglio litigare con te come sempre – gli disse stringendogli la mano ancor di più nella sua e guardandolo accorata. – Sono stanca di litigare con te. Mi si spezza il cuore ogni volta. Lo sai.. lo sai che è l’ultima cosa che vorrei. Vorrei poter essere libera di amarti senza dovermi trattenere, senza dover lottare con le unghie e con i denti per ottenere un pezzo di te, un pizzico della tua vicinanza, della tua attenzione. Sto chiedendo troppo...?
A ciò, lui ritirò indietro la mano, sfuggendo alla sua presa. – Dimmi per quale motivo mi ami.
- Cosa.. che domanda è?
- Dimmelo.
- Per una miriade di motivi.
- Dimmene uno, avanti.
- Perchè...
- Perchè?
- Perchè sei mio figlio.
Blake sorrise amaro e trionfante, esattamente la risposta che voleva.
- Cos’è quello sguardo? – domandò preoccupata lei, temendo di aver sbagliato a rispondere.
- Tu non mi ami, mamma. Ami solo quello che rappresento. Lo capisci?
- Blake, basta, smettila. Abbi pietà della tua povera madre!
- D’accordo, la smetto. E tu smettila di combattere per avermi. Smettila di volermi avere per te, come fossi un trofeo da vincere. Dovete smetterla entrambe, tu e Myriam.
Quelle ultime parole fecero paralizzare totalmente Heloisa, facendole sgranare gli occhi chiari fino all’inverosimile.
Anche Blake sembrò rendersi conto in quel momento del danno appena fatto.
- Hai usato il presente ...“dovete”. Significa che lei è ... ancora viva..?? Si è fatta viva?? L’hai vista?! Blake, rispondimi!
- No, non l’ho vista. Lei è morta, esattamente come mi hai detto tu anni fa, giusto? È morta per quello stupido incidente alla Taverna, come mi hai raccontato. Io mi sono fidato delle tue parole – le disse sfidandola con gli occhi, attraversandola da parte e parte con il suo sguardo ora divenuto velenoso, incandescente.
- ... Giusto – confermò Heloisa, cercando di calmarsi, cercando di scacciare quel pensiero irrazionale che oramai stava invadendo la sua mente come una malattia da settimane. – Ad ogni modo, il punto non era questo.
- Lei è sempre stata il punto – controbattè il ragazzo. – Lei e la malsana battaglia che c’era tra voi.
- Blake, tu non puoi capire. Lei era diventata una presenza tossica per te. Avevate un legame viscerale che sconfinava nell’ossessione da perte sua nei tuoi cofronti. Io dovevo intervenire!
- Per quale motivo?
- Perchè sono tua madre e perchè sei mio! – esclamò scattando immediatamente in piedi, improvvisamente animata da quel sentimento che albergava in lei e la muoveva più di ogni altro, quando si trattava dei suoi figli: l’avarizia. – Non permetterò mai più a nessuno di toccare le mie cose! Non permetterò a nessuno di toccare te, di toccare Ioan, e un tempo anche tuo padre rientrava in questa cerchia! Prima che decidesse di buttarsi nelle braccia di un’altra donna! – esclamò addolorata, ansimando trafelata, stringendo i pugni convulsamente.
- Se hai lasciato andare mio padre... perchè non puoi lasciar andare anche me?
- Non avverrà mai. Mai.
- Perchè no?
- Perchè con te è diverso. Non riuscirei mai a lasciarti andare. Ne morirei prima. Lo so – disse con una sincerità disarmante.
 
In seguito a quell’impegnativa discussione, Heloisa tornò nell’atrio principale della casa, lasciando Blake in camera sua, sperando che riuscisse a riprendere sonno nonostante tutto, cercando di dimenticare la conversazone appena avuta.
Ad attenderla trovò sia Quaglia che padre Craig, seduti silenziosamente intorno al tavolo.
Quella situazione era quanto di più imbarazzante si potesse creare, dopo ciò che era accaduto due notti prima tra loro.
Durante quei due giorni non avevano mai avuto modo di incrociarsi tutti e tre, ma sapevano che il fatidico momento sarebbe arrivato prima o poi, vivendo tutti nella stessa casa.
Heloisa cominciò a pensare che stesse diventando sin troppo affollata quella casa.
Sempre affollata, ma mai delle persone giuste: Blake e Rolland passavano più tempo fuori casa, piuttosto che dentro ultimamente.
- Come sta? – le domandò freddamente padre Craig, evidentemente molto più interessato allo stato di Blake per lasciarsi vincere dalla rabbia che nutriva nei confronti della donna.
Heloisa aveva tentato più volte di inquadrarlo nel corso di quelle lunghe settimane che il prete aveva trascorso in casa loro, approfittando della loro ospitalità per un periodo molto più esteso di quello previsto.
Le sue teorie erano due al momento: egli stava rimanendo o per Blake, o per quella Judith, a quanto pare anche lei una presenza costantemente ricercata dal prete, insieme a Blake. Inizialmente, Heloisa si era stupidamente illusa che il prete si stesse trattenendo più del dovuto per lei.
Considerando il modo in cui la guardava e le provocazioni che lei gli mandava, credeva di essere riuscita nell’intento di sedurlo. Non che il suo obiettivo iniziale fosse quello di sedurlo; tuttavia, la serva del Diavolo sapeva benissimo che effetto facessero tutti loro, agli stranieri che visitavano il loro villaggio.
Era come un lento e graduale afrodisiaco assunto a piccole dosi.
Il suo unico scopo era quello di sentirsi lusingata, desiderata, ammirata come Rolland non la faceva sentire da tanto oramai.
Non chiedeva molto, d’altronde.
Voleva solo che un uomo la guardasse come voleva che suo marito la guardasse.
Voleva suscitare un minimo senso di gelosia nell’animo del suo consorte, una genuina scintilla e volontà di possesso nei suoi confronti.
E, invece, non aveva ottenuto nulla.
Solo un puro e semplice sfogo.
Doveva ammettere che era felice di aver attirato più facilmente le attenzioni di Quaglia, invece, e non solo perchè quell’uomo era indubbiamente affascinante, per essere uno straniero.
Se fosse riuscita nel suo intento di far cedere ai piaceri della carne padre Craig prima che arrivasse Quaglia, si sarebbe sentita in colpa per aver tentato e portato al peccato un uomo di dio. Nonostante non del dio che lei serviva.
Dunque, era stato meglio così. D’altronde, era quasi del tutto certa che non avesse in alcun modo ferito i sentimenti del giovane prete nel momento in cui era stata scoperta da lui con Quaglia, in quanto aveva smesso di credere che padre Craig stesse rimanendo a Bliaint per lei, o nutrisse un qualsiasi tipo di sentimento nei suoi confronti. E anche se così fosse stato... probabilmente ad Heloisa non sarebbe importato.
Perchè Heloisa era fondamentalmente una persona egoista, ed era stanca di fingere di non esserlo.
Ragion per cui non si sarebbe certo giustificata con padre Craig, non ne aveva alcun motivo.
Era dal giorno in cui l’uomo per cui aveva perso la testa e che aveva sposato senza battere ciglio, aveva deciso di infilarsi nel letto di un’altra donna, che aveva smesso di dare spiegazioni.
Tanto meno poteva pretenderne padre Craig.
Tuttavia ... nonostante tutto, era ancora divorata dalla paura che il prete potesse rivelare ciò che aveva visto a qualcuno in casa.
Tutto ciò su cui poteva contare, era il desiderio di benessere familiaire che padre Craig non voleva rovinare rivelando un fatto simile.
Rolland non avrebbe sicuramente reagito bene nello scoprirlo.
Rolland ... il suo consorte. L’uomo che, nonostante tutto, malgrado ogni difficoltà affrontata, malgrado l’infedeltà ... amava ancora. Alla follia.
L’uomo che aveva smesso di toccarla, persino di guardarla. Lei, invece, desiderava ancora toccarlo, guardarlo, approcciarsi a lui in qualsiasi modo. E ci provava, continuava a provarci ogni notte.
Ma non vi era niente da fare.
Rolland la trattava come una povera donna di cui farsi carico, di cui prendersi cura.
La trattava solo come la madre dei suoi figli, non come sua moglie.
Heloisa non sapeva ben identificare quando avesse iniziato a farlo.
Egli era sempre stato un uomo passionale, affiatato, un vulcano in eruzione in ogni cosa che faceva.
Da quando il loro rapporto si era raffreddato a tal punto?
Smise di porsi tali domande e iniziò a concentrarsi amaramente sui due uomini dinnanzi a lei.
Lo sguardo infastidito e risentito di padre Craig lo aveva categorizzato per bene; mentre, al contrario, Heloisa non riusciva minimamente a leggere cosa passasse per la testa di Quaglia.
Non era solo perchè fosse arrivato da pochi giorni. Quell’uomo era un totale mistero per chiunque, anche solo per il fatto che avesse perduto la memoria della sua vita passata.
Un bambino nel corpo di un uomo adulto.
Con istinti da uomo adulto.
Quando lo aveva facilmente sedotto due notti prima, Heloisa non avrebbe mai immaginato che, dopo l’attimo di impacciatezza iniziale che le fece sembrare di stare per rubare la verginità ad un ragazzino, l’uomo si sarebbe trasformato in un tumulto di voracità, creatività e spigliatezza sotto le coperte.
Era stata una piacevole scoperta, che l’aveva fatta sentire giovane di nuovo, che l’aveva fatta ritornare una fanciulla con il fuoco dentro.
- Heloisa ... – riattirò bruscamente la sua attenzione padre Craig, ricordandole di non aver ancora risposto alla sua domanda. – Vi ho chiesto come sta.
- Non bene – rispose distaccatamente lei.
Il volto di padre Craig si rabbuiò immediatamente, quasi come gli avesse detto che gli mancassero trenta giorni di vita.
- Cos’ha che non va? – domandò in tono più composto Quaglia, dal quale traspariva una preoccupazione più controllata.
- Non dorme. Non riesce a farlo o si rifiuta di farlo, non lo so... il suo corpo ne sta risentendo. Credo si tratti di incubi. Anche da bambino ne faceva spesso, e lo tenevano sveglio per nottate intere.
- E, giustamente, voi avete ben pensato di andare a svegliarlo nell’unico momento in cui avrebbe potuto recuperare un po’ di sonno – la rimproverò padre Craig.
- Avevo bisogno di parlargli, padre. Non vi devo alcuna giustificazione.
Da quando è tornato da quel viaggio ... non è più la stessa persona. Non so cosa darei per sapere cosa gli è accaduto – sospirò esasperata.
- Quando lui è tornato eravate voi a non essere più la stessa, Heloisa – le disse padre Craig, in tono d’accusa. - Avete dimenticato in che stato vi ha trovata? – aggiunse.
- Ora mi sento meglio – dichiarò stizzita. – Provvederò alla mia famiglia come ho sempre fatto.
Padre Craig scoppiò in una risata nervosa a quelle parole.
- “Ora vi sentite meglio”..? Perdonatemi ma a me non sembra, considerando che avete tradito il vostro consorte proprio sotto il tetto di casa vostra! – le parole uscirono dalla bocca del giovane prete senza controllo, con una rabbia che non aveva mai creduto di possedere. – Avete una famiglia stupenda e neanche ve ne rendete conto. Avete due figli meravigliosi e un marito premuroso che provvede a tutti i vostri bisogni. Siete disposta a rovinarla in tal modo e per cosa..? Per lui?? – domandò sconcertato, indicando il povero Quaglia, rimasto serio e in silenzio fino a quel momento.
Ora il giovane prete parlava guidato dall’ignoranza e dai pregiudizi, ed Heloisa non poteva accettare neanche una di quelle pesanti e gravi parole che l’uomo le aveva sputato addosso.
- Voi ... voi, come diavolo vi permettete...? Chi siete voi, per noi?! – gli gridò avvicinandosi a lui a grandi falcate fino a che i loro visi non furono vicini. – Non siete n-e-s-s-u-n-o – gli specificò, scandendo bene ogni lettera. – Non siete nessuno per questa famiglia. Credete di aver acquisito una certa importanza qui, una certa autorità, solamente perchè siete nostro ospite da un’eternità oramai, approfittandovi della nostra gentilezza? Che illuso... riuscite solo a ispirarmi compassione e null’altro – gli disse velenosa, mossa da un’irrazionale ferocia. – Ditemi, padre .. : per quale motivo siete ancora qui? Qual è la ragione per cui non state ritornando nel vostro villaggio di appartenenza?
Quella domanda improvvisa devastò totalmente tutta la sicurezza che il giovane prete aveva mostrato fino a quel momento.
Se lo domandò e ridomandò a sua volta: per quale motivo stava rimanendo a Bliaint?
Oramai le questioni commerciali non c’entravano più, dato che aveva acquisito già tutte le informazioni necessarie a riguardo.
Aveva evitato quella domanda come una malattia, negli ultimi giorni.
Ed ora, l’unica risposta che la sua coscienza pura già messa a dura prova era disposta ad accettare, era la seguente: stava rimanendo per scoprire cosa fosse davvero accaduto quella notte funesta.
Non appena l’avrebbe scoperto, sarebbe ritornato ad Armelle ad espiare le sue colpe, senza guardarsi indietro.
Se avesse scavato lievemente sotto la superficie di quel fasullo e pericolante muro di protezione che si era costruito addosso, avrebbe trovato una verità molto diversa da quella, una risposta che non era disposto ad affrontare e a sopportare, ma che conosceva benissimo, nel profondo.
Due persone in particolare lo stavano trattenendo in quel villaggio.
Padre Craig stava iniziando a temere sempre di più, che non sarebbe mai riuscito a staccarsi da loro, e quel solo pensiero, era il più pericoloso che potesse mai infettare la sua mente dedita a Dio.
In quel momento, per sua grande fortuna, ad interrompere l’accesa discussione intervenne Quaglia, il quale si alzò in piedi e si avvicinò con calma. – Padre – lo richiamò a sè.
Padre Craig si voltò a guardarlo quasi come fosse un fantasma.
- Il rapporto tra me e Alma Heloisa è solamente fisico. Solo uno sfogo fisico e null’altro. Penso di parlare per entrambi – disse con tranquillità, cercando conferma negli occhi della donna.
- Assolutamente, mi sembra superfluo specificarlo – disse Heloisa priva di ogni dubbio, sedendosi e sospirando esasperata.
- Avete visto? Io non ho alcun interesse nei suoi confronti, nè lei nei miei. Semplicemente, stiamo sfruttando questa occasione entrambi. Io per conoscermi meglio, lei per sfogarsi. Non vi è nulla di male, e non vi è alcun bisogno che alcuno lo sappia, dato che non lede minimamente alla stabilità di questa famiglia.
La tranquillità e la sicurezza con la quale quell’uomo aveva pronunciato tali parole, lasciò padre Craig a dir poco sconvolto. Fu come se vedesse Quaglia per la prima volta solo in quel momento.
Osservò i suoi occhi chiari, placidi, e cercò di leggerci dentro qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non vi trovò nulla.
- Quaglia ... voi...?
Ma il giovane prete non fece in tempo a terminare la frase che, improvvisamente, la porta di casa si aprì, ed entrarono l’imponente figura di Rolland, accompagnata a quella minuta di Ioan.
I due si fermarono sul ciglio della porta, sorpresi nel ritrovarseli tutti e tre lì nell’atrio, immersi in quell’aria di tensione.
- Salve – ruppe il silenzio Rolland, richiudendosi la porta dietro di sè.
- Dove sei stato, caro? – gli domandò immediatamente Heloisa rialzandosi in piedi, ma senza avvicinarsi.
- Sono andato a prendere Ioan alla cattedrale alla fine della sua lezione di teatro. Dato che si sta facendo buio, non volevo farlo tornare a casa da solo.
- Giusto ... com’è andata la tua lezione, tesoro? Ti sei divertito? – domandò Heloisa al suo figlio minore, il quale annuì e le accennò un lieve sorriso, restando accanto al padre.
- Puoi iniziare a preparare la cena anche senza di me. Ioan ha una fame da lupi – le disse Rolland senza neanche togliersi il mantello.
- Perchè?? Dove stai andando? – gli domandò immediatamente lei, vedendo il piccolo avviarsi verso la propria camera.
- Sto andando alla galleria. Per cercare di capire cosa si può fare per riaprire l’entrata, per comprendere di che entità è stato il crollo. I lavori devono riprendere. E vorrei portare Blake con me alla galleria.
- No! – dissero in coro Heloisa, padre Craig e Quaglia, impietrendo nel momento in cui si resero conto di averlo esclamato nello stesso momento.
Rolland li guardò confuso, sorpreso, e forse anche un po’ stranito da quella strana situazione.
- Blake ha bisogno di riposo al momento – spiegò Heloisa, cercando di risultare calma. – Verrà la prossima volta.
A ciò, Rolland annuì senza dire nulla e uscì di casa alla stessa velocità con cui era entrato.
 
HYBRIS – TRACOTANZA
 
Judith camminò placidamente per le strade buie del villaggio, con una pessima sensazione ad annebbiarle i pensieri.
Quella sera lei e Blake avrebbero dovuto rivedersi, per discutere sul come procedere per il loro progetto.
Tuttavia, la lezione con i bambini si era un po’ protratta, e non era riuscita ad avvertirlo che avrebbe ritardato.
Non sapeva se egli si fosse recato alla biblioteca e l’avesse aspettata, pur non avendola vista arrivare. Ad ogni modo, ora si stava recando a casa sua per scusarsi dell’inconconveniente.
Si ricordava dove fosse collocata l’abitazione del ragazzo, nonostante non vi fosse mai stata, in quanto sia Blake che padre Craig le avevano descritto la sua posizione.
Sperò che fosse ancora sveglio, e sicuramente lo era, data la fatica che stava facendo a dormire ultimamente.
Bussò alla porta dell’abitazione, stringendosi nel suo mantello blu cobalto.
Ad aprirgli, a sua grande sorpresa, fu Ioan, che le sorrise e la salutò stropicciandosi gli occhioni.
Lei e il bambino si erano salutati solo qualche ora prima.
- Ciao Judith.
- Ciao, Ioan. Sei l’unico ancora sveglio?
Il bambino negò. – C’è anche Blake. Gli altri dormono, credo. Tranne mio padre, che è alla galleria.
- E dov’è tuo fratello?
- Di sotto. Alla fucina. Quando è lì sotto nessuno può disturbarlo, a meno che non sia Blake a dargli il permesso.
- Credi che io potrò disturbarlo un attimo?
Ioan non rispose, guardandola serio. – Non lo so se ne sarà contento. Puoi provarci.
- Grazie, Ioan – gli disse accarezzandogli una guancia, ed entrando in casa, cercando di fare meno rumore possibile. – E tu perchè sei ancora sveglio?
Ioan alzò le spalle. – Ci sono dei rumori strani. Che provengono dalla fucina. Ho il sonno leggero.
Judith annuì, sentendo quella strana e pessima sensazione artigliarle lo stomaco vuoto.
- Allora è un bene che io vada a controllare. Tu rimani qui, d’accordo? E cerca di dormire come stanno facendo gli altri – lo incoraggiò.
Il bambino annuì e se ne tornò in camera.
A ciò, Judith si accinse a trovare l’entrata per scendere nel seminterrato, in cui si trovava la fucina.
Prese a scendere le scale, già intravedendo dei lampi di luce illuminare il fondo della scalinata, a scatti.
L’odore penetrante del piombo e del carbone le invase le narici con violenza, facendola tossire ripetutamente.
L’aria era pressocché irrespirabile.
Il caldo era insopportabile, tanto da farle desiderare di togliersi ogni strato di stoffa che la copriva, le fiammate stavano sicuramente invadendo in maniera inumana quello spazio chiuso e soffocante, privo di finestre.
Iniziò a girarle la testa, e doveva ancora finire di scendere le scale, perciò non osò immaginare come potesse sentirsi il ragazzo che si trovava esattamente lì dentro, da chissà quanto tempo.
Iniziò a comprendere che non si poteva trattare solamente del caldo asfissiante e dell’odore di carbone.
La testa le girava troppo, le vertigini era violente, la mente stava iniziando ad annebbiarsi: l’aria doveva essere velenosa. Che cosa la stava avvelenando?
Judith procedette senza remore, e nonostante desiderasse scappare via il più velocemente possibile da quel luogo, continuò la sua discesa nell’inferno solo per tirar fuori Blake di lì, se davvero si trovava là sotto.
Resistette, coprendosi la bocca e il naso con il tessuto della manica del vestito, terminando di scendere le scale e trovandosi davanti agli occhi lo spettacolo più conturbante che avesse mai visto: le fiammate imperavano dentro la fornace, quasi bisognose di inghiottire qualsiasi cosa, mentre Blake le alimentava intensamente, con il mantice. Quello strumento grande, duro e difficile da maneggiare, sembrava perfettamente malleabile tra le mani frementi ed esperte del ragazzo, che spingeva e spingeva in alto e in basso, con una forza violenta e brutale.
Judith lo osservò. Era come se non vedesse niente davanti a sè, i suoi occhi erano colmi e invasi solo dalle fiammate, lo sguardo perso, i capelli legati, i vestiti leggeri che indossava erano sudati a causa dell’estremo calore soffocante che imperava nel luogo, la sua pelle era macchiata di aloni neri.
Lasciò il mantice e si diresse verso il tavolo, prendendo il martello e colpendo, iniziando a frantumare delle pietre dal colore particolare, di un grigio-bluastro, quasi ipnotiche da guardare, come lo era tutta quella scena.
Dopo di che, prese in mano i frammenti di quelle pietre e iniziò a gettarle dentro l’enorme calderone dentro cui stava bollendo qualcosa.
Judith si sporse per riuscire a vedere cosa fosse, e realizzò essere probabilmente piombo, dal colore e dall’odore che emanava.
Tutta quella situazione era assurda, pericolosa, malata.
Blake sembrava non vederla nonostante fosse a pochi passi da lui, continuava a muoversi come guidato da una forza maggiore, quella della sua implacabile volontà titanica di mutare, creare, di prevalere sulla natura.
Dopo di che, le vertigini di Judith aumentarono, così come la sua tosse, che divenne bruciante, roca, facendole ricordare che l’aria fosse tossica, avvelenata da qualcosa.
Eppure, Blake sembrava non risentirne, per qualche motivo.
Poteva essere l’abitudine, ma era umano anche lui e, presto o tardi, il suo corpo ne avrebbe pagato le conseguenze.
Forse le stava già pagando.
Finalmente, realizzò.
Realizzò quando vide il ragazzo infilare un grosso mestolo di metallo e dalla forma allungata dentro un altro recipiente, e prendere qualcosa.
Era un liquido argenteo, bianco-argenteo, dall’aspetto inconfondibile.
- Quello è... mercurio..?? – sibilò attonita, coprendosi maggiormente bocca e naso.
Ecco da cosa stava venendo infettata l’aria.
Era anche peggio di quanto pensasse.
Prima che Blake potesse far colare il mercurio dentro il calderone di piombo fuso, Judith trovò la forza di intervenire, fiondandosi su di lui, artigliando le sue braccia, stringendogliele e scuotendolo.
- Blake! Blake!! Blake, sono io, Judith! – lo richiamò.
Egli la guardò stralunato, e solo perchè gli si era posta davanti agli occhi con la forza.
Il volto privo di espressione la fissava, lasciandosi scuotere con forza da lei.
- Blake, per favore! Riuscite a riconoscermi?? Dove l’avete preso il mercurio? Perchè lo state usando?? Che diavolo state facendo, per l’amor del cielo?!
- Judith – sembrò finalmente riconoscerla lui, ma restando comunque inespressivo.
- Blake, ci stiamo avvelenando restando qui dentro, ci state avvelenando! Dobbiamo uscire di qui, vi prego..
- Io devo farlo, Judith. Il Giudice ha ragione, Bonnie ha ragione. Io devo e voglio farlo, e non solo perchè poi mi getteranno di nuovo in quella vasca gelida per annegarmi. Lo avrei fatto comunque ... – iniziò a delirare, ma con voce calma, neutra.
- Blake... che state dicendo..? Qui non c’è nessun Giudice. Nessuno vuole torturarvi con la vasca... mi state ascoltando? Qui non c’è nessuno. Solo io. Io e voi ... – ritentò, disperata, prendendogli il volto tra le mani, facendo uno sforzo immane nel trattenere le lacrime.
A ciò, vedendo i suoi occhi lucidi, le sue penetranti iridi d’ossidiana illuminate dal fuoco e sul punto di crollare, il ragazzo sembrò riprendersi.
Iniziò a percepire la fatica, il caldo, l’aria velenosa che lo stava infettando, il carbone che gli stava entrando dentro, ad ogni respiro.
Si lasciò cadere seduto a terra, con la schiena a contatto con la parete. Puntò i palmi a terra per reggersi su, iniziando a fremere e spalancando gli occhi.
Judith si accasciò con lui, gli prese il viso e lo strinse a sè, donandogli tutto il calore di cui aveva bisogno, cercando di calmarlo come poteva.
- Va tutto bene. Ora va tutto bene ...
Andiamo via di qui.
                                                     
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 31
*** La maledizione di Imogene ***


La maledizione di Imogene
 
- Che cosa è successo là sotto?
Quella domanda che fuoriuscì dalle labbra di Rolland zittì tutti quanti.
Era notte fonda oramai, e loro sembravano tutti dei giudici, disposti in semicerchio, intenti a processare un accusato.
L’unica differenza, era che i loro sguardi erano quasi tutti sbiancati dalla preoccupazione.
Blake era l’unico seduto su una sedia, in mezzo a loro, con uno sguardo annoiato che stonava con l’intera situazione in cui si trovavano.
Finalmente gli era ritornato il senno in seguito al miracoloso intervento di Judith dentro la fucina, e tutti gli altri dovevano molto alla ragazza, in quanto, se non fosse arrivata lei per caso in quella casa, nessuno di loro si sarebbe accorto di nulla, e chissà come sarebbe andata a finire.
Probabilmente il ragazzo sarebbe morto avvelenato, forse senza neanche rendersene conto.
Ma, nonostante tutto, Blake sembrava calmo, il suo sguardo aveva delle tinte perfettamente coscienti e anche scocciate, a causa della posizione in cui si ritrovava, ma non sembrava particolarmente a disagio o innervosito, in quanto si rendeva conto di aver sbagliato e che ci fosse qualcosa che non andasse in lui, padre Craig lo conosceva abbastanza per poterlo dire.
Dunque, il ragazzo non osava protestare.
In sostanza, accettava di trovarsi in giudizio, messo sotto torchio, ma manifestava comunque il suo lieve disappunto con il suo sguardo da nobile caduto in disgrazia, costretto ad ascoltare qualcosa che non voleva sentire, di malavoglia.
Malgrado l’estrema preoccupazione che provava, padre Craig fu intensamente felice di vederlo tornato in sè, di nuovo il vecchio Blake che amava e odiava allo stesso tempo; in quanto Judith aveva raccontato loro che lo aveva trovato in uno stato che l’aveva spaventata non poco, completamente fuori di sè, come fosse in un’altra dimensione.
Nonostante l’atteggiamento tranquillo del ragazzo, dal suo corpo si poteva perfettamente notare che qualcosa non andasse, in quanto sembrava appena uscito da un incendio e da un incidente in cui era stato calpestato da una mandria di belve: gli occhi erano stanchi, stravolti, le occhiaie enormi e viola, le guance scavate, la pelle macchiata di nero, e i vestiti leggeri anche, erano in uno stato talmente pietoso da non essere quasi più indossabili.
Era incredibile, e anche a dir poco frustrante, notare come, nonostante tutto ciò, la bellezza di Blake non fosse stata minimamente scalfita. Anzi.. si ritrovò a pensare padre Craig.
- Allora? Vuoi rispondere a tuo padre? – rincarò Heloisa, avvicinandoglisi, tremante di ansia e preoccupazione. – Ti rendi conto che, se non fosse stato per la tua dolce metà, saresti probabilmente svenuto o morto là sotto? Stai cercando di avvelenarti, per caso?
Padre Craig non era sorpreso dalla sconsideratezza di Blake nei confronti della propria salute.
Ricordava con precisione lampante, quasi spaventosa, il suo secondo giorno a Bliaint, quando Blake lo aveva subito portato a fargli vedere la galleria, e si era tolto il panno per proteggersi il respiro dentro quel buco asfissiante e dall’aria tossica, come se niente fosse, sotto i suoi occhi sconcertati.
Dunque non era strano che fosse entrato in contatto col mercurio in maniera tanto stupidamente audace, anche se lo avesse fatto coscientemente.
- Oggi andrò a chiamare il medico per controllare il suo stato di salute e accertarci che non abbia subìto un avvelenamento da mercurio – disse Rolland.
- Bene, digli che venga il prima possibile! – rispose Heloisa.
Quaglia guardava il ragazzo ammutolito, mentre Ioan muoriva letteralmente dalla voglia di abbracciare il fratello ma, capendo la gravità della situazione, se ne restava zitto e buono, in attesa del momento propizio.
Judith, dal canto suo, era ancora visibilmente scossa da quel che aveva appena vissuto, e se ne stava in disparte, in silenzio.
Padre Craig non poteva biasimarla.
- Blake?
- Non lo so cosa è successo, papà. Non lo so neanche io. Ho sprazzi di ricordi di quando ero là sotto, ma tutti poco chiari – si decise a rispondere il ragazzo.
- Come ci siete finito? – domandò improvvisamente padre Craig, prendendo la parola e attirando gli sguardi su di sè. – Insomma, ci siete andato di vostra volontà oppure qualcos’altro vi ha spinto...? – gli domandò incerto, terrorizzato dalla sua stessa domanda, memore dell’episodio sopra la galleria, in cui Blake aveva iniziato a sentire delle voci che non esistevano, più di una volta.
Il ragazzo lo guardò con uno sguardo indefinibile, senza dire nulla.
Padre Craig, nei suoi occhi, lesse che desiderava rassicurarlo in qualche modo. Ma, evidentemente, non aveva alcuna parola rassicurante per lui.
- Di mia iniziativa – rispose infine Blake, facendogli salire un groppo in gola.
Non sapeva se lo stesse dicendo solo per non allarmare i suoi genitori più di quanto già non fossero, e tenerli all’oscuro delle sue allucinazioni, oppure perchè era la verità.
- Io non credo che sia così grave come sembri – intervenne immediatamente Quaglia facendo impietrire tutti. - Insomma, magari la cosa gli è sfuggita di mano e l’avvelenamento da mercurio ha solo fatto il resto.
Blake sorrise di sottecchi con quel suo inconfondibile sorriso furbo, macchiato dalla stanchezza, mentre guardava Quaglia quasi teneramente. – Vedete? Finalmente qualcuno che ragiona – disse, sapendo di star per ricevere le occhiatacce praticamente di tutti, a tali parole.
- Finchè non ne sapremo di più, il medico non ti avrà visititato e tu non ti sarai calmato... – cominciò Rolland in tono autoritario. – .. rimmarai qui in casa e uscirai solo e solamente per lo stretto necessario, e solo se accompagnato da qualcuno. Intesi? E, ovviamente, la porta del seminterrato sarà sbarrata, e io terrò la chiave.
- Cosa...? E cosa dovrei fare tutto il giorno chiuso in casa..? – domandò contrariato il ragazzo.
- Potrai sbrigare le faccende domestiche. Potrebbe servire a schiarirti la mente, sai? – gli rispose a tono Rolland.
Quaglia sorrise divertito di sottecchi, all’idea di vedere Blake tutto il giorno chiuso in casa a svolgere faccende domestiche.
- Non puoi tenermi in catene.
- Non l’ho mai fatto e guarda dove siamo finiti – rispose zittendolo e voltandogli le spalle, per allontanarsi, sfinito dallo spavento, e dalla mezza nottata passata insonne.
Per una volta, il padre aveva avuto l’ultima parola sul figlio, un evento che sarebbe passato alla storia nella mente di padre Craig.
- Quindi significa che potrai stare tutto il giorno con me e potremo passare un sacco di tempo insieme come ai vecchi tempi!! – esclamò il piccolo Ioan saltellando come un fringuello, felice come non lo era mai stato. Il ragazzino si gettò finalmente sopra il fratello, saltandogli addosso e abbracciandolo, venendo prontamente ricambiato da lui.
Padre Craig, Quaglia e Judith sorrisero teneramente di fronte alla reazione del fanciullino.
- Cara, non vi ringrazieremo mai abbastanza per quello che avete fatto – Judith venne riscossa dalle mani calde e riconoscenti di Heloisa che strinsero le sue. – Dopo stanotte, non potrei essere più felice che mio figlio abbia scelto voi come sua futura consorte. Non avevamo ancora avuto occasione di presentarci e di conversare a dovere. Mi spiace che la circostanza del nostro incontro qui, in casa nostra, sia stata proprio questa.
- No, non dispiacetevi, Heloisa. Sono immensamente rincuorata di averlo trovato io.
Heloisa le sorrise dolcemente. – Si vede che tenete molto, l’una all’altro. Non potrei esserne più lieta. Sento anche di dovermi scusare per la spiacevole situazione creatasi al nostro primo incontro, davanti alla cattedrale, settimane fa. Ho avuto una reazione esagerata, non da me, perciò vi prego di perdonarmi.
- Me ne ero già dimenticata, non temete e non scusatevi.
- Bene. Ad ogni modo, potete tornare qui quando volete, siete la benvenuta in casa nostra. Inoltre, diremo al medico di visitare anche voi, per controllare che voi e il bambino stiate bene e non abbiate risentito degli effetti dell’aria tossica.
Judith annuì, per poi sciogliere la presa tra le loro mani, e tornare a guardare Blake.
Il ragazzo si alzò in piedi. – Dunque l’assemblea è sciolta? – domandò conferma, per poi rivolgersi a Judith. - Grazie. Per tutto – le disse semplicemente, tre parole che fecero rabbrividire entrambi.
Lei gli sorrise di rimando. – Mi farò viva presto – lo salutò, poi avvicinandoglisi e dandogli un bacio sulla guancia. Padre Craig restò a guardarli come in trance, per poi ricevere un sorriso di saluto confidenziale da parte di Judith e vederla avviarsi verso l’uscita dell’abitazione.
 
- “Non c’è pace!
Non c’è mai pace ...
Perchè voi, siete giunta qui da me?
Non è forse per deridermi?
Mi guardate e indugiate..
Vi tenete alla larga da me, eppure siete qui.
Perderemo troppo presto, ascoltate le mie parole.
E solo troveremo piacere nei gusci di qualche morto ricordo” – pronunciò la piccola Edith, con voce pregna di sentimento, facendo eccellere la sua memoria impeccabile.
- “Deriderti..?
Questo io non l’ho mai voluto, tutt’altro.
Ma tu sei troppo effimera.
Ora sei qui, ma ho paura che domani non ci sarai più.
E che dire di me?
Volo e perdo me stessa, negli occhi e nelle vite di tutti.
Vorrei trovarti, vorrei averti, ma quando ti afferro svanisci.
In quel velo azzurro senza cuciture
Vorrei svanire anche io e ...” – la voce melodiosa di Gwen si bloccò. La bambina si grattò il mento combattuta.
- Cosa c’è, Gwen, non ti ricordi le tue battute? – le domandò dolcemente Hinedia, la quale era rimasta ad ascoltarle fin dall’inizio. – Se vuoi, posso ripetertele. Le so tutte a memoria anche io, Judith me le ha insegnate.
- No, mi ricordo tutto.. è solo che.. – sospirò sconsolata, avvicinandosi alla serva del Creatore.
- Dimmi cosa ti turba – la incoraggiò lei.
- Non capisco cosa lei prova nei suoi confronti – disse, rivolgendo lo sguardo a Edith, che invece sembrava aver azzeccato perfettamente la sua parte.
I ruoli erano stati distribuiti, e ogni piccolo attore aveva avuto l’opportunità di scegliersi la sua parte da interpretare.
Edith era l’ira e Gwen l’invidia.
Hinedia le sorrise dolcemente. – Non stai avendo dei ripensamenti sul vizio che ti sei scelta, vero?
- No, no, assolutamente. Solo, voglio capire cosa prova, nei confronti dell’ira.
- Lei la vorrebbe avere. Come amica e come motivazione – Hinedia si bloccò, cercando di trovare le parole giuste per spiegarle. – Lei è il suo fulmine a ciel sereno, un tornado che le serve a che mira a raggiungere. Per liberarsi in qualche modo. Per permetterle di sfogare fuori tutto quello che ha dentro, che la opprime e la affligge.
- Lei la vuole avere. Ma l’Ira crede invece che lei si voglia allontanare, che nessuno voglia avere a che fare con lei. Si completano, ma finiscono sempre per cercarsi senza mai trovarsi – venne in suo aiuto anche Edith, parlandole con pazienza e comprensione, guardandola fiduciosa.
Hinedia si sorprese non poco di quanto potessero essere profondi e sensibili quei bambini. Di quanto potevano esserlo i bambini in generale.
Li conosceva solo da pochi giorni e già era fierissima di loro.
Edith era una bambina sicura di sè, mentre Gwen era una fanciullina dolce, estramamente sensibile, in cui Hinedia si rivedeva. Credeva di non essere all’altezza di quel ruolo, ma pretendeva molto da sè e le piaceva sperimentare, perciò aveva voluto sfidare se stessa scegliendo un vizio complicato come quello dell’invidia.
Hinedia era certa che, grazie alla profondità e introspettività che la caratterizzavano, sarebbe sicuramente riuscita a renderla al meglio, emergendo.
La serva del Creatore si voltò anche verso gli altri bambini.
Quelli davvero in difficoltà erano altri, in realtà: Kilian, May e Sorie. Nonchè Accidia, Lussuria e Hybris.
Il primo se ne stava seduto con la testa riversa in giù e le mani strette tra i capelli. Sembrava molto in difficoltà nell’entrare in comunione con il proprio ruolo.
Ogni bambino aveva avuto la possibilità di scegliersi la propria parte, perciò nessuno era davvero scontento della scelta. Ma un conto era la voglia e l’eccitazione della scoperta, un’altra era la pratica nell’entrare in contatto con un ruolo particolare. Hinedia poteva comprenderlo, dovette ammettere che l’accidia era una bella gatta da pelare.
D’altra parte, c’era May, che si era scelta il vizio più difficile da interpretare per una bambina, il vizio più “da grandi”. Cosa poteva saperne un esserino così piccolo della lussuria?
Neanche Hinedia stessa sapeva se lo conoscesse davvero, il brivido di quel vizio sulla pelle.
Eppure, la sfida contenuta nello spettacolo creato da Judith consisteva proprio in questo: entrare in contatto con il mondo dei grandi, scoprendo e comprendendo che, in realtà, nulla è solo “da grandi”.
Infine, c’era Sorie, che la stessa Hinedia non sapeva proprio come aiutare.
D’altronde, non aveva a sua volta la minima idea di come poter rendere e interpretare un vizio raro e misterioso come quello dell’hybris, perciò Sorie aveva tutte le ragioni per essere in difficoltà.
I rimanenti, invece, nonchè Ioan, Jogger e Dionne, sembravano non avere problemi con il proprio ruolo.
Dato che Edith e Gwen sembrava stessero prendendo il via da sole, Hinedia si rialzò in piedi, dirigendosi verso il piccolo Kilian, per offrire il suo aiuto anche a lui.
Ma venne sorpredentemente anticipata da uno dei monaci del Creatore, il quale si avvicinò al bambino e gli chiese che cosa lo preoccupava e come poteva aiutarlo.
Hinedia per poco non si fece prendere dalla commozione, osservando la scena.
Un monaco del Creatore, che aiutava e conversava amabilmente con un piccolo servo del Diavolo.
Una scena che non si vede tutti i giorni, tutt’altro.
Eppure, i monaci del Creatore erano i più restii all’inizio, all’idea di quello spettacolo tenuto da Judith con quei bambini servi del Diavolo.
Invece, nel giro di pochi giorni, non solo avevano deciso di ospitarli nella propria cattedrale per le lezioni, ma si stavano addirittura aprendo timidamente a loro, avvicinandosi con cautela, e approcciandosi.
Hinedia li guardò ancora, fiera e commossa, avvicinandosi a Judith, la vera artefice di tutto ciò.
Quella mattina la ragazza sembrava assente, distratta.
Se ne stava in disparte in un angolo, fissa in un punto, senza dire nulla.
Eppure, solitamente lei era la prima ad aiutare i bambini come poteva non appena li vedeva in difficoltà.
Quel giorno si era solamente limitata a recitare loro qualche riga del copione scritto da lei, ad ognuno in base ai ruoli scelti, per poi lasciarli sperimentare e lavorare da soli.
Si pose accanto a lei, ma la ragazza non sembrò neanche accorgersi della sua presenza.
- Devo farvi i miei complimenti – esordì Hinedia, attirando finalmente la sua attenzione, come risvegliandola.
- Per che cosa? – le domandò Judith.
- Il copione che avete scritto. So che sono solo poche righe per ognuno sinora, e che c’è ancora molta strada da fare, e non sarà facile per loro.
Ma, sinora, mi piace molto ciò che avete scritto.
Mentre recitavate ad ogni bambino la propria parte da imparare, vi ascoltavo e sono rimasta positivamente colpita. Insomma, non è facile rendere ogni personaggio così sfaccettato, complesso, e al contempo semplice da interpretare e comprendere per un bambino.
Si adatta bene a loro, alla loro ingenuità, eppure siete riuscita a carpire degli aspetti dei vizi capitali davvero intensi e insoliti, rendendo il tutto affascinante e molto poetico.
Judith accennò un piccolo sorriso dinnanzi a quei complimenti. – Vi ringrazio, ma non ho fatto nulla di speciale. Quel poco che ho scritto sinora, l’ho scritto di getto, in una notte, senza neanche pensarci – ammise. - Io mi devo complimentare con voi piuttosto.
Hinedia la guardò interrogativa. – E perchè mai?
- Vi ho vista prima, con i bambini. Siete entrata molto in sintonia con loro, siete perfetta come insegnante.
All’inizio vi approcciavate a loro in modo timido e impacciato, mentre ora sembrate nata apposta per questo.
I bambini vi amano.
- Mai quanto amano voi.
Le due sorrisero, per poi fissare gli occhi su padre Petrit, che era ancora tutto impegnato ad aiutare il piccolo Kilian. Tutta la sua attenzione era sul bambino, e sembrava addirittura sorridergli ogni tanto.
- In dieci anni che sono qui, avrò visto padre Petrit sorridere massimo sei volte – commentò Judith, guardandoli sorpresa e intenerita a sua volta.
- Ora, invece, guardatelo. Quel bambino sembra avergli sciolto il cuore.
- Ci pensate, a cosa siamo state in grado di fare? – riflettè ad alta voce Judih. – Il desiderio di eliminare, un giorno, le tensioni e le discriminazioni tra servi del Diavolo e del Creatore, era un sogno nel cassetto che avevo con padre Cliamon. Sono diversi giorni che egli è distante, ultimamente. Sparisce di frequente, riesco poco a vederlo.
- È a causa sua che siete turbata oggi? – le domandò finalmente Hinedia.
- Turbata? Io? Vi sembro turbata?
- Sembrate distratta, come in preda a pensieri turbinosi. Sapete, potete parlermene se volete.
So che ci conosciamo da poco, ma mi trovo davvero bene a trascorrere del tempo con voi, Judith. Motivo per cui spero vivamente che, in futuro, io possa definire il legame che ci lega “amicizia”.
Il cuore di Judith si scaldò nell’udire tali parole, soprattutto pronunciate da una serva del Creatore, e sorrise di rimando. – Oh, Hinedia... potete chiamarlo così già da ora.
Hinedia sorrise a sua volta, rincuorata, guardandola in attesa che lei parlasse, che le confidasse cosa teneva la sua mente occupata.
Quegli occhi sinceri la scrutavano, in aspettativa.
Judith avrebbe davvero voluto dirle cosa fosse accaduto quella notte, ma venne frenata.
Ora che ci pensava, Judith non sapeva che tipo di legame ci fosse tra Hinedia e Blake.
Sapeva che i due si fossero incontrati un paio di volte, per caso, ma che Hinedia sembrava cercarlo con gli occhi ogni volta che sentiva solo pronunciare il suo nome, mentre Blake pareva averle concesso una confidenza che non concedeva mai a nessuno solitamente.
Chissà come avrebbe reagito la ragazza, se avesse saputo cosa gli fosse accaduto.
Raccontandoglielo, non solo avrebbe esposto Hinedia ad una preoccupazione che non sapeva fin dove si sarebbe potuta spingere, ma avrebbe anche rivelato qualcosa di estremamente intimo, confidenziale e riservato che riguardava Blake, ad una persona pressocché semi-sconosciuta per lui.
Tutti motivi più che validi per spingerla a tenersi tutto per sè, senza dirle nulla.
- Nulla di preoccupante: il bambino nel mio grembo sta crescendo e sta cominciando a farsi sentire, senza farmi chiudere occhio. Tutto qui.
Improvvisamente, le porte della cattedrale si aprirono, e una nuova presenza inaspettata fece il suo ingresso nell’immenso edificio.
I suoi passi rimbombarono sul pavimento con imponenza, attirando l’attenzione dei bambini, delle ragazze e di padre Petrit, il quale la squadrò infastidito.
- Non temete, padre, non starò molto – gli disse inacidita la donna, senza neanche voltarsi a guardarlo, mentre manteneva la traiettoria della sua camminata fissa verso Judith.
- Myriam...? Cosa ci fate qui? – le domandò la ragazza alzando un sopracciglio.
In risposta, la strega guardò prima lei, poi posò lo sguardo sulla serva del Creatore accanto a lei, squadrandola.
- Chi è costei? – domandò, facendo impallidire Hinedia, che riusciva a malapena a reggere il suo sguardo giudicante.
- Costei è una mia amica, Myriam. Che cosa cercate? – le rispose a tono, riattirando lo sguardo della strega su di sè.
 - Dunque è così? Oltre che con i monaci, siete solita socializzare con i servi del Creatore in generale? Perchè non diventate una di loro e vi battezzate al Creatore, ordunque? – le domandò in tono di scherno, senza lasciarle neanche il tempo di rispondere, in quanto la superò, sussurrandole: - Vi aspetto di sopra, nelle vostre stanze. C’è qualcosa di cui dobbiamo parlare.
Dopo di che, la strega si diresse verso le scalinate.
Riprendendosi dalla sorpresa, Judith si rivolse a Hinedia. – Pensate voi ai bambini per oggi. Io mi assento per un attimo – le disse, per poi dirigersi a sua volta alle scalinate.
Prese a camminare verso la propria stanza, entrandovi e trovando Myriam già accomodata sulla sedia dinnanzi al tavolo che sottostava allo specchio.
- Come avete fatto ad entrare? La porta era chiusa a chiave – le domandò Judith richiudendosi la porta dietro di sè. – Cosa ve lo chiedo a fare, oramai? – aggiunse sospirando, sapendo che non avrebbe ricevuto risposta.
Non fece in tempo a sedersi a sua volta, che Myriam arrivò subito al dunque:
- Cos’è successo stanotte a Blake?
Judith si voltò a guardarla, scorgendo la preoccupazione distorcere i suoi lineamenti solitamente glaciali e serafici.
- Come sapete che gli è successo qualcosa? Dove eravate? Nascosta tra le crepe di qualche muro della sua casa? – domandò pentendosene un secondo poco, poichè, anche a quello, non avrebbe ricevuto risposta.
Tuttavia, ella invece avrebbe dovuto necessariamente rispondere ad ogni sua domanda senza fiatare.
Ciò non le andava bene. Affatto.
Se la strega avesse voluto sapere di Blake, lei avrebbe dovuto dirle qualcosa a sua volta.  
Non avrebbe spifferato quelle informazioni come se niente fosse a qualcuno di cui sapeva poco o nulla, soprattutto non sapendo per quale motivo ella desiderasse tanto sapere di lui.
- Come avete conosciuto Blake?
- Potrei rivolgervi la stessa domanda. Chissà perchè, ogni volta che provo ad avvicinarmi a lui o a scoprire qualcosa su di lui, spuntate fuori voi, Judith. Siete praticamente ovunque – le disse fingendo un’esperazione che in realtà non provava.
- Sono stata io a porgervi la domanda. Voglio sapere cosa si cela dietro tutto questo interesse.
Myriam abbassò lo sguardo, per la prima volta. – Dovrà essere lui a dirvelo. Se lo vorrà, se lo riterrà opportuno e si fiderà di voi. Non sarò certo io a farlo – si limitò a dirle.
Judith comprese le sue ragioni, ma non era ancora soddisfatta.
- Perchè non andate a chiederglielo voi stessa? Perchè siete venuta da me, invece che andare da lui?
- Perchè voi avete assistito in prima persona a ciò che gli è accaduto.
Inoltre, ora è circondato dai membri della sua famiglia. Non posso farmi vedere da loro.
Non c’è modo che io possa incontrarlo da sola, al momento, per sapere come sta e cosa gli è successo - rispose sinceramente.
Judith la guardò quasi con compassione.
- Facciamo un patto – le propose. – Voi risponderete ad una delle mie domande. E, in cambio, io vi dirò cosa è successo a Blake. Potrebbe essere fattibile, per voi?
A ciò, Myriam le sorrise divertita. – Siete una persona interessante, Judith. Mi incuriosite.
- Allora? La vostra risposta?
- Accetto. A patto che voi mi descriviate per filo e per segno che cosa è accaduto questa notte.
- Vi ho già detto che lo farò.
- Bene. Dunque? Qual è la vostra domanda?
Judith vi pensò su, scovando nella sua mente qualcosa a cui la strega sperava avrebbe potuto rispondere, senza tirarsi indietro. Voleva sapere qualcosa in più su di lei e sulla sua enigmatica figura.
- Mi avete fatto capire di aver tentato di tutto, in passato, per rendere il vostro ventre fertile e poter avere un bambino vostro. Che cosa avete tentato? E perchè avete fallito?
Myriam impietrì per un attimo.
Dopo di che, sorrise sfrontata, un sorriso che, tuttavia, nascondeva qualcosa di torbido e profondo.
- Mettetevi comoda, Judith, se volete davvero ascoltare questa storia.
Una storia che risale circa a sei anni fa.
La storia della donna che ho amato e odiato sino ad impazzire.
Detto ciò, la strega iniziò a narrare:
Candice Lilitbeth fece il suo ingresso dentro l’isolata dimora, circondata solamente dai rumori del bosco, al tramonto.
La giovane strega appartenente alla famosa compagnia di stregoni eremiti di Bliaint, tuttavia, non era sola questa volta. Difatti, la fanciulla si trascinava dietro due furiosissime e forsennate creaturine con una zazzera di capelli biondi scompigliati. Lilibeth, stava facendo fatica a reggerli da sola, una mano stretta al braccio di uno e l’altra al braccio dell’altro, che tiravano entrambi ognuno nella direzione opposta, facendola pericolosamente sbilanciare.
- Finitela, bastardi scalmanati che non siete altro!! A cuccia! – esclamò la ragazza, attirando l’attenzione delle altre tre presenze nella dimora.
Myriam si alzò dal suo giaciglio e raggiunse la stanza della casa in cui si trovava Lilibeth, nella quale vi erano già Selma, intenta a praticare chissà quale tipo di rituale, seduta a terra e circondata da dodici candele; e la più piccola tra loro, nonchè Beitris, che era impegnata a truccarsi gli occhi di quel penetrante color nero piombo che faceva sembrare le sue iridi smeraldo ancor più luminose di quanto già non fossero.
Le tre si voltarono in sincrono a guardare Lilibeth, con le due nuove misteriose piccole presenze che scalpitavano come due bestioline selvagge e inferocite.
- Che cosa è successo loro? – fu Beitris la prima a parlare, con voce apparentemente indifferente, avvicinandosi cautamente.
I due bambini ringhiarono in risposta ribellandosi ancor di più alla presa di Lilibeth.
- Per gli Inferi ... che cosa diavolo hanno vissuto per essere così esagitati? – intervenne anche Selma.
- Me li ha mollati Ephram lungo la strada, dicendomi di portarli a casa – rispose scocciata la ragazza, iniziando a prendere delle corde per legarli, costretta a farlo, se non voleva farsi spezzare un braccio dalle due belve in miniatura.
Mollò uno dei due a Myriam, e cominciò a legare i piccoli polsi dell’altro.
Myriam lo afferrò con fermezza per tenerlo fermo, reggendo la presa sulle sue braccia e osservandolo.
I loro vestiti era larghi, luridi e semistrappati, la loro pelle era ferita in diversi punti, mentre la folta chioma di capelli impazziti che si muovevano di qua e di là non lasciavano modo di osservare i loro volti infervorati.
Myriam gli afferrò la mascella con la forza di una mano, e gli alzò il volto verso di sè, per osservarlo senza quegli ingombranti ciuffi davanti: grandi occhi di miele, una bocca che pareva disegnata. Tutto, in quella creaturina, faceva pensare di trovarsi davanti ad un angelo, se non fosse stato per i suoi dentini furiosamente digrignati. – Sono entrambe femmine? – domandò Myriam, continuando a tenergli la mascella stretta tra le dita, nonostante la bestiolina tentasse di ribellarsi.
- In realtà, credo siano entrambi maschi – rispose Lilibeth terminando di legare i polsi dell’altro dietro la schiena, costringendolo in ginocchio, per poi afferrargli i capelli con la mano e tirargli su la testa, per far osservare il suo volto inferocito anche alle altre tre.
Myriam osservò anche l’altro. – Dai volti, sembrano due femmine – commentò, poi realizzando qualcosa. - Sono identici. Sono gemelli.
- Esatto. Un evento alquanto raro, non trovate? – disse Lilibeth iniziando a legare i polsi anche dell’altro.
- Come si chiamano? – domandò Beitris avvicinandosi e osservandoli, improvvisamente incuriosita. – È strano trovare dei gemelli.
- Non lo sappiamo, non lo vogliono dire. La donna da cui Ephram li ha comprati non ce lo ha detto.
- Li ha ...comprati...?? – esclamò Selma incredula, alzandosi finalmente in piedi a sua volta. – E con quali soldi??
- Nessun soldo. Li ha comprati per un sacchetto di semi e una dozzina di capre.
- Chi diavolo ha venduto due bambini per un paio di semi e una manciata di capre?? – esclamò Beitris interdetta e dispiaciuta.
- Scusami ... quali capre? Non dirmi che ha usato le ultime capre che avevano come nostre ultime riserve per superare l’inverno ... – azzardò Selma esasperata, timorosa di udire la risposta. – Con cosa diavolo ci nutriremo?! Con questi due bambini??
- Avanti, non essere grottesca! – la rimproverò Beitris, per poi tornare a guardare i bambini, che continuavano a scalpitare e a ribellarsi seppur legati.
- Cos’ha in testa quel folle?? Per quale motivo ha venduto tutte le nostre capre per comprare queste bestioline inferocite?? Che cosa ce ne dobbiamo fare di loro? A cosa ci servono? E poi, lo ha fatto senza neanche consultarci, senza dirci nulla! – si lamentò di nuovo la più matura delle quattro.
Myriam la guardò. – Lo sai che Ephram non ci dice mai niente, Selma. Agisce e basta. Se ne frega di noi, in realtà. Fa quello che vuole e poi lascia noi a risolvere i suoi danni. Non si è neanche degnato di presentarsi qui a portarceli lui stesso questi bambini che ha comprato. Inoltre, stiamo pur sempre parlando di un ragazzo molto, troppo giovane.. per quale motivo a capo della vostra compagnia c’è un ragazzino volubile, volete spiegarmelo? – sputò acida.
-“Nostra”. Ti ricordo che ci sei dentro anche tu oramai.
- Beh, la nostra Myriam si è unita a noi solo da qualche mese, eppure non si può dire che non abbia già inquadrato Ephram perfettamente – commentò Lilibeth ghignando divertita.
- A proposito, tu non eri a intrattenerti con quel tipo nel tuo letto fino a poco fa? – domandò Selma a Myriam. - Hai intenzione di lasciarlo stare qui tutto il giorno, o lo rispedirai da dove è venuto? Non voglio che nessuno esterno alla compagnia si impicci dei nostri affari.
- Come se Ephram non se ne portasse tre diversi ogni sera, qui, con il doppio o il triplo dei suoi anni! – prese le sue difese Beitris.
- Chi è quel tipo con cui sei stata oggi? – domandò Lilibeth.
- Un cliente – commentò atona Myriam. – Tra poco se ne andrà.
- A te non piacevano solo le donne, o sbaglio? – chiese confusa Lilibeth.
- Sbagli – le rispose semplicemente Myriam, rivolgendole un ghigno malizioso. – Mi piace tutto.
- Tornando al tema principale – riprese la parola Selma massaggiandosi le tempie. – Queste bestioline.. queste “faccini da bambola”. Cosa ce ne facciamo?
- Io direi più ... – rispose Lilibeth osservandoli per bene. – “Faccini d’angelo”.
- Sono d’accordo – confermò Myriam.
- A cosa potrebbero esserci utili? Potremmo ... addestrarli? – propose Beitris.
- Addestrarli a fare cosa? A rubare? Già lo facciamo. A fare incantesimi, a farli diventare due di noi?
- Perchè no? Potremmo crescerli con noi ..
- Ti correggo: dovremo crescerli con noi. Ormai sono nostri. E di certo non potremo abbandonarli per strada.
- Ma perchè Ephram li ha voluti così tanto anche a costo di dare via i nostri ultimi viveri? Cosa vuole farsene?
- Cosa credi che ne sappia?
- Credo li voglia addomesticare – rispose Myriam avvicinandosi ai due. – Vedo molto potenziale in loro.
- Beh, d’altronde noi siamo il meglio che poteva loro capitare, no? Considerando che chi li ha venduti, lo ha fatto per una manciata di capre e di semi, credo sarebbero diventati orfani nel giro di qualche giorno se nessuno li avesse comprati. E sappiamo tutti che fine fanno gli orfani nel nostro villaggio – commentò la piccola Beitris. – Posso trattarli come dei fratellini minori. Non sarebbe male come idea, avere dei fratellini.
- Buona fortuna allora! Spera solo che non ti stacchino quel bel sorrisino dal viso a morsi! – esclamò Lilibeth ridendosela. – Questi faccini d’angelo sono gli esserini più scapestrati che abbia mai visto. Però, effettivamente, se addestrati a dovere, potrebbero tornarci molto utili per incantare i più ingenui. Sono certa che se stessero zitti, calmi e buoni, nessuno resisterebbe ad un loro battito di ciglia.
- Secondo me si agitano tanto perchè hanno fame. Dovremmo prendere loro qualcosa da mangiare, chissà da quanto non mangiano – ipotizzò Beitris.
- Che bello. Non vedevo l’ora di avere due marmocchi pestiferi in casa – commentò Selma con umor nero. - Gestire i capricci di quella marmocchietta di Beitris mi bastava e avanzava.
- Ehi! – si lamentò la succitata. – Non sono piccola, ho già tredici anni!
Myriam sorrise divertita.
Le piaceva l’equilibrio che avevano creato insieme, lei e quelle tre.
- Si può sapere chi è la persona che li ha venduti? Cos’era per loro? La madre? La nonna? Una qualche sorella?? – domandò Selma.
- Ephram mi ha detto delle cose strane su di lei, ora che ci penso – rispose Lilibeth, attirando la curiosità delle tre. – Sembra che i genitori di questi bambini siano morti di recente in circostanze misteriose e particolari. La persona che li ha venduti dice di essere la zia, la sorella della loro defunta madre.
- Come può una donna fare un atto tanto terribile alla sorella, ai figli della sorella..? – commentò Beitris attonita.
- Non so i motivi per cui li abbia voluti vendere dopo la morte della sorella e del marito della sorella. Lei è una donna molto particolare, a detta di Ephram.
Gli ha narrato che sua madre era in rapporti intimi con una sciamana straniera, praticante di una magia arcaica e sconosciuta, con cui ha istruito anche sua madre.
- Cosa si intende per rapporti “intimi”?
- Molto intimi – ribadì Lilibeth, facendo comprendere a tutte le implicazioni di quelle parole. – Sembra infatti che la nascita dei gemelli sia il frutto di quella magia sciamanica. Gli sciamani del culto di cui faceva parte l’amante della madre credevano che i gemelli fossero un miracolo, una benedizione ultraterrena, praticamente delle divinità. Motivo per cui sua madre voleva che almeno una delle due figlie avesse due gemelli. E ha fatto in modo che accadesse.
Ora che ci penso ... quella donna potrebbe aver venduto i loro nipoti perchè li odiava. Perchè era lei che voleva averli avuti, al posto della sorella – concluse Lilibeth attirando immediatamente tutta l’attenzione di Myriam, le cui orecchie si aguzzarono nell’immediato.
- Da cosa lo deduci? – domandò subito quest’ultima.
- Ephram ha detto che lei ha sempre cercato di avere figli ma non vi è mai riuscita.
Sembra che il suo ventre sia sterile e che stia cercando di avere un figlio da anni, tramite l’aiuto di quella magia antica e sciamanica che le è stata tramandata.
Anch’ella vive isolata dal villaggio, in mezzo alla natura, come noi.
Non parla con nessuno e non socializza con nessuno.
Le parole “sta cercando di avere un figlio da anni tramite l’aiuto della magia antica e sciamanica che le è stata tramandata” risuonarono nella mente di Myriam come campane.
Era la sua occasione. Forse la sua unica e ultima occasione per tentare in ciò in cui aveva da sempre fallito.
Ora che si era dovuta necessariamente allontanare da colui che era diventato la sua ragione di vita, e che quel dolore così recente scottava sulla sua pelle come un fuoco rovente, doveva concentrarsi con tutte le sue forze su quello che era il suo obiettivo da quando aveva avuto il primo sangue per la prima volta: avere il suo agognato figlio proprio, sangue del suo sangue.
Motivo per cui quella donna e quei gemelli erano piombati nella sua vita proprio nel momento giusto, quasi come se il Signore avesse ascoltato tutte le sue preghiere.
- Come si chiama la donna? – domandò con urgenza.
- Imogene. Non ha voluto dire il suo primo nome. Solo Imogene.
- E dove posso trovarla?
- Vive nella parte più nascosta della palude. Se vuoi trovarla, buona fortuna.
- Se ci è riuscito Ephram, sta’ certa che posso riuscirci anche io.
Detto ciò, si mise in viaggio la mattina seguente, fresca e riposata, decisa e determinata più che mai a trovare quella donna nascosta chissà dove, che forse sarebbe stata la sua salvezza, la soluzione ad ogni suo problema.
Quasi, ad ogni problema.
Sicuramente non a tutti.
Si tolse dalla testa il pensiero del piccolo Blake, e proseguì nel suo cammino.
Dopo un intero giorno di cammino tra le anguste strade paludose e fangose, si chiese come Ephram, con la scarsa pazienza che lo caratterizzava, fosse riuscito a trovare quella casa dimenticata dal Diavolo.
Inoltre, vivendo talmente tanto isolata e lontana dal villaggio, si chiese come la donna si procurasse cibo e viveri.
Evidentemente, si nutriva di ciò che la natura aveva da donarle, così come facevano loro nella compagnia.
Quando trovò la piccola abitazione, illuminata da alcune lampade ad olio poste fuori dalla porta, era quasi notte fonda e pensò che si dovesse trattare per forza della casa di Imogene.
Iniziò a bussare compulsivamente, sperando di svegliarla, nel caso dormisse.
Di certo non avrebbe dormito fuori dalla porta, dopo aver trascorso un intero giorno a camminare nel fango.
Bussò e bussò di continuo, fin quando la porta non venne aperta.
Davanti ai suoi occhi comparve la donna più bella che avesse mai visto.
Percepì un brivido lungo tutta la schiena, che raggiunse anche le sue zone intime.
Gli occhi di lei l’avevano inchiodata sul posto, inconsapevolmente e irrimediabilmente sedotta soltanto guardandola.
Il suo sguardo, era qualcosa che la giovane strega non aveva mai visto.
Dinnanzi a lei, vi era una giovane donna poco più grande di lei; i lunghissimi e ondeggianti capelli biondo miele le scendevano lungo la schiena in un’imponente e luminosa cascata; la pelle lievemente ambrata sembrava morbida e tenera anche solo alla vista; gli occhi dal taglio affilato e sensuale erano la parte di lei sicuramente più incantatrice, grazie alle ciglia lunghe e bionde che li incorniciavano alla perfezione, e alle iridi di un meraviglioso color oro; le labbra carnosissime, rosse e gonfie, forse per il sonno; il viso tondo e il corpo... un corpo da far scatenare la fantasia di chiunque.
Forse era troppo tempo che Myriam non trascorreva un momento intimo con una donna. Forse era per quello che quel corpo, quel corpo alto, sin troppo formoso e stupendamente curvilineo, con i seni che quasi strabordavano all’interno della sua tunica da notte, fu in grado di attrarla come una calamita.
- Che cosa volete? – la voce chiara e indisposta di lei la fecero risvegliare e ricordare il motivo per cui si trovasse lì.
- Imogene?
- Sì, sono io. Chi mi cerca?
- Myriam. Mi chiamo Myriam.
- Cosa volete da me?
- Sono qui per farvi delle domande. Riguardo i gemelli – fu la prima cosa che le venne in mente, come primo approccio.
A ciò, la donna la squadrò da capo a piedi con diffidenza.
Solo dopo diversi minuti, ella fece un lieve ghigno quasi impercettibile, e le fece spazio per entrare in casa. - Avete fatto tutta questa strada per arrivare qui ... immagino sarebbe molto scortese da parte mia farvi tornare indietro.
Myriam entrò in casa, trovandola piccola ed estremamente in disordine.
Anche la loro dimora non era il luogo più ordinato del mondo, ma pur essendo in molti a convivere insieme, cercavano almeno di darle una parvenza dignitosa.
Invece quella casa era un vero soqquadro, colma di erbe, piante, pietre, cristalli, recipienti in legno colmi di poltiglie che emanavano un odore a dir poco penetrante sparsi ovunque.
- Purtroppo devo informarvi che non ho una vasca – disse Imogene per nulla dispiaciuta, accendendo due o tre lampade ad olio in più. – Siete sudicia, Myriam. Permettete che lavi il vostro corpo – le disse facendola accomodare su uno sgabello in legno, per poi iniziare a riempire un grosso recipiente di acqua, e poggiarlo sopra il fuoco del camino acceso, per scaldarla.
In seguito, prese un panno pulito e una saponetta.
Quando l’acqua fu abbastanza tiepida, la donna riprese il recipiente, vi infilò la saponetta dentro, mischiò un po’ e iniziò ad inzupparci il panno, per poi strizzarlo per bene. – Spogliatevi – la esortò, quasi fosse un ordine, e Myriam obbedì.
Dopo di che, si avvicinò a lei, inginocchiandosi e iniziando a passarle il panno bagnato sulla pelle sporca di fango.
- Avete riservato lo stesso trattamento anche ad Ephram, quando è venuto qui? – le domandò, vedendola accennare un sorriso.
- No, non l’ho fatto. Con gli uomini non ho un bel rapporto.
- Con gli uomini in generale?
- Con la maggior parte – rispose serafica, iniziando a passarle il panno sulle spalle e sui seni con lentezza esasperante.
Myriam sospirò, lieta.
- Siete giunta sin qui solo per farmi delle domande sui miei nipoti? – le domandò all’improvviso, andando dritta al punto. – Immagino facciate parte della compagnia di stregoni di Ephram. E immagino anche che il loro improvviso arrivo deve avervi oltremodo scombussolata. Non sono dei bambini facili. A proposito, come stanno?
Quello strano interessamento confuse e sorprese Myriam. – Perchè li avete venduti se continuate ad interessarvi a loro?
- Non ho mai smesso di interessarmi a loro. Sono i figli di mia sorella, d’altronde.
- E avevevate un bel rapporto con vostra sorella?
Imogene non rispose subito, continuando a pulirla delicatamente e accuratamente col panno, giungendo alla schiena. – Drusilla era la sola persona con la quale stessi davvero bene a questo mondo – disse, e Myriam comprese si stesse riferendo alla sorella.
- Era più giovane di me. Io mi sono sempre presa cura di lei, sia prima che dopo che la malattia ha stroncato nostra madre, e la sua amante ci ha lasciate abbandonate a noi stesse.
- La sciamana?
- Noto che Ephram vi ha raccontato già molte cose su di me.
- E voi le avete raccontate ad Ephram, a quanto pare.
- Quel ragazzo sa essere molto persuasivo. E fastidiosamente insistente.
Ad ogni modo sì, la sciamana. Ci ha abbandonate quando nostra madre è morta.
- E vostro padre?
- Mai conosciuto. Diciamo che nessuna donna della nostra famiglia ha mai avuto un bel rapporto con gli uomini, nè ne è mai stata attratta. A parte Drusilla.
Per quanto mi riguarda, posso dire che l’unica eccezione, è sempre e solo stato Maringlen.
- Chi è Maringlen?
- Uno dei due gemelli.
- Dunque è vero che sono due maschi. Quando ho visto i loro volti la prima volta, ho subito pensato fossero due bambine, ma i loro vestiti e i loro atteggiamenti ci hanno fatto ricredere. Non abbiamo avuto modo di controllare, nè di avere conferma da loro, dato che ancora non ci parlano.
A ciò, Imogene sorrise, per la prima volta.
Un sorriso bello, ammaliante e a suo modo genuino, pensò Myriam beandosene.
- Hanno a malapena sei anni, è normale che il loro aspetto non riveli il loro genere con esattezza. Ad ogni modo, sono entrambi. Maschio e femmina. Maringlen è un bambino, Maroine è una bambina.
Myriam si sorprese ancor di più all’udire tale informazione.
Ripensò al volto di quei fanciullini e riflettè sul fatto che avrebbe potuto tranquillamente affermare che fosse Imogene la loro madre, considerando la strabiliante somiglianza.
- Cos’è accaduto tra vostra sorella Drusilla e suo marito? Come mai sono morti entrambi?
- Siete venuta qui davvero per sapere tutto – commentò Imogene lievemente seccata, passando dalla schiena di Myriam alle sue gambe, ponendosi di fronte a lei e aprendogliele.
La sua intimità si rivelò dinnanzi agli occhi attenti, seduttori e indefinibili di Imogene, facendo rabbrividire Myriam di una strana aspettativa.
- Avete un corpo androgino, Myriam. Eppure riuscite comunque ad essere femminile – commentò Imogene, senza una particolare inflessione nella voce. Poi, i suoi occhi di miele, dalla sua intimità si spostarono al suo volto, perforandole lo sguardo. – Volete davvero conoscere questa storia..?
Myriam annuì, improvvisamente curiosa.
- Bene.
Quando aveva quindici anni e io diciannove, Drusilla si innamorò di un ragazzo suo coetaneo, conosciuto al villaggio, durante una delle tante funzioni nella cattedrale del nostro Signore.
Passava sempre più tempo fuori casa, solo per stare più tempo con lui, e nostra madre e la sua amante non approvavano affatto questo comportamento.
Lui non è mai stato gradito in casa nostra.
Forse perchè, già da allora, nonostante Drusilla fosse al settimo cielo, mia madre riusciva già a scorgere i tremendi pericoli di quel rapporto tossico.
Non dando retta a nostra madre, Drusilla fece di testa sua e sposò Zane, questo era il suo nome, dopo solo un anno che si conoscevano. I due andarono a vivere insieme per conto loro, in una casa al villaggio.
In quell’anno, nostra madre si ammalò gravemente e morì, e Guadalupe se ne andò, tornandosene da dove era venuta.
La morte di mia madre fu un duro colpo, ma per Drusilla non lo fu quanto lo fu per me, in quanto mia madre l’aveva disconosciuta da quando aveva deciso di sposarsi con Zane, ed ella nutriva ancora dei sentimenti di odio molto profondi verso di lei.
Io decisi di rimanere a vivere qui, da sola, in mezzo alla palude, ma andavo a trovare mia sorella ogni giorno.
Inutile dire che Drusilla rimase gravida immediatamente, e mise al mondo due gemelli.
Quando li vidi, capii subito che fosse merito di Guadalupe.
- L’amante di vostra madre?
- Esatto. Guadalupe giunse a Bliaint spinta dalla curiosità e dalle leggende che girano sul nostro misterioso e “prodigioso” villaggio, dalla divisione di Allister Chaim. Ella era una figlia dell’Est, praticante di culti pagani, di religioni che noi definiamo arcaiche e antiche, ma che nella sua terra sono ancora il centro pulsante della vita spirituale. Una vita spirituale sconosciuta a noi, che utilizza un tipo di magia a noi estranea, fondamentalmente basata sullo sciamanesimo.
Giunta qui, lei e mia madre si innamorarono quasi immediatamente e lei venne a vivere da noi.
Motivo per cui mia madre decise che saremmo andate a vivere lontane dal villaggio, in mezzo alla natura, alla palude, quanto più isolate dal centro pulsante della vita di Bliaint, per proteggere Guadalupe.
Ella ci ha trasmesso tutte le sue conoscenze, istruendoci con quel tipo di magia che nessun altro nel villaggio praticava o conosceva.
Secondo il culto sciamanico di Guadalupe, i gemelli sono una benedizione della terra e del cielo, sono degli déi sotto forma di uomini o donne, creature miracolose da amare e adorare.
Motivo per cui, quando eravamo piccole, sia io che Drusilla fummo sottoposte ad un rito sciamanico che avrebbe dovuto darci la capacità di partorire due gemelli, nel caso in cui fossimo rimaste gravide.
Tale benedizione, ricadde ovviamente su Drusilla.
Tornando a lei e a suo marito... egli, dopo solo qualche mese dalla nascita dei gemelli, si rivelò per il mostro che era sempre stato.
Myriam impietrì, iniziando a realizzare con orrore. – Per quale motivo Maroine e Maringlen sono così rabbiosamente diffidenti e spaventati da chiunque...?
- Per il motivo che state già immaginando. Li picchiava a sangue. Così come picchiava a sangue Drusilla.
Ma Drusilla era troppo buona, troppo innamorata, troppo accecata.
Ha commesso l’errore più grande che una donna sottomessa potrebbe commettere.
Ogni volta che andavo a trovarla cercavo di convincerla in ogni modo possibile di abbandonarlo e di tornare a vivere con me con i gemelli, nella casa nella palude.
Ma lei non mi ha mai ascoltata.
Iniziai ad inasprirmi contro di lei.
Ogni volta che entravo in casa loro, trovavo un livido e un’ematoma in più sul suo corpo, e delle ferite in più nei volti di Maroine e Maringlen.
Myriam percepì il sangue ribollirle nelle vene a quel pensiero.
Se solo avesse trovato un solo graffio sulla pelle di Blake quando andava a badare a lui, o avesse anche avuto il minimo sospetto che Rolland lo picchiasse, lo avrebbe preso con sè e portato via da quella casa senza pensarci due volte.
Riusciva ad andare fuori di testa persino quando erano i monaci a picchiarlo, per disciplinarlo.
Dunque non osava neanche immaginare quanta rabbia potesse aver provato Imogene nell’osservare sua sorella e i suoi nipotini venire sgretolati ogni giorni di più.
- Come andò a finire..? – ebbe il coraggio di domandarle.
- Accadde l’inevitabile – lo disse con una freddezza che spaventò quasi Myriam. – Se l’è cercato. Lo ha voluto lei. Se solo mi avesse ascoltata sarebbe ancora viva – aggiunse con durezza, iniziando a lavarle le gambe.
- Cosa accadde?
- Quel giorno, la colpa della sua morte fu di Maringlen.
Drusilla odiava quando Zane toccava i suoi figli. Faceva sempre loro scudo con il suo corpo.
E, chissà il perchè, ma con Maringlen era ancora più violento di quanto lo fosse con Maroine e con Drusilla stessa.
Quella mattina, quando entrai in casa loro, mi trovai dinnanzi una scena raccapricciante: il corpo di mia sorella giaceva a terra senza vita, in una pozza di sangue. Dal canto suo, Zane era seduto su una sedia, tremante e con la testa tra le mani, uno sguardo stralunato e disperato.
I bambini, invece, erano seduti a terra, con gli occhi vuoti e lo sguardo perso.
Zane alzò il volto su di me con sguardo colpevole e mi parlò con voce tremante: “Si è messa in mezzo... si è messa in mezzo per difenderlo ...” sussurrò indicando il piccolo Maringlen con il dito. “Se non si fosse messa in mezzo ... se non si fosse messa in mezzo non sarebbe finita così.”
Myriam schiuse le labbra, sconcertata. – E poi? Come andò a finire?
Imogene sorrise di sottecchi a quella domanda. – Come credete che possa esser finita? Ho fatto ciò che mia sorella avrebbe dovuto fare da molto tempo: un albero cadde “miracolosamente” sulla testa di Zane all’improvviso, uccidendolo, e io presi i bambini e li portai a vivere con me alla palude.
- Ed ora, perchè avete deciso di sbarazzarvene?
- Perchè chiunque potrebbe dare loro una vita migliore di quella che potrei dare loro io.
Inoltre, guardarli mi ricorda ogni giorno Drusilla.
Sono identici a lei e non riesco a sopportarlo.
- Non è solo questo, vero? C’è un altro motivo? – domandò Myriam, venendo quasi immediatamente zittita da Imogene che, ancora inginocchiata dinnanzi a lei, le riaprì le gambe con le mani all’improvviso, facendola paralizzare.
- Sono stanca delle vostre domande. Sono stanca di parlare.
Voglio sapere anche io qualcosa di voi – sussurrò con voce pericolosamente sensuale e melliflua, iniziando a far risalire le dita fameliche all’interno delle coscie scure della giovane strega, fino ad arrivare alla sua intimità.
La perforò con le dita, senza delicatezza, facendo mozzare il respiro a Myriam.
Avvicinò il volto al suo, incatenandola a sè e al suo profumo. – Ma ora tappatevi la bocca. Non è più il momento di parlare – le disse, muovendo le dita dentro di lei e sorridendo diabolica.
Myriam era totalmente assuefatta da lei.
Sentiva che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa lei le avesse chiesto.
Finalmente, annullarono le distanze e Imogene invase la sua bocca con voracità e quasi brutalità.
Il sesso non fu passionale o dolce, bensì violento, affamato, insaziabile.
Si ritrovarono ansimanti e stese sulle pellicce, a terra, davanti al fuoco del camino, nude, sudate e soddisfatte.
Imogene era un tornado irrefrenabile, un vulcano di emozioni e di oscuro mistero, che Myriam era tutta intenzionata a scoprire fino in fondo. Si voltò verso di lei e osservò la sua pelle perfetta illuminata dal fuoco, la curva dei suoi grandi seni semicoperti dalla pelliccia, il ventre piatto che si alzava e abbassava, il fiore tra le sue gambe ancora umido e invitante, le cosce lunghe e carnose abbandonate a terra, mentre i raggi di sole che aveva al posto dei capelli erano meravigliosamente sparsi intorno al suo viso, invadendo anche gli spazi di Myriam.
Quest’ultima si voltò verso di lei e la guardò sorridendo.
Non era mai stata una tipa da smancerie, bensì molto pratica e concreta.
L’unico in grado di scioglierla, di farle desiderare di coccolarlo e di suscitare il suo lato affettuoso e morbido che neanche sapeva di avere, era sempre stato solo il piccolo Blake.
Invece, in quel momento non riuscì a resistere all’impulso di prenderla per i fianchi e di trascinarla a sè, per far entrare i loro volti, i loro corpi in contatto, per sentirsela addosso in tutto e per tutto.
Imogene sorrise, ancora sudata e ansimante, poggiandole una mano sui capelli ricci e scuri. – Siete stata una stupenda sorpresa, Myriam.
- Lo stesso posso dire di voi.
Imogene sorrise di nuovo in quel suo modo inaspettato e bellissimo, carezzandole la guancia.
- I gemelli... ricordano cosa è accaduto loro? Ricordano cosa faceva loro il padre o cosa è accaduto alla loro madre? – domandò improvvisamente Myriam.
- Non credo. Hanno rimosso. Il loro corpo ricorda il dolore subìto ma la loro mente no. Per salvaguardarsi - rispose, poi guardandola seria. – Motivo per cui non dovete raccontare loro nulla dei loro genitori, neanche quando ve lo chiederanno. Voi siete l’unica a sapere come sono andate davvero le cose. Maroine e Maringlen devono rimanere nell’ignoranza, è l’unico modo per farli soffrire meno.
Myriam accennò un sorriso malinconico. – Tenete molto a loro. Riesco a vederlo dai vostri occhi. Eppure, li avete abbandonati.
- Vi ho già spiegato il perchè.
- Sono certa che avrebbero preferito vivere mille vite con voi seppur nella più totale miseria, piuttosto che vivere lontani dall’unica famiglia che è loro rimasta.
Prima avete pronunciato una frase: “La benedizione di partorire due gemelli, ovviamente, è capitata a Drusilla”.
- Non vi sfugge niente.
- Perchè “ovviamente”?
- Non siete venuta qui per sapere solamente dei gemelli, vero?
- Ho saputo che voi non riuscite ad avere figli. Esattamente come me – rivelò, lasciandola attonita. – Ho saputo anche che state cercando di averne, utilizzando la magia sciamanica che Guadalupe vi ha insegnato - disse strusciando tra le pellicce e infilandosi in mezzo alle sue gambe, puntando i gomiti di fianco ai suoi seni e prendendo a guardarla da quella prospettiva. – Voglio che ci proviate anche con me. Oramai ho tentato di tutto e non ho nulla da perdere. Anche nei vostri occhi leggo la mia stessa disperazione. Lo struggimento di una donna che desidera ardentemente ciò che tutte la altre donne posseggono. Voi non avete venduto i gemelli per far avere loro una vita migliore, non è vero? – domandò, sentendola irrigidirsi. – Lo avete fatto perchè volevate che fossero vostri. Siete sempre stata gelosa di Drusilla perchè è riuscita ad avere dei figli e voi no, e averli sempre dinnanzi agli occhi vi avrebbe ricordato costantemente che non fossero vostri, e che non avreste potuto averne di vostri. Mi sbaglio?
- Sarei curiosa di sapere se tutto questo intuito sia dovuto al vostro eccellente spirito di osservazione, o se riuscite a leggere e a scavarmi nella mente – sibilò Imogene muovendosi sotto di lei.
- Credete che la magia sciamanica funzionerà?
- La pratico da anni, oramai, assiduamente, e posso affermare che sì, con molto impegno, sono certa che porterà ai risultati sperati. Mi sottopongo ogni giorno a riti costanti, per far sviluppare la mia fecondità.
- Non avete bisogno di un uomo per appurare se la magia ha guarito la vostra sterilità? – le domandò baciandole un seno.
- Non ho bisogno di alcun uomo – le rispose glaciale Imogene, infilandole una mano sulla nuca, attirandola a sè, e regalandole un lungo bacio bagnato da vertigini. Quando si staccò da lei, le sussurrò tra le labbra: - Vi aiuterò a restare gravida. Lo faremo insieme, se è quello che desiderate.
Myriam sorrise in risposta, sentendo che la sua vita sarebbe nettamente migliore d’ora in avanti, provando un’irrefrenabile voglia di baciarla e di fare l’amore con lei fino allo sfinimento.
- Ad ogni modo.. – proseguì Imogene prendendo a sussurrare dritta nel suo orecchio. – Non vi permetto di minimizzare o svalutare l’amore che provo per i miei nipoti. Credevate che fossi così sprovveduta da non aver pensato all’eventualità che qualcun altro potesse prendere il posto di quello schifoso carnefice del padre, e picchiarli o peggio, dopo averli venduti a degli sconosciuti?
Non permetterei a nessuno di far loro del male.
Per nulla al mondo.
Motivo per cui li ho maledetti..
Myriam sbiancò a tale rivelazione, attendendo che la dea che la stava trattenendo tra le gambe continuasse.
- Semmai qualcuno dovesse minacciare la loro vita ... una tremenda epidemia piomberà spietata su Bliaint, decimandolo fino a ridurlo allo stremo.
 
Le settimane trascorsero e Myriam passava sempre più tempo alla dimora di Imogene.
Si alzava la mattina presto e percorreva tutta la strada per giungere da lei, rimanendo fino al tramonto.
Facevano l’amore per la maggior parte del tempo, e per il restante parlavano, di tutto e di più.
Myriam le aveva raccontato la sua tragica storia, le aveva raccontato dell’esecuzione di sua madre quando era bambina, le aveva raccontato della separazione da Blake.
Si era aperta con lei interamente, in tutto e per tutto.
L’atto sessuale tra le due, inoltre, non era solo e unicamente un atto di piacere, ma era anche il mezzo per perpetuare il rito sciamanico che avrebbe permesso ad entrambe di rimanere gravide.
Tentarono, tentarono ogni giorno, sottoponendosi a quel rito che, più di una costrizione, era un evento di estremo, intenso, conturbante piacere per entrambe.
Tuttavia, Myriam fu lieta che, nonostante la cultura differente insegnatale da Guadalupe, Imogene non avesse abbandonato le consuetudini di Bliaint, e che pregasse e ringraziasse il loro Signore alla fine di ogni rito.
Quando Imogene le spiegò per la prima volta in cosa consistesse il rito, Myriam ne rimase ammaliata e agghiacciata insieme: Per prima cosa, le due si sarebbero dovute sottoporre all’inghiottimento del seme, deglutendo entrambe, nello stesso momento, il seme di un melo.
Dopo di che, avrebbero invocato le antiche e prime leggendarie streghe, chiedendo anche a loro la forza di agire.
In seguito, sarebbero passate all’atto concreto. Inizialmente, di fronte a tale prospettiva, Myriam storse il naso, ma poi dovette ricredersi. Il terzo passaggio consisteva nell’inserire un uovo di airone, intero e integro, nella propria apertura, prima di sottoporsi all’atto, e di consumare quest’ultimo con l’uovo dentro che, inevitabilemente, nella passione dell’atto, si sarebbe rotto, disperdendo i propri liquidi dentro di loro.
Appositamente per ciò, Imogene si prendeva cura sin da quando era bambina di un airone, nutrendolo e accudendolo con grazia.
Tuttavia, non era finita lì. Le uova di airone venivano immerse, per un giorno intero, all’interno di una sostanza densa, bianca e vischiosa che Myriam non fece fatica a riconoscere.
La strega le domandò di chi fosse quello sperma, e come fosse riuscita a conservarne in così grandi quantità.
Imogene non rispose mai a quella domanda.
Tuttavia, per quanto la magia sciamanica fosse una potente risanatrice per il ventre sterile e malfunzionante di una donna, era dall’origine del mondo che uomini e donne sapevano con certezza che, per concepire una vita, vi era necessariamente il bisogno del contributo di entrambi.
Avevano bisogno dell’indiretto “contributo” maschile per riuscire nella loro impresa.
Dunque, prima di ogni atto, le due si infilavano un uovo di airone impregnato di sperma dentro la propria apertura.
Infine, ultimo ma non meno importante, i loro ventri dovevano essere cosparsi di sangue di capra nel momento del loro massimo piacere.
Nonostante il rito di fecondazione le fosse scivolato liscio come l’olio addosso, Myriam rimase profondamente perplessa e turbata da un altro grande scheletro che Imogene si portava con sè.
Per la buona riuscita del rito, era essenziale anche che, durante tutto il periodo di tentativi, le due facessero crescere una piantina.
La piantina era verde e rigogliosa, e sembrava crescere a vista d’occhio nonostante loro non la annaffiassero.
Imogene la teneva ben esposta su un tavolino, contenuta in un vaso spazioso e decorato.
Ma quando Myriam scoprì da cosa avesse messo radici quella piantina, le si gelò il sangue.
A quanto pareva, senza che le condizioni del rito lo richiedessero, Imogene aveva posto, di sua spontanea volontà, un feto quasi del tutto formato, seppellito nella terra.
Da quel feto morto e mai nato, era nata e cresciuta quella piantina.
Imogene le raccontò anche la storia di quel feto, il suo dolore più grande, anche più della morte della sorella e della violenza sui nipoti. Un giorno di qualche anno prima, ella aveva giaciuto con un uomo. L’ennesimo, nel tentativo di rimanere gravida.
Aveva sottoposto anche lui ad un rito sciamanico di fecondazione e, a detta di Imogene, quell’uomo doveva essere molto, molto fertile, per esser riuscito a portarla ad un risultato simile: Imogene rimase finalmente incinta, come desiderava, e credeva che ogni suo problema fosse finalmente risolto.
Il bambino cresceva nel suo ventre e lei era più fiera e soddisfatta che mai.
Tuttavia, il suo ventre doveva essere talmente tanto arido e inospitale, da aver soffocato, avvelenato, il suo bambino.
Una notte, alla fine del settimo mese di gravidanza, Imogene si svegliò di soprassalto, provando un intensissimo dolore alla pancia. Quando guardò in basso, si accorse che stava giacendo in un bagno di sangue.
Il suo amatissimo bambino era morto, e lei era riuscita a tirarselo fuori da sè senza l’aiuto di alcuna levatrice.
Lo ripulì accuratamente di tutti i liquidi di cui era cosparso quel corpicino morto e con il cordone ombelicale reciso, e lo seppellì nella terra.
La pianta nacque e crebbe da sè.
Era la cosa più bella che Imogene possedesse, ed ella la venerava quasi fosse un dio, fissandola per ore intere talvolta.
Myriam provò una grande pena per lei. E proprio perchè la amava, la amava intensamente, avrebbe voluto realizzare il suo desiderio e il proprio il prima possibile, per crescere i loro figli insieme, come una famiglia, come avevano fatto la madre di Imogene e Guadalupe.
Desiderò così tanto una vita con lei ... da dimenticarsi, quasi, di tutto il resto.
Si immerse in quell’amore folle e totalizzante, per tentare di dimenticare il suo passato, nonostante due occhioni blu continuassero a farle visita in sogno.
Ricordava ancora, un pomeriggio, durante la decima o la trentesima di quelle infinite sessione di sesso consumate insieme, la divina figura di Imogene sopra di sè, seduta su di sè, con le loro intimità dilatate a contatto, brucianti e tremanti di piacere, con l’uovo al loro interno già rotto, che rendeva la consistenza del contatto tra loro appiccicosa e vischiosa oltremodo, un elemento che rendeva il tutto ancor più eccitante.
Il dolore dei gusci d’uovo rotti che graffiavano le loro pareti passava del tutto in secondo piano, divenuto abituale e passabile.
Un nulla, confrontato all’intenso piacere che ne veniva.
Imogene la cavalcava con passione, come una guerriera, un’amazzone dalla bionda chioma selvaggia che le ricadeva addosso scompostamente, coprendole a volte i seni, talvolta lasciandoli scoperti, in una danza di “vedo non vedo” che faceva ogni volta perdere la testa a Myriam.
Myriam le poggiò le mani sui fianchi morbidi, stringendoglieli convulsamente, sull’orlo del piacere, mentre ella continuava a muoversi sinuosamente e con potenza.
Proprio mentre stava per raggiungere il culmine, Imogene, con gli occhi quasi rivoltati indietro per l’intenso godimento, immerse una mano nel recipiente colmo di sangue di capra e cosparse quel liquido dall’odore penetrante sopra il ventre di Myriam, e poi sopra il proprio, muovendo le dita e i palmi circolarmente intorno al proprio ombelico, in un movimento sensuale e provocante, per poi fare qualcosa che portò Myriam a venire seduta stante: avvicinò le dita sporche di sangue alla bocca e iniziò a succhiarle.
Quando entrambe si erano liberate dal piacere, sfinite, ansanti, felici e speranzose, come sempre, Myriam la guardò negli occhi, per poi posare distrattamente lo sguardo sul crocefisso al contrario appeso sulla perete dietro Imogene, il quale si era lievemente inclinato.
- Secondo te ci riusciremo davvero? Entrambe...?
- Certo che ci riusciremo. Entrambe.
“Ce la faremo entrambe”. Era oramai diventato un mantra tra loro.
Poi, dopo qualche mese che si conoscevano, si amavano, consumavano e tentavano assiduamente, accadde il miracolo.
Ma, disgraziatamente, accadde solo per Imogene.
Con Myriam, neanche il rito sciamanico aveva funzionato.
Quest’ultima cercò sempre di mostrarsi felice per lei, in quanto sentiva di amarla davvero e di gioire veramente per il successo avuto; tuttavia, non poteva fare a meno di morire dentro, ogni giorno di più, durante la gravidanza di Imogene,
Moriva dentro di rabbia, di frustrazione, di malinconia e di odio verso se stessa e verso il proprio ventre.
Verso la Natura, matrigna crudele.
Fu in quel periodo che le capitò spesso di ripensare a sua madre.
Imogene le continuava a ripetere che ci sarebbe riuscita anche lei, che avrebbero trovato insieme un modo alternativo.
Ma oramai Myriam aveva perso le speranze.
La sua unica rassegnata prospettiva oramai, consisteva nel crescere il figlio di Imogene con lei, fingendo fosse anche il suo.
Fortunatamente, stavolta, la gravidanza di Imogene procedette senza intoppi, e Myriam le stette accanto sempre, dandole forza e coraggio in ogni istante.
Ma le due non tirarono un sospiro di sollievo sin quando il piccolo miracolo non uscì dal suo ventre, gridando e urlando a pieni polmoni, sana e salva.
Una meravigliosa bambina in salute. Bella quanto Imogene. Bella quanto Maringlen e Maroine.
La bambina sembrava stare davvero bene tra le braccia di Myriam, quasi da addormentarsi meglio con lei, rispetto che con la propria madre.
Myriam stravedeva per lei, nonostante avesse solamente qualche settimana.
Riusciva già a vederla grande, a immaginarla chiamarle “mamma” entrambe, come fossero tutte e tre una cosa sola.
La sua felicità non le fece rendere conto di qualcosa che stava gradualmente avvenendo e mettendo pericolose radici nel cuore della donna che amava.
Imogene era sempre più buia e tetra, man mano che le settimane passavano.
Myriam non riusciva proprio a comprendere come mai non traboccasse di felicità come lei per aver ottenuto finalmente ciò che desiderava da tutta una vita. Giustificò il suo atteggiamento attribuendolo alla stanchezza del doloroso e difficoltoso parto, non dandogli importanza e facendole ombra con la propria felicità.
Effettivamente, Imogene stava per perdere la vita durante quel tremendo parto.
Eppure, ora erano vive, sane e salve entrambe.
Myriam non riuscì a comprendere cosa infettasse e covasse il cuore di Imogene.
Non comprese mai, neanche quando una sera si ritrovarono da sole mentre la piccola dormiva placidamente.
Myriam le si sedette accanto e notò che gli occhi di Imogene fossero fissi e lucidi sulla pianta che cresceva sempre più.
- Non credevo che essere madre fosse così – sussurrò solamente, con voce stanca, rotta, distorta.
- E come credevi che fosse? – le domandò, non ricevendo mai risposta.
Poi cominciò l’estraniamento tra madre e figlia.
Qualcosa che addolorò Myriam fino a farle passare notti insonni, flagellandosi la mente nel chiedersi il perchè Imogene si comportasse così: quando doveva darle il latte e la bambina faceva i capricci, Imogene perdeva la pazienza immediatamente e la allontanava da sè, lasciandola piangere a squarciagola; non capiva i suoi bisogni, non sapeva quando aveva freddo o caldo, quando aveva fame o voleva dormire, quando doveva essere cambiata o lasciata in pace.
Era come una totale estranea per lei.
Il dettaglio che avrebbe sicuramente dovuto allarmarla di più, ma al quale non prestò attenzione, esattamente come agli altri, fu che Imogene rimandasse sempre la scelta dei nomi di sua figlia.
- Quali saranno i suoi due nomi? – le chiedeva spesso Myriam.
- Non lo so ancora – le rispondeva sempre Imogene con noncuranza.
Eppure entrambe non conoscevano rispettivamente il primo nome dell’altra.
Myriam riflettè su ciò, più di una volta.
Amava Imogene e avrebbe voluto conoscere il suo primo nome di battesimo, per poterla chiamare più intimamente, per avvicinarsi ancor di più a lei.
Ma Imogene non glielo aveva mai detto e non era intenzionata a farlo.
E lei invece?
Lei non glielo aveva detto non perchè non volesse, ma semplicemente perchè lei stessa non ricordava quale fosse il suo primo nome.
Il suo primo nome lo conosceva solo sua madre ed era il nome con cui la chiamava sempre quando era bambina, prima che morisse, e lei ricordava che la chiamasse con quel nome.
Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare quale fosse il nome.
L’unica altra persona che potesse conoscerlo era il monaco che l’aveva fatta nascere, ma lei aveva tagliato ogni contatto con i monaci da quanto questi avevano fatto ammazzare sua madre a sangue freddo, su quel soppalco.
Dopo la sua morte, Myriam era cresciuta per strada per qualche anno, senza incontrare nessuno che volesse prendersi cura di lei.
Aveva vissuto da sola e abbanonata a se stessa, sin quando non aveva incontrato la famiglia Rolland e aveva aiutato Heloisa a partorire Blake.
Da quel giorno, era stata sempre con loro.
E quando era accaduto quel che era accaduto con Heloisa, e questa l’aveva costretta ad andarsene minacciandola di morte, era scappata ancora, come aveva sempre fatto, unendosi alla compagnia.
Ed ora non sapeva ancora il suo primo nome, non sapeva ancora chi fosse.
Le settimane passavano e Imogene continuava ad alienarsi sempre di più.
Passava notti insonni, in cui Myriam la sentiva piangere sommessamente.
Non la riconosceva più.
Era come se, dalla nascita della bambina, non fosse più lei.
Myriam iniziò a preoccuparsi, ma iniziò a farlo troppo tardi, quando oramai il cuore di Imogene era una pozza sofferente e troppo colma di una serie di emozioni buie e negative impossibili da cacciare via.
Poi, una notte, accadde.
Accadde ciò che fece desiderare a Myriam di vedere morta la donna che amava.
L’evento che la portò ad odiarla come aveva odiato Heloisa.
Un rumore strano svegliò il sonno di Myriam, la quale ritrovò il giaciglio che condivideva con Imogene vuoto della presenza di quest’ultima.
Si alzò in piedi e camminò, fin quando non si paralizzò, dinnanzi alla visione che le si presentò davanti: Imogene era seduta e piangeva disperata, mentre abbracciava il feto grigio e spento disseppellito dal vaso.
Il tavolo era cosparso di terra e di capelli che si era strappata via.
Ma il primo pensiero di Myriam andò subito alla bambina, che giaceva nella culla di fianco a lei.
La giovane strega si fiondò dalla piccola, e la trovò immobile, con una cera cerulea, la pelle dura e fredda, gli occhi orribilmente aperti e vitrei, il nasino che non emetteva più alcun respiro.
- Che cosa ... che cosa hai fatto, Imogene?
- Non la smetteva più ... non la smetteva più di piangere ... non la sopportavo ... non ce la facevo più.
Non ce la facevo più ...
Non ce la facevo più ... – ripetè piangendo disperata, fuori di sè.
Poi, pronunciò una frase che fece agghiacciare Myriam ancor di più:
- Volevo essere la madre del mio bambino – sussurrò abbracciando stretto il feto che aveva tra le braccia.
Da quel giorno, Myriam giurò solennemente a Imogene che, se mai l’avesse rivista, l’avrebbe uccisa.
Dopo di che, se ne andò via da quella casa e non la rivide mai più.
La sua vita andò avanti con le streghe e gli stregoni della compagnia, e pian piano si dimenticò di lei.
Il volto di Judith era immobile, esterrefatto, in seguito a quel racconto.
Improvvisamente, malgrado la parte finale della storia avesse catturato la sua attenzione più di tutte, come lo sarebbe stato per chiunque, la mente di Judith si catalizzò su un’informazione in particolare, ricevuta all’inizio, e che l’aveva fatta tremare di rabbia da capo a piedi.
- Voi ... voi sapevate della maledizione di Imogene. Eravate l’unica a sapere che Imogene avesse lanciato una maledizione per proteggere i gemelli da chiunque minacciasse la loro vita! – esclamò infuriata, rialzandosi in piedi. – Siete stata voi! Siete stata proprio voi a minacciare la loro vita, pur sapendolo! Avete costretto padre Cliamon a togliere la vita ad uno dei due, altrimenti li avreste uccisi con le vostre stesse mani! Avete provocato voi la tremenda epidemia su Bliaint!!
- Lo so, e posso giurarvi che l’ho realizzato e me ne sono ricordata solamente quando tutto ciò era già avvenuto – le garantì la strega, addolorata.
- Come avete fatto a non ricordarvi di qualcosa di così importante??
- Quando ho scoperto che fosse stato proprio quel monaco a condannare mia madre, non ci ho visto più. Sono rimasta accecata dalla vendetta e ho smesso di riflettere, di pensare. Solo recentemente, quando l’epidemia era oramai svanita, mi sono resa conto del danno che ho provocato.
- Ho visto ... intere famiglie sterminate, soffocare nel loro stesso vomito e nella tosse.
La metà dei bambini che parteciperanno al mio spettacolo hanno perso un genitore, un fratello o una sorella a causa dell’epidemia!
Io stessa ho vissuto settimane nell’orrore che la mia vita e quella dei miei cari venisse stroncata prematuramente da quel flagello!
E, nel caso non ci abbiate pensato, vorrei informarvi che se Blake non fosse partito e non si fosse allontanato da Bliaint, si sarebbe potuto ammalare e morire anche lui a causa vostra!
E pensare che il villaggio voleva trovare un colpevole per la venuta dell’epidemia, e la colpa stava per ricadere su Blake! Il popolo credeva che la sua ricerca della polvere nera avesse fatto adirare i due signori...
Invece, era la maledizione di quella donna. La colpevole siete voi e voi soltanto!
- Lo so bene! Ora me ne rendo conto e, se solo potessi, tornerei indietro e non farei ciò che ho fatto.
Judith si calmò un po’, cercando di regolarizzare il respiro, ma non si risedette, del tutto intenzionata ad andare via il prima possibile. – E Imogene..? – ebbe il coraggio di chiederle. – Ora dov’è? Nutrite ancora del rancore nei suoi confronti?
A tale domanda, a Myriam tornò in mente la conversazione avuta con padre Cliamon solo il giorno prima, nel difinire le condizioni del loro patto:
- Allora? Volete dirmi il nome della persona a cui dovrò togliere la vita? – le aveva chiesto con un fil di voce, dopo essere usciti dalla cattedrale dei servi del Diavolo durante la veglia, e aver selezionato il giovane prescelto che avrebbe ospitato l’animo di padre Cliamon una volta a settimana.
- Imogene. Questo è il nome di colei che dovrete uccidere.
Myriam ritornò alla realtà, posando lo sguardo su Judith. – La vorrei morta. Con ogni fibra del mio essere.
A ciò, la fanciulla le rivolse uno sguardo a metà tra lo schifato, il deluso e il compassionevole.
Girò i tacchi e se ne uscì dalla propria stanza con un groppo in gola, lasciando Myriam da sola.
- Avevate promesso che mi avreste raccontato di lui!! Judith!! Tornate qui!! – sentì tuonare la voce della donna dietro di sè, ma chiuse gli occhi, ignorandola e continuando a camminare, non riuscendo a fare a meno di pensare a quanto sentisse di essere simile ad Imogene.
 
 
 

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Capitolo 32
*** Il mistero delle Strigi ***


Il mistero delle Strigi
 
Erano trascorsi alcuni giorni da quando aveva stretto il patto con la strega.
Alcuni giorni da quando Myriam gli aveva inaspettatamente ridonato la vista.
Il perchè ella lo avesse fatto, gli sfuggiva completamente.
Ma era del tutto disposto a godersi quella ulteriore piccola/grande conquista, finchè avesse potuto.
Padre Cliamon era impaziente di abitare per la prima volta il corpo di quel ragazzo, ma al contempo era anche impaurito, e divorato dai sensi di colpa.
Quel ragazzo avrà avuto al massimo quindici anni.
Il fatto di fare una cosa del genere a poco più che a un fanciullino, lo portava a detestarsi ancor di più.
Il giorno della settimana in cui avrebbe abitato quel corpo si stava avvicinando, cosicché prese l’impulsiva decisione di andare a far visita al ragazzo, per conoscerlo, e scoprire più cose possibili su di lui e sulla sua vita, senza un’apparente ragione.
Continuava a ripetersi che era la cosa giusta da fare, e che lo avrebbe aiutato a replicare quanto più possibile il suo comportamento per non destare sospetti, quando si sarebbe trovato dentro di lui.
Riuscì a scoprire dove abitasse seguendolo di soppiatto uno dei pomeriggi in cui lo aveva notato entrare dentro la cattedrale del Diavolo, per poi uscire che era già sera, in seguito alla funzione.
Sua madre lo accompagnava, mentre suo padre era assente quel giorno.
Non conosceva neppure il suo nome, eppure lo aveva seguito di nascosto, scoprendo dove abitasse, senza il suo consenso.
Era mattino, e diede una bella occhiata alla casa dall’esterno, prima di bussare alla porta: era una bella casa, semplice, come tutte le altre, ma sembrava grande, e presentava anche una stalla nel retro, in cui erano contentute mucche e pecore, con un piccolo appezzamento di terreno per farle pascolare, evidentemente.
Si decise a bussare alla porta, ripetendosi mentalmente la scusa che si era preparato per quella improvvisa visita.
Bussò altre due o tre volte, non ricevendo risposta.
A ciò, provò ad usare la voce. – C’è qualcuno?? – esclamò.
Sperò vivamente non stessero dormendo.
Dopo qualche minuto buono, la porta si aprì, rivelando immediatamente quei ciuffi ribelli di capelli chiarissimi, inconfondibili.
- Buongiorno! Sono qui per- ma non fece in tempo a terminare la frase che il ragazzo gli richiuse la porta in faccia.
Cliamon rimase attonito, immobile e ammutolito per qualche istante.
Non appena si riprese dalla sorpresa per quello sgarbato comportamento, bussò di nuovo, in maniera più insistente e decisa.
A ciò, il ragazzo aprì di nuovo la porta, stavolta più ampiamente, lasciando che il sole del mattino illuminasse la sua figura intera.
Puntò i suoi chiari occhi di topazio su di lui, squadrandolo con estrema diffidenza, spingendo il monaco a deglutire rumorosamente, per la tremenda soggezione che gli trasmetteva quello sguardo.
- Chi siete voi e che cosa volete? – la sua voce era diversa da come era alla veglia, quando aveva parlato in dolce ricordo della sorella, stregandolo.
Era sempre carezzevole all’udito, ma di qualche tonalità più bassa, una voce determinata, forte, impregnata di un velo neanche troppo lieve di acidità.
Evidentemente il suo arrivo inaspettato e improvviso lo aveva scosso parecchio.
- Mi chiamo Cliamon, e sono un monaco del Creatore.
- Questo lo vedo. I servi del Creatore non sono graditi qui e io non posso aprire agli sconosciuti.
- Ma ... io sono un monaco – gli disse, vedendolo vacillare. Il ragazzo alzò un sopracciglio biondissimo, indeciso, poi cedette alle sacre usanze che imponevano di mostrare sempre rispetto agli uomini di Dio, di qualsiasi culto essi fossero.
Lo fece entrare in casa e si richiuse la porta dietro di sè.
Anche dall’interno la casa era bella, forse solo lievemente trascurata.
Ma, d’altronde, come poteva biasimarli? Era appena morta loro una figlia, e sorella.
Si intristì ripensandoci, non facendo caso allo sguardo insistente e sempre più in cerca di spiegazioni del ragazzo.
- Allora? Cosa siete venuto a fare qui, padre? – gli domandò ponendo le braccia conserte.
A ciò, gli occhi di padre Cliamon tornarono su di lui, scrutandolo ora da più vicino.
Da quel metro di distanza che li separava, il suo aspetto lo stava stregando e incantando ancor di più di quanto avesse fatto qualche giorno prima.
I suoi lineamenti delicatissimi erano distorti da un’espressione quantomai diffidente, disturbata dalla sua presenza.
- Gli altri monaci mi hanno incaricato di controllare le vostre condizioni, di portarvi le nostre condoglianze personalmente, e di accertarmi che stiate bene. Voi e la vostra famiglia, voi soprattutto.
- Perchè io? E perchè voi monaci del Creatore dovreste interessarvi a noi?
- Perchè voi siete solo un ragazzo, e siete sicuramente quello che sta risentendo di più della perdita della vostra amata sorella. Vogliamo accertarci che stiate affrontando il lutto, cercando di superarlo, e offrirvi il nostro aiuto nel caso abbiate bisogno di qualsiasi cosa. So che non apparteniamo allo stesso culto, e non possiamo svolgere mansioni come confessarvi o pregare con voi. Tuttavia, i monaci del Diavolo sono tutti morti, perciò solo noi possiamo occuparci di voi servi del Diavolo ora. Non possiamo pregare con voi, ma almeno possiamo ascoltarvi se avete bisogno di parlare o di sfogarvi, o offrirvi in altro modo il nostro aiuto.
- Stiamo bene, grazie – lo liquidò, evidentemente sperando di toglierselo dai piedi con così poco.
- Posso sedermi per un momento?
- Vi ho già detto che sto bene. Cos’altro volete sapere? E poi, per quale motivo non avete fatto la stessa cosa anche con tutte le famiglie di servi del Diavolo che hanno perso un loro caro durante l’epidemia?
Il ragazzo era sveglio, sveglio e pungente, Cliamon dovette ammetterlo.
- Perchè ciò che è accaduto a vostra sorella è stata una vera tragedia, caro ragazzo. Totalmente una fatalità inaspettata. Invece i morti dell’epidemia se ne sono andati tutti in massa, lentamente e dolorosamente, le ferite da colmare sarebbero state troppe, in ogni caso.
Dove sono i vostri genitori? – domandò infine cambiando discorso.
- Non so dove sia mio padre. Mia madre è fuori a dar da mangiare alle pecore. C’è qualcos’altro volete sapere?
- Il vostro nome, se è possibile – gli disse sorridendo con innocenza. – Credo sia importante per impostare un contatto, un dialogo, non credete? D’altronde, voi sapete il mio, ed è buona educazione ricambiare, solitamente.
Il ragazzo alzò il sopracciglio in risposta, mostrandosi dubbioso. – Perchè insistete nel voler rimanere qui? Come avete saputo dove abito? Non sarete uno di quei monaci come quello che passava il suo tempo ad importunare i ragazzini di nascosto qualche anno fa?
Cliamon si imbarazzò, offendendosi per tale accusa, ma dovendo convenire con se stesso che, vista dall’esterno, forse, e solo forse, quella situazione sarebbe potuta sembrare equivoca.
- Ma come vi salta in mente! Caro ragazzo, io sono venuto qui solo perchè incaricato di farlo. Rispetto il vostro atteggiamento di sfiducia, ma non lo comprendo. Siete così maldisposto nei miei confronti dal non voler neanche dirmi il vostro nome?
- Esatto - confermò il ragazzo poco prima che una voce femminile proveniente dall’esterno li interruppe, chiamandolo:
- Folker! Folker, sei in casa, vero? Ho visto qualcuno davanti alla porta prima! Chi era? Folker! – esclamò la madre del ragazzo, per farsi sentire da quella distanza.
Padre Cliamon accennò un piccolo sorriso trionfante mentre vedeva il volto del ragazzo assumere uno sguardo seccato.
- Bene, Folker – disse rimarcando quel nome di proposito. – Sembra che io sia riuscito comunque a scoprirlo senza il vostro aiuto – aggiunse. – Spero vivamente che quello che ho udito sia il vostro secondo nome.
- Sì, è il secondo.
- Folker – ripetè. – Un nome forte, un po’ duro.
- Duro? Per cosa?
Avrebbe voluto dirgli che stonasse con il suo aspetto raffinato, ma stava parlando a sproposito perciò preferì zittirsi.
Immediatamente sbucò dalla porta la figura della madre del ragazzo, che entrò in casa trafelata e con gli abiti lievemente sporchi.
La donna, di una bellezza spettacolare come il monaco si aspettava, rivolse uno sguardo tra il preoccupato e il sorpreso al nuovo arrivato, cercando comunque di assumere dei modi ospitali e rispettosi, sorridendo smagliante. – Scusate se mi presento in tal modo, ma sono stata con le pecore fino ad ora. Inoltre, non aspettavamo ospiti – gli disse, chiedendogli tacitamente spiegazioni.
- Questo è padre Cliamon, madre – lo presentò il ragazzo al suo posto, con voce tranquilla. – Si trova qui per controllare se stiamo bene dopo il lutto, e se abbiamo bisogno di qualcosa.
- Oh, ma che gentile da parte vostra. Ma, prego, sedetevi, padre! – lo incoraggiò la donna, rivolgendo sommessamente un lieve sguardo di rimprovero a suo figlio per non aver fatto ancora accomodare il monaco. - Posso offrirvi qualcosa? Abbiamo latte fresco di capra, spremuta di mela o arancia, un pasticcio di frutta candita e ...
- Oh, non disturbatevi, mia signora, sto bene così – la pregò gentilmente, prendendo posto su una sedia accanto al tavolo.
- Non siete qui per interrogare anche Folker, vero? – domandò ella turbata.
- Interrogarlo?
- Sì, per ciò che è accaduto al povero Barclay. Barclay è un suo caro amico, e Folker è molto scosso e turbato anche per ciò che è successo a lui, oltre che per la scomparsa della nostra Bonnie – disse avvicinandosi al figlio e posandogli una mano sulla spalla, che venne subito scansata dal ragazzo, il quale si allontanò di un passo da lei.
Cliamon vi pensò su e solo in quel momento si ricordò di cosa fosse successo in quegli ultimi giorni.                                                                  
Diversi eventi insoliti e dalla parvenza preoccupante stavano facendo nuovamente capolino al villaggio di Bliaint.
Perchè a Bliaint non si poteva stare mai in pace, qualcosa di funesto doveva sempre affacciarsi all’orizzonte.
Chi non vivesse in quel luogo se ne sarebbe sorpreso, mentre loro, ormai, ne erano fin troppo avvezzi.
Il giorno prima era accaduto quel qualcosa che si sarebbe potuta definire una fatalità, se non fosse stato per le circostanze dell’accaduto, ma soprattutto per il colpevole.
Difatti, vi era stato un episodio di violenza, di forte violenza, tra un giovanissimo servo del Creatore e un giovanissimo servo del Diavolo, coetanei di Folker.
Il servo del Diavolo era stato picchiato a sangue e ridotto in fin di vita ad opera del servo del Creatore, il quale ora era rinchiuso in una sudicia cella delle segrete, in attesa di un processo o di un verdetto.
Una situazione alquanto astiosa per loro monaci, i quali si erano ritrovati a discuterne più e più volte, senza sapere bene come agire.
La pena per qualcosa che si avvicinava all’assassinio ma non lo era; in quanto il giovane Barclay era stato picchiato a sangue e lasciato quasi in fin di vita, ma si stava gradualmente riprendendo; non era il rogo.
E, ad ogni modo, sarebbe stato un evento alquanto insolito a Bliaint veder bruciato al rogo un ragazzo servo del Creatore.
Se Cliamon avesse fatto mente locale per ricordarsi quanti servi del Creatore fossero stati bruciati al rogo durante il corso della sua relativamente lunga vita, forse ne avrebbe ricordato uno soltanto, vagamente.
Un uomo che aveva ucciso a sangue freddo sua moglie a causa di un tradimento.
E anche allora, fu davvero scioccante per loro, dover bruciare al rogo un servo del Creatore.
Lo stomaco del monaco si contorse a quel solo pensiero: veder bruciare un servo del Diavolo dopo l’altro, anche se giovanissimi, oramai non destava in loro quasi più nessuna sorpresa, dispiacere, o compassione, considerando quanti ne condannassero di settimana in settimana, sempre con la stessa accusa: esercizio improprio e sconsiderato della stregoneria.
Perchè i servi del Diavolo erano così adatti a farsi bruciare vivi senza batter ciglio, secondo la loro distorta mentalità, mentre i servi del Creatore no?
Se lo era domandato diverse volte, anche da giovane.
Per quale motivo, mentre osservava i bellissimi corpi del sudditi del Diavolo essere divorati e consumati dalle fiamme, il pensiero involontario e tremendo che quei corpi fossero stati fatti e creati appositamente per ospitare le fiamme dentro di loro e venire stroncati da esse nel fiore degli anni, rendendo la loro bellezza immortale e immutata, invadeva la sua mente sin troppo spesso?
Provava disgusto verso se stesso quando realizzava di essere in grado di pensare, anche solo involontariamente, cose simili.
Si riscosse dalle sue elucubrazioni quando avvertì gli occhi chiari e luminosi di entrambi puntati su di sè con insistenza, in attesa che dicesse qualcosa.
- Il ragazzino servo del Creatore che ha quasi ucciso il vostro amico, giusto.. qual è il suo nome? Ambrose? Kåre Ambrose? – si decise a rispondere, rivolgendo lo sguardo a Folker, i cui occhi si animarono e assunsero un guizzo che destabilizzò notevolmente il monaco.
- Pagherà per quello che ha fatto a Barclay, non è vero?? – domandò concitato il ragazzo.
Capiva che potesse sentirsi arrabbiato nell’aver visto un suo carissimo amico picchiato a sangue e in fin di vita, soprattutto dopo aver subìto il trauma della morte della sorella; tuttavia, nel suo sguardo c’era un qualcosa di strano, di quasi diabolico mentre lo chiedeva, con una tale speranza nella voce.
- Dovete tenere molto a lui.. e, giustamente, volete che quell’Ambrose paghi. Posso capire la vostra frustrazione. Stiamo ragionando su quale sarebbe la punizione migliore per...
- Perchè non il rogo? – suggerì immediatamete il ragazzo. – Bruciatelo al rogo. Se non lo ucciderete, potrebbe farlo ancora – insistette.
- Il rogo è riservato solo a chi si macchia di un peccato molto grave, come può essere quello dell’assassinio. Tuttavia, il vostro amico è ancora vivo, o sbaglio, Folker?
Gli occhi del ragazzo si affilarono, così come i suoi pugni si strinsero, ma mantenne la compostezza. – Il fatto che non l’abbia ucciso è stato solo un caso ... un altro paio di pugni e quell’infido infame sarebbe riuscito nell’intento..
- Voi eravate presente al momento dell’accaduto, o sbaglio, Folker? Insieme ad altri ragazzi della vostra età, se non ho udito male.
Quella frase fu in grado di zittire immediatamente il fanciullo, facendogli riacquisire tutta la compostezza perduta.
- Sì, mio figlio era presente.. ma era troppo traumatizzato per ricordare – rispose sua madre per lui, con la voce macchiata di una nota preoccupata che non sfuggì al monaco; una voce che lasciava presagire tutto il suo allarmismo nei confronti dell’unico figlio rimastogli, nonchè il maschio e il maggiore, oltretutto, sicuramente la gioia e luce dei suoi occhi più di quanto lo fosse la scomparsa Bonnie, a giudicare dal modo in cui gli si approcciava.
Oppure era solo paralizzata dalla paura di perderne un altro, di figlio.
Cliamon si appuntò mentalmente anche quel dettaglio, mentre i suoi occhi non lasciavano la figura del ragazzo.
- Capisco ... ad ogni modo, credo siate anche a conoscenza di qualcosa di altrettanto grave che è stato insinuato, e che è sulle bocche di sempre più servi del Creatore.
- Che cosa, padre? – gli domandò la donna porgendogli una tazza di latte appena munto.
- L’accusa che Barclay, il ragazzo ferito a morte, possa essere una strige. L’accusa mossa dallo stesso Ambrose, per giustificare il suo inumano gesto nei suoi confronti. Il ragazzo sostiene di aver avuto sospetti che Barclay fosse una delle leggendarie figure associate ai servitori del Diavolo, e che ha preso a picchiarlo a morte per tale motivo, per difendersi dalla sua fame.
Che storia ridicola. Cliamon trovò quell’assurda trovata talmente ridicolamente sciocca da fargli quasi venire da piangere. Quel ragazzino che, chissà per quale sconosciuto motivo (e ormai il monaco stava iniziando ad interessarsene parecchio, dato che la faccenda sembrava premere molto a Folker), aveva ridotto quasi in fin di vita un servo del Diavolo, aveva messo su probabilmente la prima scusa che gli era venuta in mente, per giustificare il suo gesto.
E quella scusa, il caso voleva, fosse proprio un’antica leggenda per bambini diffusa solo tra i servi del Creatore, guarda caso, a discapito dei servi del Diavolo.
Che strana coincidenza ... che quel racconto gli fosse così conveniente al momento, abbastanza per allarmare i popolani più ignoranti e bigotti.
Abbastanza per far ricadere la colpa, sempre e comunque, sui servi del Diavolo, gli eterni malvagi e colpevoli di ogni cosa.
Erano ancora lontani dall’unificazione dei due culti, all’abbattimento di ogni discriminazione, pensò con amarezza il monaco. 
- Che cos’è una strige? – domandò la donna, riscuotendolo.
- Sono delle creature appartenenti ad una leggenda diffusa solo tra noi servi del Creatore.
Si crede che le strigi siano dei servi del Diavolo a cui è stato donato un privilegio speciale e particolare dal loro Signore, un dono mostruoso e ineguagliabile al contempo: canini aguzzi, una voglia irrefrenabile di succhiare sangue e mangiare carne umana, l’assenza di qualsiasi scrupolo di coscienza, pella fredda e bianca come quella di un morto, insofferenza nei confronti della luce del sole, capacità di entrare in contatto e trasferire la propria anima dentro il corpo di un pipistrello. L’unico modo per ucciderli non è il rogo, bensì la decapitazione. In poche parole, creature misteriose, oscure, sovrannaturali. Mostri bellissimi. Non a caso, si dice che le strigi giochino sulla seduzione per intrappolare le loro vittime.
La leggenda riguardante le strigi è cominciata perchè, secoli fa, Allister Chaim, in un momento in cui non era in sè, aveva affermato di averne vista una. Tuttavia, solo lui sembra averla vista e descritta. Nessun altro, nella storia, vi è mai entrato in contatto. Così, si è trasformata in una leggenda per spaventare i bambini servi del Creatore – concluse padre Cliamon bevendo qualche sorso del latte offertogli.
Evidentemente, Allister Chaim doveva essere davvero ubriaco o delirante per aver diffuso una stupida leggenda simile, Cliamon ne era certo; tuttavia, voleva osservare le reazioni dei due, perciò aveva cercato di assumere il tono più serio e allarmato possibile mentre parlava loro.
- Come il Mostro Dietro Di Te lo è per noi.
- Cosa avete detto?
- Una stupida leggenda per bambini per voi servi del Creatore. Esattamente come il Mostro Dietro Di Te lo è per noi servi del Diavolo – ripetè il ragazzo. – E voi state credendo a quella carogna che sta cercando solamente di salvarsi la pelle in ogni modo possibile, solo per ... una stupida leggenda per bambini..? - domandò il ragazzo cercando di trattenere l’indignazione.
- Dopo le parole di Ambrose, sembra che altri servi del Creatore, in preda alla paura, abbiano confermato le sue parole, iniziando ad avere sospetti che tutta la famiglia di Barclay sia una famiglia di strigi. Inoltre, vi è anche l’incognita dell’epidemia: innumerevoli corpi di persone stroncate dalla malattia non sono stati rinvenuti e ritrovati, inspiegabilmente scomparsi. Se la teoria delle strigi in mezzo a noi fosse vera, spiegherebbe la scomparsa misteriosa di tutti i cadaveri freschi dei malati.
- “In preda alla paura”, avete detto bene. A volte la paura gioca brutti scherzi – disse la donna con severità.
- Non può essere una dannata strige o come si chiama! Barclay è un mio amico, lo conosco, sono cresciuto con lui! Sono tutte menzogne assurde! Io ero lì quando è accaduto! Non è stato certo per questa ridicola leggenda che quel verme ha picchiato a sangue Barclay.
- Allora per quale motivo lo ha fatto? – lo spronò nuovamente padre Cliamon, fissandolo con insistenza, notanto che si fosse zittito di nuovo.
Iniziò a capire che la situazione fosse più spinosa e oscura di quanto si aspettasse, e la cosa lo incuriosì oltremodo.
Che cos’era accaduto tra quei tre, e tutti gli altri che stavano assistendo?
Cosa c’entrava la questione delle strigi?
- Ad ogni modo – riprese a parlare il monaco. – Se le preoccupazioni del villaggio riguardo queste creature dovessero diventare ancor più concrete, sappiate che ci muoveremo per controllare in prima persona che ogni componente della famiglia di Barclay non mostri segni sospetti: controlleremo denti, pelle e sensibilità alla luce del sole. E così faremo con ogni servo del Diavolo ... – li mise in guardia.
- Potete controllarci quanto volete, tanto non abbiamo nulla da nascondere.
- Oltre a controllarvi, è preoccupazione primaria di noi monaci proteggere tutti voi ragazzi dal pericolo concreto delle strigi, se questi dubbi e sospetti dovessero divenire più seri.
- “Noi ragazzi”? – domandò Folker confuso.
- Ho dimenticato di informarvi che si dice che le strigi si nutrano solamente del sangue e della carne di corpi giovani, poichè più freschi e succulenti.  Per questo dovremmo proteggere tutti voi giovani ragazzi e bambini, di entrambi i culti. Tuttavia, non è detto che vengano selezionate anche prede più adulte, d’altronde non sappiamo nulla di queste creature, perciò dobbiamo proteggere tutti a prescindere. Difatti, verrà vietato l’accesso a Bliaint a tutti gli stranieri, finchè non avremo risolto questa faccenda.
- Come se ce ne fosse bisogno. Nessuno straniero riesce mai a raggiungere Bliaint – disse con ovvietà il ragazzo.
- Vi informo che, attualmente, abbiamo ben due stranieri sulla nostra terra. Entrambi ospiti alla casa del proprietario della galleria, Rolland.
Madre e figlio rimasero entrambi sorpresi da quell’informazione.
- Ad ogni modo, Folker – riprese il monaco. – Parlatemi di voi. Mostratemi cosa fate durante la giornata, i luoghi che frequentate solitamente, quali sono le vostre abitudini. In modo che io possa comprendere se state vivendo con eccessivo turbamento questi giorni che seguono la scomparsa di vostra sorella.
Nel ricordardargli ciò, gli splendidi occhi del ragazzo si rabbuiarono visibilmente, un dettaglio che fece sentire tremendamente in colpa il monaco. Oltre alla tristezza celata, tuttavia, in quei bei lineamenti emergeva anche del dubbio, del sospetto palese: era visibile che il ragazzo non si fidasse di lui e delle ragioni che lo spingevano a voler infiltrarsi in tal modo nella sua vita, d’improvviso; ma stesse pazientando e accontentandolo solo per il bene di sua madre che, molto più ingenua di lui, credeva ad ogni parola che usciva dalla bocca del monaco, fatta eccezione per le strigi.
Del padre, invece, neanche l’ombra.
- Beh, tesoro, cosa ne dici di accompagnare il nostro ospite nel continuare a svolgere le attività che stavi facendo? – domandò sorridente la donna, richiudendo la sua chioma bionda come quella del ragazzo in una bandana. – Dovete sapere, padre, che Folker, prima del vostro arrivo, stava sistemando la sua camera e ... quella di sua sorella – pronunciò con un’evidente nota di tristezza. – Dobbiamo ancora sgomberare la cameretta della mia dolce Bonnie. Io non ce l’ho fatta a farlo... perciò se ne sta occupando lui.
- Basta così, madre. Non c’è bisogno di dirgli tutte queste cose – la interruppe il ragazzo con voce atona, apparentemente distaccata. – Ora lo accompagno in camera.
- Va bene! Mi raccomando sii gentile! Inoltre, quando hai finito con le camere, ricorda che devi andare a mungere le capre al mio posto, mentre io pulisco la casa!
- Sì, sì, ho capito! – rispose il ragazzo, oramai già lontano dal campo visivo della donna.
- E poi, ricorda che oggi pomeriggio avevi promesso che avresti fatto visita a Ronan e alla sua famiglia!
- Sì, lo ricordo!
- Chi è Ronan? – domandò Cliamon seguendo il ragazzo nella stanza di Bonnie.
- La mia promessa sposa.
Il monaco sgranò gli occhi e si annotò mentalmente anche quello. – Già, d’altronde siete in età da matrimonio. Quando vi sposerete?
- Il prossimo anno – rispose il ragazzo senza alcun interesse nella voce.
- Beh, è una notizia meravigliosa, no? Lei vi piace?
- Non ci conosciamo quasi. È un matrimonio totalmente combinato dai nostri genitori – rispose senza apparente inflessione nella voce.
Padre Cliamon lo guardò provando compassione per lui.
Era solo un ragazzo e già la sua vita era stata delineata per lui, senza che lui potesse mettervi bocca.
Inoltre, era anche morta sua sorella.
Forse aveva davvero bisogno di una bella dose di supporto emotivo. Di nuovo il suo senso di colpa saltò fuori come un grillo, tartassandolo.
La sua attenzione ritornò ora su Folker, che si muoveva a suo agio dentro la stanza della sua defunta sorellina.
La cameretta era piccola, ma piena e profumata, come sicuramente lo era la bambina che la abitava fino a qualche giorno prima.
Folker, con estrema cura e calma, tolse le coperte chiare dal suo letto, ripiegandole.
Dopo di che, andò a controllare sotto il letto, per smistare alcuni oggetti e giochi della sorellina, per valutare cosa tenere e cosa buttare, per fare spazio in casa.
Tirò fuori tre bambole di pezza, alcune pietre colorate dalla forma particolare, due o tre collanine di roccia azzurra e qualche altro oggetto.
- Un tempo condividevamo la camera – gli disse improvvisamente Folker.
- Ah sì..?
Il ragazzo annuì, tirando la testa fuori da sotto il letto e restando un ginocchio, osservando con nostalgia un oggetto tra le sue mani.
- Quando ancora una di queste stanze era occupata dalla nostra vecchia bisnonna in fin di vita. Dovevamo condividere la stanza. Ma quando la nonna è morta, io ho preteso di cambiare stanza, perchè volevo una camera tutta per me, e lei mi dava fastidio. Lei invece ... voleva restare in camera con me – disse con quella nota di amara nostalgia nella voce che fece incrinare pericolosamente il cuore del monaco.
Se solo avessi saputo ... non lo avrei mai fatto immaginò che stesse pensando, Cliamon.
Ora quel ragazzo gli apparve diverso rispetto a prima: i suoi lineamenti erano distesi, nessun sentimento di diffidenza, rabbia o acidità li storceva; i ciuffi ribelli sfuggiti al nastro gli ricadevano davanti al volto schermandolo delicatamente, come a vietare ai suoi occhi di guardarlo troppo; i suoi vestiti, larghi e per nulla raffinati, bensì dalla genuina aria trasandata, gli ricadevano addosso con delicatezza, come per non disturbarlo. In quel momento, gli sembrò talmente intoccabile da aver paura che persino un soffio di vento potesse ferire quella pelle chiarissima.
Ripresosi dal suo momento di contemplazione, il monaco si sporse per vedere quale fosse l’oggetto che Folker stava fissando tanto insistentemente, e con un lieve sorriso a increspargli le labbra.
Una lira.
Una piccola lira malandata, che le dita del ragazzo carezzavano leggere.
- Quella è ... di Bonnie? – ebbe il coraggio di domandargli, spezzando il silenzio.
- È mia. Ma la teneva lei.
- Perchè?
- Perchè, di tanto in tanto, quando ne avevo voglia, venivo qui a suonargliela e a cantare qualcosa.
- Voi cantate?
Il ragazzo sembrò immediatamente richiudersi a riccio nel momento in cui si rese conto dell’informazione fornita, riacquisendo lievemente il suo sguardo duro. – No. Non più – rispose secco. – Lo facevo per lei. Per lei solamente.
Aguzzando la vista, il monaco notò che sul retro della lira fossero state incise goffamente due lettere accostate tra loro: D.K.
- Voi sapete scrivere..? – gli domandò sempre più sorpreso.
Il ragazzo negò con la testa. – Ho imparato a scrivere solo queste due lettere, per inciderle qui.
- E sarebbero?
- Le iniziali dei nostri primi nomi: Dietrich e Katrin – gli rispose lasciando un sottile bacio sulla superficie della lira e indossando una delle collanine di roccia azzurra della sorella, talmente piccola che, su di lui, gli circondava il collo quasi in una circonferenza perfetta, carezzandogli le clavicole. – Riposa in pace anche oggi, Katrin.
 
Sentiva il suo respiro sul collo mentre la possedeva su quella distesa d’erba umida e fredda.
Non vedeva quasi nulla ma lo sentiva spingere dietro di sè, più forte, sempre più forte.
Glielo aveva chiesto lei di non porsi limiti, di toccarla, saggiarla e maneggiarla dentro quel corpo che non le apparteneva, senza scrupoli, senza preoccuparsi di farle male.
Eppure, ora stava cominciando a farle male... male sul serio.
Il confine tra dolore e piacere non era più così flebile oramai.
Naren stava eccedendo e le stava facendo mancare il respiro per il dolore.
- Naren ... – esalò dolorante. – Fermati ... rallenta ... ora rallenta subito ...
- Avevi detto che ti piaceva – le sussurrò lui mordendole il collo e spingendo ancor più forte, ancorandola e sè e stringendole le braccia così forte che le sue unghie le perforarono la pelle.
- Naren, smettila! Ho detto che può bastare!
Avrebbe voluto ribellarsi per toglierselo di dosso subito, d’altronde quel corpo era più alto, più slanciato e molto più atletico di quello di Naren, dunque ci sarebbe riuscita.

Tuttavia, il dolore al fondoschiena e ad ogni parte del corpo maltrattata e colpita da lui e dalla sua mostruosa lussuria le stava dolendo oltremodo, mozzandole il respiro e togliendole ogni forza di ribellarsi.
- Naren, fermati immediatamente!! Mi stai uccidendo! Lo stai uccidendo! Questo corpo.. lo stai uccidendo! Ci sono io qui dentro! – ma le sue urla vennero bloccate dalla mano del mostro dietro di lei, che le tappò la bocca talmente forte da non farla respirare, mentre continuava a spingere la sua asta dura e umida dentro di lei.
Le venne da vomitare per il dolore.
Le mancava l’aria.
I sensi erano annebbiati.
Ma no, non avrebbe permesso mai e poi mai a quella bestia insaziabile che aveva creduto di amare di possederla anche mentre era priva di sensi.
Resistette, percependo tutto il dolore addosso, e dentro di sè, come spaccata in due da una lama di fuoco che, da dietro, le si stava espandendo in tutto il corpo, mentre lui continuava a spingere e a spingere con una spietatatezza, una violenza e una fame che non avrebbe mai creduto possedesse, lui che solitamente era sempre così calmo e paziente ..
Urlava di piacere, quel ragazzo che la stava torturando fino a farle perdere i sensi, fino a farla sanguinare troppo.
Fece l’unica cosa che potè fare in quel momento: attese, attese in quel corpo forte, che rimaneva pur sempre un corpo umano, con un limite di sopportazione che stava cedendo. Attese che egli si liberasse in lei, doveva essere al limite oramai.
Era già venuto in lei cinque volte, tutte di seguito, e non ci aveva messo molto.
Sarebbe arrivata presto anche stavolta...
Sarebbe arrivata presto.
Judith si svegliò di soprassalto dal tavolo della biblioteca, su cui si era appisolata, col fiatone, ansimante e sudata.
Delle calde lacrime rigavano le sue guance, in seguito a quell’incubo, uno dei tanti, ma contenente ricordi nuovi, e sempre, sempre più agghiaccianti.
Afferrò il foglio di una pergamena vuota, intinse la piuma nell’inchiostro e iniziò a scrivere, senza neanche asciugarsi le lacrime o sistemarsi i capelli.
“Sospesa, muoio ogni volta che provo a scappare
Sono ancora sveglia mentre ti seguo lenta, ma ancora non ti vedo
Volevo dirti di resistere, di aspettarmi, di mostrarmi la via per trovarti, ma continuo a non vederti
Non è colpa tua se ho iniziato a parlare come gli uomini che non hanno voce
Non è colpa tua se non sono mai abbastanza vicina
Sospesa, un giorno riuscirò a dormire senza preoccuparmi di gravare sulla terra fragile
Sospesa, galleggio e marcisco per te, apro gli occhi ogni mattina per te, e non penso più a coloro che mai mi guarderanno, nè alle mie sorelle, vittime dello stesso flagello
Senti? La senti l’aria gelida che promette meraviglie?
Sospesa, un giorno mi accorgerò che sfiorare un giglio senza mai toccarlo non basta a renderlo eterno
E poi? Cosa dirò a chi mi chiederà come posso respirare senza un corpo?
Svelto, svelto va’... chiedemi se puoi rimanere con me
Chiedimi perdono e cadi. Cadi giù!
Raggiungi gli uomini che non sono mai esistiti e apri!
Apri gli occhi
Non richiuderli più” smise di scrivere, quasi col fiatone.
Accartocciò il foglio, lo gettò a terra, poi prese un altro pezzo di carta bianco e riniziò a scrivere, stavolta con più calma:
“Ehi, sono di nuovo io.
Ho appena scritto un’ode. Un’ode a te, ma l’ho gettata via. Un’ode che non leggerai mai, così come non leggerai mai nessuna delle lettere che ti ho scritto sinora.
Ultimamente scrivere è tutto quello che faccio.
Scrivo per il copione, scrivo a te, scrivo per il mio progetto. Scrivere sta gradualmente diventando la mia salvezza.
Ho appena fatto un sogno. Un altro. Terribile. Altri ricordi di quella terribile nottata e dei miei peccati imperdonabili stanno fuoriuscendo dalla mia anima appesantita.
Questa volta, la situazione mi è chiara dinnanzi ai miei occhi.
Naren è marcio, più marcio di quanto lo sia io, e il suo peccato è molto più grande del mio.
Ma ciò non mi consola, per nulla.
Vorrei strapparmi il cuore palpitante dal petto, posarlo a terra e pestarlo fino a farlo diventare un putrido groviglio di sangue, solo per la consapevolezza che, un tempo, quello stesso cuore l’ho donato a lui.
A quel mostro che, prima, nonostante l’aspetto deplorevole, guardavo come si guarda una cosa meravigliosa.
Lo trovavo bello nonostante fosse mostruoso e marcio. Vedevo solo il bene in lui, la sua corazza luccicante, fatta di occhiate adoranti e genuine, di parole dolci e teneramente nascoste vicino al cuore, un’apparenza rassicurante e raggiante che nascondeva un animo rivoltante.
Perchè mi sono innamorata di lui?
Dimmi, sei un mostro anche tu come lo è lui?
Ti sento che cresci grande e forte, ma non so ancora chi sei.
Non so ancora chi sei e vorrei saperlo.
Spero, con tutta la mia anima, che tu non sia come lui.
Prima, innamorata com’ero, se fossi arrivato in circostanze diverse, avrei voluto che somigliassi più a lui che a me, per rivedere sempre nei tuoi occhi i suoi.
O, forse, non ti avrei voluto neanche in quel caso.
Forse, ti avrei voluto solo se non fossi stata io, se fossi una persona diversa.
Se non fossi Arley Judith.
Perdonami.
Lui mi ha tradita, ha tradito la mia fiducia nonostante io gli avessi donato il mio cuore, un dono che non avevo fatto mai a nessuno prima d’ora.
Ed ora ... ora che lui è tra le braccia di un’altra donna, non provo neanche un briciolo di gelosia.
Bensì, un altro sentimento si annida in me.. un sentimento di preoccupazione.
Nei confronti della persona che lui ha scelto, povera vittima innocente e senza colpe.
La donna che ha scelto, è una mia amica oramai.
Per questo sono allarmata. Temo che egli possa fare a lei quello che ha fatto a me e a quel corpo ...
Chissà di chi era, quel corpo di quella notte. Perchè non ricordo come fosse fatto? Perchè non ho utilizzato il tatto per tastarne la consistenza e formare dei ricordi anche di ciò?
Perchè non mi sono toccata il viso, e i capelli, per imprimere nella mia memoria a chi stessi facendo tanto male?
Non posso mettere in guardia Hinedia senza rivelarle la verità.
L’unica cosa che posso fare è restare seduta a guardare, sperando che lei non cada tra le sue grinfie e non soffra, tra le braccia di quel mostro.
Mi dispiace.
Sai, ieri ho ricominciato a mangiare. Giusto un po’.. so che non è ancora abbastanza, ma ti prometto che riprenderò a mangiare di più.
Oramai riesco a vedermi le ossa dal bacino, della spina dorsale, delle costole.
Non ho più energie per fare nulla se non scrivere.
Per questo sto riprendendo a mangiare.
Per riprendere le forze. E perchè ho compreso che questo non è il modo in cui voglio ucciderti.
Non ti ucciderò così.
Io non ti ucciderò..
Sei contento? Sei contento che sto riniziando a mangiare?
Dovrei pregare. Non lo faccio da un po’.
E dovrei anche andare da Blake, per accertarmi su come sta.
Non sono più andata da lui, nè ho più avuto sue notizie, da quella notte in cui l’ho trovato.
Sono stata io a decidere di non fargli visita, di non farmi viva, in quanto lui al momento è praticamente rinchiuso in casa, costretto ad uscire solo se strettamente necessario.
Non è che io non voglia vederlo, anzi.
Voglio vederlo, voglio sentirlo e chiedergli come sta, controllare che sia ancora in lui, voglio stare con lui e dilettarmi in sua compagnia per ore e ore.
Tuttavia... non ci riesco.
Ho bisogno di riflettere.
Lo stato in cui l’ho trovato .. mi ha impaurita.
Non mi ha impaurita lui, lui non potrebbe mai spaventarmi.
Ma ho paura di ciò che potrebbe accadergli, a causa del suo animo fuori dalla norma, autodistruttivo.
Non mi è piaciuto ciò che ho visto là sotto, in quella fucina.
Forse dovrei scrivergli una breve lettera, per spiegargli i motivi per cui non mi sto facendo viva e non gli sono accanto.
Sì, dovrei e lo farò.
Mi sto isolando in questi ultimi giorni, me ne rendo conto.
Sto avendo contatti solamente con i bambini e con Hinedia, e solo perchè lei mi sta aiutando con loro.
Sto evitando addirittura padre Cliamon e padre Craig.
Oh, padre Craig, povero padre Craig ...
Lui mi ha cercata, ha provato ad approcciarsi a me, ma io l’ho completamente ignorato.
Avevo paura che mi chiedesse di andare a trovare Blake.
Inoltre, il suo viso mi addolora, la sua preoccupazione nei miei confronti e nei confronti di Blake, mi addolora.
Egli ha un cuore così buono e ingenuo, e lo considero un mio caro amico.
Vuole sinceramente rimanerci accanto, costi quel che costi.
Si sacrifica per me e Blake, sempre, ci guarda con occhi devoti, pieni di ammirazione e forse di qualcos’altro.
E noi? Come lo stiamo ripagando noi? Lasciandolo all’oscuro dei nostri progetti.
Sono certa che padre Craig stia rimanendo a Bliaint solo per noi due, anche se non comprendo fino in fondo le motivazioni che lo spingono a farlo. O non voglio comprenderle.
Eppure, si sta mettendo in pericolo.
Ora, con quest’assurda storia delle strigi saltata fuori in questi ultimi giorni, stiamo per chiudere i battenti agli stranieri.
Padre Craig si sta esponendo ad un rischio, restando qui.
Eppure, sono certa che rimarrà comunque.
Lui non ci abbandonerà.
Probabilmente, non ci abbandonerà mai.
E arriverà il momento, ahimè, in cui temo dovremmo essere io e Blake ad abbandonarlo.
Sto ancora parlando troppo?
Non importa, questo è l’unico modo in cui potrai mai ascoltarmi.
Grazie a te, ora so che si può amare e odiare allo stesso tempo qualcuno.
Ti amo, amore.
Ti odio, amore.
Mia madre mi ha amata.
Ma tu non avrai una madre che ti amerà in futuro.
Ce l’hai solo adesso, che sei ancora lì dentro, che non sei ancora reale.
Finchè sarai lì dentro starai bene e nessuno ti farà del male.
Nemmeno io.
Ora dormi.
Dormi e apri gli occhi.
Non richiuderli più.”
 
Lo ricordava ancora. Lo ricordava come se ce l’avesse ancora lì, sotto di lui.
“Non è lei, non stai facendo del male a lei” continuava a ripetersi, mentre guardava quel corpo sconosciuto, quel corpo che stava possedendo violentemente, che gli provocava qualcosa dentro che lo faceva scattare come non aveva mai fatto.
Più lo guardava, più desiderava squarciarlo e usarlo in ogni modo possibile per il proprio piacere carnale.
Non era la stessa sensazione che provava quando guardava la sua Judith.
Quando guardava lei e il suo corpo, voleva solamente prenderla con dolcezza, trattarla con riguardo e cura, maneggiarla come fosse la cosa più preziosa e delicata del mondo.
Quando guardava la donna che amava voleva fare l’amore con lei, fino a morirne.
Quando invece guardava il corpo di quel ragazzo sotto di sè, voleva solo violarlo fino a distruggerlo.
Qual’era il limite tra violenza e non? Si rese conto di non saperlo.
Tuttavia, là dentro c’era Judith ora.
Era lei che gli aveva chiesto di farlo.
Era lei che lo aveva istigato, che aveva insistito.
Era lei che lo aveva convinto a farlo, perchè lei era lì dentro, e voleva provare quella sensazione mai provata nel corpo di qualcun altro, senza subirne le conseguenze sul suo.
Ma non poteva immaginare che ci fosse lei lì sotto, a soffrire del dolore che le stava provocando.
Non poteva.
Non riusciva più a fermarsi. Non riusciva più a fermarsi nonostante gli urli, nonostante le sue proteste, i suoi tentativi di ribellione, di dimenarsi, tutti vani.
Non credeva di essere così forte, prima di quel momento.
Quella notte, stava scoprendo sin troppe cose di sè e della donna che amava.
La amava... la amava così tanto.
Naren si svegliò dal suo sonno, con quell’immagine impregnata nella memoria.
Dopo di che, il viso di Judith gli si fissò davanti agli occhi, quasi come fosse reale, a portata di mano... – Arley ... – sussurrò con la voce rotta dalla nostalgia e dal pianto, adorante.
Sapeva di doversi almeno sforzare di dimenticarla, ma era più forte di lui.
L’aveva amata dal primo momento che l’aveva vista e l’avrebbe sempre amata, sognata, desiderata, cercata in chiunque.
- Van? – la voce di suo padre proveniente da fuori la sua camera lo richiamò.
Il ragazzo si strofinò gli occhi e posò i piedi per terra. – Sì?
- Ti sei addormentato nel pieno del pomeriggio? Ricordi che avevi detto di voler andare a far visita alla ragazza che stai corteggiando? Come hai detto che si chiama? Hinedia?
Improvvisamente, Naren ricordò, e scattò giù dal letto, iniziando a vestirsi di tutta fretta. – Sì, infatti! - esclamò. – Non preoccuparti, sto per andare da lei! Non aspettarmi per la cena!
- D’accordo – gli rispose l’uomo, poi allontandosi dalla porta.
Si era accordato con Hinedia che quel pomeriggio si sarebbe recato da lei.
Avrebbe conosciuto i suoi genitori e avrebbero passato la serata insieme.
Hinedia.
Il ripiego ideale, la copertura perfetta, il modo migliore per redimere i suoi peccati.
Eppure, inaspettatamente, quella ragazza era stata una bella sorpresa.
L’aveva trovata da subito diversa, forse per quello l’aveva colpito.
Sembrava aggraziata in una maniera strana e piacevole, riusciva a portare gioia e tranquillità ovunque andasse, ed era anche sveglia e curiosa a suo modo.
Gli stava cominciando a piacere.
Piacere, mai amare.
Colei che avrebbe amato sarebbe stata sempre un’altra e non era neanche lontanamente eguagliabile da nessun’altra.
Ma andava bene così.
Aveva sbagliato, aveva commesso un gravissimo peccato, ed ora era finita.
Doveva andare avanti e non pensarci più.
Il matrimonio con Hinedia avrebbe sancito la fine della sua giovinezza sconsiderata e meravigliosamente folle, una giovinezza all’insegna di un peccato dall’aspetto di una ninfa e una cascata di capelli rosso fuoco.
Per tale motivo avrebbe dovuto dichiararsi a lei e farle la proposta il prima possibile.
Era certo che, se avessero affrettato i tempi e Hinedia fosse stata in grado di colmare almeno in parte i suoi turbamenti e le sue mancanze, sarebbe andato tutto bene.
Avrebbero avuto dei figli, una famiglia, come era stato per suo padre, per suo padre prima di lui, e per tutti quelli che lo avevano preceduto.
Nessuno di loro aveva desiderato qualcosa che non poteva avere.
Con Hinedia avrebbe potuto esporsi quanto voleva, non avrebbe dovuto nascondersi da niente e da nessuno.
Con lei avrebbe potuto sfogare le sue voglie carnali senza venire divorato dai sensi di colpa.
Con lei avrebbe potuto farsi vedere in giro, baciarla e abbracciarla in pubblico, sussurrarle qualcosa all’orecchio mentre gli altri li guardavano, senza preoccuparsi.
Con lei poteva tutto.
Giunse a casa della ragazza mezz’ora dopo, venendo accolto da lei e dai suoi genitori.
Passarono una bella cena insieme, i suoi genitori gli diedero un caloroso benvenuto, gli fecero molte domande, e gli raccontarono persino della defunta sorella di Hinedia.
Si vedeva che i due approvavano la loro nascente relazione, e come sarebbe andata ad evolversi.
Hinedia, d’altra parte, era stata silenziosa, ma aveva sorriso di tanto in tanto, con quel suo sorriso genuino e luminoso che era in grado di farlo sorridere di rimando ogni volta.
Al termine della cena, i due erano andati nella camera di Hinedia, e avevano preso posto sulle sedie che circondavano un tavolino posto in mezzo alla stanza.
La ragazza era impegnata a cucire un bel mantello, mentre lui la osservava con calma.
- Hinedia – richiamò ad un tratto la sua attenzione, con una nota di impazienza nella voce.
La vide alzare gli occhi scuri su di lui, rivolgendogli uno sguardo interrogativo e un sorriso accennato.
- Nulla.. vi guardavo e.. mi piace guardarvi – le disse semplicemente, vedendo il suo sorriso allargarsi.
- Vorrei davvero farvi conoscere i bambini che parteciperanno allo spettacolo – disse improvvisamente la ragazza, tornando a cucire con sguardo intenerito.
- Ah sì?
Lei annuì. – Sono così creativi, svegli e intelligenti! Se stimolati adeguatamente danno risultati eccezionali! Sono certa che faranno tutti un figurone allo spettacolo.
Naren sorrise nel vederla tanto soddisfatta di ciò che stava facendo.
- Non volete sapere neanche un po’ come sta la vostra vecchia amica Judith?
A tale domanda, che aveva tutta l’aria di essere genuina e senza alcuna malizia, il ragazzo non seppe cosa rispondere. Il minuscolo e isolato sospetto che ella lo stesse testando per capire se aveva mai provato qualcosa per Judith come lui affermava fermamente che fosse, lo colse impreparato.
- Beh.. se volete dirmelo, sì, vorrei sapere come sta – rispose fingendo casualità e indifferenza.
- Lei sta dimagrendo.
- Sta ... dimagrendo? – domandò Naren non riuscendo a nascondere un guizzo di sorpresa e di allarme nel suo volto. – E perchè mai, se posso chiederlo? Insomma, non è gravida? Le donne gravide dovrebbero prendere peso, non perderlo.
Hinedia lo fissò negli occhi, con uno sguardo apparentemente neutro, ma che nascondeva a sua volta della preoccupazione. – Difatti mi sta un po’ preoccupando. In questi ultimi giorni è stata molto distante, come se avesse la testa da un’altra parte. Per tale motivo, considerando che voi eravate amici un tempo, volevo chiedervi se poteste parlarle voi. Per capire se le è successo qualcosa, se sta bene.
Quella richiesta lo sorprese non poco, lasciandolo attonito. – E cosa potrei mai fare io, per scoprire cosa la affligge?
- Non lo so. Parlarle? Avete detto che eravate amici.
- Sì, ma eravamo amici come ora voi lo siete con lei, non eravamo molto stretti. Inoltre, lei non è promessa a quel ragazzo ora? Al figlio del proprietario della galleria? Blake è il suo nome, giusto?
All’udire quel nome, stavolta fu Hinedia a sussultare lievemente, rimanendo sorpresa, nonostante non ci fosse nulla di nuovo in ciò che egli aveva detto.
Quella strana reazione lasciò Naren dubbioso.
- Sì, è vero – rispose la ragazza dopo un attimo di silenzio. – Ma lui non si sa dove sia ultimamente. Ella non lo sta vedendo, e non mi sta neanche parlando di lui.
Un improvviso moto di soddisfazione animò il cuore di Naren all’udire quell’informazione.
- Hanno discusso?
- Non ne ho idea. Non credo.
- Forse è con lui che dovreste andare a parlare delle condizioni di Judith, non con me – la testò Naren, curioso della sua reazione.
Hinedia abbassò immediatamente lo sguardo. – Non occorre. Non lo conosco così bene da andare da lui per domandargli una cosa simile.
- Ma lo conoscete. Giusto? – indovinò Naren. – Come avete fatto a conoscerlo?
- L’ho incontrato un paio di volte, quando era con Judith – mentì la ragazza.
- Hinedia ... – la richiamò Naren, poggiando una mano sulla sua, sorpredendola di nuovo.
Lei non si ritrasse, anzi, al contrario cercò di ricambiare con una certa timidezza.
Lo guardò sorridendo, come se attendesse delle spiegazioni.
- Hinedia, io ... – iniziò, percependo il forte desiderio di farla sdraiare nel letto e di provare anche con lei le gioie dell’atto sessuale.
Per riuscire a togliersi dalla testa quel corpo.
Per togliersi dalla testa Judith.
Sentiva che con lei sarebbe stato tutto diverso.
Voleva sperimentarlo proprio adesso, ora, in quell’esatto istante.
E gli occhi della ragazza erano talmente grandi e pieni di aspettativa al momento, che non riuscì a trattenersi.
Avvicinò il volto al suo e la baciò.
Ella non lo scansò, ma rimase immobile; motivo che lo spinse ad approfondire il bacio e ad affondarle una mano tra i capelli.
Hinedia rimase ferma, ancora, come poltiglia da modellare tra le sue mani.
La ragazza assaporò quel bacio senza provare alcun emozione in particolare.
Non percepiva la lussuria, non ancora.
Non che l’avesse mai percepita neanche con l’uomo che aveva frequentato prima di lui, che la sua famiglia l’aveva costretta a frequentare.
Percepì le mani impazienti di Naren affondare nella sua nuca, guidarla verso il letto, infilarsi dentro la sua veste.
Fu in quel momento che allontanò il volto dal suo, interrompendo il bacio, percependo un certo fastidio.
- Naren... non credete che stiamo correndo un po’ troppo? Ci stiamo frequentando ufficialmente da neanche due settimane, d’altronde – gli disse a fior di labbra.
- Lo so bene, Hinedia, e non vorrei mai mancarvi di rispetto, credetemi ... tuttavia.. ho già voglia di voi.
La ragazza sgranò gli occhi a quella risposta, non riuscendo a capire come si sentisse a riguardo: Lusingata? Sorpresa? Dubbiosa? Offesa?
Un tripudio di emozioni controverse si susseguirono in lei. Lo guardò a lungo negli occhi, cercando di leggervi qualcosa dentro. – Perchè così all’improvviso...?
- Non è all’improvviso. Ho voglia di voi da un po’ in realtà.
- Una voglia tanto prorompente da spingervi a non riuscire ad aspettare?
- Voi lo avete mai fatto?
La ragazza impietrì, ancora semisdraiata sul letto. – Cosa...?
- Avete mai consumato un rapporto sessuale con qualcuno? – le domandò lui senza vergogna.
Hinedia rimase in silenzio, boccheggiando, per un po’.
- Dalla vostra reazione immagino di no – dedusse lui. – Non volete provare? Non siete curiosa nemmeno un po’ di sapere com’è? Come ci si sente? Sento il vostro corpo già fremere sotto le mie dita...
- Vi prego, smettetela.
Il volto di Naren si avvicinò di nuovo al suo, con estrema lentezza questa volta, prendendo a baciarle il collo, poi le guance, fino ad arrivare all’orecchio, dentro il quale sussurrò: - Voglio sentirvi addosso.. voglio entrare dentro di voi... e voi? Non volete sentirmi dentro di voi?
La sentì paralizzarsi di nuovo e poi sciogliersi sotto le sue dita.
Naren riprese a baciarla, e questa volta Hinedia si autoimpose di ricambiare.
D’altronde, che male vi era? Provare a farlo con un uomo che ancora non amava?
Lo avrebbe amato, in futuro, molto probabilmente.
E se anche così non fosse stato ... chissà quando avrebbe potuto provare quella sensazione se se la fosse lasciata sfuggire ora.
La curiosità stava iniziando ad avere la meglio anche su di lei, ma non la voglia.
Quella, al contrario, non la ricambiava.
Tuttavia, assecondò comunque i movimenti di lui, percependo la sua lingua umida invadergli la bocca smaniosa.
In un batter d’occhio lui le fu sopra, pesandole col suo corpo, posizionandosi tra le sue gambe e puntandole i gomiti di fianco ai seni.
Erano ancora entrambi completamente vestiti, ma Naren non sembrava intenzionato a lasciare la situazione invariata ancora a lungo.
Infilò i pollici dentro i bordi della sua sottana, sospirando. – Avete i fianchi più stretti di quanto pensassi ... – ansimò, banciandole ancora il collo, sentendola sospirare sotto di sè, evidentemente gradendo quei vezzeggiamenti.
Mentre le baciava la pelle, Naren riaprì gli occhi e le sue iridi chiare si posarono involontariamente sul piccolo libro che sostava sopra il comodino accanto al letto.
Hinedia teneva un libro in casa? Se non poteva leggerlo, cosa diavolo ci faceva con un libro?
- Cos’è quel libro? – le domandò tra un bacio e l’altro, facendo voltare anche la testa di lei verso l’oggetto posato sul comodino.
Non appena gli occhi della ragazza si puntarono su quel libro, e il ricordo di quello che ci aveva fatto e con chi lo avesse fatto ripiombò nella sua memoria, il suo corpo e la sua mente si ribellarono definitivamente alla morsa di Naren.
- Spostatevi – gli disse decisa. – Spostatevi da sopra di me.
- Cosa vi prende ora...?
Quando egli si fu finalmente spostato, permettendole di mettersi seduta e di ristabilire almeno una distanza di sicurezza, lei parlò. – Se ci tenete davvero così tanto a me, come non fate altro che ripetere ... per voi non sarà un problema aspettare ancora un po’.
Naren la guardò negli occhi senza dire nulla.
Per un attimo, la ragazza pensò di averlo fatto adirare o di averlo offeso.
Ma dovette rimangiarsi immediatamente quei pensieri nel momento in cui egli si inginocchiò dinnanzi a lei e le prese una mano nella sua.
Hinedia spalancò gli occhi sconvolta.
Stava ... succedendo davvero?
- Geenie Hinedia... vorreste farmi l’immenso onore... di diventare mia moglie?
 
 
- Siamo soli! – esclamò il ragazzino piombando sulla sedia a mo’ di scimmia.
- Siamo soli – confermò il ragazzo guardandolo con un piccolo ghigno addolcito.
Erano entrambi seduti intorno al tavolo.
- Abbiamo la casa tutta per noi e ora possiamo fare tuuuuttoooo quello che vogliamo – confermò Ioan più felice che mai.
Blake sorrise ancora, lieto di vederlo tanto spensierato.
- Però io ti devo controllare comunque, Even. Devo controllare che tu non faccia cose pericolose mentre nessuno è in casa – disse Ioan con una finta severità che non era affatto credibile, ripetendolo più a se stesso che a Blake.
- Lo so, gnometto. Allora? Cosa vuoi fare? Vuoi che prepariamo un dolce? Uno di quelli deliziosi che ci preparava la mamma quando eravamo più piccoli?
- In realtà volevo fare più una cosa proibita.. – disse il ragazzino sfregandosi le manine nervosamente.
- Proibita? Tipo?
- Voglio che tu mi aiuti a capire le mie battute e ad entrare completamente dentro il mio personaggio.
- Stai parlando dello spettacolo, Christopher?
- Ovviamente!
- E cosa ci sarebbe di proibito in questo?
- Che voglio scrivere le mie battute per ripassarle meglio, dato che mi hai insegnato a scrivere. Tanto me le ricordo a memoria – disse immediatamente il bambino tirando fuori dalla tasca il suo vecchio blocchetto in cui Blake lo faceva esercitare con la scrittura, un carboncino, e iniziando a scrivere. – Sto scrivendo anche le tue battute.
- Le mie battute..?
- Sì, tu dovrai interpretare il peccato che mi è più vicino nel copione scritto da Judith.
- E quale sarebbe il peccato che ti è più vicino?
- Lussuria.
- Oh ... – commentò Blake attento, alzando un sopracciglio per la sorpresa, ghignando lievemente. – Beh, allora d’accordo, sarò la Lussuria.
- Io e May abbiamo ripetuto talmente tanto le nostre battute che mi ricordo anche le sue. Ecco, tieni – gli disse porgendogli il foglio in cui vi erano le battute che avrebbe dovuto dire Blake.
Il ragazzo prese il foglio e lesse, sorprendendosi di quanto suo fratello fosse migliorato nella scrittura, nonostante non gli facesse lezione sin da prima della sua partenza.
Alzò gli occhi sgranati e piacevolmente colpiti verso di lui. – Christopher ... come hai fatto a diventare così bravo? Quando hai scritto in queste settimane?
- Ho scritto lettere per te praticamente ogni giorno mentre eri in viaggio – lo disse con una tale naturalezza che lo disarmò.
Blake rimase in silenzio per un po’, guardandolo scrivere.
- Posso leggerle..? – gli chiese sommessamente, inclinando la testa per guardarlo.
Ioan sembrò non aver udito la sua domanda, impegnato com’era a finire di scrivere le proprie battute, tanto che, quando terminò, urlò: - Fatto! – soddisfattissimo.
- Non mi hai ancora detto che peccato interpreterai tu, invece.
- Oh, giusto, scusa! Io sarò la Superbia.
- Superbia? La Superbia accostata alla Lussuria? Non male come scelta.
Tuttavia, mi sorprende che interpreterai la Superbia.
- Perchè?
- Come perchè? Non vi è peccato capitale più lontano da te della Superbia, Christopher.
Il bambino sorrise nervosamente in risposta, grattandosi la testa. – Sì, lo so..
- Allora perchè lo hai scelto?
- Perchè ... volevo provare a fare qualcosa di difficile, e di vedere se ce l’avrei fatta. Però ora sono in difficoltà, non riesco a capire questo personaggio e non lo sento mio.
- Hai provato a chiedere aiuto?
- No. Tutti credono che io abbia capito perfettamente il mio ruolo, e che non abbia bisogno di nessun aiuto.
- Perchè fingi di non aver bisogno di aiuto, Christopher?
Il bambino vi pensò un po’ su, indeciso se rispondere o no.
- Tu non hai mai avuto bisogno di aiuto in nulla, Even. Mai. Non hai mai chiesto aiuto.
Hai sempre saputo fare tutto senza aiuti, sei sempre riuscito a cavartela da solo.
Volevo ... essere come te per una volta.
Blake sbiancò a quella confessione, restando immobile per lunghi istanti.
- Even..? – lo richiamò il bambino, temendo di aver detto qualcosa che potesse averlo turbato o innervosito.
- Chris... io non avevo idea che tu ti sentissi in questo modo.
Il bambino gli sorrise, con uno di quei sorrisi sciogli-sole, e iniziò a recitare le sue battute:
- “L’uomo non è né più né meno che anima. Lui è al suo posto, lui ha tutte le qualità, è azione e potere, è traboccare dell’universo conosciuto, è disprezzo, è desiderio e sfida, è passione vasta e selvaggia, è felicità estrema, è pena, è orgoglio. L’orgoglio calma l’anima, è ottimo per lei, lui sottopone ogni cosa alla prova di se stesso, qualunque sia la ricerca, qualunque il mare e la vela lui lancia i suoi scandagli.”
A ciò, capendo che avesse finito, Blake cominciò a leggere le sue di battute, cercando di intepretarle almeno un minimo. – “Come puoi amarti ancora? Come puoi amarti sempre? Io sono qui davanti a te, ma non mi vedi davvero. Eppure neanche io ti vedo... Dove la nascondi la tua anima? Io non la vedo. Non la vedo mai da nessuna parte ed ho il terrore di non accorgermi di starla toccando con mano..”
Ma il ragazzo non fece in tempo a terminare la battuta che, quando alzò gli occhi dal foglio, trovò suo fratello improvvisamente addormentato, con la testolina bionda abbandonata beatamente sul tavolo.
Com’era possibile che si fosse addormentato in tal modo se era più che pimpante un attimo prima?
- Non lo biasimo, povero piccolo. Sei sempre riuscito a mettere in soggezione tutti gli altri bambini, anche in tenera età.
Quella voce.
Cosa ci faceva lei lì?
Il ragazzo saltò immediatamente in piedi dalla sedia, voltandosi di scatto verso la fonte di quella voce, dietro di lui, distante qualche metro.
Myriam lo guardava, in piedi sull’uscio della porta chiusa, la quale non si era neanche aperta per farla entrare.
- Che cosa gli hai fatto..? – domandò inviperito Blake, afferrando strettamente il bordo del tavolo dietro di sè tanto forte da farsi male, non riuscendo a nascondere quel brivido di minaccia e di pericolo nella voce: nessuno mai poteva osare posare un dito su suo fratello. Mai.
- Sta dormendo placidamente, Blake – lo rassicurò lei avvicinandosi di un passo, come una silenziosissima tigre che fissa la sua inestimabile preda, temendo di farla scappare via da un momento all’altro. – Posso giurarti che sta dormendo talmente leggermente, che se dovessimo alzare di poco la voce, si sveglierà e ritornerà più pimpante di prima. Perciò dobbiamo parlare piano ... lo sai.. lo sai che non lo sfiorerei mai – sussurrò.
A ciò, Blake voltò lo sguardo di nuovo verso Ioan, notando che stesse emettendo qualche sbuffetto dal naso, che gli stava alzando dei ciuffetti di capelli di tanto in tanto.
Era indubbio che stesse solamente dormendo. Si rilassò un po’.
- Potevi attendere che fossi totalmente solo... – la rimproverò lui a voce bassa per non svegliarlo, voltandosi di nuovo verso la strega e trovandosela molto più vicina ora, praticamente dinnanzi a lui, non essendosi accorto che si fosse avvicinata.
- È sostanzialmente impossibile trovarti solo oramai.
- La mia prigionia non durerà ancora molto.
Myriam lo osservò e studiò attentamente, poco prima di allungare cautamente una mano e sfiorargli uno zigomo. Lui ritirò indietro il viso di poco, ma la lasciò fare.
- Hai il volto più scavato. Cosa ti è successo quella notte? – sussurrò percorrendo una leggerissima traiettoria sulla sua pelle, tracciando il suo profilo, partendo dalla fronte, fino ad arrivare alla punta del naso.
Si guardarono negli occhi per un po’, senza dire nulla, fin quando Myriam non arrivò a toccare la sua fasciatura intorno al collo. – Con me ho un unguento che ti farà cicatrizzare la ferita completamente, la renderà molto meno grande e ingombrante – gli disse iniziando a sfilargli la benda, per lasciargli libera la gola.
Blake sembrò acconsentire e si sedette, Myriam prese posto dinnanzi a lui e si sporse in avanti, iniziando a spalmargli quell’ungento denso e dall’odore pungente, su tutta la circonferenza del collo, dove quella tremenda ferita faceva bella mostra di sè.
La strega spalmava il tutto con estrema cura, attenta a non fargli male in alcun modo.
- Sembri un gatto pronto a sfuggirmi via dalle mani da un momento all’altro – sussurrò Myriam ad un tratto, facendolo sorridere lievemente in quel silenzio surreale macchiato solo dagli scoppiettii del fuoco nel camino.
- Se lo volessi, potresti rendermi docile quanto vuoi con uno schiocco di dita, tramite uno dei tuoi incantesimi - sibilò lui.
- Sai che non ti farei mai e poi mai una cosa simile, Blake. Mai. Non a te – rispose lei con estrema serietà.
Il ragazzo non rispose, attendendo che ella terminasse.
- Cos’è successo quella notte, nella fucina? – gli domandò per la seconda volta Myriam, imperterrita nel voler ricevere spiegazioni da lui, mentre gli avvolgeva con delicatezza una nuova benda pulita intorno al collo bagnato di unguento.
- Ho perso la testa, a quanto pare.
- Che cosa è accaduto? Cosa stavi pensando?
Blake la guardò negli occhi, non sapendo cosa rispondere.
- Volevi ottenere qualcosa che ti è negato.
Volevi creare qualcosa che non puoi creare.
Ti ho sempre detto che la natura chiede sempre qualcosa in cambio, Blake.
- No. Non avrà niente da me.
Myriam sorrise amaramente a quella risposta, sapendo già in principio che sarebbe uscita esattamente così com’era dalla sua bocca, eterea e svincolata.
- Tu non vuoi mai dare nulla di te.
Questa è e sarà sempre la tua dannazione.
- Restane fuori, Myriam.
- È davvero questo ciò che vuoi?
- Ho già abbastanza problemi a cui pensare.
A ciò, senza aggiungere altro, la strega si rialzò in piedi.
Se ne andò con la stessa velocità con la quale era entrata, lasciandolo solo.
Ioan si svegliò placidamente dal suo sonno qualche istante dopo, stroppicciandosi gli occhi.
- Che è successo? – gli domandò il bambino in un bisbiglio.
- Un fantasma è venuto a farci visita mentre eri addormentato.
Ioan alzò un sopracciglio dubbioso in risposta, prendendo a fissare suo fratello assorto.
- Even?
- Sì?
- Non vedo ... niente. Non vedo niente nel tuo viso, nessuna espressione.
Non riesco a capire cosa stai provando.
- Non lo so neanche io cosa sto provando, Christopher.
- Chi sei tu, ora, Even?
- Non lo so. Non lo so più.
 
- Con voi monaci del Creatore non vive una serva del Diavolo che fa esattamente le stesse cose che fate voi monaci? Come confessare i fedeli del Creatore, aprire le funzioni e udire le ultime parole dei condannati al rogo? – gli domandò improvvisamente, mentre camminavano per le strade quasi spoglie al tramonto.
Padre Cliamon si voltò a guardarlo. – Intendete Judith?
- Sono voci che girano.
- Sì, è vero. Lei ci aiuta in questo senso, sempre nel rispetto del suo stesso culto: abbiamo sempre convenuto che confessare i servi del Creatore non comporti una mancanza di rispetto verso il suo Signore, il Diavolo. Pregare con loro lo sarebbe, ma questo non lo fa, difatti – spiegò.
- Allora perchè anche voi monaci del Creatore non confessate noi fedeli del Diavolo ora che tutti i monaci del nostro culto sono oramai morti?
Tale domanda lasciò di sasso padre Cliamon, facendolo scervellare sul perchè non ci avessero pensato prima, considerandola a prescindere una pratica moralmente e religiosamente compromettente, compiuta da loro. Effettivamente, se lo aveva sempre fatto Judith e il suo Signore non si era mai adirato con lei, allora voleva dire che avrebbero potuto farlo anche loro con i servi del Diavolo, offrendo loro tutto il supporto spirituale di cui avevano bisogno.
Cliamon sorrise, felice di aver trovato pane per i suoi denti in quel giovane. – Inizieremo a farlo. Grazie per avermelo detto. Siete molto sveglio, Folker. Ve l’ha mai detto nessuno? – gli disse guardandolo di sottecchi.
Il ragazzo alzò le spalle con noncuranza in risposta.
- Dove stiamo andando? – gli chiese poi, notando che si stesse facendo buio e il monaco lo stava conducendo verso una direzione che non si aspettava.
- Voglio portarvi in un posto- rispose Cliamon.
Pochi minuti dopo i due si ritrovarono dinnanzi alle porta che li avrebbe condotti alle segrete.
Cliamon accese una fiaccola e fece segno ai monaci che erano di guardia che andava tutto bene, e che il ragazzo era con lui.
Con gli occhi sgranati per l’immensa sorpresa, Folker ci mise un po’ a seguirlo, e a percorrere le scalinate che lo avrebbero condotto in quel lungo corridoio stretto, buio e umido, circondato da numerose celle.
Padre Cliamon si voltava ogni tanto a guardarlo mentre procedeva a camminare dietro di lui, notandolo arricciare il naso infastidito, sicuramente a causa della puzza che si respirava lì dentro.
Tuttavia non se ne lamentò, e non sembrò neanche affatto disturbato dalle terribili e inumane condizioni in cui versavano i prigionieri nelle celle.
Ogni tanto qualche curioso si affacciava alla sbarre, osservando la nuova presenza, per poi ritrarsi indietro stanco.
- Perchè mi avete condotto qui, padre? – gli domandò ad un tratto il ragazzo.
- Mi avete fatto intendere di avere un conto in sospeso con il giovane servo del Creatore che ha pestato a sangue il vostro amico – spiegò padre Cliamon, sempre più curioso riguardo tutta quella faccenda, soprattutto dopo aver trascorso l’intera giornata con Folker. – È da lui che vi sto portando – gli disse voltandosi a guardarlo di nuovo, per osservare il suo volto, trovandolo completamente attonito.
- Perchè mi state portando da lui..?
- Perchè almeno potrete dirgli ciò che pensate di lui e liberarvi un peso dalle spalle. Potrebbe servirvi ad affrontare le giornate con più leggerezza d’ora in avanti, senza stare a rimuginare troppo su ciò che è accaduto.
Il ragazzo deglutì a vuoto, per poi non mostrare più alcuna reazione, procedendo a camminare.
Quando finalmente i due giunsero davanti alla cella in cui era prigioniero il giovane Ambrose, Cliamon illuminò con la fiaccola la sua sagoma rannicchiata su se stessa sul pavimento lurido.
Cliamon non riuscì a fare a meno di assumere un’espressione schifata nel guardarlo: il ragazzo doveva essersi liberato la vescica più e più volte, in quanto dormiva in una pozza giallognola, dall’odore acre; i suoi vestiti erano insudiciati da molteplici liquidi corporei; il suo corpo magro, ma non troppo, tremava come una foglia; alcune ferite superficiali ed ematomi si intravedevano dalle porzioni di pelle lasciate libere dai vestiti, sicuramente provocate dalla lotta con Barclay; i capelli neri, folti e spessi come la pelliccia di un lupo, erano lerci e unti.
Il ragazzo si mosse lievemente, alzando il volto dalle proprie ginocchia solo di poco, quando si accorse di essere illuminato dalla luce di una fiaccola.
Quella poca illuminazione sembrava addirittura infastidirlo, essendo abituato al buio di quel luogo degenerante.
- Chi è? – chiese con voce roca Ambrose, non voltandosi del tutto verso di loro. – Monaci? Siete venuti a portarmi via di qui?
A quella domanda pregna di speranza, padre Cliamon notò distintamente una mano di Folker stringersi a pugno, e una piccola vena sulla sua tempia fare capolino mentre lo osservava con indescrivibile disprezzo.
Stava cercando di trattenere la rabbia e il nervosismo, era visibile ad occhio nudo.
Il monaco credette di non aver mai visto uno sguardo tanto sprezzante in vita sua, come quello che Folker stava rivolgendo ad Ambrose.
Quest’ultimo si voltò finalmente verso di loro, mostrando il suo viso giovane dai tratti per nulla piacevoli, deformati, un vero e proprio pugno in un occhio; e aggiunti anche all’espressione di puro sconcerto e quasi terrore che distorse i suoi lineamenti e i suoi grandi occhi grigio piombo nel momento in cui mise a fuoco la figura di Folker, il quadro finale era a dir poco ripugnante.
Ambrose si appiccicò con la schiena alla parete dietro di sè, strisciando all’indietro, con i piedi e le mani immersi nel piscio.
Respirava a fatica, ansimava quasi, alla sola vista del giovane servo del Diavolo che lo stava penetrando da parte a parte con le sue iridi cristalline infuocate di rabbia.
Cliamon posò lo sguardo nuovamente su Folker accanto a lui, per notare la sua reazione: egli non si era scomposto, era rimasto fisso, fermo e immobile, con le schiena dritta, la postura eretta e il volto fiero, nonostante la mascella visibilmente contratta e i pugni stretti fino a perforarsi i palmi lasciassero presagire che fosse tutt’altro che calmo.
- Che ci fate voi qui ...? – osò esalare Ambrose guardandolo ancora impaurito e stremato. – Come avete fatto ad entrare..??
- Ce l’ho portato io – intervenne padre Cliamon prendendo la parola, osservando il povero ragazzo tremante al di là delle sbarre. – Buonasera, Ambrose.
Il ragazzo negò più volte con la testa, tornando a fissare Folker, cercando di unirsi al muro ancor più di quanto non fosse già.
Cliamon notò che, nonostante la costituzione magra, Ambrose avesse comunque una schiena piuttosto ampia.
Non era difficile immaginare che potesse essere benissimo in grado di gonfiare di botte un ragazzo della sua età.
- Folker ... mi dispiace... mi dispiace tanto ... – sibilò Ambrose, quasi sul punto di piangere.
A tali parole, Folker emise una smorfia strana, ancor più schifata. – Per cosa esattamente, vi dispiace...? Per averlo pestato fino a lasciarlo in fin di vita, o per aver diffuso in giro quelle assurde voci riguardo le strigi? - gli domandò con una voce apparentemente calma, si sorprese padre Cliamon.
Ambrose boccheggiò, incapace di parlare ancora.
- Rispondete – insistette Folker con superiorità.
- Mi dispiace per averlo quasi ucciso ... non mi rimangio ciò che ho detto sulle strigi...
- Non ve lo rimangiate solo perchè avete il terrore di venire bruciato al rogo se non trovate una scusa abbastanza convincente per ciò che avete fatto, verme.
- Folker ... perdonatemi..
L’interpellato iniziò a ridere, a ridere a crepapelle.
- Possiamo andare via di qui, padre – gli disse infine, quando ebbe smesso di ridere nervosamente.
Ma la curiosità era ancora sin troppo scalpitante nel vecchio monaco, tanto che un’idea malsana gli attraversò la mente.
L’idea di lasciarli da soli e di vedere cosa sarebbe successo. Soli... con la cella aperta.
L’idea lo elettrizzò talmente tanto, inspiegabilmente, accendendo i suoi sensi, che non ci pensò due volte a ideare un modo per metterla in pratica.
Tuttavia, lui voleva guardare.
- D’accordo. Andiamocene – disse, vedendo Ambrose riaccucciarsi su se stesso, gemendo piano, spostando via gli occhi da loro. Senza farsi vedere da nessuno dei due, padre Cliamon infilò le chiavi della cella dentro la serratura, per poi avvicinarsi al giovane servo del Diavolo. – Precedetemi, Folker – gli sussurrò, e Folker obbedì, iniziando a camminare davanti a lui, riattraversando il corridoio e prendendo a salire le scale per uscire dalle segrete, convinto che lui gli fosse dietro con la fiaccola.
Ma quando risalì le scalinate, il ragazzo si rese conto che dietro di lui non vi fosse nessuno.
Perplesso, guardò i monaci che erano di guardia alle segrete. – Avete visto padre Cliamon uscire di qui?
I due negarono con la testa.
- Sarà rimasto là sotto – rispose uno dei due.
A ciò, il ragazzo ritornò a guardare l’entrata buia delle segrete, confuso. – Beh ... suppongo debba andarlo a cercare là sotto se è rimasto dentro – disse rientrando dentro e riscendendo le scale, con l’approvazione dei monaci. Finchè almeno un monaco fosse dentro le segrete, allora sarebbe andato bene lasciar entrare un popolano con lui.
Folker ripercorse quel corridoio. – Padre? Dove siete? – lo richiamò non avendo minimente idea che il monaco fosse nascosto in un angolino cieco, il più buio di tutti.
Fortunatamente, nonostante la fiaccola fosse oramai spenta, Cliamon ringraziò la ancora fievole presenza del sole morente, che entrava debolmente da qualche tonda grata sul soffitto, non rendendo l’ambiente completamente buio.
Smise di respirare pur di non farsi sentire, il monaco.
- Dove diavolo è finito ..? – si domandò Folker confuso, fermandosi casualmente di fronte alla cella di Ambrose, non sapendo più dove cercare.
 Solo in quel momento il ragazzo si accorse che una chiave fosse infilata nella serratura della cella del servo del Creatore, ancora rannicchiato su se stesso.
Si sorprese di scoprire ciò, chiedendosi come fosse possibile che qualcuno l’avesse lasciata lì per distrazione, e che loro poco prima non l’avessero notata.
Padre Cliamon lo osservò attentamente, notando il cambiamento d’espressione sul suo volto angelico, nel momento in cui realizzò di poter entrare dentro la cella del carnefice del suo amico.
Folker girò la chiave, schiavando la serratura, e aprendo la cella, facendo prendere un colpo al prigioniero, il quale si riscosse improvvisamente all’udire tal rumore.
Ambrose alzò il volto su di lui come in trance, non riuscendo a realizzare pienamente cosa stesse accadendo e perchè.
Il figura del fanciullo biondo si avvicinava sempre di più a lui, che invece era ancora accovacciato con la schiena ancorata al muro.
Folker emise un sorriso tanto maligno da far tremare il Diavolo stesso.
- Dovresti trovarti a tuo agio in questo posto. Puzza quanto te. Ed è ripugnante neanche la metà di quanto lo sei tu.
La sua voce ... fece provare un brivido di freddo alla schiena del monaco in ascolto.
- Folker ... – lo richiamò con voce supplicante il prigioniero, questa volta avvicinandosi a lui, gattonando per terra. – Non volevo farlo.. lo sai che non volevo farlo..
- Taci.
Dopo di che, in un attimo, Folker gli sferrò un violentissimo schiaffo che gli fece voltare la testa dall’altra parte, e lo fece anche piombare a terra con tutto il corpo.
Le catene stridularono a contatto con il pavimento.
- Folker, per favore ... – lo supplicò Ambrose strisciando sulla schiena per allontanarsi inutilmente da lui, poco prima che un tremendo e dolorosissimo calcio non gli ruppe la mandibola.
Il fanciullo biondo gli spinse la suola del proprio scarpone pesante sul viso, con indicibile violenza.
Spinse forte, facendo leva sul ginocchio piegato, digrignando i denti.
Padre Cliamon non credeva potesse arrivare a tanto.
Voleva solamente udire cosa i due si sarebbero detti, non avrebbe mai creduto che quel ragazzo si sarebbe spinto a tanto.
Non seppe se fosse il caso di intervenire per evitare che lo uccidesse in quel modo, immerso nel suo stesso piscio.
Qualcosa nel suo corpo lo fece rimanere immobile lì dov’era, continuando ad osservare tutta l’incontenibile e gloriosa violenza che fuoriusciva dagli occhi e dal corpo di Folker.
Le mani tremanti e incatenate di Ambrose, costretto orribilmente a terra con la testa immersa nei suoi fluidi corporei, nella disperazione, si alzarono e toccarono a tentoni la gamba tesa di Folker, quella stessa gamba che gli stava provocando un dolore lancinante.
Incapace di urlare nè di parlare, con la bocca spirante e dolorosamente aperta dalla suola dello scarpone, strinse il polpaccio del suo carnefice, tentando di spostarlo via.
A ciò, Folker sorrise velenoso, spostò il piede scostandosi di dosso anche le mani dell’altro ragazzo, e iniziò a riempirlo di calci e pugni, come una belva inviperita e infuriata.
Lo colpì con una violenza inaudita, con una furia e una cattiveria che padre Cliamon non credeva potessero esistere al mondo.
Se il suo Creatore aveva davvero cacciato dal Regno dei cieli il suo Angelo più bello e più amato, esiliandolo nella parte più profonda della terra, doveva averlo fatto solo e solamente perchè Egli gli aveva mostrato quello sguardo che ora plagiava il viso di Folker.
L’odio vampillava fuori dai suoi occhi mentre lo colpiva e lo colpiva ancora ripetutamente con forza, mentre ogni nervo e muscolo del suo corpo era teso.
Padre Cliamon era esterrefatto e stregato al contempo.
Sarebbe voluto correre via da lì a gambe levate ma non ci riusciva.
Ambrose, da parte sua, era in uno stato quasi semicosciente a causa di tutti quei colpi.
Folker non gli lasciava tregua, mai, e anche quando, in un ultimo guizzo di energia rimastagli, l’altro ragazzo scattò verso di lui e gli afferrò un polso con la mano, Folker lo fece ripiombare giù senza neanche lasciargli il tempo di fare o dire nulla.
La sua non era vendetta.
Era un insano piacere provocato dalla violenza.
Quando Folker ritenne che fosse abbastanza, e smise di pestarlo più per riprendere fiato che per evitare di ucciderlo, uscì dalla cella, la richiuse dietro di sè intascandosi la chiave, e si diresse verso l’uscita delle segrete.
Padre Cliamon uscì qualche minuto dopo di lui e cominciò a seguirlo senza farsi vedere.
Il fanciullo camminò per una buona mezz’ora, per raggiungere la sua meta.
Il monaco sgranò gli occhi sorpreso quando si rese conto che Folker stesse entrando nella Taverna.
Quel mistero si stava infittendo sempre di più e lui era più che mai deciso a scoprire cosa quei ragazzi nascondessero.
Una pessima sensazione sottopelle lo mise in guardia sul fatto che, ciò che avrebbe potuto scoprire, forse sarebbe stato peggio di avere dei mostri succhiasangue all’interno del villaggio.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 33
*** Portami con te, Lucifero ***


Portami con te, Lucifero
 
 
Dopo aver controllato denti e pelle anche di Heloisa, il monaco si rialzò in piedi, guardandosi intorno per la casa, mentre un altro monaco si accingeva a controllare anche Ioan.
- Avete due figli, se non erro.
- Sì, esatto, padre.
- E dov’è quell’altro? Dobbiamo controllare anche lui per accertarci non sia una strige.
- Al momento sta facendo un bagno – rispose Rolland, al posto di Heloisa. L’uomo guardava la scena con sguardo scocciato e le braccia conserte. A padre Craig ricordò moltissimo Blake in quella posa. – Se volete, potete andare comunque a controllarlo, per lui non ci dovrebbero esser problemi. Ma non siete voi quelli estremamente rispettosi del pudore altrui?
- Rolland! – lo rimproverò Heloisa a causa del suo linguaggio.
- Che c’è? Questa questione delle strigi è sin troppo assurda! In quanto padre di famiglia dovrei potermi opporre a quest’obbligo insensato che dei monaci controllino pelle e denti di ogni membro della mia famiglia, e dei miei figli soprattutto.
- Se non avete nulla da nascondere, perchè vi dovrebbe crear problemi, ordunque? – gli domandò uno dei monaci, avvicinandoglisi quasi con aria di sfida.
- Passaremo più tardi a controllare anche il vostro primogenito – convenne l’altro monaco, avendo appena terminato di controllare anche Ioan. – Nessuno di voi tre sembra essere una strige. Tuttavia, è bene comunque che vi proteggiate da quelle creature. Tenete – disse loro porgendo a Heloisa due boccette piene di un liquido bluastro.
- Che cos’è?
- Abbiamo contattato il medico e lui ha creato questo composto per tutti i bambini e i ragazzi di Bliaint, nonchè le prede favorite delle strigi. Datelo ai vostri due figli e saranno al sicuro.
Rolland fece un evidente sforzo per non scoppiare a ridere, per poi accompagnarli frettolosamente alla porta. - Bene, bene, grazie di cuore, ma ora è il momento che ve ne andiate, abbiamo molto da fare.
- Grazie! – li ringraziò sinceramente Heloisa, da dietro la schiena di suo marito.
Rolland chiuse la porta non appena i tre monaci furono fuori di casa sua, tirando un sospiro infastidito. - Assurdo ... tutta questa situazione è totalmente assurda. Padre Craig!
Sentendosi richiamato, il giovane prete si voltò verso Rolland. – Sì?
- Avete da fare?
- No, mi stavo solo appuntando alcune impressioni.
- Bene, allora andate a dire a Blake di farsi trovare pronto per il pomeriggio, all’arrivo di quei monaci che devono controllarlo.
- Tuttavia, vostro figlio sta facendo un bagno ora..
- Oh avanti! Vedere un ragazzo nudo non vi cambierà la vita!
A ciò, padre Craig preferì obbedire a Rolland senza fiatare ulteriormente, nervoso com’era.
Si diresse verso la stanza dedicata alle pulizie del corpo, e bussò.
- Blake..? Posso entrare un secondo?
Non udì alcuna risposta, perciò attese due minuti, poi si decise ad entrare lo stesso.
- Sto entrando – lo avvertì, ma Blake sembrò non accorgersene ugualmente.
Quella stanza era piena di vapori dal buon odore, e rispetto al resto della casa, ma soprattutto al gelido clima esterno, sembrava un’altra dimensione: vi era un caldo umido, permeato dall’acqua accuratamente scaldata, i vetri degli specchi appannati, e un buonissimo profumo di sapone e schiuma.
Padre Craig aveva realmente compreso tutta la dedizione che gli abitanti di Bliaint mettevano nella cura e nella pulizia della persona solamente quando era entrato per la prima volta in quella stanza e ne aveva usufruito, il giorno dopo il suo arrivo lì. Ne era uscito a dir poco estasiato.
La vasca si stagliava al centro della stanza, come sempre, piena d’acqua fino all’orlo e altrettanto piena di schiuma, grazie ai sali e ai saponi che il ragazzo ci aveva messo dentro.
Conoscendo Blake, padre Craig si immaginò che l’acqua della vasca fosse a dir poco bollente, considerando quanto al ragazzo piacesse bere infusi caldi quanto una colata lavica.
 Quando il giovane prete riuscì a farsi spazio nella stanza, procedendo attraverso i vapori che gli annebbiavano la vista, e mettendo a fuoco la figura slanciata di Blake immersa nella vasca, sperò con ogni fibra del suo corpo che quella schiuma non si sciogliesse mai.
La testa del ragazzo era eretta fuori dall’acqua, con i capelli legati disordinatamente e ancora asciutti, e gli occhi vivaci concentrati a leggere qualcosa; le braccia gocciolanti erano piegate, con i gomiti puntati ai bordi di legno della vasca, in quanto le mani erano impegnate a reggere gli stralci di carta da cui evidentemente stava leggendo. L’acqua gli arrivava appena sotto il petto, nonostante si riuscisse ad intravedere attraverso il pelo dell’acqua l’intero busto atletico, asciutto e ben definito, anche più di quanto si aspettasse.
Padre Craig era cosciente che Blake avesse un corpo molto tonico, in quanto, con un po’ di immaginazione, si riusciva a scorgere anche attraverso i vestiti quasi sempre larghi che indossava. D’altronde, sarebbe stato strano il contrario, considerando che era sia uno scavatore che un lavoratore di metalli.
Fortunatamente, la schiuma lo copriva dalla vita in giù, nascondendo tutto ciò che si trovava sotto il ventre.
Era talmente alto che a malapena ci entrava in quella vasca, tanto che una delle due gambe usciva dalla superficie schiumosa e dal bordo, piegata con il polpaccio e il piede penzolante e gocciolante, che stava creando un piccolo laghetto d’acqua sotto di sè.
A padre Craig si formò un groppo in gola che gli impedì di parlare.
Era doloroso guardarlo.
Restò fermo sul ciglio della porta come una statua di sale.
In quel momento e solo in quel momento, sembrò rendersi conto che il corpo maschile fosse bello e perfetto quanto quello femminile. Certo, le donne sono morbide, dolci, attraggono con irresistibile fascino: i capelli, i seni, i fianchi, le gambe, le mani delicate, i ventri fertili, rifugi caldi per ospitare nuove vite. Le donne si muovono con perfetto equilibrio, in quanto creature dall’ineccepibile completezza e bellezza.
Tuttavia, guardando il ragazzo davanti a sè, si rese conto che l’espressione della bellezza maschile è altrettanto forte e inafferrabile. Questa non appare soltanto sul volto, ma è anche nelle membra, nei suoi fianchi, nei suoi polsi, nel suo passo, nel modo di inclinare e muovere il collo, nel flettere il busto, la vita e le ginocchia. I vestiti non lo nascondono, non potrebbero mai, poichè tale poetica sacralità erompe da sotto il cotone, la lana e qualsiasi altro materiale che tenta inutilmente di coprirlo, di annebbiarlo, senza successo.  Gli ritornò in mente la sua schiena fasciata dai vestiti, la sua nuca, le spalle, la testa piegata, il collo curvo, e si rese conto che, infondo, lo aveva sempre saputo, ma non voleva ammetterlo.
La bellezza maschile lo attirava quanto quella femminile.
Fu un tuffo nel vuoto.
- Beh? – esordì il ragazzo, risvegliandolo violentemente dalle sue elucubrazioni, accorgendosi della sua presenza e inclinando lievemente la testa per sporgersi a guardarlo oltre i fogli. – Cos’è quella faccia? Lo so, qui dentro è un putiferio, ma sistemerò tutto quando avrò finito.
Impiegando un po’ per ritrovare l’uso della parola, padre Craig si sforzò di rispondergli. – Non volevo disturbarvi.
- Nessun disturbo.
- Sono qui solo per dirvi che poco fa sono venuti i monaci per controllare la vostra famiglia, e accertarsi che non foste strigi. Voi stavate facendo il bagno, perciò ... Sarebbe stato meglio se non aveste fatto il bagno.
A ciò, Blake sorrise divertito, continuando a leggere distratto, appoggiando la testa al palmo della mano. - Per caso, le strigi sono schifate dal sudore? Perchè se così fosse, abbiamo risolto il problema. Ci basterebbe non lavarci più e saremmo tutti salvi. Ed io che pensavo che la pelle salata sarebbe stata gradita per le loro papille gustative, e avrebbe reso le nostre carni più saporite. Che sciocco!
Il suo sarcasmo lasciava intendere quanto quella storia gli sembrasse assurda, così come lo sembrava a gran parte dei servi del Diavolo.
- Non intendevo dire questo ... Intendevo dire che-
- Lo so cosa intendevate dire.
- Capisco che la storia delle strigi possa sembrarvi solo un pretesto per mettere zizzania e per acuire le discriminazioni tra i due culti ...
- Lo è.
- Tuttavia, alcune persone sono davvero preoccupate a riguardo. Vivono nel terrore da giorni. Sarebbe bene rispettarle.
- Non vivrebbero nel terrore da giorni se avessero anche solo un po’ di sale in zucca.
Padre Craig sospirò semi esaseperato, dovendo ammettere che quella situazione sembrasse ridicola e assurda anche a lui. Denti appuntiti e intollerabilità alla luce del sole? Davvero..?
- Dov’è finito oggi, Quaglia? – domandò al ragazzo cambiando discorso, quasi stesse cercando un pretesto per rimanere lì dentro.
Quei sali profumati gli stavano dando alla testa.
- Se ne sta tutto il giorno rinchiuso nella sua stanza a disegnare. Lo sapete che oramai ha la fissa per i ritratti, no? Sta chiedendo a qualsiasi persona gli passi per la testa di posare per lui per ritrarlo, e quando non riesce ad ottenere quello che vuole prova a ritrarre basandosi sui suoi ricordi.
Padre Craig fece un piccolo ghigno divertito. – Dunque non perdo neanche tempo a domandarvi se ha ritratto anche voi.
A ciò, Blake, con uno sguardo più rude che mai, spostò i fogli da davanti al viso, per fissare dritto negli occhi padre Craig. – Non fa altro che lamentarsi perchè non sto mai fermo e non riesce a disegnare adeguatamente se non sto fermo.
- Cosa vi costa accontentarlo? Anche io ho posato per lui. Anche Ioan, e credo anche Heloisa. D’altronde, dovete restare a casa, no? Non avete molto altro da fa-
- Questa prigionia forzata finirà presto, difatti.
- Quella di interrompermi sta diventando un’abitudine?
- Potrebbe diventarlo se continuate a parlare a spoposito.
- Io? Parlare a ...? – padre Craig sospirò di nuovo, arrendendosi, come sempre Blake lo portava a fare. Quel ragazzo era sfinente. – Credete che... disegnare volti stia aiutando Quaglia a ricordare?
- Non ne ho idea. Lo spero. Da quando abbiamo smesso di fare le sedute di evocazione con Ephram lo vedo più assorto e silenzioso. Forse qualcosa sta venendo a galla.
Padre Craig annuì. Ad un tratto, i due vennero interrotti dalla porta che si spalancò, mostrando la figura del piccolo Ioan che entrò dentro.
- A quanto pare questo bagno sta diventando uno spettacolo pubblico – commentò Blake.
- La mamma dice che devo fare un bagno anche io – disse il fanciullino con un sorriso a trentadue dentini.
- Dì alla mamma che potrai farlo quando avrò finito io.
- D’accordo! – Ioan si rivolatilizzò, richiudendosi la porta dietro di sè.
Blake sospirò e abbandonò la testa all’indietro, mettendo in bella mostra il collo nudo.
Solo in quel momento padre Craig si accorse che il ragazzo non indossasse più la fasciatura. – Dov’è finita la vostra fasciatura?
- L’ho tolta per fare il bagno.
- La vostra ferita ... sembra stare molto meglio. La cicatrice è molto meno visibile rispetto a prima – si meravigliò. – Ci avete applicato qualcosa in particolare? Come avete fatto?
A ciò, il ragazzo fece vagare distrattamente le dita affusolate sul proprio collo cicatrizzato, rialzando la testa. - Suppongo ... che la natura abbia fatto il suo corso – si limitò a rispondere, non convincendo pienamente padre Craig.
Il giovane prete, senza volerlo, fece vagare gli occhi sulla sua pelle. Una pelle abituata ad assumere una bella tonalità caramellata quando era baciata dalla luce del sole, e che si schiariva lievemente quando i raggi non lo lambivano, specialmente ora che risentiva delle innumerevoli ore di sonno perse, e che il ragazzo non aveva mai recuperato.
Blake non aveva più parlato delle sue allucinazioni e dei suoi sogni dal giorno della fucina, e padre Craig non glielo aveva più chiesto, nonostante passassero molto più tempo insieme, ora che il ragazzo era costretto a restare in casa e a venire controllato a turno.
Era certo che, quelle poche volte che si concedeva di dormire, i suoi incubi non lo avessero ancora abbandonato.
Tuttavia, a parte ciò, sembrava stare meglio, lo stavano tenendo lontano dai metalli, dalla madragora, dalla galleria, dalla magia, e da tutto ciò che potesse fargli rischiare la vita come era accaduto quella sera.
Eppure, padre Craig non potè fare a meno di chiedersi per quanto le loro catene lo avrebbero tenuto a bada e protetto.
Era certo che Blake non volesse farli preoccupare, per questo fingeva che andasse tutto bene, e se ne autoconvinceva anche da solo.
Che cosa avrebbe dato, il giovane prete, per riuscire a credergli davvero, per fare in modo che fosse realmente così. Vederlo in pace era una delle cose che desiderava di più al mondo.
Fu proprio osservando distrattamente la sua pelle, che notò anche qualcos’altro, che si dannò di non aver notato prima: alcuni ematomi e lividi mai guariti facevano capolino sulle sue spalle, sulle clavicole, sulle braccia e sul petto. Considerando il colore non più intenso, ma ancora ben visibile, immaginò che se li dovesse esser fatti diverse settimane prima.
- Blake?
- Cosa c’è?
- Come ve li siete procurati quei lividi?
A ciò il ragazzo osservò vagamente le proprie braccia. – La maggior parte sicuramente durante la tortura e l’esecuzione a Carbrey. Forse alcuni li avevo prima, ma non ricordo precisamente – detto ciò, il ragazzo tornò a guardarlo, facendolo paralizzare, non seppe neanche lui il perchè.
- Avete altro da dirmi, padre? – la sua voce gli parve improvvisamente carezzevole.
- No.
- Allora cosa fate lì impalato?
- Heloisa sta aspettando che voi usciate di qui per permettere a vostro fratello di farsi il bagno – se la scampò così, facendo sbuffare il ragazzo in maniera più melodrammatica che mai.
- D’accordo, d’accordo, esco. Per una volta che ero intenzionato a rilassarmi qui almeno per un’ora o due..
- Non avete delle faccende da sbrigare, oggi?
- Ho già fatto tutto quello che potevo fare già ieri: ho fatto il bucato di tutti al fiume, sono andato a comprare da mangiare, ho buttato i rifiuti e sono andato a ritirare i vestiti nuovi dalla sarta. Cos’altro volete farmi fare?
Padre Craig sorrise di sottecchi, divertito.
- Ridete, ridete pure – disse, facendo poi qualcosa che fece scattare padre Craig come una molla, facendolo voltare immediatamente dall’altra parte, dandogli la schiena.
Il ragazzo si era appena alzato in piedi in tutta la sua statuarietà, e si stava accingendo ad uscire dalla vasca, proprio come il giovane prete gli aveva richiesto.
- Sapete, padre.. dovreste uscire per conto vostro oggi. Insomma, non me ne vogliate, amo la vostra costante e asfissiante compagnia – disse con un velo di dolce sarcasmo nella voce il ragazzo, mentre si copriva le zone intime con un panno bianco legato intorno ai fianchi. – Tuttavia, sono giorni che rimanete con me per controllarmi. Avete annullato ogni altro impegno. Dovreste uscire almeno oggi. Io starò bene da solo con Ioan. Magari.. potreste andare anche a far visita a Judith. Immagino non la vediate dalla notte della fucina, pur di restare con me.
A tali parole, padre Craig sgranò gli occhi per la sorpresa, rimanendo con le iridi fisse sulla porta dinnanzi a sè, mentre avvertiva i rumori che emetteva il ragazzo e riconosceva i suoi movimenti, dal fruscìo del panno sulla pelle bagnata, ai passi dei piedi sul pavimento. – Già... non la vedo da giorni. Neanche voi l’avete più vista – azzardò.
Passò un secondo di silenzio di troppo, prima che Blake si decidesse a rispondergli. – Difatti.
- Se.. oggi pomeriggio dovessi passare a salutarla.. volete che le dica qualcosa da parte vostra?
Di nuovo, trascorsero dei secondi di troppo. – No.
Quella risposta lasciava presagire tutto il contrario, e padre Craig, per la prima volta, avvertì un sentimento che fu in grado di fargli contorcere le viscere per il senso di colpa.
Per quale motivo, sotto sotto, era felice che Blake e Judith non si stessero più vedendo?
Per quale motivo non li voleva vicini..?
Eppure, tra i due non vi era mai stato nulla, a parte una splendida e affiatata amicizia.
- Padre – lo richiamò Blake.
A ciò, il giovane prete dovette raccogliere tutte le sue forze e il suo coraggio per voltarsi a guardarlo.
Blake era ancora in piedi accanto alla vasca, seminudo.
- Avete intenzione di tornare ad Armelle, ora che si è diffuso l’allarme per tutti gli stranieri di non mettere più piede a Bliaint a causa della storia delle strigi? – gli domandò a bruciapelo, senza dargli il tempo di metabolizzare quella domanda.
Andarsene via di lì...?
Da quando aveva iniziato a sembrargli il sacrilegio più tremendo del mondo andarsene via da Bliaint?
Da quando aveva ancorato le sue radici lì in maniera tanto morbosa?
Che cosa gli era accaduto?
Non seppe per quale motivo si avvicinò a lui, camminando nella sua direzione, come guidato da un forza sconosciuta. Quando vi furono solo due passi a dividerli, padre Craig lo guardò negli occhi.
- Non fatemi più una domanda del genere.
 Io resterò qui.
E se dovessi morire qui, così sia.
 
Heloisa si dispose in maniera più comoda nel letto, coprendosi leggermente il fianco con un lenzuolo.
- Toglietelo – le disse l’uomo seminudo nel giaciglio con lei, intento a ritrarla con un carboncino.
A ciò, la donna sorrise di sottecchi, e si tolse il lenzuolo dalle cosce, rimanendo totalmente nulla.
- Questo ritratto lo terrete per voi, vero? – gli sussurrò restando a guardarlo a sua volta, scorgendo le sue folte sopracciglia concentrate, i suoi occhi chiari fissi sulla carta, e poi di nuovo su di lei.
Si sentiva bene. In pace.
Quaglia non le rispose e continuò a disegnare.
A ciò, Heloisa posò lo sguardo sui vari fogli di altri ritratti che l’uomo si era dilettato a fare, sparsi sul letto.
Posò le dita su uno dei primi fogli che le capitarono tra le mani.
Sorrise nel riconoscere i tratti dolci e infantili ricalcati perfettamente sulla carta, del piccolo Ioan.
- Disegnare vi aiuta a rilassarvi?
- Sì.
- Vi aiuta anche a ricordare?
A quella domanda, Quaglia smise di disegnare e la guardò negli occhi. Poi riprese subito.
- Siete sempre stato piuttosto silenzioso. Mi piacerebbe scoprire se siete sempre stato silenzioso, o se prima, quando eravate un altro uomo, pienamente in possesso dei vostri ricordi e della vostra identità, foste diverso - disse vagamente Heloisa, prendendo un altro foglio in mano e osservando il bellissimo viso della ragazza che vi era ritratta sopra: una rigogliosa chioma di capelli rossi, occhi neri come la notte.
- Non so se Blake sarebbe contento di vedere questo. Lei non ha mai posato per voi, eppure sembrate ricordare ogni dettaglio del suo volto. Dovete averla osservata molto – gli disse, senza alcun tono di accusa, ma lasciando presagire ampiamente il significato di quelle parole. – Vi siete invaghito di lei?
A ciò, Quaglia accennò un sorriso casuale mentre continuava a disegnare. – Di cosa avrebbe da essere geloso vostro figlio? Lui e Judith sono promessi. Non potrei infilarmi in mezzo a loro neanche se lo volessi. Inoltre, mi avete guardato bene, mia signora? Non potrei mai e poi mai, neanche lontanamente, reggere il confronto con Blake.
A ciò, Heloisa affilò lo sguardo. – Dunque, credete di riuscire a reggere il confronto con mio marito, invece..? - gli domandò facendolo immobilizzare.
- Assolutamente no. Non volevo dire questo..
- Siete qui da troppo poco tempo per comprenderlo, Quaglia: noi donne di Bliaint non guardiamo mai la bellezza esteriore. Per noi è ininfluente. Le serve del Creatore non lo fanno perchè non possono permetterselo, mentre noi serve del Diavolo non lo facciamo perchè è cosa comune, scontata, banale tra noi. Ce l’abbiamo tutti, non è rara, tutt’altro. Per questo dovreste preoccuparvi di altro, non del vostro aspetto, quando vi approcciate ad una donna di Bliaint – spiegò serafica. – Ma anche se non parliamo di bellezza, bensì di tutt’altro, non sarete mai comunque lontanamente al livello di Blake – concluse, facendolo sorridere divertito.
- Lo so bene – rispose lui, facendo poi calare un placido silenzio, che ruppe poco dopo. – Non avete paura che torni qualcuno di loro e ci scopra?
- No. Mio marito resterà tutto il giorno fuori, chissà dove, come al solito. Probabilmente starà lamentandosi con i suoi amici per questa storia delle strigi.
Blake e Ioan sono usciti insieme. Mentre padre Craig è anch’egli fuori casa.
Mi fido di Ioan, per quanto riguarda il tenere sott’occhio Blake, non temete.
Inoltre, sono giorni che non passiamo insieme un momento così io e voi, dato che siete sempre rimasto accanto a Blake, senza lasciarlo mai.
- Lo avete fatto anche voi. Vi sembra così strano?
- Ma io sono sua madre, sono autorizzata a farlo. Ioan è suo fratello, mentre padre Craig... è semplicemente padre Craig, come è sempre stato. Quell’uomo non smetterebbe di vegliare su di lui neanche se lo si costringesse a farlo. Voi, invece, che scusa avete?
Quaglia si fermò per un attimo, guardando nel vuoto mentre rifletteva. – Blake ... è semplicemente la prima persona che ho visto quando ho riaperto gli occhi e non ricordavo più neanche che esistesse un mondo. Insieme ad Ephram. È stato lui a dirmi le prime parole che ho udito, dopo aver perso la memoria, dopo aver perso tutta la mia vita. Lui mi ha portato qui, lui mi ha insegnato tutto. Non è solo perchè gli devo tutto ... io e lui abbiamo un legame.
- Certo, lo capisco – rispose Heloisa sfogliando altri fogli sparsi sulle lenzuola, arrivando ad una figura che riconobbe vagamente, ma che la lasciò stranita: il disegno era palesemente non finito. Mostrava un ragazzo seduto, con una gamba distesa e un’altra piegata, i palmi poggiati sul nulla, il volto rivolto a tre quarti verso l’ignoto, i capelli mossi da un’aria inesistente. Era come se galleggiasse.
- E questo? Questo sarebbe ...?
- Blake, esatto – confermò Quaglia. – È solo uno schizzo come vedete, non ho rifinito alcun dettaglio. Lui non resta mai un attimo fermo quando provo a ritrarlo.
- Ma lo ricordate bene. Potreste provare a finirlo anche senza averlo davanti.
- Voglio ritrarlo per bene – le rispose continuando a disegnare, rifinendo con infinita e maniacale precisione la sensualissima curva delle cosce della bellissima donna dinnanzi a sè.
- Mi sorprende – disse l’uomo ad un tratto.
- Cosa?
- Judith sembra piacervi. Eppure, visto il vostro atteggiamento nei confronti di Blake, credevo che l’avreste odiata, così come avreste odiato ogni fanciulla che avesse provato ad avvicinarglisi, considerandola non alla sua altezza – le disse senza filtri.
Heloisa vi pensò su. – Non potrei odiarla. Non potrei mai odiarla.
- Perchè?
Per quello che ha vissuto da bambina.
Per non averla salvata quando potevo farlo.
Quelle parole le rimasero incastrare in gola come veleno.
Improvvisamente, le ritornò in mente l’immagine di quella bambina con gli occhi enormi e i capelli rossi in ordine, il vestitino elegante, troppo elegante e cupo per un fanciullina come lei; quella scintilla di luce nelle sue iridi che si stava gradualmente affievolendo, di giorno in giorno, nel vivere nelle stesse quattro mura di quel mostro  che non riusciva a fare a meno di tormentare i bambini, e rovinare la loro crescita.
Quel mostro che lei aveva perdonato. Come una sciocca.
Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma non uscì nulla dalla sua bocca.
- Heloisa? State bene?
- Ditemi, Quaglia ... come ci si sente... a non avere più ricordi di nulla?
- A dir la verità ora li ho dei ricordi. Me li sono ricreati.
- Intendo della vostra infanzia, del vostro vissuto di prima. Vi sentite più leggero, ora?
- Come potrei sentirmi leggero ... se non conosco quali demoni mi tormentavano prima?
- Talvolta.. vi invidio. Vi invidio perchè anche io vorrei poter dimenticare molte cose.
Vorrei potermi sentire più libera ... più leggera. Dalle mie paure, dai miei turbamenti, dai miei doveri.
Mi rendo conto che suona terribile sentirlo ma... talvolta vorrei potermi dimenticare di tutto e di tutti.
Quaglia la osservò e sgranò gli occhi.
- Io vorrei poter ricordare, mentre voi vorreste dimenticare. Ironico, non credete?
Heloisa sorrise amara.
- Sapete, il matrimonio tra me e Rolland è stato combinato, come quello di molti abitanti di Bliaint.
Tuttavia, nonostante tutto, iniziammo a piacerci sempre più quando cominciammo a frequentarci.
Certo, vi era sempre un po’ di imbarazzo tra noi, contando che eravamo praticamente due sconosciuti.
Tuttavia, iniziammo sempre più ad essere a nostro agio l’una con l’altro.
La prima volta che lo vidi capii che lui mi attirava e attraeva parecchio.
Lui aveva solo diciotto anni ma emanava un’energia talmente supponente e smisurata, che mi travolse in pieno.
E poi era uno scavatore, un forgiatore di metalli, conosceva tante cose e tanti mondi che a me erano estranei.
Portava sulle spalle il peso della galleria e sapeva amministrarlo con grande abilità.
E poi era gentile. Era attento a me, e sapeva essere dolce a modo suo.
Ricordo ancora la nostra prima notte insieme.
Forse è stata quella la notte in cui abbiamo concepito Blake, ma non ne sono sicura.
Credo sia stata la notte migliore della mia giovinezza. La più focosa, la più appassionata ed estrema.
Stravedevo per lui.
Ed ora... ora guardateci. Sono qui, nuda nel letto che condivido con lui, con voi, dopo aver consumato un veloce rapporto, mentre voi mi ritraete.
Vi furono altri attimi di silenzio tra loro.
Non era necessario dirsi nulla in quel momento.
L’unico rumore era quello del carboncino che segnava la carta irreversibilmente.
Fu in quell’istante che gli occhi della donna si posarono su un altro strano ritratto.
- Che cos’è? – gli domandò prendendo il foglio tra le mani.
Sopra vi era disegnato un fantoccio con membra estremamente reali, ma al contempo dalle sembianze grottesche, per certi versi spaventose.
Un pupazzo umano.
“L’anima divisa a metà.
Ricorda, figliolo, non replicare i loro stessi errori.
L’anima non può dividersi a metà.
L’anima è una sola.
Non hai bisogno di separarti dal tuo lato più nero.
Fa parte di te. Tutto fa parte di te.
L’omuncolo non esiste.
Non è mai esistito”
Quaglia cacciò via quel ricordo che gli piombò alla mente come un fulmine, continuando imperterrito a disegnare.
Non esiste continuò a ripetersi dentro di sè. L’omuncolo non esiste.
 
 
I due fratelli corsero a perdifiato e urlarono a squarciagola.
Considerando che Ioan fosse più piccolo di Blake, e avesse quindi le gambe molto meno lunghe, non sarebbe stato leale giocare ad una gara di corsa, perciò avevano risolto così: correvano insieme, e chi dei due riusciva ad urlare più forte mentre correva, vinceva.
Giocando a quel gioco avrebbero finito per perdere la voce, ma andava bene così.
Era una vita che Blake desiderava potersi permettere di fare giochi del genere con suo fratello, attività normali.
Purtroppo, il suo fratellino, normale non lo era mai stato, o per lo meno non lo era il suo stato di salute.
Per questo Blake si era battuto con tutte le proprie forze per trovare un rimedio, per salvarlo, per poter finalmente fare con lui cose come quella.
Era iniziato tutto da lì.
Era una vita che non passavano un momento simile tra loro, impregnato dalla spensieratezza e dalla leggerezza.
Era sin troppo che Blake non poteva più permettersi quella spensieratezza, quella gioia pura e infantile che solo suo fratello riusciva a donargli.
La paura di perdere l’uso della voce da un momento all’altro era svanita in quell’istante, non aveva importanza.
L’unica cosa importante ora era urlare più forte che poteva, per buttare fuori tutto quello che aveva dentro, e per battere Ioan.
L’unico luogo in cui avrebbero potuto fare una follia simile, era l’immensissimo terreno vuoto che si estendeva sopra la galleria.
Era abbastanza isolato da non disturbare nessuno con i loro urli, e da poter correre anche per chilometri senza incontrare ostacoli se lo avessero voluto.
Era il loro luogo, quello, da sempre. Un piccolo angolo di nulla che presto sarebbe stato di loro proprietà.
Sia Blake che Ioan erano perfettamente coscienti che al maggiore fosse proibito ritornare alla galleria, a causa di ciò che era accaduto la notte della fucina, e al tragico episodio di Bonnie che aveva profondamente turbato il ragazzo, generandogli costanti incubi e visioni.
Tuttavia, erano abbastanza lontani dall’entrata della galleria da non doversene preoccupare.
In quel momento, nulla e nessuno avrebbe potuto turbare Blake, o almeno lo speravano.
I due urlarono fino a che non percepirono le loro gola andare in fiamme, e il timbro della voce cominciare ad arrochirsi, divenendo gracchiato.
Ioan tossì e si accasciò un attimo, riprendendo fiato.
A ciò, anche Blake si fermò e gli si riavvicinò. – Ehi, tutto bene? – il suo era stato solo un sussurro arrochito, incapace di fare di meglio.
Ioan sorrise, smettendo di tossire. – La tua voce sembra quella di una rana.
- Per tua informazione anche la tua, saputello.
Ioan sorrise ancora e si schiarì la voce, emettendo una piccola smorfia. – Ok, mi arrendo, hai vinto tu. Non credo che potrei urlare ancora neanche se lo volessi – disse il fanciullino.
A ciò, Blake sorrise dolce e iniziò a camminare placidamente, seguito da Ioan.
Piccoli raggi di sole pomeridiano parzialmente schermato dalle nuvole iniziarono ad illuminarli.
- L’aria si sta scaldando. Si sta avvicinando la stagione calda – disse il ragazzino sorridendo e coprendosi gli occhi chiari dai raggi.
Blake si lasciò cadere sul terreno, puntò i palmi sulla terra e rivolse il viso verso il sole, stringendo gli occhi per il fastidio provocatogli dalla luce.
Ioan si sedette accanto a lui, a gambe incrociate.
- Abbiamo corso così tanto che sto iniziando ad avere fame – disse il più grande.
- Possiamo sempre andare alla locanda qui vicino.
- Certo, più tardi.
- Even?
A quel richiamo, Blake distolse gli occhi dal sole e li posò su suo fratello. – Sì?
- Ti volevo ... ringraziare, per ciò che hai fatto per me – gli disse il bambino mantenendo gli occhi bassi, giocherellando distrattamente col suo miracoloso ciondolo. – Se non fosse stato per te e per questa collana che hai realizzato per me, ora la mia vita sarebbe relegata sul letto della mia camera, come è sempre stata. O peggio... probabilmente non sarei più qui.
- Non dirlo neanche.
- Non è da tutti – continuò, stavolta alzando le iridi azzurrissime sul suo viso. – Non è da tutti i fratelli ... fare una cosa simile. Sei riuscito nell’impossibile. Tutti i medici e i monaci del villaggio che mi hanno visto hanno detto che era un male incurabile il mio. Dicevano che sarei morto presto... prima di raggiungere la tua età.
- Quei ciarlatani non capivano nulla.
Ioan sorrise divertito. – Blake.. non puoi parlare così male dei nostri monaci.
- Invece posso – rispose Blake con finta arroganza. – Non sempre i grandi ne sanno più di noi, Ioan. Devi mettertelo bene in testa, perchè non è quasi mai così. Noi saremo sempre un passo avanti a loro, perchè noi siamo il progresso. Così funziona il mondo. E non devi ringraziarmi per ciò che ho fatto. Non avrei potuto fare altrimenti: sei mio fratello. Ma voglio che tu sappia che non ti voglio bene solo perchè condividiamo lo stesso sangue. Ti voglio bene per ciò che sei tu. Sei la persona più importante della mia vita, Christopher. Farei davvero di tutto per evitare di perderti.
- Anche tu lo sei per me ...
A ciò, Blake asciugò le piccole lacrime che si erano formate ai lati degli occhi del bambino, e gli scompigliò i capelli.
- Ma, Even, ora io sto bene. Ma tu non stai bene. Lo vedo. Vorrei poter fare anche io qualcosa per te come tu hai fatto con me. Sono sempre stato incapace di fare tutto a causa del mio malanno. Ora vorrei provare a esserti utile in qualche modo. Cosa posso fare? Dimmelo, ti prego. Io vorrei poter stare con te sempre così. Sereni, senza preoccupazioni. Perciò dimmi cosa posso fare per guarirti.
- Io non devo essere guarito, Ioan – lo tranquillizzò il ragazzo con un sorriso rassicurante.
- Lo devi essere nell’animo.
- Christopher, tu mi guarisci anche solo con questi piccoli momenti che posso permettermi solo con te. Mi guarisci standomi accanto quando ne ho bisogno. Non necessito di nient’altro, te lo garantisco – concluse.
Ma non appena terminò la frase, le sue iridi blu vennero attirate da una presenza che scorse da lontano.
Aguzzò la vista e spalancò gli occhi, nel notare che la presenza si stesse avvicinando.
Era la donna che aveva incontrato il giorno della morte di Bonnie alla galleria.
La stessa che aveva profetizzato contro di lui.
Il ragazzo si rialzò in piedi, avvertendo il proprio corpo intorpidito e paralizzato.
- Blake? Blake, che ti succede?
La voce di suo fratello gli arrivò ovattata alle orecchie, come inconsistente.
Era evidente che lui non vedeva la stessa cosa. Non vedeva la donna che si stava avvicinando a loro.
Improvvisamente, questa si inginocchiò ai suoi piedi, iniziando a pregare:
- Lucifero, Portatore di  luce, sono qui dinnanzi a te per invocare il tuo aiuto.
Lucifero, mostrami qual è la via da seguire.
Apri la terra in due e conducimi a te
Svelami il destino che hai in serbo per me
Lucifero, cos’è che merito?
Io sono un corpo opaco, senza valore, e tu sei il sole.
Portami con te, Lucifero.
Portami con te e mostrami lo splendore che sei in grado di emanare perchè io non appartengo più a questo mondo – gli disse strisciando a terra e baciandogli i piedi.
La preghiera proibita.
Quella donna stava pronunciando l’unica preghiera proibita dei servitori del Diavolo.
Una preghiera che un servitore non avrebbe mai dovuto rivolgere, se non in casi di estrema e ingente necessità, se si fosse trattato di vita o di morte.
Ed era questo che profetizzavano i monaci: se un servo del Diavolo avesse osato pronunciarla, sarebbe potuto morire seduta stante, se il Diavolo lo avesse desiderato davvero.
Era un rischio enorme, soprattutto perchè il nome del Diavolo non andava mai, mai pronunciato.
Era una conoscenza che possedevano solo i servi del Diavolo, e nessun altro. I servi del Creatore ovviamente non sapevano nulla a riguardo.
- Non sono io ... non sono Lui ... che state facendo? – sibilò Blake sconcertato, indietreggiando. Ma la donna continuava a strisciare verso di lui e a pregarlo nella preghiera proibita.
Improvvisamente, dal terreno iniziarono a spuntare fuori dei germogli, germogli rosso sangue.
I germogli si allungarono sempre più e si intrecciarono sempre più.
E di nuovo, di nuovo si udì l’urlo mortifero della mandragora mentre i germogli gli si intrecciavano alle caviglie.
Gli mancò il fiato ma resistette.
- Blake?? Blake, che ti succede?? Con chi stai parlando?! Rispondimi!
Suo fratello lo scuoteva ma lui non lo udiva.
Poi Ioan, sull’orlo della disperazione, gli diede uno schiaffo per rubarlo dalle grinfie di quei demoni interni.
Fortunatamente, il colpo ottenne l’effetto sperato e Blake sembrò come risvegliarsi e tornare alla realtà.
Il suo respiro era affannosso e il viso una statua inanimata.
Ioan lo abbracciò forte. – Che sta succedendo...? Ti prego, dimmelo.
Blake si prese del tempo per calmarsi, per rilassarsi, prendere un bel respiro e riconcentrarsi su suo fratello, prendendo a carezzargli la schiena.
- Va tutto bene, Christopher.
Con le mani tremanti lo prese delicatamente per le spalle e lo distanziò da sè. – Casa nostra è vicina. Ti dispiace tornare a casa da solo? C’è una cosa che devo fare. Prometto che tornerò a casa subito.
- Ma... ma Even, non dovrei lasciarti da solo..
- Fidati di me. Ti prometto che non accadrà nulla – gli disse sforzandosi di sorridergli.
A ciò, il ragazzino annuì e lo vide allontanarsi, scomparire tra la lieve nebbia.
 
 
Erano mesi, forse addirittura più di un anno che non si recava nella cattedrale del proprio culto. Per pregare.
Lui? Pregare? Gli veniva da ridere amaramente solo al pensiero.
Tuttavia, la sua situazione era talmente confusa e precaria, da averlo spinto a recarsi lì, per fare ciò in cui aveva smesso di credere tanto tempo fa.
Sapeva che persino avere pensieri blasfemi era considerato un grave peccato, se commesso dentro la casa del Signore. Un peccato punibile con il rogo.
Ma nessuno poteva controllare i suoi pensieri, nè avrebbe potuto controllare le sue parole.
Aveva detto a Ioan di tornare a casa senza di lui per recarsi lì, da solo, dopo aver avuto l’ennesima visione.
Quei giorni di reclusione lo avevano portato a credere che potesse avere un po’ di tregua da quelle allucinazioni e quegli incubi. Invece, dopo quasi una settimana di reclusione e di apparente normalità, aveva rimesso piede nel terreno della galleria ed erano tornate.
Come niente fosse.
Era colpa del mercurio?
Il medico lo aveva visitato e gli aveva detto che vi era la probabilità che fosse colpa del mercurio che aveva respirato.
Per quanto fossero inaffidabili i monaci e i medici di Bliaint, Blake non escludeva l’ipotesi che potesse essere davvero così.
Ma ora... ora aveva avuto una visione in cui la donna che lo aveva maledetto senza scrupoli gli aveva rivolto la preghiera proibita con una naturalezza spaventosa, rivolgendosi a lui come fosse il Diavolo in persona.
Per questo ora si trovava lì.
Per tentare qualcosa che non aveva mai tentato.
Si sedette in prima fila, su una delle navate, proprio dinnanzi all’enorme altare del crocefisso al contrario.
La testa del Figlio del Creatore lo guardava dal basso, orribilmente capovolta e sofferente.
Era completamente solo, in tutta la cattedrale, tanto da riuscire a percepire il suo stesso respiro rimbombare.
Era arrivato il momento anche per lui di tentare la preghiera proibita.
Quella che avrebbe potuto condurlo direttamente ai piedi del suo Signore, secondo le credenze del villaggio.
Guardò con indifferenza quell’altare, così come il volto di Gesù capovolto.
- Non cambierà niente, Lucifero.
Continuerò a non credere nella tua esistenza, nonostante tutto – ci tenne a specificarlo a se stesso, poco prima di iniziare:
- Lucifero, Portatore di  luce, sono qui dinnanzi a te per invocare il tuo aiuto – esordì, chiedendosi a cosa diamine sarebbe servita una cosa del genere, ma imponendosi di continuare. - Lucifero, mostrami qual è la via da seguire.
Apri la terra in due e conducimi a te
Svelami il destino che hai in serbo per me
Lucifero, cos’è che merito?
Io sono un corpo opaco, senza valore, e tu sei il sole.
Portami con te, Lucifero
Portami con te e mostrami lo splendore che sei in grado di emanare perchè io non appartengo più a questo mondo...
Dei passi lo riscossero, facendogli riaprire gli occhi immediatamente.
Chiunque vi fosse dietro di lui, avrebbe sicuramente avuto una reazione esagerata al sentir pronunciare quella preghiera proibita... qualunque persona, tranne ... un qualsiasi servo del Creatore.
Hinedia si avvicinò a lui, sorridendogli con un sorriso troppo colmo di troppe cose che non era in grado di sopportare al momento.
La ragazza si sedette accanto a lui, posando lo sguardo sul crocefisso al contrario.
- La preghiera che stavate pronunciando ... era davvero meravigliosa. Voi servi del Diavolo avete delle preghiere maestose.
Blake non rispose.
- Ricordate la prima volta che ci vedemmo? È stato in circostanze simili a questa, ma opposte: eravamo nella cattedrale del Creatore, io stavo pregando davanti all’altare, mentre voi camminavate dietro le colonne, restando nascosto da sguardi inopportuni. I nostri occhi si sono incrociati per caso. Quando abbiamo parlato la prima volta, voi vi siete seduto accanto a me, sempre nella mia cattedrale.
- Lo ricordo – confermò il ragazzo.
- Ora, invece, siete voi a pregare nella vostra cattedrale. E io sono qui, seduta accanto a voi, estranea a questo luogo – si voltò verso di lui. – Questi giorni mi sono chiesta più volte dove foste finito. Ho temuto vi fosse accaduto qualcosa. Ho pensato di bussare alla porta di casa vostra per sapere se andasse tutto bene, ma l’ho ritenuto inopportuno.
- Ho creduto che foste rimasta sconvolta dalle mie parole dell’ultima volta. Riguardo la mia cinica considerazione dell’amore materno – le confessò lui. – Non l’avrei trovato strano. Non avevo parlato di ciò a nessuno prima di quel momento, e voi mi avete guardato come se avessi pronunciato una qualche sorta di incantesimo eretico mentre ne parlavo.
A ciò, Hinedia si voltò di nuovo a guardarlo, mortificata. – Avete davvero pensato una cosa simile...? Che io non volessi più continuare le nostre letture perchè... spaventata dalle vostre parole?? Vi prego... vi supplico, non formulate più pensieri simili. Ne morirei.
Il ragazzo si voltò a guardarla a sua volta, lievemente sorpreso per una tale accoratezza.
- Come vi ho già detto ... l’unico motivo per cui non mi sono recata da voi, è perchè sarei stata indiscreta. Senza un vostro invito, un aggiornamento o una qualsiasi informazione da parte vostra, non sapevo se voleste o no far continuare le nostre letture.
- Mi piacciono le nostre letture. Ammetto di averne sentito un po’ la mancanza in questi giorni – le disse lui, dandole quella piccola certezza che le mancava al momento, e che servì a scaldarle il cuore.
- Come mai siete qui? – le domandò poi lui, sorprendendola.
- Lo troverete strano, forse ... Judith mi ha chiesto di venire a prendere un libro che si trova nella biblioteca della vostra cattedrale, quando ne avessi avuto il tempo.
- Judith? Ma la chiave l’abbiamo solo io e lei. Come mai ha chiesto a voi di farlo?
- Anche io gliel’ho domandato, e lei mi ha risposto in un modo che mi ha fatto riflettere... mi ha detto che di questa biblioteca ve ne siete sempre occupato voi, è come se fosse la vostra oramai, Blake. Proprio come quella dell’altra cattedrale oramai Judith la considera sua.
L’ha sempre visitata e consultata in vostra compagnia. Le sarebbe sembrato quasi di ... tradirvi, nel consultarla senza di voi.
Blake rimase sorpreso da quella rivelazione.
- Blake ... è successo qualcosa tra voi e Judith? Ultimamente, grazie allo spettacolo, sto passando molto tempo con la vostra promessa, e lei ha imparato a confidarsi con me; eppure non mi ha detto nulla riguardo ciò che è accaduto con voi. La vedo molto turbata, perciò ho subito pensato che potesse avere a che fare con voi.
Il ragazzo continuò a guardare l’altare, sorridendo tristemente. – Non è accaduto nulla. Non che io sappia.
Hinedia si permise di osservarlo, mentre rifletteva se dirgli o no quello che stava per dirgli. – Sapete, Naren, il ragazzo che sto frequentando ... mi ha chiesto di sposarlo. Siamo ufficialmente promessi.
A ciò, Blake si voltò a guardarla sorridendole sinceramente. – Ma è meraviglioso, Hinedia. Sono felice per voi.
- Vi ringrazio.
- Naren avete detto? Per caso è il figlio del mastro vetraio?
- Lo avete conosciuto?
- Una volta. Lo ricordo vagamente.
- Stiamo iniziando ad accordarci per la data delle nozze. Voi avete già iniziato a pensare ad una data con Judith?
- Ancora no.
A ciò, Hinedia abbassò lo sguardo, senza alcun motivo in particolare.
Quel silenzio surreale tra loro la stava facendo tremare da capo a piedi.
Più che tremare, si rese conto di star fremendo, fremendo per dirgli tante di quelle cose che non avrebbe potuto o dovuto dirgli.
- Sapete... – iniziò. – Ultimamente, come vi ho detto, mi sono legata a Judith. Per tale motivo ho temuto più volte che... se avesse scoperto delle nostre letture... mi avrebbe chiesto di smettere di vedervi, di starvi lontano.
Blake la guardò confuso. – Hinedia, non avrebbe motivo di chiedervelo, nè tanto meno di irritarsi per una cosa simile. Noi non-
- Noi non stiamo facendo nulla di male, lo so, lo so – lo interruppe lei, terminando la frase per lui. – Tuttavia, lei avrebbe tutto il diritto di chiedermelo, se lo volesse. D’altronde, voi presto sarete il suo consorte e lei la vostra. Non avrebbe bisogno di un motivo valido per chiedermi di starvi lontano, se lo desiderasse. So che Judith non lo farebbe mai, oramai ho imparato a conoscerla. Tuttavia ... mi sono comunque chiesta che cosa farei ... come agirei, se Judith mi proibisse di vedervi. Probabilmente rovinerei la splendida amicizia che ho creato con lei se mi rifiutassi di farlo. La ferirei e me la inimicherei. Ciò mi provocherebbe un dolore terribile. Eppure... – la ragazza fece una breve pausa, per trovare il coraggio di continuare. – Eppure, non lo farei, non lo farei nemmeno se me lo chiedesse lei. Rischierei di rovinare l’amicizia tra me e Judith pur di continuare ad ascoltarvi leggere per me. Perchè ho realizzato che il dolore di non vedervi più.. sarebbe ancora più grande.
Improvvisamente si sentì svuotata di quel peso sulle spalle, infinitamente più leggera dopo averglielo confessato.
Sapeva che egli avrebbe compreso, che non si sarebbe adirato con lei per quella spavalda ammissione.
Tuttavia, non ebbe la forza di guardare l’espressione sul suo volto in seguito a ciò, motivo per cui rimase con gli occhi fissi sull’altare dinnanzi a loro, mentre lui la guardava, rimasto senza parole.
- Non so cosa dire ... non credevo che le nostre letture rappresentassero così tanto per voi.
- Beh ... ora lo sapete – disse la fanciulla sorridendo amaramente.
- Vi vedo cambiata.
Quella frase fu in grado di ridestarla ancora, e di farle alzare gli occhi su di lui. – Davvero?
- Sì. Da quando state aiutando Judith con lo spettacolo vi noto cambiata. Siete più spavalda, più sicura di voi, più certa di ciò che volete. Sembrate avere meno paura, ed essere più serena.
Hinedia si illuminò nell’udire tali parole. – Anche io mi sento cambiata in meglio, ora che ci penso. Io invece sto notando qualcosa di opposto in voi. È come ... se qualcosa di oscuro vi turbi. Ho l’impressione che ci sia qualcosa di più grande di voi e di me che vi tiene orribilmente incatenato, non lasciandovi sfuggire. C’è qualcosa che non va, Blake. Lo vedo dai vostri occhi – disse, vedendolo alzare le iridi su di lei, un gesto che la destabilizzò, in quanto trovò al loro interno troppe verità celate, ingestibili, travolgenti, tremende nella loro bellezza.
- Avete degli occhi molto espressivi, Hinedia, sapete?
Ella rimase attonita a tali parole. – Blake... vi prego, ditemi se posso aiutarvi in qualche modo.
- Non potete. Vorrei potervi dare una risposta concisa, certa, ma non la ho. Sono giunto qui oggi per trovare delle risposte.
- Difatti non avrei mai creduto di trovarvi qui, a pregare, tra tutti i posti. Solitamente voi non venite mai qui a pregare.
- Ho voluto fare un inutile tentativo. Forse perchè sono arrivato ad un punto di non ritorno. Ma non è servito a nulla.
- Sapete... Judith una volta mi ha detto che io e voi siamo come due facce della stessa medaglia: io vorrei credere e avere fede in tutto, e servirei entrambi i signori se solo potessi; mentre voi non credete in nulla.
- Judith vi ha detto questo...?
- Non temete, non mi ha lasciato turbata venire a scoprirlo.
- Non vi ha lasciato turbata venire a sapere qualcosa per cui potrei essere punito con il rogo seduta stante?
- Per quale motivo dovreste venire punito per questo? Per quale motivo dovreste venire punito per il vostro pensiero riguardo gli dèi o riguardo l’amore? Io ... credo solo che parlarne a qualcuno potrebbe farvi bene. Qualcuno che potrebbe aiutarvi spiritualmente, come uno dei monaci. Avete saputo la novità? I monaci del Creatore hanno deciso di iniziare a confessare anche i servi del Diavolo, essendo voi rimasti senza monaci del vostro culto. Personalmente, credo sia una decisione splendida, che aiuterà molti servitori del Diavolo. Non trovo giusto che noi abbiamo delle guide, dei supporti, mentre voi no. Potreste provare a farvi confessare da un monaco del Creatore, loro sono a vostra disposizione. Potrebbe essere la risposta alle vostre domande.
- Farmi confessare da uno di loro ...? Per dirgli cosa? Che Allister Chiam era solo un’idiota, un ciarlatano con manie di protagonismo? Che non credo nè in Dio nè in Lucifero?? Che probabilmente non ho mai creduto in nessuno dei due presunti dèi che dovrebbero avere il potere sovrannaturale di decidere delle nostre sorti? Di miracolarci o di condannarci? Che non credo in alcun entità superiore ultraterrena? Che, fosse per me, me ne andrei di qui e rinnegherei tutte le credenze con cui sono cresciuto?
Hinedia, scioccata ai limiti del possibile, non riuscì a sopportare il peso di quelle affermazioni, non sarebbe riuscita ad ascoltare neanche una parola in più, perciò agì d’impulso e gli tappò la bocca con una mano.
- Vi prego... vi scongiuro, non dite mai più una cosa simile qua dentro. Qualcuno potrebbe udirvi e finireste bruciato vivo su quel soppalco in un attimo – lo supplicò sussurrando, non riuscendo a trattenere le lacrime, che le rigarono le guance scure come due piccoli torrenti.
Ritirò immediatamente via la mano dalla sua bocca, pentita di averlo toccato ma mai di averlo fatto tacere, provando innumerevoli brividi lungo la schiena e un senso di vertigini.
Lui la guardò con un’espressione indefinibile.
Dopo poco, si rialzò in piedi e le diede le spalle, procedendo verso l’uscita della cattedrale.
- Dove state andando? – gli domandò lei fermandolo con la sua voce.
- A casa. Se volete continuare le nostre letture, incontriamoci alla locanda sopra la galleria, all’alba.
- Mi troverete lì.
- Inoltre ... quando rivedrete Judith, ditele da parte mia che, qualsiasi cosa io abbia fatto, le chiedo scusa.
Detto ciò, riprese a camminare e uscì dalla cattedrale.
 
“Non avete fatto nulla di male.
Non avete fatto nulla di sbagliato.
Forse starete pensando di aver fatto qualcosa che mi abbia portata ad allontanarmi da voi, ma non è così.
La colpa è mia e della paura che mi nutre.
Non stiamo bene, nessuno di noi due sta bene.
Vorrei essere un colonna portante per voi, un terreno saldo su cui camminare e su cui stabilire radici, non immaginate neanche quanto vorrei esserlo, ma non lo sono. Non in questo momento.
Non lo sono perchè ne ho bisogno anche io.
Ho paura di scaricarvi addosso le mie ansie e le mie paure, a voi ne avete già abbastanza a cui pensare.
Quando vi ho trovato là sotto, con quegli occhi e quel volto... io mi sono sentita morire.
Sono stata forte per voi in quel momento, ma ora temo per voi, infinitamente.
Non voglio in nessun modo gravarvi addosso, è l’ultima cosa che desidero.
Quando sarò pronta per essere la vostra forza, l’ancora di salvezza di cui avrete bisogno, verrò a farvi visita.
Nel frattempo, aspettatemi, Blake. Non perdete la fede e la fiducia in me e in ciò che abbiamo, ve ne prego.
Sto indagando me stessa. Ciò che sento e ciò che provo.
Ho convenuto qualcosa che mi terrorizza e mi rende immensamente felice al contempo: voi siete la mia unica certezza al momento.
Credete in qualcosa. Credete in me.
Questa è l’unica cosa che vi chiedo, in mia attesa.
Attendo con ansia una vostra risposta.
 
                                                                                                 Con amore, Judith”
 
Padre Craig rilesse la lettera più volte, riprovando sempre lo stesso, identico sentimento: rabbia, gelosia.
Per quanto ci riprovasse, non riusciva a controllare il proprio cuore.
Non riusciva a farne a meno.
Aveva incontrato la ragazza quel pomeriggio stesso, per chiederle come stesse e trascorrere del tempo con lei.
Ma ella era turbata, era pensierosa, con la mente perennemente altrove.
Alla fine del pomeriggio, lei gli aveva lasciato quella lettera, facendogli promettere che l’avrebbe consegnata a Blake.
Quelle parole avrebbero sicuramente rassicurato il ragazzo, che si stava chiedendo cosa potesse aver allontanato la fanciulla da sè, tanto da spingerla a non volerlo vedere.
Nonostante Blake non l’avesse mai esplicitato a causa del suo orgoglio, padre Craig sapeva che ci aveva pensato e che ella gli mancasse almeno quanto lui mancasse a lei.
Dal canto suo, Judith si fidava di lui, teneva molto al fatto che Blake leggesse quella lettera, e gliel’aveva affidata proprio perchè era certa che lui gliel’avrebbe consegnata.
Invece si sbagliava.
Judith non aveva idea dell’uragano che si agitava dentro il giovane prete, e non ce l’aveva neanche Blake.
La gelosia... la paura... erano troppo invadenti.
Accese la fiaccola e diede fuoco alla lettera senza pensarci due volte.
Che cosa gli stava succedendo...?
Se lo ridomandò di nuovo, con insistenza, nel corso della medesima giornata.
Aveva bisogno di sfogarsi, di lasciar fuoriuscire finalmente tutti gli istinti e le voglie fisiche che lo stavano tormentando da settimane.
Quelle, sommate al tormento dei suoi sentimenti, alla miriade di domande che lo angustiavano, al senso di colpa ... lo stavano facendo uscire fuori di testa.
In cerca di risposte, sempre tornando al pensiero di quella notte maledetta in cui tutto aveva avuto inizio, decise di recarsi dall’unica persona che sarebbe stata in grado di fornirgli delle risposte.
L’unica certezza che aveva riguardo quella notte, era che il suo corpo e quello di Beitris si fossero scambiati.
Erano settimane che non vedeva la ragazza, che non aveva modo di parlarci.
I monaci avrebbero dovuto permettergli di entrare nelle segrete, dato che anch’egli era un uomo di Dio, seppur straniero.
E infatti così fu. I monaci di guardia gli lasciarono la chiave della cella della ragazza, e lo lasciarono entrare.
Entrò nelle segrete con la fiaccola in mano e tutte le membra frementi.
Cercò la cella della giovane strega tra tutte.
Quando la trovò, si spaventò nel trovarla così estremamente magra.
Beitris era quasi uno scheletro, stesa su quel pavimento freddo e umido, incatenata, con gli occhi aperti e di quel colore tanto ammaliante e luminoso, che si stagliavano nel buio come diamanti, contrastando con i lunghi capelli neri.
Lo guardò di traverso, senza rivolgergli alcuna espressione, nè sorpresa, nè fastidio, nè confusione.
Padre Craig si chiese quant’è che non mangiasse o bevesse.
Avrebbe dovuto portarsi qualcosa per sfamarla e si dannò per non averci pensato prima.
- Non dovreste essere sorpreso – gli disse lei come prima cosa, con quella voce arrochita dal disuso. – Di trovarmi ridotta in questo stato. Cosa vi aspettavate?
Già, cosa si aspettava?
Il giovane prete se lo chiese, mentre stringeva la fiaccola tra le dita.
Senza attendere ulteriormente, aprì la cella ed entrò, richiudendosi la porta dietro di sè.
A ciò, la ragazza trovò la forza di mettersi seduta.
Lo guardò negli occhi senza timore, mettendolo in soggezione, persino in quello stato.
- Non abbiate quella reazione, padre. Se siete venuto qui, è per dirmi qualcosa.
- Sapete già quando sarà la data della vostra condanna?
- Siete venuto sin qui per domandarmi questo ...?
- Trovo tremendamente ingiusto e immotivatamente crudele lasciarvi marcire e soffrire qui dentro per così tanto tempo, prima di porre fine alle vostre sofferenze.
- “Immotivatamente ingiusto” – ripetè lei scimmiottando la sua voce. – Cosa ne sapete voi della crudeltà, padre?
Padre Craig rimase in silenzio, sedendosi a terra, incurante dello sporco e del cattivo odore.
- Sapete, vi racconto un fatto elettrizzante – riprese lei. – Il fatto più elettrizzante che è accaduto qui sotto da quando mi hanno sbattuta qui: qualche giorno fa, sono venuti nelle segrete un monaco e un ragazzo servo del Diavolo. Non sono riuscita a vedere chiaramente i volti perchè era semibuio, li ho scorti solo di sfuggita. Ma ricordo che il ragazzo avesse i capelli chiarissimi. Hanno visitato la cella del ragazzo servo del Creatore che hanno sbattuto dentro, quel mascalzone che ha picchiato a sangue un suo coetaneo e sparso la voce delle strigi. Poi il monaco li ha lasciati soli. E... indovinate? Il ragazzo biondo ha picchiato a sangue il servo del Creatore, con una furia che non avevo mai visto. Lo ha quasi ucciso. Infatti non credo si sia ancora ripreso. Lo vedete? È lì – gli disse indicandogli una cella poco più avanti della sua, frontale.- Geme e si lamenta ancora. Nel sonno scommetto che sogna ancora la suola dello stivale del biondino che gli si stampa sulla faccia.
Padre Craig rimase sconvolto da quel racconto. Poi si voltò di nuovo verso di lei e restò a guardarla.
- Avanti, ditelo – gli disse Beitris.
- Che cosa?
- Quello che state pensando. Che, nonostante le mie condizioni, sono rimasta bellissima.
Padre Craig ammutolì, vedendola e sentendola ridere.
- Oh, padre, siete un libro aperto, sapete? Per questo avete sempre suscitato il mio interesse: non riuscite a nascondere niente. Che cosa siete venuto a dirmi?
- Sono venuto a parlarvi di quella notte. Per chiedervi delle informazioni.
- Sapete bene che ne so quanto voi.
- Ma voi eravate nel mio corpo e io nel vostro.
- Dunque? Questo non aggiunge nulla alle informazioni che conosciamo già. Non siete qui per questo.
Siete frustrato, lo sento fin da qui. Non parlo con un essere umano da giorni, sono immersa costantemente in un silenzio assordante macchiato solamente di lamenti, perciò potrei restare ad ascoltarvi per ore parlare del nulla. Di cosa si tratta? O farei meglio a chiedervi ... di chi si tratta?
- Di Blake.
- Chissà perchè me lo aspettavo.
- E ... di Judith.
Beitris restò a guardarlo, studiandolo, passando da uno sguardo scrutatore ad uno sorpreso, e poi soddisfatto, furbo e provocatorio insieme.
- Oh... ora mi è tutto chiaro.
Non ne ero sicura prima.
Pensavo si trattasse solo di una devozione incontrollata, di un sentimento ingenuo e puro come quello di un bambino.
Invece... non c’è niente di puro o casto in quello che provate per lui.
Voi lo amate e lo volete. Non è vero?
Non è solo irrefrenabile attrazione fisica, non è ammirazione eccessiva.
Lo amate.
E amate anche lei.
È un bel guaio, non credete...?
Loro non lo sanno, non è così? E non devono scoprirlo, suppongo.
Eppure... è così evidente.
Padre Craig non si rese conto di aver stretto i pugni fino a farsi sanguinare i palmi.
- Beh, vi svelo una cosa, mia caro padre ... – gli sussurrò lei con una voce tanto bassa da fargli ribollire il sangue, avvicinando il volto al suo orecchio, su cui sibilò delle parole che lo fecero impietrire. – Non sarò bella quanto Blake, non sarò bella quanto Judith... tuttavia, posso darvi comunque qualcosa che potrebbe servire a farvi rilassare e ad alleviare le vostre pene d’amore... per questo folle amore non ricambiato.
L’uomo le bloccò il polso che gli stava accarezzando i capelli, afferrandoglielo fermamente e guardandola trucemente. – Perchè dovreste fare una cosa simile ...? Perchè una come voi dovrebbe piegarsi a fare qualcosa del genere...? Con me? Perchè mi state tentando?
- Perchè non avete mai toccato un corpo in questo modo.
Perchè lo volete.
Perchè lo volete da tanto e lo sento, lo riesco a sentire così concretamente da farmi male.
Perchè avete bisogno di provare a sentire come ci si sente.
Perchè vi sentirete più libero e rilassato, dopo – la ragazza gli prese una mano e se la poggiò su uno dei propri seni.
Era così magra da far accamponare la pelle nel toccarla, ma, nonostante tutto, padre Craig riuscì a provare un brivido di foga e di eccitazione a quel gesto.
Una scossa, una scarica di adrenalina anormale lo colpì in pieno e colpì anche lei, inspiegabilmente.
- Io non posso...
A ciò, Beitris gli sussurrò all’orecchio l’unica cosa che riuscì definitivamente a convincerlo a cedere alle sue irresistibili provocazioni:
- Immaginate che ci sia uno di loro due al mio posto. Immaginate che lo stiate facendo con loro.
A ciò, un moto di eccitazione sessuale senza freni si accese nel giovane prete, facendolo vergognare ampiamente del suo stesso corpo.
Ma oramai nulla importava più.
- Non mi avete ancora risposto ... – ansimò lui cedendo finalmente alla carne, stringendola a sè. - Perchè una come voi dovrebbe fare qualcosa del genere con me?
A ciò, la ragazza gli passò la lingua tra le dita, senza mai perdere il contatto visivo con lui. – Perchè, sin da piccola, non ho trascorso mai, neanche un momento, senza il sesso. Fa parte di me. Ed è troppo tempo che ne sono privata.
Inoltre ... non l’ho mai fatto con un uomo di Dio.
Detto ciò, i due si baciarono famelicamente, consumando l’atto, possedendosi come bestie, nel sudiciume della cella.
Quella notte fu la prima notte in cui padre Craig ebbe dei ricordi vividi e reali di cosa fosse accaduto la notte dei festeggiamenti, mentre toccava Beitris.
Il tatto ricorda tutto.
La toccava e ricordava, ricordava sempre più. E con lui, ricordava anche Beitris.
Fu quella notte che padre Craig si rese conto di aver perso la sua verginità e la sua purezza già quella notte dannata.
L’aveve persa con Beitris. Nonchè con se stesso.
Sia lui che Beitris, ognuno nel corpo dell’altro, avevano consumato un atto carnale bestiale, violento ed estremo, con se stessi.
Per questo ricordavano solo toccandosi in quel modo, per questo riprovavano le stesse inconfondibili sensazioni solo possedendo e venendo posseduta.
Ma quella notte padre Craig non riuscì a pensare a quanto fosse raccapricciante tale scoperta, mentre toccava e baciava Beitris sfogando tutto il tumulto di emozioni che teneva imbrigliate dentro da troppo tempo.
E no, non immaginava di star toccando qualcun altro, perchè sarebbe stato troppo da sopportare per il suo cuore sofferente, per la sua anima a pezzi.  
L’unico pensiero che attanagliò la mente del giovane prete quella notte fu che, ben presto, avrebbe bruciato tra le fiamme dell’Inferno eternamente, e se lo sarebbe meritato.
 
 

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Capitolo 34
*** Confessione d'amore ***


Confessione d’amore
 
- Bene. La lezione di oggi è finita, bambini. Potete tornare a casa, ci rivedremo domani per ripassare tutte le scene – disse Hinedia sorridendo, vedendo Judith accanto a lei fare lo stesso.
- Siete stati bravissimi oggi. Vedrete che andrà sempre meglio. Oramai ognuno di voi è entrato perfettamente nella parte – aggiunse Judith.
Ogni bambino uscì dalla cattedrale, e anche la stessa Judith si dileguò, per sbrigare uno dei suoi importanti impegni con i monaci.
In quella sala rimansero solo Hinedia e Ioan che, per qualche motivo, ancora non se ne era andato.
Il bambino la osservò con i suoi enormi occhioni chiari, il visetto angelico allargato in un sorriso.
- Ioan? Come mai sei ancora qui? – gli domandò dolcemente la ragazza.
- Blake mi ha detto di darvi una cosa. Mi accompagnereste a casa? Così potrò darvela – disse innocentemente il bambino.
- Oh.. ve l’ha detto Blake?
Ioan annuì con convinzione.
Presa dalla curiosità, Hinedia acconsentì immediatamente a riaccompagnarlo a casa.
E quello non fu l’unico motivo per cui fu lieta di averlo fatto, in quanto era notte fonda, e si sentiva più sicura ad accompagnare il bambino fino alla porta di casa, piuttosto che lasciarlo andare da solo; specialmente con le voci che giravano ultimamente riguardo le strigi.
Chissà cosa sarebbe potuto accadergli.
I due camminarono nel buio, le strade del villaggio erano deserte, e nemmeno la luna e le stelle illuminavano il loro cammino.
Fortunatamente, Ioan ricordava la strada di casa sua anche ad occhi chiusi.
Non appena giunsero alla porta dell’abitazione Rolland, Ioan aprì la porta e Hinedia entrò guardandosi intorno.
- Con permesso... – disse rispettosamente, avendo paura di essere sgradita ai familiari di Blake e Ioan.
- Non preoccupatevi, non c’è nessuno in casa, a parte me, voi e Quaglia.
Quaglia? La ragazza aveva già sentito parlare di lui, sì.
Difatti, lo straniero era seduto dinnanzi al tavolino, intento a disegnare qualcosa.
Sembravano ritratti.
Hinedia gli si avvicinò, mentre Ioan era già corso a prendere la misteriosa cosa che Blake gli aveva detto di darle in sua assenza.
Quaglia alzò il volto su di lei, spalancando gli occhi per la sorpresa. – Oh, buon Dio, non mi aspettavo che Ioan portasse qualcuno a casa a quest’ora. Voi siete..?
- Hinedia. Geenie Hinedia.
- Quaglia. Lieto di conoscervi, Hinedia.
La ragazza sorrise in risposta, tornando a guardare i disegni.
- Li avete fatti voi?
- Sì. Mi diverto a ritrarre i volti delle persone ultimamente. Persone di ogni genere – disse, guardandola. - Vorreste posare per me anche voi? – le domandò poi.
Hinedia sgranò gli occhi, rimanendo attonita da tal richiesta. – Non vorrei disturbare ... ma magari un’altra volta. Mi farebbe piacere.
L’uomo gli sorrise in risposta.
Aveva un non so che di strano quel tipo.
Hinedia non ne rimase inquietata, ma in qualche modo turbata.
Eppure sembrava così cordiale.
- Dov’è Blake? – gli domandò dopo qualche secondo di silenzio. – Essendo notte fonda pensavo stesse dormendo. Invece Ioan ha detto che ci siamo solo noi tre in casa.
- Chi lo sa.
Potrebbe essere ovunque.
In cielo. In terra. In mare. In mezzo alla fiamme. Ovunque.
Hinedia non fu certa di aver capito bene. Continuò a fissarlo sconvolta, ma egli si atteggiava come se non avesse detto nulla di strano.
Poi, lo sguardo della serva del Creatore venne attirato da un particolare disegno tra il blocco di Quaglia, il quale raffigurava un’immagine davvero disturabante. – Che ... cos’è? – gli domandò, osservando il fantoccio rappresentato, dai tratti grotteschi, metà umano e metà bambola.
- Chi lo sa.
Quel fantoccio potrei essere io, potrebbe essere Ioan, Blake o Judith. O potreste essere voi.
- Siete sempre così criptico, signor Quaglia..?
L’uomo le rivolse un sorriso inquietante, che le fece capire ci fosse qualcosa che non andava.
- Dite a Ioan che ci vediamo domani a lezione. Ora si è fatto tardi.. è meglio che lui vada a letto e io torni a casa. Ditegli che potrà darmi quella cosa un’altra volta, oppure sarà Blake stesso a darmela – si affrettò a dire, volendo fuggire via da quella casa.
Poi, improvvisamente, accadde qualcosa. Proprio mentre Hinedia si stava rinfilando il mantello e stava per varcare la soglia della porta di casa, udì un tonfo terribile provenire da dietro le sue spalle.
Si voltò a guardare per vedere cosa fosse accaduto, e si accorse che il crocefisso al contrario che era appeso alla parete fosse precipitato sul pavimento violentemente, senza alcun motivo, formando una grossa crepa.
Hinedia rimase scioccata, ancora una volta.
- Hinedia? – la richiamò finalmente Ioan, sbucando dal corridoio che conduceva alle camere. – Venite con me. Ciò che voglio darvi è in camera di mio fratello – le disse incoraggiandola e facendole strada.
A ciò, Hinedia decise di seguirlo.

Non seppe cosa la spinse a farlo.
Varcò quel corridoio buio e infinito, trovandolo molto più lungo di quanto si aspettasse.
Avendo camminato per un po’, Ioan la guidò verso una delle stanze, evidentemente la camera di Blake.
La serva del Cratore entrò, chiedendo sempre il permesso, per forza dell’abitudine, nonostante sapesse che lì dentro non vi fosse nessuno.
Hinedia osservò la camera del ragazzo, trovandola pulita e ordinata, senza nulla di strano.
Poi, senza alcun motivo logico, venne attirata dallo specchio che vi era su una delle pareti della camera.
Si avvicinò alla superficie riflettente e si specchiò.
Urlò a squarciagola, cadendo a terra per l’orrore di ciò che aveva visto. Era sempre stata brutta, a dir poco, e si era abituata a ciò, non gli aveva mai dato troppo peso. Tuttavia, la persona, o meglio la cosa, che si trovò davanti, sullo specchio, sicuramente non era lei: un mostro dalle sembianze femminili, che ghignava diabolica e macabra, un sorriso che non le era mai appartenuto; una statura più bassa della propria, un corpo deforme ai limiti dell’umano, i capelli crespi, strappati, talmente radi da farla sembrare calva; uno sguardo che avrebbe fatto impallidire qualunque mascalzone, qualunque sanguinario, il peggior peccatore impenitente. Gli occhi erano due conche talmente scure e prive d’anima, da sembrare vuote.
Era il ritratto del male.
Eppure il male non se lo era mai immaginato così.
Se il male era davvero il Diavolo come le avevano sempre insegnato, se lo immaginava imponente, ineguagliabile, bellissimo.
Forse quello era un altro tipo di male.
Forse era un male peggiore del Diavolo stesso.
Tuttavia, quella era sempre lei.
Malgrado tutto, quel mostro ripugnante e tremendo aveva il suo volto, anche se notevolemente deformato.
- Chi sei... chi sei tu?
- Sono l’homuncolus – rispose il mostro, sorridendole con il volto della pura perfidia, e una voce quantomai roca e terrificante.
- Cosa...? Tu .. tu sei me?
- La versione migliore di te..
- No, no... la peggiore. Sei la peggior versione di me..
- Combatterai? Combatterai per il predominio di questo corpo?
- Che cosa stai dicendo...? – Hinedia era terrorizzata e sconvolta, non riusciva più a ragionare razionalmente.
- Tu stai guardando me, ma anche io ora sto guardando te – disse il mostro. – Tu vedi il male e io vedo la luce. Sembri molto più luminosa ora che io sono fuori da te. Sei immacolata. Ed è tutto merito dell’alchimista straniero.
- L’alchimista straniero..?
- Quello che ti ha fatto un ritratto.
- Non mi ha ancora fatto un ritratto ... chi sei?? Cosa vuoi da me?! – le domandò crollando in ginocchio, fissandola supplicante e sull’orlo delle lacrime.
- Chi è, per te, il Diavolo? – le domandò il mostro con le sue sembianze.
Hinedia non rispose e si lasciò andare alle lacrime.
- Voglio andare via... voglio andare via di qui ... – singhiozzò poi, poco prima che un’altra figura comparisse in quella stanza vuota.
Ioan ormai era svanito da un pezzo.
Comparve la figura di un ragazzo, di spalle.
Hinedia lo riconobbe immediatamente, nonostante il mantello nero che gli copriva interamente la schiena e le gambe, e il cappuccio pesantemente calato sulla sua testa.
- Blake...?
- “ ‘Porrò inimicizia tra te e la donna, tra il tuo seme e il seme di lei’ disse Dio al serpente...” – il mostro recitò quel passo del libro sacro, ponendosi in posizione di preghiera, quel passo che Hinedia conosceva bene.
E mentre il mostro parlava, con voce grave e roca, Hinedia fissò Blake sconvolta.
Sembrava un figura assente, il suo volto era quasi interamente coperto dal cappuccio e appariva come un’entità inumana.
Improvvisamente, un serpente a sonagli comparve nella stanza, ai piedi del ragazzo.
Hinedia si spaventò e indietreggiò, fissando l’animale.
Ma il ragazzo rimase impassibile, nonostante la vicinanza della pericolosa creatura, la quale spalancò le fauci per mordergli una caviglia nuda.
- “ ‘Lei ti schiaccerà la testa... e tu le insidierai il calcagno’ ” – terminò il mostro, disperata.
In quel momento, il ragazzo pestò malamente la testa del serpente, schiacciandola e riducendola in poltiglia sotto il suo tallone.
- NO!! – esclamò il mostro, uscendo improvvisamente dallo specchio e correndo via dalla stanza.
Hinedia, ancora costernata dall’accaduto, non esitò nel seguirla.
Dunque lei e quel mostro erano due persone diverse o erano davvero la stessa anima, ma divisa in due corpi diversi?
La confusione e il terrore la pervasero, mentre tornava all’atrio principale della casa, dove Quaglia era sparito, e al suo posto erano rimasti solo i disegni.
Il mostro era lì, inginocchiata per terra, intenta a pregare preghiere destinate al Diavolo, dinnanzi al crocefisso al contrario piombato a terra.
La lucidità la abbandonò definitivamente: era come guardare se stessa, dall’esterno, pregare un dio che non era il suo.
Ciò le fece provare uno strano malessere misto a senso di colpa, ma la fece sentire anche bene, al contempo.
Come se il suo posto fosse quello, anche quello.
- “Egli ti schiaccerà la testa..
Egli ti schiaccerà la testa..
Egli ti schiaccerà la testa..” – continuò a ripetere il mostro.
- “E tu... gli insidierai il calcagno” – terminò la frase Hinedia.
La ragazza si svegliò di soprassalto nel suo letto, in un bagno di sudore.
Ansimava, era sconvolta, avvilita e agghiacciata.
Mai prima d’ora aveva fatto un sogno del genere.
Di cosa si trattava? Di un segno? Una profezia?
Che cosa stava a simboleggiare??
Una miriade di domande cominciarono a sommergere la sua mente, mentre la voce di sua madre la richiamava amabilmente dall’altra stanza, informandola che la colazione fosse pronta in tavola.
 
Il monaco aprì gli occhi di scatto, venendo invaso da un odore tutto nuovo.
Era assurdo come l’olfatto riuscisse a riconoscere, molto prima degli altri sensi, il momento in cui non si trovasse più nel suo corpo.
Finalmente era giunto il giorno, il tanto agognato giorno della settimana che stava attendendo da più di sette giorni.
Myriam se l’era presa comoda, ma alla fin fine era riuscita a praticare l’incantesimo dello specchio su di lui e su Folker, come promesso.
Il senso di colpa per quel giovane ragazzo, che quella mattina si era ritrovato improvvisamente nel corpo di un monaco del Creatore, senza spiegazione nè logica, non lo toccò neanche.
Si alzò da quel letto di dimensioni modeste ma pulito, e iniziò a toccarsi il viso etereo e privo di imperfezioni, esattamente come lo ricordava visto dall’esterno.
Sorrise, felice, pregustando già nel palato il momento in cui si sarebbe guardato allo specchio e ammirato.
Ma prima che potesse farlo, un rumore riscosse la sua attenzione, come di una superficie in legno bruciata.
Abbassò lo sguardo verso la fonte di quel rumore e di quella puzza, e notò che un messaggio si era appena scolpito automaticamente a fuoco sulla testata del letto: “Il ragazzino ha dato di matto, ritrovandosi nel tuo corpo, come era prevedibile che accadesse. L’ho dovuto prendere e sequestrare. Lo terrò a bada per l’intera giornata e, prima di farlo addormentare questa notte, cancellerò dalla sua mente i suoi ricordi di questo giorno.”
Cliamon sorrise, lieto. Myriam era una donna piena di risorse.
Dopo qualche secondo, il messaggio svanì esattamente come era comparso, e la testata tornò immacolata come era prima.
Si stiracchiò, sentendo le membra giovani e in salute distendersi completamente, il suo corpo possedeva un’elasticità che non aveva mai avuto prima d’ora, neanche da ragazzo.
Quel giovane fanciullo doveva essere flessuoso e sciolto di natura.
Cercò un po’ con lo sguardo, credendo sarebbe stato facile individuare uno specchio in quella stanza.
Ma, con sua grandissima delusione, non lo trovò.
Gli cadde il mondo addosso. Non che avrebbe voluto restare l’intero giorno a specchiarsi, ma probabilmente sì, questa era l’idea, dato che qualsiasi altra cosa avesse fatto avrebbe rischiato di smascherarlo e di combinare guai irreparabili.
Com’era possibile che qualcuno in casa non avesse uno specchio...?
Era inconcepibile per lui.
Quel dettaglio gli fece comprendere quanto poco a quel ragazzino importasse del suo aspetto fisico.
Ingenuo, inconsapevole, incurante, come lo erano tutti i servi del Diavolo nati con quel dono immenso e ingrati per averlo ricevuto.
Ma quel ragazzo, lo era sin troppo.
Si spogliò, prendendosi almeno il giusto tempo per osservare e saggiare con mano la consistenza di quel corpo efebico, flessuoso e affilato, meraviglioso, trovandolo inaspettatamente deturpato: la pelle chiarissima lasciava intravedere anche il più piccolo marchio, e su quella distesa d’avorio emergevano distintamente diversi ematomi, tagli, alcune ferite in via di guarigione, altre più fresche, formando uno spaventoso e ipnotico contrasto di colori.
Provò a sfiorarsene qualcuna, ma emise un verso di dolore nel farlo, ritirando subito la mano indietro.
Facevano un male atroce. Tutte quante.
Improvvisamente, un tumulto di domande cominciò ad affollare la sua mente: che cosa era abituato a vivere quel ragazzo? Cosa gli era accaduto? Qualcuno in famiglia lo picchiava violentemente e abitualmente?
Era l’unica spiegazione plausibile.
Come faceva a vivere serenamente con quei dolori lungo tutto il corpo?
Evidentemente, la forza dell’abitudine aveva vinto, e quel ragazzo era più forte e resistente di quanto si aspettasse.
E anche notevolemente spietato. Padre Cliamon aveva avuto modo di osservarlo con i propri occhi, nel momento in cui lo aveva visto picchiare a sangue e lasciare in fin di vita il povero Ambrose.
Decise di indagare un po’ di più su di lui, sulla questione delle strigi, e sulle motivazioni che lo legavano ad Ambrose.
Dato che si trovava nel corpo di quel bellissimo giovane, che era oltretutto immerso in prima persona in quella faccenda a dir poco misteriosa, avrebbe sfruttato la situazione  a suo vantaggio e avrebbe indagato, con discrezione. Inoltre, aveva anche bisogno di uno specchio. Che, evidentemente, in quella casa non era presente.
- Madre! – esclamò rovistando tra i vestiti di Folker e prendendone un paio senza farvi troppo caso.
- Caro? Sei sveglio? – gli rispose la donna dall’altra parte della casa, avendolo udito.
- Sto uscendo! – la informò vestendosi in fretta e furia, accorgendosi che la maglia che aveva indossato fosse troppo leggera ed estiva, tanto da lasciargli gli avambracci scoperti, mettendo ben in evidenza i tagli e i lividi scuri che gli ricoprivano i polsi candidi e delicati. A ciò, si spogliò di nuovo, cercando una maglia più coprente.
- Dove stai andando? – la voce così vicina della donna, ora giunta sull’uscio della sua camera aperta, lo fece sobbalzare per la sorpresa.
Fortunatamente, si era già infilato l’altra maglia, coprendosi le ferite.
Non sapeva se la donna fosse a conoscenza delle condizioni in cui era il corpo del ragazzo, ma non aveva intenzione di rischiare di scoprirlo.
- Oggi avevi detto che saresti andato a trovare Barclay, per controllare come stesse. Perchè non vai da lui? - gli domandò le donna, con le braccia conserte, osservandolo pensierosa, triste.
Cliamon si domandò se fosse ancora triste per la morte della figlia o per qualcos’altro.
- Difatti è lì che sto andando – le rispose ostentando convinzione e un sorriso che voleva essere rassicurante.
Salutò la donna e uscì di casa, non sapendo dove fosse la dimora  dell’amico di Folker.
Era un tremendo rischio esporsi così, specialmente dinnanzi a quello che doveva essere il migliore amico di Folker. Tuttavia, oramai aveva deciso di farlo, e sarebbe andato sino infondo.
Girovagò un po’ in giro, chiedendo ai passanti se sapessero dove si trovasse la casa di un certo Barclay, nonchè il ragazzo picchiato a morte e accusato di essere una strige, e, fortunatamente, un bambino orfano si offrì di accompagnarlo sino alla casa.
Bussò, attendendo che qualcuno aprisse, cercando di placare la sua agitazione.
Fortunatamente, la porta venne aperta quasi subito, da una fanciulla dalla bellezza a dir poco strabiliante.
Possedeva una fluente e foltissima chioma mogano appuntata in alto, in un’acconciatura improvvisata, ma che le donava un aspetto assai ammaliante; i suoi occhi, affilati e dalla forma tendente al mandorla, avevano al loro interno delle iridi argentee, luminose e ipnotiche; il volto perfettamente triangolare, una piccola e deliziosa rientranza sul mento, un incarnato caldo, roseo tendente al pesca.
Era altissima, molto magra, ma comunque sinuosa nelle forme.
- Folker? – lo richiamò la ragazza. – Non mi aspettavo di vederti qui oggi – gli disse, in tono evidentemente confidenziale, intimo. – Barry sta riposando ora. Ma se gli dico che sei qui, sicuramente si attiverà e sarà felice di vederti.
“Barry” doveva essere il diminutivo di Barclay, e quella doveva essere la sorella del ragazzo, o sicuramente una cugina o la sua promessa, riflettè il monaco, annuendo ed entrando in casa, cercando di comportarsi con naturalezza.
- Come sta? – le domandò, vedendola volarsi di nuovo verso di lui mentre lo conduceva in silenzio nella camera di Barclay.
- Meglio. Si sta pian piano riprendendo, anche se molto lentamente. Le ferite che ha riportato lo hanno lasciato senza forze.
Inoltre, i continui controlli di quei monaci e i loro interrogatori, per scoprire se siamo davvero delle strigi come dicono ... non aiutano.
Tutta questa situazione ci sta consumando – ammise sconsolata.
- I vostri genitori? – le domandò.
- Sono al campo. Oggi siamo solo noi – gli rispose, bussando poi alla porta. – Barry? Ci sono delle visite per te.
- Entrate – si udì una voce maschile provenire dall’interno.
A ciò, Cliamon entrò, mettendo subito a fuoco la figura stesa nel letto.
A quel punto, il monaco non ebbe più dubbio su che rapporto legasse Barclay con la ragazza di poco prima, in quanto i due erano due gocce d’acqua, talmente simili da sembrare gemelli, se non fosse stato per il fatto che ella sembrava notevolmente più grande di lui.
- Ehi, Folker! – esclamò il ragazzo, felice di vederlo.
Il cuore del monaco subì quasi un arresto non appena osservò in che stato versava l’amico del ragazzo padrone del corpo che stava ingiustamente possedendo: il fanciullo era pieno di bende, ne aveva sulle braccia, sul collo scoperto, e persino sul petto, in quanto la casacca che indossava era lievemente aperta sul davanti, tanto da lasciargli metà torace scoperto. Il suo volto era la parte del suo corpo ridotta meglio, in quanto si poteva notare che stesse lentamente guarendo: un occhio nero, in procinto di schiarirsi, diversi lividi rossi e violacei sulle mascelle dal taglio virile e definito, un taglio rosso sul naso, un sopracciglio spaccato, e le labbra leggermente gonfie e più scure del normale.
Il suo volto aveva un impatto visivo più forte e virile di quello della sorella, nonostante fosse plasmato ancora da qualche tratto dolce puramente adolescenziale.
- Cosa fai lì impalato? Vieni, siediti – lo incoraggiò il ragazzo, facendogli posto nel suo letto.
A ciò, non senza un po’ di imbarazzo, sentendo di starsi prendendo delle libertà di troppo, a cui Folker poteva aver accesso mentre lui no, fece come gli era stato detto, sedendosi sul letto di Barclay.
- Come stai? – gli domandò quest’ultimo.
- Io bene. Tu come stai, piuttosto..?
- Lo sai. Ho i miei momenti no, ma mi sto riprendendo bene – gli rispose egli, abbassando lo sguardo. - L’intero villaggio ancora crede che io e la mia famiglia siamo delle “leggendarie” creature ultraterrene che desiderano succhiare il sangue dei fanciulli e delle fanciulle. Riesci a credere all’assurdità di questa intera situazione..? – sospirò frustrato. – Vorrei solo che ci lasciassero in pace ... è tutta colpa di quel dannato!
- Ora calmati, non ti fa bene agitarti.
- Strano che sia tu a dirmi di calmarmi oggi. Solitamente accade il contrario – riflettè Barclay sorpreso.
Ecco il primo passo falso che lo aveva tradito. Padre Cliamon deglutì e cercò di riprendere in mano la situazione.
Oramai aveva compreso che quel Folker dovesse avere un temperamento molto forte, nonostante l’aspetto candido e immacolato.
Ma non sapeva effettivamente fino a che punto.
- Sono preoccupato per te, tutto qui – gli rispose, accennandogli un sorriso.
- Lo so. E ti ringrazio. So quanto tu lo odi.. per quello che mi ha fatto. Ma sta’ attento con lui, Folker, ti prego. Quello è un bestione e ci va giù pesante quando lo si provoca, lo sai.
Provoca..? In che modo?  Padre Cliamon era sempre più curioso a riguardo.
- A proposito, hai saputo la novità? – riprese la parola Barclay, facendo ora emergere tutto il suo nervosismo e la sua frustrazione.
- Cosa?
- I monaci hanno rilasciato quell’infame. Il bestione è libero, Folker. Quegli ignobili vecchi hanno inventato la scusa che “il ragazzo stesse solo difendendo la propria vita da un pericolo” a prescindere dal fatto che io sia una “strige” o no. Riesci a crederlo..??
Giusto. Padre Cliamon se ne stava quasi dimenticando: il concilio per decidere delle sorti di Kåre Ambrose si era tenuto il giorno prima, e ovviamente il monaco vi aveva partecipato.
Egli, insieme alla maggioranza, aveva votato per far scarcerare il ragazzo, malgrado il grave crimine commesso a danno di un servo de Diavolo.
Ma a differenza della maggioranza degli altri monaci, i quali avevano agito perchè era evidente non riuscissero a vedere un giovane del loro stesso culto dietro le sbarre; padre Cliamon aveva votato per liberarlo semplicemente perchè, dopo aver visto ciò che aveva visto nelle segrete, quando aveva erroneamente lasciato a Folker libero accesso alla cella di Ambrose, temeva che quel ragazzo potesse morirci davvero dentro quella putrida cella, senza ricevere le dovute cure che avrebbero richiesto le gravi ferite che gli aveva provocato il suo violento coetaneo.
Judith era stata una dei pochi a votare per tenere il ragazzo imprigionato, ma con lo scopo di ragionare su una pena più misericordiosa del rogo per lui.
- Davvero? – rispose Cliamon, fingendo sorpresa a tal notizia.
- Sì. E ti sta cercando.
- Mi sta cercando..? Me?
- Certo che sta cercando te. Cos’è, ti sei improvvisamente dimenticato cosa è accaduto tra voi? – gli domandò attonito Barclay.
- Sì.. certo che lo ricordo.
- Folker, non so se quel tipo voglia più morto te, e se sei tu a voler più morto lui. Sta’ attento a lui questa sera. Non sei invincibile come credi – si raccomandò con apprensione, lasciando il monaco notevolmente stupito.
“Questa sera”? Cosa sarebbe accaduto quella sera?
C’entrava la Taverna? D’altronde, quando lo aveva seguito di nascosto, il monaco aveva visto Folker entrare nella Taverna con sguardo circospetto, in tarda serata.
- Ci saranno anche tutti gli altri.
“Tutti gli altri”? Tutti gli altri chi??
Cliamon avrebbe voluto porgli sin troppo domande, ma non poteva, doveva cercare a tutti i costi di non farsi scoprire.
Quei ragazzi nascondevano molti più segreti di quanto credesse.
- I monaci sono venuti anche da te a controllarti denti, pelle e tolleranza al sole? – gli domandò improvvisamente il ragazzo.
- No, ancora no – rispose, vedendo poi l’altro infilargli un dito in bocca e alzandogli il labbro superiore, per osservargli distrattamente i denti.
- I vecchi infami potrebbero sospettare per quel dentino a punta che ti ritrovi – rise l’altro. – Ho saputo che ad Amber hanno fatto storie per i suoi canini lievemente a punta, che ha preso da sua madre a quanto pare - gli rivelò, ora più serio.
- Devo andare un secondo a sciacquarmi il viso. Stamattina non l’ho fatto appena sveglio – gli rispose improvvisamente, sentendo veramente il bisogno di rinfrescarsi il viso e le idee con un po’ di acqua gelata.
- Certo, vai pure – gli disse il ragazzo, indicandogli la porta semiaperta che si trovava sulla destra del giaciglio.
A ciò, Cliamon entrò dentro la stanzetta e richiuse la porta dietro di sè.
Vi erano presenti una vasca in legno di modeste dimensioni, un vaso da notte e una bacinella colma d’acqua pulita, poggiata ad un tavolino con alcuni teli puliti e ripiegati.
Gli si illuminarono finalmente gli occhi quando notò, sopra la bacinella, la presenza di uno specchio.
Si avvicinò allo specchio, con la mente troppo affollata di pensieri, prendendo ad osservare la sua immagine.
I capelli biondissimi gli ricadevano attorno alle guance in ciocche ribelli, selvagge; gli occhi erano quanto di più bello vi fosse dopo il sole stesso.
Restò a guardarsi, godendo di quell’immagine, ma continuando a riflettere.
Provava ancora dolore ovunque, in ogni punto deturpato del corpo del ragazzo.
Cosa facevano quei giovani fanciulli durante le loro serate passate alla Taverna?
I suoi occhi virarono sulle clavicole scoperte del suo giovane corpo, dalla forma elegante e che sembrava così fragile, all’occhio.
Poi, per qualche motivo, prese a guardarsi le mani. Ne alzò una in alto, osservandola: era affusolata, dalla forma estremamente raffinata anch’essa, con le nocche ben sporgenti e in evidenza. Queste erano notevolmente arrossate, come se avessero ripetutamente e violentemente urtato contro qualcosa o qualcuno.
- Buon Dio ... – sussurrò. – Cosa mi stai nascondendo, Folker..?
 
 
- Avanti, è ora di alzarsi, padre. Su! Il sole splende su di voi e vi sta incoraggiando ad alzare il fondoschiena da quel letto e di darvi una mossa.
La voce di Blake gli penetrò nelle orecchie con violenza, tramortendolo.
Padre Craig aveva passato la notte insonne, per una motivazione che Blake e qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra non avrebbe dovuto in alcun modo sapere.
Beitris.
Lui e Beitris.
Il suo patto con Dio era rotto, spezzato per sempre.
Il senso di colpa gli stava infettando le viscere come un veleno, ma non tanto per ciò che aveva compiuto con la donna, quanto più per ciò che ella gli aveva detto, gli aveva rivelato di sapere, riguardo il suo legame con Blake, e con Judith.
Dopo essersi ritrovato faccia a faccia con i suoi probabili quanto conturbanti e pericolosi sentimenti, era devastato, e sapeva non sarebbe riuscito mai più a guardare negli occhi Blake.
Motivo per cui, a maggior ragione, voleva restare in quel letto, sepolto, a recuperare tutte le ore di sonno che aveva perduto.
Ma il giovane demonio non demordeva, e senza alcun rispetto o ritegno, gli tolse la coperta di dosso, lasciandolo esposto al freddo del mattino, pur di convincerlo ad alzarsi.
Ma cosa diavolo gli prendeva quella mattina? Non aveva mai fatto una cosa del genere prima.
Il trattamento da ospite, oramai era solo un ricordo lontano per il giovane prete.
- Blake... vi prego.. vorrei restare a..
- No, niente “Blake, vi prego”, non ammetto lamentele. Alzatevi e vestitevi, avanti, la giornata è appena iniziata ed è lunga dinnanzi a noi – lo interruppe il ragazzo, lanciandogli i suoi abituali abiti monacali.
- Per quale motivo avete deciso di torturarmi così questa mattina, mi è dato saperlo..? – si lamentò, trovando la forza e il coraggio di alzare la testa dal letto e di posare gli occhi sul ragazzo, in piedi accanto a lui.
- Perchè devo svolgere una commissione importante con Quaglia questa mattina.
- E... per quale motivo ciò dovrebbe riguardarmi?
- Perchè ovviamente voi ci accompagnerete.
 - E per quale ragione?
- Ma come, padre? Vi siete già dimenticato che oramai sono prigioniero in casa mia? Che sono in libertà vigilata? E che “non posso uscire di casa a meno che non sia strettamente necessario e accompagnato da qualcuno?” – rimarcò il ragazzo in tono pungente.
- Ma non avete detto che c’è già Quaglia ad accompagnarvi?
- Ovviamente Quaglia non conta come “tutore”. Non per mia madre, per lo meno.
- E invece Ioan?
- Oh, padre, credetemi: nel posto in cui stiamo per andare è meglio che un bambino non vi metta piede - disse sorridendo sardonico il ragazzo, facendo deglutire rumorosamente il giovane prete.
- Dunque io sarei solamente il ripiego che vi rimane. Mi avete svegliato brutalmente solo per questo.
- Oh, non fatela sembrare più tragica di quello che è. Siete sempre così melodrammatico!
- Blake..?
- Sì, effettivamente è così – confermò sorridendogli con finta innocenza.
- Siete una tragedia, Blake.
- Grazie mille, lo apprezzo. Ora vestitevi e mettetevi degli stivali comodi perchè sarà una lunga, lunga camminata.
 
Dopo più di un’ora di camminata (padre Craig non seppe più quantificare quanto tempo fosse passato) tra i selvaggi boschi che circondavano la zona abitata di Bliaint, in compagnia di Blake e di Quaglia, i tre si ritrovarono dinnanzi alla porta di una strana e grande abitazione, dinnanzi ad una scrosciante cascata.
Padre Craig ci mise un attimo a capire di cosa si trattasse: nonostante la compagnia di stregoni eremiti avesse oramai cambiato dimora, non era difficile immaginare che i boschi isolati sarebbero sempre rimasti la loro meta preferita in cui stabilirsi.
Più che altro, si sorprese che Blake sapesse dove fossero stabiliti.
Il ragazzo bussò alla porta, attendendo.
Fortunatamente, chiunque vi fosse dietro fu tempestivo nell’aprirla. A quanto pareva, gli stregoni erano mattinieri almeno quanto Blake.
Subito, si rivelò ai loro occhi la figura di colui a capo della compagnia, oramai in stretta confidenza sia con Blake che con Quaglia.
Ephram sgranò gli occhi color sabbia nel ritrovarsi dinnanzi Blake.
- Ma che bella sorpresa! – esclamò lo stregone ponendo le braccia conserte e poggiandosi con la spalla allo stipite della porta. - Tu? Tu qui?? Come e da quando?? – era sorpreso quanto padre Craig evidentemente.
- Mi hai detto dove fosse collocata la vostra nuova dimora ed io ho semplicemente seguito le tue indicazioni per arrivarci – rispose Blake semplicemente.
- Sì, ma non credevo che ci saresti mai venuto davvero. Dunque? A cosa devo il piacere?
- Mi serve il tuo aiuto.
A ciò, lo sguardo di Ephram si affilò e si illanguidì, mentre fissava l’amico negli occhi. – E tu cosa mi dai in cambio?
Padre Craig per poco non si strozzò con la sua stessa tosse nell’udire tali parole, in tono tanto malizioso.
Ma Blake gli rispose sorridendo perfido, mentre lo superava e si faceva strada dentro la dimora, senza chiedere il permesso. – In cambio? Quaglia ti farà un bel ritratto – gli rispose per le rime.
A ciò, lo stregone sorrise divertito, facendo entrare anche gli altri due e seguendolo.
Padre Craig non era a conoscenza che il rapporto istauratosi tra quei tre fosse diventato confidenziale a tal punto.
Il prete entrò guardandosi intorno, trovando altre quattro presenze nell’atrio principale, colmo di candele accese nonostante la già prorompente illuminazione del sole, e di un forte odore di incenso.
- Blake? – il ragazzo si sentì richiamare da una voce che riconobbe a malapena, non appena si tolse il cappuccio.
- Lilibeth?
La giovane strega nominata gli sorrise, avvicinandoglisi, prendendogli le mani nelle sue. – Non vi vedo da anni. Stentavo a riconoscervi! Perchè ci avete messo tanto a rifarvi vivo qui?
- Voi siete stato già qui? – gli domandò padre Craig confuso.
- Solo una volta a quanto pare, nella vecchia dimora, un giorno di due anni fa, appena affacciato alle soglie della più precoce adolescenza, quando la relazione amorosa tra lui e Beitris faceva letteralmente scintille - rispose per lui Ephram, colpendo Quaglia con una vigorosa pacca sulla schiena. – Ma, per mia grande sfortuna, quel giorno vi erano solo Beitris e la nostra Lilibeth in casa. Altrimenti, ci saremmo conosciuti già due anni fa, vero, Blake? – gli domandò lo stregone, poi rivolgendosi a Quaglia. – Come stai, Quaglia? Ti sento un po’ teso, vecchio mio.
- Cosa ne pensate della questione delle strigi? – domandò improvvisamente Blake, rivolgendosi ai diversi membri della compagnia che si trovò davanti, ma soprattutto ad Ephram.
- Che è un’altra grossa, sgradita e pericolosa gatta da pelare – gli rispose invece Yarin, lo stregone con uno dei marchi neri stregoneschi che gli circondava i lati di tutta la parte destra del viso, dalla fronte alla mascella.
- La leggenda improvvisamente vivente delle strigi mette ancor più in cattiva luce noi stregoni, più di tutti gli altri servi del Diavolo – aggiunse Ephram esasperato.
- E perchè mai? – domandò Quaglia, prendendo finalmente la parola.
- Beh, mio ingenuo amico, lascia che ti impartisca un’altra delle mie essenziali lezioni: gli stregoni sono visti come il male a Bliaint. In ogni caso. Anche se ci è permesso praticare la magia. Anche se molti servi dei Diavolo, e anche alcuni servi del Creatore, si rivolgono a noi per risolvere problemi di ogni sorta, grazie alla magia nera. Nonostante tutto, siamo visti come il male e la rovina di Bliaint. Perciò, dato che le strigi, guarda caso, sono creature magiche, create dalla mente deviata e perversa di Allister Chaim, ora noi siamo i principali bersagli di quei maledetti monaci. Come se non avessimo già abbastanza problemi!
- Dalla mente deviata di Allister Chaim? – domandò padre Craig confuso.
- Oh, giusto, ci siete anche voi, padre Craig, non vi avevo visto – gli disse Ephram, con l’unico e solo scopo di fargli saltare i nervi.
- Beh, lo reputate sano di mente un uomo che decide, di punto in bianco, per porre fine ad una calamità, di dividere il villaggio tra “belli” e “brutti”, e di rendere la separazione permanente, decidendo che i brutti serviranno il Creatore, e i belli il Diavolo, senza possibilità di replica, e di vietare dunque ogni relazione e rapporto sessuale tra membri dei due culti? – il riassunto approssimativo che Lilibeth aveva fatto della nascita del loro villaggio attuale era divertente, quanto drammaticamente vero. Ma a quanto pareva la giovane strega dalla lingua lunga e l’impareggiabile carisma non aveva ancora finito: - E ditemi, padre, come potete non reputare perverso, ma soprattutto frustrato sessualmente, un uomo che dice di aver “sognato”, in una notte di “delirio”, una creatura che gli deve aver fatto visita, una ragazza bellissima, o un ragazzo bellissimo, chissà chi dei due agitava le più recondite fantasie del nostro “Salvatore”; ovviamente serva/o del Diavolo, dalla pelle bianca come quella di un morto, una sete incontrollabile di sangue e carne umana, canini lunghi come quelli di un felino, che usava la seduzione come mezzo per attirare le sue “prede”??
Padre Craig dovette convenire che il ragionamento filava, e, descritto in quel modo, sembrava anche parecchio grottesco e maniacale.
- Magari il nostro Salvatore aveva un debole per i morti. Chi potrà mai saperlo! – esclamò Yarin.
- Come potete vedere, padre, non nutriamo una grande simpatia per Allister Chaim, sempre sia lodato – fu la ciliegina sulla torta di Ephram.
- Credo che stiamo traumatizzando il povero prete straniero, Ephram – lo ammonì Lilibeth, fingendo dispiacere a sua volta. – Mi spiace, padre, se abbiamo tirato fuori argomenti “dissoluti”. D’altronde, non biasimateci, in quanto al momento siamo tutti a bocca asciutta da un po’. Non è vero, Ephram? – lo provocò la ragazza. – Sono parecchi giorni che Ephram non porta a casa qualcuno con cui divertirsi un po’ e l’astinenza sta cominciando a farsi sentire.
- Per l’amor del cielo, coprite le orecchie del prete! – esclamò il succitato in tono teatralmente finto scandalizzato. – Ad ogni modo, non sono l’unico a risentirne qui, mi sembra, o sbaglio, Beth?
La ragazza sbuffò. – Sei fastidioso, Ephram. Grazie al Diavolo è venuto Blake con i suoi amici oggi. Da quando se ne sono andati i due topini, Beitris, Selma e Myriam, questo posto non è più lo stesso – si lamentò la giovane strega, sconsolata.
- Dunque, non vuoi dirmi come mai hai degnato noi comuni mortali della tua presenza qui? – domandò Ephram tornando a rivolgersi a Blake, il quale era rimasto in silenzio e pensieroso per tutto il tempo. – La tua famiglia non ti aveva relegato in casa fino al nuovo ordine?
- Siamo giunti al compromesso che posso uscire se accompagnato. Difatti c’è padre Craig con me.
- Oh, il saggio e responsabile padre Craig!
- Sei rumoroso, Ephram. Sono qui da neanche dieci minuti e mi hai già fatto venire voglia di strapparmi le orecchie – disse Blake.
- Morde in questo modo ogni mattina? – domandò lo stregone, rivogendosi a padre Craig e a Quaglia.
- A dir la verità, neanche noi due conosciamo precisamente il motivo per cui siamo qui – disse Quaglia, guardando Blake con innocente aspettativa.
- Vuoi che io e Quaglia riprendiamo con le evocazioni dei suoi antenati, giusto? – gli domandò Ephram, dandolo per scontato.
- No. Non questa volta. Si tratta di me – disse il ragazzo, sorprendendo lo stregone.
- Bene... noto con piacere che hai finalmente deciso di prendere la tua vita in mano e di agire ...
- Non inizierò ad usare la magia per risolvere i miei problemi, Ephram – lo interruppe Blake. – Ma questa volta ... ho bisogno di capire cosa succede nella mia testa. E forse solo la magia nera può aiutarmi a comprenderlo.
- Che tipo ... di magia nera? – gli domandò Ephram, temendo quasi la risposta dell’amico.
- Profetica. Ho bisogno di dare un’occhiata nel futuro.
Ephram e gli altri stregoni presenti nella sala sbiancarono.
- Sai che non esiste mai un solo futuro prescelto che possiamo osservare, bensì ve ne sono diversi. Alcuni più probabili, altri meno. Il nostro Signore non ci permette di ottenere una visione così ampia, bensì prospettica..
- Non mi importa. Voglio comunque vederlo. Sto avendo delle visioni. Sempre più frequenti. Ho bisogno di sapere. Di fare chiarezza.
- Lo sai che dare un’occhiata al tuo futuro e a quello delle tue persone care non ti aiuterà a fare chiarezza, vero? Bensì, potrebbe confonderti ancora di più.
- Puoi aiutarmi o no, Ephram? – gli domandò schiettamente Blake, ponendoglisi dinnanzi.
Trascorse qualche istante di teso silenzio tra i due.
- Ovvio ... che ti aiuterò. Non devi neanche chiederlo.
Sono arrivato ad un punto in cui acconsentirei a qualsiasi idea folle che avessi da propormi.
Tuttavia, la visione profetica era una specialità di Selma.
E, sfortunatamente, Selma non è più qui. Motivo per cui, per riuscire in ciò che desideri, ci servirà il potere e l’aiuto di quanti più stregoni possibili.
- Direi che possiamo farlo. Siamo già in cinque, no? – propose Lilibeth, come se nulla fosse. – Preparo la postazione, il libro sacro, le pietre e l’incenso – disse avviandosi.
Padre Craig la osservò iniziare ad accendere alcune candele che dispose ai lati di una tavolata in religioso silenzio. Le fiammelle delle candele creavano delle ombre magnetiche sulla sua pelle e sui suoi capelli castani chiari, intrecciati in un’infinità di fili dorati.
- Prima, raccontami quanto più dettagliatamente possibile cosa vedi nelle tue allucinazioni – cominciò Ephram sedendosi e facendo sedere anche Blake accanto a lui.
- Ultimamente compare spesso una bambina. Bonnie, più precisamente, la bambina morta sotto le macerie al crollo della galleria. C’entra sempre la galleria in qualche modo.
Vedo delle cose... sento delle voci che mi ricordano ciò che ho vissuto quando ero al villaggio di Carbrey e sono riuscito in qualcosa di impossibile. Senza l’aiuto di alcuna magia.
Le parole del Giudice mi rimbombano sempre nella mente.
- Di cosa si tratta?
- Di un miracolo alchemico.
- Continua.
- Trasformare un metallo in un altro. Trasmutazione.
- Mutamento dello stato della materia, in un altro stato – aggiunse Lilibeth, che li stava ascoltando silenziosamente, mentre preparava la postazione. – La natura che cambia sotto il nostro volere, senza merito di alcun potere esterno. Si tratta di qualcosa di impossibile, che gli alchimisti si vantano di saper fare, ma che non possono riuscire a fare. Non senza un aiuto ultraterreno – concluse la ragazza.
Blake la guardò negli occhi, con uno sguardo indecifrabile, lasciandola allibita.
- Voi ... ci siete riuscito? Come è stato possibile?
- Non lo so. In ogni caso, lo è stato solo per un attimo. L’attimo che mi ha permesso di liberarmi e di scappare. Se non fossi riuscito in ciò, in qualche modo, ora non sarei qui a raccontarvelo.
- Oltre questo?
- La mandragora torna sempre, ma non capisco che attinenza abbia con il resto.
E poi ... – si bloccò Blake, posando le iridi blu su Quaglia, il quale lo ascoltava assorto. – L’omuncolo. Quello di cui parlava Quaglia. L’ho visto. L’ho sognato.
Il succitato sgranò gli occhi, muovendo la testa in segno di negazione. – No... è impossibile. Non so neanche io cosa sia.
- Eppure sei riuscito a disegnarlo, no? È un esserino grottesco con l’aspetto a metà tra l’umano e tra il fantoccio, giusto? – domandò conferma Blake. – “Il fantoccio che contiene l’anima nera dell’uomo”. Non vuoi sapere anche tu di cosa si tratti?
- Talvolta è meglio non sapere ... – si limitò a rispondere Quaglia, lasciando che la paura lo invadesse.
- Ad ogni modo, tornando al tema centrale: non capisco che attinenza abbia la mocciosa, Bonnie, con tutto il resto. Cosa c’entra la galleria? – domandò Ephram.  
Blake vi riflettè su, poi realizzando. – Il Mostro Dietro di Te.
- Cosa? Il Mostro Dietro di Te? Mi stai davvero tirando fuori una leggenda per bambini?
- Non che i servi del Creatore abbiano fatto diversamente, con le strigi – commentò Lilibeth, la voce della verità sempre al momento giusto.
- Il Mostro Dietro di Te, secondo i racconti, vive nella galleria. Nelle mie allucinazioni è incarnato da Bonnie. O, per lo meno, credo sia incarnato da lei, ma non ne sono più sicuro. Ovviamente, non potendolo vedere non posso saperlo.
- Stavo pensando .. – intervenne padre Craig senza essere interpellato, attirando l’attenzione di tutti su di sè. - Il Mostro Dietro di Te, così come la Strige ... mi ricordano entrambi, in qualche modo, una figura leggendaria, famosa nel mio villaggio, ad Armelle. Si tratta sempre di una storia raccontata ai bambini, per evitare di far fare loro i capricci – continuò il giovane padre. – Si chiama il Krampus. I Krampus sono demoni dalle sembianze mostruose, che si aggirano per le strade alla ricerca dei bambini "cattivi". I loro volti sono coperti da terrificanti maschere. La leggenda è nata perchè si dice che, tanto tempo fa, durante le carestie, i giovani di piccoli villaggi si travestissero usando pellicce fatte di piume, pelli e corna di animali. Essendo irriconoscibili, andavano in giro a terrorizzare gli abitanti dei villaggi, derubandoli delle ultime provviste rimaste. Dopo un po' di tempo, si dice che i giovani si accorsero che tra di loro vi fosse un impostore: un demone, che approfittando del suo reale volto diabolico si era inserito nel gruppo passando inosservato.
È una leggenda molto antica, perciò potrebbe essere che Allister Chaim, secoli fa, ne abbia sentito parlare, e le sue contorte fantasie sessuali abbiano distorto la figura del Krampus trasformandola, e creando quella della Strige – ipotizzò il giovane prete.
- Non è del tutto fuori luogo come teoria – ragionò Lilibeth.
- Il Krampus somiglia molto anche al vostro Mostro Dietro di Te – aggiunse padre Craig, guardando Blake, il quale sembrava impegnato in chissà quali elucubrazioni.
- È tutto così confuso... – commentò Ephram massaggiandosi le tempie e cercando di fare chiarezza. – Cos’altro? Se vi è ancora qualcos’altro da farci sapere, Blake, fallo ora. Tutto potrebbe essere essenziale.
A ciò, al ragazzo sembrò venire in mente altro, che era indeciso se rivelare o no.
- Allora?
- La preghiera proibita.
La donna di cui ti ho parlato giorni fa... quella che era presente alla morte di Bonnie, quel giorno. Lei mi è apparsa, alla galleria. Ha pronunciato la preghiera proibita, rivolgendola a me.
- Che ... cosa? – domandò Lilibeth, sempre più stupita.
- D’accordo – disse Ephram. – Diamo un’occhiata nella tua mente.
- Cosa hai intenzione di fare? – gli domandò Blake, senza traccia di timore nella voce.
- Possiamo tentare il rito del viaggio interno. Avremo bisogno della forza e della comunione di quante più menti possibili.
- Dunque anche la mia? – domandò Quaglia.
- Sarebbero preferibili stregoni, dato che noi sappiamo come agire, e già la sola mente di Blake mi sembra sin troppo da sopportare persino per cinque persone. Se ci aggiungiamo anche la tua, potrebbe diventare più difficoltoso.
- Tuttavia, Quaglia ha un ruolo fondamentale – disse Blake. – Lasciate partecipare anche lui. Magari i suoi ricordi nascosti potranno rivelarci dettagli in più riguardo l’omuncolo.
- D’accordo. Tentiamo.
A ciò, Ephram, Blake, Quaglia, Lilibeth, Yarin, un’altra strega e un altro stregone, si disposero seduti intorno al tavolo tondo, mentre padre Craig restava a guardarli in un angolo.
Ephram aprì il libro sacro e lesse mentalmente la formula.
In seguito, tutti gli stregoni iniziarono a pregare il Diavolo, in coro.
Poi, Ephram fece indossare a Blake un amuleto strano, che padre Craig non riuscì bene ad osservare.
Bruciarono una sostanza scura, dall’odore acre, all’interno di un fuocherello che avevano acceso in mezzo al tavolo; dopodiché, Lilibeth (che era seduta alla sinistra di Blake, mentre Ephram era alla sua destra), voltò il viso di Blake verso di lei e gli diede un bacio a stampo sulle labbra.
Padre Craig rimase inizialmente attonito e a bocca aperta, imbarazzato, poi iniziò a comprendere: per completare il rito vi era bisogno anche di quel gesto, in quanto Lilibeth, dopo aver baciato Blake, si girò alla sua sinistra e baciò la strega accanto a lei, e questa fece lo stesso con chi le era accanto, e così via, fino a terminare il giro lì dove era iniziato.
Era come se ognuno di loro si stesse trasmettendo a vicenda qualcosa che risiedeva nell’anima di Blake, e che il ragazzo aveva passato a Lilibeth per prima, tramite il contatto di labbra.
Giunti all’ultimo, Ephram accolse il bacio di Quaglia accanto a sè, per poi voltarsi verso Blake e riconsegnargli il suo bacio, posando le labbra sulle sue, e restandoci forse un secondo di troppo.
Dopo ciò, il giovane stregone a capo della compagnia chiuse gli occhi e iniziò a pronunciare la formula:
- “Accerso alius sententia ut mihi, phasmatis di interregno ego dico, solvo meus mens mei, ego dico phasmatis audit meus placitum meus mens iacio quod Even Blake”
- “Accerso alius sententia ut mihi, phasmatis di interregno ego dico, solvo meus mens mei, ego dico phasmatis audit meus placitum meus mens iacio quod Even Blake” – ripeterono tutti in coro, stringendosi le mani e chiudendo gli occhi.
Lo ripetereno innumerevoli volte, tanto che padre Craig non riuscì più a quantificarle, mentre li osservava impaurito ed estasiato insieme.
Solamente Blake e Quaglia non dicevano nulla.
Quest’ultimo aveva gli occhi chiusi e la bocca serrata, mentre invece Blake era l’unico a tenerli aperti, fissi nel vuoto, come in trance.
Improvvisamente, quando le voci raggiunsero un tono talmente elevato da divenire urli e padre Craig comprese il motivo per cui gli stregoni si fossero scelti una dimora isolata, Ephram si alzò immediatamente dalla sedia, staccandosi dal cerchio come scottato, interrompendo il rito.
Aveva il fiato pesante, ansimante, e gli occhi spalancati, come se vedesse ma non vedesse davvero.
Padre Craig se ne spaventò.
- Ephram..? – lo richiamò Blake, come risvegliato anche lui, come se tutto ciò che era appena accaduto non lo avesse toccato.
Ephram ci mise un po’ a riprendersi, così come tutti gli altri.
- Cosa avete visto? – insistette Blake, rivolto verso tutti.
- Lasciateci soli, per favore .. – sussurrò Ephram tenendosi la testa con una mano, rivolto verso gli altri stregoni della compagnia, i quali si alzarono tutti, senza fiatare, ancora notevolmente scossi, Lilibeth compresa, uscendo dalla stanza.
Lo stregone riprese posto accanto a Blake.
Ora erano rimasti solamente lui, Blake, Quaglia e padre Craig, il quale più di tutti voleva comprendere cosa fosse accaduto.
- Cosa c’è? – gli domandò ancora il ragazzo, avvicinandosi maggiormente ad Ephram.
- Devi smetterla – pronunciò questi.
- Cosa?
- Devi finirla, con i tuoi piani, con tutti i tuoi progetti.
Devi dimenticarli.
- Per quale motivo? Ephram, spiegati meglio.
- Perchè è pericoloso e il nostro Signore non lo approva!
- Dimmi qualcosa che io già non sappia, ti prego.
- Blake, tu non comprendi! Ho visto ... abbiamo visto uno dei possibili futuri che il Signore ci ha mostrato...
Non mi hai parlato della polvere nera, quando mi hai raccontato delle tue visioni.
- Perchè difatti non era presente.
- Ma tu stai ancora cercando di scoprirne la composizione ... in ciò che ho visto, nel tuo futuro c’è una grande presenza della polvere nera.
- Vuol dire che riuscirò a crearla...? Davvero??
- Non c’è nulla da festeggiare – lo riprese lo stegone in tono grave. – Vedo un progetto. Un progetto che accomuna te e Arley Judith. Il vostro futuro è condiviso. Per lo meno, nella direzione in cui sta andando ora... le cose potranno sempre cambiare e dipende solo dalle tue scelte. E da quelle di lei.
- Judith...? Cos’hai visto su di lei?
- La stai vedendo ultimamente?
- No.
Ephram si zittì di nuovo, riflettendo.
- Ephram, vuoi dirmi cosa diavolo hai visto in quel possibile futuro che ti ha turbato tanto..?
- Una morte, Blake.
Ho visto la morte.
La tua. In giovane età.
Una morte talmente imminente che non ti permetterà neanche di sbocciare.
A quelle parole, il ragazzo si pietrificò, e con lui anche Quaglia e padre Craig.
- Stai nuotando in acque pericolose, Blake.
Talmente pericolose che ciò che farai verrà ricordato per gli anni avvenire, se riuscirai nell’intento.
Tuttavia, la tua, potrebbe essere la morte più dolorosa, atroce e inumana mai conosciuta dall’uomo. Molto peggio del rogo.
- ... cosa? Cosa ci potrebbe essere peggio del rogo? – domandò padre Craig con voce tremante.
Non si era reso conto che le gambe gli stessero cedendo e che si era dovuto sedere anche lui per evitare di precipitare a terra.
Una morte dolorosa più del rogo stesso...?
Se fosse rimasto a Bliaint avrebbe assistito alla morte di Blake..?
Non voleva udire la risposta.
Non voleva udire più nulla.
Voleva solo andarsene via di lì.
- Ma questo è solo uno dei possibili futuri, giusto..? – sussurrò Quaglia, sull’orlo della lacrime anche lui.
- Esatto.
Blake, al contrario loro, stava rimanendo stoico, come si aspettava che rimanesse.
- E invece, Judith? – domandò il ragazzo. – Hai detto che il nostro futuro sarà condiviso. Anche lei potrebbe morire della mia stessa morte?
- No, al contrario. Se le cose andassero come ho visto... mentre il tuo futuro sarà morte certa, il suo sarà fulgido e rigoglioso. In base al futuro dell’uno, potrebbe determinarsi il futuro dell’altra.
In quel momento, Blake sembrò finalmente risentire del rito a cui era stato appena sottoposto.
Iniziò a percepire qualche violento conato partirgli dalla bocca dello stomaco e arrivargli fino alla gola, riempendogli la bocca di acido.
- Che cosa mi hai fatto...? – sussurrò stringendosi il ventre all’altezza dello stomaco e tappandosi la bocca con l’altra mano, sbiancando e assumendo un colorito ceruleo in meno di un minuto.
Il ragazzo si inginocchiò, afferrò il primo vaso che gli capitò tra le mani e vomitò tutta la colazione di quella mattina al suo interno, fino a quando non gli rimase più nulla dentro.
E nonostante tutto, i conati non terminavano.
Padre Craig fu combattuto se inginocchiarsi anche lui per assisterlo e aiutarlo, o rimanere lì dov’era, aspettando che i conati si placassero.
Decise di optare per la seconda.
I tre attesero che Blake terminasse di vomitare e che ritornasse a posare i suoi occhi stravolti verso di loro, con la faccia ancora mezza riversa verso il vaso.
- “La magia nera richiede sempre qualcosa in cambio”.. te ne sei dimenticato? – gli disse Ephram, sorridendogli tra l’amaro e il malinconico. – Passerà entro la mattinata. Non preoccuparti.
In quel momento, mentre padre Craig lo guardava stare male, si chiese a cosa diamine fosse servita la sua presenza lì. Se davvero doveva tenere d’occhio Blake e impedirgli di avere a che fare con qualsiasi cosa implicasse la magia e l’alchimia, o qualsiasi altra pratica a lui dannosa, per quale diavolo di motivo non lo aveva fatto? Esattamente come Rolland ed Heloisa si erano raccomandati?
Lui era lì per impedirgli di fare cose simili.
E invece, eccoci di nuovo al punto di partenza, con Blake che stava risentendo fisicamente e mentalmente per qualcosa che lo tormentava e che lo avrebbe, a quanto pare, condotto a porre fine alla sua esistenza prematuramente.
E nessuno, nessuno di loro avrebbe potuto fermarlo.
Il giovane prete si sentì tremendamente impotente e inetto.
- Allora... non era avvelenamento da mercurio ... era tutto reale – sussurrò Blake tra sè e sè, tra un conato e l’altro, venendo a malapena udito dagli altri tre.
- Hai già pensato a cosa fare col tuo battesimo? – gli chiese improvvisamente e a bruciapelo Ephram, come se fosse una questione di estrema importanza.
Padre Craig se ne era quasi completamente dimenticato.
- Non lo so.
- Sei giunto alla fine del tuo sedicesimo anno di vita, Blake. A breve compirai diciassette anni e dovrai decidere cosa fare della tua vita: se seguire la via del nostro Signore, oppure autoesiliarti da Bliaint e non tornare mai più.
E Judith con te. Siete gli unici che devono ancora battezzarsi e siamo giunti alla fine dell’anno.
Hai deciso cosa fare?
Padre Craig immaginò una veloce e delicata unzione come quella che si faceva ai bambini ad Armelle, per tutti i sedicenni di Bliaint, ma sicuramente le cose lì non andavano in quel modo.
Forse per i servi del Creatore sì, ma per quelli del Diavolo sarebbe stato certamente diverso.
Padre Craig immaginò, più che una sacra unzione, una sorta di rito ancestrale in cui i giovani servi del Diavolo cedevano per sempre la loro anima a Lucifero, durante il loro battesimo.
- Cos’è, vuoi spingermi a battezzarmi perchè speri che in tal modo il futuro che hai intravisto non si compia?
- No, al contrario, credo che il non battezzarti, dunque il lasciare Bliaint, allontanandoti per sempre, potrebbe contribuire a salvaguardarti dal futuro tremendo che ho visto.
Tuttavia, non battezzarti comporterebbe rinnegare per sempre le tue origini e non poter mai più tornare indietro.
E vedendo cosa ti è accaduto là fuori in soli pochi giorni, solo perchè etichettato come figlio del Diavolo, non vorrei mai che ti esponessi ad un tale pericolo.
In ogni caso, qualunque strada tu prenda, sembra un vicolo cieco – sospirò frustrato il giovane stregone. - Ad ogni modo, devi prendere una decisione. Al più presto.
- Lo farò – disse Blake essendosi un minimo ripreso e rialzandosi in piedi. – Non hai detto nulla riguardo all’omuncolo di Quaglia – spostò l’attenzione il ragazzo.
- Non l’ho menzionato perchè ciò che ho visto su di te è stato molto più tremendo e ha catalizzato la mia attenzione. Comunque, la questione è parecchio intricata. Mi è impossibile sbirciare nel passato di Quaglia, dato che lui non ha ricordi di quel passato.
- E nel futuro? – domandò il succitato.
- Confusione. Molta confusione. Non è così semplice.. vi era una presenza, una presenza che non sono riuscito a riconoscere, ma che avrà un ruolo a sè, nella questione che gira intorno all’homuncolus. Non riesco a dirvi altro.
- Bene. Ora credo sia il momento di andare, per noi – disse Blake, facendo per dirigersi verso l’uscita della stanza.
Neanche padre Craig riuscì in alcun modo a carpire qualcosa del suo stato d’animo in quel momento.
- C’è anche altro... che non ti ho detto – lo ribloccò Ephram, vedendolo arrestare la sua camminata e rimanere in ascolto, in attesa. – Selma. Sta tornando. E con lei ci sarà Sibyl.
A ciò, Blake sgranò gli occhi nella più totale sorpresa, una sorpresa che nascondeva una gioia malcelata. - Sibyl..? – ripetè, chiedendo conferma, voltandosi verso lo stregone, il quale si alzò in piedi a sua volta e gli sorrise, come uno che la sapeva lunga, avvicinandoglisi.
- Sei contento che tornerà anche lei, vedo. Almeno quanto lo sono io.
E non saranno sole. Con loro ci sarà qualcuno di determinante, ma che non sono riuscito in alcun modo a riconoscere.
A tal punto, le iridi in tumulto di Blake si accesero di una scintilla di sorpresa in più. – Fie...? Sono riuscite a trovarla?
- Non so se sarà lei. Ad ogni modo, con l’aiuto di Selma e delle sue doti, ahimè, più potenti delle mie, magari riusciremo a scoprire qualcosa in più. Che ne pensi?
Blake annuì. Poi fece per voltarsi di nuovo, per dirigersi verso l’atrio principale, ma Ephram lo trattenne ancora, afferrandolo per un polso e avvicinandolo a sè.
- Voglio che tu mi faccia una promessa.
E non te ne andrai via di qui fin quando non avrò sentito tali parole uscire dalla tua bocca – gli sussurrò. - Voglio che mi prometti che farai molto attenzione. Intensi? E che aspetterai di consultare me prima di fare qualsiasi mossa azzardata.
Quello che ho visto oggi non mi è piaciuto per niente, Blake.
Voglio sentirti giurarlo.
- Lo giuro – lo rassicurò il ragazzo, rivolgendogli uno sguardo quanto più rassicurante possibile.
Ephram lo guardò negli occhi per qualche altro minuto, come per scrutargli dentro e capire se stesse mentendo, poi lo lasciò andare.
- Mi farò vivo io la prossima volta – lo salutò lo stregone, per poi rivolgersi a Quaglia. – E tu vedi di non fare il piantagrane senza la mia guida, intesi? – gli disse amichevolemente, ricambiando la stretta dell’uomo.
Giunti all’uscita della dimora, dopo essersi rinfilato il mantello, Blake venne bloccato da Lilibeth.
La fanciulla lo guardò tristemente. – Siete riuscito ... ad andare a far visita a Beitris? – gli domandò.
A tali parole, il sangue di padre Craig gli si gelò nelle vene.
- No, non ancora – ammise Blake, condividendo il dolore della ragazza, mentre lei gli stringeva una mano in segno di solidarietà.
- Perchè non andate a trovarla? Sono certa che muore dalla voglia di vedervi.
Le farebbe molto bene ricevere una vostra visita.
Per me non è altrettanto semplice andare da lei: non scendo nel villaggio da molto oramai, inoltre non ho alcuna conoscenza all’interno dell’ordine monacale.
Voi, invece, non vi state giusto frequentando con la pupilla dei monaci?
Lei ha libero accesso alle segrete, come e quando vuole.
Potrebbe farvi entrare, se solo glielo chiedeste.
- No, assolutamente no – padre Craig non si rese conto di averlo detto ad alta voce, attirando gli sguardi confusi dei due.
Ora avrebbe dovuto giustificare la sua intromissione in qualche modo che sembrasse anche solo lontanamente palusibile e discreto.
Ma cosa mai avrebbe potuto dire?
Che non avrebbe mai permesso una cosa simile, perchè non avrebbe mai lontanamente rischiato che Beitris parlasse a Blake, e che gli rivelasse ciò che avevano fatto, l’atroce peccato che aveva compiuto con lei e che gli scottava ancora sulla pelle, facendolo sentire un condannato?
Mai.
- Mettereste a rischio Judith, se le chiedeste un favore simile. Insomma, i monaci si fidano di lei, e se scoprissero che ha lasciato libero accesso alle segrete a qualcuno al di fuori dell’ordine, anche se si trattasse del suo promesso, passerebbe guai seri. Non credete? – cercò di salvarsi all’ultimo, vedendo il volto di Blake scrutarlo assorto, come se stesse cercando di capire se vi fosse altro sotto.
- Sì, non avete tutti i torti. Metterei a rischio anche lei con una richiesta simile.
Ci ragionerò su – promise a Lilibeth, rivolgendole un sorriso dolce.
Dopo di che, i tre se ne uscirono dalla dimora, rincamminadosi verso il villaggio con sin troppi pensieri ad affollare le loro teste.
 
 
Come il monaco si ritrovò in quella situazione, era un mistero persino per lui stesso.
Come era degenerato il tutto?
Al momento, si trovava in un locale segreto e nascosto sotto la Taverna, un luogo che le locandiere avevano concesso di cedere ad una buona fetta della gioventù quattordicenne e quindicenne di Bliaint, senza distinzioni di culto, nè di sesso.
Vi erano sia servi del Diavolo, che del Creatore, sia ragazze che ragazzi, tutti coetanei.
Quel luogo era un tripudio di sangue, sudore e lidibo adolescenziale.
Era quasi spaventoso quanto emanasse vita pura, energia animale allo stato brado, e al contempo fosse il luogo più pericoloso sul suolo di Bliaint. 
Vi era un vociferare assordante, l’aria consumata, una tensione palpabile anche sottopelle; ma tutto ciò, invece di impaurirlo o affliggerlo, lo stava galvanizzando incontrollabilmente.
Non potè fare a meno di notare di essere osservato da molti.
In parecchi lo guardavano con ammirazione, molti altri intimoriti.
Terribilimente intimoriti.
Ma tutti quanti, dal primo all’ultimo, lo guardavano con estremo rispetto.
Un rispetto che padre Cliamon, nel corso della sua bene o male lunga vita, aveva ricevuto, certo, ma non in tal maniera e con così palese dedizione.
Quel ragazzo, a soli quindici anni era riuscito a guadagnarsi molto più rispetto di quanto il monaco ne avesse ricevuto in una vita intera.
Per l’ennesima volta, si chiese cosa significasse Folker per loro, che ruolo ricoprisse in quello strano e numeroso gruppo, ma soprattutto, cosa significasse ognuno di loro lì dentro.
Erano tanti, troppi giovani traboccanti di energia solida, di rabbia tutta da sfogare, incuranti di qualsiasi cosa.
Vi era altro da aggiungere?
L’ansia e la paura di far emergere repentinamente quanto si sentisse un pesce fuor d’acqua iniziò a pervaderlo.
Non sapeva cosa ci facesse lì, ma aveva ben compreso che quelle spigliata e famelica gioventù si ritrovasse quasi tutte le sere in quel buco, in totale segretezza, a far cosa non poteva saperlo, ma aveva iniziato a farsi un’idea.
Inizialmente gli era venuto il terrore che si trovassero lì sotto per sfogare selvaggiamente le loro voglie sessuali, in gruppo; ma poi, nel momento in cui aveva visto anche servi e serve del Creatore entrare in quel sotterraneo sin troppo spazioso, aveva compreso che la lussuria non doveva c’entrar nulla.
Sembrava esserci un patto tacito tra loro, che li metteva tutti d’accordo, e li univa in qualche modo, nonostante i culti differenti.
E questo, in qualche maniera contorta, era confortante da vedere.
Improvvisamente, due ragazzi, anche loro servi del Diavolo, si avvicinarono a lui.
- Ehi.
- Hai visto chi è tornato? – gli domandò uno di loro, indicando con lo sguardo la figura di Ambrose, il quale era insieme ad un gruppetto di servi del Creatore nel lato opposto della stanza, con le sue ferite già in via di guarigione.
Cliamon lo squadrò solo per un attimo, ma anche solo da quel poco, potè notare che Ambrose lo stesse fissando un po’ troppo, e con uno sguardo ben poco rassicurante.
- Ti sta guardando con quella brutta faccia da cane rabbioso da quando sei arrivato. Se si azzarda ad avvicinarsi ci penso io a lui – disse uno di loro, un giovane alto, dalla pelle scura.
- Non ce ne è bisogno. So difendermi. Sia qui che fuori di qui – gli rispose, cercando di imitare quanto più fedelmente possibile quello che avrebbe detto o fatto Folker.
- “La Congrega degli sciacalli non esiste se non qui dentro” – disse l’altro ragazzo. – È il nostro motto, ricordi? Tutto quello che succede qui dentro rimane qui dentro. È l’unica regola da rispettare, ma è essenziale, lo sai. Se solo i monaci avessero il sospetto di cosa succede qui sotto ogni sera, ci brucerebbero tutti su quel soppalco con la più ridicola scusa. Perciò i vostri problemi, tu e quel tipo, lasciateli qui dentro e risolveteli qui dentro. Fuori di qui è come se nulla fosse successo.
- Non è l’unica regola. Te ne sei improvvisamente dimenticato, Harney? – lo rimproverò scherzosamente l’altro. – “Non si colpisce il volto” e “Non si uccide nessuno”.
Il volto?
Uccidere?
Oh... ora stava iniziando davvero a capire, padre Cliamon. E la prospettiva di ciò che lo attendeva gli risultava addirittura peggiore di un’orgia collettiva seguita da un rituale al Diavolo.
- Abbiamo creato questo luogo perchè ne avevamo bisogno. O lo avete dimenticato? – intervenne una ragazza questa volta, anch’ella serva del Diavolo, intromettendosi nella conversazione.
- Amber! Non ci aspettavamo di vedere anche te qui, considerando come ti ha conciato male ieri quel servo del Creatore.
- Non era tanto grave come sembrava – si vantò la ragazza dalla lunga treccia color albicocca.
- Oggi Folker è più silenzioso del solito. Vero, Folker? Nonostante sia uscito di cella quell’infame di Ambrose, e abbia giurato di ridurlo in poltiglia non appena l’avesse rivisto qua sotto.
- Beh, non è il solo – commentò la ragazza, tirandosi su le maniche. – Quello che ha fatto a Barclay e il casino che ha scatenato con la storia delle strigi non va affatto giù neanche a me. Se non ci pensano Folker o Bridgette a farlo a pezzi, ci penso io.
Cliamon si chiese chi fosse Bridgette.
Poi però, la sua attenzione venne attirata da un ragazzo che giunse in mezzo allo spazio vuoto che tutti avevano lasciato.
Lo spazio per il combattimento.
Il giovane, che era un servo del Creatore, alzò la voce, pronunciando un nome:
- Voglio sfidare Nairolf.
Che accidenti di nome è...? si domandò il monaco confuso.
Poi, poco dopo, si fece avanti un altro ragazzo, evidentemente il succitato, anche lui servo del Creatore.
I due si lanciavano occhiate divertite, ma al contempo sembrava volessero uccidersi a vicenda.
Non attesero un momento di più per iniziare a picchiarsi violentemente, come se non vedessero l’ora di farlo, tanto da lasciare padre Cliamon totalmente senza fiato.
La violenza non sarebbe mai giunta al livello di ciò che aveva visto fare a Folker dentro quella cella. Tuttavia, sarebbe voluto scappare via di lì in quell’istante stesso, ma non poteva.
Tutti seguivano la lotta a mani nude con concitazione, e tifavano per l’uno o per l’altro, persino i servi del Diavolo.
Quando i due finirono entrambi a terra, sudati, rabbiosi, avvinghiati come due animali pronti ad azzannarsi la gola da un momento all’altro, padre Cliamon sperò che tutto ciò finisse il prima possibile.
Era orribile ciò che quei ragazzi facevano tutte le sere.
Non riusciva proprio a vedere due fanciulli picchiarsi in tal maniera, fino ad arrivare quasi ad uccidersi.
Aveva il terrore che qualcuno ne uscisse morto.
“Non si uccide nessuno”  la regola pronunciata poco prima da uno degli amici di Folker gli rimbombò nelle orecchie.
Dunque era questo che era accaduto a Barclay.
Ambrose si era spinto troppo oltre, e questo era stato il risultato.
Quando lo avevano trovato, il povero ragazzo sembrava esser stato maciullato e aveva la vita appesa ad un filo.
Era così che si divertivano i loro ragazzi, il futuro della nuova generazione di Bliaint?
Era questo che facevano per sentirsi vivi?  Per sfogarsi?
Arrivare a sfiorare la morte con le dita, sfidandola e provocandola, per provare il brivido di essere afferrati da lei da un momento all’altro?
Eppure, se non ve ne erano stati altri, prima di Barclay, a finire come lui, ciò voleva dire che erano stati attenti fino a quel momento, e che tenevano molto a cuore quelle tre regole.
Poi, al monaco tornarono in mente tutte le escoriazioni, le ferite e i lividi di cui era ricoperto il giovane corpo etereo di Folker, e che gli facevano ancora un male cane.
Era assurdo.
Era assoluta follia.
- Cos’è quella faccia da cucciolo indifeso? Non ho mai visto quell’espressione sul tuo viso prima d’ora - commentò uno degli amici di Folker, osservandolo, ghignando sorpreso. – Solitamente incenerisci tutti con gli occhi e li fai pentire di essere nati.
- Oggi la Belva ha abbassato la guardia – commentò anche Amber, divertita.
Avendo distolto la sua attenzione dal combattimento in corso, iniziò a far caso agli sguardi di tutti gli altri.
Nessuno osava incrociare i suoi occhi.
Tutti, tranne Ambrose, che continuava a fissarlo ogni quando ne aveva l’occasione.
Incuteva davvero così tanto timore?
Finalmente, fu decretato un vincitore nel momento in cui uno dei due urlò di essersi arreso.
Un grido collettivo si elevò, in onore del vincitore, il quale si rialzò in piedi e ritornò tra i suoi amici, esultando gloriosamente.
In seguito, fu il turno di due ragazze: una serva del Creatore che aveva sfidato una serva del Diavolo.
Lo stesso identico meccanismo del precedente duello: la prima aveva richiamato il nome, o meglio l’appellativo, della sfidante, e questa si era presentata dinnanzi a lei, pronta e col sorriso già vittorioso sulle labbra.
A cosa corrispondevano quegli strani nomi che si erano dati? Erano appellativi inventati di sana pianta per evitare di svelare a tutti i presenti il loro vero nome, o contribuivano solo maggiormente a creare un’atmosfera di estraneità che avrebbe ricordato loro, a chiare lettere, che ciò che stavano facendo era solo una bolla che si erano costruiti, una vita parallela divisa da quella vera, e che sarebbe potuta svanire e dissolversi da un momento all’altro?
Vedere due fanciulle accapigliarsi come due felini scalpitanti e imbizzarriti, ferendosi, urlando con ferocia e distruggendosi a vicenda, fece provare al monaco una sensazione di nausea ancor più forte di prima.
Vinse la serva del Diavolo.
Poi fu Amber a sfidare qualcuno. Chiamò a sè un ragazzo, un servo del Diavolo.
Un uomo contro una donna?
Non sarebbe stato affatto leale, fu la prima cosa che pensò il monaco, avendo già paura per lei.
Il suo sfidante non era messo affatto male di stazza, eppure, con sua grande sorpresa, la ragazza possedeva una furia incontrollabile e una tecnica invidiabile, e vinse la sfida, urlando per la vittoria.
Dopo aver vinto, afferrò un’altra delle fanciulle presenti per la nuca e le stampò un bacio che non aveva nulla di casto alle labbra, come se niente fosse.
Risero. Quei ragazzi ridevano felici, liberi, energici, spontanei come solo i fanciulli potevano essere, come se il combattere l’uno contro l’altro fosse la cosa migliore capitata in vita loro.
Fu il turno di due servi del Diavolo di sfidarsi, due ragazzi.
Poi un servo del Creatore contro uno del Diavolo.
Poi una serva del Creatore contro un servo del Diavolo, e così via.
Vide più di dieci giovani sfidarsi quella sera, sfilare davanti a lui vittoriosi o sconfitti, pulirsi il sangue dai tagli con disinvoltura e non curanza, quasi come non sentissero alcun dolore.
Pian piano, il terrore e la paura si trasformarono in ammirazione e libidine.
Era come se quel luogo stesse cominciando ad influenzare anche lui.
Poi, finalmente, giunse il momento tanto temuto e atteso. Da tutti a quanto pare.
Nessuno aveva osato sfidarlo.
Nessuno osava sfidare Folker, perchè chiunque lo desiderasse o anche solo ci avesse pensato di sfuggita, sapeva di aver perso già in partenza, oramai il monaco lo aveva inteso.
Il ragazzo era uno dei più temuti lì dentro, e sembrava esserlo anche Ambrose.
Ambrose, che ora era giunto in mezzo a quello spazio circolare, osservato da tutti.
Forse, in molti non avrebbero mai creduto che osasse sfidarlo, lo iniziò a pensare quando quel ragazzo aprì la bocca, guardandolo fisso negli occhi, e pronunciò un nome, uno dei soliti nomi in codice:
- Chirteid.
Tutti impietrirono e si voltarono a guardare Folker, esattamente come stava già facendo Ambrose, il quale aveva un ghigno a metà tra l’impaziente e il vendicativo stampato in quel volto inguardabile.
Il ragazzo lo attendeva e lo fissava, sfidandolo con lo sguardo, perforandolo con quei suoi occhi scuri e rabbiosi, ogni secondo di più.
Considerando ciò, e come lo stavano guardando anche tutti gli altri, padre Cliamon capì che quell’appellativo dovesse corrispondere a lui.
Chirteid... per cosa stava?
Poi, un sottile ricordo fece capolino nella sua mente:
“D.K.
Ho imparato a scrivere solo queste due lettere, per inciderle qui.
Le iniziali dei nostri primi nomi: Dietrich e Katrin”
“Dietrich” ripetè tra sè. Era il primo nome di Folker.
Dietrich. Chirteid.
Ora era tutto chiaro.
Gli appellativi di ognuno lì dentro, consistevano nel loro primo nome al contrario.
Che strana decisione.
- Allora, Folker, cosa stai aspettando, la manna dal cielo, per andare a fronteggiarlo? Stiamo aspettando tutti te – lo risvegliò dai suoi pensieri Amber.
- Non è da te fartela addosso e non fiondarti immediatamente contro il tuo sfidante.
Specialmente se si tratta di quel bifolco piantagrane – lo stuzzicò un altro dei suoi amici. – Avanti, fagli vedere cosa sai fare e fagli rimpiangere di essersi permesso di pronunciare il tuo nome.
Il monaco strinse i pugni e fece come gli avevano detto, come tutti si aspettavano che Folker agisse.
Si presentò davanti ad Ambrose a testa alta e senza paura.
Ora che lo vedeva da vicino, si rese conto che, senza le catene addosso e non più rannicchiato a terra come un rifiuto umano, fosse davvero molto alto e ben piazzato.
Aveva il classico corpo da figlio di contadini, forgiato dai lavori nel campo, dal pascolo e da molte altre attività rozze e che richiedevano una gran forza fisica.
Aveva le spalle decisamente larghe, era lievemente gobbo, e possedeva la statura di un gigante, tanto da superarlo in altezza di almeno uno spanna.
Ora sì che faceva paura Ambrose. Con quelle mani enormi, tozze e frementi, che non vedevano l’ora di stamparglisi addosso e di squarciargli la pelle.
Di nuovo, si chiese cosa potesse mai avere dentro di sè Folker, per essere così forte, temuto ed invidiabilmente bravo nella lotta corpo a corpo, dato che le sue forme e i suoi tratti lasciavano presagire tutt’altro.
Era il completo opposto del bestione di fronte a sè: alto sì, ma dal corpo affilato, affusolato, efebico e sinuoso. Non avrebbe osato dire che fosse delicato come avrebbe pensato potesse esserlo una fanciulla, perchè non lo era e non dava neanche quell’idea; tuttavia, nel guardare il volto di Folker per la prima volta, padre Cliamon aveva pensato che potesse arrossarsi o rovinarsi anche solo per una carezza troppo forte.
Intorno a loro vi era un silenzio tombale, come se gli altri presenti avessero atteso quello scontro per tutta la sera.
Ambrose lo guardò, e gli fece una domanda che, Cliamon ne ebbe quasi la certezza, sarebbe stata l’unica gentilezza che gli avrebbe concesso durante la serata:
- Sei pronto?
In quel momento, i lombi del monaco si accesero, così come anche la voglia di combattere contro quel ragazzo. – Ovviamente – gli rispose.
A ciò, arrivò il primo colpo di Ambrose, che padre Cliamon schivò sorprendentemente, meravigliandosi dei propri riflessi. Dopo di che, iniziò anche lui ad attaccare.
Gli corse incontro e gli sferrò un destro devastante per lo zigomo dell’altro, con quelle nocche spigolose che si ritrovava temette quasi di avergli rotto qualcosa, nel momento in cui lo vide voltare tutta la testa dall’altra parte e fare qualche passo indietro, perdendo l’equilibrio.
Ma Ambrose rimase in piedi, e ora più iracondo di prima gli corse incontro facendogli temere il peggio.
Difatti arrivò. Tremendamente doloroso, tanto da togliergli il respiro.
Un pugno sullo stomaco che lo fece tossire forte e ripetutamente, facendolo piegare in due.
Resta in piedi. Resta in piedi.
Nonostante le gambe gli stessero cedendo per il dolore, l’adrenalina lo stava animando dall’interno, facendogli iniziare veramente a capire come si sentissero quei ragazzi, e come mai piacesse loro così tanto riempirsi di botte.
Rimase in piedi, retto dalla potente volontà d’animo, da un’energia inesauribile e dalla determinazione, caratteristiche che aveva imparato Folker avesse da vendere.
Senza dargli il tempo di riprendersi, Ambrose si scagliò di nuovo su di lui, ma, ancora, il monaco si scansò, con un’agilità e una compostezza da far invidia.
Sfruttò il fatto che Ambrose avesse lanciato un tiro a vuoto, per colpirlo inaspettatamente e senza lasciargli il tempo di rendersene conto, dandogli una dolorosissima gomitata sulla nuca, che gli fece emettere un roco urlo di dolore.
- Non stai seguendo le regole, Chirteid... – ansimò Ambrose, voltandosi a guardarlo con una smorfia dolorante. – Non si tocca il viso.
- La nuca non è il viso fino a prova contraria – gli rispose, non riuscendo quasi a terminare la frase, in quanto gli arrivò un altro colpo, questa volta una violenta testata sul petto che temette potesse fermargli il cuore in eterno, oltre a togliergli il respiro.
Ambrose gli si era scagliato addosso come un toro, spaccandogli quasi la cassa toracica, trascinandolo con sè, fino a farlo cadere a terra; ma prima che gli arrivasse un altro colpo, Cliamon si rialzò in piedi con un balzo e schivò l’ennesimo pugno, assoporando ancora una volta, ma in maniera molto più soddisfacente ora, quanto il corpo di Folker fosse piacevolmente flessuoso, agile e scattante.
Tutti elementi che andavano a suo grande vantaggio al momento.
Il petto ancora gli faceva male e lo stomaco anche, ma non demorse.
- Avanti, Chirteid!! – lo incoraggiarono i suoi amici, e molti altri.
- Non ascoltarli, divoratelo vivo, Eråk! – si unirono anche gli amici di Ambrose.
Nonostante non avesse mai combattuto corpo a corpo, padre Cliamon stava tenendo testa a quel giovane ragazzo che era il doppio di lui; ciò lo galvanizzò e lo rese fiero di sè.
Quando Ambrose ripartì con un altro vigoroso attacco, Cliamon si ricordò della scena a cui aveva assistito alle segrete, facendosi tornare alla memoria qualcosa che gli sarebbe stato sicuramente utile ora: Folker usava moltissimo le gambe e i piedi, nella lotta; erano decisamente i suoi cavalli di battaglia le sue gambe lunghe e forti. Il monaco aveva ancora ben impresso nella mente lo stivale di quel ragazzo che si schiantava con furia inaudita sul volto del servo del Creatore contro cui stava combattendo ora.
Seguendo il suo istinto, lanciò uno spietatissimo calcio nelle zone intime di Ambrose, facendolo gemere dolorosamente e inginocchiare a terra per il dolore.
Aveva puntato allo stomaco, ma quel piede era capitato decisamente più in basso, e al momento non se ne pentiva, dato che ciò gli avrebbe fatto guadagnare un bel po’ di tempo.
Ma Ambrose si riprese più velocemente di quel che si aspettava.
Quel ragazzo era davvero un portento. Alzò gli occhi su di lui, ancora inginocchiato, lanciandogli uno sguardo di fuoco, lo stesso sguardo che il monaco si immaginava nel volto di qualcuno che stava per commettere un assassinio a sangue freddo.
I suoi occhi traboccavano di odio, e anche di qualcos’altro che non riuscì a decifrare.
Ambrose si rialzò in piedi e gli saltò direttamente addosso, non dando neanche il tempo al monaco di capire cosa stesse succedendo, che si ritrovò disteso a terra, con quel bestione addosso, a gravare su di lui col suo peso e con tutta la sua furia.
Sbattè forte la testa sul pavimento nel momento in cui cadde a terra, provando una tremenda sensazione di vertigini, e dolore in tutto il corpo a causa della caduta e della posizione scomoda a cui l’altro lo aveva costretto.
Ambrose gli si era messo sopra a cavalcioni, stringeva le gambe attorno ai suoi fianchi con forza, per limitargli ancor di più i movimenti, e, infine, come se non bastasse, gli aveva afferrato entrambi i polsi con una sola mano, ed ora li teneva stretti sopra la sua testa, a contatto col pavimento.
Era letteralmente immobilizzato.
Provò comunque a ribellarsi, anche se inutilmente, muovendo la testa a destra e a sinistra convulsamente, avvertendo le ciocche di capelli oramai sciolte coprirgli occhi e bocca pesantemente, come fruste.
Si arrese e restò fermo, con il volto contrito rivolto verso il suo sfidante, che lo guardava dall’alto, immobile.
Padre Cliamon non si era nemmeno reso conto di star digrignando i denti.
Tuttavia, qualcosa nello sguardo di Ambrose lo sorprese enormemente: il ragazzo sembrava.. combattuto, mentre lo teneva fermo a terra.
Lo fissava con degli occhi di fuoco, rancorosi e arrabbiati, sì, tuttavia anche velati di un pizzico di amarezza e dolore malcelati.
Era come se stesse in qualche modo soffrendo con lui mentre gli faceva del male.
- Perchè continui a torturarmi così? Vuoi spiegarmelo..? – gli domandò, sussurrando, sapendo che nessun altro degli altri presenti avrebbe potuto udirlo da quella distanza.
- Cosa...? – gli domandò confuso padre Cliamon, non sapendo realmente come reagire a tal domanda, e non sapendo nemmeno come avrebbe potuto reagire il vero Folker.
D’altronde, il monaco ancora non conosceva il rapporto che intercorreva tra Ambrose e Folker e se ciò riguardasse effettivamente solo ciò che il primo aveva fatto a Barclay.
Era uno dei punti ciechi di tutta quella storia.
Ora come ora, padre Cliamon era certo solamente del fatto che vi fosse moltissima tensione e rabbia tra i due.
- Io non volevo farti questo... non ho mai voluto fracassarti di botte in questo modo.
Sei tu che mi hai costretto.. voglio sapere perchè. Cos’hai contro di me, Folker? Dimmelo.
- Non capisco...
- Hai anche perso tua sorella da poco. Sei in lutto. Non avrei mai voluto infierire..
- Non nominare mia sorella.
- Ciò che ho fatto a Barclay è stata solo una conseguenza, un modo per fartela pagare, ed è stato davvero un incidente... non volevo spingermi così in là, ma tu ...
- Beh, avresti dovuto trattenerti. Se “incidenti” del genere capitassero ancora, ti giustificherai sempre e solo con la stessa scusa?
- Tu mi mandi fuori di testa! – esclamò stringendogli la sua grande mano intorno al collo. – Dimmi perchè, Folker. Dimmi perchè ti sei accanito contro di me, tra tutti. Finiremo per ammazzarci a vicenda se andiamo avanti così, ma tu sembri non volerla far finire mai.. neanche fuori di qui.
- Non è questo lo scopo per cui abbiamo creato questo posto? Ammazzarci a vicenda?
- No, lo sai che non è questo! Rispondimi, Folker. Cosa ti ho fatto? Perchè hai detto quelle cose su mia sorella, senza alcuna ragione...? Perchè?? Niente di tutto questo sarebbe successo, e ora tu non saresti qui steso sotto di me, se solo ti fossi scusato come ti avevo chiesto di fare ...
Quel ragazzo stava parlando di faccende che il monaco non poteva minimamente conoscere e a cui non sapeva come rispondere.
Dunque, Folker sembrava avercela molto con lui, e senza una motivazione logica.
Quasi come per gioco o per noia, azzardò.
E i due se ne erano fatte di cotte e di crude a vicenda, a quanto sembrava.
La questione era più intricata di quanto si aspettasse, e non aveva il tempo di pensare a cosa rispondere, non conoscendo l’intera faccenda.
Decise, dunque, di seguire il suo istinto, che al momento stava scalpitando rabbiosamente come un leone in gabbia, e di attenersi quanto più fedelmente possibile all’atteggiamento scontroso, caparbio e velenoso del vero Folker.
- Ho detto quelle cose su tua sorella... perchè avevo voglia di farlo. Semplicemente – gli soffiò in faccia in un sussurro maligno, alzando lievemente la testa da terra, guardandolo fisso in quei suoi occhi scuri che si incupirono ancora di più, nuovamente accecati dall’ira e dalla furia ora, ma molto più di prima.
- Non ti basta come spiegazione..? Lascia che te lo dica in un altro modo ... – sussurrò Cliamon ghignando velenoso, non riconoscendosi più mentre pronunciava tali parole e agiva in tal modo con spaventosa naturalezza. Desiderò fagli perdere le staffe, come prima, per proseguire il combattimento.
E dato che Ambrose sembrava ancora starsi trattenendo nonostante le cattiverie gli che aveva detto, decise di optare per un metodo infallibile: gli sputò in faccia, come goccia per far traboccare quel vaso sin troppo pieno.
Vide il proprio sputo finire sul ponte del naso ricurvo del ragazzo sopra di lui, facendogli chiudere gli occhi per un istante, in un riflesso involontario.
Sorrise ancora, soddisfatto del suo operato, mentre, intorno a loro, tutti si erano ammutoliti in seguito a quel gesto.
Anche coloro che avevano continuato a fare il tifo e che li incoraggiavano a riprendere la lotta fino ad un momento prima, ora si erano zittiti, come se già sapessero la gravità di ciò a cui avrebbero assistito da quel momento in poi.
- Distruggilo, Eråk!! Fallo pentire di essere venuto al mondo dopo ciò che ha fatto! Togligli quel sorriso diabolico dalla faccia!!
- Sai... – iniziò Ambrose, con una voce completamente diversa ora, che fece provare un brivido di freddo lungo la schiena del monaco, il quale si rese realmente conto solo in quel momento di cosa avesse fatto. Il ragazzo sopra di lui rinforzò la presa sui suoi polsi fino a conficcargli le unghie nella carne, facendo gemere Cliamon di dolore. Poi, prima di continuare a parlare, si asciugò il naso dalla saliva che gli era colata fino alla punta, con la manica della maglia, per poi rivolgergli un sorriso pregno d’odio e afferrargli le mascelle con la mano, fino ad alzargli il viso innaturalmente, portandolo vicino al suo. Si abbassò su di lui ancor di più, fino a far scontrare i loro respiri rabbiosi. - ... conosco bene le regole della nostra congrega. Eppure... penso che oggi farò uno strappo alla regola. Anche se poi dovrò pagarne le conseguenze, non importerà... perchè la soddisfazione di averlo fatto, ripagherà tutto – continuò, stringendogli le mascelle ancor più forte. – Ho sempre voluto rovinarti questo bel faccino da capogiro. Preparati, maledetta arpia, perchè ti sto per massacrare – fu l’ultima cosa che udì, prima di venire letteralmente assaltato con una raffica di pugni e schiaffi tremendi, tutti destinati al suo viso.
La bestia che lo stava tenendo ancorato a terra mantenne la parola e godette di gioia nel tentare di sfigurarlo con tutti quei colpi diretti dritti in faccia.
Fortunatamente, prima che fosse troppo tardi, gli altri intervennero e lo fecero staccare a forza da lui, allontanandolo.
- Ti sei ingoiato il cervello, Eråk?!? Non ricordi le regole?! Adesso chiunque lo vedrà saprà che gli è successo qualcosa! Allora?? Non ti è bastato essere finito in catene e aver rischiato il rogo?! – lo attaccò uno degli amici di Folker, insieme ad altri ragazzi, pronti a difenderlo.
Ambrose non rispose, era ansimante, ancora rabbioso, ancora famelico, e continuava a guardare truce quello che credeva essere Folker, il quale aveva il viso martoriato e insanguinato ora, sputava a terra sangue misto a saliva e si riusciva a reggere in piedi a malapena.
Ora Ambrose aveva le mani sporche del sangue del suo nemico, e sembrava andarne più che mai fiero, neanche avesse raggiunto lo scopo della sua vita.
Qualsiasi punizione gli sarebbe andata bene per quella piccola violazione.
Cliamon, dal canto suo, lasciò che uno dei ragazzi gli esaminasse il volto, e lo ripulisse alla bell’e meglio con un panno. – È meno grave di quanto sembri.. sei stato fortunato. Ancora altri due o tre colpi e ti saresti ritrovato con il naso rotto e qualche dente in meno. Ora invece non hai nulla più di un labbro spaccato in diversi punti, due occhi neri e qualche ematoma su zigomi e mascelle.
- Quella dannata bestia! – esclamò Amber avvicinandosi a lui. – Potrà anche non avere danni irreparabili, ma come lo spiegherà ai suoi genitori perchè è ridotto così? Finchè gli ematomi sono sotto i vestiti, siamo tutti bravi a nasconderli con dovizia, ma quando sono in viso... cosa dirà? – domandò legittimamente la ragazza rivolgendosi all’altro fanciullo che gli stava controllando il viso.
- La pagherà!
- Puoi giurarci – aggiunse un altro.
- Il vostro amico è una serpe! Avete visto cosa ha fatto ad Ambrose! Avete visto come gli ha mancato di rispetto?? Si sarebbe meritato anche di peggio! È un demonio!
- Una parola che vi divertite ad associare sin troppo spesso negativamente a noi, voi servi del Creatore, non credete?? - rispose per le rime Amber, al servo del Creatore accanto ad Ambrose che aveva parlato.
Improvvisamente, la discussione venne interrotta dalla botola che dava accesso verso l’alto che si aprì, dalla quale entrò una figura che Cliamon riconobbe.
La sorella di Barclay, vestita di tutto punto da locandiera, scese le scalinate che davano accesso a quel sottorraneo sotto la Taverna.
Fu in quel momento che il monaco comprese: la sorella di Barclay era una locandiera, e doveva dunque esser stata lei a lasciar loro libero accesso per praticare quell’“attività” là sotto, indisturbati, creando così la Congrega degli sciacalli, come l’avevano nominata.
Sopra di loro, difatti, imperversavano i classici rumori dei clienti della Taverna affollata in tarda serata, che stramazzavano, bevevano, ridevano ed emettevano abbastanza rumore da non udire ciò che stava accadendo sotto di loro.
- Ehi, Bridgette! Volete contribuire anche voi? – le domandò uno dei ragazzi, non appena la vide arrivare.
- Non ci provate. L’ho fatto solo una volta, presa non so da quale ebbrezza e follia momentanea, ma non lo farò mai più – rispose lei, per poi aggiungere: - Ad ogni modo, state facendo troppo rumore! Alcuni clienti potrebbero iniziare a sentirvi! – si lamentò, rimanendo attonita nel momento in cui posò lo sguardo su di loro, e notò il volto di Folker coperto di sangue.
- Non si era detto “Niente viso”?? – esclamò, correndo verso di lui, a metà tra l’allarmata e il contrariata.
Gli controllò le ferite sul volto, ma non chiese chi fosse stato.
Lo guardò semplicemente negli occhi e gli sussurrò qualcosa, in modo intimo e amichevole, ma pur sempre serio e autorevole: - Io e le altre ragazze non vi abbiamo permesso di creare questa congrega e questo spazio qui sotto per farvi ammazzare tra voi come bruti; bensì per trovare uno sfogo, un momento condiviso, unico, solo vostro, che possa farvi prendere una boccata d’aria da tutto ciò che vi attende là sopra, tra cui famiglia, credo, monaci, battesimi, matrimoni combinati, roghi e quant’altro.
Non voglio che si ripetano altre vicende come quella di Barclay.
Se dovesse riaccadere e qualcuno scoprisse qualcosa... ci andremmo di mezzo anche noi locandiere.
Sono stata abbastanza chiara? – gli disse, intossicandolo con il suo profumo di gelsomino, incatenandolo a lei con quegli occhi incantatori.
Cliamon annuì, senza dire una parola.
- Bene. Ora lascia che ti medichi il viso, non puoi tornare a casa conciato in quel modo, Belva.
Il monaco accennò un amaro sorriso, pensando al fatto che la giornata stesse per giungere al termine oramai, e che appena si fosse svegliato la mattina seguente, si sarebbe ritrovato nel suo vecchio, odiato e sgradevole corpo di padre Cliamon.
Mentre Folker, il povero Folker, si sarebbe risvegliato nel corpo che gli apparteneva di diritto, senza ricordare nulla di cosa fosse avvenuto in quella giornata. Un corpo che il monaco aveva contribuito a massacrare ancor di più di quanto già non facesse da solo.
Ed ora, Folker come avrebbe giustificato quel labbro martoriato, quegli ematomi sulle guance e quegli occhi neri, ai suoi genitori la mattina dopo, senza sapere come se li fosse procurati?
Aveva creato solamente caos e confusione, quel giorno, mettendo in pericolo quel ragazzo, nonchè aveva fatto l’unica cosa che si era ripromesso di non fare.
Tuttavia, almeno, ora aveva una visione d’insieme più chiara e conosceva un bel po’ di informazioni riguardo la questione “Barclay”, oltre al fatto che era venuto a conoscenza della notturna Congrega degli sciacalli.
- Oggi sei diverso dal solito – gli disse Birdgette, scrutandolo, senza aggiungere altro.
Buffo. Buffo che proprio lei, tra tutti, se ne fosse accorta, pensò il monaco.
 
Padre Craig varcò la soglia della cattedrale del Creatore, come era solito fare.
Era tarda serata e dentro la grande struttura sembrava non esserci nessuno.
Era totalmente vuota, buia e silenziosa, tanto da assumere tinte spettrali.
Il giovane prete fece per sedersi su una delle sedie di una navata, ma un rumore attirò la sua attenzione.
- Non mi aspettavo di vedervi qui a quest’ora.
Quella voce.. deliziosa come seta e al contempo ferma e distaccata, adulta, nonostante la giovane età della sua posseditrice. L’avrebbe riconosciuta tra mille.
L’eco dei passi dei tacchi di Judith echeggiò per il salone, fino a giungergli a qualche metro di distanza.
La ragazza accese le candele di uno dei tanti candelabri, con un piccolo lume.
La luce fioca accarezzò il suo volto incorniciato dalla chioma scarlatta e sciolta, e il suo corpo voluttuoso.
Molto magro, ma pur sempre voluttuoso, coperto da una spessa vestaglia nera pregiata.
- Come mai siete ancora sveglia? – le domandò.
- Non riuscivo a dormire – gli rispose, senza alcuna inclinazione particolare nel tono.
Padre Craig provò un fiume di sentimenti diversi in quel momento, guardandola: senso di colpa, frustrazione, tristezza, preoccupazione, gioia, affetto, sollievo ... amore? Desiderio?
Ma che tipo di amore e che tipo di desiderio?
Se lo domandò, mentre la vedeva avvicinarsi a lui, leggera ed eterea come un fantasma, e sentiva cedergli le gambe e il cuore.
- L’ultima volta che ci siamo incontrati qui... a quest’ora della sera.. voi avevate erroneamente udito e visto me e Naren, violare le sacre regole di Bliaint, amoreggiando peccaminosamente.
A quanto pare ... non vi siete ancora tolto il brutto vizio di venire qui ad orari improponibili, padre – gli disse lei accennandogli un sorriso indefinibile. Dolce forse, ma anche infinitamente malinconico, al contempo.
La ragazza si diresse verso la saletta per le confessioni, senza dire una parola.
- Cosa state facendo? – le domandò il giovane prete.
- Ve lo leggo negli occhi, padre, oramai vi conosco. Siete qui per confessarvi – gli disse come fosse ovvio, guardandolo da dentro la stanzetta, attendendo che la raggiungesse e prendesse posto dall’altra parte dell’abitacolo.
- E ... vorreste confessarmi voi?
- Ci sono solo io qui ora. E poi, lo faccio già da anni, confessare servi del Creatore per aiutare i miei generosi tutori, nonostante io non faccia parte dello stesso culto.
Ora hanno iniziato a farlo anche loro, con i servi del Diavolo, avete saputo?
- Sì, ho saputo. E ne sono felice.
È bello sapere che le menti dei membri di entrambi i culti stanno iniziando ad aprirsi.
- C’è ancora molta strada da fare, tuttavia.
Padre Craig decise di raggiungerla, entrando nell’abitacolo con lei, dalla parte del confessato.
- Mi vorrei confessare, sì – le disse, avvertendo un enorme macigno comprimergli lo stomaco.
- In assenza dei monaci del monastero in cui vi trovate, sarò io il vostro confessore, ufficialmente incaricato dai padri di questa cattedrale – le parole di rito vennero pronunciate dalla ragazza.
- È strano, sapete..? Fare questo con voi – ammise il giovane prete, abbassando lo sguardo.
- Non abbiate timore o imbarazzo, padre. La nostra profonda amicizia non deve precludervi dal confessarmi ciò di cui desiderate liberarvi dinnanzi al vostro Dio.
La sua voce era fredda, stanca, ma anche dolce e melodiosa in qualche modo.
- Prima di iniziare... posso chiedervi come sta il vostro bambino?
- Bene, padre. Lo sento ancora dentro, vivo, in me, come sempre. Ho ripreso a mangiare, per tenerlo in vita. Me lo avete già domandato ieri, quando ci siamo visti per poco, e vi ho consegnato la lettera da dare a Blake. Perchè me lo state ridomandando ora?
Al solo udire nominare quella lettera, il colorito del monaco sbiancò immediatamente, e un’altra violenta ondata di senso di colpa lo invase.
Come se Judith potesse percepirlo o riuscisse a leggerlo dentro, gli disse: - Avete consegnato la mia lettera a Blake, padre?
Il cuore gli stava scoppiando dentro la cassa toracica.
Si dannò, si dannò più e più volte, e dannò anche la sagacia di quella ragazza, la sua empatia, il suo modo di conoscerlo, quasi meglio di chiunque altro.
Lo conosceva troppo bene, oppure, sospettava qualcosa già da un po’, aveva carpito cosa stesse avvenendo dentro di lui.
Forse era quella la ragione di quella atmosfera così strana e tesa tra loro due.
Sorprendentemente, proprio mentre stava seriamente iniziando a sudare freddo e a bagnare la tunica, Judith riprese a parlare, senza attendere una risposta:
- Che peccato volete confessare, fedele? – gli domandò ella, ritornando nel suo ruolo di confessore, che, forse, non aveva mai abbandonato.
Giunto a quel punto... lo disse.
Lo disse per liberarsene e perchè, infondo, Judith era sin troppo intelligente, e stava aspettando solo che lo dicesse.
- Credo di essermi innamorato.
Silenzio.
- Perchè credete sia un peccato, provare amore per qualcuno? – domandò la ragazza apparentemente atona, dopo infiniti attimi di attesa.
- Perchè ho fatto un giuramento a Dio, quando ho preso i miei voti.
Un giuramento che mai, mai e poi mai avrei pensato di infrangere.
- Le persone di cui siete innamorato ... lo sanno?
Padre Craig ammutolì per un attimo.
Dunque sì. Ella lo sapeva.
Sapeva che li amasse. Entrambi.
- Padre? Vi ho chiesto se lo sanno.
- Non lo so.. potrebbero sospettarlo – disse sinceramente.
Quel gioco non gli piaceva, e Judith lo sapeva bene.
Era sicuro che ella lo stesse punendo. Lo stesse punendo per i suoi sentimenti disgustosi e peccaminosi.
- Prima mi avete chiesto per quale motivo vi avessi ridomandato di nuovo come stesse il vostro bambino - disse improvvisamente il giovane prete. – Perchè sono preoccupato per voi, Judith. Non posso fare a meno di esserlo. So che siete in conflitto con voi stessa, ultimamente. So che avete bisogno di certezze..
- Eppure, nonostante tutto, non avete dato la mia lettera a Blake.
- Mi chiedo perchè ci debba sempre essere il fantasma di Blake ogni volta che parliamo e siamo soli, noi due.
A quell’affermazione del prete, la ragazza sorrise amaramente. – Siete voi a volerlo, per primo, padre, e faticate persino a rendervene conto. Siete voi ad avere sempre il suo nome tra le labbra.
Padre Craig ammutolì di nuovo, non sapendo come controbattere.
- Tuttavia ... – le rispose poco dopo. – Non potete negare di sentire terribilmente la sua mancanza.
- Certo che lo ammetto – la voce di lei esalava amarezza e disperazione. – Non potrei fare altrimenti che ammetterlo. Davanti a voi, davanti al Signore, davanti a chiunque.
- Beh... – la voce di padre Craig ora era ridotta all’osso, frantumata dall’interno, dal dolore e da quella dannata gelosia che stava diventando un vero problema, e non riusciva a controllare. – Sarete felice di sapere che sono quasi certo che egli vi ricambi. Sente molto la vostra mancanza e ne soffre ... – ammise, facendo molta fatica a confessarglielo. Tuttavia, si impose di lasciare che l’amicizia, la profonda amicizia che li univa, prevalesse su tutto il resto, su qualsiasi altro sentimento peccaminoso e dissoluto provasse.
Una lacrima solitaria rigò la guancia di Judith, facendo provare al giovane prete il desiderio di asciugargliela delicatamente con le dita.
- So che non è giusto quello che sto facendo ... – ammise lui. – Non so neanche io perchè non gli ho consegnato la vostra lettera.
- Io invece sì.
Sapete, padre, Blake ha il brutto difetto di non curarsi dell’amore.
Dell’amore che gli viene donato o negato.
A lui, semplicemente non importa. Non lo vede, non lo sente e non se ne cura, perchè ha molto altro per la testa.
Per tale motivo, nonostante io abbia grandissima stima di lui e lo ritenga il ragazzo più intelligente che abbia mai conosciuto, credo proprio che lui non se ne sia accorto.
Dei sentimenti che provate per lui. Benchè questi siano a dir poco evidenti.
È come se desse già per scontato di essere una persona impossibile da amare.
Dunque potete stare tranquillo, almeno per quanto riguarda lui.
Nel mio caso, invece, è diverso.
L’amore... in particolare l’amore di una famiglia, mi è stato negato così tante volte ... che oramai ho imparato a riconoscerlo a chilometri di distanza.
Lo sento, lo vedo, lo percepisco sin sottopelle, in tutta la sua intensità o fievolezza, qualsiasi tipo di amore.
Semplicemente, me ne accorgo immediatamente, quando un uomo o una donna, provano un tale sentimento nei miei confronti – gli disse guardandolo negli occhi, nonostante il reticolato a dividerli, nonostante il buio.
Gli perforò lo sguardo con le sue biglie nere e spettrali, dal fascino conturbante, inchiodandolo sul posto.
Era stata sin troppo chiara e concisa.
Ciò che aveva da dire non era nascosto tra le righe, bensì era evidente, ben esposto alla luce del sole, e padre Craig non seppe minimamente come reagire.
In quanto suo confessore, Judith avrebbe potuto domandargli da un momento all’altro quali fossero i nomi delle due persone che amava, per ricevere l’ennesima inutile conferma, avente il solo scopo di farlo sotterrare ancor di più nella sua vergogna e disperazione; e lui avrebbe dovuto necessariamente risponderle.
Tuttavia, non fu ciò che fece la ragazza, la quale si mostrò misericordiosa e altruista come solo lei sapeva essere: una giustiziera impetuosa e serafica, ma dal cuore grande e buono.
- Ho già commesso sin troppi peccati imperdonabili ultimamente, padre; perciò non temete: non costringerò il mio più caro amico a confessare qualcosa che non riesce ancora ad accettare, e per cui so già si flagella giorno e notte. Potete andare – gli disse, lasciandolo attonito.
- Judith...
- A patto che ... – riprese poi la ragazza, riscuotendolo di nuovo con la sua voce. – A patto che non giochiate più sporco quando si tratta di Blake e del mio rapporto con lui. Ciò che c’è tra me e lui non vi riguarda e non dovrete più osare mettervi in mezzo. Non consegnargli la mia lettera è stato un grande passo falso da parte vostra, che non dovrà mai più ripetersi.
Prima o poi dovrete comprendere, padre, che per quanto intensamente lo amiate, non potete chiudere Blake dentro una campana di ferro e tenerlo solo per voi.
Egli è uno spirito libero, implacabile, e verrà amato da un infinità di persone differenti nel corso della sua vita.
Prima lo accetterete, prima smetterete di soffrire – gli disse infine, per poi uscire dallo stanzino e cominciare a camminare verso le scalinate che l’avrebbero condotta verso le camere.
Ma padre Craig uscì a sua volta, bloccandola in fretta e furia richiamando a gran voce il suo nome, che risuonò per tutta la cattedrale vuota e buia.
- Judith!
Vide la fanciulla arrestare la sua camminata, a distanza, ma rimanere di spalle.
- Io non so quali siano i vostri sentimenti per Blake... e ciò non mi riguarda, lo so.
Tuttavia, vi prego, ho bisogno di saperlo.
Con Blake ho perso la speranza già in partenza, ma con voi ...
Ho bisogno di sapere se almeno voi sareste mai in grado di ricambiare i miei sentimenti, e di amarmi come avete amato Van Naren un tempo.
Vi prego, ditemelo ... ho bisogno di udirlo dalle vostre labbra – la supplicò, facendo emergere dalla sua voce tutta la sua disperazione, attendendo il verdetto come un condannato a morte in attesa della sua esecuzione.
Scorse il profilo della ragazza emergere nel buio, e voltarsi verso di lui, nuovamente.
Non riuscì ad osservare bene i suoi occhi e il suo volto da quella distanza, ma riuscì distintamente a scorgere un sorriso distorto, indefinibile nei suoi maestosi lineamenti, un sorriso che lo fece tremare per lo spavento.
- Buonanotte, padre.
 
 
 

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Capitolo 35
*** Incubus e Succubus ***


Incubus e Succubus
 
- SEI SECOLI PRIMA -
 
- Padre Chaim! – lo richiamò la voce del bambino, seduto dinnanzi al fuoco insieme agli altri nove fanciullini. Erano tutti imparentati, fratelli e cugini, tutti insieme nella stessa casa, ad assistere uno di loro, malato della terribile febbre che stava perseguitando gli abitanti di Bliaint da settimane oramai.
Padre Allister Chaim si sarebbe mai potuto tirare indietro, all’idea di donare un po’ di conforto a quei bambini impauriti e sconfortati, così preoccupati per il loro fratello/cugino?
Certo che no.
Lui aiutava i deboli, lo aveva sempre fatto.
Ed ora i suoi figlioli, il suo popolo, stavano soffrendo terribilmente.
Doveva in ogni modo offrire il suo supporto e alleviare le loro sofferenze.
Il monaco si sedette sulla sedia dinnanzi al fuoco, mentre i bambini e le bambine erano tutti seduti a terra, sul grande e caldo tappeto, intorno a lui.
- Sì, Albert? – domandò al fanciullino che lo aveva appena richiamato, e che ora lo guardava con occhioni speranzosi, così come tutti gli altri.
- Da dove vengono gli incubi?
Padre Chaim si sorprese, a tal domanda.
- Vuoi saperlo perchè ne hai fatto uno, piccolo Albert?
Il bambino, occhioni azzurri e nasino rosso all’insù, annuì energicamente.
- Gli incubi sono così cattivi perchè vengono dal Diavolo? – domandò una bambina.
- Beh, sì, gli incubus sono creature demoniache. E tutto ciò che proviene dal Diavolo è infinitamente cattivo e maligno. Ricordatelo sempre.
- Gli incubi sono orribili! Così come il Diavolo!
- Su questo, tuttavia, devo contraddirti, Ronnie – rispose il monaco, attirando ancor di più gli sguardi incuriositi di tutti i bambini, fermamente disciplinati e istruiti secondo le regole della religione cattolica. - Dovete sapere che, nonostante la sua anima nera e turpe.. – continuò padre Chaim – il Diavolo non è mai stato orribile. Il suo aspetto esteriore è molto diverso da quello interiore. Si potrebbe dire che sono due opposti. Più la sua anima è malevola e orripilante, più il suo corpo è immacolato, immagine estrema di perfezione e di splendore. Difatti, dovete sapere che Lucifero era il più bello tra tutti gli angeli di Dio.
I bambini erano tutti sconvolti da tale informazione.
- Quindi ... essere belli è peccato? – chiese timidamente un altro bambino.
Padre Chaim non rispose subito. Vi pensò su. – Beh, sì. I corpi dei belli inducono in tentazione. Esattamente come il Diavolo.
A tale risposta, vide le facce di diversi bambini spiritarsi e spaventarsi. Quelli che avevano già ricevuto complimenti sulla loro bellezza nella loro giovane età, magari dai genitori stessi, assunsero espressioni che variavano dal senso di colpa al terrore.
In particolar modo una fanciullina, con lunghissimi boccoli biondi e due occhi più luminosi di due zaffiri, era già sull’orlo delle lacrime.
- Ma non temete, angeli miei .. – si riprese il monaco, cercando di rassicurarli. – Potete rimediare a ciò, ed essere perdonati dal vostro peccato avendo molta fede in Dio e pregando sempre, sempre più di qualsiasi altro. In questo modo il nostro Creatore vi perdonerà, vedrete.
Finalmente quei visini si rilassarono, trovando sollievo.
Nessuno di quei piccoli avrebbe potuto accusarlo di essere un peccatore a sua volta dopo ciò che aveva detto loro, in quanto padre Chaim sapeva di non esser mai stato gradevole alla vista.
Ma ciò non lo aveva mai disturbato, anzi, gli procurava una certa soddisfazione, in quanto era dimostrazione che la sua anima fosse pura, impeccabile.
- Dunque? Ci dite cosa sono gli incubus? – insistette una fanciullina.
- Volete davvero conoscere questa storia? Non è una leggenda per bambini – li mise in guardia.
- Vi prego, vi prego! – esclamarono tutti in coro.
- Noi siamo coraggiosi!
- E va bene – si arrese il monaco, sorridendo addolcito. – Dovete sapere che coloro che vi vengono a far visita la notte e turbano i vostri sonni, si dividono in due categorie: gli incubus e le succubus. Gli incubus fanno visita soprattutto alle donne, mentre le succubus soprattutto agli uomini. Anche se non sempre. Talvolta si invertono.
Gli incubus sono creature malefiche di aspetto maschile, che giacciono sui dormienti, dando loro un senso di soffocamento, sottraendo energia dalla persona con cui giacciono per trarne nutrimento, uccidendola o lasciandola quasi soffocata, o congiungendosi carnalmente con essa.
I bambini rimasero speventati da quelle parole, ma cercarono di non pensarci, e di continuare ad ascoltare il racconto, presi dalla curiosità.
- Questi demoni sono cause di gravidanze indesiderate – continuò il monaco.
- E come?
- Gli incubus non posseggono seme in loro.
Tuttavia, lo prendono da altri uomini per fecondare le donne incoscienti e senza il loro consenso.
- E come lo prendono..?
- Tramite le succubus. Le succubus sono le versioni femminili degli incubus. Sono demoni di aspetto androgino che seducono gli uomini, specialmente monaci, per avere rapporti sessuali, e renderli soggetti e sottoposti alla loro volontà.
Le succubus aggrediscono gli uomini con lo scopo di alimentarsi della loro energia, spesso provocandone la morte. Talvolta spingono gli uomini al peccato con le loro tentazioni erotiche. Difatti, si dice che giacciano con gli uomini fino a sfinirli, per poterne raccogliere il seme, da dare poi agli incubus. Seme con cui feconderanno delle donne, e da cui nasceranno esseri umani più inclini degli altri alle influenze del Diavolo.
I bambini erano tutti ammutoliti, spaventati fino ad essere sbiancati.
Ma prima che padre Chaim potesse dire qualcosa per rasserenarli, un bambino prese la parola, trovando il coraggio di parlare. – A voi... ha mai fatto visita una succubus..? O un incubus?
- Certo che no – rispose il monaco sorridendo genuinamente divertito. – Sono solo delle storie, bambini.
Non tutti sembravano credere davvero che quelle fossero solo storie.
Sicuramente, molti di loro avrebbero avuto il terrore di addormentarsi, da lì ai giorni avvenire.
- Ora devo andare – si congedò il monaco rialzandosi in piedi, sotto gli sguardi supplichevoli dei bambini.
- No, padre Chaim, restate ancora un po’!
- Vi prego, restate con noi e raccontateci altre storie!
- Per favore!
- Devo presiedere alla funzione di oggi, piccoli miei. Tornerò presto,  promesso.
A ciò, tutti i bambini si arresero, alzandosi in piedi a loro volta. Tranne una.
La bambina lo guardò dal basso, alzando le braccine, facendogli segno di prenderla in braccio. – Posso venire con voi, padre Chaim? Solo io?
Il monaco si sciolse quasi dalla dolcezza nel guardarla.
In fondo, se si trattava di una bambina sola, poteva anche portarla con sè; in quanto poi l’avrebbe riaccompagnata a casa a funzione terminata.
Prese in braccio la piccola e uscì dalla casa.
Il cielo era scuro come quello di un apocalisse, come lo era già da lunghissime settimane.
Padre Chaim osservò la bambina che teneva in braccio mentre camminava.
Aveva un cespuglietto adorabile di ricci color carota, le gote gonfie e rosse come pomodorini maturi, il naso a patata e degli occhietti piccoli, scavati.
Tuttavia, nonostante le fattezze poco eleganti, aveva un sorriso stupendo.
Non era nè bella, nè brutta, si ritrovò a pensare; mentre un tremendo fulmine si schiantò sul terreno come un terribile presagio divino, uccidendo un passante propria dinnanzi ai loro occhi.
La piccola urlò di paura e si strinse maggiormente a lui con le braccine, il monaco la strinse a sua volta, digrignando i denti di dolore dinnanzi alla scena che si ritrovò dinnanzi, oramai divenuta prassi.
Temporali funesti, malattie mortali, terremoti, morti e sofferenze inspiegabili.
Il suo popolo stava soffrendo e si affidava a lui, totalmente.
Motivo per cui avrebbe dovuto trovare una soluzione a tutto ciò, al più presto.
I suoi figlioli non potevano continuare a soffrire così, non l’avrebbe mai permesso.
E quella rabbia da parte del cielo, tutto quel male che proveniva dal basso, sembrava frutto, più che di Dio, del Diavolo, per quanto terribile e agghiacciante...
Improvvisamente, un’idea cominciò a metter radici nella sua testa.
- Potrebbe essere...?
 
 
- PRESENTE -
 
- Ce l’abbiamo fatta, figliolo...
Ce l’abbiamo fatta..
Abbiamo creato la vita!
L’uomo che aveva davanti, Quaglia non lo conosceva.
Eppure, si rivolgeva a lui chiamandolo “figlio”, perciò era confuso.
Davanti all’uomo, sul tavolino da lavoro, vi era un orribile fantoccio.
Un omuncolo. Deforme e parzialmente cosciente.
- Te lo avevo detto! Te lo aveva detto che ci saremmo riusciti tramite quel metodo!
Questo, questo, Philippus... è un miracolo! Ma non un miracolo che proviene da Dio..

Bensì un miracolo mio, nostro! Un miracolo dell’alchimia!
Questa creatura, è viva, ma non è stata partorita dal ventre di una donna come qualsiasi altra.

Questo essere è unico, ineguagliabile, ed è stato creato da noi.
Hai visto?? Creare la vita dal nulla è possibile!
Lo scenario si spostò improvvisamente.
Ora, lo stesso uomo di prima si stringeva i capelli disperato, camminando avanti e indietro, con una cera pessima in volto, l’atteggiamento perso e stralunato.
L’omuncolo ora era rinchiuso dentro una teca di vetro a sua misura.
L’essere orribile scalpitava, si ribellava e urlava inumanamente, cercando di uscire di lì.
I suoi occhi erano rossi e iniettati di sangue scuro, come quelli di un piccolo demone.
L’unica cosa che riuscì a pensare Quaglia non appena posò lo sguardo su di lui fu: “orribile”.
- Dobbiamo trovare una soluzione, Philippus... – sussurrò l’uomo, continuando a camminare convulsamente avanti e indietro.
- Cosa intendi? – si decise a domandargli, percependo un groppo terribile all’altezza dello stomaco mozzargli il respiro per la preoccupazione.
Sto soffocando.
- Abbiamo provato ad ucciderlo ma non muore, in nessun modo, lo hai visto anche tu!!
Abbiamo provato ad accoltellarlo, persino a bruciarlo!
Quel mostro è totalmente inumano!

Non lo vedi? È il ritratto del MALE!
Non lo si riesce a placare, e ci truciderà nel peggiore dei modi durante la notte se non troviamo subito una soluzione!
È stato un tremendo errore crearlo...
Di nuovo, Quaglia avvertì la sensazione di star soffocando.
- Cosa vuoi fare..? – gli domandò, facendo uscire la voce come lo stridulo di due corde d’arpa sfregate tra loro.
- L’unico modo... è trasferire la sua anima dentro un altro corpo.. un corpo mortale – disse l’uomo, posando improvvisamente gli occhi stralunati su di lui, smettendo di camminare.
- Philippus...
- No.. no.. cosa vuoi fare?
- Philippus, il suo corpicino, seppur deforme e mostruoso, funziona perfettamente, lo abbiamo creato bene!
- No!
- Vedrai che ti troverai bene lì dentro! Non te ne accorgerai neanche! – esclamò, avvicinandosi a lui, in preda al delirio.

- Vuoi davvero trasferire la mia anima... lì dentro?! E la sua, nel mio corpo??
- Philippus, ti prego... è l’unico modo.. solo così potremo disfarci di lui. Vedila in modo positivo: sarai immortale!
- No!! Padre, ti prego... – pianse Quaglia, indietreggiando fino ad incollarsi al muro.

Non respiro.
Non respiro.
Soffoco...
- Vedrai che non te ne accorgerai neanche... – disse l’uomo, avvicinandosi a lui e sovrastandolo con il suo corpo, con una boccetta colma di liquido in mano.
- Non farlo!! No!!!
Quaglia si svegliò urlando e sobbalzando sul proprio letto, con ancora la sensazione che qualcuno lo stesse strangolando.
Aveva il volto cosparso di lacrime e un fiatone paralizzante.
Subito, la porta della sua stanza venne spalancata da padre Craig, che aveva udito le sue urla dal corridoio, ed era accorso lì dentro allarmato.
- Quaglia?? Quaglia, che vi succede?? State bene?? Oh Signore, siete tutto sudato e state piangendo!! Che vi è accaduto? – gli domandò accostandosi al lato del letto, facendosi il segno della croce più volte.
L’uomo, in risposta, lo guardò ancora sconvolto, con le lacrime che non volevano cessare di rigargli il viso.
- Ho fatto un incubo, padre... un terribile incubo..
- È stato solamente un incubo a ridurvi così..?
- Non era un incubo qualsiasi ... era... atroce, raccapricciante.
 Inoltre, era come se qualcuno mi stesse strozzando..
- Ma è terribile! – commentò il giovane prete. – Proviamo a dirlo agli altri, magari...
- No, non voglio farli preoccupare per nulla.
- Ma Quaglia...
- Vado a sciacquarmi la faccia. Grazie, padre – gli disse accennandogli un sorriso sfinito ma sincero.
- Allora... non mi rimane che andarvi a preparare un infuso caldo per sciogliere i nervi.
- Lo gradirei molto, grazie.
- Nel caso voleste parlarmene.. del vostro sogno. Sono sempre disponibile.
 
Hinedia si strinse nel suo mantello caldo, per far fronte al vento freddo di metà mattinata, e si diresse a passo svelto verso la casa della sua destinazione.
Bussò alla porta un paio di volte e attese.
Ma ad aprirle, al posto della figura familiare che attendeva, si ritrovò dinnanzi quella del capo famiglia, il quale le lanciò uno sguardo a metà tra il sorpreso e il contrariato.
Hinedia non aveva mai visto Rolland dentro quella casa, nonostante ci fosse stata solo un paio di volte, e in orari improbabili, quindi era anche normale.
L’uomo, che si ergeva in tutta la sua altezza e violenta bellezza, possedeva uno sguardo intimorente e imponente.
- Chi siete voi? – le domandò.
La ragazza boccheggiò in risposta, non sapendo cosa dire.
Non aveva fatto caso al fatto che fosse già mattina inoltrata, mentre Blake le aveva specificamente detto che avrebbe trovato la casa libera dai suoi genitori solo se fosse venuta la mattina presto.
Cercando di non farsi prendere dall’ansia e dalla soggezione, gli disse la prima cosa che le venne in mente. - Sono venuta a prendere Ioan. Lui frequenta le prove per lo spettacolo. Io e Judith siamo le due insegnanti, perciò sono venuta a prenderlo per portarlo alla lezione di questa mattina.
In parte era vero, in quanto quella mattina ci sarebbero davvero state le prove, ma erano più tardi, all’ora di pranzo, perciò aveva ancora un bel po’ di tempo a disposizione.
Rolland sembrò crederci, e annuì poco interessato. – Ad ogni modo, stavo uscendo. Entrate pure, allora. Ioan è in camera sua.
Hinedia lo ringraziò silenziosamente, ed entrò in casa, mentre Rolland le faceva spazio sull’uscio, inconsapevole che la ragazza si trovasse lì per l’altro suo figlio.
L’uomo uscì di casa, lasciandola sola nell’atrio.
La casa Rolland era silenziosa ora, e l’unico suono che si udiva era lo scoppiettare del fuoco nel camino.
C’era sempre un buon odore lì dentro.
Nonostante ci fosse stata solo un paio di volte, Hinedia aveva imparato a riconoscerlo, in quanto era invitante e soave, e se ne beò mentre si toglieva il mantello e lo appendeva sull’attaccapanni.
Non che anche casa sua non avesse un buon odore, certo, tuttavia ogni casa possedeva un profumo diverso.
I profumi delle persone che vi abitavano all’interno.
Anche l’aspetto le era sempre piaciuto. Era confortevole e a suo modo ricercato, molto spazioso.
Restò persa nei suoi pensieri a guardare l’arredamento della casa come se fosse la prima volta che lo vedesse, venendo improvvisamente distratta da una presenza che entrò nell’atrio a sua volta, proveniente dal corridoio che conduceva alle camere.
- Hinedia? – la richiamò sorpreso il giovane prete.
- Padre Craig? Buongiorno – lo salutò.
- Buongiorno a voi. Cosa ci fate qui, signorina?
- Oh, sono venuta perchè vorrei parlare con Blake.
Con lui non avvertiva l’esigenza di mentire, in quanto sentiva che il prete probabilmente non avrebbe trovato così strano lo strano rapporto di amicizia tra lei e Blake, e non li avrebbe riempiti di domande, come invece avrebbero fatto i genitori del ragazzo. O i propri, se solo avessero disgraziatamente scoperto che si dilettava trascorrendo il suo tempo in compagnia di un servo del Diavolo.
- Oh.. Blake è nello studio di suo padre. I suoi genitori gli hanno concesso una tregua. Dato che sembra stare meglio, gli hanno permesso di uscire di casa da solo, nel caso volesse – la informò, come se Hinedia già fosse a conoscenza di tutti i preamboli che vi erano stati, e che riguardavano in prima persona il ragazzo. – Vado a chiamarlo, gli dirò che siete qui per lui – le disse rivolgendole un sorriso gentile, di circostanza, per poi rientrare in corridoio.
Dopo qualche minuto, il ragazzo che stava aspettando uscì dallo stesso corridoio, rivolgendole un sorriso insonnolito e salutandola, mentre si dirigeva verso la cucina.
- Buongiorno. Avete fame? – le domandò Blake, senza neanche chiederle per quale motivo fosse lì.
- No, grazie – gli rispose avvicinandosi e sedendosi su una delle sedie intorno a tavolo, osservando la sua schiena. Era felice di non provare più quel senso di imbarazzo che la paralizzava inizialmente, nel trovarsi in casa del ragazzo, e che ora riuscisse persino a togliersi il mantello e ad accomodarsi di sua sponte, senza che il giovane dovesse incoraggiarla o darle il permesso di farlo. – Blake, vi devo parlare di un incubo che ho fatto.
- Che incubo? – le chiese lui, mettendo una pentola ricolma d’acqua sul fuoco, e iniziando a prendere l’avena.
- Mettetevi comodo, sarà lungo.
Dopo che Hinedia gli ebbe raccontato per filo e per segno il suo incubo di qualche notte prima, ben condito di dettagli, il ragazzo spalancò i suoi occhi blu, non sapendo da dove cominciare.
- Io schiacciavo la testa di un serpente? E questo mi mordeva la caviglia..? Come accade tra Eva e il Diavolo nel libro sacro? – chiese conferma, poggiandosi il cucchiaio sul labbro inferiore, mentre raccoglieva gli ultimi rimasugli di porridge con la lingua.
Si era appena finito una pentolata di porridge mentre la ascoltava parlare, tanto da spingere la ragazza a chiedersi dove accidenti lo mettesse tutto quel cibo, dato che sembrava quasi più snello del solito.
- Sì, esatto. È la parte più strana del sogno – gli disse.
- Io credo che la più strana sia quella in cui avete incrociato e parlato faccia a faccia con la vostra gemella perfida nello specchio, in tutta sincerità.
- Sì, ma voi cosa c’entravate nel sogno? Inoltre, ero a casa vostra. Ditemi, cosa credete che significhi?? Non avevo mai fatto un incubo simile – gli rivelò le sue paure, guardandolo angosciata e attendendo una sua risposta come manna dal cielo.
- Non ne ho minimamente idea, Hinedia. Potremmo indagare se la situazione dovesse persistere. Nel caso doveste fare altri incubi simili fatemelo sapere.
- Anche voi avete fatto un incubo?? – si intromise nella conversazione padre Craig, sbucando dal corridoio.
I due non lo avevano nemmeno sentito arrivare.
- Cos’è tutta questa concitazione, padre? Siete stato vittima di sonni turbolenti anche voi? – gli domandò il ragazzo.
- Non io, ma Quaglia. Non lo avete udito urlare questa mattina?
- Quaglia ha avuto un incubo? – gli chiese il ragazzo, alzando un sopracciglio sorpreso. – Cos’è, vuole qualcosa di morbido da abbracciare di notte, d’ora in poi?
- Blake, non c’è nulla di divertente in tutto ciò. Quaglia era in lacrime appena sveglio, urlava, sudava, e sentiva come se qualcuno lo stesse soffocando. Non l’ho mai visto così. Dimenticate che...
- Che cosa? Che cosa dimentico? – si impose Blake interrompendolo, facendolo ammutolire. – Dimenticate voi, forse, che ho trascorso le ultime settimane senza chiudere occhio, a causa di incubi e allucinazioni che non mi lasciavano tregua? Eppure non mi sembra che io ne abbia fatto una questione di vita o di morte – gli disse incenerendolo con lo sguardo.
Anche Hinedia ammutolì e lo guardò sconvolta a sua volta.
Evidentemente, la ragazza non doveva essere a conoscenza di tutto ciò, pensò padre Craig.
- Eppure... ora non vi affliggono più, giusto..? – si azzardò a cercare conferma il giovane prete, facendo emergere il tono della voce lievemente preoccupato. – Giusto..?
Blake non rispose e distolse lo sguardo.
Ora che padre Craig lo guardava meglio negli occhi, notò che le sue occhiaie c’erano ancora, erano più lievi, ma c’erano sempre.
- Blake, io... non potevo immaginarlo. Perdonatemi se sono giunta qui, dando così tanta importanza al mio incubo, quando voi ne avete passate di ben peggio... – disse mortificata la ragazza.
- No, non scusatevi. Il vostro incubo è qualcosa di molto insolito, che oltretutto coinvolge anche me. Avete fatto bene a riferirmelo.
- Davvero? – chiese sorpreso il giovane prete.
Hinedia annuì.
- Potrebbe essere opera di un incubus. O di una succubus – buttò lì Blake distrattamente, mentre metteva a scaldare un po’ di latte.
Hinedia pietrificò visibilmente, e padre Craig se ne accorse.
- Avete ragione... – sussurrò la ragazza, terrorizzata. – Non ci avevo pensato..
- Cosa sono gli incubus? – domandò padre Craig incuriosito, sedendosi al tavolo a sua volta.
- È una storia lunga, padre, che non vorreste sentire – disse Blake incurante. – Ad ogni modo, è solo una leggenda per bambini, che i nostri genitori ci raccontavano da piccoli per spaventarci.
- Mi sembra che i vostri genitori vi raccontassero fin troppe storie da piccoli, per spaventarvi ... – commentò il prete.
- E a me sembra che sempre più “leggende per bambini” si stiano gradualmente trasformando in realtà.. - osservò la ragazza, ancora impaurita.
- Hinedia – la richiamò in tono rassicurante Blake, attirando i suoi occhi su di sè. – Non è stato un incubus a farvi visita, posso garantirvelo. Se esistessero davvero, un sacco di donne del villaggio dovrebbero ritrovarsi ad avere gravidanze indesiderate e inspiegabili.
- Cosa...? Ma di cosa state..? – domandò il prete sconvolto.
- C’era un passo, se non ricordo male... un passo tratto da un libro scritto da Allister Chaim a riguardo - riflettè Blake, poggiandosi con i fianchi sul ripiano della cucina. – Ma non ricordo, nello specifico...
- “Noi diciamo pertanto tre cose: in primo luogo, che questi diavoli commettono sconcissimi atti venerei non per godimento, ma per infettare l’anima e il corpo di coloro dei quali sono succubi o incubi; in secondo luogo che, con un atto simile, ci può essere una completa concezione o generazione da parte delle donne, perché i diavoli possono portare il seme umano nel luogo conveniente del ventre della donna e accanto alla materia qui predisposta e adatta al seme. In terzo luogo, nella generazione di siffatte cose ciò che avviene attribuito ai diavoli è solo il moto locale e non la stessa generazione, il cui principio non è una della capacità del diavolo o del corpo da lui assunto ma di colui al quale appartenne il seme, per cui chi è generato non è figlio del Diavolo, ma di un uomo” – recitò Hinedia, facendo valere la sua impeccabile memoria.
Blake la guardò stupito.
- Accidenti.. deve esservi rimasta davvero ben impressa per ricordarvela a menadito – commentò il ragazzo, sinceramente colpito.
- Potete spiegarmi meglio...?
- Ora non c’è tempo, padre – gli rispose Hinedia, riflettendo tra sè. – Avete detto che anche Quaglia ha avuto un incubo poco fa, giusto?
- Esatto.
- Quaglia era nel mio incubo. A dir la verità, è iniziato tutto da lui.. – realizzò Hinedia. – Forse dovrei parlare anche con lui.
- Prima di parlare con lui dovete venire a farci lezione nella cattedrale – commentò una vocina nuova, intromettendosi, quella insonnolita di Ioan, il quale fece il suo ingresso, dirigendosi immediatamente verso Blake, senza guardare gli altri, nonostante poco prima si fosse rivolto ad Hinedia.
Il fanciullino circondò il busto del fratello, che gli arrivava all’altezza delle spalle, con le braccia, poggiando la testa semi addormentata sul suo fianco.
- Ehi, ghiro. Ci siamo svegliati tardi stamattina, noto – commentò Blake, come al solito accettando quel dolce contatto con affetto, scompigliandogli lievemente i capelli biondi.
Ioan mugolò e si accucciò ancor di più al tessuto della maglia che copriva il busto di suo fratello.
- Mi sono svegliato solo perchè c’è la lezione con Judith e Hinedia, stamattina. Dobbiamo ripassare il copione. Altrimenti non mi sarei alzato. Oggi sono talmente stanco che dormirei per tutta la giornata - disse sbadigliando, e artigliando la presa più forte intorno ai fianchi del fratello, il quale accennò un sorriso.
Hinedia li guardò incantata, per poi sorridere addolcita verso Ioan. – Hai ragione, Ioan. Credo sia ora che ti accompagni davvero alla lezione di oggi.
- Oggi anche io mi unirò a voi – li informò Blake, facendo sussultare sia il bambino che Hinedia, i quali presero a guardarlo sconvolti, come se avesse appena rivelato loro di cosa fosse fatta la luna.
- Davvero?? E perchè mai? – fu Ioan il primo a domandare. – Ovviamente sono felice! Così posso presentarti a tutti gli altri bambini! Posso presentarti ad Invidia, Gola, Lussuria...
- Ah, quindi ora non avete più nomi propri, ma avete preso direttamente i nomi dei peccati? – domandò Blake alzando un sopracciglio.
- Ci serve per esercitarci meglio col copione!
A ciò, Hinedia rise di gusto, e padre Craig con lei.
- Ad ogni modo, come mai avete intenzione di andare con loro? – ritornò al punto il giovane prete, non riuscendo a nascondere totalmente la sua viscerale smania di saperne il motivo.
- Ho una faccenda da sbrigare. Qualcosa che sto rimandando da fin troppo. Con Judith.
Quell’ultimo nome chiarificò ogni dubbio della ragazza e del prete, i quali manifestarono reazioni differenti.
- Oh... dunque avete deciso di riappacificarvi con la vostra promessa – commentò Hinedia, sfoderando uno dei più gentili sorrisi del suo repertorio. – Ne sono felice. Judith ne sarà molto felice, ne sono sicura. Infondo, voi due vi appartenete. Sì, vi appartenete – ed era come se lo stesse ripetendo più a se stessa.
- ... Certo. Fate bene – si limitò a commentare serafico padre Craig, senza aggiungere altro, trattenendo il desiderio pericoloso di seguirlo e di assistere a tutta la conversazione tra i due.
- Questa guerra silenziosa tra noi due dovrà pur finire, giusto? Ed è durata sin troppo – aggiunse il ragazzo, staccandosi delicatamente il suo fratellino dai lombi, il quale gli era rimasto ancorato come una cozza semi cosciente. – Fila in camera e va’ a prepararti, gnometto. Ti aspetto qui. Io sono già pronto per andare, mi sono cambiato prima.
A ciò, Ioan annuì, anche se ancora insonnolito, e corse in camera sua.
Dopo di che, Blake guardò Hinedia, la quale era tornata a perdersi nei propri pensieri.
- Voi siete pronta per andare?
- Come..?
- Non avevate detto che dovevate tenere la lezione di questa mattina insieme a Judith?
- Oh, sì, teoricamente sì. Tuttavia, non succederà nulla se questa volta passerò. Penserà Judith ai bambini, ci sarò alla prossima.
- Perchè avete cambiato idea?
- Perchè è giusto che oggi.. voi e Judith rimaniate soli, Blake.
Io o qualsiasi altro saremmo di troppo.
- Non dite sciocchezze. Ci saranno comunque anche i bambini.
- Sì, lo so, ma preferisco così, credetemi.
Preferisco che vi prendiate del tempo solo per voi due, e che nessuno interferisca (eccetto i bambini, ovviamente).
Credo che ne abbiate bisogno, ed è troppo tempo che non lo fate. Giusto? – spiegò fermamente la ragazza, guardandolo negli occhi a distanza.
A ciò, Blake non insistette e annuì, senza dire altro.
- In compenso, io resterò qui con padre Craig e Quaglia – aggiunse Hinedia, informando il prete stesso.
- Davvero? – le domandò sorpreso quest’ultimo.
- Ho bisogno di parlare con Quaglia e di indagare sulla faccenda dell’incubo. Magari, parlando con lui, scoprirò se vi sono delle similitudini tra il mio e il suo incubo.
- E mi spiegherete anche cosa sono gli incubus e le succubus. 
- Affare fatto, padre.
In quel momento, Ioan tornò nell’atrio, pulito, e pronto di tutto punto.
Blake gli porse il mantello, mentre il fanciullino posava lo sguardo su Hinedia. – Voi non venite con noi?
- No, piccolo. Mi raccomando, sono fiduciosa nelle tue doti: dai il meglio di te, così la prossima volta mi farai vedere quanto sei bravo, d’accordo? – gli disse confidenzialmente la serva del Creatore, carezzandogli una guancia.
Ioan annuì, si infilò il mantello e seguì Blake, uscendo dalla porta di casa.
 
 
Nella cattedrale era tutto buio.
I monaci avevano permesso loro di oscurare le finestre per creare la giusta atmosfera.
Vi era un silenzio surreale.
Solamente una voce si elevò nell’ignoto:
- L’amore?
Dovrei sapere cosa sia?
Come potrei? Dimmi.
- Cosa vuoi?
- Voglio arrivare fino al sole.
Voglio rapirlo e portarlo indietro. E voglio fare lo stesso con la luna.
- E cosa darai loro in cambio?
- Nulla.
- E non pensi mai a me?
Al dolore che provo io?
Aver tutto e perder tutto.
Questa sono io.
Mi continuo a nutrire fino allo sfinimento per colmare un vuoto dentro di me, che mai svanirà.
Sempre di più, sempre di più, senza mai tregua.
Spiegamelo tu, come posso voler tutto e non avere niente.
È uno strazio di tutto in tutto, del mondo nel cielo, del cielo nel mare: qualche cosa che vuole uscire e liberarsi e sta sempre in un gorgo, non va avanti, non torna indietro, è orribile!
Judith ascoltò Hybris e Gola attentamente, con il volto concentrato sulle due bambine, magnetiche, eccellenti.
Improvvisamente, il portone della cattedrale si aprì.
Causa la distanza e il buio, la fanciulla dovette aguzzare gli occhi per scorgere chi stesse entrando, ma riuscì subito a riconoscere la chioma bionda e il sorriso contagioso di Ioan, l’ultimo piccolo vizio che mancava all’appello.
Era in ritardo, ma gli sorrise comunque, a distanza.
Tuttavia, la porta rimase aperta, come se dovesse entrare qualcun altro, mentre Ioan prendeva velocemente posto accanto a Lussuria.
Judith distolse per un attimo l’attenzione dalle battute di Hybris, per concentrarsi su quel portone ancora semiaperto.
Una mano si poggiò sul legno della porta, per poi rivelare una figura alta, slanciata, coperta da un mantello.
Una presenza inconfondibile.
Judith non riuscì a credere ai suoi occhi quando lo vide entrare, richiudendosi la porta dietro di sè.
Non lo vedeva da giorni, giorni che le erano sembrati anni, macigni che l’avevano oppressa fino al midollo, facendole dimenticare più volte il motivo per cui si era autoimposta quel silenzio e quella distanza da lui.
Se la erano imposta entrambi.
Non le era mai accaduta una cosa simile.
Non le era mai accaduto di provare una mancanza tanto viscerale, un bisogno tale di qualcuno in particolare.
Se ne rese conto definitivamente nel momento in cui lo rivide, con quella chioma scura selvaggia, quegli occhi vividi e trepidanti come fari nella notte,  e quel debilitante sorriso sornione.
Quelle emozioni le fecero realizzare qualcosa che, forse, non sarebbe mai stata disposta ad ammettere.
- Non mi importa, non mi importa di niente, e non riesco mai a fermarmi.
Chi più ama più vede chiaro.
- Ma l’amore è scelta.
E scegliere qualcuno non è mai semplice.
Quelle parole di Gola fecero tremare Judith da capo a piedi, soprattutto in quel momento, con gli occhi pieni di lui, e di tutta la sua figura, dopo tutto quel tempo trascorso senza vederlo, nonostante fosse ancora così tanto, troppo, dolorosamente distante da lei.
Blake continuò a guardarla dalla porta, senza muovere un passo per raggiungerla, stregandola e stregato a sua volta.
Alzò l’indice e lo posò sulle proprie labbra, facendole segno di non dire nulla, di non interrompere le bambine nel loro catartico atto di immedesimazione.
Non sarebbe comunque stata intenzione di Judith interromperle.
Nonostante stesse facendo fatica ad ascoltarle oramai, troppo concentrata su di lui, mentre egli percorreva il corridoio tra le due navate lentamente, e si avvicinava.
- Ma io non amo – disse Sorie, nonchè Hybris, facendo tremare tutti gli altri per la profondità e l’intensità con cui aveva pronunciato quelle parole, troppo gravose per una bambina, e forse persino per una donna che aveva già cinque vite alle spalle.
- Perche amare comporta abbandonarsi all’altro, sperando che questo oblio sia accogliente.
Il ricordo è la più grande espressione d’amore.
Nei ricordi siamo soli.
Nessuno può colmare le nostre mancanze, nessuno può aiutarci a ricordare, siamo noi a scegliere se farlo.
Ho deciso che volerò sino al cielo e sarà quello che farò.
Nessuno potrà impedirmelo – continuò Hybris.
- Resterai sola – replicò Gola. - La tua è pazzia!
- E la tua è disperazione.
Erano tutti talmente concentrati sull’interpretazione delle due, che nessun bambino si accorse dell’arrivo di Blake, complice anche il buio, levigato solo dalla presenza di due candelabri.
Un applauso si elevò dai giovanissimi spettatori, compreso Ioan, che aveva assistito solo all’ultima parte.
- Sorie e Dionne, siete state spettacolari, ragazze. Sarebbe un banale eufemismo dire che sono fiera di voi – si complimentò Judith, facendole immediatamente felici solo con quelle semplici parole.
Quei bambini stravedevano per lei, la loro insegnante e tutrice, e grazie a ciò la fanciulla stava sperimentando un sentimento tutto nuovo traboccare nel suo cuore. Un sentimento che prima aveva sperimentato solamente quando si era sentita al pari di una sorella maggiore per Maroine e Maringlen.
- Bambini, potete andare a pranzare prima oggi. Riprenderemo tra un’ora, come al solito – disse Judith, notando gli sguardi dei bambini aguzzarsi e incuriosirsi, specialmente quando finalmente notarono la sconosciuta figura del ragazzo, seduto su uno dei posti dell’altra navata, totalmente vuota.
Gli occhi delle bambine più furbe e intuitive scattarono da Blake a Judith tempestivamente, sorridendo di sottecchi, comprendendo di chi si trattasse, dato che era oramai risaputo che la loro insegnante avesse un promesso sposo.
Dionne, Edith, Sorie e Gwen si presero qualche istante di troppo per osservarlo, sorridendo imbarazzate e arrossite, mentre si dirigevano verso il portone della cattedrale.
Quando rimasero solamente loro due in tutto l’immenso salone, Blake restò comunque lì dov’era, attendendo che Judith parlasse.
La ragazza gli diede le spalle, dirigendosi verso un candelabro spento, per accenderlo.
Sembrava non esserci bisogno di parlare, improvvisamente.
E nemmeno bisogno di toccarsi.
C’era solo la necessità di ascoltare i respiri dell’altro, in quel silenzio surreale e rimbombante.
Entrambi se lo domandarono: a chi avrebbero voluto prendere in giro?
La necessità di toccarsi c’era, ed era anche paralizzante a tratti.
- Sapete ... – esalò Judith, troppo impaziente di rompere il silenzio, sentendo la propria voce spezzarsi. – In questi giorni.. oltre a scrivere il copione per i bambini.. ho anche avuto modo di continuare le nostre ricerche.
- Avete scoperto qualcosa di interessante? – la voce di Blake era ferma, calda e distante al contempo.
Non lasciava trapelare alcuna emozione, come suo solito, metodico, razionale e concentrato sui suoi obiettivi.
Ma Judith non era da meno.
E se quella era davvero una sfida, come lo era da sempre stata tra loro due, allora gli avrebbe tenuto testa, come aveva sempre fatto, fin dalla prima volta che lo aveva visto, e i suoi occhi d’ossidiana si erano scontrati con le sue iridi d’oceano, durante quel maledetto gioco dello specchio.
Forse era proprio quello, proprio quello il momento in cui le loro vite si erano incrociate indissolubilmente, senza lasciar loro neanche il libero arbitrio di poter recidere quel legame, che, probabilmente, li avrebbe tenuti uniti fino alla fine, con o senza il loro consenso.
Judith aveva sempre odiato l’idea di dividere la sua vita con un servo del suo stesso credo.
Aveva sempre odiato l’idea di dividere la sua vita con un uomo in generale.
Forse era colpa di ciò che le aveva fatto quel mostro con abiti monacali da bambina, o forse era anche dovuto alla sua essenza solitaria e indipendente.
Poi aveva conosciuto Naren, e tutto era cambiato.
E quando pensava di aver provato tutto, di essersi imparata a conoscere a tutto tondo, quando credeva di sapere quale fosse il suo scopo e la sua strada... era piombato Blake.
E allora, di nuovo... la sua vita aveva subìto una svolta totalmente inaspettata.
Udì dei rumori provenire dalle sedie della navata dietro di sè, indice che Blake si fosse alzato in piedi.
- Forse. Ma senza la formula della polvere nera il nostro progetto resterà sempre incompleto – gli rispose.
Improvvisamente, Judith ripensò alla lettera che gli aveva scritto e a quanto di lei aveva messo lì dentro.
Pensò a padre Craig che l’aveva bruciata senza consegnargliela, per gelosia.
Pensò al fatto che, nonostante non l’avesse ricevuta, Blake si trovasse comunque lì, da lei, di sua spontanea volontà.
Pensò al fatto che ci fossero troppi silenzi e cose non dette tra loro.
Troppi vicoli ciechi in quel legame intenso e totalizzante che sentiva di avere con lui.
Ripensò anche a quella notte maledetta.
Quella notte in cui il suo peccato tremendo, insieme a quello di Naren, tormentava il suo sonno ancora ogni volta che chiudeva gli occhi, ricordandole quanto la sua anima fosse marcia e deprecabile.
La notte in cui aveva fatto del male a qualcuno, e non sapeva chi fosse, e la sola probabilità che fosse il ragazzo dietro di lei colui al quale avesse fatto ciò, le faceva venire voglia di infilarsi un cappio intorno al collo e togliersi la vita.
Pensò alla loro indissolubile amicizia, più unica che rara.
Ripensò a tutto ciò, capendo quanto non potesse permettersi di provare sensazioni simili con lui, che uscivano dai limiti del razionale.
Avrebbe potuto permetterselo con chiunque altro, ma non con lui.
Lei era una persona dannosa, da cui stare alla larga, e Blake lo era a sua volta, anche se in una maniera del tutto diversa.
Improvvisamente, ripensò anche alla notte di più di una settimana prima. La notte in cui lo aveva trovato nella fucina.
- A cosa state pensando? – le domandò lui, riscuotendola. Judith percepiva che fosse ancora distante da lei.
- A nulla. Solo ad un giovane che ho conosciuto – gli rispose.
- Un giovane?
- Sì. Mi capita di pensare a lui molto più di quanto io sia disposta ad ammettere.
Eppure, non riesco davvero a comprenderne il motivo...
D’altronde – continuò la ragazza, accennando un lieve sorriso, mentre terminava di accendere le ultime candele del candelabro. – Egli ha un infinità di difetti, talmente tanti che non li si può neanche numerare.
- Che disgrazia, allora. Mi sento di compatire tutte le povere anime sfortunate che gli sono accanto, dunque.
- Oh, sì, fate bene a compatirle. Per cominciare, egli è tremendamente testardo ed egoista. È anche cinico, indolente, saccente, orgoglioso, permaloso, impetuoso, irresponsabile, ottuso, distaccato, spericolato, spregiudicato, indisponente, talvolta persino arrogante e apatico – disse tutto ciò in un sol soffio, sorridendo di sottecchi mentre pronunciava quella valanga di aggettivi negativi, che riuscivano tutti in egual modo a stuzzicarla, non accorgendosi che il ragazzo si fosse avvicinato, ed ora fosse esattamente dietro di lei.
Percepì la sua presenza troppo vicina e si voltò di scatto, trovandoselo ad un palmo da lei, dovendo alzare il viso verso l’alto per guardarlo in faccia.
- Sembra che questo flagello umano non possegga neanche un pregio .. – le sussurrò fissandola negli occhi, anch’egli con un mezzo sorriso divertito ad ornargli il bel viso.
- Considerando la natura del Signore che serviamo.. si dovrebbe sentir onorato di possedere molti più difetti che pregi – gli disse lei, allungando la sua mano sottile e colma di anelli verso il suo petto, posando il palmo sopra di esso. – Eppure... – cedette, sorridendogli ancora, stavolta tristemente, mentre lo guardava negli occhi e faceva scorrere la mano verso la sua guancia, posandola lì. – Io li vedo. I tuoi pregi. Sono qui, nascosti, ma bellissimi. Io ti vedo, tutto – sussurrò, sentendolo fremere impercettibilmente sotto le proprie dita.
Blake non rispose, continuando a guardarla, ricambiando quello sguardo perso capace di dire tutto e nulla, e posando la propria mano calda sopra quella della ragazza, ancora impegnata a carezzargli la gota.
- Quella notte... la notte in cui ti ho trovato là sotto.. ciò che stavi facendo, lo sguardo che avevi.. – disse Judith, sentendolo palesemente irrigidirsi sotto il suo tocco, lo sguardo farsi più incerto, sfuggente, macchiato di senso di colpa.
Ed era l’ultima cosa che la ragazza voleva.
- Judith, mi dispiace.
Mi dispiace per quella notte.
- No. Non ti permetto di scusarti. Non hai nulla di cui scusarti, sono stata chiara? – gli disse aggiungendo anche l’altro palmo sull’altra guancia del ragazzo, prendendogli il viso tra le mani con delicatezza, per guardarlo meglio negli occhi. – Non mi sono spaventata. Non sei stato tu a spaventarmi. Ciò che ti è accaduto non dipende da te.
- In parte sì, e lo sai. Per venirmi in soccorso, stavi per rimetterci la pelle anche tu e il bambino che hai in grembo.
- Non importa. Non mi importa. Non sono una fanciullina impaurita che se la dà a gambe alla prima difficoltà, Blake.
Io resterò accanto a te. Qualunque sia il prezzo.
- Non pronunciare frasi affrettate, di cui non conosci le implicazioni, Judith.
- Ti avevo scritto una lettera. Una lettera che non ti è mai pervenuta. E nonostante tu non abbia ricevuto alcuna notizia da me... sei comunque qui, Blake. Sei venuto da me.
Perchè? – gli domandò schietta.
- Cosa vuoi che ti risponda? – le disse sincero. – Sentivo la tua mancanza. Come non l’ho mai sentita di nessuno prima d’ora, oltre a Ioan, e ciò mi ha allarmato.
Judith sorrise, capendo che anche egli avesse provato lo stesso.
Non era sola, in quel tipo di amore contorto, assurdo.
Lo amava come avrebbe potuto amare un fratello di sangue, così come lo amava come avrebbe amato il più passionale e prezioso degli amanti.
- Perchè sorridi in quel modo? – le domandò avvicinandosi ancora, prendendola totalmente alla sprovvista, lasciandola boccheggiante, nel momento in cui posò un palmo caldo sopra il suo ventre oramai visibilmente gonfio, carezzandolo. – È cresciuto.. lo sento – le sussurrò.
La ragazza si aggrappò alle sue spalle, cercando di acquisire la forza necessaria per dire quello che stava per dire.
- Blake... tutto questo, la storia tra noi, deve continuare a restare una farsa.
Oramai è evidente che sta nascendo qualcosa tra noi, ma non dobbiamo permettere che cresca ancora, dobbiamo estirparlo prima che sia tardi – gli disse decisa, temendo di non resistere un minuto di più in quella dolorosa forzatura che stava imponendo ad entrambi. – Lasciamo che tutto rimanga com’era. Sarà meglio per tutti. Non voglio destabilizzare la situazione ancor di più di quanto lo sia già. Lasciamo che gli altri continuino a credere che siamo promessi, per il bambino, ma non lasciamo che altri sentimenti prendano il sopravvento su di noi. Siete d’accordo con me? – gli domandò scandangliando i suoi occhi, e il suo sguardo che non lasciava apparentemente fuoriuscire nulla.
In quel momento, una parte di lei sperò che egli urlasse che no, non gli andava bene.
Blake restò con il palmo posato sul suo ventre, senza muoversi di un millimetro.
- D’accordo – le rispose semplicemente, acconsentendo.
- Judith, cara? – li interruppe improvvisamente la voce distante di uno dei monaci del Creatore, da sopra la scalinata, in procinto di scendere. – State ancora facendo lezione ai bambini, Judith?
A ciò, udendo quella voce, il ragazzo non le diede il tempo di realizzare, in quanto fece qualcosa che fu in grado di paralizzarla letteralmente: le mise una mano dietro la schiena per avvicinarla di più a sè, un’altra sulla guancia per alzarle il viso maggiormente e le diede un bacio mozzafiato.
Le labbra del ragazzo erano morbide sulle sue, bollenti come la bocca di un vulcano, e deliziosamente esperte, tanto da farle girare la testa e da farle quasi perdere il contatto col terreno.
Troppo sconvolta da quel gesto e sopraffatta da tutto di lui, dal suo odore, dal suo sapore e dal suo calore, si lasciò maneggiare come una bambola e si perse in quella bocca che si muoveva in maniera travolgente e debilitante, facendola tremare.
Non ebbe il tempo di realizzare, nè di riprendersi, in quanto quel piccolo idillio vorticante che era stato quel bacio, durò meno di quanto avrebbe desiderato, lasciandole un improvviso e odioso senso di vuoto.
- Lo hai fatto per farmi  capire cosa mi sarei persa.. – gli domandò ansimante la ragazza, sussurrandogli direttamente su quelle labbra umide che l’avrebbero tormentata, ne era certa, afferrandogli il tessuto della maglia all’altezza del petto strettamente, per non farlo allontanare da sè. - .. oppure per tenere in piedi la nostra farsa davanti al monaco che sta arrivando..?
- Ovviamente per tenere in piedi la farsa – le rispose regalandole un sorrisetto furbo. – Non ci hanno mai visti in atteggiamenti intimi, e siamo nel pieno della nostra libido giovanile. Se non avessimo dato loro una dimostrazione concreta, avrebbero potuto iniziare a sospettare, non sei d’accordo? Ma se preferisci... possiamo evitare di far-
Non lo lasciò neanche terminare la frase, tanta era la voglia di rispondere finalmente e degnamente a quella graditissima violazione che era stata fatta alla sua bocca, stavolta facendosi trovare pronta: gli infilò entrambe le mani dietro la nuca e lo ritrascinò giù, a sè, spalancandogli e invadendogli la bocca con la propria senza pudore, esplorandola in ogni più remoto angolo, dominando quel bacio come lui aveva fatto con il precedente, dandogli prova di un ardore e una voracità che la ragazza non sapeva neanche di possedere prima di quel febbrile contatto con lui.
Avrebbero potuto accendere un fuoco visibile fino al cielo con l’incendio che stava scoppiando nelle loro bocche.
- Ahem... perdonatemi – li interruppe il monaco oramai vicino a loro, con il tono a metà tra il mortalmente imbarazzato e il contrariato. – Vi pregherei di non dilettarvi in tali pratiche proprio davanti all’altare del Signore, figlioli.
A ciò, i due si staccarono, di malavoglia, sorridendo ognuno nella bocca dell’altro, mentre udivano quelle parole.
- Perdonateci, padre – Blake fu il primo a parlare, voltando lo sguardo verso il monaco.
- Avete bisogno di qualcosa, padre? – si rivolse a lui Judith.
- Mi chiedevo se foste ancora in compagnia dei bambini, in quanto è già arrivata la levatrice.
A ciò, Judith spalancò gli occhi, ricordandosi di quell’impegno importante, che l’arrivo del ragazzo le aveva fatto dimenticare.
- Giusto! I bambini stanno pranzando ora, riprenderò la lezione con loro più tardi, perciò posso vedere la levatrice ora.
- Bene, le dico che la state raggiungendo, dunque – le disse il monaco allontanandosi poi rispettosamente, e riprendendo a salire le scale.
A ciò, la ragazza ritornò a guardare Blake. – I vostri genitori vi permettono di uscire, dunque?
- Siamo giunti ad una tregua.
- Allora, posso chiedervi di accompagnarmi alla mia visita con la levatrice, per controllare lo stato del bambino?
Non vorrei nessun altro oltre voi lì dentro – gli disse prendendogli la mano nella sua, trasmettendogli tutto il suo bisogno con il suo sguardo accorato.
- Certo. Non dovete neppure chiederlo.
 
La donna tastò il ventre gonfio e nudo di Judith con veemenza, mentre la ragazza stringeva la mano di Blake, seduto accanto a lei sul giaciglio in cui la fanciulla era sdraiata.
- Sono tre – disse la levatrice.
Per un attimo, i due non riuscirono a comprendere, e la guardarono confusi.
- Sono tre gemelli – si spiegò meglio la donna, realizzando a sua volta quel che aveva appena detto e facendosi il segno della croce nel verso giusto, essendo una serva del Creatore. – Sono tre gemelli... – ripetè.
- Tre...? – sibilò Judith sconvolta.
Blake era quasi più sconcertato di lei.
- Cresceranno in fretta d’ora in avanti, proprio perchè sono in tre dentro un solo corpo.
Un corpo che, tra l’altro, non si nutre neanche quanto dovrebbe.
- Sto riniziando a nutrirmi adeguatamente da giorni.
- Fareste meglio a farlo se non volete perderli.
Tre ... tre gemelli.. non accadeva da anni!
Tre.. tre come il numero sacro del nostro Creatore.. tre come il Padre, il Figlio e lo Spirito santo! – esclamò la levatrice, con lo sguardo rivolto al cielo, poi realizzando di nuovo con orrore, nel momento in cui posò gli occhi scuri sul corpo e sul volto della fanciulla sdraiata sul letto. – Un numero sacro... associato ad una serva del Diavolo..? I numeri sacri del nostro Creatore sui servi del Diavolo hanno sempre portato cattiva sorte! I vostri figli sono un segno di pessimo presagio! Se solo in villaggio si venisse a sapere una cosa simile- disse la donna scattando in piedi, ma venendo immediatamente interrotta da Blake, il quale si alzò in piedi a sua volta, avvicinandosi e imperando su di lei con la sua elevata statura, facendola pietrificare.
- Ma noi contiamo che, oltre a noi tre in questa casa... nessuna anima viva nel villaggio verrà a conoscenza di tale informazione. Giusto?
Perchè se dovessi disgraziatamente venire a scoprire che voi vi siete lasciata sfuggire la notizia con qualcuno, vi tramortirò e porterò il vostro corpo come dono sacrificale alla dimora degli stregoni eremiti, in modo che possano fare di voi ciò che preferiscono.
La donna, tremante, acconsentì, prendendo poi le sue cose e congedandosi da quella stanza.
Tra Blake e Judith ripiombò il silenzio, un silenzio macchiato solamente dai rumori di Judith che si risistemava l’abito.
- Non posso crederci... – sussurrò la ragazza dopo un po’, con un tono di voce indefinibile. – Tre gemelli...
- Judith – la richiamò lui, facendola voltare verso la sua schiena.
Il ragazzo era in piedi, e le dava le spalle, mentre ella era ancora seduta sul letto.
- Sì?
- Mi avevate detto che volevate sbarazzarvi del vostro bambino, tempo fa, e che volevate farlo prima che fosse troppo tardi. Prima che crescesse troppo dentro di voi.
Ora è trascorso del tempo. Il vostro ventre è cresciuto e con esso ciò che vi è all’interno.
Ed ora avete persino scoperto che ne sono in tre, lì dentro.
Non credete sia il caso di chiudere questa storia una volta per tutte? – le disse schietto, voltandosi verso di lei.
- Avete ragione.
L’ho detto, e lo penso ancora.
- Allora cosa vi frena?
Non avete il coraggio di farlo?
- Non si può ridurre tutto solamente ad una questione di coraggio, Blake.
È molto più complicato di così.
- Spiegatemelo, allora.
- Non potreste comprendere.
- Per quale motivo?
- Perchè non siete una donna! – esclamò lei alzandosi in piedi a sua volta.
Di nuovo calò il silenzio tra loro.
- Mi dispiace, Blake, ma chi non è donna non può comprendere cosa si prova. Sono sempre stata di quest’opinione.
Non voglio tentare di spiegarvi come mi sento, per poi venire irrimediabilmente giudicata da voi.
- Credete che io sia qui per giudicarvi..?
- Tutti lo facciamo, inconsapevolmente o no.
- Judith, rispondetemi sinceramente: li volete o no questi bambini?
- No.
- E quando avete intenzione di ucciderli?
- Non lo so.
- E quando sarà troppo tardi, cosa farete?
Sareste in grado di ucciderli quando saranno fuori dal vostro ventre?
- Quando loro saranno fuori dal mio ventre... sarò io ad essere morta – gli rispose schietta, vedendolo sgranare gli occhi e indietreggiare.
La ragazza sorrise amaramente.
- Sì. La vita degli uni esclude quella dell’altra.
Io non potrò essere la loro madre.
E loro non potranno essere i miei figli.
Le due cose non potranno coesistere.
A meno che... non accada un miracolo.
Ma come ha già specificato la levatrice... un numero sacro addosso ad una serva del Diavolo è già di per sè un cattivo presagio – disse, sorridendo ancora sfinita, disillusa. – E se il miracolo accadesse davvero, e sopravvivessimo tutti e quattro ... allora, sì, dovrò ucciderli con le mie mani.
In quel momento, avrebbe solo voluto restare sola.
Blake sembrò comprenderlo.
Blake aveva la capacità di comprendere tutto ciò che la riguardava, senza darlo a vedere.
- Dovrete scegliere – le disse serafico, rinfilandosi il mantello, risultando sin troppo duro alle sue orecchie.
- Ve ne state andando?
- Sì. Riposatevi un po’ prima che tornino i bambini. Ne avete bisogno.
Improvvisamente, quelle lunghe giornate ininterrotte senza mai vedersi nè toccarsi, tornanrono a scottare sulla pelle e sulla memoria della ragazza, spingendola a riaprire bocca:
- Quando tornerete qui?
Sapete, ormai i miei allievi vi hanno visto e vorrebbero sapere chi siete.
Specialmente le bambine. Le ho viste particolarmente interessate – disse la fanciulla, accennando un lieve sorriso divertito.
A ciò, Blake ricambiò il sorriso, prima di salutarla e uscire dalla stanza. – Tornerò presto. Per le bambine, ovviamente.
 
Le fiamme del soppalco lo circondavano, bruciandogli la pelle, nonostante non fossero ancora arrivate a lui.
Ma, presto, quelle lingue di fuoco avrebbero divorato le sue carni fino all’osso, e lui avrebbe urlato al cielo a squarciagola, verso un dio che lo aveva disconosciuto.
Si dimenò, nonostante fosse legato con delle corde strette e lacerati, che gli stringevano il busto stretto e le braccia al palo dietro di lui.
Le persone intorno al villaggio urlavano di gioia per la sua esecuzione, impazienti di vederlo ardere.
Un monaco del Creatore, con una faccia incredibilmente simile a quella di padre Cliamon, scavalcò le fiamme del soppalco, quasi come fosse immune al fuoco.
Gli si avvicinò e gli strinse i capelli tra le dita, facendogli alzare il viso, sconvolto e ansimante.
Lo guardò soddisfatto, ghignando. – Ora tutti i tuoi peccati verranno espiati, strige.
- Strige...? Non sono una strige!
- Ogni tua parola sarà inutile e ininfluente, creatura demoniaca. Risparmia il fiato per urlare. Ti servirà.

Folker si svegliò di soprassalto, ritrovandosi nel proprio letto, sudato, tremante e col fiatone.
Strinse le coperte sotto di sè tra i pugni stretti, mentre sua madre e suo padre lo raggiungevano in camera.
Sua madre, allarmata fino all’inverosimile, gli si buttò accanto, prendendogli il viso tra le mani.
- Tesoro...? Stavi urlando nel sonno.. che succede?
Folker continuò a respirare faticosamente, senza guardarla in faccia, mentre posava gli occhi chiari fuori dalla finestra, accorgendosi fosse mattina.
C’era qualcosa che non andava.
Il tempo sembrava quasi scorrere diversamente da quel giorno in cui aveva perduto completamente la memoria di cosa avesse fatto in tutta un’intera giornata.
- Folker? Vuoi dirci che succede, una buona volta? – la voce di suo padre lo raggiunse, dura e fredda, proveniente dallo stipite della porta. – Insomma, tre giorni fa ti svegli una mattina, e ti ritroviamo conciato in quello stato, come se qualcuno ti avesse preso violentemente a sassate in faccia durante la notte, e dici di non ricordarti nulla di come ti sei procurato quelle ferite, e di cosa hai fatto nel corso di tutto il giorno.. ed ora ti ritroviamo ad urlare come un dannato mentre dormi.
La voce dell’uomo non era preoccupata, bensì lapidaria e seccata.
La donna, al contrario, continuava a carezzargli il viso, attenta a non sfiorargli gli ematomi e le ferite, che non si erano ancora rimarginate, nonostante fossero migliorate.
 - Dobbiamo metterci altre erbe medicinali e fare altri impacchi di camomilla.. vedrai che entro qualche giorno miglioreranno ancor di più, tesoro – disse premurosa, vedendolo poi rifiutare come al solito le sue premure, scostandosi malamente da lei.
- Smettila. Lasciami stare. Lasciatemi stare tutti e due.
- Folker..
Il ragazzo si alzò in piedi, si infilò una maglia in più, indossò i suoi fidati stivali, poi prese il suo mantello e uscì di casa senza dire una parola.
Il vento freddo impattò sul suo viso delicato, con le ferite che ancora risentivano di cambi di temperatura troppo repentini, facendolo mugolare lievemente di dolore.
Nonostante il freddo, il sole era alto in cielo e lo colpì in pieno, dando sollievo alle sue membra, ma infastidendogli anche gli occhi, che fu costretto a strizzare più volte.
Camminò velocemente, senza meta, fin quando non si scontrò contro qualcuno.
Barcollò lievemente, mantenendo l’equilibrio, cercando di aprire gli occhi il più possibile per visualizzare chi gli fosse andato a sbattere contro come un idiota.
Dinnanzi a sè, con sua sgradita sorpresa, trovò l’ultima persona che voleva vedere al momento.
- Tu...! Che diavolo ci fai qui?? E stai attento a dove cammini! – esclamò inacidito, dando una violenta spinta ad Ambrose, com’era suo solito.
Ma il servo del Creatore non rispose alla provocazione, anzi, rimase fermo, a guardarlo, con uno sguardo moritificato. – In realtà stavo venendo a cercarti. Mi dispiace di esserti andato a sbatter contro, non volevo. Tuttavia, eri tu che non stavi guardando dove stavi andando, dovresti tenere gli occhi più aperti quando cammini.
- Lo farei se non avessi il sole contro! Aspetta, frena un attimo... tu stavi venendo a cercarmi.. a casa mia?! Sei impazzito?? Chi accidenti ti ha detto dove abito??
- Folker..
- Se i miei genitori ti vedessero cosa penserebbero secondo te, Testa di ferro?? Che spiegazione dovrei dargli?? Conosci le regole: “La Congrega degli sciacalli non esiste se non dentro la Taverna”. Non appena usciamo di lì, nessuno di noi si conosce, nessuno di noi cerca gli altri, nessuno di noi sa nulla! Se dovessero scorprirci saremmo tutti spacciati! – esclamò spingendolo ancora.
- Lo so! Tuttavia.. volevo..
- ..Scusarti con me? – lo anticipò, sorprendendo l’altro, il quale rimase a bocca aperta, boccheggiando.
- Non fare quella faccia. Ovviamente mi hanno detto che sei stato tu a farmi questo – continuò il biondo indicandosi il viso, e riprendendo a camminare come se niente fosse, stringendosi nel suo mantello.
- Ma... ma mi hanno detto che tu, stranamente, non ricordi nulla di quel giorno! – esclamò Ambrose correndogli dietro.
- Infatti non ricordo niente e non ne so il motivo. Ragion per cui non sapevo cosa diavolo inventarmi con i miei genitori, che hanno iniziato a riempirmi di domande. Per colpa tua, stupido toro, ho dovuto dir loro che ho litigato pesantamente con uno dei miei più cari amici, che ci siamo picchiati, ma che poi abbiamo risolto tutto.
- E chi ti ha detto che...
- Credevi che i miei amici non mi avrebbero informato?? – gli domandò arrestando la sua camminata spedita e voltandosi a guardarlo truce. – E poi.. credi sia così stupido?? Chi altro avrebbe potuto ridurmi così, me, che sono il migliore a combattere corpo a corpo lì dentro? Chi se non un dannato bestione come te?? – gli urlò frustrato. – Te la farò pagare la prossima volta.. stanne certo, Ambrose! Ti farò pentire di avermi mai-
- Ma non vuoi sapere per quale motivo hai perduto i tuoi ricordi di quel giorno? – gli domandò improvvisamente il servo del Creatore, interrompendolo, fissandolo dall’alto della sua stazza, ignorando la terribile minaccia che gli era appena stata fatta.
- Cosa..? E cosa dovrebbe importare a te? – gli domandò Folker alzando un sopracciglio e guardandolo stranito. – Io odio te e tu odi me. Te ne sei improvvisamente dimenticato, servo del Creatore? Cosa ti passa in quella testa vuota, ora..?
- Folker, io sono venuto per scusarmi perchè sono pentito di quello che ti ho fatto – si impose finalmente il ragazzo, prendendolo per le spalle, ma senza fargli male. – Non avrei dovuto picchiarti in quel modo, avrei potuto quasi ucciderti se ci fossi andato più pesante..
- Io avrei fatto la stessa cosa al tuo posto.
- Lo so, ma non avrei dovuto comunque, d’accordo??
I due si guardarono negli occhi, Folker sconvolto e confuso ai limiti dell’umano, mentre Ambrose deciso, con un briciolo di speranza negli occhi.
- Non pretendo che tutto ciò che ci siamo fatti sinora svanisca e scivoli via come niente fosse, assolutamente.
- Sarebbe da folli pretendere una cosa simile..
- Tuttavia.. pensavo che avrei potuto proporti una tregua.
- Perchè??
- Perchè? Perchè sono maledettamente stanco di combattere contro di te, Folker. Sei sfinente.
- Non sperare neanche per un momento che io dimentichi ciò che hai fatto ... tu hai ridotto in fin di vita il mio più caro amico!
- E tu hai detto quelle cose a mia sorella!
- E tu mi hai sfidato in quel modo sfrontato il giorno prima!
- Solo perchè tu mi hai distrutto completamente nel nostro primo combattimento!
- Beh, cosa pretendevi?? Che ci stringessimo le mani e saltellassimo per i prati tutti insieme? Abbiamo creato la congrega per combattere! E, oltretutto, tu sei anche un servo del Creatore!
- E tu sei un servo del Diavolo!
I due si placarono, smettendosi di urlarsi addosso senza motivo, riprendendo fiato.
Le tozze mani di Ambrose stringevano ancora le braccia di Folker, tenendolo fermo. Il servo del Diavolo se ne liberò, sconstandosi.
- Bene. Ora che ti sei scusato puoi andartene da dove sei venuto. E non farti tornare più in mente di venire a casa mia. Dentro la Taverna saremo di nuovo spietati sfidanti – disse Folker riprendendo a camminare.
- Lo so. Ma non c’è motivo per cui dovremmo esserlo anche fuori.
Inoltre, volevo anche dirti che, quella sera, avevo capito che ci fosse qualcosa che non andasse in te.
Eri diverso dal solito. Vorrei aiutarti a capire cosa è accaduto – gli rispose Ambrose, senza seguirlo, perciò dovette alzare la voce per farsi udire da lui, man mano che la distanza tra loro aumentava.
- Perchè mai mi vorresti aiutare, Testa di ferro??
- Perchè vorrei farmi perdonare per quello che ho fatto a Barclay! E per aver diffuso la storia delle strigi!
A ciò, Folker arrestò di nuovo la sua camminata.
Si voltò verso l’altro ragazzo, e ritornò indietro, raggiungendolo a grandi falcate. – Si può sapere cosa diavolo ti passa per la testa?! Ti sei bevuto qualche sorta di veleno stamattina, servo del Creatore?? Come puoi voler farti perdonare da me, dopo tutto quello che ti ho fatto?! – gli domandò sconvolto.
Ambrose rimase in silenzio per un po’, non sapendo anch’egli cosa rispondere. – Come ti ho detto.. vorrei provare a stabilire una temporanea tregua tra noi. Che male ci sarebbe ad aiutarti? Quello che ti è successo, d’altronde, è veramente strano. Praticamente, è come se io avessi picchiato una persona che non eri tu, per lo meno nella mia testa, e questa cosa mi disturba. Io non vorrei mai perdere la memoria di un giorno della mia vita senza spiegazioni. Tutto qui. Mi permetterai di aiutarti?
Folker, dal canto suo, che lo guardava scontroso come sempre, stava rimanendo sempre più allibito dalle parole che stava udendo dall’altro.
Gli stava per rispondere veementemente che no, non glielo avrebbe permesso, e di sparire dalla sua vista, ma quando aprì la bocca per dirglielo, non uscì nulla.
Rimase lì, in bilico, non sapendo cosa rispondere o come reagire, nonostante sentisse ancora della rabbia montare nei confronti di quel “bestione” davanti a sè, eterno nemico, che ora, tutt’un tratto era così bendisposto e quasi docile dinnanzi a lui.
Ambrose si azzardò ad accennare un lieve sorriso. – Ti ha lasciato davvero così tanto a bocca aperta quello che ho detto?
Ma i due vennero interrotti dall’arrivo improvviso di un gruppo di tre monaci, tra cui due ben piazzati, nonchè quelli che solitamente si occupavano di sorvegliare le segrete o di arrestare i peccatori.
I due ragazzi li guardarono sorpresi, avanzare verso di loro.
- Dietrich Folker, immagino, giusto? – domandò il monaco più vecchio e burbero dei tre, rivolgendosi al biondo.
- Sì, sono io.
- Sono padre Thomas. Venite con noi, ragazzo, dobbiamo fare alcune domande a voi e ai vostri genitori.
- I vostri colleghi sono già venuti per controllarci denti, pelle e sensibilità al sole, per accertarsi che non siamo strigi – gli rispose a tono Folker, il quale, tuttavia, venne afferrato per un braccio da uno degli altri due monaci.
- Ne sono consapevole, tuttavia, le informazioni che abbiamo su di voi sono cambiate – disse serafico il monaco. – Perciò ora verrete comunque con noi, che lo vogliate o no.
- Che cosa gli farete? – domandò improvvisamente Ambrose, intromettendosi.
A ciò, l’attenzione di tutti si spostò su di lui.
- Chi è costui? – domandò padre Thomas, squadrando il ragazzo servo del Creatore. -Ha un’aria familiare.
- In lui riconosco il giovane che è stato imprigionato per aver picchiato a sangue un suo coetaneo servo del Diavolo. Lui è quello che ha accusato quel Barclay, di essere una strige.
- Ah sì? Allora sarà utile fare anche domanda anche a voi, giovanotto – disse padre Thomas, poco prima che il terzo monaco afferrasse il braccio di Ambrose, e si dirigessero tutti e cinque verso la dimora di Folker.
 
- Che cosa sta succedendo, padri? – domandò loro il capofamiglia, padre di Folker, ponendo le braccia conserte e squadrando con severità suo figlio, poi il giovane servo del Creatore accanto a lui, e infine i tre monaci.
- Qualcuno ha accusato vostro figlio di essere una strige, signori – andò dritto al punto padre Thomas.
La donna raggelò, mentre suo marito impietrì.
- Che cosa..? Io non vi ho mai detto una cosa simile! – esclamò Ambrose. – Io non ho mai accusato Folker!
- Difatti non siete stato voi, ragazzo.
- Allora chi è stato?? – disse con rabbia il capofamiglia. – E, soprattutto, su quali basi?
A ciò, padre Thomas si avvicinò all’accusato, osservandogli il viso, posandovi le dita sopra per voltarlo con calma, e scrutare meglio l’entità degli scuri ematomi che lo macchiavano. – Chi è stato a farvi questo, Folker?
- Si tratta solo di una stupida discussione tra amici.
- Non sembra l’esito solo di una stupida discussione. Per cosa stavate litigando, voi e il vostro amico, quando vi siete picchiati in tal modo?
- Per una ragazza – mentì con naturalezza, puntando i suoi topazi verdi determinati e frementi sul volto del monaco, senza timore.
- Oh .. dovrà esser stata una ragazza davvero speciale e fortunata.. per meritarsi con tal ardore tutte queste attenzioni.
- Sono stato io – ammise improvvisamente Ambrose, attirando l’attenzione di tutti su di sè.
- Voi ... che cosa avete fatto?? – gli domandò il padre di Folker, ora ai limiti del furioso, facendo per avvicinarsi ad Ambrose, ma venendo trattenuto da uno dei monaci.
La donna, intanto, aveva già iniziato a piangere.
- Ambrose..! Che state dicendo?! – esclamò Folker guardandolo sconvolto e furioso. – No, non è vero!
- Sono stato io, padri. Mi prenderò tutte le mie colpe per ciò che ho fatto – ripetè Ambrose.
- Uno di voi due sta mentendo. La domanda è: perchè?
Diteci, Ambrose: per quale motivo avreste picchiato a sangue un altro servo del Diavolo? Sarebbe il secondo in due settimane a questo punto. Sta quasi diventando un’abitudine. Lo avete fatto perchè pensavate che anche lui fosse una strige? Lo avete fatto per difendervi, come con l’altro?
- Cosa?!? No!! – esclamò Ambrose, capendo di essersi dato la zappa sui piedi da solo, e di aver irrimediabilmente peggiorato la situazione di Folker, quando stava solo cercando di migliorarla come poteva. Si morse la lingua, infuriato con se stesso. Se tutto quel malinteso delle strigi era trapelato, era solo e solamente per colpa sua. – Dovete credermi... non l’ho fatto per questo! Non penso e non ho mai detto che Folker sia una strige!
- Non dovete mentire dinnanzi a noi, solo perchè vi trovate al cospetto di una creatura potenzialmente demoniaca e siete spaventato da lei. In ogni caso, siamo attrezzati per proteggerci da queste creature.
- Ma cosa...? Cosa state dicendo?? Credete davvero che io sia una strige? – domandò allibito Folker.
- Beh, cosa ci sarebbe di così sconvolgente a riguardo? – gli rispose padre Thomas ponendoglisi nuovamente dinnanzi.
- Padri.. possiamo garantirvi che nostro figlio non sia una di quelle creature leggendarie di cui tutto il villaggio sta parlando al momento. Sono solo stupide favole per spaventarvi! – cercò di convincerli il capofamiglia.
- Su quali basi mi state accusando? Posso saperlo?
- Il vostro amico, Barclay.
Quell’informazione lasciò tutti completamente costernati.
- Cosa...? Lui mi ha accusato di essere una strige..?
- Lo stavamo interrogando, lui e la sua famiglia, come stiamo oramai facendo da giorni, da quando il giovanotto qui presente li ha accusati. Stavamo per condannare uno di loro in quanto sembrava avere degli atteggiamenti sospetti, quando Barclay ci ha rivelato che, il giorno in cui Ambrose lo ha picchiato a morte, in realtà, non si stava difendendo da lui, ma si stava difendendo da voi, Folker. Siete voi colui di cui Ambrose ha sempre avuto paura. Barclay ci ha rivelato di essersi sempre chiesto il perchè. Così, un giorno in cui Ambrose si stava per scagliare su di voi per difendersi dalle vostre grinfie, Barclay si è messo in mezzo a voi inconsapevolmente, per difendervi, Folker, perchè vi credeva suo amico. Per questo si è ritrovato ferito a morte. Poi, quando è saltata fuori la faccenda delle strigi dalla bocca di Ambrose, Barclay ha ricollegato il tutto e ha compreso. Non ha detto nulla fino ad ora perchè, nel profondo, è ancora legato a voi come amico. Ma dinnanzi ad un’immenente condanna di un membro della sua famiglia innocente, ha ceduto e ci ha detto tutto. Ci ha anche informati che, a conferma delle sue parole, avremmo trovato Folker con il viso deturpato, e che l’autore di ciò fosse Ambrose, perchè, ancora una volta, si è dovuto difendere da lui, dalla strige.
- Tutto ciò è assurdo! Io sempre accusato Barclay di essere una strige! Non Folker! – insistette Ambrose, tentando in ogni modo di convincerli.
- Questo perchè Folker, con le sue doti persuasive caratteristiche delle strigi, vi ha convinto ad accusare il suo amico al suo posto. Ora si spiega tutto – lo zittì padre Thomas.
- Ma non capite..?? Barclay vi ha detto tutto ciò solo per salvarsi la pelle, e salvare quella della sua famiglia, date che stavate condannando ingiustamente un suo parente.. così come questo stolto qui di fianco si è inventato la questione delle strigi per giustificare ciò che ha fatto.. Il mio “amico” vi sta ingannando sotto il naso, cercando di scaricare la colpa su di me, e voi siete talmente stupidi da non accorgervene neanche..! - esclamò Folker cercando di dimenarsi dalla presa del monaco che lo stava tenendo fermo, senza successo.
- Inoltre, come spiegate la vostra elevata sensibilità al sole, Folker? Prima, mentre camminavate, vi abbiamo visto strizzare gli occhi fastidiosamente dinnanzi ai raggi del sole.
- Gli dà fastidio il sole perchè ha gli occhi chiari, dannazione! – esclamò la donna prendendo la parola, sull’orlo della disperazione. – Prendete qualsiasi altro con gli occhi chiari quanto i suoi e avrà la stessa reazione! Questo non dimostra nulla!
- Io non ne sarei così sicuro – disse padre Thomas, oramai totalmente convinto e certo della sua teoria, afferrando il viso del ragazzo con una mano e guardandolo ancora. – D’altronde, non mi sorprenderebbe affatto se fosse una strige. Allister Chaim aveva descritto bene le loro doti, al tempo, quando ne aveva incontrata una. Questo fanciullo sarebbe benissimo ingrado di sedurre ugualmente donne e uomini con un sol battito di ciglia.
- Questo non dimostra nulla! – esclamò nuovamente la madre, ora totalmente disperata. – Vi prego! Vi prego, non portatemelo via! Non portatemi via anche lui! Mio figlio è tutto ciò che mi resta!
- Se davvero volete aiutare questo giovane, Ambrose, c’è solo una cosa che potete fare – disse padre Thomas, rivolgendosi al giovane servo del Creatore. – Datemi un valido motivo per cui lo avreste picchiato.
A tal punto, Folker si voltò verso Ambrose, rivolgendogli lo sguardo più supplichevole che avesse mai visto.
Uno sguardo che stava a dire: “Non condannare tutti coloro che fanno parte della nostra congrega. Proteggi la Congrega degli sciacalli. Costi quel che costi.”
Combattuto sino ai limiti della sopportazione, Ambrose strinse gli occhi e digrignò i denti, sentendosi impotente come non lo era mai stato.
Per la seconda volta, le sue parole avrebbero condannato una vita innocente.
- Non... non ho una motivazione da darvi – si arrese infine.
Folker tirò un sospiro di sollievo internamente, grato ad Ambrose di non aver rivelato nulla, pur temendo che il proprio destino fosse oramai segnato.
- Bene. Come pensavo. Siamo costretti a prelevare vostro figlio, signori. Non temete, lo terremo un po’ con noi e gli faremo solo qualche domanda in più, prima di stabilire se sia davvero colpevole o no – disse padre Thomas, mentre gli altri due monaci prendevano Folker di peso e lo condevano fuori di casa.
Camminarono per trenta minuti abbandanti, fin quando non giunsero dinnanzi alle due cattedrali.
Entrarono in quella del Creatore e raggiunsero una saletta vuota e isolata, nel piano di sopra.
Al suo interno, vi era la figura di una ragazza, una giovane serva del Diavolo che pareva molto più adulta di quel che era in realtà, vestita elegantemente, di tutto punto, con un abito nero ed elegantissimo, e i voluminosi capelli appuntati impeccabilmente in alto.
Lì dentro, i tre lasciarono andare il ragazzo, e padre Thomas si rivolse a quest’ultimo. – Ringraziate lei se non siete già in una cella delle segrete, giovanotto. È solo grazie a lei e alla sua insistenza nel sostenere che la storia delle strigi sia solo una fantasia, che ora siete qui, in procinto di farvi interrogare da lei. Mi raccomando, comportatevi educatamente o saremo costretti ad intervenire – lo ammonì, per poi fare un passo indietro, e uscire dalla sala insieme agli altri due, richiudendosi la porta alle spalle e lasciando i due soli.
Folker la squadrò con diffidenza, riconoscendo in lei la pupilla dei monaci del Creatore di cui aveva sentito spesso parlare.
- Dunque, immagino siate voi... l’ape regina di cui parlano tutti – disse solamente il fanciullo.
A ciò, la sua interlocutrice accennò un sorriso inflessibile e cordiale insieme. – Piacere di fare la vostra conoscenza, Folker. Volete accomodarvi qui di fronte a me? Non ho molto tempo, a breve dovrò tenere una lezione con i bambini.
 
 
Lo stregone bussò alla porta della casa che conosceva bene, riparandosi dalla pioggia come meglio poteva, nel suo mantello.
Un tremendo temporale affliggeva e macchiava il cielo quella sera, con fulmini come non se erano mai visti da anni.
Il giovane bussò di nuovo, spazientito, fin quando l’uomo non aprì la porta della casa Rolland.
- Ce ne hai messo di tempo – si lamentò Ephram entrando in casa irritato, togliendosi il mantello come fosse a casa sua.
- Attento a non bagnare per terra, per cortesia.
A ciò, Ephram si voltò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. – Tu non fai altro che spedirmi lettere da tutto il giorno, pregandomi di venire qui questa sera, ed ora che sono qui e ti ho accontentato, la prima cosa che osi dirmi è di “non bagnare per terra”?? Che il Diavolo ti maledica, Quaglia! Chi altro c’è in questa casa?
- Solo io, te e padre Craig.
- Possibile che in questa abitazione ci sia sempre chiunque tranne i legittimi proprietari? Dove diavolo è Blake?
- Non lo so. Non si vede da stamattina, è sparito per un po’ – rispose Quaglia, con evidente agitazione nella voce. – Ti ho chiesto di venire perchè devi aiutarmi, Ephram.
- Cos’è, ora sono divenuto il buon samaritano di tutti? Prima Blake con le visioni del futuro, e ora voi. Vi sembra che ho scritto in fronte “aiuterò tutti i bisognosi, non vi basta altro che farmi un fischio”? – disse con il suo solito tono arrogante.
- Ti prego, sei mio amico. Non posso chiedere aiuto a Blake.
- Perchè no?
- Perchè lo stregone sei tu, Ephram. E Blake ha già abbastanza problemi per la testa.
In quel momento, padre Craig li raggiunse, squadrando la figura di Ephram, poi voltandosi a guardare Quaglia, mentre un tremendo fulmine squarciava il cielo e li assordava.
- Sono profondamente contrario ad ogni tipo di magia – premise il giovane prete. – Tuttavia, in questo caso sono d’accordo con Quaglia nel richiedere il vostro aiuto, Ephram.
- Hai convinto persino il santo monaco straniero?? Deve essere una questione di estrema importanza dunque! – esclamò lo stregone incuriosito, ponendo le braccia conserte e ghignando. – Ti ascolto, amico mio.
- Sono giorni che entro nello studio di Rolland quando non c’è nessun altro in casa, oppure di notte, quando tutti dormono, per lavorare a questo. Tutto è iniziato quando abbiamo fatto la prima sessione di evocazione dei miei antenati, e ho cominciato ad avere visioni dei Philippus delle generazioni precedenti alla mia, miei bisnonni e vari trisavoli. Ho acquisito le loro conoscenze alchemiche, si sono immagazzinate nella mia mente, attecchendo senza che me ne accorgessi. Così, anche nelle sessioni seguenti. La questione dell’homunculus ha iniziato a diventare un’ossessione, a comparirmi nella mente sin troppo assiduamente, e questa notte ho finalmente compreso il perchè. Sapevo che quella razza di fantoccio non promettesse nulla di buono. Questa notte ho avuto la conferma che è la quintessenza del male, e che mai, mai nessuno delle seguenti generazioni della mia famiglia e di alchimisti dovrà più crearne uno.
Il fatto più buffo e triste di tutto ciò, è che ricordo chiaramente i ricordi dei miei antenati, ma continuo a non avere memoria della mia vita passata.
- Quaglia, vuoi arrivare al punto?
- Il punto è che, già da quando ho iniziato ad avere visioni evanescenti del pericolo rappresentato dall’homunculus giorni fa, e ho iniziato ad acquisire passivamente le conoscenze alchemiche e medicinali dei miei antenati, ho partorito l’idea di dover fare qualcosa a riguardo, per evitare che io o qualsiasi altro che ne è in grado, potessimo mai nutrire il desiderio di creare la vita con le nostre mani, artificialmente.
Da qui mi è venuto in mente qualcosa. L’ambizione e la superbia di voler creare la vita e di sostiuirsi a Dio nasce da un vizio, da un peccato umano.
- Si potrebbe tradurre in peccato di Hybris e tracotanza, sì – confermò Ephram.
- Ma non è solo questo. Ognuno di noi, persino il contadinello di mente più semplice e con meno aspettative sulla vita, possiede quel lato marcio che lo porta a compiere misfatti, piccoli o grandi che siano, sin dalla nascita. Che lo porta a peccare. Nessuno di noi viene al mondo totalmente puro.
- Ti stai addentrando in un discorso molto ampio e complesso, Quaglia – lo ammonì Ephram, accorgendosi che il giovane prete fosse sin troppo interessato alle parole di Quaglia.
- Seguimi, ti prego: non convieni con me con quello che ho appena detto?
- Ovviamente, ma fa parte della natura umana, e del peccato originale a cui ci ha condannati la progenitrice Eva mangiando il frutto offertole dal mio signore il Diavolo, con nostra grande fortuna aggiungerei! Eva e il Diavolo ci hanno liberati dalle catene alle quali ci avrebbe costretti il Creatore; dandoci la libertà di scegliere, e conseguentemente di sbagliare e di peccare, come è giusto che sia.
- Ora non dilettatevi in discorsi biblici di dubbia autorevolezza, divulgando le credenze del vostro culto anche dinnanzi a chi non lo condivide! – lo rimproverò padre Craig.
- Stavo dicendo, prima che il prete mi interrompesse gentilmente... che sin da quando usciamo dal ventre materno, sin da quando non abbiamo la percezione del mondo intorno a noi, possediamo comunque quella parte di noi che ci dice di fare qualcosa che sappiamo di non dover fare: “Lancia il sasso nel fiume anche se mamma e papà ti hanno detto di non farlo”, “Fai la smorfia al monaco quando si volta dall’altra parte”, “Mangia un dolcetto in più, anche se non ne rimarranno per gli altri”, “Guarda e parla a quella ragazza, anche se è promessa ad un altro”, “Ruba quel gioiello, non se ne accorgerà nessuno” e così potrei continuare all’infinito. Fa parte della nostra anima, del nostro libero arbitrio e della parte ribelle che è insita in noi da sempre, e che ci dona quell’equilibrio di cui abbiamo bisogno per far andare l’universo nel verso giusto.
- Dunque, è come se fosse una persona diversa da noi, ma che risiede dentro di noi, giusto? – chiese conferma Quaglia.
- Come ho già detto: è insita in noi, ed è necessaria per continuare a vivere – si ripetè lo stregone, già consapevole che il discorso stesse andando a parare in un punto che non gli piaceva.
- Ma è proprio a causa di quella parte di noi, dettasi “anima nera”, che uno dei miei antenati ha sentito la necessità di spingersi oltre, dove non avrebbe dovuto, e di creare l’omuncolo. Per tale motivo, in questi giorni, di nascosto, nello studio di Rolland, ho creato un siero grazie alle conoscenze dei miei antenati.
Un siero alchemico che devo ancora testare.
- Un siero... per fare cosa?
- Per dividere quell’anima nera e diabolica da me. Così rimarrà solo quella pura, che non desidererà mai e poi mai spingersi a tanto e creare l’omuncolo. Se il siero dovesse funzionare, lo farò bere anche ai miei figli, se mai ne avrò. E se vorrà, potrò donarlo anche a Blake, dato che sembra costantemente tormentato.
- Quaglia... questo non è il modo giusto di affrontare questo terrore che ha preso possesso di te – cercò di farlo ragionare Ephram avvicinandosi a lui e guardandolo negli occhi con una determinazione e una serietà che fecero quasi tremare il novello alchimista. – Fidati di me, del tuo mentore: non bere quel siero. Hai acquisito delle conoscenze sporadiche riguardo elementi alchemici, piante e pietre che usavano i tuoi antenati per compiere i loro “miracoli”, ma sei ancora un principiante, e anche molto ingenuo, tra l’altro! Non puoi pretendere che questo siero funzioni.
- Per questo mi servi tu. Mi serve la magia di uno stregone potente come te per farlo funzionare con certezza, dato che le mie conoscenze in fatto di alchimia sono ancora neonate.
- Quaglia, se anche dovesse avere l’effetto che speri... potresti causare guai seri perseguendo l’intento che ti sei messo in testa...
- Per quale motivo?
- Perchè distruggeresti il sacro equilibrio dell’universo!
- Credo che non la stiate vedendo nel modo giusto, Ephram – si intromise padre Craig avvicinandosi.
- Perchè voi siete così interessato alla faccenda, padre? Cosa ve ne viene? – iniziò a sospettare Ephram, avvicinandoglisi e scrutandolo come se potesse leggergli dentro.
- Perchè vorrei assumere il siero anche io – ammise il giovane prete, senza rimorsi. – Un uomo di Dio come me mira sempre alla purezza più immacolata dinnanzi al proprio signore. Motivo per cui sarebbe solamente un grande vantaggio per me, riuscire ad estirpare anche il più piccolo germoglio di peccato che potrebbe sorgere nel mio cuore.
Ma Ephram non sembrava soddisfatto di quella risposta, e continuava a scrutarlo. – Poco fa avete detto che siete sempre stato contrario alla magia.. e non mi resta difficile crederlo, voi monaci siete tutti fatti della stessa pasta. Dunque no, non me la bevo: non può essere solo a causa del vostro “sacro desiderio di raggiungere la più candida purezza dinnanzi a dio” che volete sottoporvi a questo scempio. Deve esserci sotto qualcos’altro che vi spinge a tanto... qual è il terribile peccato che volete estirpare, e che sta mettendo radici sempre più salde nel vostro debole cuore, padre...? – gli domandò lo stregone avvicinandosi ancor di più, mettendolo alle strette e facendolo sudare freddo.
- Ad ogni modo, questo è il siero – si intromise Quaglia mostrando la boccetta ad Ephram, contenente un liquido semistrasparente e molto denso e appiccicoso, versandolo poi in una delle tante tazze da the che Heloisa possedeva nella cucina, mentre il temporale, i tuoni e i lampi facevano da sottofondo costante ai loro intrighi.
- Lo hai già qui pronto?!
- Per quale motivo ti avrei chiesto di venire qui questa sera, altrimenti? – rispose Quaglia, versando poi anche dell’acqua bollente all’interno della tazza in cui vi era il siero, aggiungendo delle erbe aromatiche al suo interno per creare un infuso dal sapore piacevole, e mischiare il tutto con pazienza.
- Non ti aiuterò mai a realizzare quest’oltraggio, Quaglia. L’unico motivo per cui sono ancora qui dopo tutte le follie che ho udito uscire dalla tua bocca, è per impedirti di compierlo.
Ad un tratto, i tre vennero distratti dal bussare alla porta, trasalendo.
- Uno dei quattro padroni di questa casa è tornato per caso? – domandò Ephram come se niente fosse.
- Vado io – si propose padre Craig, aprendo poi la porta di casa, spalancando gli occhi nel trovarsi nuovamente il volto di una turbatissima Hinedia davanti agli occhi, per la seconda volta in una giornata.
- Signorina Hinedia? Prego, entrate... – si spostò immediatamente per farla passare, e per farla sfuggire all’aggressione della pioggia violenta.
La serva del Creatore si tolse il mantello, tremante e spaventata, per poi lasciarlo tra le mani del giovane prete, che lo appese nell’attaccapanni.
- Ah, però a lei non lo dite di non bagnare per terra, eh? – si lamentò infantilmente Ephram, osservando poi la nuova arrivata, che non credeva di aver mai visto prima.
Ma la fanciulla era talmente turbata che sembrò persino non notare la presenza dello stregone.
- Hinedia, che succede? Perchè siete di nuovo qui? Vi sentite bene? Avete uno sguardo...
- Padre, oh, padre, ho avuto un altro incubo poco fa! Ora sono davvero convinta si tratti di un incubus, come ha supposto Blake questa mattina! – esclamò la ragazza lasciando sfogare le proprie lacrime e aggrappandosi alla tunica di padre Craig. – Padre, cosa devo fare?? Ditemelo, vi prego! Voi che siete un uomo di Dio, ditemi cosa mi sta accadendo! Gli incubi che faccio sono orribili! Questa volta, la mia “gemella maligna” era fuori dallo specchio e prendeva il posto della mia vita! Cosa significa tutto ciò? Se è davvero opera di un incubus, mi ritroverò gravida nel giro di pochi giorni??
A tali parole, Ephram non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una risata che attirò l’attenzione degli altri tre.
Poi, cercando di contenersi e di trovare dentro di sè un briciolo di tatto che non aveva mai avuto, si placò e guardò la fanciulla, la quale lo stava fissando con sguardo ancora turbato e perso.
- Non esistono gli incubus. E se ve lo dice uno stregone potete fidarvi, cara.
- Venite, vi preparo un infuso caldo con delle erbe calmanti, per distendere i nervi e per scaldarvi – la incoraggiò padre Craig ponendole una mano dietro la schiena e conducendola verso la cucina.
Hinedia si lasciò condurre e cercò di calmarsi.
- Lasciando perdere gli incubus e tornando al discorso fatto in precedenza: se il tuo miracoloso siero dovesse funzionare davvero.. cosa pensi che succederà alla tua “anima nera” una volta che sarà uscita da te? - domandò lo stregone.
- Lo scopo è farla sparire della circolazione.
- Di che siero state parlando? – domandò improvvisamente Hinedia.
- Chi diavolo è costei? – domandò Ephram guardandola di nuovo, stavolta stranito.
- Un’amica di Blake – rispose Quaglia.
- Le mie orecchie hanno udito bene...?? – domandò Ephram sgranando gli occhi esterrefatto. – Blake?? Amico di una serva del Creatore?? Ma allora sta davvero giungendo un apocalisse!
La ragazza, offesa e imbarazzata allo stesso tempo, si voltò verso padre Craig, il quale le aveva appena preparato un infuso di erbe calmanti, che aveva versato dentro una tazza.
- Hinedia... la vostra mano! Oh cielo, state sanguinando! – esclamò il prete, rendendosi conto solo in quel momento che la mano della fanciulla fosse ferita. – Cosa vi è accaduto?? – le domandò premendovi un panno pulito sopra, per placare la fuoriuscita di sangue.
- Oh .. quello? Non me ne sono quasi accorta, tanto era il mio turbamento – rispose ella distratta, lasciandosi curare. – Ho rotto uno specchio quando mi sono svegliata dal mio incubo poco fa.. ero come presa dal terrore di trovare la mia “gemella” dentro lo specchio e ho compiuto quel gesto irrazionale.
- Oh, poveri noi! – esclamò tristemente il giovane prete.
- Ad ogni modo, l’incubo che ho fatto questa notte mi ha confermato che l’omuncolo non deve essere creato, Ephram, e non solo per la sua natura diabolica e impossibile da uccidere: un mio antenato ha compiuto un atto ignobile a causa sua, scambiando il corpo del figlio con quello dell’omuncolo, pur di riuscire ad distruggere la creatura e a liberarsene, condannando il povero ragazzino a vivere il resto della sua vita dentro quel mostruoso sacrilegio immortale – spiegò Quaglia.
- L’omuncolo? Quello che era anche nel mio incubo? Quello che era anche in uno dei vostri disegni?? - domandò Hinedia intromettendosi ancora, sempre più interessata e spaventata, notando che sul tavolo della cucina vi fosse abbandonato il blocchetto di ritratti di Quaglia, e iniziando a cercare convulsamente tra essi quello che ritraeva l’orrendo fantoccio che aveva visualizzato in sogno.
- Ma siete tutti usciti di senno qui dentro?! – esclamò Ephram.
- Hinedia, vi prego, bevete l’infuso calmante che vi ho preparato.. state tremando – la incoraggiò padre Craig iniziando a preoccuparsi.
A ciò, la ragazza acconsentì, afferrando distrattamente la tazza fumante abbandonata sulla cucina, e bevendone il contenuto quasi in un sol sorso, mentre continuava a cercare tra i disegni; non accorgendosi che su quel ripiano vi fosse anche un’altra tazza fumante.
- Ad ogni modo, dobbiamo sbrigarci – li incitò Quaglia, rivolgendosi specialmente ad Ephram. – Blake è sparito, Rolland passerà la notte alla galleria; tuttavia Ioan ed Heloisa sono da un’amica di famiglia di quest’ultima, e potrebbero tornare da un momento all’altro! Non sarebbe l’ideale se ci trovassero tutti qui.
- Ha ragione – gli diede man forte padre Craig.
- Non vi aiuterò con quel dannato siero! Scordatevelo!
- Quaglia ... – la voce spezzata e rauca di Hinedia attirò l’attenzione dei tre, quasi spaventandoli per quanto rotta e profonda. Gli occhi della serva del Creatore si alzarono e si puntarono su Quaglia, totalmente lucidi. - Per quale motivo ... c’è anche un mio ritratto qui..? Voi... prima di stamattina non mi avevate mai vista. E... stamattina non mi avete fatto un ritratto...
Il terrore si diramò nella stanza.
Le energie negative invasero i sensi e l’intuito sovrannaturale dello stregone, facendogli percepire quanto la situazione fosse peggiorata esponenzialmente nel giro di pochi istanti, divenendo irrecuperabile.
Ephram sentì che il danno fosse oramai fatto.
- Io ... io non vi ho mai fatto un ritratto... non è possibile ... – disse con un fil di voce Quaglia, iniziando ad ansimare di terrore, avvicinandosi verso il tavolo come un condannato a morte e constatando con i propri occhi che vi fosse effettivamente un ritratto della ragazza tra quei disegni. – Questo non l’ho fatto io... fino a poco fa non c’era... che cosa...? Ephram? Come spieghi tutto ciò? Ephram? – il novello alchimista fissò lo stregone distante da sè con disperazione, trovandolo totalmente in trance, come assente.
- Devo andarmene via di qui ... – sussurrò solamente in un sibilo, spaventando ancor di più Quaglia.
Il temporale divenne più prepotente, scuotendo il cielo con rumorosissimi tuoni.
- È come se ... quel ritratto si fosse materializzato nel momento in cui voi avete bevuto l’infuso calmante... - osservò padre Craig, confuso.
- Quale dei due infusi avete bevuto...?? – domandò improvvisamente lo stregone, piombando a sua volta nella cucina in cui si trovavano gli altri tre. – Quale?? – ripetè con urgenza alla ragazza, la quale sembrò non capire.
A ciò, Quaglia annusò la tazza colma e fumante rimasta sul ripiano della cucina, intoccata, inorridendo. - Questo infuso... odora di erbe calmanti. Era questo l’infuso alle erbe calmanti di padre Craig... quindi, ciò vuol dire che Hinedia, per errore ha... – non fu in grado di terminare la frase, per l’orrore.
- Ha bevuto il vostro siero – completò quel funesto pensiero il giovane prete, fissando la ragazza, la quale stava inziando a comprendere a sua volta, sbiancando.
Venne fissata da tutti e tre con terrore mentre il temporale imperversava fuori dalla casa.
- Beh.. non sembra stia accadendo nulla, comunque... senza l’intervento di Ephram, era comunque improbabile che il mio siero funzionasse, no..? Quindi non dobbiamo preoccuparci. Se siamo fortunati, non succederà nulla – Quaglia cercò di levigare quella tremenda agitazione che stava infettando l’aria.
Poi, senza che alcuno se ne accorgesse, una goccia di sangue proveniente dalla ferita sulla mano di Hinedia, si andò a schiantare sul ritratto stesso della ragazza, portando a termine ciò a cui avevano inconsapevolmente dato inizio.
Quando lo notò, Ephram inorridì.
- Hinedia... – pronunciò Quaglia paralizzandosi. – Il vostro volto sta cambiando...
 
 
 
 

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Capitolo 36
*** Anima spezzata ***


Anima spezzata
 
 
Hinedia si sentiva più che bene quella mattina.
Se si fosse basata sul suo stato fisico, avrebbe detto che non fosse accaduto nulla la sera prima.
Dopo aver erroneamente bevuto il siero; sotto suggerimento di Ephram era tornata a casa sua e ci aveva dormito su.
Non ricordava altro. Si era semplicemente svegliata quella mattina come nuova, più riposata che mai, con una grande energia ed una strana e nuovissima pace mentale.
Stava bene. Stava bene, dopo giorni trascorsi a struggersi senza alcun motivo, stava bene.
Ed era infinitamente felice di rivedere Judith e i bambini.
Oramai la data dello spettacolo si avvicinava, e i bambini avevano bisogno di maggior supporto possibile.
Entro dentro la cattedrale del Creatore e si diresse verso la sua amica, mentre i piccoli si preparavano mentalemente alla lezione che sarebbe seguita di lì a poco, ripassando il copione mentalmente o tra loro, e chiedendo aiuto ad alcuni monaci del Creatore che avevano offerto la loro disponiblità per assisterli, tra cui padre Petrit e padre Cliamon.
Era tutto così agevole e idilliaco ...
Andò incontro a Judith, sorridendole lucente e osservandola: indossava il suo abituale vestito elegante e nero, con il corpetto lievemente allentanto all’altezza del ventre più gonfio del solito, di tessuto pregiatissimo e tirato a lucido; un paio di guanti grigio perla che le coprivano i polsi e le mani sottili e delicate; dei raffinatissimi orecchini pendenti di pietra argentea messi ben in evidenza dai capelli sistemati in alto; e per finire una collana, con un ciondolo della stessa tipologia della pietra degli orecchini, che si stagliava in mezzo al suo petto pieno, rigoglioso e candido, facendola sembrare un etereo dipinto. – Buongiorno, Judith. Oggi siete ancor più splendida del solito – la salutò dolcemente, sentendosi particolarmente in vena di complimenti. Più la guardava, più era felice di essere sua amica.
A ciò, la fanciulla dai capelli cremisi ricambiò il suo sorriso con uno altrettanto bello, ma leggeramente e positivamente confuso. – Ciao anche a voi, Hinedia. Ieri non vi ho vista alla lezione. Tutto bene?
- Sì, non mi sentivo molto bene, ma oggi mi sento benissimo.
- Si vede infatti. Sembrate molto felice, serena, diversa dal solito... non so come spiegarlo, ma il vostro volto è più disteso, gli occhi più lucenti, lo sguardo sereno... persino il vostro volto è – Judith si bloccò, osservandola meglio e sgranando i suoi occhi d’ossidiana. – Hinedia, il vostro volto è..
- .. Più bello? Non oserei azzardare tanto, infondo noi servi del Creatore non potremmo mai divenire neanche lontanamente gradevoli alla vista. Sarebbe impossibile.
- No, ma, tuttavia, il vostro aspetto ha come subìto un cambiamento in meglio. Non so neanche io come spiegarlo – le disse Judith, osservandola ancora confusa.
Il suo aspetto ora trasmetteva voglia di vivere, ecco cosa avrebbe voluto dire la fanciulla.
Hinedia le sorrise in risposta, sempre più felice.
Forse era davvero servito, bere quel siero miracoloso, si ritrovò a pensare.
- Ad ogni modo, non ve l’ho chiesto, ma com’ è andata ieri con i bambini?
- Oh bene. Sorie e Dionne sono state strepitose. Sono sulla buona strada tutti quanti.
- Tuttavia, il vostro volto sembra turbato. A cosa state pensando?
- Oh, a nulla in particolare – rispose Judith sorridendole rassicurante.
- A me potete dirlo, lo sapete. Cosa vi affligge? Riguarda Blake, di nuovo?
- No, no, anzi.. ieri finalmente io e lui ci siamo riappacificati – rispose la ragazza con un lietissimo sorriso ad ornarle il viso divino.
A ciò, Hinedia percepì un sincero moto di felicità invaderla, nel venire a conoscenza di tale notizia. – Lo sapevo! Lo sapevo che avreste chiarito! Ne sono davvero lieta! Si vede che ora il vostro viso è più rilassato e disteso, Judith, quando ne parlate.
Il giorno prima, oltre a della sincera felicità, avrebbe provato anche un altro sentimento, un sentimento negativo che non riusciva ancora a categorizzare, nel ricevere tale notizia.
Un sentimento che l’aveva inevitabilmente incupita, al pensiero che Blake e Judith fossero una sola anima.
Ma ora non vi era più traccia di quel sentimento dannoso.
Provava solo una grande e intensissima gioia.
Tanto da commuoversi quasi. Se non fosse stato per il volto della sua amica, che rimaneva comunque velato da una qualche sorta di preoccupazione. – Allora cos’è che vi rende pensierosa?
A ciò, Judith si arrese e ripensò alla conversazione avvenuta il giorno prima con quel ragazzo accusato ingiustamente di essere una strige:
Folker prese posto nella sedia di fronte a lei, guardandola fissa, senza mai distogliere lo sguardo.
- Cos’è? Volete leggermi delle parti del libro sacro prima di sbattermi in cella, come fate con gli altri prigionieri? – le disse acido.
Judith non aveva mai udito un tono tanto velenoso uscire dalla bocca di qualcuno, specialmente di un così giovane ragazzo.
- Siete qui, dinnanzi a me, per rispondere alle mie domande, e per ascoltarmi, Folker – gli rispose senza battere ciglio, accavallando le gambe elegantemente. – Io non credo alla storia delle strigi, ma oramai tutto il villaggio è convinto della loro esistenza, monaci compresi, perciò non c’è molto che possiamo fare a riguardo.
- Ma come? Non siete mica la pupilla dei monaci?? Non dovreste possedere un certo ascendente su quei vecchi sanguinari che ci vogliono tutti morti?
- Non è così semplice. Mi ascoltano e tengono in considerazione la mia opinione, ma rimango comunque una donna, senza alcun potere o diritto, per di più non ho donato e non ho intenzione di donare corpo ed anima al nostro signore, divenendo monaca. Dunque, il mio “ascendente” su di loro, o comunque preferite chiamarlo, arriva fino ad un certo punto.
- Allora, a cosa mi servite?
- Vi servo a non venire sbattuto in cella e condannato seduta stante, se proprio ci tenete a saperlo – lo zittì con autorevolezza, continuando ad osservarlo. Era incredibile quanto il viso di quel fanciullo, nonostante fosse tumefatto ed escoriato dolorosamente alla vista, in diversi punti, rimanesse comunque di una bellezza indescrivibile e destabilizzante per quanto raffinata. – Se riusciste a spiegare come vi siete procurato quelle ferite in volto, sareste già fuori di qui, senza alcuna accusa.
- L’ho già detto ai vostri protettori: ho litigato con un mio amico. Quante altre volte dovrò ripeterlo?
- Ma il servo del Creatore che ha accusato per primo il vostro amico Barclay non ha forse affermato di avervi ridotto lui in questo stato, ai miei “protettori”? Credete non me lo abbiano riferito? Ditemi la verità, Folker, sono qui per aiutarvi. Come vi è stato già detto e ribadito, non vi trovate già in cella solo grazie a me, ed è solo nel mio interesse capire cosa è accaduto e togliervi dai guai, se ne siete meritevole.
- E come capite se ne sono meritevole?
- Lo siete? – gli domandò inclinando il volto e portando il busto in avanti, poggiando i gomiti alle propria ginocchia coperte dall’abito.
Il ragazzo, in risposta, continuò a fissarla con uno sguardo di sfida indecifrabile. – Sono una persona cattiva – disse poi, spiazzando Judith.
- Come mai pensate di esserlo?
- Non penso di esserlo, so di esserlo. Sono cattivo perchè mi piace picchiare le persone. Avete avuto la vostra risposta – disse algido, come se le proprie parole non potessero toccarlo.
- .. capisco. Dunque mi state dicendo che Ambrose vi ha picchiato perchè lo avete picchiato prima voi? Per questo? Rimanda tutto al motivo per cui lui ha picchiato il vostro amico Barclay. Allora indaghiamo dal principio: per quale motivo Ambrose ha picchiato il vostro amico?
- Non è mio amico. Ho smesso di considerarlo tale, dato che mi ha accusato di essere una strige senza battere ciglio.
- Siete deluso da ciò?
- Che cosa volete sapere esattamente?! – le domandò iniziando ad indisporsi maggiormente.
- Nulla in particolare. Solo ciò che è necessario per convincere i monaci che non siete una strige, dato che è questa l’accusa che vi pesa sulle spalle, e nessun’altra. Nessuno vi vuole sbattere in cella o bruciare al rogo perchè vi piace picchiare le persone, Folker. E dato che sono abbastanza convinta non siate un mostro succhia-sangue e mutaforme, mi servono le prove necessarie per convincere i monaci, e una buona dose di collaborazione da parte vostra. Siete disposto a darmela o preferite ardere su quel soppalco come tanti altri? Perdonate la schiettezza, ma mi piace essere diretta – gli disse guardandolo dritto in quegli occhi ardenti.
Dopo qualche istante di silenzio, il ragazzo si mostrò più collaborativo e annuì, senza dire altro.
- Bene. Dunque, tornando a noi: padre Thomas mi ha informata che Ambrose, stranamente, si è preso immediatamente la responsabilità delle sue azioni, ammettendo di avervi picchiato, e dunque rischiando a sua volta di subire delle ripercussioni a causa di ciò, nella speranza di salvarvi. Per quale motivo Ambrose avrebbe dovuto preoccuparsi per voi e per la vostra incolumità, soprattutto considerando che ha tentato di rompervi ogni osso della faccia? I monaci attribuiscono questo atteggiamento solo ad una cosa: la persuasione incontrollata che esercitano le strigi sulle loro vittime. Ma dato che io non credo all’esistenza delle strigi, credo vi sia un’altra spiegazione dietro, che mi piacerebbe sapere da voi.
A ciò, Folker sorrise amaramente, abbassando lo sguardo. – Credetemi, non so dirvi neanche io per quale motivo egli si preoccupi per me. Noi due ci odiamo. Non ci sopportiamo. Eppure, mi ha difeso a spada tratta. Non vi so dire il perchè.
A ciò, Judith affilò lo sguardo. – Potrebbe essere... che Ambrose voglia esservi amico? Potrebbe desiderare la vostra attenzione?
Gli occhi di Folker si spalancarono di stupore dinnanzi a tale ipotesi. – Non credo sia possibile.
- Ci sono innumerevoli cose che consideriamo impossibili, Folker, ma che, nonostante l’incredibilità, non lo sono. Io credevo di non poter avere figli, eppure eccomi, qui, gravida da mesi.
- Ma lui è un servo del Creatore!
- E allora? Chi lo ha deciso che dobbiate odiarvi perchè appartenete a due culti differenti?
- Non ci odiamo solo per questo.
- E allora per cosa? Fareste meglio a dirmelo, dato che i monaci credono che lui vi abbia picchiato per difendersi dalla vostra sete di sangue, e che ora vi stia difendendo solo perchè sedotto dalle vostre doti persuasive.
- Per quale dannato motivo dovrebbe volermi essere amico?! Per quale motivo chiunque dovrebbe volermi come amico?! Io non voglio amici, non voglio persone attorno, non voglio nessuno! Sono una persona intollerante, rabbiosa e prepotente! So di esserlo e non ho mai cercato di mostrarmi diverso! Dunque perchè mai qualsiasi persona dovrebbe volere le mie attenzioni?? – domandò furente, alzandosi in piedi, respirando affannosamente.
Judith lo guardò per minuti interminabili, senza dire una parola.
- Risedetevi, vi prego – gli disse con calma, dopo quella lunga pausa.
Il ragazzo, calmatosi, obbedì.
- Non è sempre tutto come lo vedete voi, Folker.
Potrete anche essere il ragazzo più iracondo del mondo, ma finchè non commetterete un reato o un peccato punibile con la morte, non meritate di venire bruciato su quel soppalco.
Per questo voglio aiutarvi.
E il vostro continuo evitare l’argomento nonostante le mie domande, mi ha fatto comprendere che c’è sotto qualcosa. Qualcosa che non volete dirmi.
Non vi forzerò a rivelarmi cosa state nascondendo voi, Ambrose, Barclay, e chiunque altro sia convolto in questo intrigo. L’unica cosa che vi chiedo, al momento, è di mantenere un profilo basso e agire di furbizia. Se riuscirete a fare ciò che vi dico, nessuno vi disturberà o indagherà ulteriormente su di voi, avete la mia parola.
- Cosa ci guadagnate in tutto ciò? – le domandò lui improvvisamente. – Se non siete come quei monaci, e desiderate davvero fare giustizia... per quale motivo vi assimilate a loro? Se non riuscite a persuaderli a fare ciò che volete voi e a far diminuire le condanne al rogo dei membri del nostro culto, per quale motivo restate qui con loro?
- Perchè credo fermamente nella potere della pazienza e della perseveranza nel cambiare le cose dall’interno, Folker.
- “Cambiare le cose dall’interno”... – sbuffò il ragazzo. – Idiozie.
- Credetele pure idiozie, ma vi ripeto, che se non siete ancora ad annaspare in quella cella, e se ora riuscirete ad uscire di qui e a tornare a casa vostra, sarà solo grazie a me e alla mia influenza.
Non è un’informazione che intendo a rivelare a chiunque mi si pari dinnanzi, Folker, ma questa volta, farò un’eccezione, se ciò potrà servire a convincervi a mantenere un profilo basso, a non attirare l’attenzione e a fare buon viso a cattivo gioco, per il momento: ho in mente un progetto, un progetto che riguarda la modalità di esecuzione dei prigionieri. Se tutto andrà come spero, ben presto, chiunque sarà condannato a morte, non dovrà più soffrire come un animale, consumato dalle fiamme; bensì se ne andrà velocemente e dolcemente.
- Non è possibile... in secoli e secoli nessuno è mai riuscito a modificare la modalità di esecuzione.
Il rogo “purificatore” esiste da prima di Allister Chaim.
Non riuscirete mai in quest’impresa assurda e folle.
A maggior ragione se siete da sola!
- Oh, ma io non sono sola, mio giovane ragazzo ... – rispose lei sorridendo con convinzione. – Al mio fianco ho una delle menti più geniali e brillanti del secolo.
- Siete pazza.. – non lo disse come un insulto o in tono di scherno, bensì con voce disillusa, macchiata da un quasi impercettibile scintillìo di speranza.
A Judith bastò. – Manterrete un profilo basso, dunque?
Il ragazzo fece passare qualche istante, poi annuì.
- Ah, un’altra cosa, Folker. I monaci non si accontenteranno delle spiegazioni che mi avete dato. Di conseguenza, per potervi permettere di uscire di qui inerme e di tornare dai vostri genitori, devo dare loro una garanzia.
- Che tipo di garanzia?
- Non vi piacerà. Ma dovrete farvela piacere – sospirò la ragazza. – Ho intenzione di convincerli proponendo loro delle sessioni di “incontri purificatori” per voi, tenuti da me.
- “Incontri purificatori”..?
- Saranno degli incontri in cui io vi aiuterò a purificarvi dai peccati di cui loro vi credono peccatore.
In sostanza: dovrete ammettere dinnanzi ai monaci di essere una strige, ma di essere disposto a purificarvi. Negare senza una prova tangibile che smentisca i loro sospetti non porterà a nulla e peggiorerà solo le cose, ve lo posso garantire. Tuttavia, se io mi prenderò l’impegno di presiedere questi incontri, loro saranno tranquilli, cominceranno a credere che le anime peccatrici possono essere purificate, prima di essere condannate. Cominceranno a credere che è possibile salvare le vite dei peccatori. E magari, chi lo sa, anche coloro che ora sono in cella e attendono il giorno della loro condanna, potranno essere assolti tramite costanti e continuative sessioni purificatrici con me.
- Dovrei confessare... di essere un mostro succhia-sangue, frutto della fantasia di un vecchio monaco..??
- Sì.
- Lo saprete che verrò emarginato da tutto il villaggio, in questo modo...? Avranno paura di me, nessuno vorrà più avvicinarmisi.
- Non è quello che desideravate? – gli domandò Judith sarcasticamente, poi tornando seria. – Ad ogni modo, so che è un grande sacrificio, ma è necessario, affinchè possiate salvarvi. Fidatevi, è l’unico modo.
- E in questo modo... voi siete certa che, nel momento in cui dirò di essere una strige, loro si fideranno di voi a tal punto da credere che possiate essere capace di “purificarmi”..?
- Avete la mia parola.
Preparatevi, le vostre sessioni dureranno fino al nuovo ordine.
Ma serviranno a salvarvi dal rogo – disse decisa, prendendosi anche quel fardello sulle spalle, mentre lo osservava in quegli occhi chiarissimi e lucidi.
Calò un silenzio tombale tra loro.
- Ora posso andare..? – lo spezzò Folker all’improvviso.
- Sì. Potete andare. Ci penserò io a parlare con i monaci. Mi farò viva molto presto.
Ah, Folker – lo richiamò, mentre lo vedeva dirigersi verso l’uscita della stanza. – Non allontanate coloro che vogliono avvicinarsi a voi. Per quanto possiate credere di non volere nessuno al vostro fianco o di non meritarlo... forse ci sono delle persone disposte a sopportare il male che si annida in voi, pur di starvi accanto, di avere un amico a loro volta.
Ambrose... potrebbe essere un ragazzo solo. Più solo di voi. Che cerca semplicemente calore umano.
C’è qualcosa di male in questo?
Gli assurdi preconcetti della nostra società ci impongono di non cercare quello che lui sta cercando in voi, tra membri di culti diversi.
Ma a lui non importa, a quanto pare, e vuole rischiare lo stesso. Vuole rischiare di andare contro ogni pregiudizio e preconcetto, vuole gettarsi all’avventura e provare a raggiungere l’impossibile: voi, la vostra amicizia e la vostra considerazione.
Decidere se siete davvero impossibile, sta a voi e a voi soltanto.
Cercate di prendere in considerazione tale possibilità, dunque.
Prendetelo come un consiglio da amica. D’altronde, Ambrose sa di per certo che voi non siete una strige, dato che è stato egli stesso ad inventarsi tutto di sana pianta. Di conseguenza, forse lui potrebbe essere l’unica persona che vi rimarrà accanto, nel momento in cui si diffonderà la notizia che avete confessato di essere una strige.
Il ragazzo non disse nulla. Rimase ad ascoltarla in silenzio, e quando ella ebbe finito di parlare, uscì dalla stanza e dalla cattedrale, tornandosene a casa sua.
Judith tornò alla realtà, riconcentrandosi su Hinedia, la quale stava attendendo una sua risposta.
- Dovrò iniziare a tenere delle sessioni di purificazione con tutti i fedeli di entrambi i culti che manifesteranno atteggiamenti o inclinazioni tendenti al peccato – le disse, vedendola sgranare gli occhi, ma rimanere con lo sguardo sereno che quella mattina la contraddistingueva.  
- Cosa sarebbero queste sessioni di purificazione?
- Dovrò far comprendere ad ogni peccatore di essere in errore e farlo pentire sinceramente dinnanzi al proprio dio, purificandolo.
- E come mai ciò vi turba?
Judith non avrebbe saputo rispondere con chiarezza a quella domanda.
Sapeva solamente che i monaci, da quella mattina, avevano già iniziato a fare dei controlli di casa in casa, per scovare ogni possibile o probabile peccatore, per farlo sottoporre ad uno o più incontri di purificazione.
La sua preoccupazione andò inevitabilmente a Blake, e alle sue evidenti credenze blasfeme.
Inoltre, quel povero ragazzo costretto ad ammettere di essere una strige, forzato a sottoporsi a quelle sessioni a vita..
Il suo volto si corrucciò ancor di più, fin quando Hinedia non la prese sottobraccio e richiamò la sua attenzione. – Ehi,  va tutto bene, d’accordo? Date retta a me, sarete perfetta per questa mansione. La vostra sensibilità, la vostra delicatezza e al contempo autorevolezza e determinazione di carattere vi rendono la persona più indicata per svolgere tale oneroso compito – la incoraggiò sorridendole.
Judith ricambiò il sorriso, sentendosi un po’ più leggera.
Si chiese di nuovo cosa avesse Hinedia quella mattina, per essare così solare e capace di dispensare serenità d’animo ad un solo sguardo.
L’attenzione delle due venne attirata poi dalla figura di padre Petrit seduto su una sedia della navata accanto a May e a Kilian. I due bambini sembravano i più in difficoltà al momento, tanto da essere gli unici a non ripetere il copione; parevano talmente turbati da aver attirato l’attenzione di padre Petrit, il quale si era avvicinato per capire se poteva aiutarli in qualche modo.
Il monaco era diventato sempre più docile e affettuoso con i bambini negli ultimi tempi, e le due ragazze non potevano che esserne fiere.
- La lussuria è un peccato molto difficile da comprendere per una fanciullina della vostra età, posso capirlo - disse il monaco rivolgendosi alla piccola May, la quale aveva lo sguardo basso e perso nel vuoto. Si era intristito a sua volta nel vederla tanto oppressa da chissà quale pensiero, perciò cercò di mettersi nei suoi panni. – Se volete, potete ripetermi la vostra parte del copione, così capiremo insieme cosa non va.
- Non è quello. Non si tratta del copione – rispose a mezza bocca la bambina.
- Allora di cosa si tratta? Potete dirmi tutto, qualsiasi cosa vi turbi – la incoraggiò il monaco, con un sorriso.
A ciò, Kilian che era lì accanto, guardò il monaco, poi May, la quale sembrava in procinto di confessare qualcosa di estremamente importante.
- Va bene. Se promettete di essere buono con me, padre, vi dirò cosa mi turba – si arrese la bambina.
- No, May, non puoi dirglielo – intervenne Kilian, con un filo di preoccupazione nel volto.
A ciò, il monaco guardò i due confuso. – Certo che può. In assenza dei vostri monaci, siamo noi a doverci occupare di voi, e lo facciamo con piacere. Solo noi possiamo alleviare la pena delle vostre giovani anime.
May alzò i suoi occhioni violetti sul monaco e si decise, sputando il rospo. – Il fatto è che... la lussuria è desiderio. E anche se non posso ancora capire il desiderio dei grandi, forse... però posso già capire cosa mi piace. Per questo mi sono accorta che... non mi piacciono i maschi.
Judith e Hinedia impietrirono, così come padre Patrit, e persino padre Cliamon, il quale stava assistendo Ioan lì accanto a loro, avendo udito quelle parole, si era voltato sorpreso.
Judith e Hinedia avevano già dei dubbi a riguardo da un po’, erano stati piccoli atteggiamenti che May aveva nei confronti di Gwen o di Dionne ad averle insospettite, perciò non era stata una grande sorpresa per loro, e, in ogni caso, ciò non avrebbe costituito un problema, in alcun modo.
- Posso interpretare la Lussuria... anche se mi piacciono le bambine come me? – domandò sull’orlo delle lacrime la piccola, la quale attendeva una risposta da parte del monaco che non arrivò.
L’uomo era troppo impegnato a fissarla con occhi sbarrati.
A ciò, padre Cliamon si scambiò un eloquente sguardo con Judith, a distanza, facendole capire che sarebbe dovuta intervenire, e fu proprio ciò che la ragazza fece.
- Ahem, padre? – lo richiamò schiarendosi la voce. – Potete venire da me un momento?
A ciò, padre Petrit, come risvegliato, lanciò un ultimo sguardo alla povera May, per poi alzarsi e raggiungere la sua pupilla, affiancata alla serva del Creatore.
- Padre, che vi prende? May si è confidata con voi e vi ha detto una cosa privata, aspettandosi che voi l’avreste aiutata, come avevate promesso.
Padre Petrit la fissò con i suoi occhi grandi e scuri spalancati, per poi dare finalmente fiato alla bocca. - Judith, per quanto i rapporti tra membri dello stesso sesso non siano punibili con il rogo, rimangono comunque qualcosa di poco consono. Possono essere tollerati saltuariamente e consensualmente al di fuori del matrimonio, certo, ma non vi è alcun dubbio che, raggiunta l’età da matrimonio, anche May dovrà adempiere al suo dovere come fanno tutte le donne del nostro villaggio: dovrà prender marito e dare alla luce dei figli, per portare avanti la generazione e donare altri servitori fedeli al suo signore.
Judith lo fulminò con lo sguardo in risposta. – Allora cosa mi dite di tutte le locandiere della Taverna? Che hanno scelto di non sposarsi e non procreare? Loro non sono ugualmente gradite al nostro signore? Mi state dicendo questo??
- Judith... – padre Petrit era visibilmente combattuto e Hinedia se ne accorse, ma non disse nulla per dare manforte a Judith, nonostante condividesse le sue idee.
- E tutte le donne che non possono aver figli? Cosa mi dite di loro? Una donna è meno donna o meno utile al villaggio se non è madre? Questi ragionamenti non hanno alcun senso, padre.
- Se il suo ventre è fertile sarebbe appropriato per lei prender marito. Fine della storia. Motivo per cui dovrà farsi passare questa... tendenza, presto o tardi. E prima lo farà, meglio sarà per lei, per il suo bene. Non è l’unica fanciulla che qui a Bliaint manifesta tendenze simili, oltretutto, e questa storia dovrebbe finire.
Probabilmente anche a May servirebbe già da ora una delle vostre sessioni purificatrici.
- Come fate a dire una cosa simile...?! Solo perchè ha gusti diversi dalla maggior parte delle sue coetanee..?
- Credete sia un caso che solo le donne manifestino vizi simili, Judith? È abbastanza ovvio si tratti dell’influenza della progenitrice Eva su di loro, della carne cedevole alla tentazione e al Diavolo che condividete voi appartenenti al sesso minoritario. Siete più deboli in senso morale, avete minor consapevolezza, suscitate maggior attrazione e seduzione, siete più vanitose, più lunatiche, volubili, più inadatte alla fedeltà e alla fede.
Judith rimase ammutolita e Hinedia con lei.
Dopo un tempo che parve infinito, la fanciulla dai capelli cremisi riprese la parola, con una voce tanto profonda e scura da far invidia ad un uomo. – Credete davvero... che siano solamente le donne a manifestare tali “tendenze”, come vi piace tanto chiamarle? Indagate meglio, padre, e fatevi un giro nei sobborghi del nostro villaggio, dove si consuma la vita notturna. Scoprirete che non sono solo le donne a godere di ogni tipo di perversione in grado di sovrastare ampiamente i timidi gusti inusuali di May.. bensì anche gli uomini, e anzi.. gli uomini eccedono in tali pratiche, mentre le donne, molto spesso, riescono a frenarsi e a raggiungere un equilibrio. Equilibrio che la maggior parte degli uomini non posseggono affatto, quando si tratta di soddisfare la propria carne!
Hinedia le afferrò il braccio e glielo strinse, per non farla urlare troppo forte, dato che i bambini li circondavano ancora, seppur fossero concentrati in altro; inoltre, si trovavano pur sempre dentro la cattedrale del Creatore.
Per quanto anche Hinedia, da che ricordasse, aveva sempre trovato il coraggio, seppur con verve più mansueta e tenue di Judith, di manifestare le proprie opinioni dinnanzi a qualsiasi sorta di argomento; eppure, in quel momento era come se non fosse più in grado di farlo.
Non era in grado di angustiarsi, nè di intristirsi o arrabbiarsi per ciò che aveva appena udito dalla bocca del monaco.
Tale fatto la sorprese non poco.
Intanto, padre Cliamon si era avvicinato a May per consolarla, in quanto la bambina, abbandonata a se stessa, aveva iniziato a piangere. Anche Kilian era accanto a lei, non aveva mai abbandonato il suo fianco, e cercava di donarle parole di conforto.
A tal punto, il bambino, in uno slancio di coraggio e di determinazione solida, si avvicinò a padre Petrit, distogliendo la sua attenzione da Judith.
Lo guardò dal basso, in cagnesco, con quei suoi occhioni vivaci e scalpitanti. – Perchè voi monaci del Creatore ci odiate?
Tale domanda di Kilian spiazzò il monaco più di quanto avesse fatto la confessione di May.
Il prete si accovacciò dinnanzi al bambino, rivolgendogli uno sguardo pregno di ... senso di colpa? Pentimento? A Judith sembrava proprio pentimento quello nel suo sguardo e se ne sorprese; mentre Kilian continuava a guardarlo severo.
Sarebbe potuta sembrare persino una scena comica, vista dall’esterno.
- Noi non vi odiamo, Kilian... Come puoi anche solo pensare una cosa simile? – gli domandò poggiandogli le mani sulle spalle sottili.
- Sì, che ci odiate. Bruciate al rogo decine di servi del Diavolo, ma non bruciate mai nessuno del vostro stesso credo. E adesso... ci punite anche per delle cose stupide, tipo per il fatto che a May non piacciono i maschi. Voi ci odiate. Ci odiate davvero.
Un groppo in gola salì a Judith, nell’osservare tale scena e nell’udire tali parole.
Ammirò il coraggio di quel bambino, provando un moto di fierezza nei suoi confronti.
Lasciò padre Petrit nelle grinfie di Kilian, spostando la sua attenzione su May, raggiungendola per consolarla al fianco di padre Cliamon.
Ma nel momento in cui raggiunse la bambina, il suo sguardo venne attirato da un rumore proveniente dal portone di ingresso in fondo alla cattedrale.
Si voltò a guardarlo, memore di chi avesse provocato quel rumore il giorno prima, nonchè l’inaspettato arrivo di Blake, e la conseguente riappacificazione tra loro che le aveva riempito il cuore di gioia e migliorato la giornata. Tuttavia, non si sentiva così fortunata anche quel giorno, tanto da sperare di rivedere di nuovo la sagoma di Blake sbucare da quel portone.
Allora, chi altro poteva essere?
Mise a fuoco la figura a distanza, e solo per un istante, le sue membra si paralizzarono: Van Naren aveva varcato la soglia della cattedrale, e ora si stava dirigendo verso un’ignara Hinedia; ma, mentre si dirigeva verso di lei, verso quella che oramai era la sua promessa, Naren fissava Judith.
La fissava perchè non riusciva mai a farne a meno.
La fissava perchè non riusciva mai a toglierle gli occhi di dosso, e perchè non la vedeva da secoli.
Al contrario, Judith distolse lo sguardo e ritornò a concentrarsi solo su May, senza curarsi dell’animale che le aveva macchiato l’anima indissolubilmente.
- May, guardami e ascoltami, bambina mia: tu vai bene così come sei. Sei benvoluta dal nostro signore e sei benvoluta da tutti, anche se non ti piaccione le cose che piacciono a tutte le altre. Va bene così. Anzi, proprio per questo, proprio grazie alla tua preziosa rarità, sarai la Lussuria più strabiliante e meravigliosa che si sia mai vista.
May le sorrise con un sorriso che avrebbe adombrato persino il candore della neve, mentre padre Cliamon la guardò con occhi colmi di commozione e di adorazione.
In quel momento, un’altra presenza fece il suo ingresso nella cattedrale.
Con grande sorpresa dei presenti, era una serva del Diavolo.
Molto più precisamente, la madre di Ioan e Blake, Heloisa, che tuttavia non venne notata dal suo giovane secondogenito, in quanto troppo impegnato a ripetere la sua parte del copione.
Judith rivolse uno sguardo a padre Cliamon. – Credo che la signora Heloisa sia qui per confessarsi, padre. Ricordi? Abbiamo concesso ad ogni servo del Diavolo che volesse e ne avesse la necessità, di potersi confessare con un monaco del Creatore. Ci pensi tu a lei, mentre io resto un po’ con May? – gli domandò quel favore.
Tuttavia, non ricevette risposta subito, in quanto padre Cliamon si era pietrificato, fissando Heloisa avvicinarsi.
“...una di queste deve essere assassinata, mentre l’altra non la voglio morta, in quanto ho intenzione di farla soffrire. Il suo nome è Alma Heloisa” quelle parole di Myriam gli rimbombarono nella mente come sferzate bollenti.
La riconobbe, mentre si avvicinava a lui, con la testa bassa.
Qualcosa la turbava, era evidente.
Era l’occasione ideale: l’avrebbe confessata e avrebbe colto quell’occasione per avvicinarsi a lei e per farle del male, come desiderava Myriam.
Tuttavia, che tipo di male?
Rifletté, escludendo a priori qualsiasi tipo di male fisico, sia perchè non avrebbe mai esercitato della violenza su una donna, sia perchè era certo che non era il tipo di “dolore” che Myriam intendesse.
Un dolore mentale, che infetta l’animo fino a farlo marcire dall’interno...
Era sicuramente quello il tipo di male che Myriam voleva far provare a quella donna, che il monaco non sapeva ancora quale peccato imperdonabile avesse commesso per far adirare a tal punto la strega.
Avrebbe dovuto inventarsi qualcosa nel momento stesso in cui si fosse trovato in quell’abitacolo stretto con lei, e la donna gli avesse confessato i suoi più grandi rimpianti.
Padre Cliamon era abile a leggere l’animo delle persone, e anni e anni trascorsi come monaco al servizio dei suoi fedeli e di Dio ne erano testimoni.
Eppure... se una volta lì dentro, si fosse tirato indietro..? Se una volta lì dentro avesse compreso di non poterle far del male, di non riuscirci..?
A quel punto, la motivazione che era dietro a tutto ciò, l’ossessione che lo spingeva ad agire e ad andare avanti lo avrebbe risvegliato dal suo torpore e lo avrebbe incoraggiato a commettere qualsiasi sacrilegio pur di tenersi stretto ciò che era riusciuto faticosamente ad ottenere: un giorno alla settimana in un corpo bellissimo.
Questo era il compromesso che lo avrebbe spinto persino a commettere un genocidio, se avesse rischiato di vederselo sfuggire via dalle mani.
E Myriam lo sapeva, lo sapeva bene. Oramai lo aveva in pugno.
Avrebbe continuato a guardarsi allo specchio fino a quando non sarebbe arrivato l’agognato giorno della settimana in cui davanti a quella superficie riflettente non avesse visto un’immagine tanto meravigliosa da togliere il respiro.
Per nulla al mondo vi avrebbe rinunciato, perchè fino a quel punto arrivava la sua morbosa ossessione.
Dunque, avrebbe fatto ciò che andava fatto.
Annuì verso Judith, la quale stava ancora attendendo una sua risposta, ignara, poi andò incontro alla malaugurata vittima.
- Signora Heloisa, buongiorno. Vi ricordate di me?
Ella alzò il volto, puntando i suoi occhi chiari e tormentati su di lui. – Sì, mi ricordo. Siete stato voi a dirmi che il bambino di Judith fosse di Blake.
- Esatto, sono io, padre Cliamon. Deduco siate qui per confessarvi. O siete giunta per venire a vedere Judith, oppure Ioan durante la sua lezione di teatro?
- Sono qui per confessarmi – confermò lei. – Ho da poco saputo che voi monaci del Creatore avete iniziato a confessare anche noi servi del Diavolo, dato che i monaci del Diavolo sono tutti morti. E io ne ho un estremo bisogno al momento ...
Un’anima ferita. Un’anima ferita che avrebbe dovuto distruggere.
Padre Cliamon deglutì visibilmente e invitò la donna ad accomodarsi dentro l’abitacolo delle confessioni.
Prese posto a sua volta, di fronte a lei, al di là del reticolato, e pronunciò le parole di rito.
- Nonostante io non sia un monaco del vostro stesso culto, proverò ad aiutarvi come posso, e a rispettare con il massimo riguardo e riverenza il vostro signore il Diavolo – aggiunse poi. – Ditemi, cosa vi turba tanto, figliola?
A ciò, Heloisa si fece il segno della croce al contrario e schiuse le labbra, per iniziare a parlare. – Ho peccato, padre...
- Che genere di peccato avete commesso?
- Non si tratta di un peccato che ho commesso di recente. Bensì, di un peccato che commisi anni fa... ma che non fa altro che tormentarmi, da allora... è come se non mi avesse mai lasciato in pace, e ho bisogno di dirlo a qualcuno, padre.
- Parlate, figliola.
- Io ... un giorno di dieci anni fa, circa... entrai dentro la cattedrale del Diavolo, come facevo sempre, per pregare.
Ero gravida del mio secondogenito Ioan. Blake era a casa con la sua balia, e neanche Rolland era con me in quel momento.
Ero sola, dentro la cattedrale semivuota. Sentii dei rumori.. dei rumori strani.
Mi avvicinai alla fonte di quei rumori e... – Heloisa iniziò improvvisamente a piangere silenziosamente, disperata, singhiozzando e coprendosi la bocca delicata con una mano.
Padre Cliamon perse un battito a tale visione.
- Che cosa avete visto, signora Heloisa..?
- Io ... vidi un monaco... un monaco del Diavolo... abusare... abusare di un bambino, dentro una stanzetta semibuia – confessò, scoppiando a piangere ancor più febbrilmente.
- Oh.. ho udito parlare di lui, di quell’essere ignobile. Era lo stesso che ha abusato frequentamente della piccola e indifesa Judith, quando era ancora accudita dai monaci del Diavolo, prima che noi la prendessimo sotto la nostra ala.. – rispose padre Cliamon, rimembrando addolorato, poco prima che un’idea malsana gli invadesse la mente.
- Proprio questo è il punto! – esclamò Heloisa, oramai il volto sconvolto dalle lacrime. – Incontrai anche la piccola Judith quel giorno, poco prima di assistere a quella scena agghiacciante... scoprii che quella meravigliosa creaturina viveva lì... sotto lo stesso tetto di quel mostro dalle vesti monacali.
Lei era così bella, placida e tranquilla...
Non me lo perdonerò mai, padre.. mai. Io sapevo cosa avveniva lì, eppure non ho denunciato quell’uomo. Mi sono lasciata convincere a non dire nulla di ciò che faceva ai bambini, delle sue atroci perversioni...
E per colpa mia... continuò a farlo, chissà a quanti altri bambini...
Nonostante fossi divorata dalla paura che avesse fatto qualcosa del genere anche a Blake, che aveva l’età di Judith, non dissi comunque nulla.
Quando tornai a casa quel giorno.. tartassai Blake di domande, spronandolo a dirmi se qualche monaco lo avesse mai toccato... e lui mi ripetè più volte che no, non era mai accaduto che qualcuno lo toccasse in maniera sbagliata.
- Talvolta i bambini restano in silenzio dinnanzi agli abusi proprio perchè chi abusa di loro li convince che quello che stanno subendo non sia nulla di male. I bambini rispettano gli adulti, soprattutto i monaci.. fanno tutto quello che loro gli dicono, senza fiatare, perchè gli fanno credere che quello sia il volere del loro signore.
Diversi monaci si sono approfittati del proprio potere, nel corso della storia...
- Mi state dicendo che... potrebbe essere che anche Blake..?
- Non lo escluderei – si sentì un verme, un insetto immondo nel dire tali parole, e nell’udirla piangere ancora più forte.
- Per colpa mia... tutti quei bambini sono rimasti traumatizzati. Hanno subìto quelle cose... per colpa mia... L’unica consolazione che ho ora... è il pensiero che quell’uomo sia morto da anni...
- Heloisa... mi rincresce dirvi le cose come stanno, ma è mio dovere farlo, in quanto messaggero del signore... di entrambi i signori in questo caso.
- Cosa, padre..? Parlate, vi prego.
- Dovete sapere che... prendendo esempio dal caso di quel monaco, e dal fatto che nessuno lo avesse mai scoperto e denunciato i suoi peccati.. altri monaci del Diavolo hanno iniziato ad agire come lui, in seguito, nell’ombra.
- Che cosa...?
- Non lo avete mai saputo? – mentì, mentì come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avesse mai fatto altro.
- No...
- Fortunatamente, seppur in una terribile tragedia... ora tutti i monaci del Diavolo sono morti, e i loro tremendi peccati sono morti con loro. Tuttavia, sino a qualche mese fa... quegli uomini, e talvolta anche qualche donna, hanno perpetuato le loro perversioni sui bambini.
- Parlate sul serio...?
- Purtroppo sì, mia signora.
- Quindi... quindi anche i bambini che sono di là, a cui Judith sta facendo lezione.. tutti i bambini di questa generazione, come di quella prima, potrebbero aver subìto abusi... tra cui anche Ioan... – la sua voce era tremante, orrendamente rotta e spezzata.
Padre Cliamon riuscì quasi ad udire lo spirito della donna piegarsi e frantumarsi dinnanzi ai suoi occhi.
L’aveva distrutta.
Ci era riuscito. Proprio come aveva richiesto Myriam.
Il senso di colpa artigliò le membra della donna, la quale iniziò a balbettare, sibilando come una folle: - Tutta colpa mia... è tutta colpa mia.. è tutto colpa mia... solo colpa mia...
- Heloisa, calmatevi ora... prima di uscire di qui, vi ricordo che tutto ciò che viene detto dentro il confessionale, non esce dal confessionale.
- Sì, lo so bene, padre... non dirò una parola. Grazie, grazie per il vostro tempo...
- Non angustiatevi ora: quei mostri sono tutti morti oramai. Nessun male minaccia i bambini al momento - era ben cosciente che quelle parole velenose non avrebbero fatto altro che farla disperare ancor di più, per non aver agito prima, quando la situazione glielo richiedeva.
Heloisa, sconvolta dal pianto, uscì in fretta e furia dal confessionale, visualizzando la figura di suo figlio, il quale rideva beato in compagnia di altri bambini.
Si diresse verso di lui e, senza dire una parola, lo afferrò per il braccio e lo trascinò via di lì, uscendo dalla cattedrale, mentre un silenzioso, atroce e infinito pianto scuoteva ancora tutto il suo corpo e il suo animo ferito.
 
Il ragazzo era in piedi, con la folta chioma di capelli scuri sciolti e scossi dal vento, in quella placida mattina dal cielo terso.
Il suo mantello si muoveva all’indietro, con la stessa irruenza delle sue ciocche scure, in quanto quel vento implacabile e rumoroso sembrava volesse coprire il rumore anche dei suoi stessi pensieri.
Era in piedi, in quel deserto di terra, a pochi passi dall’entrata della galleria.
La fissava senza dire nulla, come attendendo, mentre una distesa di numeri, simboli e parole affollava la sua mente attiva e reattiva, perennemente.
- Lei si sta per svegliare
Lei si è svegliata
Ha cercato tutti i suoi pezzi e li ha rimessi per bene insieme
Hanno iniziato a muoversi da soli
Hai visto il mio sudario, madre?
È tutto bagnato dalle lacrime
Ti prego, smetti di piangere, mamma
Altrimenti non riesco ad addormentarmi nel mio lettino sotto terra
Madre, ora che non piangi più possiamo iniziare a giocare? - cantò improvvisamente la bambina, sdraiata a terra a pancia in sotto, con il vestitino, il corpicino e la cascata di capelli biondi, tutti sporchi di terra.
Aveva il mento orribilmente deturpato poggiato al palmo della propria mano, mentre disegnava distrattamente sulla terra con le dita.
Blake si abbassò, sedendosi accanto a lei, a gambe incrociate, non staccando mai gli occhi dalla galleria.
- Non sono allucinazioni da mercurio – gli disse Bonnie, smettendo di cantare, alzando la testa per guardarlo.
- Non è una prerogativa solo di chi ha subìto un avvelenamento da mercurio, quella di vedere i morti – le rispose lui.
- Beh, mi vedi solo tu. Neanche mio fratello e mia madre mi vedono. Ma mi vedi tu. Non dovrebbero potermi vedere solo quelli a cui manco di più?
Blake accennò un sorriso distratto, spento. – Chi lo ha detto? Nessuno vede i morti.
- Ma come, non te lo ricordi? La vecchia signora Ivolde, che non faceva altro che dire di aver visto in carne ed ossa il figlio morto di febbre viola. Ne sparlava tutto il villaggio!
- Giusto, la signora Ivolde – le diede ragione il ragazzo, accennando di nuovo quel sorriso.
- Hai avuto modo di pensare tanto, questi giorni che sei rimasto in casa e in cui non avevi molto da fare – non era una domanda, ma una semplice affermazione. Bonnie sapeva tutto. Perchè Bonnie era sempre con lui. - Nonostante sono comparsa sempre più frequentemente nei tuoi incubi e nelle tue allucinazioni, hai cominciato a non curarti più di me. Non hai più reagito male agli incubi, nè alle tremende visioni. Ti sei semplicemente rassegnato a me, a lui, a loro, iniziando finalmente a trattarci nel modo giusto. Senza più esasperazione, nè timore. Sono fiera di te.
Blake finalmente fece virare le iridi blu incupite verso di lei, senza dire una parola.
- Sai cosa devi fare, ora che hai avuto così tanto tempo per riflettere, per studiare, per ragionare... – aggiunse la bambina, sistemandosi meglio in quella scomoda posizione.
- Oltre parlare con i morti? Cosa dovrei fare, Bonnie? Dimmelo tu.
Ella sorrise furbetta. – Beh, sei qui davanti alla galleria, nonostante non potresti. Questo posto è come una droga per te. Come un elisir.
- Il mio elisir di lunga vita – commentò il ragazzo distrattatamente.
- Già. Perchè sei qui?
- Perchè tutte le risposte che cerco sono qui. Sono sempre state qui.
Nella galleria, ad ogni scavo, scrivevo quello che trovavo, le mie ipotesi, le mie ricerche e sperimentazioni.
Annotavo qualsiasi cosa sui muri. Ma ora... tutto è andato perduto.
- Non tutto è andato perduto. Ricorda: io sono lì dentro. Il mio cadavere è ancora lì, sepolto chissà dove. Gli scavatori non sono ancora riusciti a recuperarlo, ma sono ancora lì – disse rotolandosi sulla terra, come fosse un tutt’uno con essa, sporcandosi ancor di più. – Polvere siamo e polvere torneremo, Blake.
- Cosa starebbe a significare? Il tuo cadavere disperso non può aiutarmi a ritrovare ciò che ho perduto.
- Cosa avevi scritto su quelle pareti nella galleria?
- Le distanze ipotetiche in base ai miei calcoli e agli scavi progressivi. Le pietre e i metalli sconosciuti trovati, le mie supposizioni sulle posizioni probabili dei metalli.
- Come facevi a calcolare quelle posizioni?
- Ero abituato a farlo. All’inizio era solo un gioco che facevo da bambino, poi è diventata un’abitudine.
- Conosci la galleria come le tue tasche, quindi. E non hai mai avuto paura del Mostro Dietro di Te, quando ci entravi da bambino?
- No – rispose sinceramente il ragazzo.
- Sai cosa devi fare.
Blake la guardò.
- Lo sai – ripetè lei. – Lo hai sempre saputo, ma stai procrastinando.
- Ora che conosco anche il mio probabile futuro se seguo questa strada... non sono più del tutto sicuro di volerlo fare.
- Hai paura di morire? Oh, ma non è da te!
Il ragazzo non rispose alla provocazione, ma, in compenso, iniziò a tracciare dei calcoli e dei simboli sul terreno morbido e spianato, dinnanzi a sè.
Il dito lungo e affusolato si muoveva abile su quella soffice distesa scura.
I lineamenti distesi mentre tracciava quelle linee, con il vento forte che gli scopriva interamente il viso che sembrava scolpito nel marmo. Continuò a scrivere serio, inflessibile, serafico, con l’espressione algida di una statua, sotto gli occhi attenti di Bonnie.
Aveva tracciato anche un cerchio, che univa i simboli, i calcoli e le scritte.
- Sette – pronunciò il ragazzo.
- Sette, cosa? – domandò la bambina.
- Sette metalli planetari. La posizione di ogni corpo celeste influenza un metallo, un giorno della settimana e un organo del corpo.
- Da cosa lo hai capito?
- Osservando il corpo di Ioan e le sue reazioni quando era malato, così come le reazioni delle proprietà dei metalli.
- Dunque sono solo tue teorie.
- Saturno: Piombo, Sabato, Milza – iniziò Blake, indicando il primo simbolo tracciato con il dito, quello sull’estrema destra del cerchio. Poi passò oltre:
- Giove: Stagno, Giovedì, Fegato.
Marte: Ferro, Martedì, Intestino.
Venere: Rame, Venerdì, Rene.
Mercurio: Mercurio, Mercoledì, Polmoni.
Sole: Oro, Domenica, Cuore.
Luna: Argento, Lunedì, Cervello.
Bonnie osservò tutti i segni indicati assorta, meditando. – Vedo che hai passato molto tempo sui libri di astronomia e sui manuali dei guaritori. Come hai fatto ad associare pianeti e metalli?
- Questione di intuito, di manualità e di sperimentazioni.
- Quindi sai già tutto. Conosci già il modo per guarire la malattia di tuo fratello.
Perchè non lo metti in pratica?
- Perchè mi serve tempo.
Devo essere sicuro al cento per cento.
- E la trasmutazione?
Blake si voltò di nuovo a guardarla, tendendo la schiena all’indietro, puntando i palmi sul terreno morbido dietro di sè per rimanere eretto, continuando a guardarla.
- Non guardarmi così. Lo so che hai pensato anche a quello. Ci pensi sempre.
- Ci penso sempre perchè mi ci fai pensare tu, tu e il Giudice.
- Io e il Giudice... due persone che vivono solo nella tua mente. Quindi, in conclusione, ci pensi tu.
- Se qualcuno mi vedesse ora mi crederebbe pazzo.
- Già ti credono pazzo, per la tua assurda ossessione per la polvere nera.
- Che cosa vuoi sapere sulla trasmutazione?
- Devi scoprire come ci sei riuscito.
- Per quale motivo?
- Perchè non ti darai pace fin quando non l’avrai scoperto, lo sai bene.
Conosci qualsiasi cosa che riguardi il comportamento dei metalli. Qualsiasi loro proprietà benefica e malefica. Ma questo... non riesci proprio a spiegartelo. Non è magia. È alchimia. E tu ci sei dentro fino al collo – disse con leggerezza la bambina, fissandolo a testa in giù, poi raddrizzandosi.
- Potrebbe essere accaduta una fusione come quella che avviene per creare il platino: oro e argento insieme.
- Ma sai bene che questo caso è ben diverso: non si possono mischiare insieme oro e piombo. Soprattutto senza farli toccare tra loro. Il piombo, il maledetto portatore di morte e di trasformazione. Tossico, velenoso, impuro come l'animo umano, mai metallo vi fu più simile a noi. Mentre, invece, l’oro è...
Bonnie lasciò andare quelle parole al vento mentre Blake continuava a guardarla.
- Se scoprirò come ho fatto mi lascerai in pace? – le domandò.
- Oh... se scoprirai come ci sei riuscito, Blake... sarai tu a non lasciare più in pace me... – gli sussurrò sul viso. - Non rientrare nella galleria.. non c’è niente per te lì dentro – disse infine la bambina, scomparendo nel vento.
Blake non udì neanche quell’ultima frase. Si rialzò in piedi e si diresse verso l’entrata della galleria.
Ma poco prima di entrare, venne bloccato da una voce che lo richiamò. Questa volta, una voce reale.
- Blake?
Il giovane si voltò, trovando la sagoma di suo padre, che lo osservava confuso e leggermente barcollante.
- Cosa ci fai qui, ragazzo?
- Provieni dalla locanda? – gli domandò Blale, osservando la locanda che si trovava sul terreno della galleria, a distanza.
- Non dovresti trovarti qui.. avevamo pattuito che..
- Neanche tu dovresti essere qui, padre – lo interruppe Blake avvicinandoglisi. – Puzzi di vino. Dimmi, come si chiama? – gli domandò con una calma surreale.
- Come si chiama... chi?
- La donna con la quale trascorri ogni notte oramai.
Rolland annaspò, fissando suo figlio, in cerca di qualsiasi scappatoia a quel discorso che non aveva previsto di dover affrontare con lui. – Di cosa stai parlando..?
- E, a quanto pare, ci passi insieme anche le giornate, dato che gli scavi non stanno proseguendo velocemente come dicevi... – continuò Blake, senza distogliere gli occhi da lui.
- Blake.. devi comprendere che è diventato troppo anche per me... gestire tutto questo...
- Gestire cosa?
- Tutti questi ospiti stranieri in casa, la follia di tua madre, le tue allucinazioni... – ammise, stringendosi i capelli sull’orlo dell’esasperazione.
- Non è una novità, papà. Non mi aspettavo nulla di diverso da te – gli disse facendo emergere tutta la delusione che nutriva nei suoi confronti nella voce. – Non sei mai riuscito neanche a gestire la malattia di Ioan. Non sei mai riuscito a gestire niente. Sei sempre fuggito via. Perchè non hai fegato, nè spina dorsale.
Rolland lo guardò boccheggiando.
- Non credere.. non ti permetterò mai di credere che non mi importi.. che non mi importi di voi, di te... – gli disse avvicinandoglisi, posandogli una mano sulla spalla, sul collo, in una pallida imitazione di una carezza. - Blake, io ho cercato di parlare con te. Ho cercato di dirti cosa provavo, cosa sentivo... ma tu... tu sei spietato. Sei sempre perfido e spietato con me.
- Devi riprendermi a lavorare nella galleria – pronunciò improvvisamente il ragazzo.
La totale assenza di espressività nel suo sguardo spaventò e addolorò Rolland.
Si chiese come fosse possibile, che non riuscisse più a riconoscere minimamente il proprio figlio.
- Sai che non posso farlo.. dopo quello che è accaduto.
- Devi farlo – gli ordinò, poi dandogli le spalle e riprendendo a camminare verso l’entrata della galleria.
- Dove stai andando...? Blake! – lo bloccò Rolland, acquistando improvvisamente tutta la lucidità mancante, afferrandolo strettamente per un polso, trattenendolo. – Non entrare lì dentro!
- Lasciami.
- Perchè vuoi entrare lì?? Non hai uno sguardo sano nel tuo viso, figliolo... ti comporti come se si tratti di una questione di vita o di morte. Cosa sono.. questi segni qui per terra? – gli domandò poi, accorgendosi solo in quel momento degli strani simboli che suo figlio aveva tracciato sul terreno sotto di lui.
- In questi giorni in cui mi avete recluso in casa, ho avuto modo di portarmi avanti con i miei studi. Ho riflettuto e mi sono ricordato di alcune cose – gli spiegò il ragazzo, con sovrumana calma.
- Che cosa...?
- Prima di partire in cerca della polvere nera... avevo trovato dei metalli nuovi. Metalli di cui non ti ho mai parlato, che ho sempre tenuti nascosti.
- Cosa... per quale motivo lo hai fatto?
- Ero arrivato a scoprire l’Arsenico.
 - Arsenico? Non ne ho mai sentito parlare.
- Perchè nessuno nella nostra pianura lo conosce e neanche i libri ne parlano. Ho appurato sulla mia pelle che è molto tossico, ma posso comunque farne svariati usi. Nella galleria ce ne è ancora e devo trovarlo. Così come la franklinite.
- La franklinite..? Non si sentiva parlare di franklinite da secoli.. come?
- C’è ancora ed è nella nostra galleria. E chissà quanto altro c’è là dentro.
- Ma tu non vuoi utilizzarli per finalità commerciali, Blake. A cosa ti servono? Blake..? Rispondimi!
Gli strinse il polso con più forza e lo strattonò a sè, invaso dalla preoccupazione.
Tuttavia, i due vennero improvvisamente interrotti da una nuova presenza, la quale fu in grado di far paralizzare entrambi.
Vi era quacosa... qualcosa nella sua aura, che avrebbe intimorito persino il peggior assassino e peccatore in circolazione.
- Hinedia...? Cosa ci fate qui? – le domandò Blake, osservandola confuso.
La ragazza, dal canto suo, fissava con uno sguardo incenerente la mano dell’uomo stretta dolorosamente al polso di suo figlio.
- Gli state facendo male – esalò la serva del Creatore, con un tono di voce che fece rabbrividire Rolland.
Era roco, gracchiante, come se l’orrenda creatura da cui proveniva avesse appena inghiottito un barile di lava bollente.
Hinedia era diversa dal solito, non solo negli atteggiamenti e nell’aura che emanava, Blake se ne accorse all’istante. In quanto serva del Creatore era sempre stata di aspetto sgradevole alla vista, tuttavia aveva sempre mantenuto quella dolcezza, quella solarità nello sguardo, che era in grado di trasmettere serenità e pace a chi le stava intorno. Invece, ora dal suo volto e da tutta la sua persona traspariva tutt’altro che luminosità: il suo volto era più brutto del solito, tanto da farla apparire a dir poco orrenda; nonostante i lineamenti fossero sempre gli stessi, ora erano distorti da una perenna smorfia spregevole, quasi animalesca; la postura era gobba, appesantita; gli occhi velati di perversa perfidia.
Non sembrava più lei.
Eppure era lei.
Non riuscendo a fare a meno di essere intimorito dal tono e dallo sguardo crudele di quella ragazza, Rolland lasciò andare il polso di suo figlio, fissandola orripilato.
Rimasero così, a guardarsi, per un tempo che parve infinito, fin quando Blake non prese in mano la situazione. – Padre, torna a casa e datti una ripulita. Lasciaci soli – gli disse calmo, continuando a studiare Hinedia, per comprendere cosa vi fosse di davvero diverso in lei.
Rolland, come un cane obbediente, fece come gli era stato detto, improvvisamente accondiscendente, irriconoscibile.
Quando Blake e Hinedia rimasero da soli, uno di fronte all’altra, con solo pochi metri che li distanziavano, Blake si accorse che la ragazza non aveva mai staccato gli occhi da lui.
Quegli occhi avrebbero fatto rabbrividire chiunque, ma lui si impose di restare calmo, e di cercare di riconoscere la sua amica in lei.
- Questa mattina non avevate la lezione con Judith e i bambini? – le domandò.
- Sì, infatti. Ma non ci sono andata.
- Perchè no?
- Perchè non mi importa di quei bambini.
- Strano. Una delle ultime volte che ci siamo visti ricordo di avervi sentito dire che vi siete molto affezionata a quei bambini.
- Cosa è successo con vostro padre? Perchè vi stava facendo del male?
- Non mi stava facendo del male.
- A me sembra di sì.
- Hinedia, vi sentite bene?
- Mai stata meglio.
Il suo tono era sfacciato, intraprendente con lui, molto diverso da quello timido e impacciato che aveva di solito. Risultava persino arrogante mentre gli rispondeva.
- Sapevo che vi fosse qualcosa sotto – riprese la parola la serva del Creatore, osservando affascinata i simboli disegnati a terra.  – L’ho sempre saputo. Sapete, io osservo tutto, io mi accorgo di tutto. Non pensate che non mi sia accorta del vostro volto sempre più distratto, distaccato, delle occhiaie sotto gli occhi, della luce spenta e assente delle vostre iridi, dell’atteggiamento scostante. Vi sta accadendo qualcosa. Potete rivelarmelo. Potrei aiutarvi.
Quello sguardo e quelle parole insinuanti, taglienti, così subdoalmente inquiete, non lo convinsero. – Che cosa ci fate qui? – le domandò continuando a guardarla.
- Volevo vedervi.
- Come sapevate che mi avreste trovato qui e perchè volevate vedermi?
A ciò, la ragazza fece qualche passo verso di lui, senza mai abbassare la guardia, continuando a fissarlo con quello sguardo sfrontato, fin quando non gli fu dinnanzi e dovette alzare il volto verso l’alto per riuscire a guardarlo negli occhi. Gli afferrò le braccia poco sotto i gomiti, sorprendendolo ancora. Hinedia non aveva mai osato tanto. Mai aveva osato prendersi tali libertà e vicinanze fisiche con lui, neanche lontanamente. 
- Ho forse bisogno di un motivo per vedervi? – gli domandò, poi riprendendo subito dopo, senza lasciargli il tempo di dire nulla. – “Cosa accadrebbe se i nostri genitori non ci amassero? O se noi non amassimo loro? Cosa accadrebbe se ci comportassimo come vorremmo in realtà comportarci, senza seguire le regole stabilite, le regole che una presunta ‘natura’ ci impone?
Trovo triste e degradante amare qualcuno perchè è mio. Perchè vorrebbe dire che, se non fosse mio, non lo amerei. Ma questo è l’intero senso che racchiude l’amore genitoriale. Dunque, trovo degrandante l’amore genitoriale, non posso dire altrimenti.” Se non sbaglio, queste sono parole vostre. Le ricordo perfettamente.
Blake rimase perplesso dalla strabiliante e meticolosa memoria della ragazza, ancora una volta. – Sì, ricordate bene – confermò.
A ciò, Hinedia gli rivolse il sorriso più disturbante che avesse mai visto. – Dunque è così. Oggi ho avuto la conferma che pensate veramente quello che avete detto, non che ne avessi dubbi, prima di ora. Ho visto come vi comportavate con vostro padre, e come lui si comportava con voi.
Non c’è nulla che vi lega. Egli è solo un codardo, un essere debole, degno del più assoluto disprezzo, che ha fatto un’unica cosa buona nella vita: mettervi al mondo.
Voi non gli dovete nulla.
Siete anni luce superiore a lui, in tutto.
Dunque, se la sua presenza e la sua influenza vi infastidisce tanto... cosa aspettate? Cosa aspettate dall’eliminarlo dalla vostra vita e da questo mondo?
Siete una persona fredda ed intelligente: non dovrebbe essere difficile per voi... uccidere qualcuno che non merita la vita.
Blake non rispose, non disse nulla, non si lasciò infettare dal suo sguardo e dalle sue parole, non lasciò trasparire minimamente tutto lo sgomento, lo stupore e la confusione che albergavano in lui in quel momento, restando semplicemente inerme nella sua presa, continuando a guardarla dall’alto, impassibile.
Chi era costei?
Hinedia sorrise ancora, il ritratto della crudeltà dipinto nei suoi mostruosi lineamenti. – Ora vi lascio andare. Ma voi dovete promettermi una cosa: non dovete entrare nella galleria. Almeno oggi, non entrate lì dentro. Sono certa che mi ringrazierete, quando vi renderete conto del pericolo che state scampando.
In seguito a quella che sembrava più una minaccia che un consiglio, la ragazza lasciò la presa sulle sue braccia, come promesso, e si allontanò, tornandosene da dove era venuta, lasciandolo solo, nuovamente in balìa del vento e di una conturbante sensazione di malessere alla bocca dello stomaco, in seguito a quell’incontro.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 37
*** Otto atti per raggiungere la Geenna ***


Otto atti per raggiungere la Geenna
 
 
Lo stregone fece il suo ingresso nella Taverna, il cappuccio nero tirato accuratamente su, nonostante sapesse che la sua figura fosse stata riconosciuta da parecchi presenti lì dentro quella sera.
Prese posto sul tavolino dove lo attendeva l’uomo con cui si era dato appuntamento.
I due non avevano mai avuto modo di vedersi da soli, e di tenere una conversazione pacifica, in seguito all’inaspettato scambio di corpi avvenuto più di un mese prima.
Una locandiera di sua conoscenza gli si avvicinò, mentre egli continuava a guardare in volto l’uomo dinnanzi a sè, senza distogliere lo sguardo.
- Portaci due boccali di sidro. Grazie, Bridgette – le disse Ephram, vedendola poi allontanarsi per eseguire.
Il monaco di fronte allo stregone si prese del tempo per osservare il suo interlocutore: gli arcaici anelli che gli ornavano le dita lunghe, i bracciali sui polsi sottili; il kajal sotto i grandi occhi color della sabbia, ormai sbiaditissimo, sicuramente messo diversi giorni prima e mai tolto; le ciglia lunghe e ramate, le sopracciglia e i capelli del medesimo colore tirati indietro disordinatamente, i lineamenti ammalianti e lo sguardo felino, seducente anche quando non voleva esserlo.
Senza nè salutarlo, nè dargli il benvenuto, padre Cliamon esordì con una sola frase: - Mi manca il vostro corpo. Nonostante lo abbia posseduto per un solo giorno, ricordo ancora la sensazione di essere dentro di voi.
- Potete evitare di dire frasi tanto perverse e fraintendibili dinnanzi a me? – rispose Ephram seccato, ma senza alcuna traccia di sorpresa o divertimento nella voce. - Non avete perso tempo, tuttavia, mi è stato detto – aggiunse.
- “Vi è stato detto”..? Da chi?
- Ho le mie fonti. Sono uno stregone, lo avete dimenticato, padre? Ora è un altro il detentore di tale disgrazia di ritrovarsi nel vostro corpo senza preavviso, inconsapevolemente, e da quel che so anche abbastanza spesso. Non siete mai sazio, padre. Ditemi, qual è il prezzo che vi ha chiesto quell’arpia di Myriam in cambio, oltre alla spietata trucidazione del suo primo amore Imogene?
Cos’è quell’espressione? Vi siete già stancato del ragazzino che avete selezionato, e avete voglia di provare un corpo più formato e adulto? Perchè di quel ragazzino di cui vi piace tanto possedere il corpo si può dir tutto tranne che sia adulto – la sua voce era pungente, accusatoria, tagliente.
Padre Cliamon rimase ammutolito per un po’, distogliendo lo sguardo. – No. Non potrei mai stancarmi di lui. Nonostante ora sia stato isolato dall’intero villaggio perchè ha confessato di essere una strige. Nonostante ogni giorno venga sottoposto a quell’insana tortura mentale quali sono le sedute purificatrici. Mai mi stancherò di Folker.
- Immaginavo. Mi incuriosisce il vostro modo di farne quasi un vanto. Ma, d’altronde, come biasimarvi? Vi siete scelto un corpo talmente deliziosamente acerbo, imberbe ed efebico da far venire l’acquolina in bocca a qualsiasi uomo o donna falsi puristi esistenti su questa terra, persino ai vostri santi, se fossero ancora in vita. Godetevelo finchè potete.
- Come mai mi avete chiesto di venire qui, Ephram? Di cosa volete parlarmi?
- Come ben saprete, Myriam, la vostra eterna alleata/nemica, qualche giorno fa ha manifestato l’intenzione di diventare la prima monaca del Diavolo, a distanza di due mesi dal massacro di tutti i monaci del Diavolo – iniziò Ephram prendendo a sorseggiare il suo sidro, appena portatogli da Bridgette.
- Sì, ne stiamo prendendo atto, ma non credo che la sua richiesta verrà accolta: non vi è mai stata una monaca strega a Bliaint. Gli stregoni fanno parte di un mondo, i servi del Diavolo che non praticano la magia di un altro.
- E da quando? Tutti noi servi del Diavolo, senza alcuna distinzione, siamo esonerati ad usare la magia, per quanto non sia ben vista. Possiamo farne uso tutti, e ditemi, quante sarte, levatrici, erbolaie serve del Diavolo a Bliaint praticano banali arti magiche senza dare troppo nell’occhio, ma che tutti accettano e guardano comunque con stima e rispetto, pur sapendolo? La differenza con noi stregoni “dichiarati”, è che noi l’abbiamo scelto come cammino di vita, e che usiamo la magia in maniere “inusuali” e non comuni. Dunque? Cosa ci sarebbe di male? Myriam serve il Diavolo come tutti i servi del Diavolo.
- Il percorso per diventare monaca non è così semplice, Ephram. Inoltre, mi era parso di capire che voi e Myriam non foste in buoni rapporti. Come mai volete andare in suo aiuto ora? Cosa state tramando voi due?
- Semplicemente, anche noi servi del Diavolo abbiamo bisogno di figure di riferimento che ci guidino, che tengano le funzioni come un tempo, che ci confessino. Non potete continuare a confessarci voi servi del Creatore, per poi lasciarci abbandonati a noi stessi. Oramai i membri del mio stesso culto stanno adorando il nostro signore senza meta. Se Myriam diventasse monaca, magari incoraggerebbe altri servi del Diavolo a prendere i voti come lei, chi lo sa, per quanto oramai la veste monacale non viene vista più di buon occhio da nessuno dopo tutto quello che è successo – concluse sprezzante lo stregone.
- Appunto, voi odiate i monaci, per i massacri che hanno compiuto, da sempre. Dunque, perchè? Non ditemi che avete bisogno di una guida anche voi per servire correttamente il vostro signore.
- “Avete compiuto”. Mettetevi in mezzo anche voi. Ad ogni modo, non è ovvio? Vi credevo un po’ più sveglio di così, padre.
- E io un po’ meno arrogante.
- Così mi offendete – disse poggiandosi una mano sul petto con fare melodrammatico. – Avere una strega all’interno del sistema monacale porterà indubbi vantaggi alla mia compagnia di stregoni eremiti. Con la mediazione di Myriam non subiremo più le ingiuste esecuzioni al rogo di cui siamo stati vittime sinora. Non vi sarebbe cosa più vantaggiosa di questa per noi.
- E Myriam, invece? A lei cosa gliene viene? So che quella donna non fa mai niente per niente. C’è sempre uno scopo ben preciso dietro le sue azioni.
- Perchè date per scontato che io lo sappia, padre? D’altronde, io e lei ci detestiamo, lo avete detto voi stesso – rispose lo stregone prendendo un altro sorso dal boccale.
- Myriam sarebbe disposta a prendere i voti a vita, a giurare fedeltà al Diavolo in quanto sua suprema messaggera, a compiere tutte le cariche che si richiedono ad una donna del clero, a caricarsi sulle spalle le anime di tutti i servi del Diavolo di Bliaint, a rinunciare alla sua vita nella vostra compagnia di stregoni eremiti e a rinunciare a qualsiasi tentazione carnale... a quale scopo?
- Chiedetelo a lei stessa, dato che siete così in buoni rapporti voi due – rispose Ephram pungente.
- Dunque, qual è la vostra richiesta? – gli domandò discretamente il monaco, avvicinandosi a lui per fare in modo di poter parlare piano e non farsi udire da altri che da lui, sporgendosi verso l’altro lato del tavolo con i gomiti. – Mi state chiedendo di convincere gli altri monaci ad accogliere senza batter ciglio la richiesta di Myriam?
A ciò, Ephram lo imitò, inchiodandolo sul posto con i suoi occhi che rifulgevano determinazione rovente, poggiandosi con i gomiti al tavolo a sua volta. – Ci siete arrivato finalmente.
- Non sarà facile... e sapete bene che la vostra richiesta necessita un prezzo.
- Non sono così ingenuo da credere che possiate farmi questo “piccolo favore” senza chiedere nulla in cambio, solo per il vostro “infinito altruismo cristiano” da uomo di dio. Sono cresciuto per tutta la vita incontrando solo persone che non mi hanno mai concesso qualcosa senza prima aver preteso parti di me con un valore decisamente più alto della mia richiesta. Sono avvezzo a uomini come voi, perciò sono venuto preparato.
Quel briciolo di etica rimasto in padre Cliamon gli premette le meningi, facendolo sentire in colpa, proprio il risultato che quel diabolico stregone voleva ottenere, ne era certo. Alzò un sopracciglio, attendendo che Ephram gli proponesse qualcosa che valesse tutte le energie, le discussioni e i pericoli a cui avrebbe portato quell’enorme “favore”.
- Innanzitutto, potrei farmi sfuggire con qualcuno di vostra conoscenza i tremendi peccati di cui vi state macchiando di settimana in settimana, possedendo il corpo di quel ragazzino. E avendo posseduto il mio. Ma so che ciò non basta, perciò...
Padre Cliamon attese con trepidazione che Ephram continuasse.
- Cosa?? Cos’altro?
- ... esiste un potente incantesimo che sarebbe in grado di mettervi in contatto con i vostri amatissimi gemelli. Convincete i monaci a far prendere i voti a Myriam, e saprete che fine hanno fatto i vostri adorati e intrepidi faccini d’angelo.
 
Un mese. Un mese era trascorso, dal tripudio di vicende che aveva sconvolto padre Craig, facendogli acquistare molta più consapevolezza di quella che avesse mai avuto: la scoperta dell’amore proibito e non corrisposto che provava per la ragazza e il ragazzo che erano divenuti il perno della sua vita, la questione del siero che coinvolgeva lui, Quaglia, Ephram e Hinedia soprattutto.
A proposito di ciò, in quel mese la ragazza sembrava non aver manifestato particolari atteggiamenti strani, al contrario di ciò che temevano. Infondo, il siero di Quaglia, senza l’influenza della magia di Ephram, non doveva aver avuto effetto.
Loro quattro, dopo quella sera, non avevano più parlato della vicenda, non facendone mai parola con nessuno. Non avevano più avuto modo di incontrarsi da soli, ma sapevano di dover mantenere il segreto, come fosse un tacito patto tra loro quattro, che li legava indissolubilmente, più di quanto pensassero.
Difatti, quando capitava che uno di loro incontrava qualcun altro casualmente per strada, si rivolgevano uno sguardo complice, silenzioso, che valeva più di mille parole.
Era il loro segreto inconfessabile.
Hinedia sembrava essere più in forma che mai, a breve si sarebbe anche sposata, e tutto sembrava girarle per il verso giusto; tuttavia, il rapporto tra la ragazza e Blake si era molto raffreddato. I due non si erano più visti, se non in occasioni pubbliche e di rado, per lo meno da quanto ne sapesse il giovane prete. Ma ciò non gli risultava poi così strano, dato che Blake aveva preso le distanze da tutti nell’ultimo mese, tranne che da Quaglia e da Judith. Quaglia era diventato un alchimista notevole quasi quanto Blake, per questo oramai era un ottimo assistente per lui. L’uomo sembrava aver trovato la sua pace mentale, aveva ricordato diversi ricordi della sua infanzia, ma non del passato più prossimo, dunque ancora nulla che potesse ricondurli alla polvere nera in alcun modo. Non aveva più pensato nè al siero, nè all’omuncolo, apparentemente. In ogni caso, padre Craig era felice che fosse diventato più sicuro e consapevole. Quaglia stava aiutando Blake in qualcosa. Qualcosa che sicuramente aveva a che fare con il progetto di Judith e Blake, di cui il giovane prete era all’oscuro.
A proposito dei due giovani promessi, questi, giunti al limite dell’età per il battesimo, avevano deciso di comune accordo di battezzarsi.
Il battesimo si era tenuto qualche settimana prima, e padre Craig aveva potuto assistervi in prima persona, rimanendone ammaliato e inquietato insieme.
I battesimi dei servi del Diavolo non erano come quelli dei servi del Creatore.
Lucifero richiedeva un tipo di rituale diverso, per ricevere le anime di nuovi adepti.
Conoscendo bene sia Judith che Blake, padre Craig era certo che la loro scelta di battezzarsi non fosse dettata tanto dalla fede, quanto più da ragioni di convenienza: essere cacciati via dal villaggio poichè non battezzati avrebbe comportato che Judith non potesse più esercitare la sua opera di “mutare il sistema dall’interno”, oltre al fatto che la ragazza non aveva alcuna intenzione di lasciare Bliaint. Per quanto riguardava Blake, invece, la questione era ancor più ostica, in quanto egli lo aveva fatto sicuramente solo per prendere tempo, per svolgere la sua opera all’interno del villaggio ancora un po’, prima di lasciarlo per sempre e andare altrove, come desiderava fare. A quanto pareva, il suo ruolo a Bliaint era più complesso di quanto si aspettasse. Inoltre, c’era ancora Ioan a cui pensare. Seppur il ragazzino continuasse a stare bene e a non mostrare segni di malanno da quando indossava il ciondolo, vi era sempre il rischio che la malattia che lo affliggeva dalla nascita si ripresentasse senza preavviso.
Ad ogni modo, il giorno del battesimo di Judith e Blake (che era avvenuto in simultanea), gli abitanti del villaggio se lo sarebbero ricordato per un bel po’, in quanto era avvenuto un evento davvero strano.
Innanzittutto, l’immensa vetrata del più grande finestrone della cattedrale del Diavolo si era crepato improvvisamente, emettendo un rumore stridulo e molto forte, che aveva allarmato tutti.
Ma anche qualcos’altro era accaduto quel giorno: una delle fasi del rituale di battesimo comprendeva l’atto di indossare (o meglio di farsi spogliare totalmente dei propri abiti e di farsi rivestire dai monaci) un abito particolare, una bellissima tunica fatta su misura dei corpi dei ragazzi, composta di oro nero, un materiale e un colore molto difficile da ottenere in lavorazione. Se ne erano sempre occupati i proprietari della galleria, in quanto capaci più degli altri di lavorare i metalli; Rolland aveva sempre fatto dei lavori impeccabili con le sacre tuniche di oro nero destinate ai nuovi battezzati. Anche quella volta, Rolland e la miglior sarta di Bliaint avevano unito le loro capacità per creare le tuniche di Blake e Judith.
Tuttavia, qualcosa doveva esser andato storto, in quanto, quando Blake si era sfilato la tunica di oro nero, l’indumento aveva perso completamente colore, impregnandosi sulla pelle del ragazzo, macchiandolo totalmente di nichel.
Entrambi gli eventi potevano esser interpretati come segnali di cattivo presagio, ma per il bene della comunità, già scossa per la presenza di una strige tra loro, vennero giudicate come casualità di poco conto: la vetrata del finestrone venne sostituita, mentre Rolland si scusò per il pessimo lavoro fatto con la tunica di suo figlio, attribuendo l’avvenimento ad un proprio errore di distrazione nella lavorazione.
In tutto ciò, che dire di sè, invece?  Padre Craig riteneva di essersi messo l’anima in pace per quanto riguardava la questione del tremendo peccato commesso con Beitris, e la famosa “notte maledetta” dei festeggiamenti, avendo deciso di non indagarvi più, per il momento. Oltretutto, non sapeva neanche come si fosse ulteriormente evoluto il rapporto tra Blake e Judith, ma aveva imparato a fare i conti con la sua gelosia e il suo amore per entrambi, a mettersi da parte, per quanto vi riuscisse. Tuttavia, nonostante ciò, il suo amore non accennava a diminuire. A dispetto di tutto, era in grado di controllarlo, almeno.
Inoltre, essendo in una situazione di distanza da Blake, non tanto fisica quanto emotiva e mentale, aveva colto l’occasione per concentrarsi di più su se stesso e sull’aiutare gli altri: aveva aiutato Judith e Hinedia con lo spettacolo; spesso faceva a Ioan delle lezioni di scrittura quando Blake era troppo impegnato per farlo; e, infine, si stava prendendo del tempo per studiare antiche leggende riguardanti Bliaint, specialmente quella delle strigi. Motivo per cui, ultimamente, stava discretamente studiando anche Folker, nonchè la prima strige dichiarata. Quella faccenda non convinceva affatto padre Craig, il quale, fin da subito, non aveva creduto minimamente all’esistenza delle strigi. Ma poi quel ragazzino aveva confessato e tutte le sue certezze erano crollate. Che fosse stato costretto a confessare sotto minaccia? Non poteva ancora dirlo. Non ne sapeva abbastanza. Sapeva solo che, sfortunatamente, le uniche persone che si avvicinavano al ragazzo fossero un servo del Creatore di nome Ambrose, e padre Craig stesso. Al giovane prete piangeva il cuore nel vederlo così isolato, nonostante a Folker sembrasse non importare. Anche nel remoto caso in cui fosse davvero stato un mostro succhia-sangue, non gli piaceva vedere un ragazzo così brutalmente esiliato dalla comunità.
Cosa poteva dire riguardo Heloisa e Rolland, invece? La donna sembrava essere impazzita da circa un mese, in seguito ad una sua visita alla cattedrale. Padre Craig avrebbe voluto indagare su ciò, ma non aveva mai avuto il tempo di farlo. Ad ogni modo, Heloisa si era rinchiusa sempre più in se stessa, aveva smesso di uscire di casa, sembrava star impazzendo nuovamente. Rolland, dal canto suo, era sempre più assente e impegnato alla galleria, oltre che, secondo i sospetti di tutti, con un’altra donna su cui sfogava ogni sua frustrazione. A dispetto dell’apparente poco interesse di Rolland per la sua famiglia, l’uomo non si era ancora convinto a permettere a Blake di entrare nella galleria.
Blake e Ioan erano entrambi completamente disinteressati ai loro genitori, Blake perchè troppo concentrato sulle sue cose, e Ioan perchè troppo preso dallo spettacolo.
A proposito di quest’ultimo: quel giorno, finalmente, si sarebbe tenuto l’attesissimo spettacolo creato da Judith, il quale, in tutta certezza, avrebbe estasiato e al contempo scandalizzato tutti.
Padre Craig non vedeva l’ora. Era così fiero di lei, da non poterlo neanche spiegare a parole. Nonostante la sua pancia fosse cresciuta e si vedesse di più ora, la fanciulla conservava la stessa grinta, grazia ed energia di sempre. Mai una volta si era sottratta ai suoi doveri di “monaca sostitutiva” e di maestra di teatro per i suoi cuccioli.
Ed era proprio sotto sua richiesta che padre Craig, dopo essersi recato dalla sarta più rinomata del villaggio e aver ritirato tutti gli splendidi vestiti di scena, ora si stava dirigendo verso l’abitazione di una delle figure più famose di Bliaint,  grande esperta di acconciature, trucco, cura del corpo, e benessere fisico in generale. Non era raro che, per occasioni speciali, numerosissime donne, sia serve del Diavolo che del Creatore, si recassero da lei per farsi preparare in tutto e per tutto. La chiamavano l’“Araldo di bellezza”.  In quel particolare caso, padre Craig si sarebbe occupato di ritirare da lei delle colorazioni e pigmentazioni per capelli.
Era inoltre risaputo che la donna facesse talvolta utilizzo di qualche trucchetto di magia bianca per far durare e risplendere di più le sue pigmentazioni, le quali sembravano quasi provenire da un tocco divino.
Padre Craig bussò alla sua porta, attendendo.
Dopo qualche secondo, si ritrovò davanti una donna molto più giovane di quanto si aspettasse.
Non sapeva il perchè, ma nella sua mente una tale suprema abilità sarebbe potuta solo che appartenere ad una donna anziana.
- Prego, entrate, padre! Ho finito di preparare giusto l’ultima – lo invitò la ragazza, facendolo entrare.
L’Araldo di bellezza era una serva del Diavolo ovviamente attraente da mozzare il fiato, con una lunga e folta treccia color dell’ebano, la pelle d’avorio e le iridi dorate.
I colori dei suoi capelli e dei suoi occhi erano talmente eccessivamente belli e intensi, da sembrare quasi finti, tanto che padre Craig ebbe il dubbio che lo fossero davvero.
La donna lo invitò a posare i sacchi che trasportava sul tavolino e lo guidò verso la sala in cui si trovavano i tesori che il giovane prete avrebbe dovuto ritirare.
Nella stanza vi erano otto contenitori in vetro, esattamente il numero che Judith aveva commissionato.
Padre Craig si affacciò, osservando le intensissime e vivacissime tinture che vi erano all’interno di ognuna, tanto meravigliose da ipnotizzarlo quasi.
- Saranno da applicare ai bambini? – gli domandò la donna, distogliendo la sua attenzione da quei colori.
- No. Judith ha deciso che l’elemento distintivo degli attori principali, nonchè gli otto bambini, saranno i vestiti di scena. Queste tinture per capelli servono a noi adulti, che, solo visivamente, prenderemo parte allo spettacolo come controparte dei bambini e dei peccati capitali – spiegò il prete.
- Questo spettacolo si prospetta sempre più interessante. Non vedo l’ora di vederlo.
- Farete meglio ad essere puntuale, mia signora. Tutto il villaggio non vede l’ora di assistervi, e i posti sono limitati – la incoraggiò il giovane prete accennando un sorriso.
- Non mancherò, padre.
Ad ogni modo, Judith mi ha dato delle indicazioni specifiche. Ella mi ha detto di trovare dei colori evocativi e simbolici che rappresentassero otto concetti in particolare...: – iniziò la donna, cominciando ad indicare il primo contenitore in vetro. – Per la Castità, il contrario della Lussuria, ho scelto il bianco più immacolato e accecante che si possa ottenere. Ovviamente, è inutile dirvi che le mie pigmentazioni non si trovano in natura: mai un colore o elemento naturale potrà ostentare un bianco tanto candido e lucente come quello di cui i vostri occhi si stanno beando – detto ciò, passò al secondo contenitore. – Per l’Umiltà, opposta alla Superbia, ho ritenuto l’oro fosse il più adatto. Un oro addirittura più acceso e luminoso di quanto già non lo sia di per sè – poi virò sul terzo. – Abbiamo poi l’Ammirazione, contraria all’Invidia, per la quale ho selezionato una gradazione di arancio a metà tra il pesca e il corallo. Molto intenso e particolare come vedete – il dito passò al quarto. – Zelo, contrario di Accidia: non ho trovato colore più adatto del verde speranza, tendente allo smeraldo. Una meraviglia per gli occhi e per l’animo – in seguito il quinto. – Per la Generosità, opposta all’Avarizia, ho optato per il rosso: come notate, non un rosso qualsiasi, ma un rosso purpureo, vermiglio, più scuro e intenso del sangue vivo stesso, il più intenso e denso, concentrato – passò al sesto. – Per quanto riguarda l’Equilibrio, contrario all’Ira, ho scelto il pervinca. Una gradazione di azzurro rara, intrigante e deliziosa, che trasmette pace, quiete e ristoro al solo osservarla per pochi attimi – arrivò al settimo. – Giungiamo agli ultimi due: per la Sazietà, opposta alla Gola, ho optato per uno splendido rosa antico, simile al colore dell’incarnato, dolce, pieno ed estatico – fu il turno dell’ultimo contenitore rimasto. – Infine, abbiamo l’Abnegazione, contraria all’Hybris. Ci ho dovuto riflettere un po’, ma devo dire che il risultato finale mi ha lasciata più che soddisfatta: argento. Un tipo di argento simile al platino, ma che mantiene le sue caratteristiche originarie. Metallico, impattante, ammaliante, celestiale.
Padre Craig rimase davvero affascinato da tale visione.
Ogni pigmentazione era di una bellezza spettacolare, e non riusciva realmente a capacitarsi di come quella donna avesse potuto ottenere dei colori tanto belli e particolari.
Saziò gli occhi di quei pigmenti, che a breve avrebbe visionato a volontà sui capelli di coloro che conosceva, per poi posare lo sguardo su quello soddisfattissimo della bellissima donna. – Quanto vi devo?
- Venti pezzi basteranno.
- Siete convinta che, una volta applicate le tinture sui capelli, questi splendidi colori rimarranno tanto vivi e intensi come li vedo qui? Non vi è la probabilità che si amalghimino ai colori naturali di coloro che li sfoggeranno, divenendo più spenti?
- Assolutamente no. Sono stati creati appositamente per rimanere così come li vedete ora, intensi e pregnanti. Ci ho aggiunto dentro dei composti talmente potenti, da coprire persino una chioma corvina quanto la mia. La vostra perplessità dovrebbe essere contraria, piuttosto.
- Davvero..? Dovremmo preoccuparci che questi colori ci rimangano impregnati nei capelli per parecchio tempo?
La donna rise. – Non temete, padre! Basterà lavarli due o tre volte con acqua fredda, e i vostri capelli torneranno come prima.
- Bene, allora li porto via con me – rispose felice.
- Avete stuzzicato la mia curiosità, padre: voi di che colore vi tingerete i capelli?
Padre Craig accennò un sorriso, continuando a porre i contenitori dentro la sua sacca. – L’oro dell’Umiltà – rispose.
 
Judith rilassò le membra e sospirò piano, prendendo quanta più aria riuscisse nel petto, trattenendola un po’, per poi espirare.
Avrebbe potuto anche addormentarsi in quella posizione idilliaca, se non fosse stato che il suo grado di eccitazione, probabilmente, superava quello di rilassamento.
La bellissima fanciulla, oramai quasi diciassettenne, si lasciò coccolare i capelli e la testa, concentrandosi sui movimenti di quelle mani d’oro, che mai avrebbe pensato potessero essere allietanti e dolci a tal punto.
Ascoltò ogni singolo movimento del giovane uomo dietro di sè, ogni minuscola increspatura d’acqua, ogni cambio di direzione del vapore che invadeva la stanza calda e umida.
Inspirò il profumo di lui a pieni polmoni, così familiare, e al contempo così lontano.
I loro respiri e il rumore dell’acqua erano gli unici suoni che giungevano alle loro orecchie, anch’esse rilassate.
La pelle sensibile delle tempie di Judith venne massaggiata con più grinta, facendole venire i brividi lungo la spina dorsale.
Le piacque da morire, ma mai lo avrebbe detto ad alta voce.
- Reclina la testa più dietro, o non riuscirò ad applicarla anche sulla nuca ... – quella voce improvvisamente suadente e leggera le giunse alle orecchie come un irresistibile richiamo.
La ragazza schiuse di poco gli occhi scuri, visionando il soffitto sopra di lei.
Era semisdraiata dentro l’enorme vasca che vi era nella cattedrale del Creatore, direttamente scavata sul terreno di marmo. Un luogo solitamente usato per la sauna, oltre che per i bagni caldi.
Era la prima volta che invitava Blake in quel luogo.
Il suo procace corpo nudo era interamente cullato dalla limpida acqua calda, mentre la testa era mollemente poggiata sul bordo della vasca, più precisamente tra le gambe aperte del ragazzo.
Egli era seduto sul bordo, con le lunghe gambe a penzoloni, immerse nell’acqua fino al polpaccio.
A differenza di Judith, non era totalmente nudo, in quanto il torso era scoperto, ma le gambe erano coperte dai pantaloni, di cui i bordi tirati su fino al ginocchio, per evitare di farli bagnare.
Le sue mani delicate scorrevano sulla cute e i capelli setosi e lunghi di Judith, applicando la tintura, bianca come non era mai stato nulla di così bianco al mondo.
Forse, l’elemento che si avvicinava di più a quel colore così accecante, era il latte.
Judith si rilassò ancora, sospirando.
- Vorrei che non smettessi mai... – sussurrò lei.
- Sei agitata per il debutto di oggi pomeriggio?
- No. Perchè dovrei? D’altronde ho voi tutti come garanzia. I bambini sono preparatissimi, inoltre. Sono certa saranno perfetti.
- Ne sono certo anch’io – rispose a bassa voce lui.
- C’è una cosa che non ti ho ancora detto ... – sussurrò ella richiudendo gli occhi.
- Ti ascolto.
- Si tratta dei monaci. Vogliono che tu ti sottoponga ad una sessione di purificazione.
- E per quale motivo?
- Specialmente per ciò che è accaduto il giorno del nostro battesimo.. e anche perchè gira voce che tu faccia esperimenti poco “consoni” alle leggi di Bliaint.
- E in che modo le mie sperimentazioni sarebbero poco consone alle leggi di Bliaint?
- Blake, nessuno ti sta accusando. I monaci sono solo un po’ ossessivi. Li conosco. So che come mio consorte vogliono qualcuno di cui possono fidarsi ciecamente.
- Beh, allora avresti dovuto optare per qualcun’altro, non credi? Sappiamo entrambi che sono la persona meno adatta a entrare nelle grazie del clero. Persino uno stregone eremita sarebbe stato una scelta migliore di me.
Judith gli bloccò la mano, prendendola tra la sua, alla cieca, senza cambiare posizione. La strinse dolcemente, poi voltò la testa verso le loro dita intrecciate e baciò il palmo del ragazzo.
- Tu saresti stata la scelta migliore, in ogni caso – sibilò tra le dita di lui.
- No, Judith. Sai che non è così – le rispose calmo. – Sei sempre stata ammaliata dalla mia ingeniosità e intrapendenza. Motivo per cui ti sei convinta che, anche strategicamente, sarei stato la scelta migliore. Senza contare che ero anche l’unica scelta, dato che la sola persona con cui sei mai stata in stretto contatto, tra i giovani uomini servi del Diavolo, sono io. Avevamo già alimentato le voci per i nostri scopi, perciò il gioco era già fatto. Devi ammettere che è stata una decisione impulsiva, più che ragionata.
- Devo ammettere, in cuor mio, che sì, nel momento in cui ti ho implicitamente convinto a dichiarare che il bambino fosse tuo e la tua intenzione di prendermi in moglie, ero annebbiata dalla profonda amicizia e stima che nutrivo nei tuoi confronti, e non ho avuto il tempo di pensare alle conseguenze delle mie azioni. Tuttavia, non mi pento affatto della scelta che ho compiuto, e del fatto che tu abbia accettato di prestarti alla mia enorme richiesta. Nessuno di noi due contava di sposarsi a breve. Io e te siamo due esseri indipendenti, autonomi, indisposti verso un legame artigliante come quello di un matrimonio. Eppure...
- Eppure accadrà.. – le disse, riprendendo a massaggiarle i capelli, applicandole la tintura. – Hai mai pensato distintamente al fatto che, arriveremo ad un punto in cui non potremo più fingere? Tutti coloro che ci circondano si aspettano un matrimonio, Judith.
- E noi daremo loro un matrimonio.
- Stai facendo del sarcasmo ora?
Judith venne colta dalla voglia di guardare il suo volto, negatole da quella posizione.
Aprì gli occhi e andò indietro con la testa, fin quando i suoi occhi non incontrarono il viso capovolto di Blake, sopra di sè, al limite della sua visuale. Si voltò verso di lui, senza preavviso, sfuggendo dalle sue mani.
La sua chioma bianca era tutta bagnata e raggruppata in alto, le sue mani si puntarono sul bordo ai lati delle gambe del ragazzo, e, facendo leva su queste, emerse fino al pube, con il suo glorioso corpo nudo.
Ora che la gravidanza si stava facendo vedere e sentire, stava cambiando di conseguenza anche il suo corpo. Per quanto non avesse messo su peso, la crescita di dimensioni del suo seno, già gonfio e invidiabile di natura, era ben visibile.
La ragazza inclinò la testa di lato, ammirandolo, prendendosi tutto il tempo per scandagliare famelica ogni angolo e curva di quel petto e quell’addome slanciati e scolpiti, deliziosamente ambrati. Blake, al contrario, non si scompose, puntando i suoi occhi magnetici su quelli della ragazza, reggendo il suo sguardo.
- Sono seria, Blake – gli disse guardandolo dritto negli occhi. – Voglio davvero che mi sposi.
- E da quando, di grazia? Ti sei almeno minimamente preoccupata di sentire anche il mio parere a riguardo?
- Blake. Sei l’amico, il compagno e il complice più caro e stretto che io abbia mai avuto. Per te provo una moltitudine di emozioni e sensazioni differenti, che agitano il mio animo come un turbinio impazzito. Non è mai accaduto con nessun altro prima d’ora. Provo un’attrazione carnale destabilizzante nei tuoi confronti.
- E credi che questi siano tutti elementi degni di considerazione, nella decisione di unirci in matrimonio?
Cosa ne sarà del nostro esclusivo rapporto di amicizia? Quello che ci stiamo sforzando tanto di non rovinare cedendo irrimediabilmente alla carne?
Judith affilò lo sguardo, quasi volesse spogliarlo totalmente di ogni sua corazza, trovando uno spiraglio in quello sguardo impenetrabile.
- Non vuoi mai parlare delle tue emozioni, del tuo stato emotivo. E io, per rispetto, non ti ho mai forzato a farlo. Ti ho sempre lasciato i tuoi tempi, com’è giusto che sia.
Ma ora, credo sia il momento che tu sia sincero con te stesso e con me, ad alta voce: cosa senti, Blake?
Quella domanda improvvisa lo fece sorridere, sorridere d’amarezza e di confusione insieme.
Cosa sentiva?
Cosa provava per le persone intorno a sé?
Aveva avuto modo di indagare realmente dentro se stesso, da quando era tornato dal suo maledetto viaggio fuori da Bliaint?
No.
No, perchè sarebbe stato troppo doloroso.
Judith lo aveva capito. Probabilmente anche padre Craig, che, per quanto avesse sempre mostrato un attaccamento quasi morboso nei suoi confronti, aveva compreso di doverlo lasciare in pace con se stesso e con i propri mostri interiori.
Ma ora, era arrivato il momento di fare i conti con ciò che voleva.
Non con ciò che gli conveniva, ma che desiderava.
Cosa desiderava?
Il solo pensare a quella domanda gli fece sorgere un gran mal di testa.
- L’idea di un matrimonio mi ha sempre fatto venire la nausea – le disse sinceramente, sapendo che non l’avrebbe offesa. D’altronde, Judith era l’unica davvero in grado di capirlo. – Devo rifletterci su.
- Avrai tutto il tempo che ti serve per prendere una decisione. Attenderò una tua risposta quando vorrai darmela.
- Non l’ho mai vista come un’ipotesi reale, la nostra unione di convenienza, ma solamente come un’esigenza temporanea, per salvarti.
- Ti capisco. Anche io ho continuato a vederla così, fino a qualche tempo fa. Poi ho pensato a noi due, a cosa siamo in quanto individui, e in quanto coppia. Questo matrimonio sarebbe in parte una necessità per avere salva la vita, è vero. Tuttavia... mi sono resa conto che lo voglio. Lo voglio con te. Ma solo e solamente... se lo volessi spontaneamente anche tu.
- Come fai? Come fai ad essere sicura di volerlo?
Judith gli sorrise dolcemente, continuando a guardarlo negli occhi. – Se penso a te... mi sento bene. Mi sento realizzata, completa, in pace. Sento di volerti appartenere. Sento di volere che tu mi appartenga. Può bastare come spiegazione...? – la sua voce naturalmente suadente risuonò per le pareti della stanza.
Calò un silenzio denso di eccitazione tra i due, che aumentò gradualmente, man mano che continuavano a guardarsi tacendo.
- Hai finito di applicarmi la tintura? – spezzò il silenzio nuovamente Judith, con voce leggera macchiata da un pizzico di impazienza.
- Quasi.
- Voglio fare la stessa cosa con te.
- Siamo impazienti, vedo.
Quel gioco tra loro era una tortura.
Aveva cominciato ad esserlo settimane prima, quando avevano convenuto fosse meglio non approfondire il loro legame, non trasformarlo in qualcosa di più intimo e morboso; tuttavia, non erano riusciti a rinunciare alla tentazione di stuzzicarsi e assaggiarsi con gli occhi, anche solo per poco.
Stavano tenendo a bada i loro istinti, la loro anima carnale, senza sapere per quanto ancora ci sarebbero riusciti.
Erano talmente razionali da far prevalere la ragione su tutto il resto, ma quando si trovavano l’uno di fronte all’altra, in quel modo, quel gioco diventava ancor più elettrizzante e pericoloso insieme.
Oramai era una sfida.
Tuttavia, nonostante non fosse la prima volta che si vedessero nudi, era la prima che si trovavano in una situazione come quella, col vapore caldo che li avvolgeva e accendeva ancor di più i loro sensi.
- Sono felice che tu abbia ceduto alle mie richieste, e abbia deciso di prestarti a questo .. – iniziò lei, adottando nuovamente quella voce carezzevole capace di ridurre in poltiglia qualsiasi uomo.
- Non sono stato l’unico. Te ne serivano otto, no? Saremo solamente una presenza visiva nello spettacolo, l’attenzione sarà posta solamente sui bambini.
- Senza ombra di dubbio. Tuttavia, questi colori ci doneranno molto carattere sulla scena. E ammetto che non vedo l’ora di vederti con i capelli e le sopracciglia d’argento – gli disse infilandogli una mano dietro la testa e sciogliendogli i folti capelli scuri.
Blake le accennò un sorriso in risposta, ammirandola. – La cosa è reciproca. Credevo che la chioma bianca non donasse a nessuno, e invece sono costretto a ricredermi. A proposito, ho dimenticato queste... – le disse prendendo un’altra po’ di tintura dal contenitore con i pollici e spalmandogliela sulle sopracciglia, con cura e delicatezza.
Judith chiuse gli occhi, poi li riaprì, sempre nella stessa posizione, con il busto nudo completamente fuori dall’acqua, la testa alla sua altezza.
Gradualmente, senza distogliere lo sguardo dal suo, la fanciulla avvicinò le mani ai fianchi del ragazzo, infilando le dita nel bordo dei suoi pantaloni, iniziando a tirare lentamente verso giù per abbassarglieli, per quanto possibile.
- Avevamo pattuito – le rimembrò lui poggiandole una mano sulla guancia, bloccandola.
- Ti sembra giusto? Che io debba essere nuda dinnanzi a te mentre tu no?
- Sai bene come andrebbe a finire se lo fossimo entrambi – le sussurrò vedendola avvicinarsi a lui con il volto.
- Hai ragione... – iniziò lei, depositandogli un lungo e bagnato bacio sul collo con le sue labbra carnose. - Avevamo pattuito – un altro bacio, e un altro ancora, sempre più languidi, sempre più esasperanti.
- La gravidanza ti rende vogliosa, Judith – la canzonò Blake, ottenendo esattamente l’effetto sperato.
La ragazza si bloccò, rialzando il viso all’altezza del suo. – Sì, è vero, ma non è detto che non lo sarei stata anche senza tre vite che mettono radici in me.
- Potresti sfogarti con altri – le disse irritandola, più che provocandola, ma la fanciulla era certa fosse proprio questo il suo scopo. – La fila dei tuoi pretendenti potrebbe sovrastare i confini di Bliaint, se solo fossi disponibile.
Judith non lo fece neanche concludere di parlare, in quanto decise di giocare sporco a sua volta: gli si avvicinò pericolosamente, senza preavviso, arrivando a meno di una spanna dal suo viso. Continuando ad osservarlo, fece leva ancor di più sulle mani poggiate al bordo, per issarsi con il viso più in alto di qualche centimetro dal suo, avvicinando, di conseguenza, il seno invitante e bagnato.
Anche un giovane uomo granitico come Blake avrebbe dato segni di vacillamento dinnanzi a ciò, e fu proprio ciò che ottenne.
Il ragazzo abbassò gli occhi blu sul suo seno solo per un istante, per poi rialzarli su di lei, scandagliando ogni angolo del suo viso.
I loro respiri si mischiarono.
Judith non ebbe bisogno di emettere una sola parola per convincerlo ad alzare bandiera bianca.
Tuttavia, rimanevano ben coscienti del loro patto. Sempre. La loro amicizia era troppo importante per cadere schiacciata sotto il peso di un’attrazione carnale, per quanto consumante. Questo sempre e solo se... non avessero deciso di comune accordo di far evolvere tutto ciò in qualcosa di più, come Judith aveva proposto.
Lui sospirò e le circondò il collo con una mano, senza stringere troppo.
Judith venne incoraggiata ancor di più da quel gesto.
Blake avvicinò le labbra all’orecchio della ragazza, facendo entrare in contatto le loro guance.
Quella di Judith era morbida, fresca e bagnata.
- Ricordi il nostro primo incontro? Il gioco dello specchio? – le domandò in un sibilo, un sussurro talmente sensuale e caldo da farla sorridere d’eccitazione.
- Una simile domanda mi offende...
Blake sorrise a sua volta, adagiando le labbra al suo orecchio, mentre continuava. – Quando toccava a me fare lo specchio ... facesti dei movimenti che mi piacquero molto, sai? Quella strana danza animalesca.. – sussurrò distrattamente, venendo colto lievemente di sorpresa quando la ragazza gli artigliò le mani sui fianchi parzialmente nudi, stringendoli con possesso.
Dal canto suo, Blake riportò il suo viso dinnanzi al proprio e la osservò. Una mano sulla sua schiena e l’altra sulla sua guancia. Con lentezza estenuante, le lasciò un bacio sulla guancia, accanto alla bocca.
Si negò il bocciolo saporito e dolcissimo che era la sua bocca carnosa e bagnata, pur sapendo che la ragazza fosse pronta a concederglielo già da quando si erano spogliati per entrare in quella vasca.
- Chiederò a Quaglia di mettermi la tintura. Tu ora devi riposarti prima del debutto. Ci vediamo tra qualche ora – le disse rialzandosi in piedi, rinfilandosi la maglia e gli stivali. – E dì ai tuoi monaci che un’unica “sessione purificatrice” può anche andarmi bene, ma solo e solamente perchè la terrai tu. Ma dovranno crollare i cieli prima che ne faccia più di una: non voglio finire con il cervello in poltiglia come il ragazzo-strige. Non voglio sapere cosa gli hai fatto per averlo reso così, e non ci tengo a saperlo  per il momento – detto ciò, uscì dalla stanza.
 
Ambrose bussò alla porta di quella casa che oramai aveva imparato a conoscere, attendendo che la solita figura gentile e familiare della madre di Folker si palesasse.
Come previsto, la donna aprì e gli rivolse uno smagliante sorriso.
- Salve, signora Prudence.
- Buongiorno, Ambrose. Folker sta ancora pregando davanti al crocefisso, un minuto e arriva – lo informò.
Il ragazzo annuì in risposta, accennando un sorriso.
La signora Prudence era molto più serena, da un mese a quella parte.
Nonostante il primogenito fosse stato isolato da tutto il villaggio e la sua famiglia non se la passasse affatto bene a causa delle discriminazioni, era felice di poter passare più tempo con il suo unico figlio rimasto.
Anche perchè ora Folker era una persona completamente diversa: affettuoso, gentile, accomodante con tutti.
Ambrose aveva pensato molto a riguardo.
I primi cambiamenti si erano iniziati a vedere dopo la prima settimana di sessioni purificatrici giornaliere. Queste erano sempre tenute solo e solamente da Arley Judith.
Nessun esterno poteva assistervi, perciò Ambrose non sapeva davvero cosa accadesse durante quelle sessioni, a cosa l’amico venisse sottoposto.
“Amico”, già... nei suoi brevi quattordici anni di vita, Ambrose non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato al punto di diventare amico di un servo del Diavolo.
L’odio tra i due sembrava scemato completamente oramai.
C’era da dire che Ambrose non aveva mai sperato davvero di diventargli amico. Si sarebbe accontentato di raggiungere una tregua con lui, di non farsi più la guerra e cercare di uccidersi ogni qualvolta incrociavano lo sguardo.
E invece, inaspettatamente, eccolo lì, un mese dopo avergli proposto timidamente una tregua, ad aspettarlo davanti casa per passare la mattinata insieme e accompagnarlo a fare compere.
Un mese prima, quando era stato rilasciato dai monaci dopo esser stato prelevato con l’accusa di essere una strige, Folker era uscito dalla cattedrale con una faccia da morto vivente, come se stesse per andare al patibolo.
Ambrose non l’aveva mai visto così, e gli domandò cosa fosse successo, cosa gli avessero detto.
Ciò che aveva udito quel giorno dalle labbra del suo eterno nemico l’aveva lasciato senza parole.
Folker avrebbe dovuto confessare di essere una strige per aver salva la vita.
Non vi era alternativa. In cambio della confessione, avrebbe vissuto ogni giorno della sua vita in balìa di quelle sessioni di purificazione, e isolato dal villaggio, il quale avrebbe avuto paura di lui e lo avrebbe odiato fino al nuovo ordine.
Ambrose non si era mai sentito così in colpa come in quel momento.
E ci si sentiva ancora, ogni giorno.
Ma non era questo il motivo per cui aveva iniziato a passare così tanto tempo con lui.
Come da previsione, era accaduto tutto quello che si prospettava, e, attualmente, Ambrose era diventato l’unico amico di Folker.
Per tale motivo la madre del ragazzo gli era così grata. Sapere che il figlio non fosse stato completamente abbandonato da tutti, la rincuorava. A lei sembrava non importare che lui fosse un servo del Creatore.
Lo stesso non valeva per il padre del ragazzo, che invece, ogni volta che lo incrociava, gli riservava uno sguardo torvo e non si degnava neanche di salutarlo. Ambrose non poteva biasimarlo. D’altronde, lui era quello che per primo aveva sparso la voce delle strigi. Inoltre, sicuramente lo detestava perchè era un brutto ceffo. La maggior parte dei servi del Diavolo non riuscivano neanche a guardarli in faccia i brutti ceffi come lui, e come tutti gli altri servi del Creatore, Ambrose ne era certo.
Gli abitanti del villaggio, tuttavia, sapevano essere addirittura più severi del padre di Folker: erano ormai diventati la strana coppia, il servo del Creatore e il servo del Diavolo, o meglio la strige, che camminavano fianco a fianco con serenità, provocando il tremendo sgomento di tutti coloro che li guardavano.
Eppure, per quanto la nuova quotidianità piacesse ad Ambrose, e non si curasse minimamente dei giudizi delle persone, sapeva che c’era qualcosa di strano, qualcosa di profondamente sbagliato nella nuova personalità di Folker.
Certo, non che si lamentasse di essere diventato suo amico e di aver conquistato la sua fiducia, così come non si lamentava di non dover litigare ogni tre secondi con Folker per le minime sciocchezze a causa del carattere difficile e bellicoso del ragazzo.
Ma era proprio questo il punto: Folker non era così. Quello con cui trascorreva ogni giorno non era il ragazzo che aveva conosciuto nel sotterraneo della Taverna, rabbioso, adirato con il mondo, irritante e pronto ad attaccar briga e a picchiare a sangue alla minima provocazione.
Tutti miglioravano e levigavano gli aspetti più spigolosi del proprio carattere, certo, sua madre glielo ripeteva sempre; tuttavia, quello non era un miglioramento qualsiasi.
Quelle sessioni avevano fatto qualcosa di davvero sovrumano alla mente di Folker e Ambrose ne era sinceramente preoccupato.
Per quanto gli piacesse quel ragazzo pacifico, sorridente, accomodante, sempre gentile e pieno di fede, non era lui. Non era lui e non andava bene.
Si trovò costretto ad ammettere a se stesso che gli mancava il vecchio Folker che odiava il mondo e che era così difficile da ammansire e da avvicinare.
Se ne sorprese non poco.
Anche perchè, tutto ciò aveva inevitabilmente comportato lo svanimento della Congrega degli Sciacalli.
La loro congrega segreta era sparita con una facilità disarmante dopo la confessione di Folker e il suo conseguente isolamento.
Nessuno più si riuniva per combattere.
Evidentemente, Ambrose e Folker erano il fulcro della loro congrega, ricoprivano un ruolo molto più importante di quello che si aspettassero lì dentro, motivo per cui, senza di loro, la congrega era morta.
Ad ogni modo, fortunatamente vi era almeno una persona interessata al benessere mentale di Folker e che, apparentemente, era intenzionato ad indagare come lui sulla faccenda: il prete straniero che viveva nella casa dei Rolland.
Le sue elucubrazioni vennero interrotte dall’arrivo dell’oggetto dei suoi pensieri, il quale salutò dolcemente sua madre, varcò la porta e la richiuse dietro di sè, rivolgendogli un sorriso più accecante di quello di Prudence.
- Ciao!
- Ehi!
- Andiamo? – lo incoraggiò il biondo iniziando ad incamminarsi nella vallata, diretto verso il centro del villaggio.
Ambrose lo affiancò e lo guardò.
Il suo volto era riposato, raggiante, sereno.
Emetteva una luce davvero strana e leggera.
- Dove vogliamo andare oggi? – gli domandò il servo del Creatore.
- Devo comprare del malto, del miglio e dell’orzo. Mia madre mi ha detto di sceglierli accuratamente, perchè spesso i venditori sono dei furfanti.
- Bene.
- Poi vorrei andare a pregare davanti alla galleria, per mia sorella. Ti andrebbe di accompagnarmi? – gli domandò voltandosi a guardarlo.
- Folker... mi piacerebbe, ma.. te ne sei già dimenticato?
- Di cosa?
- Tra poche ore ci sarà lo spettacolo sugli otto vizi capitali. Quasi tutto il villaggio assisterà, o per lo meno vorrà assistere, dato che i posti sono limitati. Ti avevo già raccontato ieri che padre Craig mi ha chiesto il favore di partecipare con loro, per interpretare solo visivamente una delle otto virtù contrarie ai vizi.
- Oh ... che strano. Deve essermi passato di mente – rispose confuso, con il volto distratto.
Ambrose lo osservò ancora. – Stai avendo sempre più spesso perdite di memoria, Folker?
- Cosa? No, non credo, perchè?
- In questo mese ho notato che c’è un giorno della settimana, sempre lo stesso, in cui dimentichi tutto ciò che ti è accaduto il giorno prima.
- Davvero..? – Folker era sinceramente sorpreso, ma comunque rilassato.
- Sì. A cosa può essere dovuto?
- Non lo so.
- La cosa non ti turba..? A me turberebbe sapere che ho una perdita di memoria una volta alla settimana. Non è che qualcuno che ti odia particolarmente al villaggio ti ha fatto il malocchio o qualche altro strano incantesimo?
- Ambrose, non c’è nessuno che non mi odi al villaggio. Se dovessi cercare chi mi vuole fare del male per scoprire chi possa avermi fatto un incantesimo, morirei di vecchiaia rimanendo nell’ignoranza – di nuovo, sembrava del tutto sereno dinnanzi a tutto ciò, a tratti quasi inquietante.
Superarono la vallata e arrivarono nella strada principale, iniziando a camminare tra le bancarelle, tra la gente.
- Sai, dovresti venire oggi pomeriggio allo spettacolo. Almeno mi vedresti. Certo, non farò nulla di speciale se non restare lì e fare qualche movimento, ma sarebbe bello se venissi – azzardò Ambrose, vedendolo scandagliare con i suoi occhi di giada le diverse bancarelle.
- Ambrose, non posso. Nessuno mi vuole lì, lo sai. Gli abitanti del villaggio mi vogliono più alla larga possibile da loro.
- Judith ti proteggerà, lei lo sa qual è la tua situazione. Sicuramente incaricherà qualcuno di tenere d’occhio chiunque voglia farti del male tra gli spettatori.
- Non sarei comunque gradito.
- Lo so, ma... vorresti rinunciare al vedermi con dei ridicoli capelli tinti?? – cercò di corromperlo, vedendolo voltarsi immediatamente verso di sè e sgranare gli occhi chiari per la sorpresa.
- Davvero..? Vi tingerete i capelli?
- Ognuno di un colore diverso, sì. Servivano otto attori-spalla per i bambini, dato che ogni virtù è il contrario del rispettivo vizio. C’era un altro posto vacante in realtà, e padre Craig ha detto che Judith avrebbe voluto chiedere anche a te di partecipare; tuttavia...
- ... Tuttavia, gli spettatori si sarebbero tutti ribellati nel vedere una strige prendere parte allo spettacolo – terminò la frase per lui Folker, con tranquillità. – E dimmi, di che colore ti tingerai questa sgangherata chioma? Di rosso? Il rosso non sarebbe male.
Ambrose ci mise un po’ a rispondere, in preda all’imbarazzo.
- Ehi? Che fai, non mi rispondi? Sbaglio o ti vergogni? – lo rimbeccò l’altro sorridendogli giocosamente.
- ...Verdi. Per lo Zelo è stato scelto il verde speranza.
Folker dovette trattenersi dal non scoppiare a ridere in oltranza.
Si coprì la bocca con una mano, e si permise di fare solo un sorrisino malcamuffato, mentre passavano davanti alla bancarella di loro interesse.
- Ambrose, siamo arrivati. Quello è il bancone dei cereali. Eccoti le monete. Mi raccomando, fatti spiegare accuratamente qual è la tipologia migliore di miglio, malto e orzo. Non farti fregare – gli sussurrò avvicinando la mano alla sua e depositandovi dentro le monete.
Era davvero frustrante dover fare compere per lui, rifletté Ambrose intristito.
Dover parlare per lui, quando il suo amico era proprio lì di fianco, ma era talmente malvisto dalla comunità, da essere discriminato persino dai venditori alla bancarelle, che mai avrebbero concluso un acquisto con lui.
Prese i soldi e si avvicinò al bancone.
Dopo aver comprato tre sacchetti di ciascun cereale indicato dalla madre di Folker, i due ripresero il loro cammino. Ma non fecero in tempo a percorrere neanche dieci metri che vennero bloccati da una voce che Ambrose riconobbe subito:
- Ehi, Ambrose!
Il succitato si voltò, per poi trovarsi dinnanzi il suo gruppetto di amici servi del Creatore, gli stessi con cui era solito partecipare agli incontri della Congrega degli Sciacalli. Ragazzi impulsivi ed energici quanto lui, con una tremenda voglia di sfogarsi su tutto e chiunque.
No, non era affatto un buon momento, e non era neanche la prima volta che i suoi amici lo beccavano in compagnia di Folker e li infastidivano.
Il più attaccabriga di tutti, Devon, si fece avanti con un ghigno che non prometteva nulla di buono.
- Che cosa vuoi, Devon?
- Cos’è quel tono scontroso? Non sei felice di rivederci? O quando sei in compagnia del tuo adorato mostro succhia-sangue preferisci far finta di non conoscerci? Cos’è, siamo diventati troppo noiosi per te? – lo provocò com’era suo solito, mentre, intanto, un altro di loro si affacciava per guardare alle spalle di Ambrose, in quanto Folker era rimasto diversi metri dietro di lui.
- Perchè non vieni avanti, strige?? Non avrai mica paura di noi! Da quanto si dice dovresti essere capace di dissanguarci tutti nel giro di un battito di ciglia. Allora perchè non ti fai avanti?
- Terry, smettila – lo ammonì Ambrose.
- Ai nostri incontri facevi tanto lo splendido e combattevi come una furia, rendendo impossibile a chiunque batterti, provocando tutte le nostre invidie... e ora? Ora ti nascondi dietro le spalle del nostro amico come un codardo? Dov’è finito quello che abbiamo visto alla Con-
- Non dovete dirlo – si decise finalmente a parlare Folker, sorprendendo Ambrose. Sembrava calmo e pacato come sempre, mentre rispondeva a quell’idiota. Tuttavia, con grande piacere del moro, nel biondo era rimasto ancora invariato quel senso di protezione e di appartenenza nei confronti della sua amata congrega. - Di quel luogo non si parla mai. Perchè quel luogo non esiste, se non dentro la Taverna – aggiunse, ricordando loro le regole con pacatezza.
- Quindi ce l’hai la lingua! Allora, dato che ci degni della tua attenzione, dicci, strige, per quale motivo stai trattando il nostro amico come un cane da guardia? Non ti bastava averlo pestato a sangue per settimane?!
- Smettila! – esclamò Ambrose, sempre più insofferente nei confronti di quegli stupidi mascalzoni.
- Perchè è questo che sei oramai, no, Ambrose...? – riprese Devon, fronteggiandolo. In quei casi, l’elevata altezza di Ambrose aiutava, in quanto Devon dovette alzare lo sguardo verso l’alto per fronteggiarlo. – Un cane. Uno stramaledetto cane da guardia di un servo del Diavolo. Quale stregoneria ti ha fatto quel demonio per ridurti così, eh...?
- Lui non mi ha fatto nulla, e te lo ripeto: smettetela e tornatevene a casa. Non costringetemi ad usare le maniere forti.
- Ti batteresti contro di noi per proteggere quello lì?? Tradiresti i tuoi amici per ...
- Non c’è nessuna stregoneria, non lo sto convincendo a fare niente – intervenne nuovamente Folker, con la solita calma sovrumana.
- Dimmi, servo del Diavolo, sono quelle sessioni di purificazione che ti hanno reso così docile? – lo provocò un altro del gruppetto, Esaù, prendendo l’iniziativa e avvicinandosi a Folker, facendo adirare ancor di più Ambrose, il quale si forzò a rimanere fermo, per non far sfociare il tutto in una lotta corpo a corpo in mezzo alla strada principale della piazzola. Esaù afferrò Folker per il braccio e lo strattonò verso di loro con un ghignetto soddisfatto.
Devon sorrise a sua volta, osservandolo. – Oh, Ambrose, amico mio, perchè non ce lo hai detto?
- Dirvi cosa?
- Che preferisci i maschi al gentil sesso. Te ne avremo trovato uno noi! Ci sono diversi stregoni che, a prezzi ragionevoli, acconsentono a fare piccoli trucchetti magici che migliorano l’aspetto fisico di una persona per una manciata di minuti o di ore. Lo fanno in tanti tra noi, ormai, per avere l’illusione di star giacendo con qualcuno che sia almeno decente da guardare. Certo però, che se lo vuoi bello come lui... – disse allungando una mano e carezzando una guancia di Folker. Ambrose, il quale scalpitò e fece violenza a se stesso nel trattenersi nello sganciare uno schiaffo in faccia a Devon, giurò di aver scorto una vena che solcava l’avambraccio del biondo pulsare visivamente in seguito a quel tocco sgradito. Tuttavia, Folker rimase comunque impassibile, poco prima che Devon continuasse la frase lasciata in sospeso: - ... faresti meglio a metterti l’anima in pace e a continuare sognare, come facciamo tutti noi – disse schietto il giovane attaccabriga, per poi realizzare qualcosa e ritirare via la mano immediatamente. – Rimane il fatto che potevi pur sempre adocchiare un servo del Diavolo che non fosse un assetato mostro succhia-sangue!
- Quante persone hai stregato e ucciso per nutrirti, eh?? Rispondici!
- Perchè non te ne vai via da Bliaint e tormenti altri villaggi??
- Non sarebbe il caso di ripagarti di tutti i pugni e i colpi che ci hai dato ai nostri incontri segreti?? – gli inveì contro un altro, spintonandolo con violenza e facendolo cadere a terra.
- Ho detto di lasciarlo stare! – Ambrose non ci vide più e buttò alle ortiche tutti i suoi sforzi di rimanere pacifico e di non dare spettacolo in mezzo alla gente, mollando un pugno in faccia a Terry, che aveva appena spintonato Folker.
Tuttavia erano in due contro cinque. Per quanto Ambrose possedesse una stazza grossa e scimmiesca, non sarebbe riuscito a batterne cinque insieme. Forse se Folker avesse combattuto al suo fianco sì, ma tale ipotesi non era minimamente ammissibile: il nuovo Folker non avrebbe alzato un dito contro di loro. Sarebbe rimasto fermo, a farsi picchiare a morte da quel branco di stolti.
In sostanza, a meno che un adulto non fosse intervenuto, non se la sarebbero vista bene.
Mentre Ambrose era impegnato a vedersela con Terry, difatti, Devon e altri due si avvicinarono a Folker mentre questo stava per rialzarsi, ripremendolo a terra.
Ma proprio mentre gli stavano intrappolando le braccia dietro la schiena, finalmente la salvezza arrivò, sottoforma di prete straniero.
- Ehi voi!! Cosa penserebbe di voi il nostro signore il Creatore?! – esclamò padre Craig accorrendo per avvicinarsi il più velocemente possibile al gruppetto, avendo adocchiato la raccapricciante scena a distanza. - Avete perso la testa?? Lasciate subito andare questi poveri ragazzi!
A ciò, dinnanzi alla tirata di orecchie del prete, i cinque attaccabriga si bloccarono e si fecero da parte.
Il giovane prete aiutò Folker a rialzarsi, poi guardò i mascalzoni in faccia uno per uno. – Ditemi, giovanotti: per quale motivo li avete aggrediti?
- Ma, padre, quello è una strige!
- E allora? Cosa starebbe a significare? Che siccome la suprema saggezza dei monaci e dei due signori lo hanno risparmiato, decidendo di dargli la possibilità di redimersi, allora dovete ucciderlo voi?
- No, non volevamo ucciderlo, volevamo solo...
- Cosa? Picchiarlo? Che giovamento ne avreste tratto, esattamente? In cinque contro due, poi? Bel coraggio. La violenza è inammissibile e punibile in qualsiasi caso. Ma nel vostro ancora di più. In questo villaggio non ammettiamo pregiudizi di questo genere, specialmente verso chi sta affrontando un complesso percorso di redenzione, mettetevelo bene in testa, teste calde. Sono stato chiaro?
- Sì, padre – risposero in coro, a testa bassa.
- Ricordate: Dio vi guarda e vi giudica. Lui non approverebbe affatto ciò che avete fatto oggi, motivo per cui dovreste andare a fare ammenda ora.
L’unico motivo ammissibile per cui potrei comprendere (ma non accettare o giustificare) un comportamento del genere, sarebbe se fosse provocato dalla gelosia nei confronti del vostro amico, che ora ha trovato qualcun’altro con cui trascorrere il tempo. E se anche così fosse, potreste trovare mille altri modi per far capire ad Ambrose che vorreste passare più tempo con lui – concluse il prete poggiando una mano sulla spalla del succitato, il quale lo guardò tirando un interno sospiro di sollievo.
I cinque annuirono e si defilarono.
A ciò, padre Craig si voltò subito verso Folker per controllare l’entità dei danni. – Vi hanno fatto male, figliolo? Quando vi ho raggiunto eravate praticamente immobilizzato a terra.. – gli domandò alzandogli il mento delicatamente.
- No, sto bene, padre. 
- E invece non sembra – rispose notando una ferita pregna di sangue proprio sul mento, dove il terreno duro aveva sfrigiato sulla sua pelle. Il prete tirò fuori un fazzoletto di stoffa e lo premette sulla ferita.
- Davvero, padre, non è niente – cercò di convincerlo il ragazzo biondo.
- Non vi fa male..?
- No. Per niente.
In quel momento Ambrose avrebbe voluto dirgli che Folker fosse abituato a ben di peggio, ma prese la saggia decisione di non farsi scappare quel commento.
- E voi, invece? – domandò poi padre Craig passando al giovane servo del Creatore.
- Nulla di nulla. L’unico che non sta tanto bene penso sia Terry, a causa del pugno che gli ho dato in faccia - rispose Ambrose con una certa fierezza.
- Non c’è niente di cui vantarsi – lo ammonì il giovane prete. – Dovete stare attenti ad andare in giro insieme, voi due. Soprattutto voi, Folker. Siete sempre più spesso vittima di episodi simili. Le persone di questo villaggio sanno essere davvero ... spregevoli. Attaccare un ragazzino della vostra età, disarmato e innocuo...
- Loro non credono che io sia innocuo.
- Posso chiedervi come mai non vi difendete? – gli chiese sinceramente curioso il prete.
- Perchè come avete detto voi, se rispondesse alle loro provocazioni peggiorerebbe la sua situazione – andò in suo aiuto Ambrose rispondendo al suo posto. – E poi.. Folker non è tipo da usare le mani. Non è capace e non ha mai amato farlo. Si potrebbe dire che è negato! Vero, Folker? – mentì spudoratamente Ambrose, cercando complicità nello sguardo dell’amico, trovandola ovviamente. Improvvisamente, una forte volontà di proteggere il segreto della loro congrega prevalse sul resto, nonostante padre Craig non stesse per svelare alcun segreto.
- Sì, infatti. Non sono mai stato un tipo da fare a botte – confermò Folker.
- Sicuro? – chiese conferma poco convinto il prete. – Neanch’io sono certo tipo da lotta fisica, ma se mi ritrovassi aggredito, di certo non esiterei a difendermi. Siete sicuro che ciò non c’entri con le sessioni di purificazione a cui siete sottoposto? Forse dovrei parlarne con Judith – detto ciò, padre Craig tornò a rivolgersi ad Ambrose. – Siete pronto per dopo?
- Sì, certo. Ho ripassato i miei movimenti con Kilian all’alba.
- Bene, perchè è quasi ora. Dovremmo applicarci la tintura e lasciarla in posa per qualche minuto. Voi venite con noi? – domandò poi a Folker, il quale sgranò gli occhi chiari di stupore.
- No, padre, certo che no. Non sarei gradito, neanche tra gli spettatori.
- Judith ci tiene a vedervi tra i presenti, Folker. Fatela felice e venite. Ci penseremo noi a punire chi oserà anche solo alzare un dito su di voi – lo rassicurò il giovane prete, sperando di convincerlo.
- D’accordo. Verrò.
- Bene. Ora ricomponetevi e venite con me voi due.
 
 
 
“Egli ti schiaccerà la testa..
E tu... gli insidierai il calcagno” quelle parole risuonarono nella sua testa con una frequenza rimbomante.
Hinedia prese un bel respiro profondo e cercò di scacciare via quella strana sensazione sottopelle.
Andava tutto bene.
I preparativi erano quasi ultimati.
Judith era nell’altra tenda, ad aiutare gli ultimi bambini ad infilarsi i vestiti di scena.
Avevano montato dei tendoni di circostanza per creare un dietro le quinte improvvisato.
I costruttori stavano finendo di montare le colonne col sipario e la tenda, all’aperto.
Le locandiere stavano disponendo tutte le sedie di legno per gli spettatori, iniziando già a farne sedere alcuni.
I due musicisti, una serva e un servo del Diavolo, si stavano riscaldando, lei con il tamburo, lui con la lira.
Tutto era quasi pronto per quell’evento che aveva aspettato con ansia per più di un mese.
Quella mattina, tuttavia, si era svegliata strana.
Era passato circa un mese dal giorno in cui era avvenuto quell’episodio davvero bizzarro, che le aveva lasciato ricordi molto confusi: nella stessa mattinata, ricordava di essere stata sia con Judith e i bambini, sia di aver incontrato Blake. Nel medesimo momento.
Ciò era a dir poco impossibile.
Credeva di averselo sognato, perchè non ricordava bene cosa fosse avvenuto in nessuna delle due situazioni, non ricordava cosa avesse detto a ciascuno di loro, non ricordava cosa loro avessero detto a lei, cosa fosse accaduto.
Era come se non fosse lei, in entrambe le circostanze.
Ciò l’aveva spaventata, spaventata terribilmente.
Non sapere come si fosse comportata con loro... chi delle due avesse avuto a che fare con chi.
Poi, lo spavento si era trasformato in terrore quando aveva avuto la conferma che non fosse stato un sogno.
Quando si era recata nell’abitazione di Blake il giorno dopo, per proseguire con lui le letture e per parlare a padre Craig dello strano sogno che aveva fatto, sapendo che il prete non ne avrebbe ovviamente fatto parola con nessuno dopo ciò che era accaduto, aveva realizzato che Blake avesse un atteggiamento bizzarro nei suoi confronti. Sembrava risentito, era distaccato, quasi diffidente.
A ciò, aveva preso coraggio e gli aveva chiesto cosa fosse accaduto, se per caso avesse fatto qualcosa di male e non se ne fosse resa conto.
E lui... lui gli aveva raccontato della mattina prima...
La stessa mattina che lei aveva trascorso alla cattedrale con Judith e gli altri, l’aveva trascorsa anche con lui.
Dunque era tutt’altro che un sogno. Era la realtà.
Spiritata e raccapricciata, Hinedia se ne era andata via da casa di Blake senza dire una parola, decidendo di non parlare più di tutto ciò con alcuno, nè con padre Craig, nè con nessun altro.
Vi avrebbe messo una pietra sopra e avrebbe cercato di non pensarci.
La sola idea che l’aver bevuto quel serio avesse potuto provocare degli effetti...
Fortunatamente, non riaccadde più una cosa simile.
Hinedia visse tranquillamente, adempiè ai suoi doveri di maestra di teatro, di fedele serva del Creatore e di promessa sposa, non deconcentrandosi mai. Aveva pensato che se non avesse avuto alcuna distrazione, le cose sarebbero continuate ad andare bene, e così era stato.
Ma, per qualche assurdo motivo, forse a causa dell’agitazione per il debutto del loro bellissimo spettacolo su cui avevano lavorato tanto, sentiva quella strana sensazione accartocciarle le viscere.
E se lo spettacolo non fosse andato bene come speravano?
E se non fosse piaciuto?
E se i bambini si fossero dimenticati le battute a causa dell’agitazione?
E se i monaci, essendo tutti del Creatore, avessero deciso di metterli tutti alla gogna per aver creato uno spettacolo così anticonformista, sfacciato, inusuale, ai limiti del blasfemo?
Certo, la principale creatrice e fautrice era Judith, nonchè una serva del Diavolo, che seguiva un culto molto diverso dal loro. Avrebbero dovuto tenere in conto una cosa del genere, dato che Judith era anche la loro pupilla.
Hinedia si impose di non farsi prendere dall’ansia senza motivo e prese un altro bel respiro, guardandosi allo specchio a figura intera dinnanzi a sè. I suoi capelli, solitamente scuri e crespi, ora erano di uno spettacolare color pervinca, misto al cobalto, che le ricordava i cieli più belli che avesse visto sopra di sè, talmente rari da apparire solamente circa due o tre volte l’anno di quel colore. Oltre alla particolare tintura, che inaspettatamente donava al suo viso sgradevole un aspetto luminoso, pacifico e confortevole, i suoi capelli sembravano anche più morbidi e persino più lunghi.
Certo che le pigmentazioni di quella donna facevano miracoli.. si ritrovò a pensare, accennando un sorriso.
Lei sarebbe stata l’Equilibrio, motivo per cui avrebbe affiancato la giovane Belinet Edith, nonchè l’Ira. Loro sarebbero state le ultime, nell’ultimo atto. Già, l’Equilibrio. Qualcosa che smaniava disperatamente ad avere nell’ultimo periodo e che sperava di mantenere almeno per un altro po’.
Intanto, Hinedia si accorse che quel tendone, dedicato esclusivamente agli otto attori di accompagnamento che erano loro, stava iniziando a riempirsi.
Era appena entrato padre Cliamon, il quale a causa della testa calva, indossava una semplice parrucca che sembrava proprio la sua vera capigliatura, tinta con la pigmentazione arancio. Era strano vederlo con le sopracciglia e i capelli arancio. Hinedia pensò che fosse stato davvero un colpo di genio, l’idea dei capelli tinti.
Poi fece il suo ingresso nel tendone anche il giovane servo del Creatore al quale avevano chiesto di partecipare, dato che avevano un posto vacante, Ambrose doveva chiamarsi, un ragazzo di grande stazza nonostante la giovanissima età, che appariva come una sorta di gigante buono agli occhi di Hinedia. Egli aveva le folte sopracciglia e la folta chioma di capelli scarmigliata tinte di un bel verde smeraldo. Poi entrarono anche Quaglia in compagnia di padre Craig, e furono quelli che attirarono più la sua attenzione al momento: il primo con i capelli quasi della stessa tonalità della sua pelle, ma molto più luminosi, di un rosa carne che inaspettatamente gli donava davvero molto; mentre il secondo aveva i capelli corti (ma leggermente più lunghi di Quaglia) di uno splendido dorato che sembrava quasi naturale su di lui, dato che, di norma, possedeva già dei capelli tendenti al chiaro. Quasi naturale.. se non fosse stato che quel dorato era a dir poco intenso da guardare.
Li osservò tutti dal riflesso dello specchio.
Mancavano solamente il bianco della Castità, il rosso della Generosità e ... l’argento. Dell’Abnegazione.
La prima Hinedia aveva già avuto la fortuna di vederla in anteprima qualche istante fa. E c’era da ammetterlo: se Judith era già normalmente divinamente bellissima con i suoi naturali capelli cremisi, con quella tintura bianco latte accecante, che stonava con i suoi occhioni nero ossidiana, era una visione a dir poco celestiale. Avrebbe incantato tutti.
Il secondo, invece, fece il suo ingresso proprio in quel momento nel tendone, individuandola subito tra i presenti e dirigendosi verso di lei con un sorriso stampato in viso, abbracciandola da dietro.
Le diede un dolce bacio sulla tempia, mentre Hinedia osservava anche lui dal riflesso e ricambiava il suo sorriso, lasciandosi abbracciare. Quel rosso purpureo così bello, scuro e vivace era quasi sprecato su Naren, dato che il ragazzo possedeva pochi capelli, tuttavia, nonostante tutto, gli donava un’aura interessante, a tratti quasi peccaminosa.
- Ciao, mio Equilibrio.
- Ciao a te, Generosità – ricambiò lei, cercando di nascondergli lo stato emotivo agitato che la stava animando da dentro.
- Hai visto anche gli altri?
- Li sto vedendo. Sono indeciso se sembriamo più ridicoli o sorprendentemente intriganti.
Hinedia sorrise divertita in risposta, cercando di alleggerirsi.
- Sei emozionata? – le domandò, guardandola allo specchio a sua volta.
- Un po’. Per i bambini soprattutto. Tra poco io e Judith terremo il discorso di incoraggiamento nell’altro tendone.
- Judith dov’è?
- Con loro, li sta aiutando a mettersi i vestiti di scena. Tra poco li raggiungerò anche io – gli rispose, per poi osservare il suo sguardo e girarsi a guardarlo, studiandolo. – L’hai vista?
- Chi?
- Judith.
- No, non ancora.
- Con quei capelli... dire che sia una dea è riduttivo – disse sinceramente la ragazza.
- Immagino ... è davvero il colmo, tuttavia.
- Cosa?
- Che sia proprio lei a impersonare la Castità – rispose Naren senza pensare.
Strano pensò la ragazza. Era strano perchè l’unica cosa a cui lei aveva pensato quando avevano deciso come distribuire le virtù tra gli attori-comparse, era a quanto fosse terribilmente inadeguato il ruolo dell’Abnegazione su Blake.
Hinedia alzò un sopracciglio, contrariata. – Cosa stai sottointendendo, esattamente?
- No, nulla, ci mancherebbe.
- Naren..?
Ora il suo promesso era palesemente in difficoltà. – Nulla, è solo che... come ben sai, ti ho già informato che un tempo io e Judith eravamo amici.
- Sì, infatti.
- E dunque.. so cosa ha passato quando era piccola. Le violenze che disgraziatamente ha subìto da quel prete. Trovo solo strano che ad interpretare la Castità sia una persona che ha perduto la purezza all’età di sei anni.
- Non l’ha scelto lei – gli rispose duramente, sfuggendo al suo abbraccio, difendendo a spada tratta la sua amica.
- Lo so bene, Hinedia... non stavo insinuando questo.
- Sembrava che tu stessi insinuando qualcos’altro... qualcosa che non avesse a che fare con le violenze che ha subìto da bambina. Cosa stai cercando di dire, Naren?
- Nulla, nulla, mia cara – cercò di convincerla prendendole le mani nelle sue e baciandogliele ripetutamente.
- Non ti ho ancora detto che sono molto fiero di te. E che lo spettacolo andrà benissimo, ne sono certo – le disse sorridendole. Quando la ragazza si sforzò di ricambiare il suo sorriso, si sentì più leggero. Poi si guardò intorno. – Chi manca?
- Blake – non esitò a dire Hinedia, quasi come se avesse quel nome incastonato tra le labbra da ore, e aspettasse solo di pronunciarlo.
Naren la studiò a sua volta, così come lei prima aveva studiato lui. – Beh, anche se non dovesse venire, tanto questa piccola riunione nel tendone non serve a molto, no? Non dobbiamo mica cambiarci, non abbiamo vestiti di scena.
- Questo è il dietro le quinte, Naren. Dovete restare tutti qui, mentre i bambini devono restare nell’altro tendone, quando non sono/siamo in scena. Tutti tranne me e Judith, che dobbiamo comunque occuparci di chiudere e aprire il sipario. Per questo è importante che siamo tutti – lo informò ella, proprio nel momento in cui fece il suo ingresso nel tendone l’oggetto della loro conversazione.
Blake entrò attirando l’attenzione di tutti, sia per il ritardo, ma soprattutto per il suo aspetto.
Sì, perchè se Judith era una dea eterea con quei capelli bianchi, vedere le sopracciglia e i capelli solitamente scuri di Blake ora di una tonalità così chiara, era a dir poco scioccante.
Quell’argento a metà tra il metallico e il platinato donava in maniera spettacolare al suo incarnato e ai suoi occhi, facendolo sembrare una creatura inumana.
Era tanto bello da far accaponare la pelle, da far quasi paura.
Hinedia pensò che probabilmente doveva essersi accorto del suo sguardo bruciante addosso, perchè Blake puntò gli occhi su di lei a sua volta, nonostante non fosse certo l’unica in quel tendone che lo stesse guardando.
Naren fissò lo sguardo formatosi sul volto della sua futura sposa, scandangliando ogni sua emozione, mentre questa guardava il ragazzo appena entrato.
- Ehi – la salutò Blake.
- Ehi – rispose lei.
- Judith mi ha detto di riferirvi alcune cose, prima che voi li raggiungiate nell’altro tendone per il discorso di incoraggiamento – la informò.
- Sì, certo, arrivo – gli rispose avvicinandosi a lui e attendendo che egli parlasse.
- Ci sono dei piccoli cambiamenti di movimenti nell’atto terzo, concordati in questo momento con Jogger. Nulla di troppo drastico, ma se vedrete dei movimenti nuovi non spaventatevi, è tutto nella norma.
- D’accordo.
- Se dovesse succederle qualsiasi cosa, e per qualsiasi cosa si intende qualche fastidio provocantole dalla gravidanza, dato che ultimamente le sta dando un po’ di problemi, sarà tutto in mano vostra. Sapete cosa fare. Se dovesse accadere, nella peggiore delle ipotesi ci penserò io a portarla via.
- Ma voi siete nel penultimo atto con l’Hybris. Praticamente alla fine.
- La mia presenza è quasi solo visiva nel penultimo atto, posso essere sostituito da uno degli altri senza problemi, nonostante il valore simbolico verrebbe alterato. In ogni caso, si tratta di un’ipotesi molto remota. Anche perchè la presenza di Judith invece è determinante nel sesto atto, e sarebbe un vero problema se lei non fosse presente, ne risentirebbe l’intero atto. Perciò confidiamo che vada tutto per il meglio.
Hinedia annuì. - C’è altro?
- Sì – le disse sporgendo la testa fuori dalla tenda e guardando verso l’alto, facendole segno di guardare il cielo coperto da nuvoloni grigi. – Come vedete, il clima non promette nulla di buono. Potrebbe venire a piovere da un momento all’altro.
- Che strano... questa mattina c’era un così bel sole alto in cielo.. è un vero peccato.
- Judith ha detto che se dovesse iniziare a piovere lo spettacolo continua. Poi decideranno gli spettatori se restare a vederlo anche sotto la pioggia o no. Non abbiamo molte alternative, ma lei confida che rimarranno. È tutto – concluse.
A ciò, Hinedia gli accennò un sorriso impacciato. – Grazie.
Ma invece di andare nell’altro tendone come Blake si aspettava che facesse, la ragazza rimase lì dinnanzi a lui, creando un silenzio incomodo. – Non andate a raggiungerla nell’altro tendone? – le domandò lui allora.
- Sì. Io ... credo di essere solo un po’ agitata. Per lo spettacolo.
A ciò, Blake le rivolse un incoraggiante sorriso che non si aspettava e che la colse impreparata. – Vedrete, andrà benissimo. Il peggio che può succedere è che piova, ma non sarebbe un grande problema. Avete lavorato tanto per questo spettacolo, voi e lei. Vi meritate tutto il successo che avrà col pubblico – la rassicurò. – Ora andate. Vi stanno aspettando.
Hinedia gli rivolse un luminoso sorriso in risposta, poi obbedendo e raggiungendo l’altra tenda.
Sì, sarebbe andato tutto bene.
Doveva solo mantenersi positiva e non fare alcun pensiero negativo al momento.
Il commento di Naren di poco prima nei confronti di Judith l’aveva innervosita parecchio, ma poi Blake, con la sua sola presenza e le sue poche parole era riuscito a calmarla, inconsapevolmente.
Non appena i bambini la videro le corsero incontro felici.
- Hinedia! – esclamarono in coro.
- Ehi, ecco le mie stelle nascenti! – ricambiò calorosamente la serva del Creatore, già avvertendo le lacrime pungerle gli occhi.
Era persino più emozionata di loro.
Quella bellissima esperienza, una delle più belle della sua vita, stava giungendo al termine, in un soffio.
Era durata troppo poco, e al contempo troppo.
Non si sarebbe mai dimenticata la gioia che era sorta nel suo cuore nel lavorare con quei bambini meravigliosi. E con la splendida amica e artista che si era rivelata Judith.
Mai, mai avrebbe dimenticato.
Li strinse tutti insieme, forte forte, cercando di inglobarli tutti, mentre Judith, che se li era già goduti e strapazzati a sufficienza, li guardò a distanza sorridendo intenerita.
- Siete nervosi??
- Tantissimo!
- No, io sono perfettamente calma.
- Io me la sto facendo sotto!
- Io sono tranquillissimo!
Hinedia sorrise, continuando a guardarli, ammirandoli in tutta la loro bellezza dentro quei costumini di scena. La sarta aveva fatto davvero un ottimo lavoro!
Gwen era vestita da elegante regina, Ioan da splendido bardo, Jogger da impavido marinaio (anche se sembrava più un intrepido pirata), Kilian da nobile conte, Dionne da incantevole danzatrice, May da seducente locandiera, Sorie da abile atleta ed Edith da agguerrita lottatrice.
- Siete bellissimi.. – commentò Hinedia di nuovo commossa.
- No, che fai piangi?? Non puoi piangere! Stiamo per andare in scena! – la ammonì giocosamente Dionne abbracciandola fortissima per farla smettere.
- Hai ragione, ora la smetto.
- Bene, bene, bene, ora basta smancerie – attirò bonariamente la loro attenzione Judith. – Mettiamoci in cerchio e stringiamoci le mani.
I bambini obbedirono, mentre, intanto, Judith ammiccava alla sua fidata assistente e amica intenta a disporsi in cerchio con loro.
- Abbiamo lavorato tanto. E penso di parlare anche a nome di Hinedia nel dirvi che siete stati bravissimi, tutti quanti. Non avete mai deluso le nostre aspettative, e ci avete sorpreso col vostro scoppiettante talento.
Questo è stato il mio primo spettacolo da regista e scrittrice. E non potrei dirmi più fiera di averlo fatto con voi, ragazzi.
Ammetto che sto cercando di trattenere tutta la mia emotività in un guscio d’uovo, perchè il solo pensiero che non faremo più le prove insieme e che dopo oggi sarà tutto finito, mi spezza il cuore.
Vi auguro tutto il bene del mondo miei meravigliosi, obbedienti, talentuosi, dolci, riflessivi, energici e determinatissimi piccoli prodigi. Spero che vi siate divertiti.
Ed ora giungiamo alle raccomandazioni pratiche, dato che oramai gli spettatori sono quasi tutti seduti (e non vorrei spaventarvi, ma quasi tutto il villaggio sarà presente a vedervi oggi, servi del Creatore compresi):
Ognuno di voi porta i propri oggetti di scena e poi li riporta indietro per lasciare lo spazio libero al prossimo, dopo ogni atto.
Se sbagliate un movimento, non importa, tutto è recuperabile.
Se non ricordate una battuta, non bloccatevi, andate avanti, non è una tragedia, recupererete in seguito.
Abbiamo già fatto il riscaldamento fisico e vocale, come vi ho insegnato, quindi state tranquilli, se non vi agitate andrà tutto bene.
Dialoghi concisi, movimenti puliti, il pubblico non esiste.
Ricordate di seguire sempre la musica dei musicisti, come alle prove.
Io e Hinedia, come sapete, ci occuperemo del sipario, perciò per quello non vi preoccupate.
Niente rumori molesti o confusione dietro le quinte, neanche mentre vi state cambiando i vestiti di scena.
Il vestito da regina di Edith, quello di May da specchio, quello di Jogger da contadino, quello di Dionne da atleta e di Gwen da lottatrice sono tutti sul baule.
Alla fine dello spettacolo aspettate gli applausi finali prima di inchinarvi.
Alla danza iniziale di apertura, mi raccomando, seguite la musica, seguite i vostri accompagnatori e rispettate sempre gli spazi e i turni.
Infine, io e Hinedia siamo sempre al vostro fianco.
Ricordate sempre: divertitevi. Divertitevi e basta.
Ed ora... che il Signore, entrambi i signori, siano con noi!!
- Che i signori siano con noi! – urlarono in coro i bambini e Hinedia.
- Grazie, Judith – disse improvvisamente Gwen con le lacrime agli occhi. – Non avremmo mai potuto desiderare una maestra come te. Sei stata strepitosa! Cioè, sì, lo è stata anche Hinedia, ma... ma tu hai fatto tutto. Hai scritto il copione e che ci sei stata sempre. Perciò sei più tu quella da ringraziare.
Quelle parole di Gwen erano state toccanti, quanto inconsapevolmente insidiose per Hinedia.
La serva del Creatore combatté con quel sentimento di estraniamento che le aveva fatto sorgere il discorso della bambina.
Era mai possibile che delle parole tanto genuine e innocenti fossero in grado di irritarla tanto...?
Ci sei stata sempre...
Sei tu quella da ringraziare...
Perchè le dava così fastidio? Perchè le dava così fastidio che non fosse riconosciuto tutto il lavoro che aveva fatto, almeno quanto quello di Judith?
Anche lei c’era stata sempre. Anche lei li aveva consolati, aiutati, e aveva insegnato loro tante cose, nonostante non avesse scritto il copione.
Anche lei era degna di considerazione.
- Grazie, Gwen, tesoro. Tuttavia, anche Hinedia merita gli stessi ringraziamenti che hai fatto a me. Siamo state una squadra, io e lei. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta – la distolse dai suoi pensieri Judith, guardandola e sorridendole riconoscente.
Il malessere, pian piano, scemò, e si trasformò in gioia, in profondo affetto.
Hinedia ricambiò il sorriso della sua amica, provando un grande desiderio di abbracciarla.
Lo fece e per poco non pianse di nuovo.
Poi, il momento finalmente giunse.
Hinedia e Judith uscirono dal tendone, esponendosi al cielo plumbeo. Diedero una sbirciata alla platea, accorgendosi che fosse immensa, e che si estendeva per vari metri.
- C’è davvero tanta gente...
- Già. Spero che non inizino a lanciarci pomodori e uova marce, non credo che mi riprenderei mai – commentò Judith, smorzando la tensione. – Mi assento un attimo. Torno subito – disse poi.
- Certo, vai pure.
Judith, avendo visualizzato la figura di Blake vicino all’entrata dell’altro tendone, lo raggiunse.
Il ragazzo aveva lo sguardo fisso su un punto preciso della platea.
- Ehi – attirò la sua attenzione lei.
- Ehi. Fatto il discorso?
- Sì, siamo tutti pronti. Chi stai guardando?
- Guarda – le disse, indicandole un punto della platea, che corrispondeva alla sesta fila circa.
Judith aguzzò lo sguardo e per un attimo non credette ai propri occhi. – Quella non è... Myriam?? – realizzò allibita. – Non si mostrava in pubblico da...
- ... Una vita. Si è mostrata solo la scorsa settimana, per avanzare la sua assurda richiesta di diventare monaca – completò la frase Blake, con lo sguardo che lasciava trapelare un pelo di preoccupazione.
- La cosa ti turba, immagino. Insomma, se tua madre la vedesse...
- Mia madre non verrà. Nè mia madre nè mio padre verranno a vedere lo spettacolo, fortunatamente – rispose lui. – Solo non capisco perchè rischiare tanto per assistere a un banale spettacolo... insomma, Myriam sa bene cosa accadrebbe se solo mia madre scoprisse che è ancora viva. Scoppierebbe un cataclisma.
- E se Heloisa dovesse presentarsi in ritardo? – cominciò a supporre Judith, iniziando ad allarmarsi lievemente a sua volta. – Cosa succederebbe...? Blake, potrebbero ammazzarsi a vicenda nel bel mezzo del...
- Mia madre non verrà, te l’ho detto. Sta’ tranquilla – la rassicurò lui con decisione. Intanto, il suo sguardo venne catturato anche da un’altra figura, che però stavolta gli fece nascere un piccolo ghigno divertito sul viso: nella quarta fila si stagliava la figura di Ephram seduto in una delle sedie, che a sua volta aveva intercettato lo sguardo di Blake dal dietro le quinte, e gli aveva sorriso sardonico, mimando in labiale un “Non me lo sarei perso per niente al mondo.”
Stupido idiota.
Intanto, Judith, tra la platea delle prime file, individuò sia tutti i monaci del Creatore, che fu lieta di scorgere, sia la figura che aveva sperato fino all’ultimo di vedere tra gli spettatori, nonchè il giovane ragazzo a cui faceva le sessioni di purificazione ogni giorno. Difatti, Folker si stava sedendo in ottava fila proprio in quel momento, assistito da alcuni monaci che si sedettero accanto a lui, per proteggerlo da qualche eventuale attacco, che Judith sperava di cuore non ci sarebbe stato.
Intanto, Hinedia avvertiva l’agitazione e quella strana sensazione di malessere che non voleva abbandonarla accrescere in lei a dismisura.
Pensa solo cose positive.
Sii la parte migliore di te.
Pensa solo cose positive.
Sii la parte migliore di te.
Pensa solo cose positive.
Sii la parte migliore di te.
Sii la parte migliore di te.
Sii la parte migliore di te.
Si ripetè compulsivamente, come fosse un mantra.
Eppure, nonostante se lo ripetesse, era come se qualcos’altro stesse scalpitando in lei per uscire fuori in tutta la sua potenza.
Sensazioni negative, risvegliate, impazienti.
Naren che insinuava cattiverie su Judith, I bambini  che non riconoscevano il suo immenso contributo ...
La sua attenzione poi, venne attirata dalle figure di Blake e Judith, a pochi metri di distanza da lei, davanti all’altro tendone.
I due non si lasciavano mai andare ad effusioni eccessive in pubblico, anzi, tendevano a concedersi qualche sguardo, parola o carezza in più solo quando credevano di essere nascosti, lontani dalla vista di tutti.
Ma ora non erano lontani dalla vista proprio di tutti...
Hinedia li osservò, osservò il modo in cui si guardavano, che era un po’ il modo in cui si erano sempre guardati, anche quando non sapevano ancora di essere fatti l’una per l’altro: complicità, stima, rispetto, ardore, erotismo... amore.
Blake e Judith, anche quando si sorridevano in quel modo, apparentemente ingenui, in realtà si spogliavano con gli occhi.
Era palese. Si desideravano e si accettavano, si stuzzicavano e si volevano, si stimavano e si toccavano, volendosi bene, amandosi.
Judith gli poggiò una mano sul petto, con la testa rivolta verso l’alto per guardarlo. Gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio e aveva sorriso.
E lui... lui la assecondava. Lui le sorrideva e si lasciava baciare a stampo sulle labbra, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Blake sorrideva in quel modo solo ed esclusivamente con Judith. Con nessun altro.
Hinedia fissò i suoi occhi su di lui, continuando a guardarlo accennare sorrisi gratuiti alla sua promessa, lo guardò poggiarle le mani sulle spalle e massaggiargliele distrattamente per farle distendere i nervi. Lo guardò lasciarsi toccare quei capelli ora così strani, mentre emetteva una piccola smorfia provocata da un colpo di vento improvviso, che gli aveva spostato tutte le ciocche argentee davanti al viso.
Naren che insinuava cattiverie su Judith, I bambini che non riconoscevano il suo immenso contributo ... e Blake che non le avrebbe mai sorriso a quel modo, come stava sorridendo a Judith.
Quando la serva del Diavolo iniziò a suonare il tamburo e il servo del Diavolo la lira, il preludio dello spettacolo ebbe inizio.
Folker, intanto, dal suo posto, si beò della musica di quella lira, spostando subito gli occhi verdi sul ragazzo che la stava suonando tanto abilmente.
Quel suono gli riportò alla mente tanti ricordi... ricordi legati alla sua sorellina scomparsa, legati all’infanzia.
Era solito suonarle la lire e cantare per lei, per farla addormentare.
Bonnie, talvolta, sembrava fare bei sogni solo quando lui cantava per lei prima di farla appisolare.
Riconobbe tutte le note, e le annotò mentalmente, nonostante quell’informazione non gli sarebbe servita a nulla.
Non avrebbe mai più ripreso in mano quella lira.
Lo spettacolo si aprì con una danza.
Una splendida e affollata danza.
Ogni virtù ballò con il proprio peccato. E anche quando le coppie erano formate da uomini e uomini e da donne e donne, la dicotomia dei danzanti non veniva assolutamente cambiata o distorta.
Ad aprire le danze, furono Blake e Sorie. Abnegazione e Hybris. I due avevano realizzato di formare una bella coppia di ballo e di saper danzare molto bene insieme, specialmente perchè Blake sapeva condurre la bambina egregiamente. Nonostante la mostruosa differenza di altezza, il ragazzo porse la mano a Sorie, ed ella la prese, facendo il loro ingresso nel palco e iniziando a ballare elegantemente.
Alla seconda giravolta che Blake fece fare a Sorie, arrivò anche la coppia seguente, e quelle avvenire.
Prima Ambrose e Kilian, poi padre Craig e Ioan, Hinedia ed Edith, Judith e May, Quaglia e Dionne, padre Cliamon e Gwen, e infine Naren e Jogger.
Il palco divenne molto affollato e gli spettatori la considerarono una prova di vero talento il fatto che non si scontrassero mai tra loro, nonostante ogni coppia ballasse per conto suo, seguendo le splendide note della melodia.
Finita la danza, finito il preludio, inizio del primo atto.
Ogni atto veniva scandito dal rullo del tamburo.
Gli attori abbandonarono la scena e il sipario venne chiuso da Judith e Hinedia.
Lo spettacolo cominciò:
 
ATTO PRIMO - INVIDIA - attrice Gwen (assistita da Edith e da padre Cliamon):
Due regine combattono per avere più ricchezze e agiatezze. Quella più invidiosa, che vorrebbe superare l’altra ad ogni costo, finisce per morire nel suo dolore, restando convinta di aver vissuto la sua vita nell’unico modo possibile.
 
Gwen e Edith furono bravissime e uscirono di scena con grande precisione, già elettrizzate all’idea di tornare insieme in scena nell’ultimo atto.
 
ATTO SECONDO - SUPERBIA - attore Ioan (assistito da May e da padre Craig):
Un giovane e bellissimo bardo si guarda ossessivamente allo specchio umano della Lussuria (la quale imita tutti i suoi movimenti e risponde alle sue domande). Lo specchio è sorretto dall’Umiltà.
 
Anche in questo caso, filò tutto liscio, e il cielo rombò per la prima volta, indice che a breve era in arrivo un temporale.
 
ATTO TERZO – AVARIZIA – attore Jogger (assistito da Kilian e da Naren):
Durante una tempesta, un marinaio non sa da che parte andare, dove dirigere la rotta della sua nave: a Nord c’è la salvezza, la terra ferma, ma a Sud è la direzione in cui si cela il suo agognato tesoro, che sta cercando da una vita. Andare a Sud significa lasciarsi morire nella tempesta, a Nord abbandonare ogni speranza di trovare il tesoro. Incapace di rinunciare alle ricchezze che ha sempre sognato, si lascia prendere dalla stanchezza e il vento fortissimo, personificato nell’Accidia, accompagna e incoraggia il suo lungo sonno. Finisce per perdere la voce, il diritto di esprimersi e di scegliere, mentre il mare lo inghiotte.
 
Quarto rullo di tamburo.
 
ATTO QUARTO – ACCIDIA – attore Kilian (assistito da Jogger e da Ambrose):
Un conte, ricco proprietario terriero, si adagia nella sua terra e non è intenzionato a muoversi. Un suo sottoposto cerca di farlo ragionare, fallendo. Lo Zelo gli tende la mano, ma lui la rifiuta. Alla fine, viene inghiottito dal suo stesso terreno, morendo soffocato.
 
Nel guardare quell’ultima scena, Folker rimase turbato.
Se prima la lira gli aveva riportato alla mente la sorella, ora, la scena del soffocamento sottoterra, gli aveva riportato alla mente la sua terribile morte.
Il ragazzo strinse forte i pugni, stringendo la mascella, sapendo che qualcosa in lui si stesse agitando, qualcosa tenuto a bada dai riti di purificazione.
Myriam, che ogni tanto lo teneva d’occhio a distanza, aguzzò lo sguardo su di lui.
 
ATTO QUINTO – GOLA - attrice Dionne (assistita da Sorie e da Quaglia):
Una danzatrice si trova davanti ad una donna che mangia normalmente il suo pasto, mentre lei non ne assaggia neanche un boccone. Tra le due parte una conversazione in cui la danzatrice spiega che non mangia perchè “si sta abbuffando della sua propria fame”, del vuoto lasciato dal suo bestiale appetito, e che, se dovesse scatenarlo, mangerebbe fino a morire. Ma così muore ugualmente. Di fame. L’atto si chiude così.
 
Sesto rullo di tamburo e altri tuoni dal cielo sempre più annuvolato.
 
ATTO SESTO - LUSSURIA - attrice May (assistita da Ioan e da Judith):
Una prostituta va a trovare una sua amica sposata e gravida, nonchè la Castità. Ma quando l’amica se ne va e la lascia da sola in casa, la prostituta giace col fratello di lei, per cui prova un amore e un attrazione insani, non riuscendo a placare la sua sete carnale.
 
Settimo rullo di tamburi, i tuoni si moltiplicano, siamo quasi al finale.
Per ora è filato tutto liscio.
 
ATTO SETTIMO – HYBRIS – attrice Sorie (assistita da Dionne e da Blake):
Due atlete cercano di raggiungere il cielo, il risultato più alto nel salto in alto, sfidandosi fino all’ultimo sangue. La più ambiziosa e insaziabile finisce per morire, schiantandosi a terra, cadendo dal cielo che aveva con tanta fatica raggiunto.
 
Ottavo rullo di tamburi, il cielo urla ancora, siamo al gran finale.
 
ATTO OTTAVO – IRA – attrice Edith (assistita da Gwen e da Hinedia):
Due lottatrici combattono tra loro in maniera animalesca, a quattro zampe come due quadrupedi. Non si sa il motivo del litigio. La lotta è bestiale.
Durante questo ultimo atto, Hinedia assiste alla scena da vicino, essendo presente anche lei.
Una scena che aveva visto almeno mille volte e che ricordava a memoria.
“Sono la migliore. La parte migliore di te” – implode Edith azzannando bestialmente Gwen al collo.
Dei brividi di terrore si risvegliano in Hinedia, la quale avverte che quel malessere, quella parte nera, sta finalmente prendendo il sopravvento in lei, in tutta la sua prepotenza.
Non può permetterlo...
Non ora...
Ma le ragazze continuano a prendersi a cazzotti come due bestie e il loro dialogo non aiuta, così come non aiuta Folker, che nell’osservare tale scena, specchio di tutta la violenza a fatica e forzatamente sopita in lui, ma che muove la sua anima fin dalla tenera età, sente il corpo fremergli di ardore, di voglia di sfogare tutta quella ferocia e quella cattiveria a sua volta.
“Lasciami il predominio”
“Mai!”
“Allora vivi con la consapevolezza di aver scatenato la Geenna sulla terra!”
“Io sono sempre stata migliore di te”
“Eppure siamo una, una soltanto”
Seguirono altri pugni, morsi, azzannamenti, tutte azioni che le due avevano concordato insieme, come prevedeva la scena, ma che sembravano davvero reali.
Difatti sconvolsero la platea, lasciandola senza parole.
L’Ira che combatteva contro l’Invidia.
Due anime, la bianca e la nera, che combattevano per il predominio sul corpo.
La violenza sconsiderata e la malevolenza, che cercavano di essere imbrigliate dalle imposizioni sociali e religiose, dalle buone maniere.
Hinedia e Folker stavano letteralmente fremendo e tremando dinnanzi a quell’ultimo atto.
Ephram osservava attentamente la prima, mentre Myriam il secondo. Entrambi gli stregoni temettero per come potesse andare a finire, per l’epilogo di quell’inafusto e rivoluzionario spettacolo.
 Judith, Blake, padre Craig e Quaglia, da dietro le quinte, si accorsero a loro volta che qualcosa non andasse in Hinedia.
- Che diavolo le sta succedendo..? – domandò Judith esterrefatta.
- Sta tremando.. sembra stia per impazzire – realizzò con orrore il giovane prete.
- Dovremmo fare qualcosa – propose Blake osservando la serva del Creatore. - Il suo sguardo non mi piace, potrebbe finire male, Judith.
Ma fu troppo tardi.
Nello stesso momento in cui Folker scattò in piedi, ansimando, con gli occhi colmi di una furia improvvisa, e attirando gli sguardi di tutti; Hinedia urlò a squarciagola contro il cielo, facendo catapultare tutti quegli occhi su di sè, interrompendo l’atto, gridando talmente forte da sentire la propria voce estinguersi in un gracchio terribile. Poi, come un animale scatenato, si fiondò sulle due bambine, dividendole, facendole precipitare giù dal palco.
Ora era diventata un’altra persona.
O meglio ... una parte diversa della sua anima.
Il suo sguardo iniettato di infamia venne attirato dall’unica figura in piedi in tutta la platea.
Il maligno servo del Diavolo e l’anima nera della serva del Creatore si scrutarono da lontano, mentre, tutt’intorno a loro, la platea era ammutolita dal terrore e una tremenda tempesta imperversava su di loro.
 
 
 
 

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Capitolo 38
*** Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur ***


Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur
 
 
Come un flash ricomparvero a ripetizione davanti ai suoi occhi quelle immagini: i lunghi e selvaggi capelli biondi di Edith che sferzavano l’aria fredda, scagliandosi contro Gwen, combattendo con la stessa aggressività che avrebbero avuto due tigri, perfettamente camuffata.
Ci stavano mettendo tutte se stesse.
“Non c’è pace!
Non c’è mai pace ...
Perderemo troppo presto, ascoltate le mie parole.
E solo troveremo piacere nei gusci di qualche morto ricordo”
“Ora sei qui, ma ho paura che domani non ci sarai più.
E che dire di me?
Volo e perdo me stessa, negli occhi e nelle vite di tutti.
In quel velo azzurro senza cuciture
Vorrei svanire anche io”
“Ma io sarò sempre migliore di te
Vincerò su di te”
Poi, in un soffio di vento, Hinedia rivide la sagoma di se stessa, senza più riconoscersi, scagliarsi sulle bambine e spingerle violentemente giù dal palco. Il corpicino di Edith si era schiantato al terreno di schiena, mentre quello di Gwen... la ragazza rivide nella sua testa gli occhioni chiari e spiritati di Gwen, la sua scarmigliata chioma castana coprirle il viso mentre precipitava a terra di testa, perdendo i sensi.
Una chiazza rossa di sangue aveva macchiato il terreno, intorno alla testa di Gwen.
Gli urli raccapricciati di alcuni spettatori si erano alzati al cielo mentre iniziava a piovere a dirotto.
Intanto, gli occhi penetranti e verdissimi di quel ragazzo in piedi, in mezzo alla platea, la guardavano, trasmettendole una sorta di approvazione, per quello che aveva appena fatto.
Il sipario venne chiuso immediatamente, mentre, intanto, sia i monaci che i genitori di Gwen e di Edith circondavano i corpi delle due ragazzine, fornendo loro soccorso.
Judith fece per fuggire dal dietro le quinte e raggiungerle a sua volta, ma venne bloccata dalla mano di Blake, che le afferrò il braccio. – No. Ci servi qui. Ci stanno già pensando loro a soccorrerle.
- Ma Blake... Gwen non si muoveva... non si muove!
- Judith – la richiamò Blake, stavolta con voce più autorevole, indicandole Hinedia, la quale sembrava stesse per avere un tremendo attacco isterico, nonostante fosse circondata da persone che tentavano inutilmente di farla calmare. Per non parlare degli altri bambini che erano tutti lì dietro le quinte con loro... tremavano e piangevano, impauriti, rassicurati da padre Cliamon e Ambrose.
A ciò, Judith raggiunse a sua volta Hinedia, affiancando Naren, Quaglia e padre Craig, cercando di attirare la sua attenzione come poteva.
A dir la verità, sembrava quasi che la giovane serva del Creatore fosse preda di una qualche possessione demoniaca.
Judith si spaventò quando vide i suoi occhi rivoltati completamente all’indietro mentre tremava.
- Hinedia! Hinedia, segui la mia voce! Hinedia, ti prego...!
- Cosa le prende? Cosa le prende??? – urlò Naren semi-disperato.
- Credete che qualcuno di noi ne abbia una minima idea?! – lo rimproverò Quaglia con vigore.
- Che sta succedendo qui?? – li raggiunse dietro le quinte anche Ephram, trovandosi dinnanzi proprio l’immagine che temeva da quando aveva visto la serva del Creatore bere quel dannato siero un mese prima.
- Ephram! Vieni, presto! Potresti esserci d’aiuto con le tue doti magiche – gli ordinò Blake afferrandolo per il braccio e trascinandolo dinnanzi alla ragazza.
- Non ci pensare neanche, stregone!! Non lascerò che la mia futura sposa venga infettata dalla magia nera! - esclamò contrariato Naren.
- In questo momento non abbiamo molte alternative! – gli rispose padre Craig per le rime, sull’orlo dell’esasperazione a sua volta.
- Posso provare a calmarla con un breve incantesimo ma non garantisco grandi risultati ... – commentò lo stregone afferrando il polso martoriato della serva del Creatore, stringendo la sua mano glabra, tremante e fredda, con la propria affusolata, calda e colma di anelli. Fece scontrare i loro polsi e pronunciò una velocissima formula, mentre la ragazza prendeva ad urlare più forte di prima.
- Oh Dio! Oh Signore, aiutala! – pregò Naren stringendosi i capelli fino quasi a strapparseli.
Judith ricacciò indietro le lacrime stringendosi al busto di Blake e seppellendo il viso nel suo petto, lasciandosi stringere.
- Che succede qui dentro?! – una voce estranea alla combriccola piombò alle loro orecchie: un monaco stava per fare il suo ingresso nel dietro le quinte, alquanto spaesato e contrariato.
- Tenete lontani i monaci da qui!! – esclamò con sin troppa enfasi Ephram, ancora impegnato a stringere il polso di Hinedia.
- Ci penso io! – si offrì padre Cliamon accorrendo verso l’uscita del tendone, trattenendo i monaci.
- Ambrose, occupati di rassicurare i bambini! Padre Craig e Quaglia, voi cercate di calmare Naren, prima che svenga per l’ansia! – ordinò Judith prendendo in mano la situazione. I succitati obbedirono, disperdendosi negli ambienti circostanti.
Intornò a Hinedia rimasero solo lei, Ephram e Blake.
Quando Ephram terminò di pronunciare la lunga formula lasciò il polso della ragazza, la quale smise improvvisamente di urlare, ed ora era in piedi, con gli occhi sempre orribilmente aperti e privi di iride, immobile.
- Io più di questo non posso fare.. – pronunciò lo stregone desolato.
- Hai fatto anche troppo.. – lo ringraziò debolmente Judith, guardandolo uscire dal tendone turbato.  La fanciulla fissò la sua amica con gli occhi lucidi. Si pose di fronte a lei e la prese per le spalle. – Hinedia...? Hinedia, cara.. riesci a sentirmi? Ti prego... dammi un segnale che stai bene..
La serva del Creatore, dal canto suo, chiuse immediatamente gli occhi e cadde a peso morto.
Judith, colta di sorpresa, non riuscì a trattenere tutto il peso della ragazza, la quale venne prontamente afferrata da Blake, prima che precipitasse a terra.
Il ragazzo le scosse gentilmente il viso privo di coscienza. – Hinedia..? Mi senti?
Constatando che non rispondesse minimamente alle sue sollecitazioni, Blake la prese in braccio e la adagiò su un telo che padre Craig e Quaglia avevano steso a terra, appositamente per stenderla.
- Ed ora..? – domandò Ambrose.
Già.
Ed ora?
Lo spettacolo era stato un successo e un disastro insieme, a causa di ciò che era accaduto.
Ma quello era ovviamente l’ultimo dei problemi di Judith.
Ora, la sua preoccupazione maggiore, così come quella di tutti, era che Edith e Gwen stessero bene, e che anche Hinedia stesse bene.
Una volta essersi accertata che le due bambine non avessero riportato danni seri, avrebbe scoperto quale fosse il male che affliggeva la sua amica.
- Potremmo raccontare a tutti... che ciò che è accaduto fosse parte dello spettacolo – la voce di Quaglia, il più pratico e concreto, fendette l’aria, con quella proposta controversa.
Tutti i presenti si voltarono a guardarlo.
Effettivamente, raccontare che fosse tutto programmato, che fosse esattamente come da copione che l’Equilibrio perdesse la testa in scena e si scagliasse selvaggiamente contro l’Ira e l’Invidia, avrebbe sicuramente risparmiato Hinedia da una punizione sicura e severa.
Tuttavia, con un’affermazione del genere, tutta la colpa sarebbe ricaduta su Judith e sulla sua incoscienza.
Alla ragazza andava bene. Era disposta a prendersi tutte le colpe.
D’altronde, lei, a differenza di tutti gli altri e di Hinedia, godeva di un privilegio esclusivo: il favore e la totale benevolenza dei monaci, che l’avevano cresciuta.
Avrebbe potuto addossarsi tutte le colpe e tenerli a bada lei.
Sarebbe stata la cosa migliore da fare, sì, dire che fosse tutto previsto da copione.
Tuttavia, gli abitanti del villaggio e i monaci non erano così stupidi da non essersi accorti che, da copione o no, Hinedia avesse qualcosa che non andava. O che, per lo meno, fosse stata colpita da qualcosa... di non meglio identificato.
A quel punto... cosa dire?
- Dov’è??
- Dov’è nostra figlia??
Due voci nuove e spaventate colpirono le loro orecchie all’improvviso.
- Ho cercato di tenere fuori tutti, ma loro hanno voluto entrare a tutti i costi.. erano nella platea e hanno visto quello che è successo – li informò padre Cliamon emergendo nel tendone con la testa, mentre una donna e un uomo dalla pelle scura, servi del Creatore, e decisamente somiglianti a Hinedia, si dirigevano a passo spedito verso di loro.
- Che cosa le è accaduto!? – esclamò già sull’orlo delle lacrime la donna, con un fazzoletto scuro a nasconderle i capelli, facendosi il segno della croce ripetutamente.
Si precipitarono sulla figlia stesa a terra, priva di sensi.
- I genitori di Hinedia, suppongo – attirò la loro attenzione Judith. – Mi chiamo Arley Judith. Vi informo che non abbiamo la minima idea di cosa stia accadendo a vostra figlia, ma vi prometto che ne verremo a capo – li rassicurò, stringendo le mani della donna tra le sue.
- Dite ai monaci che Hinedia soffre sin da piccola di ... – il padre di Hinedia ci pensò un attimo su. - .. gravi attacchi d’ansia. Come quello di oggi.
- Sì, sì.. attacchi di ansia! Raccontatetgli questo! – li supplicò la madre, sapendo bene che dovevano sembrare dei disperati ai loro occhi, nell’inventarsi tutto ciò di sana pianta.
Ma come potevano biasimarli?
Chi, per salvare una figlia, non avrebbe fatto lo stesso in un mondo come quello..?
- Vi prego, non possiamo sopportare che i monaci ci portino via l’unica figlia che ci è rimasta! Ne abbiamo già persa una, non siamo disposti a perdere anche lei! – la donna aveva le lacrime agli occhi e si aggrappò letteralmente alla veste di Judith.
Effettivamente, se non avessero trovato una scusa simile in fretta, Hinedia sarebbe sicuramente stata imprigionata. I genitori delle bambine avrebbero preteso giusitizia.
Anche quella scusa, per quanto arrangiata, sarebbe andata bene.
- Certo. Diremo loro questo, non preoccupatevi – li rassicurò Judith.
Per la gioia di quella richiesta accolta, la donna, per dimostrare la propria gratitudine, iniziò a baciare le mani di tutti i presenti, persino dei bambini.
- Io vado ad aiutare padre Cliamon a trattenere i monaci... un aiuto potrebbe fargli comodo, dato che mi è sembrato in difficoltà – esordì padre Craig.
- Mi unisco anche io – lo seguì a ruota Quaglia.
E mentre la madre di Hinedia stava chiedendo a Judith se la figlia avesse manifestato comportamenti strani ultimamente, Blake si stava occupando di rassicurare i bambini, Ioan soprattutto, insieme ad Ambrose.
Il ragazzo notò il padre di Hinedia, accasciato sul corpo incosciente della figlia, stringerle la mano e tossire faticosamente, di tanto in tanto.
Considerando la giovane età di Hinedia, si sarebbe aspettato un uomo molto più giovane. Invece, era più vecchio di quanto si aspettasse.
L’uomo tossicchiò ancora, dolorosamente, cercando di coprirsi la bocca con il suo fazzoletto cencioso e oramai inutilizzabile.
A ciò, Blake lo raggiunse, accovacciandosi accanto a lui. – Va tutto bene? – gli domandò con discrezione.
L’uomo si voltò a guardarlo e annuì. Era una personalità burbera, ma dal cuore gentile, lo si poteva scorgere da metri di distanza.
- Sono malato. Dio ha voluto punire la nostra famiglia facendo ammalare prima la mia primogenita, poi me.
- Sì, mi ha parlato di sua sorella.
L’uomo se ne sorprese. – La mia Geenie... vi ha parlato di sua sorella..?
Blake annuì.
- Con noi non ne parla mai. Vi ha detto come si chiamava?
- No.
- Cassiddie. Nora Cassiddie. Lei e Hinedia erano molto legate. Ma il signore... il signore ha deciso di portarcela via. Per punirci...
- Punirvi per cosa?
- Chi lo sa... sicuramente i nostri antenati non saranno stati fedeli e irreprensibili come noi.. Voi vi sentite irreprensibile dinnanzi al vostro signore?
Blake ammutolì, non rispondendo a quella domanda, così l’uomo riprese: - Certo, mentire ai monaci minerà ancor di più il nostro rapporto con Dio, ma...
- No, non ditelo. State solo facendo ciò che è necessario per salvare vostra figlia da una punizione crudele. Il Creatore non vi punirà per questo.
L’uomo lo guardò di nuovo, rivolgendogli un sorriso rassicurato e riconoscente. – Grazie. Grazie per aver parlato anche per così poco con me. Siete un caro ragazzo. Ditemi, come possiamo sdebitarci con voi? Per mentire ai monaci per noi? – gli domandò prendendo le mani del ragazzo tra le sue.
- Nulla. Non serve sdebitarsi.
- Ne siete sicuro??
- Sicuro. Hinedia è nostra amica, la aiuteremo volentieri.
- “Amica”... non mi sarei mai aspettato che mia figlia... potesse diventare amica con dei servi del Diavolo. È qualcosa di nuovo e inatteso. Questo spettacolo che avete organizzato... ci è piaciuto davvero molto, malgrado tutto. È piaciuto a tutti.
Blake accennò un sorriso in risposta. – Vostra figlia sarà felice di sentirvelo dire quando si sveglierà. È tutto merito suo e di Judith.
- Credete che si sveglierà presto...?
- Non ne ho idea, signore. Lo spero.
- Oh, vi prego, chiamatemi per nome. Sono Hansel Noah. Qual è il vostro nome, ragazzo?
- Even Blake.
- Piacere mio, Blake. Mi fareste il gentile favore di aiutarmi a portare mia figlia a casa? Lo avrei chiesto a Naren, dato che è il suo promesso... ma lo vedete anche voi in che condizioni è ... – disse con una punta non troppo velata di delusione nella voce, volgendo lo sguardo verso la sagoma del succitato, il quale se ne stava in disparte, seduto a terra, con la testa tra le mani, ancora sconvolto. – Ho provato ad andare da lui per farlo riprendere, ma... non si muove – aggiunse Noah. – A quanto pare, è un uomo senza spina dorsale.
Blake si soffermò a guardare la figura raggomitolata su se stessa di Naren a distanza, non riuscendo a fare a meno di provare pietà per lui.
Nonostante sapesse che un tempo Judith lo avesse amato, che lui l’aveva ferita e l’aveva violentata, la visione di quel ragazzo, che si spaventava a quel modo per uno svenimento, che non era in grado di prendere una situazione in mano, snobbato e malconsiderato dal padre della sua promessa, gli fece provare della sincera compassione nei suoi confronti.
- Provo a farlo smuovere io – disse Blake all’uomo, rialzandosi in piedi e avvicinandosi a Naren, il quale, turbato com’era, sembrò non accorgersi neanche della sua vicinanza.
Non si accovacciò accanto a lui, però, rimanendo in piedi e abbassandosi il minimo necessario per toccargli la spalla.
Blake non fece in tempo a dire nulla, in quanto, appena lo toccò, una piccola scossa percorse il suo corpo e un brevissimo flash lo accecò per un attimo, lasciandolo confuso e attonito.
Cosa diavolo è stato...? si domandò perplesso.
Naren, dal canto suo, alzò il volto semi-sconvolto per guardarlo. – Cosa c’è...? – gli domandò con voce tremante.
- Dovete ... aiutare il padre di Hinedia a portarla a casa – fece una fatica anomala nel pronunciare quella frase, ancora troppo confuso da quella strana scossa ricevuta.
- Sì... ci penso io – rispose il servo del Creatore rialzandosi a fatica in piedi, rimanendo tuttavia per qualche secondo dinnanzi a Blake, con gli occhi puntati su di lui e uno sguardo indefinibile.
Judith, adocchiando i due distanza, si sorprese di ciò che vide, storcendo il naso mentre una strana sensazione prese possesso di lei.
- Va tutto bene qui? – domandò avvicinandosi a Naren e Blake.
- Sì, accompagno Hinedia a casa – si affrettò a dire Naren defilandosi e avvicinandosi a Noah e alla madre della sua promessa.
Judith, dal canto suo, poggiò una mano sul petto di Blake, attirando la sua attenzione. – Ehi.. ti senti bene?
- Sì, tutto bene – rispose lui rasserenandola.
- Devo parlare con i genitori di Gwen ed Edith. Devo scoprire se stanno bene.
- D’accordo. Io porto a casa Ioan. È stata una giornata pesante, è già abbastanza sconvolto.
Detto ciò, ognuno prese la propria strada.
Intanto, Folker era l’unico rimasto ancora in piedi, sul suo posto in ottava fila, in mezzo a più di un centinaio di sedie vuote, colpito dalla pioggia imperante.
Era come se il suo corpo fosse incapace di muoversi in quel momento, tanta era l’adrenalina che lo animava.
Il ragazzo alzò la testa verso il cielo, lasciandosi colpire il viso oramai zuppo da quelle gocce impetuose, i suoi capelli attaccati alla fronte e al collo, i vestiti al corpo.
- Va tutto bene? Se rimanete ancora un po’ sotto la pioggia vi prenderete un brutto malanno.
Quella voce, che per qualche motivo non gli era nuova, penetrò le sue orecchie nonostante il frastuono del temporale. Folker si voltò verso l’origine di quella voce, trovando una faccia inaspettatamente familiare: padre Cliamon lo guardava da in fondo la fila di sedie, con un sorriso gentile distorto dal fastidio della pioggia, cercando di ripararsi come poteva con una tunica monacale tenuta sopra la testa.
- Ne ho una anche per voi... per asciugarvi un po’ e per ripararvi dall’acqua e dal freddo, finchè non vi avrò riaccompagnato a casa.
Da quant’è che non vedeva quello strano monaco? Più di un mese?
- Conosco la strada di casa mia – gli rispose, volendo restare da solo e metabolizzare tutto ciò che stava provando in quel momento.
- Folker, vi prego... non mi fido a lasciarvi andare in giro da solo. Soprattutto con questa terribile pioggia.
Perchè era così gentile con lui? Perchè non lo trattava come una strige come tutti gli altri?
- Dovreste tenere più in considerazione la vostra incolumità – insistette il monaco.
- La mia incolumità...? – ripetè Folker contrariato, voltandosi finalmente a guardarlo. – Da quando i monaci si preoccupano dell’incolumità di mostri succhia-sangue? Non dovrebbero essere immortali le strigi?? Dunque, nessun malanno dovrebbe colpirmi, neanche se rimanessi sotto la pioggia fino a domani.
Quel ragazzo era cocciuto, pensò il vecchio monaco. Che si fosse convinto persino egli stesso di essere una strige, a causa delle continue discriminazioni e delle sessioni di purificazione...? No, non poteva permetterlo. Doveva cercare di proteggere a tutti i costi il corpo che ospitava abusivamente una volta a settimana.
- Volete approfittare della mia gentilezza o no..? – insistette ancora, spazientito.
A ciò, il ragazzo strinse i pugni per trattenere il nervosismo, ma lo raggiunse comunque, lasciandosi accompagnare a casa.
 
 
Il giorno dopo lo spettacolo e il fattaccio accaduto, il villaggio era quasi in lutto.
Fortunatamente, Edith ne era uscita illesa, ma lo stesso non poteva dirsi per la povera Gwen.
La bambina non si era ancora svegliata dalla sua incoscienza, a causa della violenta botta presa alla testa, e il medico diceva che l’unica cosa da fare ora, era “pregare il Signore” che la piccola si riprendesse miracolosamente.
Tutti e sette i restanti bambini erano al capezzale di Gwen, a pregare per lei.
Anche Hinedia sembrava non essersi ancora svegliata dall’incoscienza del suo attacco isterico.
Quando si fosse ripresa, nonostante le dichiarazioni di Judith sul fatto che la scena fosse prevista dal copione e quelle dei genitori sulle crisi d’ansia di cui la figlia soffriva sin da piccola, nulla l’avrebbe salvata dalle conseguenze che ne sarebbero derivate.
E nonostante avessero tutto ciò a cui pensare, i monaci si erano comunque presi del tempo quella mattina per valutare la richiesta di Myriam di prendere i voti, incontrandosi con lei per discutere sul da farsi.
Blake non riusciva a capire le intenzioni della donna che lo aveva cresciuto.
Così come non riusciva a credere al fatto che i monaci stessero davvero prendendo in considerazione la sua richiesta.
Ad ogni modo, prima di separarsi, il giorno prima, Judith gli aveva detto di raggiungere la cattedrale la mattina seguente, per fare la sessione purificatrice a cui Blake aveva promesso di sottoporsi.
Il ragazzo non sapeva cosa aspettarsi ma, al contempo, non ne era turbato.
Si diresse verso la cattedrale del Diavolo (in cui si sarebbe tenuta la sessione) con apparente tranquillità.
Appena entrato, aveva trovato Judith ad attenderlo all’entrata, con un atteggiamento strano rispetto al solito.
La sua promessa lo aveva salutato con gli occhi luminosi nel vederlo, come sempre, e lo aveva invitato a sedersi dinnanzi all’altare. Blake le aveva chiesto quale fosse stato il verdetto dei monaci sulla questione di Myriam, e lei lo aveva liquidato dicendo che avevano accolto la sua richiesta, ma che non poteva dirgli di più, e che la strega se ne fosse andata da poco.
Inoltre, ogni volta che lui distoglieva lo sguardo e si distraeva, poco dopo la beccava a fissarlo assorta, attenta ad ogni suo singolo movimento.
Quando si tenevano le sessioni di purificazione, veniva vietato l’accesso alla cattedrale del Diavolo a chiunque, ovviamente, perciò Blake sapeva che fossero solo loro due, e al massimo i monaci.
Judith lesse ad alta voce la procedura da seguire per quella sessione, la quale, teoricamente, non sarebbe dovuta differire dalla stessa procedura che teneva ogni santo giorno per le sessioni con Folker, e con altri.
Doveva averlo già fatto cento volte. Allora perchè gli sembrava così incerta mentre leggeva quel manuale tecnicamente concordato con i monaci, sui passaggi della procedura da seguire?
A meno che non avessero fatto delle variazioni. Delle variazioni solo per lui. Ma Blake dubitava fortemente di ciò: il principio di funzionamento di quelle sessioni si basava sulla quantità, non sulla qualità, Judith glielo aveva spiegato.
- “Passaggio 1: Spargimento dello zolfo sul viso del purificato, in modo da formare un esagono.
Passaggio 2: Nonostante il purificatore non possa infliggere nessun danno visibile sul corpo del purificato, quest’ultimo è tenuto a procurarselo da solo, per rendere anche il suo corpo, oltre che la sua mente, predisposti alla purificazione: quindici frustate autoinflitte, in ginocchio dinnanzi all’altare.” – Judith si bloccò, visibilmente turbata. Blake la studiò. Non era strano tanto il fatto che fosse turbata, d’altronde, nonostante fossero azioni standard e reiterate giornalmente per lei, forse non era ancora mentalmente pronta ad infliggerle a lui. Tuttavia... dal suo sguardo, era come se quelle azioni non le avesse mai compiute prima d’ora. – “Passaggio 3: il purificato deve pronunciare la frase ‘Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam’ inchinandosi ripetutamente al crocefisso capovolto, per trenta volte.
Passaggio 4: Per fare ammenda dei suoi peccati, il purificato deve pronunciare anche la frase ‘Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur’ per quaranta volte, con una benda sugli occhi e una sulla bocca.
Passaggio 5: Infine, il purificatore deve spingere la testa del purificato dentro l’acqua dissacrata, fin quando al purificato non mancherà più il respiro.”
Blake non battè ciglio. Forse perchè si aspettava di peggio. D’altronde, avrebbe potuto sopportare quel trattamento. Una sola volta, l’avrebbe potuto sopportare.
- Judith, cara – un monaco la richiamò, raggiungendola.
- Sì, padre? – gli rispose ella posando via il manuale.
- Se non ti dispiace, oggi io e padre Thomas rimarremo qui nella cattedrale e ogni tanto passeremo a controllarvi. Non che non ci fidiamo di te, sappiamo benissimo che compi sempre il tuo dovere con grande scrupolosità. Tuttavia... dato che oggi sarai costretta ad infliggere il rituale su una persona così cara a te... non vorremmo che i tuoi sentimenti possano inconsapevolmente frenarti dal praticare la sessione nel modo corretto – disse il monaco sorridendo cordialmente, per poi defilarsi, per il momento.
Judith, dal canto suo, posò di nuovo lo sguardo su Blake, il quale continuava a studiare i suoi movimenti.
Il ragazzo fece mente locale, ragionando sul motivo per il quale la sua promessa gli sembrasse così strana quel giorno.
Intanto, la fanciulla gli si pose davanti e iniziò a impastare le mani dentro la ciotola di zolfo.
Poi, improvvisamente, come un flash, un ricordo apparve nella mente del ragazzo:
“Per l’incantesimo del cambio volto, non bisogna possedere la stessa corporatura di colui o colei di cui si vogliono rubare le sembianze, mio tesoro. La “maschera umana” necessita solamente dei tratti del viso del derubato per imbrogliare tutti. Fa tutto da sola: nel momento in cui si indossa la maschera, anche il corpo assume automaticamente le forme e l’aspetto del derubato. L’unico elemento che devono necessariamente avere in comune il ladro di volto e il derubato, è l’altezza. L’altezza non si può camuffare. Mai” . Queste erano state le parole di Myriam ad un Blake di sei anni.
A ciò, ricollegando i pezzi, Blake sgranò gli occhi, nel momento in cui la donna dinnanzi a lui, che sicuramente non era Judith, iniziò a spargergli lo zolfo sul viso con delicatezza.
- Myriam...? – sussurrò, nonostante ne fosse quasi certo oramai, per ricevere una conferma da lei.
A ciò, la strega con le sembianze di Judith rimase sorpresa di essere stata scoperta così velocemente, poi sorrise, continuando il suo operato. – Avrei dovuto immaginarlo che mi avresti smascherata subito – gli rispose pacatamente. – D’altronde, ti ho istruito bene. Io e la tua dolce promessa possediamo la stessa statura fortunatamente, nonostante differiamo di tutto il resto. Questo dettaglio ti ha portato sulla strada giusta, immagino.
- Come ti sei liberata di Judith?
- Una fortunata coincidenza: dopo che la tua donna e i monaci hanno giudicato la mia adeguatezza alla carica monacale, Judith mi ha informata di dover andare necessariamente a controllare lo stato della sfortunata bambina in fin di vita, e di voler pregare per lei questa mattina. Sapeva che tu saresti dovuto venire per la tua sessione di purificazione, così mi ha lasciato detto di dirti di rimandare la sessione non appena avresti varcato la porta della cattedrale. Che ragazza premurosa..
- E tu ti sei approfittata della sua fiducia e hai fatto di testa tua.
- Ovviamente dovrai informare la tua bella di cosa è accaduto questa mattina, dato che i monaci sono convinti che lei ora sia qui dinnanzi a te a “purificarti”, e non hanno minimamente idea che lei si trovi a casa della mocciosa; così come non hanno idea che io non sia tornata dritta da dove sono venuta dopo il nostro incontro.
- Che bisogno vi era di questa messinscena?
- Ho fatto tutto questo solo per incontrare te, ovviamente. Sapevo che non volessi vedermi per nessuna ragione; mentre, invece, a quanto pare la tua promessa la incontri volentieri.
- Ora che ti è venuta questa assurda e becera trovata di diventare monaca, sì, direi che l’ultima cosa che avrei voluto è incontrarti. Ma dato che oramai sono qui, posso approfittare per chiedere spiegazioni direttamente a te: per quale motivo hai azzardato una mossa così stupida e pericolosa?
- Perchè non avrei dovuto? La mia presenza all’interno del clero può solo giovare a tutti noi servi del Diavolo. A quanto pare anche padre Cliamon è dalla nostra parte, dato che è stato proprio lui a convincere tutti i suoi colleghi ad accogliere di buon grado la mia richiesta, nonostante fossero tutti estremamente restii all’inizio. Un astio dato solo dal fatto che non è mai esistita una monaca strega a Bliaint. Sono nauseata.
- Per quale motivo padre Cliamon ti vuole nel clero?
- Non ne ho idea. Per una volta non so cosa gli passi per la testa. Non gli ho promesso nulla in cambio stavolta, posso garantirtelo. Forse ha un piano in mente anche lui, dentro quell’ingeniosa testa calva.
- Diventando monaca hai totalmente annullato tutti i nostri sforzi di tenerti nascosta a mia madre. Sbaglio o eri la prima a voler vivere nell’ombra per non farti scovare da lei? Se prenderai i voti mia madre scoprirà che sei tornata e che ti sei rimessa in contatto con me. Hai idea del putiferio che scatenerà?
- Sbaglio o la nostra cara Heloisa è impazzita da circa un mese, e non esce più di casa ormai? – pronunciò con una certa malsana soddisfazione nella voce, continuando a tracciare precise linee sulla sua pelle con lo zolfo.
- Tu godi nel vederla così, non è vero? Scommetto che c’è dietro il tuo zampino – ipotizzò il ragazzo trattenendo il fastidio.
- Blake, se tua madre scoprisse che sono ancora viva sarò io stessa ad affrontarne le conseguenze. Tu non verrai in nessun modo coinvolto in tutto ciò.
- Proverà ad ucciderti.
- Ed io la fermerò.
- Per quanto io e lei non siamo affatto in buoni rapporti, è pur sempre la donna che mi ha messo al mondo, Myriam: non voglio che le torci un capello.
- Lo so bene. La fermerò pacificamente.
- Non esiste una soluzione pacifica quando si tratta di voi due.
- Mi sottovaluti, Even.
- Quei monaci ci stanno guardando dalla balconata e tu ti stai prendendo troppo tempo nello spalmarmi questa poltiglia sul viso – le fece notare il ragazzo.
- Il secondo passaggio sono le frustate, Blake.
- Sì, lo so.
- La tua donna avrebbe accettato di farti una cosa simile...?
- Non è niente, Myriam. Sono solo quindici frustate.
- Dopo ti dovrò quasi affogare.
- Ma non mi affogherai. Ti fermerai un attimo prima.
- Questo è lo stesso rituale che esegue ogni giorno su Folker?
- Credo proprio di sì.
- Quel ragazzino è diventato un’altra persona. Possibile che un tale radicale cambiamento sia derivato solo da questi cinque passaggi?
- Cinque passaggi ripetuti ogni giorno. Ripetere per settanta volte, continuativamente “Non a noi, oh Signore, non a noi, ma al tuo nome dai gloria” e “Con quelle stesse cose per cui uno pecca, con esse è poi castigato”, per quanto possa sembrare banale fatto una sola volta, credo che ripetuto ogni giorno produca i suoi effetti a lungo termine sulla mente.
- Ne sei sicuro?
- Perchè non lo chiedi a lei stessa? Io non assisto alle sue sessioni. Perchè ti interessa?
- Per nulla in particolare. Ho visto come ha reagito quel ragazzino ieri ad alcune scene dello spettacolo. Non ha avuto una reazione anomala solo la vostra amica serva del Creatore, ma anche lui. A proposito, mi sono dimenticata di farti i complimenti per questi capelli.
- Non è stata solo una reazione anomala. Hinedia non si è ancora svegliata dall’incoscienza.
- Che cosa le è accaduto ieri?
- Nessuno lo sa. Se ne avessimo anche solo una minima idea, sapremmo come dovremmo reagire e cosa rispondere ai monaci.
Myriam terminò di tracciare i segni sul volto di Blake, facendogli segno di passare al passaggio successivo.
La donna prese la frusta e la porse tra le mani del ragazzo, cercando di rimanere impassibile dinnanzi a ciò che stava per accadere.
Con i vestiti addosso avrebbe fatto meno male. In assenza di indicazioni alternative, Blake se li lasciò. Si inginocchiò dinnanzi all’altare, tese la schiena e si mise in posizione per autoinfliggersi la prima frustata sul dorso.
Tuttavia, venne bloccato dalla voce di padre Thomas, proveniente dalla balconata: - Non lo fate rimanere a torso nudo per ricevere le frustate? – contestò il monaco, quasi come se provasse internamente gusto nel vederlo soffrire maggiormente.
- No! – protestò rabbiosa Myriam.
Blake iniziò a temere che si facesse saltare la copertura solo per quello stupido istinto protettivo che la donna aveva nei suoi confronti.
Se i monaci ordinavano che si spogliasse per ricevere le frustate, non vi era nulla che potesse fare se non obbedire.
Ma Myriam non demorse: – Rispondete, padre: per quale motivo volete che egli rimanga a torso nudo? Devo forse dubitare dei motivi che vi spingono ad osservare con tanto interesse questo fedele da quella balconata?
Tale insinuazione era grave quanto pericolosa.
Padre Thomas avrebbe potuto rispondere in due modi: rimproverandola aspramente per tale accusa insensata, o ammutolirsi e lasciare che Blake si frustasse con tutti i vestiti ancora addosso, a lenire la portata dei colpi.
Sorprendentemente, il monaco optò per la seconda.
Blake si frustò la schiena per quindici volte, stringendo i denti e mordendosi le labbra con forza, resistendo senza fiatare.
Terminato, il ragazzo si accinse a pronunciare la frase in latino designata per quel terzo passaggio, per trenta volte, inchinandosi contemporaneamente all’altare.
“Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam”.
Myriam restò a guardarlo e a vegliare su di lui per tutto il tempo.
Per il quarto passaggio, Myriam recuperò le due bende nere: una la legò intorno agli occhi di Blake, l’altra intorno alla sua bocca.
La frase “Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur” attutita dalla stoffa della benda, pronunciata per quaranta volte con quella fastidiosa costrizione, iniziò a procurargli uno sgradevole dolore alla mascella.
Quando Myriam gli tolse le bende, lo vide sbattere le palpebre più volte, per riabituarsi alla luce.
- Credevi che i monaci non sarebbero rimasti a controllarci, non è vero? – sussurrò il ragazzo, sapendo di aver c’entrato il punto: Myriam sperava di poter parlare con lui tranquillamente seduti sulla navata, fingendo di praticargli la sessione purificatrice, magari togliendosi anche la maschera umana.
Il fatto di doverlo vedere soffrire non era affatto nei suoi piani.
- Se ci prendi gusto puoi fingerti Judith anche per le sessioni di Folker e di Beitris – mise doppiamente il dito nella piaga, vedendola vacillare, mentre lo conduceva verso la bacinella di marmo colma di acqua dissacrata, per il quinto passaggio.
Blake non realizzò cosa significasse concretamente ciò che Myriam stesse per fare fino a quando non si ritrovò dinnanzi a quella semisfera grande quanto una balla di fieno, piena d’acqua.
Improvvisamente, i ricordi di quell’enorme abbeveratoio colmo di acqua gelida, e la propria sagoma che affondava lì dentro, legata dalla testa ai piedi e con dei pesanti massi e trascinarlo giù, ricomparvero con prorompenza dolorosa e agghiacciante nella sua mente, pietrificandolo.
- Blake...? – provò a richiamarlo Myriam preoccupata.
Il ragazzo sembrava totalmente in trance. Non mostrava reazioni di sorta. I suoi occhi erano spalancati, stralunati, mentre il corpo tremava come una foglia.
- Blake..? Mi stai spaventando.
- Non posso farlo.
- Cosa...?
- Non posso farlo. Non posso fare questo ultimo passaggio, Myriam.
- Blake, i monaci...
- Non posso farlo! – esclamò allontanandosi da lei.
Era incredibile quanto quel trauma che credeva di aver rimosso picchiettasse ancora dentro di lui come un martello rovente.
- D’accordo – disse lei, cercando di riavvicinarglisi. – Non fa niente. Ora i monaci non ci stanno più guardando, va tutto bene. Per favore, guardami, Blake – lo pregò ponendoglisi davanti cautamente, incoraggiandolo a sedersi. – Ora fai un bel respiro... sei in apnea. Devi riprendere a respirare .. – gli disse prendendogli delicatamente il viso tremante tra le mani e respirando lentamente a sua volta.
Fortunatamente il ragazzo sembrò tornare a respirare.
Non lo aveva mai visto così spaventato, non lo aveva mai visto tanto perduto, disorientato e inerme.
La sua ragione di vita sembrava mortalmente traumatizzato dall’idea dell’annegamento. Sicuramente ciò aveva a che fare con qualcosa che aveva vissuto nel suo viaggio fuori da Bliaint. Myriam si ripromise che avrebbe indagato sull’accaduto, ne avrebbe saputo di più.
Quando sembrò riprendersi completamente, Myriam si trattenne dallo stringerlo a sè.
- Quella ragazza, Judith... lo sai che partorirà un bambino proibito dalle leggi di Bliaint? – gli domandò cautamente, nonostante conoscesse già la risposta. – Quel neonato sarà il frutto del seme di un servo del Creatore, piantato nel ventre di una serva del Diavolo. Un mostro che non dovrebbe venire al mondo per nessun motivo.
- Sei solo invidiosa della sua fertilità, Myriam – rispose lui secco. – Non provare a toccare Judith o il suo bambino – le intimò.
- Vedo che tieni molto a lei... Credevo che il tuo interesse nei suoi confronti fosse solo di convenienza. D’altronde, lei è ciò che di più vicino vi è ai monaci, dunque la chiave perfetta per conquistarsi la benevolenza del clero. La vostra unione ti porterà indubbi vantaggi.
- Myriam. Voglio la tua parola.
- Hai la mia parola: non toccherò il bambino.. nè lei. Ad ogni modo, non ignorare il mio suggerimento: hai rubato il cuore della pupilla dei monaci. È palese dal modo in cui ti guarda. Potresti sfruttare questa influenza che hai su di lei a tuo vantaggio.
Blake rimase in silenzio, rivolgendole uno sguardo imperscrutabile.
- Ricordi l’ultima volta che indossasti una maschera umana, quando ero piccolo? – le domandò improvvisamente il ragazzo, spezzando il silenzio.
- Certo che lo ricordo... come dimenticarlo?
Le memorie confluirono da sole:
Nascondino. Mai quel gioco era stato così divertente, come quando lo facevano loro due.
- Myriam?? Myriam, dove sei? – il piccolo Blake si aggirò per il bosco, correndo tra i cespugli alti e i rametti, a piedi nudi, incurante di graffiarsi e ferirsi la pelle.
Myriam lo portava spesso in quella porzione di bosco vicina a casa, per giocare. Non lo avrebbe mai condotto nel folto del bosco, quel bosco enorme che ospitava troppi pericoli e in cui ci si perdeva, nonostante le continue insistenze di Blake, che lo voleva visitare per scoprire nuovi luoghi e nascondigli.
La cercò ovunque ma non la trovò da nessuna parte, dietro nessun tronco, dietro nessun cespuglio.
Il bambino stava quasi per arrendersi e decretare la disfatta, quando, d’improvviso, udì il rumore di un rametto spezzato, nelle vicinanze.
Senza che se ne rendesse conto, si ritrovò davanti una figura molto diversa da quella che si aspettava: Heloisa uscì fuori da dietro l’albero, con un sorrisone in volto e il suo solito abito di stoffa blu.
Blake sgranò gli occhioni, incredulo. – Madre..? Cosa ci fai qui?
A ciò, la donna rise di gusto, avvicinandosi maggiormente a lui. – Mio tesoro... sono io. Sono Myriam – gli sussurrò abbassandosi ad un palmo dal suo visino.
- Cosa...? Non capisco..
- Si chiama “Maschera umana” e in mille altri modi. È molto semplice, sai? È un trucchetto che consiste nel prendere le sembianze di qualcuno.
- È come uno scambio di corpi?
- No, lo scambio di corpi è molto più complesso. La Maschera umana dura molto poco e non implica nessuno scambio. Difatti, tua mamma ora ha sempre lo stesso aspetto, e non si è minimamente accorta che io le abbia “rubato” l’apparenza. È come se ora esistessero due Heloise.
Blake sgranò gli occhi sempre più sorpreso e intrigato. – Mi piace questo incantesimo! Perchè hai scelto proprio l’aspetto di mia madre?
- Per spaventarti, ovviamente! – gli disse gettandoglisi addosso e afferrandolo a tradimento, non lasciandogli il tempo di scappare. I due caddero insieme sull’erba rotolando per qualche metro sulla discesa, ridendo a crepapelle.
Quel giochino della maschera umana durò per un bel po’: Myriam si divertiva a prendere le sembianze di Heloisa di tanto in tanto quando era in compagnia di Blake, giusto per farle dire delle cose stupide e per far ridere il bambino.
Durò fin quando, un giorno, non accadde l’ultima cosa che sarebbe dovuta accadere: mentre era a casa, da sola, con Blake, con le sembianze di Heloisa, Rolland era tornato senza preavviso.
Myriam, presa alla sprovvista, aveva provato a fingersi la donna per un po’, e Rolland forse se la sarebbe anche bevuta, se non fosse stato per un unico fatto: Rolland aveva incontrato sua moglie giusto dieci minuti prima, alla cattedrale.
- Rolland, non volevo mancare di rispetto a voi o a vostra moglie con questo innocuo trucchetto – gli aveva detto abbassando lo sguardo, imbarazzata.
In fondo, lei rimaneva sempre una ragazza orfana, che i Rolland stavano ospitando senza chiedere nulla in cambio.
Doveva loro rispetto e gratitudine sconsiderata, specialmente se non voleva essere separata da quel bambino a cui si era tanto affezionata.
Dinnanzi a quell’atteggiamento desolato e remissivo, Rolland l’aveva guardata per un po’, indeciso, poi sorridendo con leggerezza. A quel punto, Myriam si era permessa di guardarlo.
- Facciamo un patto..: – le aveva proposto il giovane Rolland, avvicinandosi maggiormente e osservandola con uno sguardo che la fece sentire improvvisamente nuda. – Io ti farò continuare a stare in compagnia di mio figlio quanto vorrai, e non dirò nulla a mia moglie riguardo i tuoi trucchetti magici... in cambio, tu giacerai con me. Una sola notte – le propose carezzandole una guancia.
Myriam lo guardò sgranando gli occhi.
Come avrebbe mai potuto rifiutare una proposta del genere?
Il guadagno era immenso.
Non sarebbe stato affatto difficile accontentarlo: d’altronde, quel giovane di venticinque anni dinnanzi a lei, era senza dubbio il ragazzo più bello che avesse mai visto, e non era l’unica a pensarlo. Rolland era molto ambito prima di venire accalappiato da Heloisa, e lo era ancora. Si sarebbe dovuta sentire lusingata della proposta fattale.
Certo, così facendo avrebbe fatto un torto ad Heloisa, ma infondo si sarebbe trattato di una sola notte, no? La donna non sarebbe mai venuta a saperlo. Inoltre, Heloisa la odiava già. Quindi, tanto valeva non preoccuparsi di farsi odiare più di così.
Vi era solo un unico problema...:
- Rolland... io non sono sicura che mi piacciano gli uomini – gli rivelò.
- Beh, tanto vale provare, no? – le aveva risposto lui, con tutta la sicurezza del mondo.
E faceva bene ad averla: dopo quella prima notte, Myriam aveva scoperto che le era piaciuto giacere e farsi possedere da lui. Sin troppo.
Motivo per cui, a quella notte, ne erano seguite altre e altre ancora, sempre all’insaputa di Heloisa e Blake.
Aveva imparato ad unire l’utile al dilettevole: Rolland era sempre più rilassato, dolce e premuroso con lei, Blake era a sua completa disposizione, ed Heloisa non sospettava minimamente di nulla.
Con l’andar del tempo, Myriam si stancò di accontentare sempre le voglie di Rolland, perciò iniziò a negarsi a lui.
Con i primi “no”, arrivarono anche le violenze.
Rolland non alzava mai un dito su Heloisa o su Blake.
Ma su di lei sì. Lei era la serva, lei era la ragazzina estranea.
Nulla importava che avesse giaciuto con lui per mesi, nulla importava che, senza il suo aiuto, Heloisa non avrebbe mai messo al mondo Blake quella notte.
L’unica sua consolazione, l’unico suo elisir di guarigione nel periodo funesto che ne seguì, fu Blake.
Poi, come colpo di grazia, arrivò la notizia: Heloisa era incinta del secondo figlio.
Durante tutti quei mesi, Rolland non aveva piantato alcun seme nel ventre sterile di Myriam.
Era bastata una sola notte di passione sfrenata che Heloisa era riuscita a riaccendere in suo marito, per farla rimanere gravida di un secondo bambino.
A quel punto, Myriam aveva ricominciato ad utilizzare la maschera umana di Heloisa.
Sentirsi nei suoi panni la faceva sentire bene.
Soprattutto, la faceva sentire madre.
Tanto che, diverse notti, mentre tutti in casa dormivano, aveva preso l’abitudine di recarsi nella camera di Blake, fingendosi Heloisa.
Il bambino dormiva ma, nonostante tutto, ella riusciva a farsi strada nel suo letto spazioso e a porsi sempre dietro di lui, ad abbracciarlo, avvogendolo interamente da dietro e poggiando la bocca tra i suoi soffici capelli scuri.
Il bambino mugolava e si lasciava abbracciare. Quando dormiva, non gli importava molto chi lo stesse abbracciando. E nonostante Myriam sapesse che Blake si lasciasse abbracciare molto più volentieri da lei stessa che da Heloisa, voleva comunque fingersi lei per sentirsi davvero sua madre, ma, soprattutto, per sentirsi dire una semplice parola, che usciva sempre dalle labbra di Blake non appena la sentiva entrare nel suo letto e avvolgerlo nella sua stretta, indipendentemente da quanto fosse in dormiveglia:
- Fatti più in là, mamma.
 
Tuttavia, Myriam non avrebbe mai saputo, che Blake si fosse accorto sin dall’inizio, che quella nel suo letto non fosse sua madre.
 
- SEI SECOLI PRIMA -
 
Padre Chaim aprì gli occhi con un’espressione beata sul viso e i sensi annebbiati.
Una voce, giovane, calda e suadente, la voce più peccaminosa che avesse mai udito, gli sussurrò qualcosa all’orecchio con il suo fiato caldo: - Sono dietro di voi, padre...
- Siete dietro di me... ? Chi siete? – la curiosità e la tentazione di dare un volto a quella meravigliosa voce divenne quasi insopportabile. Provò a voltarsi, ma una mano spigolosa e decisa gli afferrò il viso da dietro e lo costrinse a continuare a guardare dinnanzi a sè.
- No, padre. Non potete... non conoscete la leggenda del Mostro Dietro di Te?
- Il Mostro Dietro di Te?
- Secondo la leggenda, il mostro svanisce nel momento in cui ci si volta a guardarlo. Volete che io svanisca, padre? – il suo fiato caldo gli scaldò il lobo dell’orecchio, facendolo rabbrividire visibilmente.
Quel ragazzo o chiunque fosse... stava cercando di indurlo in tentazione?
Lui? Un monaco santificato dall’intero villaggio?
Non era possibile.
Lui era incorruttibile.
Eppure...
Dove si trovava?
Era buio. Sembrava un bosco, una foresta deserta quella intorno a lui. Dinnanzi a sè vi era un alto falò, con delle fiamme rosse e violente, che illuminavano l’ambiente circostante.
Il monaco era in posizione seduta, a gambe incrociate, a terra.
Tra le mani aveva un boccale vuoto.
Che lo avesse fatto ubriacare...?
-Voi... siete un mostro?  - domandò allo sconosciuto.
- Ve ne sorprendereste?
- Non è possibile che una voce così bella provenga da un mostro.
- Ne siete certo, padre? Eppure, se non erro, una settimana fa avete dato inizio ad una rivoluzione in questo villaggio: avete diviso le mostruosità dalle bellezze, relegando le prime a servire il Creatore, e le seconde... al servizio del Diavolo. Il Diavolo stesso non è un mostro?
- Sì, lo è.
- E allora come possono i belli essere figli di un mostro, padre?
- Proprio questo è il punto... la bellezza è insidiosa. Conduce in tentazione. Conduce al male. In quanto maligna, è mostruosa dentro quanto è idilliaca fuori – spiegò, avvertendo i sensi sempre più annebbiati.
- Ed io sono una tentazione, padre? Io sono maligno...?
- Voi ... vi prego, mostratevi a me.
- Potrei spaventarvi, sapete? Un’altra caratteristica dei mostri sono le zanne lunghe... come quelle delle bestie.
- Vorrei guardarvi.
- Perchè vorreste guardarmi?
- Perchè la vostra voce mi sta facendo impazzire. Non mi era mai accaduto prima.
- Vi sto conducendo in tentazione, padre? – sussurrò, questa volta tirando fuori la lingua, facendogli sentire sulla sua pelle la consistenza del suo antro umido, ma solo per un istante.
Padre Chaim si sentì quasi svenire in seguito a quel contatto.
- Che ne sarà del vostro rapporto col Creatore?
- Guardare i servi del Diavolo non è peccato... è una delle leggi che ho fondato per Bliaint.
- Se io mi mostrassi a voi, cosa mi dareste in cambio?
- Non potreste avere nulla da me. La mia anima è salda.
A ciò, il ragazzo dietro di lui rise, rise a crepapelle, proprio dentro il suo orecchio, facendolo rabbrividire ancora e ancora.
Finalmente, dopo aver riso per quelle che gli parvero ore, il suo misterioso interlocutore si palesò, camminando dinnanzi a lui e piegandosi un po’, dato che padre Chaim era ancora seduto a terra. Il monaco lo osservò a dovere: come unici vestiti (se così si potevano chiamare) indossava pelli di animali a coprirgli vagamente il busto slanciato e ben delineato, perfetto, che gli scendevano giù fino a nascondere ciò che vi era da nascondere, ma lasciando intravedere nella loro interezza le sue gambe lunghe e snelle.
La sua pelle era bianca come il latte, tanto chiara da illuminare quasi il buio.
Il suo volto era invece completamente coperto da un’orrenda e spaventosa maschera tribale.
Il ragazzo assunse una posizione scimmiesca dinnanzi a lui, poi si alzò in piedi saltellando e si diresse pochi metri più in là, verso due tamburi.
Con le mani nude e sporche di qualche sconosciuta sostanza nera, il ragazzo con la maschera tremenda iniziò a suonare un’impetuosa quanto intrigante musica tribale, qualcosa che il monaco non aveva mai udito e mai avrebbe immaginato di udire.
Quel suono gli annebbiò la mente ancor di più.
Dove si trovava?
Chi era quel ragazzo?
- Non distogliete mai gli occhi dal fuoco!! – gli urlò improvvisamente il giovane, iniziando a suonare sempre più forte e più velocemente. – Mai!! – ripetè.
Qualche minuto dopo, il monaco comprese l’avvertimento del ragazzo: dalle fiamme, come per magia, uscì fuori la creatura più bella che avesse mai visto.
Una fanciulla con dei selvaggi boccoli neri come la notte più nera, lunghi fino al fondoschiena; la pelle luminosa e nivea come quella del ragazzo; gli occhi grandi, chiari come la luna, contornati dal trucco nero; il corpo bellissimo, alto, formoso e magrissimo al contempo, che si muoveva convulsamente a ritmo di musica; gli abiti di pelli di animali che coprivano giusto il minimo indispensabile; i bracciali neri sulle braccia e sulle caviglie, le unghie nere, le labbra carnose bianche come quelle di un cadavere.
Il monaco pensò immediatamente che quei corpi così chiari si sarebbero bruciati in men che non si dica sotto il sole.
Dovevano essere delle creature notturne, quei due servi del Diavolo.
- Un’altra serva del Diavolo ... – si ritrovò a sussurrare il monaco, fissando la fanciulla incantato dal suo aspetto, dai suoi movimenti, dai suoi occhi, da tutto di lei.
- E se io non volessi servire nè il Diavolo, nè il Creatore? – si innalzò improvvisamente la voce di lei, mentre continuava a ballare in mezzo alle fiamme.
- Dovete per forza essere una servitrice del Diavolo. Siete bellissima. La settimana scorsa ho imposto la divisione – le rispose senza pensare.
Le fiamme. Sembravano inghiottirla, ma al contempo non nuocerle minimamente.
Le attraversava come si poteva attraversare un cespuglio d’erba.
Era come se le dominasse... poi, d’un tratto, la donna più bella che avesse mai visto aprì i palmi mentre muoveva il busto, e dalle sue mani comparvero delle fiammelle.
- Una strega... – sussurrò il monaco spaventandosi. Doveva esserlo per forza..
Certo, con la divisione del villaggio, ora la parte maledetta di Bliaint, nonchè la porzione formata dai servi del Diavolo, avrebbe potuto praticare la magia nera senza conseguenze, in accordo col loro signore il Diavolo.
Tuttavia, era trascorsa solo una settimana... non poteva essere.
Da dove veniva quella bellissima e pericolosissima strega...?
Il monaco iniziò a farsi parecchie domande.
Chi lo aveva condotto in mezzo a quel bosco?
Chi erano quei due esseri demoniaci?
Notando tutti i terribili dubbi che infestavano il suo volto, la fanciulla sorrise, e il suo sorriso gli sembrò ciò che di più diabolico esistesse al mondo.
Ad un tratto, mentre ballava, a padre Chaim parve che delle mostruose ali nere comparissero dietro la sua schiena. Ali di pipistrello.
Non era possibile. Stava sognando. Doveva star sognando.
Ora quella musica tribale che il ragazzo mascherato continuava a suonare gli parve sempre più dolorosa e fastidiosa da ascoltare.
- Vi prego... vi prego, smettetela ... – li supplicò tappandosi le orecchie.
- Una strega. Mi credete una strega, padre? – gli domandò lei sorridendo ancora, continuando a ballare leggiadra e selvaggia, irresistibile.
- Riuscite a dominare e a creare il fuoco...
- E credete che questo è ciò che le streghe fanno?
- Io so che-
- Voi non sapete niente – si elevò la voce della ragazza, prorompente come un fulmine, proprio mentre il ragazzo mascherato cessò di suonare, facendo piombare il silenzio.
Il fanciullo si avvicinò alla fanciulla, la quale gli sfilò via l’orrenda maschera con estrema lentezza, scoprendogli il viso.
Padre Chaim sgranò gli occhi: anche il ragazzo si rivelò bellissimo, quasi da far male agli occhi.
Inoltre somigliava enormemente a lei: anche lui con i capelli selvaggi e neri come la notte, le iridi di luna e il sorriso più peccaminoso che esistesse al mondo.
I due lo guardarono all’unisono e al monaco parvero l’incarnazione del peccato.
O meglio... la personificazione del Diavolo.
- Voi due... voi due siete il Diavolo. Il Diavolo diviso in due corpi diversi... state lontani da me!
I due, posti di profilo, l’uno di fronte all’altra, alti uguali, con i lineamenti così simili, risero di nuovo, guardandolo come fosse l’essere più patetico del mondo. – Il verme ha paura di noi, fratello.
- Non ha ancora capito chi siamo, sorella. Sii buona con lui.
“Fratello”? “Sorella”? Ecco perchè si somigliavano tanto.
- Che c’è, padre? – gli domandò lei, incantenandolo ancora con il suo sguardo. – Vi disturba che siamo fratello e sorella? Vi disturba essere così attratto da noi? Vi disturba vederci fare... questo? – continuò facendo qualcosa che fece letteralmente paralizzare il giovane monaco: allungò una mano e la poggiò sul fianco del fratello, infilandola languidamente dentro la pelliccia, esplorando ciò che vi si celava sotto.
Lui, dal canto suo, sospirò lascivamente e le mise una mano sulla nuca, attirandola verso di sè.
- No, no, no! Cosa state facendo?? Allontanatevi subito! Quello che state commettendo è un peccato imperdonabile! Non si può mischiare lo stesso sangue! Questo è incesto! Allontanatevi subito! – ma più urlava, più i due si toccavano e si guardavano lascivamente, compiendo quella danza convulsa che agitò inevitabilmente le carni del monaco, il quale si vergognò tremendamente nel sentire i propri genitali infuocarsi a quella visione illuminata dal fuoco.
- Diteci cosa vi piacerebbe vedere, padre ... diteci cosa volete che facciamo...
- Diteci come vi piacerebbe che ci tocchiamo e noi lo faremo...
Detto ciò, ansimando di piacere, i due si avvinghiarono tra loro.
La ragazza face vagare le mani ovunque nel corpo del fratello, spingendolo a sè in modo dominante, infilandogli la lingua in bocca avida e famelica. Lui, dal canto suo, la tenne ancorata a sè, tirandole i capelli e divorandola con la stessa foga e furia possessiva.
Poi, man mano che i due compivano quella perversione terribilmente oscena e proibita, facendo piombare padre Chaim nel baratro di un’eccitazione cieca e irrazionale, quell’atto si trasformò gradualmente in una vera e propria lotta al predominio.
Entrambi avevano eguali possibilità di vincere: erano alti uguali, non vi era uno che avesse la stazza più grande dell’altra.
Così, pian piano, prevalse sempre più la fanciulla.
Ella lo spinse con forza per terra, facendogli sbattere la schiena contro un grosso masso, ponendosi a cavalcioni su di lui.
Poi... accadde qualcosa che il monaco non avrebbe mai dimenticato.
Non fece in tempo ad urlare di orrore, che la ragazza spalancò la bocca come avrebbe fatto una feroce bestia, e con i suoi canini estremamente lunghi e appuntiti si avventò famelicamente sul collo niveo del fratello, succhiandogli via tutta la linfa vitale, insieme al sangue.
Lui non provò neanche a ribellarsi, tanto era estatico il momento che stava vivendo.
Il monaco osservò gli occhi chiari del ragazzo spalancarsi e perdere consistenza, diventare liquidi e vitrei, gradualmente, mentre lei continuava a succhiare e succhiare via tutto.
Un fiume di sangue zampillò dalla gola della vittima, bagnandogli tutto il corpo, bagnando interamente anche lei, che se ne beò quasi stesse facendo un bagno nel fiume Giordano.
I gemiti osceni che emise quella diabolica quanto meravigliosa creatura, mentre succhiava via tutta l’energia vitale di suo fratello, furono letali per le orecchie e per i lombi già messi a dura prova di padre Chaim.
Non ce la faceva più.
Il suo desiderio stava toccando cime mai viste.
Voleva toccarla. Saggiarla. Saggiare il sangue che le macchiava la pelle, per poi saggiare anche il corpo morto di lui.
E desiderava che lei mordesse anche lui e lo uccidesse così, in quell’atto osceno quanto irresistibilmente peccaminoso, proprio come aveva fatto con suo fratello, il quale ora era riverso sul masso, con le braccia spalancate e il bellissimo volto privo di vita rivolto verso la luna, inerme.
La ragazza si avvicinò al monaco, il quale seguiva ogni suo movimento, abbagliato da lei.
Ella rimase in piedi, guardandolo dall’alto, sporca di quel liquido denso e purpureo dalla bocca ai piedi.
- Credete ancora che io sia una strega, padre?
- Chi siete voi...?
- Perchè avete operato la divisione del villaggio?
- Perchè era mio dovere salvare tutti dalla calamità.
- E credete che in tal modo avete salvato il popolo dalla calamità? Credete di sapere cosa desideri il Diavolo e cosa desideri il Creatore?
- Sì, credo di saperlo. Il Diavolo vuole essere servito e adorato esattamente come un dio.
- Credete che il Diavolo voglia questo? Credete che un essere tanto avido ed egoista come Lucifero voglia solo metà del villaggio?
- Metà ad uno e metà all’altro è la scelta più giusta ed equa. Per non far adirare nè il Creatore nè il Diavolo con noi.
- E da quando il Diavolo è equo?
- Qual è il vostro nome? – insistette il monaco, ingoiando saliva nervosamente, mentre continuava a guardarla, sentendosi attratto come una calamita a quel mostro dalle sembianze di dea.
- Striga.
- Solo “Striga”?
- Solo Striga – ripetè lei sorridendo.
- E quello di vostro fratello?
- Non vi serve sapere il suo nome.
- Perchè avete bevuto il suo sangue...? Cosa siete?
- Non lo sapete? Lucifero ha sangue celeste. Nonostante sia stato esiliato dal cielo, continuerà ad aver sempre sangue celeste.
- Vostro fratello possiede ... il sangue di Lucifero?
- No. Ma la bestia va sfamata. Il suo sangue è succulento, almeno quanto lo sono le sue carni. Per questo l’ho bevuto. Per saziare la mia fame.
- Ora... berrete anche il mio?
- No. Voi siete marcio – gli rispose schifata.
- Dove sono...? Come sono arrivato qui?? Rispondetemi!
La fanciulla rise ancora, elevando il volto al cielo.
- Ho visto e sperimentato abissi che la tua mente non può lontanamente immaginare, monaco.
Io ho vissuto oltre i confini dell’infinito!
Io ho ammazzato i tuoi signori!
Io ho evocato demoni dalle stelle, non dalla terra!
Io ho chiamato a raccolta le ombre che volano fra i mondi per seminare morte e follia!
Io! L’infinito appartiene a me!
Mi senti?
Ti daranno la caccia.
Il monaco era totalmente paralizzato. – Chi...?
- Tutti coloro che hai condannato!
Marcio nasci, marcio vivi, marcio marcisci all’inferno.
E la dissoluzione non sarà indolore. Mai lo sarà!
E mentre la ragazza urlava tutto ciò sorridendo, dietro di lei, il fratello riaprì gli occhi e iniziò a sorridere a sua volta, in un ghigno perverso.
- Vi prego! Vi prego, smettetela!! – la supplicò il monaco in lacrime.
Quella donna era un’Eva mostruosa.
L’Eva peggiore e più mortalmente pericolosa che avrebbe mai potuto incontrare.
In quel momento, pensò che non si sarebbe mai e poi mai voluto trovare nei panni di Adamo. O del Diavolo. E al contempo, avrebbe bramato trovarsi al posto di uno dei due.
La fanciulla si inginocchiò finalmente dinnanzi a lui, avvicinando il volto al suo.
Il ferroso odore di sangue gli invase l’olfatto, mentre ella avvicinava le labbra esangui e cadaveriche al suo orecchio: - Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur, pater.
E con quel sussurro a scuotergli i timpani, padre Chaim si risvegliò nel proprio letto in un sobbalzo.
Ansimò ferocemente, sudato fradicio, ripetendosi mentalmente che no, quello non poteva esser stato un sogno.
Quella creatura ultraterrena doveva averlo ricondotto nel suo letto in qualche modo, dopo i terribili atti che le aveva visto commettere.
Improvvisamente, il monaco si rese conto del danno provocato da quei due fratelli del male: la sua tunica, all’altezza del suo inguine, era bagnata. Bagnata di sperma.
Aveva le vesti bagnate del suo stesso perverso peccato.
Ma non fece in tempo a far nulla, poichè una donna, una delle monache del Creatore che viveva nella cattedrale con lui, piombò dentro la sua camera, preoccupata.
- Pedre Chaim! Sono accorsa appena ho potuto! Vi ho udito lamentarvi nel sonno... tutto bene? Padre Chaim..?
- Non avvicinatevi!
Ma non fece in tempo a dirlo, poichè la giovane monaca aveva già scorto, nonostante il buio della stanza, le sue lenzuola e i suoi vestiti bagnati del suo proprio seme.
La ragazza sgranò gli occhi, incredula, non dicendo una parola.
In men che non si dica, altri due monaci si precipitarono nella sua stanza, allarmati allo stesso modo della ragazza.
- Padre Chaim!
- Padre Chaim, va tutto bene?
A quel punto, esposto al suo stesso peccato imperdonabile, padre Chaim era più che deciso a non sacrificare per nulla al mondo la santità che aveva da poco raggiunto.
Dunque, fece la prima cosa che gli venne in mente. La cosa più giusta:
- Padre Nikola, padre Gohtram. Imprigionate immediatamente madre Jenna.
A ciò, la monaca sgranò gli occhioni scuri, guardandolo smarrita, in cerca di spiegazioni. – Padre..? Che significa?? Perchè?? – domandò confusa.
- Madre Jenna è entrata nella mia stanza e ha cercato di sedurmi – affermò con convinzione padre Chaim, non pentendosi minimamente della menzogna appena pronunciata. Indicò il proprio sperma ai monaci, i quali sgranarono gli occhi a loro volta, in un misto di sorpresa e di rabbia nei confronti di madre Jenna. A ciò, seguendo i suoi ordini, la afferrarono, incuranti delle proteste della ragazza, e la portarono via, verso le segrete.
Talvolta, per proteggere la propria reputazione e i propri valori, era necessario compiere delle scelte difficili.
E la colpa, volenti o nolenti, tornava sempre e comunque su un’Eva qualsiasi.

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Capitolo 39
*** Rivelazioni ***


Rivelazioni
 
 
Folker si svegliò di soprassalto nel bel mezzo della notte, sudato, con il fiatone a togliergli il respiro.
Si spostò dal viso i capelli biondi appiccicati alla pelle e cercò di regolarizzare il respiro.
Improvvisamente, venne colpito da un attacco di fame improvviso.
Si alzò dal letto e si diresse verso la cucina buia, scalzo, per non far rumore.
Si alzò in punta di piedi per cercare nella dispensa qualcosa da mettere sotto i denti.
Il sonno lo fece sbilanciare lievemente e le anche sporgenti del bacino andarono a sbattere dolorosamente contro il legno del ripiano. Emise una leggera smorfia, tastandosi la parte lesa, su cui sicuramente sarebbe comparso un livido scuro due giorni dopo.
Tastando il proprio bacino si rese conto di aver perso peso.
Erano giorni che qualsiasi tipo di cibo provasse ad ingurgitare, lo disgustava.
Non era una perdita di appetito, anzi, la sua fame si era moltiplicata.
Tuttavia, tutto quello che mangiava aveva iniziato a diventare indigesto e a perdere sapore.
Fortuntamente, quella perdita di peso non si sarebbe notata troppo, dato che era sempre stato snello di natura.
Il suo stomaco emise un rumore molesto, così le sue mani magre e avide non si arresero e afferrarono una bacinella colma di fragole.
La trascinò giù e si portò uno di quei succulenti e dolci frutti rossi alla bocca, annunsandolo prima.
L’odore solitamente piacevole delle fragole iniziò a dargli il voltastomaco.
Cercò di non farci caso e la addentò comunque.
Masticò un po’, fin quando, preso da un potente conato di vomito, non la sputò a terra, schifato.
Provò con diversi cibi, ma accadde sempre lo stesso e li rigettò tutti. Il suo stomaco era divenuto incapace di assimilare pietanze normali.
Arrendendosi, tornò a letto, cercando di riprendere sonno, senza successo.
 
- Di nuovo!
- Padre – provò a farlo ragionare Judith. – So io quante volte è necessario praticare la sessione, affinchè sia efficace. Questa è già la quinta volta consecutiva oggi... non credete che possa bastare? Il ragazzo stava per affogare veramente stavolta.. – disse, poi posando uno sguardo rammaricato e compassionevole verso Folker, il quale aveva ancora il fiatone e si stava asciugando il viso dall’acqua dissacrata.
- Voi siete troppo mossa dalla pietà, mia cara – la rimproverò padre Thomas, ponendole una mano sulla spalla sottile. – Qui dinnanzi a noi abbiamo un mostro. Un mostro privo di tutta l’umanità e la pietà che voi mostrate nei suoi confronti, e che potrebbe essere privo anche della capacità di provare emozioni, da quanto ne sappiamo.
- Padre, ritengo stiate esagerando. Il ragazzo ha a malapena quattordici anni, e detiene comunque un corpo mortale. Non resisterà per molto se andremo avanti così.
- La sua mente sta resistendo. Resisterà anche il suo corpo.
- La sua mente non sta resistendo, tutt’altro.
- Il suo cambio di atteggiamento è solo un miglioramento.
Beitris, la quale ascoltava i due discutere, incatenata e seduta sulla navata, poco distante da Folker, era a dir poco schifata dall’atteggiamento dei monaci.
Si pentì di non averli bruciati tutti quando ne aveva l’occasione e il potere.
Ad ogni modo, dopo sarebbe toccata a lei quella sfibrante sessione.
- Per me va bene farne un’altra – si udì improvvisamente la voce del diretto interessato interrompere la conversazione dei due. Folker, con tutta la naturalezza del mondo, ripetè: - Mi va bene. Posso reggere.
- Folker... ne siete sicuro? – gli domandò Judith attonita, mostrando un velo di allarmismo in volto.
Persino Beitris si voltò a guardare il ragazzo sconvolta.
- Sì, sicuro – disse lui con convinzione e spirito di sacrificio a dir poco ammirevoli, facendo accaponare la pelle delle due fanciulle.
- Vedi, cara? È lui stesso a chiederlo! – esclamò più che soddisfatto il monaco.
- Lasciateci soli, padre, per cortesia – lo spronò Judith, vedendolo poi abbandonare temporaneamente la cattedrale. Quando fu uscito, la fanciulla si avvicinò al ragazzo, sedendoglisi accanto.
- Folker.. quando vi siete spogliato della maglia per ricevere le frustate oggi, ho notato nel vostro corpo ferite che ieri non c’erano. Dovete... dirmi qualcosa? – gli domandò cautamente.
- Cosa state sottointendendo?
- Intendo che, una tale quantità di graffi e tagli non passa inosservata. Non potete esserveli provocati cadendo dal letto. E ieri non erano così tanti. Per caso, c’è qualcuno che vi sta facendo del male? A casa o fuori casa?
- Insinuate che i miei genitori mi picchino?
- O i ragazzi che spesso vi prendono di mira quando mettete la testa fuori casa o fuori la cattedrale.
- Potrebbe procurarseli anche da solo – ipotizzò ad alta voce Beitris, attirando la loro attenzione, ricordando loro di esser presente anche lei.
- È una possibilità che non volevo neanche prendere in consideranzione... è così, Folker? Ve li siete fatti da solo?
Il ragazzo rimase in silenzio, alzando lo sguardo verso l’altare.
Le frustate che era costretto a procurarsi durante quelle sessioni lasciavano sempre lunghi tagli rossi di sangue sulla schiena nuda e delicata del ragazzo, ferite che Judith si premurava sempre di disinfettargli e fasciargli ogni giorno, finite le sessioni.
La ragazza sapeva ben riconoscere i segni lasciati da una potente frustata di cuoio sulla schiena, oramai. Motivo per cui aveva compreso che Folker possedesse una frusta a casa, nascosta da qualche parte, e che si frustasse anche in solitudine, quando nessuno poteva udire i suoi lamenti sommessi, per espiare chissà quale peccato.
- Silenzio è assenso. Per quale motivo vi fate del male, Folker? Già ne ricevete abbastanza qui, da me, che sono ahimè costretta a farvene, ma-
- Com’era la strige che ha visto Allister Chaim? – la interruppe lui, voltandosi a guardarla.
Judith ci mise un po’ a metabolizzare quella domanda. – Che cosa intendete?
- La strige che ha visto Allister Chaim, l’unica mai stata avvistata. Voglio sapere com’era fatta. Voi lo sapete?
- Nessuno lo sa, Folker.
- Ne siete certa? Nella biblioteca della cattedrale non vi sono libri che ne parlano? Lui ne deve aver parlato, in uno dei libri che ha scritto – il ragazzo sembrava estremamente interessato all’argomento, anche sin troppo, dettaglio che insospettì Judith. – Inoltre, so che padre Craig sta studiando il mistero delle strigi nato dalla visione di Allister Chaim – continuò lui.
- Perchè non lo domandate a lui, dunque? So che ultimamente avete fatto amicizia con padre Craig.
- Perchè lui non ha accesso a tutti i manuali delle biblioteche, mentre voi sì. Studiate in quella biblioteca da una vita e siete la protetta dei monaci. Nessuno più di voi potrebbe saperlo.
A ciò, la ragazza fece mente locale, cercando di riportare alla mente qualche informazione a lungo sepolta appresa da qualche tomo o dalle parole dei monaci.
- Ricordo che una volta ne parlarono – disse, rimembrando. – Ero solo una bambina. Dicevano che Allister Chaim avesse trascorso un lungo periodo della sua vita innamorato di una donna immaginaria. Una donna che ritraeva quando poteva. Talvolta era una ragazza... talvolta era un ragazzo. Non era molto chiaro a chi lo osservasse, al tempo.
- E com’era la ragazza che ritraeva?
- Dicevano fosse bellissima. Bellissima, se non fosse stato per dei denti aguzzi che sbucavano dalle sue labbra carnose e bianche cadaveriche. Le sue mani dalle unghie affilate, quasi sempre erano sporche di sangue. Allister Chaim ha sempre tenuto nascosti a chiunque i suoi disegni, tanto che solo i monaci ne vennero a conoscenza. Questo è tutto ciò che ricordo di aver udito.
- Esistono ancora? I disegni di padre Chaim?
- Anche se esistessero, sarebbero totalmente sbiaditi, dopo tutti questi secoli. Perchè vi interessa saperlo?
Folker, è solo un mio presentimento, o voi per caso vi state auto convincendo di aver davvero qualcosa che possa accomunarvi a quella creatura immaginaria?
- Non potete sapere se fosse davvero immaginaria o no.
Quella risposta fu la conferma che Judith cercava. – Folker, guardatemi e ascoltatemi: – gli disse attirando completamente su di sè la sua attenzione. – Voi non siete una strige. Mi avete capita? Io vi ho convinto a confessare di esserlo solo per evitarvi il rogo. Intesi? Non ricordate più il nostro patto?
- Sì, lo ricordo.
- E allora perchè mi sembrate così poco convinto?
- Come fate a sapere che io non lo sia davvero? Niente dice il contrario. Voi non sapete nulla delle strigi, non avete neanche preso in considerazione che possa trattarsi della verità. Che quei mostri esistano davvero e non siano appartenuti solo alle fantasie di Allister Chaim.
- Folker, perchè dite tutto questo...? Non è il risultato a cui volevo arrivare con queste sessioni. Purtroppo sono costretta a praticarvele, o i monaci non vi lascerebbero vivere.
- E che vita! – esclamò Beitris di nuovo, in tono derisorio. – Che vita che gli state facendo vivere, Arley Judith! Non sarebbe stato meglio per lui morire bruciato su quel soppalco, invece di sopportare tutto ciò? Si vede lontano un miglio che quei monaci non vedono l’ora di mettergli le mani addosso, per torturarlo in prima persona. Scommetto che sognano di frustarlo al posto vostro, beandosi delle contorsioni e degli spasmi che la sua schiena candida e macchiata di sangue e di sferzate emette, per mano loro. Loro godono nel vederci così! Sofferenti e inermi tra le loro mani. Godono come dei porci. E chissà! Magari ci credono talmente tanto a quei mostri succhia-sangue, da voler esperire sulla loro pelle l’estasi che disse di provare quel pazzo del loro predecessore e salvatore, quando ebbe la famosa visione! Magari vogliono vedere la strige all’opera.
Judith non rispose a quelle provocazioni, decidendo di mostrarsi superiore, come sempre era avvezza a fare.
- Folker, non mettetevi in testa strane convinzioni, intesi? Voi non avete fatto nulla di male. Nessuna sete di sangue e carne umana vi anima, non siete una creatura sovrumana, non siete un mostro, non meritate di soffrire e di autopunirvi – lo sollecitò di nuovo. – Ho bisogno che rimaniate vigile e ragionevole. Inoltre, non mi fido a lasciarvi andare a casa, sapendo che vi fate del male quando non siete sotto la mia supervisione.
- Cosa volete fare, dunque?
- Stanotte resterete a dormire in una delle camere vuote della cattedrale. Poi domani vedremo cosa fare.
- Non nella cattedrale del Creatore – si oppose Folker.
- Allora in quella del Diavolo. Ma non avrebbe alcun senso la mia proposta, dato che non dorme più nessuno nella cattedrale del Diavolo e stareste solo. Facciamo in tal modo: se vi sentite a disagio qui, verrò ad occupare anche io una delle stanze vuote della cattedrale del Diavolo stanotte, accanto alla vostra, in modo che io possa controllarvi.
Il ragazzo annuì. A ciò, Judith lo congedò e iniziò a praticare la sessione su Beitris, come previsto.
 
Quando padre Craig entrò dentro la biblioteca della cattedrale del Creatore, sapeva che avrebbe trovato Judith al suo interno.
Ciò che non sapeva, è che l’avrebbe trovata profondamente addormentata, con la testa abbandonata sull’imponente tavolo, l’esplosione di capelli ancora bianchi come il latte sparsi sul legno scuro, a farle da raggi, seduta, in quella posizione spacca-schiena che non giovava affatto al bambino, il prete ne era più che certo. Così come non giovavano al pargolo neanche gli stretti corpetti neri che Judith si ostinava ancora ad indossare, solo lievemente più allentati del solito, ma pur sempre estremamente aderenti. Non c’era modo di convincerla a toglierseli. Ma d’altronde, padre Craig avrebbe giurato che Judith fosse l’unica donna al mondo che ci dormisse persino con quei malefici indumenti togli-respiro.
- Judith? Judith, mi sentite? – la risvegliò dolcemente, posandole una mano sulla spalla, quasi come si trattasse del fiore più delicato che avesse mai toccato. Sorrise dolcemente il giovane prete, beandosi dei suoi bellissimi lineamenti assonnati che, pian piano, riacquistavano vita e dinamismo, pur restando assopiti, donandole un’aria innocente e infantile che poco le si addiceva.
- Dove..? Padre? – biascicò la fanciulla, mettendo a fuoco la figura familiare e rassicurante dell’amico.
- Vi siete assopita nella biblioteca, cara – le disse prendendo posto nella sedia accanto a lei.
- Con questi capelli dorati faccio sempre fatica a riconoscervi. Come mai siete qui..? – gli domandò accennando un piccolo sbadiglio che si coprì con la mano delicata.
- Sono passato a trovarvi. Per sapere come state.
Judith gli sorrise in risposta, guardandolo con dolcezza. – Sempre così premuroso, padre.
- Potete biasimarmi? Insomma, quello che è accaduto due giorni fa allo spettacolo ha colpito profondamente tutti, voi soprattutto. Questo spettacolo lo preparavate e lo aspettavate da tempo..
- Non sono stata l’unica a prepararlo e ad attenderlo con ansia – rispose ella tristemente.
- Già. Hinedia si è svegliata?
- Non ancora. Tuttavia, mi sono già occupata dei monaci: oggi ho fatto venire i genitori di Hinedia a parlare con loro. Ho fatto da mediatrice per loro. Hinedia ora non corre rischi. Ho spiegato come sono andate le cose e ho mentito di sana pianta, dicendo che ha sempre sofferto di tali attacchi e disturbi, e che ben presto ne porrà rimedio con delle cure mediche. I genitori hanno dato man forte alle mie bugie. Se sarà necessario.. anche lei si sottoporrà a qualche sessione di purificazione.
- I suoi genitori vi saranno per sempre debitori.
- Non voglio nulla da loro. Desidero solo che Hinedia si riprenda e stia bene.
Padre Craig la osservò a fondo. – Vi siete molto affezionata a quella ragazza.
- Come non avrei potuto? Non era mia intenzione, inizialmente, farmela amica. Non sono mai stata brava con le amicizie, d’altronde. Tuttavia, Hinedia è brava a fare breccia nei cuori, con la sua dolcezza, la sua fede, la sua positività, la sua determinazione, nascosta e al contempo spavalda.
- Avete ragione. Sono certo che presto si riprenderà.
- Non sapete cosa darei per sapere cosa le sia accaduto..
Padre Craig si sentì terribilmente in colpa in quel momento.
Tuttavia, non avrebbe mai potuto rompere il patto che aveva con Ephram, Quaglia e Hinedia stessa, su cosa fosse accaduto quella funesta notte con il siero, per nulla al mondo.
Dunque, fece violenza a se stesso e tenne la bocca chiusa.
- La piccola Gwen come sta? – cambiò prontamente discorso.
- Stabile dice il medico. Non ci rimane altro che pregare per lei. Sono certa che si riprenderà, la mia piccola guerriera .. – disse sorridendo, cercando di nascondere gli occhi lucidi alla vista del prete. – Di certo di sostegno ne ha da vendere: è accerchiata da sette angioletti che pregano costantemente intorno al suo lettino, e che le portano un sacco di regali, ogni giorno. Ieri, vederli uniti in quel modo, intorno a lei... mi ha portato alla commozione. Sono davvero dei bambini speciali.
- Lo sono. Lo sono davvero. E durante lo spettacolo lo hanno dimostrato.
- Sapete, alcuni di loro mi ricordano Maroine e Maringlen. L’impetuosità di Edith ad esempio. O la forza di volontà di May. L’intuito di Kilian – disse viaggiando nei ricordi.
- Immagino vi manchino molto anche loro.
- Ora basta pensare a questi argomenti angusti, padre. O siete venuto qui per vedermi piangere per caso? – lo rimproverò giocosamente la ragazza.
Padre Craig sorrise in risposta. – Stavate sognando qualcosa, mentre stavate dormendo?
- Come mai questa domanda?
- Per nulla in particolare. Avevate uno sguardo beato, tuttavia... era come se qualcosa disturbasse il vostro sonno. Ma forse è solo una mia sensazione.
- A dir la verità, padre... ultimamente sto facendo degli strani sogni – rivelò ella, come se ammetterlo le costasse fatica.
- Che tipo di sogni?
- Non ne ho parlato con nessuno finora.. vanno avanti da qualche settimana. È come se non fossero sogni indotti dalla mia propria mente, ma dalla mente di qualcun altro.
Padre Craig sgranò gli occhi per la sorpresa. – Credete che qualcuno stia cercando di mettersi in contatto con voi tramite la magia nera?
- Ci ho pensato, ma...
- Magari sono i gemelli? Li avete citati poco fa.. e se avessero trovato il modo di usare la magia per contattarvi e chiedervi aiuto?
- No, non possono essere loro. Non possono semplicemente perchè... la donna che mi appare in sogno, corrisponde alla descrizione di una persona ben precisa, di cui la storia mi è stata narrata da Myriam. Credo che ... il nome della donna che stia cercando di mettersi in contatto con me sia Imogene.
- Imogene? Chi è costei?
- La zia di Maroine e Maringlen. Una donna che ha avuto un ruolo importante nel passato di Myriam. Una strega anche lei, ma rinnegata e isolata. Credo che nessuno abbia più notizie di lei da anni.
- E ... per quale motivo questa donna dovrebbe cercare di mettersi in contatto con voi?
- Non saprei – rispose ella poggiando la schiena sullo schienale della sedia. – Lei neanche dovrebbe sapere chi sono. Forse, con i suoi poteri... ma tutto ciò non avrebbe comunque alcun senso.
- Perchè voi?
- Ora che ci penso.. io e lei abbiamo dei trascorsi simili. Posso dirvi che lei non ha affatto una bella esperienza in quanto a maternità.. ha perso tragicamente due figli.
- Oh, Signore... e per quale motivo dovreste essere accomunata a lei? Voi non perderete il vostro bambino! - esclamò con clamore, stringendole la mano.
Judith gli sorrise dolcemente, di nuovo. – Padre, non potete saperlo. Siamo realisti: la levatrice ha detto che il mio sarà di per certo un parto molto difficoltoso, che potrebbe decretere la morte mia... o del bambino. Accettate questa consapevolezza, padre, vi prego. In modo che, quando arriverà il momento... sarete preparato.
- Non sarei mai preparato, Judith. Mai – affermò con dolorosa convinzione. – Lo avete già detto a ...?
- Blake? Ve l’ho detto, siete il primo a cui rivelo dei miei sogni. Avrei voluto parlargliene, ma... avrei voluto vederlo oggi, in realtà – lo informò poggiando mollemente il viso sul palmo della mano. – Ieri è capitata una cosa strana, di cui mi ha informata: Myriam, con un trucco magico, ha preso le mie sembianze per incontrarlo, fingendosi me anche davanti ai monaci e praticandogli la sessione purificatrice. Ero già restìa all’idea di sottoporlo a quella pratica barbara e insensata... la sola cosa che riusciva a rassicurarmi, era la consapevolezza che l’avrei fatto io, avrei tenuto sottocontrollo la situazione, magari evitandogli quanto più dolore possibile, almeno quello. E invece, Myriam ha preso il mio posto come se niente fosse.
- Ciò vi ha innervosita?
- Sì, e molto. Mi ha rubato del tempo con lui. Tuttavia, so che Myriam non farebbe mai del male a Blake. Nutre un affetto morboso nei suoi confronti, perciò non mi resta difficile credere che ha fatto di tutto per evitargli quanto più dolore possibile durante la pratica. Per quanto io possa essere arrabbiata con lei per aver rubato la mia identità, il mio ruolo e il mio volto, per ora mi basta sapere che le sue intenzioni fossero buone con lui, e che non riaccadrà più.
Padre Craig era rimasto meno sorpreso del previsto nel ricevere tale notizia: d’altronde, sapeva in cuor suo che Myriam avrebbe fatto letteralmente di tutto pur di parlare anche per poco con Blake.
- Ditemi, padre, voi come state?
Quella domanda lo colse impreparato, per un attimo. – Perchè me lo domandate?
- Che significa “perchè”? Perchè voglio saperlo, ovviamente. Chiedete sempre a me come sto, vi preoccupate del mio stato e della mia salute. Per una volta vorrei sapere io come state. Come state, padre?
Come stava?
Domanda più difficile del previsto.
Boccheggiò, incapace di rispondere.
Cosa avrebbe dovuto dirle?
Che stava gradualmente trovando la sua pace interiore e il suo posto in quel villaggio, ma che al contempo gli mancava sempre qualcosa? Un pezzo importante, troppo importante, che aveva un volto e un nome, o meglio due volti e due nomi?
Che stava cercando di andare avanti come poteva, sopportando il peso dei suoi peccati e dell’inedaguatezza di quella tunica, che gli stava sempre più stretta oramai, dinnanzi a Dio?
Che li amava? Li amava sempre più, e che neanche la lontananza avrebbe mai potuto lenire le sue pene d’amore?
No, niente di tutto ciò.
- Padre, siete trasparente come un libro aperto. Siate sincero con me e rispondete alla mia domanda: vi manca Blake?
Il prete si ritrovò di nuovo impreparato.
Le parole di Judith erano ancora impresse a fuoco nella sua mente da quella volta nella cattedrale, quando le aveva confessato l’amore che nutriva per entrambi.
Tuttavia, la voce della ragazza era dolce stavolta, non arrabbiata, infastidita, nè delusa.
Era sinceramente preoccupata per lui.
- Sì – ammise, vergognandosi come un dannato dinnanzi al fuoco della dannazione e al suo demone punitore. - Sì – ripetè, rimarcando quella parola come se non ne avesse mai abbastanza, e dovesse farlo sapere al mondo, urlarlo, anche se solo per una volta. – Mi manca. Molto.
- Immaginavo. Me ne ero accorta, sapete? Perchè non gli parlate?
- Parlargli dite..? E cosa potrei dirgli?
- La verità. Che questa lontananza vi sta facendo male. Che vorreste riallacciare il vostro legame come un tempo.
- Ma voi ... perchè mi state dicendo questo, ora? Credevo che, considerando come si è evoluto il vostro rapporto con Blake..
- Cosa? Che la gelosia mi trattenesse dall’aiutarvi? Mi ritenete davvero così bassa d’animo? Ciò che vi ho chiesto di non fare mai più, è di giocare sporco, cercando di dividerci con l’inganno. Sapete cosa c’è tra me e lui, oramai lo sanno tutti. E so che ciò vi fa male, inevitabilmente. Credete che mi piaccia, la consapevolezza che voi soffriate nel vederci insieme, felici..? – gli domandò stringendogli la mano, ferita. – Vorrei almeno che chiariste con lui, e che riniziaste a parlargli con la stessa naturalezza con cui parlate con me. So che ne avete bisogno.
- Judith.. Blake è cambiato da quando è tornato dal suo viaggio.
- Sì, lo so. Non è ciò che fanno tutti i viaggi?
- Sì, ma... temo che ciò che lui abbia vissuto là fuori... lo abbia segnato irreversibilmente. Insomma, ha raccontato anche a voi tutto ciò che gli è accaduto. Ha vissuto dei traumi inimmaginabili per qualsiasi uomo o donna, figuriamoci per un ragazzo della sua età. Traumi che lo tormentano ancora, costantemente. Ne sono certo, anche se non lo dice e non ne parla, facendo finta di niente. Io lo so. Lo scorgo. Lo conosco troppo bene.
- Lo so, padre. Me ne sono accorta anche io. Non riesce ad esprimere i suoi sentimenti. Forse non vi riusciva neanche prima, ma sicuramente ciò che gli è accaduto a Carbrey, tutta la violenza che ha subìto, ha imbrigliato la sua anima e la sua emotività strettamente.
- La violenza che ha vissuto l’ha cambiato. Ditemi, Judith, la violenza che avete subìto, sia da bambina che da parte di Naren, ha cambiato anche voi? – le domandò a bruciapelo, sorprendendola.
- Ovviamente – rispose la ragazza. – Ma in meglio. Mi ha resa quella che sono. Mi ha aiutata a crescere, ad individuare i miei obiettivi, i miei punti di forza e di difetto, mi ha resa più consapevole e decisa.
- Siete riuscita a farne il vostro cavallo di battaglia.
- Sì, ma non del tutto. La violenza di Naren brucia ancora sulla mia pelle, padre. Alcune notti non mi dà pace. Così come non mi dà pace non sapere esattamente cosa sia successo quella notte.
- Il sentimento è reciproco, ahimè.
- Ad ogni modo, padre, date retta a me – riprese Judith riattirando l’attenzione del prete sul suo bel volto. - Parlate a Blake. Posso garantirvi che se lo prendete con il piede giusto non morde. Mi renderebbe felice sapere che tra voi va tutto bene – lo incoraggiò ancora.
A ciò, il prete le strinse la mano nella sua e gliela baciò con devozione, prendendosi del tempo per osservarla.
Una strana sensazione gli agitava le viscere.
Come un bizzarro presentimento, senza importanza, ma che era in grando di paralizzarlo.
Il presentimento che quella fosse l’ultima volta che vedesse la ragazza, la sua Judith, così come la ricordava.
Cercò di scacciare via quella malsana sensazione e si congedò da lei, deciso a seguire il suo consiglio, di prendere tutto il coraggio che aveva in corpo e di parlare a Blake quella sera stessa.
 
Era un tramonto rosso carminio, con delle vaghe sfumature rosate.
La visuale del tramonto dal terreno della galleria era sempre uno spettacolo senza pari.
Il ragazzo l’osservò camminando a passo spedito, senza meta.
Era tornato in quel luogo, come sempre faceva, in cerca di risposte che non avrebbe ottenuto, non ancora.
Eppure, quel luogo ero suo, lo attirava come una calamita, catapultandolo lì con una frequenza imbarazzante.
Non faceva nulla, se non camminare, lì, sopra la galleria, su quel terreno sconfinato che nascondeva sotto di sè segreti inimmaginabili.
Infilò le mani in tasca, per ripararare almeno quelle dal vento freddo che gli scompigliava i capelli.
Camminò ancora, sovrappensiero, con lo sguardo perso nel vento e nel sole morente, fin quando una presenza non gli si palesò davanti, bloccandolo sul posto.
Blake sgranò gli occhi stupito, mettendo a fuoco la persona davanti a sè.
Piangeva. Hinedia piangeva a dirotto. Le guance rigate di lacrime fresce, lo sguardo contrito, addolorato, quasi disperato, eppure di una candidezza strana, quasi accecante.
Era diversa da come la ricordava, di nuovo.
Ora sembrava quasi una bambina dispersa, in cerca di una guida, innocente e pura come un fiore appena sbocciato. Nulla a che vedere con il mostro posseduto che aveva visto due giorni prima sul palco.
Blake la guardò accigliato, schiudendo la bocca, ma non sapendo cosa dire.
Chi altro sapeva che si fosse finalmente svegliata dall’incoscienza?
A quanto ne sapeva lui, nessuno...
- Hinedia? – provò a chiamarla.
La ragazza, dal canto suo, continuava a piangere, guardandolo da qualche metro di distanza. – Speravo di trovarvi qui... – singhiozzò lei.
- Chi sa che avete ripreso coscienza..?
- Nessuno – rispose lei, con voce ancora rotta dal pianto. – Appena mi sono svegliata sono venuta qui, senza neanche avvertire i miei genitori.
- E... perchè siete venuta qui?
- Blake... possiamo parlare? – gli domandò, con quella voce rotta, pura e supplichevole che avrebbe impietosito il più terribile dei carnefici.
- Certo – le rispose il ragazzo, dopo una pausa che parve durare secoli.
I due si diressero verso la locanda sopra la galleria che li aveva ospitati la prima volta che avevano deciso di trascorrere del tempo insieme. La prima volta che Blake aveva letto per lei, e che Hinedia si era permessa di guardarlo.
Era il luogo più discreto in cui potessero sostare, oltre ad essere il più vicino.
Fortunatamente, a quell’ora gli scavatori erano tutti tornati già dalle loro famiglie, per cenare e riprendersi dalla stancante giornata di lavoro. Tutti tranne Rolland, che, come d’abitudine, si trovava chissà a dove, ad allietare le sue frustrazioni nel letto di qualcun altro.
La locanda era semi-deserta, silenziosa, placida.
Presero posto ad un tavolino e il vecchio locandiere, come d’abitudine, si diresse verso di loro per prendere l’ordinazione. Quando Blake gli disse che non gradivano nulla, l’uomo se ne tornò dietro al bancone, lasciandoli soli.
Hinedia prese coraggio e cercò di placare le sue lacrime, che non ne volevano sapere di smettere di scendere.
Blake si trovava in difficoltà dinnanzi a lei. Non sapeva minimamente come approcciarla ora, nè come farla calmare.
- Grazie... di aver accettato di parlarmi – enunciò lei pulendosi convulsamente le guance bagnate con il bordo delle maniche dell’abito.
- Non dovete ringraziarmi.
- Invece devo. Devo ringraziarvi per avermi portato in questo posto, quel giorno. Devo ringraziarvi di aver letto per me. Devo ringraziarvi di avermi donato il vostro tempo. E la vostra amicizia.
- Hinedia, queste sono tutte cose per cui solitamente non si ringrazia nessuno.
Ditemi.. come vi sentite?
- Abbastanza bene.
- Bene. Questo è l’importante.
- Gwen è...?
- Ancora incosciente. Il medico non sa se si riprenderà.
- Mi piacerebbe andare a trovarla... – un altro conato di pianto la mosse dall’interno, costringendola a coprirsi la bocca, per non scoppiare nuovamente in lacrime al solo pensiero di ciò che aveva fatto a quella bambina.
- Non sarebbe saggio, temo. Judith ha convinto i monaci a non punirvi, tuttavia... credo che i genitori di Gwen siano ancora adirati per ciò che è accaduto – le disse schiettamente il ragazzo, sperando che non tornasse a piangere più dolorosamente di prima.
Gli faceva male vederla in quel modo.
Più male di quanto avesse immaginato.
- È da un po’ che non trascorriamo del tempo insieme – ruppe di nuovo il ghiaccio, vedendola annuire.
- Già.
- Perchè siete venuta a cercare me per primo?
- Avevo bisogno di parlarvi.
- Cosa volete dirmi?
Hinedia alzò il volto per guardarlo. I suoi occhi erano ancora lucidi e il doppio più grandi del solito.
I sensi di colpa la stavano schiacciando fino a toglierle il respiro.
- Vi chiedo scusa.
- Per cosa?
- Per tutto.
- Voi non mi dovete delle scuse.
- Invece sì. Le devo a tutti. Anche a voi.
- Per cosa vi state scusando?
Di mille risposte che avrebbe potuto dargli, scelse la più sciocca e facile da pronunciare:
- Quel giorno alla galleria.. mi sono comportata male con voi. Vi ho detto delle parole che non avrei dovuto dirvi. Da quel giorno mi sono allontanata da voi. Mi dispiace. Di avervi detto quelle cose e di aver preso le distanze.
- Hinedia, io sono il primo ad aver preso le distanze da voi – la esonerò lui, scaricando la colpa su se stesso.
Blake poggiò la schiena allo schienale della sedia e puntò gli occhi sulla finestrella che dava all’orizzonte, sempre più scuro.
- E perchè lo avete fatto? – gli domandò ella guardandolo.
Il ragazzo non rispose subito.
Gli era difficile pronunciare qualsiasi parola quel giorno.
- Non c’è un vero e proprio perchè. Ho preso le distanze da quasi tutti, credo. Eppure.. stare con voi mi fa stare bene. Mi rasserena. Mi sono privato di qualcosa che mi fa stare bene – realizzò.
A Hinedia tornò un’immensa voglia di piangere. Piangere di gioia e tristezza insieme.
- Vi è mai capitato... di sentire che qualcosa dentro di voi non vada? Di avere qualcosa di sbagliato dentro? Che vi corrode e pretende il predominio? Qualcosa che non riuscite a controllare, per quanto vi sforzate?
Blake la guardò assorto.
- Sì. Mi è capitato.
- E cosa avete fatto per porvi rimedio?
- Non vi ho posto rimedio. È sempre lì. Non se ne va mai. A volte.. mi trovo ad immaginare che sia tutto più semplice. Che basti desiderare qualcosa, che basti sforzarsi di comprendere... ma non è mai così.
Qualsiasi cosa facciamo, ci ritroviamo sempre punto accapo.
Non c’è mai fine, mai. E più vorrei smettere di cercare, trovare la pace e il riposo... più questa sensazione si intensifica, spingendomi ad oltrepassare tutti i limiti che mi sono posto.
È continuo, reiterante, sfiancante, ma non posso farne a meno.
Hinedia lo osservò ancora e ancora, avvertendo nuovamente i propri occhi lucidi. – Vorrei avere il potere di placare il vostro tormento. Vorrei possedere la soluzione che cercate.
- Ed io vorrei avere il potere di placare il vostro.
- Lo avete – gli rispose di getto, sorprendendolo. – C’è qualcosa in voi – cercò di spiegarsi la ragazza – che mi spinge a tornare sempre da voi. Anche oggi, appena ho riaperto i miei occhi dopo giorni di incoscienza.. la prima persona a cui ho pensato siete voi – si bloccò, distogliendo lo sguardo, non avendo più il coraggio di incrociare i suoi occhi con quelli di lui.
- Hinedia, non mi dà fastidio quello che state dicendo – la rassicurò il ragazzo con voce calma.
- Ah no?
Egli negò con la testa, accennandole un fievole sorriso. – Che male vi sarebbe?
Già, che male vi sarebbe?  riflettè Hinedia. Che male vi sarebbe nel desiderare solo un momento con voi?
Un momento semplice, come questo.
Pieno di domande e scarno di risposte.
Un momento in cui le nostre differenze perdono d’importanza.
Un momento in cui, negli abissi oceanici delle vostre iridi, leggo comprensione, rispetto, e anche un velo di preoccupazione che mi scalda il cuore più di mille sorrisi che mai mi donerete.
Un momento di condivisione umana, in cui le nostre anime si toccano e si distendono l’una verso l’altra.
Un momento innocente e immacolato, come gli occhi di un bambino.
Un momento di cui mai nessuno avrebbe l’ardire di privarmi. Nè il Diavolo, nè il Creatore.
Perchè voi siete voi e io sono io, voi siete un uomo e io una donna, e se vogliamo trascorrere un’intera giornata insieme, a parlare, a leggere, a mangiare, ad ammirare il cielo in silenzio, a guardarci, senza nasconderci dagli occhi altrui... nessuno può bruciarci al rogo per questo.
- Ditemi, Blake..: avete iniziato a credere in qualcosa? – gli domandò sorprendendolo ancora.
- No. Non credo in niente.
Hinedia percepì di nuovo il magone intensificarsi, salire in alto e raggrupparsi nei suoi occhi, contro il suo volere.
Blake schiuse le labbra, capendo che stesse per piangere di nuovo, intristendosi a sua volta.
La ragazza comprese che egli non riusciva più a guardarla piangere, ed era raro vederlo così vulnerabile, in un certo senso. Si conservò quell’immagine, l’immagine del suo volto in quel momento, custodendola nel cuore con cura.
Poi, Blake fece qualcosa che fu in grado di lasciarla di stucco.
Allungò un braccio sul tavolo e lo avvicinò, stringendole la mano.
Il suo palmo era caldo e morbido, e si incastrava perfettamente con le dita piccole di lei, la quale si lasciò andare e ricambiò calorosamente la stretta, liberando solo una lacrima di gioia, che scese giù dalla guancia incastrandosi nel suo sorriso.
- Vedrete che andrà tutto bene – le garantì Blake, uno sguardo sicuro e incoraggiante nel volto. – Si sistemerà tutto.
Nell’udire quelle parole, Hinedia ebbe voglia di scusarsi ancora e ancora, ma si impose di non farlo.
Annuì, accennandogli un sorriso grato e distrutto.
Andava bene così.
Non vi era nulla di male in quello che stavano facendo.
 
Blake tornò a casa quella sera, scosso da quell’incontro improvviso.
Si chiese cosa fosse successo alla ragazza e si vi fosse un modo per scoprire qualcosa in più a riguardo.
Sovrappensiero, si sfilò via il mantello e il soprabito, non accorgendosi della presenza di padre Craig a pochi passi da lui, sull’imbocco del corridoio.
- Siete tornato – sottolineò l’ovvio il giovane prete, solo per attirare la sua attenzione.
Il ragazzo si risvegliò dai suoi pensieri, voltandosi a guardare il prete, sorpreso. – Padre? Cosa c’è?
Il volto di padre Craig celava qualcosa, una preoccupazione, una confessione da fare.
Blake gli si avvicinò, in dubbio. – Dunque? Perchè mi stavate aspettando?
- Avevo intenzione di parlarvi. O, per lo meno, di chiedervi di parlare. Tuttavia, mentre vi aspettavo sul pianerottolo... qualcuno ha bussato alla porta.
Una... vostra vecchia conoscenza.
Gli occhi blu del ragazzo si sgranarono per la sorpresa. - Di chi si tratta, padre?
- Venite con me. Ve lo mostrerò.
Il prete gli fece strada verso la porta che conduceva alla fucina sotterranea.
Mentre scendevano le scale con una fiaccola accesa, padre Craig gli spiegò che lui e Quaglia l’avevano portata lì sotto per non farla vedere da Heloisa (nel caso la donna avesse deciso di uscire dalla stanza in cui si era rintanata) o da Ioan, anche lui in casa, non sapendo come avrebbero potuto reagire.
I sospetti di Blake si intensificarono sempre di più durante quella breve discesa, fin quando non se la ritrivò davanti ed ogni suo dubbio prese forma: spalancò gli occhi sconvolto, come se avesse visto un fantasma.
Davanti a lui, in piedi, coperta con un telo, infreddolita e intenta a scaldarsi con il fuoco della fornace accesa, vi era niente meno che la donna che lo aveva accompagnato per tutta la durata del suo tortuoso e indimenticabile viaggio fuori da Bliaint, in cerca della polvere nera.
- ...Selma?! – sussurrò con un filo di voce, non credendo ai proprio occhi.
La strega, dal canto suo, gli sorrise dolorosamente, non nascondendo tutta la gioia che provava nel rivederlo.
Una valanga di ricordi, più o meno atroci, invasero la mente del ragazzo, mentre le andava incontro totalmente incredulo, e lei lo raggiungeva a sua volta.
La donna gli si gettò addosso, avvolgendogli il busto con calore e aspettativa, affondando il volto nel suo petto. Lui ricambiò immediatamente la stretta, circondandole le braccia intorno alle spalle e premendo con una mano la sua testa contro di sè, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Avevano vissuto insieme tante, troppe vicende, per ignorare il legame che si era inevitabilmente creato tra loro.
Padre Craig schiuse la bocca per la sorpresa dinnanzi al soffocante abbraccio dei due, mentre Quaglia restò a guardarli assorto e felice.
Rimasero incollati in quella stretta per un tempo che parve eterno, scambiandosi tutto il calore, l’affetto e la mancanza che provavano.
Solo dopo diversi minuti, Blake sciolse l’abbraccio, allontanandosi di lei giusto il necessario per porle le mani sulle spalle e guardarla in volto.
La strega, dal canto suo, gli posò delicatamente una mano sul collo, solcato dalla lievissima cicatrice circolare, in un gesto tanto intimo da sembrare materno.
- È diventata quasi invisibile... ma c’è ancora – sussurrò lei. – La tua maledizione.
- Selma... cosa ci fai qui? Chi sa che sei qui?
- Nessuno. Appena arrivata a Bliaint sono venuta subito qui – parlò la donna, la sua voce era grave, più rauca del solito, come affaticata da un lungo cammino.
- Da quanto sei in viaggio?
- Sono stata sempre in viaggio, Blake.
Il ragazzo ebbe paura di chiederlo, ma trovò il coraggio di farlo: - E Sybil...? Non stavi viaggiando con lei alla ricerca di Fie?
- Sono ... accadute delle cose. Delle vicende di cui devi essere assolutamente informato – spiegò la donna senza rispondere alla sua domanda, un dettaglio che mise in allarme il ragazzo.
Selma gli prese le mani tra le sue e le strinse, abbassando lo sguardo. – Mettiti comodo, caro. Tutti e tre, se volete udire ciò che ho da dire – nonostante quelle parole, la strega rivolse uno sguardo diffidente verso padre Craig e Quaglia.
- Di Philippus mi fido. So che ha perduto la memoria ed è una persona nuova – disse rassicurando l’uomo, che le sorrise, per poi concentrare lo sguardo solo sul prete.
Notando ciò, Blake garantì per lui: - Non preoccuparti. Di padre Craig possiamo fidarci – disse con fermezza, guadagnandosi un’occhiata riconoscente da parte del monaco, per avergli permesso di restare lì, condividendo con lui un momento tanto intimo e importante. Blake non lo notò neanche e si avvicinò nuovamente a Selma, poggiando i fianchi sul tavolo di metallo davanti alla fornace, in attesa che ella parlasse.
La strega si pose proprio dinnanzi al fuoco. Le fiamme arancioni illuminavano il suo affascinante profilo aquilino nel buio.
- Dopo avervi lasciati, io e Sybil abbiamo navigato per giorni in mare, alla ricerca di mia sorella.
Avevamo una pista, degli indizi che ci conducevano oltre il mare, per cercarla.
Hai mai sentito parlare del conte Agloveil?
- No. Mai sentito.
- Non mi sorprende. D’altronde, Bliaint è isolata da tutto ciò che accade all’esterno, sostanzialmente, come fosse in una realtà parallela.
Ad ogni modo, è un uomo molto famoso nelle terre oltre il mare.
La sua ricchezza, la sua brama di possesso e la sua barbara lussuria sono note in tutto il continente.
Ad ogni modo, ci siamo imbattute nei suoi uomini per caso, una volta approdate nella nuova terra.
Mentre eravamo in mare abbiamo approfondito le nostre ricerche e abbiamo sentito parlare di alcune storie. Storie che riguardavano anche mia sorella.
- Che tipo di storie? – domandò il ragazzo, sempre più smanioso di sapere.
- Una leggenda. Una leggenda tramandata dagli alchimisti, riguardante un dio pagano, un dio molto potente che vomitò una pietra sulla terra, ingurgitata per errore. Essendo rimasta a contatto con la sua natura divina, la pietra avrebbe acquistato proprietà magiche e miracolose, come, ad esempio, il potere di creare un elisir in grado di donare la vita eterna, l’Elisir di lunga vita.
- Conosco questa storia – disse Quaglia, scavando nei ricordi della sua infanzia e pubertà, gli unici accessibili. - Mio nonno ne parlava, talvolta, prima di decidere di dedicare tutta la sua vita alla scoperta e alla creazione della polvere nera.
- Secondo le leggende, tale pietra, detta Pietra Filosofale, cercata sino in capo al mondo da ogni alchimista, non sarebbe solo in grado di creare l’Elisir di lunga vita, ma avrebbe anche un altro potere miracoloso – continuò Selma.
Blake si sentì raggelare, già avvertendo sottopelle ciò che la donna stesse per dire. - Quale altro potere...?
- Quello di tramutare i metalli in oro – gli rispose la strega fissandolo intensamente. Poi, riprese: - Io e Sybil abbiamo il sospetto che Fie si sia messa in cerca della Pietra Filosofale per ottenere l’Elisir di lunga vita.
- Per quale motivo pensi stia cercando l’Elisir di lunga vita? – domandò incuriosito Quaglia, intervenendo nuovamente.
- Per riportare in vita nostro fratello, Islay.
I tre pietrificarono.
- Resurrezione...? Qui non stiamo sconfinando nel campo del più che sovrannaturale..? – domandò in un fil di voce padre Craig.
- La resurrezione è un punto cieco persino per la magia nera, padre.
Oserei dire per ogni tipo di magia.
Per tale motivo Fie vuole cercarlo.
Sono certa... che la persona che abbia accettato meno la tragedia avvenuta alla nostra famiglia e il sacrificio di Islay... sia proprio mia sorella.
- Cosa c’entra tutto ciò con questo conte Agloveil? – domandò Blake.
- Tornando al dunque: io e Sybil, in seguito alle scoperte fatte durante la navigazione, una volta approdate nel nuovo continente, ci siamo imbattute in un uomo, uno dei soldati al servizio del conte, di cui noi non sapevamo nulla. Egli, con l’inganno, è riuscito a reperire delle informazioni importanti da noi, che poi ha riferito al suo sovrano.
A ciò, il conte, con l’immenso potere di cui dispone, ha ordinato ai suoi uomini di rapire me e Sybil e di portarci al suo cospetto. È qui che entri in gioco tu – disse la donna puntando nuovamente i suoi occhi scuri sul ragazzo dinnanzi a lei, vedendolo immobilzzarsi.
- Io...?
- A quanto pare, la voce riguardante un giovane e misterioso alchimista, che guarda caso si è rivelato anche essere un servo del Diavolo di Bliaint, che è riuscito a trasmutare del piombo in oro come se nulla fosse, si è sparsa sino al continente oltre il mare.
Il conte sapeva di ciò che hai fatto, Blake.
Ovviamente, nessuno conosce i dettagli dell’accaduto, dato che, saggiamente, prima di andartene via da quella casa infernale, ti sei premurato di tagliare la lingua e le mani del Giudice.
- Eppure è riuscito comunque a far spargere la voce... – Blake era pietrificato e parlava come se la voce non uscisse davvero dal suo corpo, come se si trovasse dentro un incubo.
- Tutto quello che si sa su di te, su ciò che ti è successo in quel villaggio e su ciò che ti ha fatto e hai fatto in quella fucina, risiede solamente in questo: un giovane servo del Diavolo di Bliaint è riuscito nell’impresa in cui centinaia di alchimisti hanno fallito.
Padre Craig si voltò a guardare Blake, trovandolo stralunato come non lo aveva mai visto.
Cosa Diavolo gli era successo davvero, nella casa del Giudice...?
- Continua – la spronò il ragazzo, con voce fredda e risoluta, contrastante con tutto ciò che trasmetteva il suo essere in quel momento.
- Il conte ha fatto torturare decine e decine di alchimisti che ha assunto al suo servizio, con l’unico scopo di ottenere da loro la trasmutazione dei metalli in oro.
Sempre più nobili, come lui, stanno tentando di arricchirsi maggiormente in questo modo, fallendo.
Il Giudice, essendo privo di mani e lingua, non è mai riuscito a dire il tuo nome, Blake.
Tuttavia... il conte ti vuole. Vuole trovarti a tutti i costi ed è disposto a tutto pur di averti.
Io... durante la mia prigionia ho visto di cosa è capace quel verme... – la sua voce si ruppe, abbassò lo sguardo, ingoiando a vuoto. – Non ho mai visto nulla e nessuno di tanto bruto, negli atti e nell’animo. Suppongo, inoltre, che il conte non sia l’unico a volerti.
- Se mi vogliono sino a tal punto e sanno che provengo da Bliaint... per quale motivo non ci hanno ancora attaccati? Hai detto che posseggono un esercito. Noi non disponiamo di alcuna forza armata, potrebbero invaderci e schiavizzarci in qualsiasi momento.
- Per lo stesso motivo per cui nessuno ha mai osato attaccare questo villaggio nei secoli dei secoli – rispose Selma.
- Per la divisione operata da Allister Chaim..? – ipotizzò la soluzione più scontata padre Craig.
- Perchè sanno che Bliaint è l’unico luogo in cui si pratica la magia nera indisturbatamente. L’unico luogo in cui i figli del Demonio abitano la terra e vivono pacificamente al fianco dei figli di Dio. Il luogo in cui si annidano oscuri misteri e maledizioni più di qualsiasi altro. Per questo siete intoccabili – rispose la strega. - Dunque, sì, per quanto odi ammetterlo, il prete ha ragione: è anche e soprattutto grazie ad Allister Chaim.
- Dunque... in fin dei conti, l’unico motivo per cui non stanno venendo qui a prendersi Blake con la forza, è perchè hanno... paura. Paura di voi, degli abitanti di questo villaggio – suppose Quaglia.
- Sono terrorizzati da voi servi del Diavolo – lo corresse Selma, rivolgendosi a Blake. – Come tutti. Sono terrorizzati quanto affascinati da voi. Temono che possiate maledirli e condurli all’inferno seduta stante, o far bruciare i loro corpi come pire con un solo battito di ciglia. Le leggende si alimentano. Per quale altro motivo credete che, nonostante l’estesissima fama della straordinaria e incomparabile bellezza dei servi del Diavolo di Bliaint, la quale supera i confini di tre continenti, neanche un singolo popolo è piombato qui a razziare questo villaggio con la forza bruta? Centinaia di regnanti, mercanti e chi più ne ha più ne metta, bramerebbero avervi tutti come schiavi, in quanto la bellezza è sempre giudicata a peso d’oro fuori di qui, oltre ad essere una dote estremamente rara. Eppure, mai nessuno è venuto a disturbare la vostra quotidianità monotona e ripetitiva. Mai nessuno ha osato macchiare e infettare la purezza del vostro sangue, tramandato da generazioni e generazioni di nascite strettamente controllate. Perciò, non temete, per ora siete salvi – detto ciò, la donna continuò con il suo racconto, facendo sempre più fatica ad andare avanti e immergersi nei dolorosi ricordi. – Fortunatamente il conte Agloveil non la minima idea che io abbia vissuto a Bliaint. Tuttavia, sapevano che io e Sybil stessimo cercando la Pietra Filosofale, la quale ci avrebbe portato da Fie.
Purtroppo, durante un interrogatorio particolarmente... sfinente e immensamente lungo per Sybil, il conte è riuscito a scoprire che ella fosse gravida di uno stregone di Bliaint.
Blake sbiancò nell’udire tale informazione.
- Il conte ovviamente ha esultato come un pazzo nel venire a conoscenza della notizia.
La possibilità di poter adottare e crescere come suo un figlio che ha il sangue di un servo del Diavolo della leggendaria Bliaint, per di più stregone, lo ha galvanizzato come non mai. Inoltre, avrebbe potuto usare quel bambino a suo vantaggio, ricattando gli abitanti di Bliaint, magari con lo scopo di farsi consegnare te.
Appreso ciò, il conte ha preso Sybil in moglie, mentre io sono rimasta sua concubina.
Entrambe alla sua mercé, abbiamo trascorso con quel mostro una settimana intera di supplizi.
Una settimana, fin quando... Sybil non ce l’ha più fatta e ha messo in atto un piano folle per scappare, cercando di informarmi come possibile.
Abbiamo rischiato entrambe la morte per scappare da quell’uomo.
- Ed ora Sybil dov’è?
- Non ne ho idea. Fuggite da lì, abbiamo dovuto dividerci per sfuggire ai suoi uomini.
Sto pregando incessantemente Lucifero e tutte le prime streghe per fare in modo che sia salva e ancora viva. Lei e il bambino che porta in grembo.
È solo grazie al Signore se sono riuscita a scamparmela, riuscendo a tornare qui per riferirti tutto.
- Mi resta difficile credere che il conte abbia lasciato correre così, rassegnandosi alla vostra fuga, soprattutto considerando quanto ritiene importante il bambino di Sybil.
- Difatti egli la sta cercando strenuamente. Per questo devo ritrovarla. Prima di lui. E una volta riunitami a lei, la porterò via e ci rimetteremo alla ricerca di Fie, se il Signore lo vorrà – terminò la donna, fissando intensamente i suoi occhi determinati sul suo giovane ex compagno di viaggio. – Blake – lo richiamò, avendo notato che fosse completamente in trance, con la mente catapultata altrove e lo sguardo perso. – Hai ben capito quanto sia delicata la tua situazione? Sono venuta qui per metterti in guardia, principalmente: il conte Agloveil sarebbe disposto a far gettare tutto il suo esercito tra le fiamme per averti, e l’unico motivo per cui non sei già tra le sue grinfie è nel sangue che ti scorre nelle vene, perchè sei un figlio del Diavolo. Se in qualche modo riuscisse a mettere le mani su di te, ti rinchiuderebbe dentro una segreta e non ti lascerebbe mai più vedere la luce del sole, saresti suo prigioniero, di sua proprietà, fin quanto non riuscirai a trasmutare tutto il piombo che ti darà in oro. E non oso immaginare cos’altro la sua mente perversa possa volerti fare - gli disse schietta, avvicinandosi a lui tanto da fronteggiarlo, guardandolo dal basso con decisione ed evidente preoccupazione. - Come sei riuscito a fare quello che hai fatto, a casa del Giudice?
Quella fatidica domanda da parte della strega arrivò come una lama conficcata in fondo alla gola.
- Io non ho fatto niente – asserì Blake guardandola stralunato.
- Che significa “non ho fatto niente”?
- Il Giudice si è inventato tutto.
- Per quale motivo si sarebbe dovuto inventare tutto...? A che pro?
- Io non ho trasmutato il piombo in oro! – alzò la voce, facendo tremare le pareti della fucina.
A ciò, Selma sembrò realizzare: - La tua azione. Ti sta perseguitando.
Blake si arrese, provando a calmarsi, nonostante avvertisse ogni parte di sè scalpitare per urlare a squarciagola e scappare via, da tutti. – Io non so come ho fatto. Dico davvero...
- Dunque.. è vero? Hai visto il piombo trasformarsi in oro assecondando il tuo volere?
- Credevo non lo fosse... ero convinto fosse solo la mia immaginazione e ne sono ancora convinto.
- Ma non può esser stata la tua immaginazione se il Giudice ha visto la stessa cosa... se i testimoni sono due, allora la faccenda assume le sembianze della realtà.
Blake negò ancora, più e più volte, convulsamente.
Non voleva crederci. Da una parte desiderava crederci, dall’altra avrebbe preferito dimenticare per sempre cosa fosse accaduto nella casa di quell’uomo.
Quell’uomo che l’aveva spinto a rinnegare la propria umanità.
- Blake... sei sicuro di non riuscire proprio a capire come possa esser accaduto?
- Sono sicuro. Non so cosa è accaduto in quel luogo, Selma... non lo so più.
- Quell’uomo... quel sacco di carne torbida ti ha fatto del male. Un male che non ti toglierai mai di dosso – decretò carezzandogli una guancia. – Mi dispiace. Rimpiangerò sempre di non aver fatto tutto ciò che era in mio potere per fermarlo. Perdonami, Blake.
Trascorsero dei momenti eterni, in cui i due si guardarono fissi, senza muoversi, con un misto di emozioni che si alternavano sui loro volti.
- Selma... – fu Quaglia a rompere il silenzio, poggiandole affabilmente le mani sulle spalle. – Resterai qui per la notte? Se rimarrai qua sotto nessuno ti vedrà. Potremmo portarti delle coperte e dei cuscini – propose.
- Sei molto gentile, Philippus. Tuttavia, devo rimettermi in cammino stasera stessa.
- Di fuori è buio, Selma. Non puoi ripartire ora – disse Blake, con un tono di voce apparentemente stabile e risoluto, tentando di riprendersi da tutto ciò che aveva appena udito.
Ma padre Craig non se la bevve. Neanche per un momento.
- Nessuno deve scoprire che sono stata qui. Nemmeno Ephram, Myriam e gli altri componenti della compagnia. Se scoprissero che sono tornata, cercherebbero di rintracciarmi. Voglio che siate al sicuro, tutti quanti. A maggior ragione lo voglio ora, che ho scoperto cosa c’è al di là del mare. Gli uomini del conte potrebbero essere sulle mie tracce. Non voglio mettervi in pericolo ed esporvi maggiormente. Inoltre, prima mi metterò in viaggio, prima troverò la nostra cara Sybil. Partirò ora – disse con convinzione, prendendo la sacca con le provviste che Quaglia aveva preparato per lei, recuperando tutte le sue cose, poi voltandosi verso il ragazzo un’ultima volta. – Spero che starai bene, Blake. Pregherò per te, sempre – gli disse rivolgendogli uno sguardo colmo di sincera affezione.
- Ti accompagno alla porta – le disse Quaglia guidandola per le scalinate.
Selma se ne era andata con la stessa velocità con la quale era apparsa alla loro vista.
Ora arrivava davvero il bello.
Rimasti soli nella fucina, Padre Craig si voltò a guardare Blake, trovandolo, come si aspettava, con i pensieri totalmente altrove, rivolti chissà dove. I suoi occhi erano svuotati, lo sguardo perso, atono, il corpo teso come la corda di un’arpa.
- Blake? – provò a destare la sua attenzione.
Il ragazzo si risvegliò lievemente, tuttavia non si voltò a guardarlo a sua volta, rimanendo con gli occhi fissi nel fuoco della fornace. – Salite anche voi, padre. Lasciatemi solo.
Il prete dovette mettere insieme tutti i residui di coraggio rimastigli, tutta la forza di volontà che non aveva mai posseduto, per rispondergli come voleva rispondergli.
Perchè Blake è questo che faceva, e che aveva sempre fatto con lui: spingerlo oltre i suoi limiti. Spingerlo dove non era mai stato in grado di arrivare.
E lo faceva inconsapevolmente.
- No – gli rispose ostentando una decisione che lo spaventò quasi.
Tale risposta fu finalmente in grado di attirare l’attenzione dell’oggetto dei suoi pensieri su di sè, portandolo a voltarsi verso di lui.
Blake alzò un sopracciglio, contrariato. – “No”..? – ripetè.
- No – confermò il prete.
- Cos’è, ora avete deciso di non lasciarmi tregua neanche durante la notte?
- Blake, è un mese intero che vi sto lasciando tutta la tregua del mondo. A malapena ci scambiamo due parole, da settimane. Siamo divenuti quasi due estranei, ve ne siete accorto?
- Dobbiamo parlare di questo proprio ora..?? – era evidentemente scosso, nervoso, spaventato, per tutto ciò che Selma gli aveva detto.
Forse non era davvero il momento adatto per parlarne, pensò il prete.
Tuttavia... vi era una parte di lui, che silenziosa non lo era mai stata, che stava urlandogli di affrontarlo, di affrontarlo ora, di petto, perchè se non lo avesse fatto quella notte stessa, non avrebbe mai più avuto un’altra occasione per farlo.
Inoltre, non se la sentiva di lasciare il ragazzo solo, dopo tutto ciò che aveva udito.
Anche contro la stessa volontà del soggetto in questione, gli sarebbe rimasto accanto. Lo avrebbe sostenuto, lo avrebbe ascoltato e appoggiato, come sempre avrebbe voluto fare, rimanendo al suo fianco.
- Se non volete parlare di questo, parliamo invece di come vi sentite al momento, di che cosa vi sta palesemente turbando da più di un mese, da quando siete tornato da quel maledetto viaggio che non avreste mai dovuto fare – sputò fuori tutto d’un fiato, riuscendo nella folle impresa di lasciare Blake attonito.
- Che cosa ne volete sapere voi, di cosa avrei o non avrei dovuto fare..? – gli rispose velenoso il ragazzo.
- È così sbagliato voler essere vostro amico? È così strano per voi, soffrire per le sofferenze di qualcun altro?
Blake scoppiò in una risata derisoria in risposta. – E voi, padre, cosa diavolo ne volete sapere delle mie sofferenze?!
- Raccontatemele voi allora!
Padre Craig ne era certo: lo stava facendo arrabbiare davvero. Ma dato che, ultimamente, tutto ciò che riusciva a fare è farlo adirare, tanto valeva andare fino in fondo. – Raccontatemi cosa avete patito, cosa sentite, cosa vi tormenta, e io vi ascolterò! – ripetè, deciso a non mollare.
- Vi ho già narrato cosa è accaduto in quel luogo. Mi pare di essere stato abbastanza esplicativo e generoso di dettagli. Cos’altro vorreste sapere, ancora?
L’atmosfera si stava scaldando. Se prima la fornace accesa era un gradito rimedio al freddo che la sera portava con sè, ora stava diventando un supplizio che portava i loro vestiti ad appiccicarsi al corpo a causa del sudore.
Padre Craig iniziò a sentire davvero caldo dentro la sua pesante tunica monacale, sicuramente anche a causa della concitazione del momento, si ripetè, cercando di respirare adagio.
Blake, dal canto suo, sembrava non risentire del calore che abbracciava il suo corpo sin troppo irruentemente, come sempre: se ne restava nel punto della stanza più vicino alla fornace, dava le spalle alle rosse lingue di fuoco, le quali illuminavano la sua figura in modo a dir poco ipnotico.
- Per quale motivo vi state ostinando a rivangare questioni che non vi riguardano, e per di più irrilevanti in questo momento? – lo ridestò nuovamente Blake.
- “Irrilevanti”..?? Blake, siete stato torturato, quasi affogato e assiderato dentro un abbeveratoio, quasi strangolato brutalmente in pubblica piazza e imprigionato dentro uno scantinato per giorni! Avete toccato la morte con mano, vi siete praticamente scontrato con essa, per poi venire ritrascinato indietro contro la vostra volontà, inerme e privato persino della facoltà di parlare. Con che coraggio chiamate tutto ciò “irrilevante”..? Per quale motivo minimizzate in questo modo tutto il male che vi colpisce?
- Io non sto minimizzando nulla.
- Invece sì! – padre Craig ringraziò mentalmente che la fucina fosse molto più isolata dal resto della casa, e che vi fosse anche la fornace accesa: per quanto avessero urlato forte, nessuno li avrebbe uditi dentro l’abitazione.
- Non vedo il motivo di ritirare fuori ora tutto ciò! Non ha senso stare a rivangare quello che mi è accaduto! Non porta alcun giovamento a nulla e a nessuno!
- Lo porterebbe a voi, perchè vi aiuterebbe a metabolizzare, ad elaborare tutte le ingiuste e tremende violenze che avete subìto, per riuscire pian piano a superarle... perchè è a dir poco evidente che non le avete superate, non sareste umano se così non fosse.
Affrontarlo lo stava sfinendo. Lo stava consumando e rigenerando insieme. Sì, aveva intenzione di andare fino infondo questa volta con lui. Non gli importava se Blake non volesse. Non gli importava.
Tuttavia, ora Blake stava mostrando uno sguardo che non gli piaceva per niente.
Uno sguardo che fu in grado di paralizzare il giovane prete, immobilizzandolo sul posto.
Il ragazzo dinnanzi a lui era internamente, intensamente addolorato, spezzato, e, al contempo, esternava ed ostentava una forza, negli occhi e nel volto, quasi inumana.
Forza d’animo mista a rabbia cieca, a freddo odio, a fuoco delirante e represso, a frustrazione, ad una miriade di emozioni, tutte ugualmente catastrofiche e turbolente.
Ed ora, quell’espressione sul volto del ragazzo era tutta per lui.
- Cosa volete sentirvi dire, esattamente, padre...? – gli domandò allora Blake, con voce ora calma, apparentemente calibrata, facendolo rabbrividire. – Che non chiudo più occhio da quando sono stato in quel luogo? Che sono perseguitato dal fantasma di una bambina morta per l’atrocità che sono stato costretto a commettere? Che vedo il volto accecato, mozzato, sfigurato del Giudice ogni volta che chiudo gli occhi? Che ho il terrore paralizzante di immergere la testa sott’acqua? Che ogni volta che apro bocca per parlare, temo di aver perduto la voce una volta per sempre? Che sono letteralmente divorato dal senso di colpa, ma non per ciò che ho fatto al Giudice, bensì per la totale mancanza di pentimento nei confronti di quello che ho fatto al Giudice? Che ogni dannata volta che qualcuno mi tocca, devo sopportare a denti stretti e scacciare via con tutto me stesso il terrore che quel qualcuno mi circondi il collo e inizi a stringere senza fermarsi più?
È questo? È questo che volete sentirvi dire? – I suoi occhi, due pozzi blu in preda ad una bufera, erano lucidissimi. Tanto lucidi, che due lacrime non ci misero molto a piombare giù, solcandogli gli zigomi e schiantandosi una sulle labbra, e l’altra sul taglio della mascella.
Padre Craig era esterrefatto, paralizzato, pietrificato.
Non lo aveva mai visto piangere e non sarebbe stato un eufemismo dire che si aspettava di raggiungere la tomba prima di vedere il viso di Blake rigato dalle lacrime.
Il giovane prete lo guardava a bocca aperta, incapace di muoversi o di emettere alcun suono, in seguito a ciò che aveva udito.
Finalmente, ci era riuscito.
Era riuscito a farlo uscire fuori , tutto quell’insostenibile dolore.
Lo aveva scovato, lo aveva tirato fuori da lui, ed ora... lo aveva spezzato.
Era davvero questo che voleva?
La situazione si era rivelata peggiore di quel che pensasse ed ora doveva fare i conti con ciò.
Doveva fare i conti con la furia che aveva scantenato nella creatura dinnanzi a sè, splendida e pericolosa, imprevedibile e indomabile.
I sensi di colpa cominciarono ad invaderlo.
- Rispondete!! – urlò il ragazzo, facendo tremare le pareti con la sua voce giovane e potente.
- Blake...
- Oh, risparmiatemelo. Risparmiatemi quel patetico sguardo di scuse che vi si dipinge in quella faccia da bestiola ferita, ogni volta che mi guardate. Non lo sopporto più.
Se solo avesse saputo...
Se solo avesse capito.
Se solo fosse stato più pieno di sè, Blake si sarebbe accorto di certo di come il giovane prete davvero lo guardava.
Quali pensieri ribelli invadevano selvaggiamente la sua mente ogniqualvolta lo scorgeva in giro per casa;  ogni volta che lo vedeva legarsi i capelli in alto, in uno crocchia scomposta e disordinata, lasciando scoperta la nuca deliziosamente ambrata e delicata, ma di una raffinata delicatezza che non lo rendeva meno uomo; quando lo intravedeva indossare quei rari vestiti leggeri, che si azzardava a mettere solamente tra le calde mura di casa, nel tepore dell’atrio scaldato dal camino, tessuti che gli fasciavano l’addome piatto e slanciato, e la curva del busto stretto, non lasciando tregua agli occhi impenitenti del giovane prete, i quali non sapevano più dove posare lo sguardo, calamitati da tutto di lui, e vagavano avidi e di nascosto percorrendo schiena, gambe, collo, spalle, petto, mai sazi della figura di quel ragazzo oramai divenuto il suo peccato vivente, la personificazione della sua propria vergogna, della torbida oscurità e inadeguatezza dinnanzi a Dio. E quella peccaminosa creatura non gli lasciava tregua neanche nel sonno.
Perchè se il desiderio per Judith era mellifluo e dolce, appiccicoso come il miele e rinfrescante come il battito d’ali di un angelo, l’angelo che la fanciulla impersonificava nella sua testa; il desiderio per Blake, al contrario, era qualcosa di diabolico e contorto, di pericolosamente vorticoso e scalpitante, sinistro e intenso come solo l’amore nei confronti del demonio poteva essere, il demonio che era quel ragazzo.
Eppure, padre Craig sapeva benissimo che Blake e Judith fossero pieni di sfaccettature, che non erano solo quello che sembrava ma molto, molto di più.
Ora, ora che lo guardava dinnanzi a sè, illuminato da quelle lingue di fuoco ardenti, come una bellissima arpia dalle sembianze maschili, con lo sguardo velenoso e astioso, pronto a sputare veleno alla prima occasione, anche ora, anche in quel modo, padre Craig lo amava.
E forse, lo amava ancora di più.
Ma ora, Blake, sembrava aver capito qualcosa.
E quello sguardo, ancora una volta, non tramsetteva nulla di buono.
Soprattutto perchè, stavolta, era uno di quegli sguardi consapevoli, quelli che incutevano in assoluto più timore se dipinti sul volto di Blake.
Il ragazzo ora inclinò la testa di lato, mollemente, mentre continuava a perforargli lo sguardo con i suoi occhi. - Voi volevate portarmi a questo. Volevate vedermi così. Volevate farmi adirare con voi. Per quale motivo?
- Cosa... cosa intendete? – balbettò il prete.
- Sappiamo entrambi che la vostra vita sarebbe infinitamente più semplice senza di me.
Ne avete avuto una prova ampia e palese in questo ultimo mese: non ci siamo quasi scambiati parola, e voi sembrate più rilassato, più in pace.
- Non è affatto vero. Ho sofferto per la vostra lontananza.
- Per quale motivo?
- Che cosa...?
- Vi ho appena chiesto: per quale motivo – il ragazzo rimarcò ogni singola parola, facendola piombare sulla schiena del giovane prete come un gravosissimo macigno. – Per quale motivo avete sofferto la mia lontananza nonostante, oramai è risaputo, ogniqualvolta che io e voi comunichiamo, nove volte su dieci finiamo per discutere? E otto di queste nove volte, l’epilogo siete sempre voi che mi fate innervosire, che mi date sui nervi per un motivo o per un altro e assorbite in silenzio le mie parole taglienti, tentando debolmente di controbattere, oppure di placarmi, inutilmente.
Non è sfinente, per voi...?
- Cosa state insinuando..?
- Per quale motivo continuate a starmi appresso, padre? – rimarcò crudelmente quell’ultima parola, avvicinandosi di un passo. – Io sono davvero una persona difficile da trattare e ciò è risaputo. Oserei dire impossibile, per certi versi, e quando sono con voi questa mia “qualità” raggiunge vette mai viste. Qualunque persona, al posto vostro, odierebbe starmi accanto.
- Ora siete crudele...
- Ecco, vedete come fate? Continuate a dire che sono “crudele”, “perfido”, quando, in realtà, mi sto semplicemente esprimendo nel più onesto dei modi, e neanche nel più schietto e privo di tatto, a dir la verità, ma voi trovate comunque “perfide” le parole che escono dalla mia bocca – disse fintamente innocente, avvicinandosi di un altro passo.
Si stava vendicando, nel peggiore dei modi.
Il ragazzo stava giocando decisamente sporco, e padre Craig non potè fare a meno di pensare di meritarselo.
Avrebbe accettato la pena più atroce del mondo se questa fosse venuta da Blake, e questo, questo non era sano.
- Ma il fatto è, padre, che io “crudele”, nella vostra bizzarra e contorta definizione del termine, lo sono stato sin dal nostro primo incontro.
Dunque, rispondete alla mia domanda: chi vi costringe ad avere a che fare con me?
- Non mi costringe nessuno. Semplicemente, tengo a voi, vi considero un caro amico. Per voi è così illogica come spiegazione?
 - E non siete stanco? Stanco di tentare? Di tentare di starmi accanto e di farmi da ombra?
- No, non lo sono. Dove volete arrivare?
- Non lo so, ditemelo voi.
- Credevo che anche voi teneste alla nostra amicizia.
- Non ho mai detto il contrario.
- Dunque? Perchè vi ostinate a voler trovare qualcosa che non ha ragion di essere? L’amicizia, l’affezione, il rispetto e l’ammirazione sono la risposta che cercate, sono ciò che mi legano a voi.
- Perchè non ve ne siete ancora andato da Bliaint, padre?
Quella domanda secca lo lasciò di stucco, facendolo sbiancare.
Quel ragazzo lo avrebbe fatto impazzire.
- Il vostro compito è terminato da un pezzo, avete tutti gli elementi che vi servono per dare inizio alle trattative commerciali.
Sareste dovuto essere di ritorno ad Armelle settimane fa.
Invece... siete ancora qui.
Perchè? – incalzò ancora il ragazzo, poggiando l’anca al bordo del tavolo d’acciaio, l’unico blando elemento che li distanziava.
Sì, decisamente, lo avrebbe fatto impazzire.
- State forse insinuando che io sia rimasto qui per voi..?? – trovò l’inumano coraggio di domandargli padre Craig, dissimulando quella tremenda e scomodissima verità dietro un forzato tono di scherno e di falsa incredulità.
- Oh no, non sono tanto presuntuoso da pensare una cosa simile.
Dovreste esserlo, invece,  perchè il solo vago pensiero di dividermi da voi mi mozza il respiro in gola.
Eppure, infondo, lo avete compreso, non è vero?
Quindi, in realtà, lo siete.
Oppure io vi ho costretto ad esserlo.
Quando siamo arrivati a questo?
Quando sono arrivato a questo?
Avete compreso, Blake.
Eppure, non volete vedere.
Vi rifiutate di vederlo, di accettarlo.
Vi girate dall’altra parte, incurante, perchè avete cose ben più importanti a cui pensare.
Questa verità scomoda è solo una fastidiosa scocciatura per voi.
Mi volete bene. Lo so. Lo vedo. Vi conosco.
Non ho dubbi riguardo a quanto teniate a me, come un buon amico, strano ma fidato, a cui affidereste anche la vita. A cui affidereste persino la cosa a voi più cara al mondo: la vita di vostro fratello.
E di questo, di questo non potrei mai essere più grato, perchè so bene che la fiducia per voi non è affatto scontata.
Il solo fatto che mi sproniate così tanto, che mi spingiate sempre a superare i miei limiti, col vostro metodo contorto e scorretto, ne è la dimostrazione.
Io non vi odio. Non potrei mai odiarvi.
Anche se non vi amassi così tanto, anche se non vi amassi affatto, non potrei odiarvi.
Sarebbe impossibile per me.
Dio mi ha creato privandomi della capacità di odiarvi.
Non andrete oltre, non mi farete confessare ciò che ho da confessarvi, perchè sarebbe troppo anche per voi.
Con Judith ho potuto farlo, ma con voi no.
Con voi non si può parlar d’amore, perchè dall’amore fuggite via, come un fiore che fugge dal vento che lo rincorre.
Con voi non è possibile.
Perchè rendete tutto impossibile.
Perchè siete impossibile.
Ed io mi sono rassegnato a ciò tanto tempo fa, mettendomi l’anima in pace.
Per me, rinunciare a voi, ad avervi, non è una vera rinuncia, non potrebbe esserlo.
Tutto ciò che desidero è restarvi accanto, e questo mai cambierà.
Siete destinato a compiere grandi gesta, ed io vorrò essere presente quando darete sfoggio al mondo di tutto il vostro genio.
Questo è tutto ciò che chiedo ed è tutto ciò che potrei mai chiedere.
Nonostante, talvolta, il mio corpo, divenuto sempre più ribelle a causa vostra, scalpiti per avere di più, per ottenere un assaggio di ciò che mi è dolorosamente proibito.
Ma io riesco a tenerlo a bada.
Riuscirò a tenerlo a bada, anche se ciò richiedesse sfogare le mie frustrazioni nel letto di qualcuno che non possiederà mai neanche un pallido accenno del vostro profumo, o di quello di Judith.
Mi chiederete se vi lascerò mai, Blake?
La mia risposta la sapete già, in fondo al vostro cuore.
La sapete dal nostro primo incontro, dalla prima volta in cui i vostri occhi hanno incatenato i miei in un limbo senza fine, quella sera fredda e umida.
Oramai la mia anima è perduta.
Ma Dio lo sa, lo sa che ne è valsa la pena.
Blake si voltò verso la fornace, dandogli le spalle.
Padre Craig si ritrovò a bocca asciutta, non sapendo come continuare.
Almeno  si disse.. lo aveva smosso.
Aveva prodotto una reazione in lui, che non sarebbe stata dimenticata tanto facilmente.
Aveva attirato la sua attenzione.
Improvvisamente il pensiero di Judith che gli consigliava amabilmente di parlargli per risolvere ogni contrasto lo invase come un fiume in piena.
Il volto della ragazza si frappose ai suoi pensieri.
C’era una domanda che voleva fargli, che gli vorticava tra la gola e le labbra, impaziente e irriverente, senza dargli pace.
Oramai, dato che il danno era fatto... sarebbe andato fino in fondo, si ripetè:
- Per quanto riguarda Judith, invece?
A tale domanda, le spalle del ragazzo ebbero un fremito.
Nonostante gli desse la schiena, padre Craig lo osservò attentamente, cercando di carpire ogni sua minima reazione. Si sarebbe fatto torturare ripetutamente per poter vedere l’espressione sul volto di Blake in quel momento.
- Cosa c’entra lei? – gli rispose lui con voce apparentemente atona, dopo un tempo che parve infinito.
- C’è che sono suo amico, lo sapete. Non voglio vederla soffrire – mentì solo in parte. Aveva detto la verità, ma non era propriamente questo il motivo per cui bramava una risposta da lui. – Per tale ragione ve lo domando schiettamente: cosa provate per lei? Perchè, nel caso non vi sia ancora chiaro, sono certo che lei stia iniziando ad amarvi. Ad amarvi realmente – pronunciare quelle brevi parole gli costò caro. Gli costò un groppo alla gola che minacciò di lasciarlo senza fiato e una fitta al cuore.
Blake non rispose. Rimase immobile, dandogli ancora le spalle, esasperandolo col suo silenzio ostinato.
Il fatto che lo avesse messo in difficoltà solo nominando il nome della ragazza, una presenza sin troppo ingombrante tra di loro, era già una dimostrazione sufficiente.
La dimostrazione che a padre Craig serviva.
- Allora? – lo incalzò il prete. Non era mai stato tanto impaziente in vita sua. – Che intenzioni avete con lei? Cosa provate per lei?
Sforzatevi. Sforzatevi di manifestare le vostre emozioni. Forzatevi a lasciarne uscire, almeno un po’, in modo che io possa comprendervi.
Anche se comprendervi, temo che non ci riuscirò mai.
Blake gli fece il dono immenso di voltarsi nuovamente verso di lui, regalandogli l’espressione che plasmava il suo viso: un’espressione di difficoltà, di lotta con se stesso, ma palesemente, irrimediabilmente in balìa del pensiero della fanciulla.
Padre Craig si diede dello stupido per ostinarsi a farsi del male in quel modo.
Infondo lo aveva notato, lo aveva notato bene, come Blake ridesse, ridesse in quel modo unico solo in presenza di Judith.
- Cosa volete sentirvi dire esattamente?
- Se la amate. Se la ricambiate – insistette, trattenendo il respiro ad ogni parola che pronunciava, mentre lo guardava.
- Io... non lo so. Non lo so ancora.
Io invece sì, ahimè.
- Come potete non saperlo? Se amate qualcuno o no?
- Per voi è così semplice? Parlate dell’amore quasi come fosse un campo di cui avete fatto un’invidiabile esperienza. Ma come avreste potuto? Siete un prete. Un uomo di dio. Quando avete avuto modo di fare tutta questa esperienza sull’amore, l’amore erotico e sentimentale?
Di nuovo, si ritrovò alle strette, di nuovo ci si era praticamente messo da solo con le spalle al muro, Blake aveva solo assencondato il suo masochismo.
- Non lo so, difatti. Ma vorrei saperlo. Vorrei saperlo da voi.
Non leggete ogni mio tentativo di approcciarvi come un tentativo di attaccarvi, Blake – era stanco. Sfinito e spossato da quella conversazione. Aveva voglia di chiudersi in una stanza e di piangere fino all’indomani mattina. Ecco cosa aveva voglia di fare. Dunque, si arrese, non riuscendo a fare a meno di aprirgli il cuore, almeno un minimo.
Il ragazzo rimase interdetto a quelle parole.
- Non tutti vogliono attaccarvi – riprese il prete, con voce stanca e semi-rotta. – Io non ho mai voluto questo. Tutto ciò che ho sempre voluto è provare a leggervi.
Leggervi... per capirvi.
Siete sempre stato un grande mistero per me, Blake. Non ho mai voluto altro che questo: comprendervi.
Per riuscire ad approcciarmi a voi nel modo giusto, senza ferirvi, nè irritarvi o infastidirvi.
Siete sempre stato una persona difficile, lo so.
Ma ciò non mi ha mai fermato.
Fosse per me, se solo ne avessi i mezzi e le capacità, combatterei io stesso contro coloro che vogliono ferirvi, perchè l’ultima cosa che voglio è che vi venga fatto del male, fisicamente o mentalmente.
Le mie intenzioni con voi sono nobili – serrò le labbra, dopo aver detto tutto ciò.
Non ebbe più il coraggio di guardarlo, perciò abbassò lo sguardo afflitto, mentre Blake continuò a fissarlo, attonito.
Trascorsero alcuni minuti di silenzio, fin quando la voce ora più placida e vagamente incerta del ragazzo non giunse alle sue orecchie:
- Judith mi ha proposto di sposarci. Di sposarci realmente. Non solo per reggere la farsa davanti ai monaci.
Padre Craig si sentì gelare il sangue a tale confessione.
- E voi...? Cosa le avete risposto? – esalò in un fil di voce, continuando a tenere lo sguardo basso.
- Penso che le dirò di sì. Nonostante io non abbia mai neanche lontanamente pensato al matrimonio, e non sappia cosa sia l’amore.. so che non riuscirei a vedere altri che lei al mio fianco.
Il silenzio tombale piombò tra i due, colmato solamente dal rumore della fornace.
- Bene. In tal caso... sarei felice per voi.
- Grazie.
- Ora torno di sopra.
Ma mentre prese quasi a correre per raggiungere le scalinate e allontanarsi da lì il più in fretta possibile, Blake richiamò di nuovo la sua attenzione, facendolo arrestare dopo aver percorso solo i primi due scalini:
- Padre.
- Sì?
- Io non vi ho tagliato fuori dalla mia vita nelle ultime settimane. Ho tagliato fuori tutti. Non era mia intenzione allontanarvi davvero – gli rivelò. – Perciò, potete approcciarvi a me, venire a parlarmi, ogniqualvolta desiderate. Non vi rifiuterò, nè scapperò via da voi.
Un feroce brivido di aspettativa si accese come un fuoco dentro il povero cuore del prete, distrutto, calpestato, frantumato, poi fasciato e blandamente curato da Blake, che soffiava aria fredda sulle sue ferite, con diabolica e incurante inconsapevolezza.
Padre Craig accennò un lieve sorriso, riprendendo a salire le scale. – Bene.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 40
*** Che sia giusto che sia sbagliato ***


Che sia giusto  
che sia sbagliato  

 
 (Gli eventi accadono la stessa sera/notte del capitolo precedente)
 
Judith, con solo la vestaglia bianca a fasciarle il corpo procace, scese le scale della cattedrale del Diavolo quella notte, vuota, se non per l’unica presenza sua e di Folker, il quale dormiva in una delle stanze accanto alla sua.
Aveva proposto quella soluzione temporanea per poter controllare il ragazzo ed evitare che facesse pazzie, ma se ne stava già pentendo: quel luogo sapeva di morte, di massacrante nostalgia. Le ricordava tremendamente i primi anni della sua vita vissuti lì, colmi di incubi in cui imperavano mani grandi, invadenti e per nulla gentili, che si muovevano su di lei.
Le ricordava quel mostro con un volto e un nome ancora troppo reali nelle memorie della fanciulla, che entrava nella sua stanzetta grande e dorata, di notte, furtivo, infilandosi in quel letto troppo grande per ospitarla.
Il dolore, gli abusi, la sofferenza, il silenzio.
Quel luogo era un orribile covo di ricordi troppo vividi.
Si era stabilita a dormire nella stanza da letto di una monaca che si chiamava Gerthrud. Anche lei massacrata dagli stregoni durante la ribellione.
Judith si era persa a leggere i suoi diari sepolti dentro il cassetto del comodino, dato che quella notte non riusciva a dormire.
Troppi pensieri dominavano la sua mente.
Troppi pensieri e troppe persone.
Si inginocchiò dinnanzi all’altare, rabbrividendo per il freddo provato alle ginocchia, a contatto con il pavimento gelido.
Si ritrovò a pensare che non le sarebbe affatto dispiaciuto addormentarsi tra le braccia di Blake.
Non avevano ancora avuto l’occasione di dormire insieme, pensò amareggiata.
Improvvisamente, la sua mente iniziò a vagare un po’ troppo, in orizzonti sconfinati: si immaginò in una casa, intenta a cucinare qualche disastro culinario in una cucina luminosa e spaziosa, con i suoi soliti abiti eleganti, il corpetto ben stretto addosso, ma sovrastato da una tenera pannella per non farlo macchiare.
Si immaginò felice, spensierata, intenta a canticchiare qualcosa, mentre, di tanto in tanto, gettava un’occhiata al tomo lasciato sul tavolo, aperto su una meravigliosa poesia.
E proprio mentre leggeva un verso, leccandosi le dita sporche di residui di pastella, dalla porta dell’atrio faceva il suo ingresso un Blake col fiatone, sporco di polvere e di carbone, di ritorno dalla galleria, con un sacco di cose da dirle, esaltato e iperattivo come se lo immaginava dopo una produttiva giornata di scavi, in cui aveva scoperto pietre e metalli mai visti prima, che cercava da tempo.
Lui le parlava di tutto e di più, con i capelli castani scarmigliati e impolverati, bello come non mai, mentre lei gli sorrideva perdendosi la metà di quello che diceva. E lui le sorrideva di rimando, privo di tutti i tormenti che aveva, libero da ogni demone che lo incatenava, poichè era sereno, impertinente, ribelle e provocante, come lo aveva conosciuto la primissima volta che si erano incontrati, a quel matrimonio che mai, mai avrebbe dimenticato.
Si toccavano con confidenza, senza paura, senza alcuna sfida tra di loro, liberi, incuranti del resto del mondo, felici, battibeccavano e poi chiacchieravano come nulla fosse, si infastidivano giocosamente e poi facevano l’amore.
In quello scenario, nessun bambino era presente in quella casa.
Judith riaprì gli occhi, alzando lo sguardo verso l’altare, cominciando a pregare.
Pregò, fin quando non udì il portone dietro di sè aprirsi lentamente e poi richiudersi.
Il rumore della chiusura fu sin troppo sordo e fastidioso, forse perchè la persona appena entrata lo aveva chiuso con troppo impeto.
Dei passi rimbombarono dietro di lei.
Judith spalancò gli occhi, senza voltarsi.
Era notte fonda.
Qualsiasi altra persona, al suo posto, si sarebbe allarmata oltremodo.
Ma non lei.
Lei era abituata a sentirsi in pericolo, a non rilassarsi mai.
Attese che quei passi si avvicinassero ancora, senza scomporsi minimamente, restando con i palmi congiunti.
- “E non pensi mai a me?
Al dolore che provo io?
Aver niente e perder tutto.
Questa sono io.
Mi continuo a nutrire per colmare un vuoto dentro di me, che mai svanirà.
Sempre di più, sempre di più, senza mai tregua.
Spiegamelo tu, come posso voler tutto e non avere niente” – quella voce familiare, seppur molto più roca e dura di come se la ricordasse, quei versi che conosceva a memoria a sua volta...
Solo un’altra persona, oltre lei e la piccola Dionne, conosceva il copione a memoria.
Solo una persona possedeva quella voce.
Fu grata, in quel momento.
Accennò un sorriso, immensamente grata al Signore, per averla fatta risvegliare.
Decise di stare al gioco: - “È uno strazio di tutto in tutto, del mondo nel cielo, del cielo nel mare: qualche cosa che vuole uscire e liberarsi e sta sempre in un gorgo, non va avanti, non torna indietro, è orribile” – continuò la battuta Judith, sentendola avvicinarsi ancora.
- “Sai, a volte vorrei averti come figlia.
Perchè sei bella come l’aria gelida di Novembre,
e sei vera, più vera e tangibile di tutte le cose del mondo.
E che sia giusto
E che sia sbagliato
Non una lacrima per te.
Mai una lacrima verserò per compiangerti.” – continuò a recitare un’altra battuta Hinedia, un’Hinedia che apparve inquieta, rabbiosa, incredibilmente cupa alle orecchie di Judith.
- Sono felice che stai bene – disse finalmente la fanciulla, continuando a darle le spalle, senza muoversi dalla sua posizione inginocchiata, totalmente tranquilla. La sua amica non era un pericolo. Non lo era mai stata.
- Non trovi che questi versi del copione ti si addicano particolarmente, Judith? – disse la serva del Creatore, praticamente oramai dietro la sua schiena.
Fissava l’altare, con quell’enorme crocefisso girato al contrario.
Lo sguardo assorto, cupo, dilaniato di un’incontenibile perfidia.
- Sarei dovuta nascere serva del Diavolo.
Esattamente come te – pronunciò distrattamente.
- La tua adorazione per entrambi i signori mi ha sempre affascinata – rispose Judith.
- Molte serve del Creatore vorrebbero essere nate serve del Diavolo esclusivamente per la bellezza.
Ho sempre trovato incredibilmente superficiali le loro motivazioni.
Io non ho mai voluto appartenere al Diavolo per tale motivo.
Certo, non mi dispiacerebbe essere gradevole alla vista, almeno un minimo.
Sarebbe bello potermi guardare allo specchio senza provare disprezzo per la mia immagine.
O guardare qualcuno di incredibilmente avvenente, senza provare vergogna e paura che possa trovarmi ripugnante.
Ma non è mai stato questo il punto.
Io vorrei appartenere al Diavolo perchè ho sempre sentito che lui mi vuole.
Mi desidera in quanto sua figlia.
Per questo ho questo insopportabile sfogo sui polsi.
Il mio destino era un altro.
- Perchè ti senti così attratta dal Diavolo in quanto signore?
- Perchè ... lui ha provato a ribellarsi.
Si è ribellato a qualcosa che trovava ingiusto.
Questa è la sua unica colpa.
E per quanto ci abbia pensato e ripensato durante centinaia di notti insonni, in cui mi sono sentita rivoltare dal senso di colpa a causa dei miei pensieri poco consoni e blasfemi... sono giunta sempre alla medesima conclusione: la sua non è una colpa. Il Diavolo non ha alcuna colpa. Il Creatore ce l’ha.
Judith rimase in rigoroso silenzio, ascoltandola.
- Sei sempre stata una straordinaria ascoltatrice, Judith.
Questa è una delle qualità che mi è sempre piaciuta di te – disse in tono malignamente sardonico questa nuova Hinedia, immensamente più sicura di sè, spavalda e ambigua.
- Per quale motivo hai detto che i versi del copione che hai citato poco fa si addicono a me? – le domandò la serva del Diavolo, mantenendo la sua pacatezza.
- Perchè sei bella. Perchè sei perfetta. Perchè sei un’amica perfetta. E saresti una figlia perfetta.
Judith sorrise tristemente a tali parole. – Hai una visione idilliaca di me. Sono molto, molto lontana dalla perfezione, Hinedia.
- Posso crederti, ma devo continuare a ripetermelo, per trovare una giustificazione.
- Una giustificazione a cosa?
- Alla tua vita perfetta.
Finalmente, dopo interi minuti, Judith si voltò a guardarla, rivolgendole uno sguardo confuso.
L’astmosfera stava iniziando a impregnarsi di disagio, di una strana tensione.
Alla rossa non piacque lo sguardo sul volto di Hinedia, così diverso dal solito, ma non lo diede a vedere.
- “Alla mia vita perfetta”? Cosa stai dicendo...?
- Se togliamo ciò che ti è accaduto da bambina, con quel maiale di un monaco, la tua vita è quanto di più perfetto esista a Bliaint, ai miei occhi.
- La morte violenta di mia madre quando ero solo una bambina, il mio essere orfana, avrebbe reso la mia vita perfetta...?
- La presenza dei genitori nella nostra vita è fortemente sopravvalutata.
- E chi te lo ha detto?
- Blake, a dire il vero – rispose ghignando.
Ma Judith non si arrese e la scrutò, decisa a comprendere cosa non andasse nella sua amica, cosa le nascondesse, e se vi fosse un modo per porvi rimedio, con il sacro potere della parola e dei sentimenti di amicizia puri e sinceri che le legavano.
- E poi.. – riprese Hinedia. – Sarà anche terribile ciò che hai vissuto con quel monaco, tuttavia, almeno ti sei sentita desiderata. Insomma, noi servi del Creatore non proveremmo mai una sensazione simile: sentirci desiderati carnalmente. Nemmeno da bambini veniamo mai guardati con desiderio dalle menti perverse, perchè già a quell’età siamo ripugnanti.
Judith cercò di non far prevalere la rabbia per le parole che aveva appena udito pronunciare e riprese a parlare:
- Se hai sempre creduto che la mia vita fosse perfetta, perchè non me lo hai mai detto?
- Cosa avrei potuto dirti? Che, sotto sotto, ti ho sempre invidiata? E no, non ti ho invidiata solo per la bellezza. Vorrei possedere la tua audacia, il tuo talento artistico, la tua sensibilità, la tua maturità emotiva, la tua maturità in generale.
- Ma tu possiedi già tutte queste cose, Hinedia... è solo che non te ne rendi ancora co-
- Non. Ho. Ancora. Finito – la interruppe bruscamente la serva del Creatore con un tono che non ammetteva repliche, scandendo bene ogni parola. – Sei una giovane donna ambiziosa, che sa come persuadere e sa aspettare. Sei acculturata, ma non ostenti la tua sapienza, sei intelligente e intraprendente.
Judith rimase in silenzio, come le era stato ordinato, nonostante avesse un bel po’ da controbattere.
Hinedia posò i suoi occhi scuri e ricolmi di qualcosa di oscuro e brulicante su di lei, per diversi minuti.
Nessuna delle due parlò.
- Hai una vita agiata – riprese la serva del Creatore spezzando il silenzio. – Una bella vita. Hai degli amici sinceri, delle persone che ti vogliono bene. I bambini ti adorano. Le autorità ti rispettano. Le donne ti ammirano e gli uomini ti bramano. E, oltre tutto questo, come se non fosse abbastanza, stai per sposare uno dei giovani uomini più desiderati di Bliaint. Hai conquistato il cuore di un perla rara, un diamante come Blake. Tutto questo, ti sembra da poco?
- Hinedia – la richiamò Judith, guardandola dritta in quegli occhi tenebrosi, occhi che non riconosceva. - Comprendo che io possa avere dei privilegi che tu possa invidiarmi. Stiamo parlando di un sentimento umano, che, se controllato, non è sbagliato da provare. Spinge a migliorarsi e ad essere più intraprendenti e determinati. Lo abbiamo descritto e vissuto col nostro spettacolo.
- Il tuo spettacolo.
- Il nostro spettacolo – rimarcò Judith. – Potrai anche invidiarmi, ma non mi odi. Non potrai mai odiarmi. Noi due siamo buone amiche. Lo siamo, non è così?
Vide il volto astioso di Hinedia vacillare, così persistette:
- Non è vero?
- No, non lo siamo.
- Come fai a dire di no? Lo sai che è così. Potrai provare una caterba di sentimenti negativi nei miei confronti, più o meno intensi, più o meno nascosti, ma, nonostante tutto, non potrai mai odiarmi. Perchè siamo amiche. Nonostante apparteniamo a due culti differenti siamo amiche. E questo non cambierà.
- Smettila. Smettila! – gli urlò contro Hinedia, sull’orlo delle lacrime. – Io non sono venuta qui per questo!
- Per quale motivo sei qui, dunque? Rispondimi.
- Per affrontarti e per dirti tutto ciò che penso di te!
- Avanti, dimmelo allora.
- Io ti preferirei morta, Arley Judith – spirò Hinedia, con voce roca e ferale.
- No, non è vero. Sai che non è così.
- Tu non sai niente di me.
- E invece sì. So che sei una ragazza decisa, malgrado ciò che dai a vedere, molto intrepida quando vuole, che è in grado di prendere posizione, di scegliere da per sè, ma anche di mostrarsi estramemente dolce, gentile e accondiscendente. Sei curiosa – disse Judith sorridendole, con gli occhi lucidi. – La tua ingenua e infinita curiosità è ciò che amo più di te. Vuoi sempre aiutare gli altri, sei sempre attenta a non far del male a nessuno. Sei solare, grintosa, sensibile e paziente. Questa è la giovane donna che conosco.
A ciò, Hinedia rise, di una risata stonata e gracchiante. – Tu non sai niente di me! Come pensavo! Non sai niente di questa parte di me! Quella che vedi davanti a te sono io, sono sempre io!
- Come...? – Judith ci provò, cercò strenuamente di fare mente locale, per trovare qualche indizio che potesse farle comprendere cosa potesse esser accaduto alla sua amica.
Che fosse opera di una strega?
Poi, un ricordo improvviso piombò nella sua mente:
“Solitamente siamo avvezzi a distinguere in noi due anime, giusto? Un anima buona e una cattiva. Così è come lo spiegheremmo ai bambini. Due concetti binari, che in realtà non sono così semplici come li classifichiamo. Queste due anime, nera e bianca, si fondono tra loro, si intersecano, formando le persone che siamo.”
Quelle stesse parole erano sue.
Ricordò il suo discorso con Blake, riguardo un certo homuncolus. 
Improvvisamente, si animò. – Per caso... ciò che ti sta accadendo ha a che fare con un certo homuncolus?
A tal punto, lo sguardo di Hinedia si fece ancora più aggressivo. – Silenzio!!
- Quella che vedo ora è la tua anima nera che si è distaccata dal corpo? Dove hai lasciato la tua metà??
- Ho detto silenzio!!!
- Come è potuto accadere? Se ti calmi, posso aiutarti!
- Per quale motivo dovrei volere il tuo aiuto?! Non aspettavo altro che prendere il predominio sul mio corpo!! - urlò ridendo euforica, per poi avvicinarsi alla ragazza con sguardo minaccioso.
Judith, di riflesso, portò la mano sul suo ventre gonfio, sopra la vestaglia, ma senza indietreggiare.
Hinedia notò quel gesto e vacillò lievemente. Ma quel vacillamento durò solo un attimo, poichè un istante dopo afferrò il polso di Judith e la strattonò con forza. - A proposito – le sussurrò accanto all’orecchio, maligna. - So che il padre dell’obbribbrio che porti in grembo è il mio futuro sposo. Quel lurido ignavo e miserabile. Non mi importa minimamente di lui.
- Cosa vuoi fare? – le domandò la rossa a testa alta, ma senza arroganza, nè arrendevolezza.
- Tipico. Ostentare la tua dignità anche in situazioni di pericolo.
- Non intendo supplicare nessuno. Voglio solo sapere cosa vuoi farmi – le disse fissandola intensamente negli occhi.
A ciò, Hinedia la strattonò ancora, con forza. – Non è evidente? Voglio porre fine alla tua vita perfetta. E ringrazia che io voglia ucciderti con le mie mani, altrimenti avrei potuto rivelare ai monaci che la loro amata figlia prediletta ha commesso il peccato peggiore di tutti, facendosi ingravidare da un uomo di culto diverso dal suo, e portando fieramente in grembo il frutto di tal vergogna. A quel punto ti sarebbero spettate le fiamme.
- Per quale motivo vuoi uccidermi? – la provocò, studiando ancora il suo sguardo. – Tu vuoi uccidermi perchè riesco a far nascere dei sentimenti positivi anche in te, non è così? Non meriti di essere chiamata col suo nome, perchè tu non sei lei, non sei Hinedia. Sei qualcos’altro. Qualcos’altro che non sarebbe nulla di male, se solo fosse unito con l’altra metà, quella eccessivamente pura e candida. Anche l’altra metà è sbagliata, è sbagliata quanto te. Non dovreste esistere, nessuna delle due. Il tuo nome ...
- Chi sei tu per dare un nome a me?
- Oscura come la “notte”: Layla – le disse, con la consapevolezza che poteva avere solo una studiosa delle lingue lontane. – Riesco a far sorgere emozioni pure in te, Layla. Lo vedo. Per questo mi vuoi morta - concluse con gli occhi liquidi e una consapevolezza agghiacciante.
- La mia intenzione di ucciderti sussiste in me da quando ho messo piede in questa cattedrale, Judith, mi spiace deluderti. E non avrò pietà. Neanche per il tuo bambino – detto ciò, prima che la ragazza riuscisse a ribellarsi, la serva del Creatore la spinse violentemente a terra, con tutta la forza che aveva.
Judith inciampò sulle gradinate dell’altare e la sua testa andò a schiantarsi contro lo spigolo di marmo del piadistallo dell’immenso crocefisso al contrario.
Tale immagine, in tutta la sua aberrante bellezza, agli occhi della carnefice appariva meravigliosa e maestosa come un dipinto: la luna piena proveniente dall’enorme finestra sovrastante il crocefisso illuminava la figura di Judith, con solo la leggera vestaglia di seta bianca a coprirle il corpo divino; le folte ciocche dell’imponente cascata di capelli, inumanamente chiari quanto la vestaglia, erano sparse ovunque, macchiate di sangue, il sangue proveniente dalla sua ferita alla testa e che ora stava iniziando a spandersi e a macchiare il pavimento; la pelle di porcellana del braccio nudo e abbandonato sul marmo era illuminata dalla luna, mentre l’altro era riverso a terra; le gambe con le cosce nivee, morbide e setose anche solo alla vista, erano piegate e aperte, in una posizione contorta; la testa, riversa sul marmo del piedistallo, era immobile, così come il resto del corpo, cosparsa di capelli.
La serva del Creatore si avvicinò a quella visione tremenda e celestiale insieme.
Si abbassò verso di lei, intenzionata a porre fine definitivamente alla vita della ragazza, facendo per afferrarle la testa e sbatterla ripetutamente su quello spingolo.
Ma prima che la sua mano raggiungesse il capo immobile di Judith, il suo polso venne afferrato e trattenuto da una presa ferrea e dolorosa.
Hinedia si voltò verso colui che l’aveva bloccata, e che aveva ancora le dita serrate sul suo polso, trovando dinnanzi a lei un giovanissimo ragazzo dai capelli di un biondo talmente chiaro, da sembrare quasi bianchi sotto la luce lunare. Lo stesso ragazzo che si era alzato in piedi durante lo spettacolo, mentre lei spingeva Edith e Gwen giù dal palco. Lo stesso ragazzo che, a differenza del resto dei presenti, non la guardava con sguardo impaurito e orripilato, bensì con un’espressione di consenso.
La ragazza sfilò il polso dalla sua presa, guardadolo torva. – Chi diavolo siete voi?!
- Se aveste voluto non essere udita mentre commettevate il misfatto, avreste dovuto evitare di urlare.
- Da dove sbucate?? Credevo che in questa cattedrale non ci fosse più nessuno!
- Ero al piano di sopra. Stavo dormendo. Le vostre urla mi hanno svegliato – disse il ragazzo, atono, senza apparente espressione nel volto bellissimo.
Hinedia lo studiò. – Voi siete il ragazzo-strige?
A ciò, Folker emise una strana smorfia, tornando a dirigere gli occhi verso il corpo immobile di Judith. - Perchè lo avete fatto? – le domandò.
- Dovrei uccidere anche voi, ora che avete visto ciò che ho fatto.
A ciò, il ragazzo si voltò di nuovo a guardarla, per nulla spaventato dalla minaccia. – Potete provarci. Ad uccidermi.
Per quanto impulsiva e rabbiosa fosse l’anima nera di Hinedia, dovette riconoscere a se stessa che, se quel ragazzo avesse voluto difendere la sua vita da lei, ci sarebbe riuscito egregiamente, considerando con quanta forza e fermezza aveva afferrato il suo polso, trattenendolo.
L’opzione di battersi con lui era fuori discussione.
Eppure, il suo volto placido e apparentemente candido, nascondeva qualcosa che riuscì quasi a farla rabbrividire. Qualcosa che le assomigliava terribilmente. Un guizzo di malignità gratuita, proveniente da chissà dove, nascosta dentro di lui, latente quanto letale.
Poi, un’informazione fece capolino nella sua mente, proponendole un eventuale appiglio:
- Non è stata la stessa Judith a convincervi a confessare di essere una strige? Non è lei stessa che vi sottopone a quelle torture spacciate per “purificazione” ogni giorno? Non dovreste volerla morta anche voi?
Il ragazzo fissò ancora il corpo di Judith, senza lasciar trapelare nulla, come se un’autoimposta pace interiore lo tenesse incatenato. – Non la odio – disse solamente. – E non la voglio morta.
- Dunque mi denuncerete ai monaci?
- No, non vi denuncerò – le disse, sorprendendola.
- Per quale ragione?
A ciò, Folker puntò i suoi occhi chiari in quelli scuri e frementi della ragazza, scrutandoli, come se potesse leggerle dentro. – Perchè mi intrigate – le rispose, senza alcuna inflessione.
Poi, improvvisamente, le labbra del ragazzo assunsero un piccolo ghigno velenoso, involontario, quasi impercepibile, tanto che Hinedia pensò di esserselo immaginato. Tuttavia, ciò non le impedì di provare un sinistro brivido freddo lungo la schiena.
- Anche se la lasciassi in vita.. come sapete che si riprenderà, dato il colpo e la grande perdita di sangue? – gli domandò.
- Non lo so. Per questo dobbiamo fare in modo che i monaci la scoprano al più presto e le forniscano soccorso.
- Qualcuno sa che eravate qui con anche voi stanotte?
- No, nessuno.
- Incolperanno voi di aver tentato di ucciderla, se sarete il primo a trovarla, per di più a notte fonda. Come intenderete giustificarvi con loro? Nessuno crederà alle parole di una strige.
Improvvisamente, i due udirono delle voci provenire da fuori la cattedrale, voci preoccupate, che riconobbero come quelle di alcuni monaci del Creatore.
A quanto pareva, Hinedia e Judith avevano urlato sin troppo forte durante la loro discussione.
Motivo per cui, non solo le aveva udite Folker dal piano di sopra, ma le avevano sentite persino nell’altra cattedrale, affiancata alla loro.
- Chi c’è?? Chi c’è lì dentro?? – quelle voci arrivarono alle loro orecchie ovattate da quella distanza, col portone ancora chiuso.
- A quanto pare... non ce ne sarà bisogno – disse Folker, iniziando a correre via, diretto verso l’uscita segreta della cattedrale, che sottostava alle cucine.
Ovviamente Hinedia lo seguì.
Quando i monaci aprirono la porta della cattedrale, non trovarono nessun altro intorno al corpo semi-morente della loro protetta.
 
 
- Dov’è??? – esclamò il ragazzo, agitato all’inverosimile, giungendo al cospetto della porta della stanza di Judith.
Era appena l’alba e a sorvegliare su di lei, dinnanzi alla sua stanza, stavano almeno una decina di monaci, tutti con sguardo contrito, afflitto, sull’orlo delle lacrime.
A quanto pareva, la situazione era più grave di quanto credesse.
Padre Cliamon gli andò subito incontro, prendendolo per gli avambracci, come per farlo stare calmo. – Blake, Blake, ascoltatemi... – iniziò il monaco, con la voce rotta dal pianto. – Le sue condizioni sono molto gravi...
- Quando l’avete trovata?? – gli domandò senza farlo finire.
- Questa notte. Non sappiamo da quanto tempo fosse in quelle condizioni... reputiamo che, chiunque le abbia fatto questo.. possa averla incontrata appena tramontato il sole.
- ... che condizioni?
- Blake, non credo che vorreste-
- Ditemelo, padre!
- Era riversa sul piedistallo dell’altare. In vestaglia. Intorno alla sua testa.. c’era una pozza di sangue.
- Ha battuto la testa...?
- Sì.
Blake ammutolì, deglutendo silenziosamente, fissando gli occhi di padre Cliamon con sguardo perso, vuoto.
Il monaco gli stringeva ancora gli avambracci ma lui non lo sentiva. Non sentiva niente.
Dopo un tempo che parve infinito, in cui anche gli sguardi afflitti degli altri monaci si puntarono su di lui, Blake riprese la parola: - Avete già qualche idea.. su chi possa esser stato?
- No, affatto. In realtà in questo potreste esserci d’aiuto voi. Voi eravate la persona con cui lei trascorreva più tempo.. voi e .. padre Craig – disse Cliamon, rivolgendo poi lo sguardo alle spalle di Blake, in cui sostava in religioso silenzio la figura angustiata e angosciata di padre Craig. Il prete aveva la testa bassa, ascoltava le loro parole, ma se ne stava a qualche metro di distanza, come per non disturbare.
- A dir la verità, la nostra dolce Judith trascorreva molto tempo anche con quella serva del Creatore... quella che ha spinto le bambine giù dal palco durante lo spettacolo – intervenne padre Thomas. – Qual è il suo nome..?
- Hinedia – rispose padre Craig, a distanza.
- Effettivamente, Hinedia ha mostrato dei comportamenti molto strani negli ultimi giorni .. – commentò padre Cliamon.
- Trovo improbabile che sia stata lei – sfatò le loro ipotesi Blake. – Hinedia vuole molto bene a Judith. Inoltre.. – si bloccò, valutando se fosse il caso di esplicitare quell’informazione. – Hinedia era con me ieri sera, appena tramontato il sole.
A ciò, i monaci rimasero tutti perplessi, padre Craig con loro, il quale fece mente locale, cercando di capire quando il ragazzo avesse incontrato Hinedia, dato che la notte appena trascorsa l’aveva passata con lui, Quaglia e Selma.
- Beh.. se è così, allora dovremo supporre che non sia stata lei. Non sappiamo minimamente chi possa volerle far del male..
- Judith mi aveva detto di aver sognato una donna – si intromise padre Craig, come illuminato da un ricordo improvviso. – Una donna che cercava di mettersi in contatto con lei tramite la magia nera..
Blake lo scrutò, confuso.
- Ci penseremo poi. Ora, la nostra unica preoccupazione è che la nostra povera cara si rimetta. Pregheremo il Creatore giorno e notte per far in modo che si risvegli. Dovreste farlo anche voi col vostro signore, caro – lo incoraggiò padre Thomas.
- Cosa dicono i medici? – domandò Blake.
- Che il colpo alla testa è stato violento e ha perso un sacco di sangue.. tuttavia, il bambino sembra stare bene. Non sappiamo ancora se e quando si sveglierà. Blake.. non credo sia il caso che voi la vediate, ora come ora. Dovete prima calmarvi e prendere dei profondi respiri – lo incoraggiò padre Cliamon, osservando il suo sguardo vuoto, in trance.
Ma prima che Blake potesse ribattere qualsiasi cosa, un monaco uscì concitatamente dalla stanza di Judith. Il suo volto era a metà tra l’euforico e l’atterrito, in uno strano connubio che sorprese e confuse tutti coloro che erano lì fuori in attesa.
- Si è svegliata... – sussurrò sorridendo.
A ciò, ci fu un concitamento generale, alcuni monaci si lasciarono persino andare ad una risata piena di gioia.
Blake non aveva esultato, troppo concetrato ad osservare la leggera afflizione nel volto del monaco che aveva dato loro la notizia. – Padre? – lo richiamò, catalizzando la sua attenzione su di sè. – Dovete dirci altro?
Il monaco lo guardò, rivolgendogli uno sguardo ancor più abbattuto. – Judith... è sveglia, ma non si ricorda più nulla.
A ciò, il concitamento generale svanì e tutti i monaci ammutolirono.
- Che... cosa significa che non ricorda più nulla? – domandò padre Cliamon, avvicinandosi all’uomo.
- Non è che non ricordi nulla, mi sono spiegato male... sembra aver perso la memoria di tutto l’ultimo anno appena trascorso. Nella sua testa siamo ancora ad un anno fa. Non ricorda niente di ciò che è successo nel frattempo – si spiegò.
A ciò, Blake sgranò gli occhi e padre Craig con lui.
Ciò significava solamente una cosa: Judith non si ricordava di loro. Di nessuno di loro due. Non si ricordava di Blake, di padre Craig, di Folker, di Hinedia, dei bambini, di Maroine e Maringlen, di Myriam, di Beitris, di Ephram, di Quaglia.
Quei nomi erano divenuti solamente nomi privi di significato.
Dunque, ciò che era accaduto a Quaglia era un fenomeno comune, in casi come quello.
Tuttavia, almeno, l’amnesia della ragazza non era grave e totale come quella di Philippus, il quale non ricordava neppure il suo stesso nome appena sveglio.
- Ora Judith deve riposare e riprendere le forze.. – riprese la parola il monaco, dopo aver lasciato un po’ di tempo a tutti i presenti di metabolizzare la notizia. – Tuttavia, c’è un problema che dovremmo risolvere: Judith non ricorda di essere gravida. La sua pancia è ora evidente. Si chiederà sicuramente chi sia il padre e come sia accaduto – disse l’uomo, rivolgendo il suo sguardo verso Blake, così come fecero tutti gli altri monaci.
Si aspettarono di ricevere una risposta certa dal ragazzo che era il suo promesso e, a suo dire, anche il padre del bambino. Una risposta certa che non arrivò. Ma, d’altronde, nessuno di loro lo biasimò: tutti sapevano che Judith non si sarebbe minimamente ricordata di Blake e della loro promessa di matrimonio. Anche quello sarebbe stato un trauma per lei.
Blake si prese il suo tempo per pensare, poi prese la parola: - Ora sta dormendo?
Il monaco annuì.
A ciò il ragazzo avanzò, facendo comprendere agli altri monaci di volersi prendere un momento da solo con lei. I monaci gli fecero spazio per farlo passare, Blake aprì la maniglia della stanza di Judith ed entrò.
Trovò la levatrice al fianco dello spazioso e ordinato giaciglio della fanciulla, intenta a pulire gli ultimi impercepibili rimasugli di sangue dalla ferita alla tempia della ragazza, con un panno bagnato.
Non appena lo vide, la donna gli fece un cenno di rispetto con il capo, abbandonò il panno dentro la bacinella e uscì dalla stanza, lasciandolo solo con lei.
Blake si avvicinò al talamo, coperto da lenzuola e coperte color limone.
Judith aveva il volto rilassato, disteso, abbandonato totalmente ad un sonno che appariva placido e incolore.
Il ragazzo immerse il panno nell’acqua, lo strizzò, per poi passarlo delicatamente sulla sua fronte.
- Spero tu stia facendo bei sogni – sussurrò, sedendosi sulla sedia accanto al letto.
- Ma guardati...
Chi ti ha fatto questo?
Se solo sapessi chi è stato, saprei chi incolpare.
Invece... così, non sembra colpa di nessuno e questo mi manda totalmente in subbuglio.
Non so cosa fare. 
Quando ti desterai non lo ricorderai, ma noi due avevamo un progetto.
Uno strano patto al quale mi hai quasi costretto – ricordò accennando un lieve sorriso nostalgico.
- Il mio aiuto per il tuo “marchingegno” in cambio del tuo per curare mio fratello.
Credevo che la polvere nera fosse la soluzione che stavamo bramando, e forse lo è ancora.
Così sono partito.
E quando sono tornato nulla era più come prima, perciò le cose sono rallentate.
Ma non noi. Noi due siamo andati avanti.
Qualcosa è cambiato, non so neanche io cosa.
Tu lo sapevi.
E come al solito, come hai sempre fatto, ti sei fatta avanti, per prenderti quello che volevi.
È sempre stato così con te, Judith.
Ho sempre pensato fossi un passo avanti a tutti proprio per questo.
Anche al matrimonio, quando ci siamo conosciuti, è stato così.
Mi hai visto, abbiamo giocato a quello stupido gioco dello specchio e tu, lì, in quel momento, hai deciso che mi avresti avuto come alleato nella tua folle impresa.
Cos’è successo nel frattempo, non lo so neppure io.
Se mi chiedessi di invidivuare un momento, uno solo, in cui le cose tra noi due sono cambiate... ti risponderei quella notte nella fucina, quando mi hai salvato.
Ma se mi chiedessi di riassumerti questi ultimi mesi, non saprei cosa dire, perchè ci sarebbe davvero troppo da dire.
Non chiedermi il perchè, è una convinzione intrinseca in me, ma sono certo che padre Craig sarà quello che soffrirà più di tutti della tua perdita di memoria.
Però una domanda devo fartela: come diavolo ti è venuto in mente di chiedermi di sposarti?
Me lo sono chiesto e ancora non riesco a darmi una risposta.
Insomma, io? Con il mio innato rigetto per ogni tipo di sentimentalismo? Con il mio carattere atroce da sopportare, per qualsiasi donna, uomo o altro essere vivente che mi circondi?
Io non ho mai tentato di fare breccia nel tuo cuore. Non l’ho mai fatto con nessuno.
A dir la verità non credo neanche di sapere come si faccia, a differenza tua.
Perchè? Perchè me?
Penserai che ho assimilato la tua richiesta come cosa di poca importanza, perchè io non ti ho dato alcuna certezza, mai.
Ma, per quello che vale, ti rivelo che non è stato così: ci ho pensato tanto, giorno e notte.
Ho pensato a cosa risponderti e a come potrebbe essere il nostro futuro.
Un futuro condiviso.
Una cosa che non ho mai fatto, perchè lo sai, lo sai bene quanto io voglia andarmene via di qui.
Voglio uscire da questo buco e visitare il mondo, ogni parte del mondo.
Ma tu vuoi rimanere qui, invece.
Tu vuoi rimanere qui e io voglio andarmene via.
E allora perchè? Perchè me lo hai chiesto, Judith?
Che genere di futuro vedi con me?
Ma soprattutto... – bloccò il suo flusso di coscienza incessante, accorgendosi di aver buttato fuori tutto senza neppure respirare, come in apnea. Le strinse la mano, tornando a guardarla. – Per quale motivo ti sei tenuta un bambino che avevi detto di non volere? O meglio, tre bambini, che stanno continuando a crescere forti e in salute, a quanto pare. Questo, davvero, non lo capisco.
Soffrirai, Judith. Soffrirai nello scoprire com’è cambiato il tuo corpo. Cosa lo abita.
Soffrirai nel non sapere come è accaduto.
Anche se.. credo che lui lo ricorderai. Il servo del Creatore che ti ha ingravidato senza il tuo consenso.
Credimi, il fatto che non ti ricorderai più di me non mi affligge così tanto, se penso che, al contempo, oltre ai ricordi piacevoli, se ne andranno anche quelli tremendi, delle sofferenze che hai dovuto sopportare a testa alta.
Non sai cosa darei... per dimenticare anche io le mie.
Eppure.. ti ricorderai di quel servo del Creatore che ha approfittato di te e ti ha provocato un enorme dolore. Di lui avrai un ricordo idilliaco, privo di tutto il male che ti ha fatto. Questo, questo mi manda in bestia – si bloccò di nuovo, prendendo un bel respiro e guardando fuori dalla finestra, osservando il sole che sorgeva pian piano e prendendo ad osservare la stanza. Il lusso che lo circondava era innegabile: uno specchio dalle cornici d’oro massiccio, le colonne di marmo, il letto spazioso, di legno pregiato, le coperte di seta, la scrivania enorme e colma di oggetti e di libri.
Lusso e solitudine.
- Hai una bella vista da qui – sussurrò ritornando con lo sguardo sul panorama dalla finestra, accennando un sorriso stanco. 
- Quando ti sveglierai, dolce Judith, sarai più giovane di come eri prima, e non ricorderai di aver scritto un copione bellissimo.
Ho sempre rivolto uno sguardo cinico e sprezzante alle poesie che ti piaceva tanto leggere, quando ci trovavamo insieme nella biblioteca.
Ma solo ora, solo dopo aver visto il meraviglioso spettacolo che hai creato, comprendo la bellezza dell’arte, dell’arte come la intendi tu.
È difficile per uno come me, per cui esistono solo numeri e concretezza.
Perciò dovresti essere davvero fiera di te, per quello che hai fatto, per quello che sei e sei diventata.
Mi sorprendi, Judith. Mi sorprendi sempre.
Mi sorprendi perchè sei una forza della natura e io ho bisogno  di saperti al sicuro.
Pochi attimi fa.. quando padre Cliamon mi ha detto che avevi battuto forte la testa.. per quei pochi istanti, ho creduto che non ti avrei più rivista, viva e vegeta.
Ho creduto che non ti saresti più ripresa.
Ho creduto di averti persa. Ed è stato come sprofondare, perdere completamente il controllo della mia mente e del mio corpo.
Ed ora tu non sei più la donna che conosco ed io non ti ho ancora dato la mia risposta.
Sei scomparsa senza venirme a conoscenza.
Mi dispiace, Judith. Mi dispiace di non averti dato una risposta. 
Mi dispiace di non darti mai alcuna risposta - concluse, chiudendo gli occhi, trattenendo tutto il tumulto che si agitava al suo interno.
Le sue mani erano sconvolte da tremolii, ma cercò di non farvi caso.
Trascorse alcuni minuti in silenzio, in contemplazione del sole nascente, accarezzando la mano soffice della ragazza.
Qualcuno bussò alla porta, riscuotendolo, portandolo a chiedersi quanto tempo fosse passato, da che era entrato lì dentro. Probabilmente i monaci volevano prendersi del tempo a loro volta per vegliare su di lei nel sonno, per parlarle da incosciente, come stava facendo lui. Oppure era padre Craig, che voleva trascorrere del tempo con lei a sua volta, prima che si risvegliasse.
Ma la persona che vide entrare da quella porta lo sorprese non poco.
- Di nuovo? – le domandò Blake rivolgendole uno sguardo sorpreso e stancamente contrariato al contempo.
Myriam gli rivolse un debole sorriso, richiudendo la porta dietro di sè e camminando piano, per non svegliare la fanciulla dormiente. Prese una sedia e si accomodò dall’altro lato del letto, di fronte a lui.
- I monaci mi hanno informata – disse solamente la strega.
- E non hai pensato che volessi rimanere qui con lei da solo per un po’?
- Come stai? – gli domandò osservandolo, cercando di captare qualsiasi cosa il ragazzo le permettesse.
Blake appoggiò la schiena allo schienale della sedia, rilassando i muscoli, ricambiando lo sguardo. – Come sto? Come sto io?
- Sì tu.
- Myriam, non ci ho neanche pensato, sinceramente. Non ho avuto il tempo di metabolizzare niente.
Calò un altro muro di silenzio tra loro, accompagnato solo dal respiro placido e regolare di Judith.
- Oggi inizierò il mio percorso per diventare monaca del Diavolo – disse improvvisamente Myriam. – Da ora posso considerarmi “monaca in prova”.
Blake scosse la testa accennando un sorriso semi-esasperato.
- Chi credi possa esser stato? – gli domandò la strega.
- Non lo so.
- Hai intenzione di scoprirlo?
- Non ho alcuna pista da seguire. Se almeno avessi qualche sospetto potrei farlo.
- Hai intenzione di dirle chi sei e di provare a rientrare nella sua vita, nonostante non si ricordi di te? – andò subito diretta al punto. Blake non si aspettava nulla di diverso da lei.
- So cosa stai per suggerirmi – le rispose il ragazzo. – È quello che ho intenzione di fare: uscirò dalla sua vita, come se non fossi mai esistito.
- Non è una decisione scontata, nè facile – commentò Myriam osservandolo carezzare la mano della ragazza. - Me ne rendo conto, e ciò ti fa davvero onore. Inutile che io ti dica che è la cosa giusta da fare.
- Sei venuta qui per dirmi questo? Per accertarti che io non avessi intenzione di fare breccia in lei daccapo?
- Mi preoccupo per te, lo sai.
- Difatti il fatto che tu non mi abbia ancora chiesto quante ore ho dormito stanotte è preoccupante – disse il ragazzo, provocando un sorriso in lei.
- Tentare di ristabilire un contatto e un rapporto con lei potrebbe essere dannoso, sia per te che per lei. Tieni molto a questa ragazza. Provare a ricominciare ti farebbe solo del male.. soffriresti, e molto probabilmente soffrirebbe anche lei, per non riuscire a ricordare. Capisci cosa intendo?
Blake annuì, guardando distrattamente il volto tranquillo e assopito di Judith.
Il suo morale era a terra, per una miriade di motivi differenti, molti dei quali erano malauguratamente nascosti alla comprensione di Myriam.
- C’è qualcos’altro che vuoi dirmi? – tentò ella, sapendo che avrebbe ricevuto sempre la solita risposta.
Blake trovò che fosse davvero il colmo che gli venisse rivolta quella domanda proprio la mattina seguente alla nottata in cui Selma aveva invaso furtivamente la fucina di casa sua, informandolo che un potente nobile straniero stesse cercando strenuamente un modo per rapirlo e rinchiuderlo, con gli stessi intenti del Giudice ma estremizzati.
- No, nulla – le rispose, poi spostando gli occhi sulla sua interlocutrice e affilando lo sguardo. - Ci guadagni qualcosa dal mio allontanamento da Judith, Myriam?
- La consapevolezza che starai bene e che non soffrirai inutilmente. Ci guadagno il tuo benessere, Blake.
Il ragazzo, non convinto la scrutò ancora.
- Cosa dirai per quanto riguarda il bambino, invece?
- Dovranno vedersela i monaci. Se devo sparire dalla sua vita non potrò dire che è mio.
- Temi che Judith stessa appena sveglia possa ipotizzare da sè che il bambino sia di quel servo del Creatore?
- Temo di sì, ma, al contempo, è intelligente, sa che deve tenere nascosta la cosa. Si inventerà qualcosa. O i monaci si inventeranno qualcosa per lei.
Myriam si accorse che il ragazzo tremasse lievemente, come se il suo corpo fosse invaso da troppe sensazioni insieme, incontrollabili. Osservava Judith, ma era come se non la vedesse davvero.
- Blake.. mi spiace. Mi spiace davvero che tu debba rinunciare a lei – dicendo ciò, la strega allungò la mano aperta sopra il lenzuolo del letto, avvicinandola a lui, tentando quel gesto intimo che sembrava così inadeguato al rapporto che avevano ora.
Un gesto di conforto, di comprensione, di amore.
Un gesto che, inaspettatamente, per una volta non venne rifiutato.
Con somma sorpresa di Myriam, Blake accolse la sua mano, stringendogliela per qualche istante.
Rimasero così, in quella bolla, per qualche secondo, che sembrò distendersi nel tempo, fin quando Blake non cessò il contatto, abbandonando la mano della donna che lo aveva cresciuto.
- I monaci non la prenderanno bene, lo sai, vero? – commentò allora Myriam.
- Mi è mai importato qualcosa di cosa pensano gli altri di me, i monaci specialmente?
La strega sorrise a quelle parole, guardandolo fiera e sollevata.
A quel punto, un monaco si affacciò all’uscio:
- Blake, padre Thomas vi aspetta fuori, vuole parlarvi.
- Arrivo – gli rispose, vedendolo richiudere la porta dietro di sè.
- Parli del Diavolo ... – commentò Myriam, anticipandolo nell’alzarsi in piedi.
A ciò, Blake si prese un istante per rivolgere un triste sorriso al volto addormentato della giovane donna che avrebbe sempre occupato un posto speciale nel suo cuore, si abbassò su di lei e le lasciò un dolce bacio sulla fronte. Poi, accostò la bocca al suo orecchio e le sussurrò di nuovo:
- Spero tu stia facendo bei sogni.
 
Il ragazzo aprì gli occhi a fatica.
Era quasi l’alba, il sole stava sorgendo all’orizzonte e il cielo rischiarendosi.
Puntò i palmi su qualcosa di morbido, che, tuttavia, non era il suo letto.
Sbattè gli occhi un paio di volte, realizzando di trovarsi steso sull’erba, lontano da casa sua.
Credette di star avendo nuovamente un vuoto di memoria come accadeva ogni settimana, e invece cominciò distintamente a ricordare come fosse arrivato lì: quella notte aveva dormito nella cattedrale del Diavolo sotto suggerimento di Judith, aveva udito delle urla che lo avevano svegliato quando la luna era già alta in cielo, era sceso a controllare cosa stesse succedendo e aveva trovato Judith accasciata e incosciente in un lago di sangue, e, accanto a lei, la sua “amica” serva del Creatore con tutta l’intenzione di terminare il lavoro fatto e di ucciderla definitivamente. Ma lui non glielo aveva permesso. L’aveva fermata, poi, appena avevano udito i rumori dei monaci fuori la cattedrale, erano fuggiti via, ognuno per la sua strada. Folker non voleva tornare a casa sua. Non sapeva neanche lui il perchè, ma avrebbe corso ovunque, tranne che a casa sua, poco importava se sua madre si fosse preoccupata la mattina seguente. Così aveva corso, corso, corso a per di fiato fino a raggiungere i confini del villaggio, senza curarsi di dove stesse andando, fin quando la fatica per lo sforzo aveva preso possesso delle sue gambe e il fiato gli era mancato. Era crollato a terra, sfinito, addormentandosi lì. Ed ora, eccolo lì, con la bocca umida della rugiada gelida che si era formata sull’erba alta su cui il suo corpo si era abbandonato. Si guardò intorno, con le membra indolenzite e un buco allo stomaco, capendo di essere al confine con il bosco.
Se non ricordava male, in quella zona dovevano trovarsi diverse fattorie, la maggior parte di proprietà di servi del Creatore.
Tale realizzazione improvvisa lo scosse totalmente, facendolo svegliare dall’intorpidimento del sonno una volta per tutte. Si alzò in piedi all’improvviso, provando un intenso giramento di testa che lo fece barcollare e lo costrinse a poggiarsi sul tronco di un albero per non perdere l’equilibrio.
- Ehi... chi va là? – udì una voce non troppo lontana da lui, purtroppo vagamente familiare.
Senza pensare, iniziò a correre verso il bosco, incespicando nei suoi stessi passi, mentre una terribile sensazione di nausea, oramai familiare, lo colse impreparato, spingendolo a vomitare saliva e qualche altro liquido acido, dato che il suo stomaco era vuoto da giorni oramai.
Mentre era accasciato a vomitare dietro un tronco, i passi che aveva udito poco prima si fecero più vicini, così come la voce, che scoprì suo malgrado essere più di una:
- Ehi?? Chi c’è lì??
- Lascia perdere, Devon, sarà un animale selvatico..
- Mi sveglio all’alba ogni mattina per portare a pascolare quelle bestiacce, se posso essere utile almeno a far allontanare qualche predatore, lasciami fare, Terry!
- Guarda che anche io mi devo svegliare a questi orari assurdi ogni santa mattina, idiota. Che senso ha? Se ne è andato ormai..
Folker provò a trattenere il respiro per non emettere il minimo rumore e aspettare che se ne andassero.
- Hai ragione, se ne sarà andato. Torniamo indietro.
A ciò, quando credette che i due fossero abbastanza lontani per udirlo, Folker mosse un passo in avanti, e così facendo il suo piede pestò e spezzò un ramo che emise più confusione del previsto.
- Ehi, ho sentito un altro rumore! Ragazzi, è ancora lì! Catturiamolo, venite!
A ciò, il ragazzo dannò se stesso e iniziò a correre per scappare dai tre o quattro (non sapeva quanti fossero) molesti inseguitori.
Quando si stava convincendo di averli finalmente seminati, il suo piede finì su una buca nascosta dall’erba, facendolo inciampare e cadere a terra. Come se non bastasse, nel precipitare il palmo della sua mano si puntò su una roccia frastagliata, e il ragazzo emise un verso di dolore maltrattenuto, che segnalò dettagliatamente la sua posizione.
In men che non si dica, il primo dei suoi inseguitori lo raggiunse, restando piacevolmente sconvolto dalla sua scoperta.
- Ehi, Terry, Esaù, Lorraine, venite a vedere! – esclamò ghignando d’esaltazione.
Quando gli altri lo raggiunsero rimasero tutti stupiti a loro volta di vedere cosa, o meglio chi , il loro amico avesse trovato in mezzo al bosco.
- Dì un po’, Terry, per caso gli animali selvatici hanno i capelli biondi? – domandò ghignando Devon puntandosi le mani sui fianchi, mentre Folker appurava che la propria caviglia fosse rimasta incastrata dentro quella buca.
Alzò il volto verso l’alto e si ritrovò circondato da giovani servi del Creatore, suoi coetanei, gli stessi che non la smettevano di infastidirlo così come gli stessi che un tempo partecipavano strenuamente ai combattimenti che tenevano sotto la Taverna con la Congrega degli sciacalli, in compagnia di Ambrose.
Con l’unica differenza che, stavolta, con loro c’era anche una ragazzina poco più piccola, sicuramente la sorella di qualcuno di loro.
- Ciao, maledetta strige. Cosa ci fai qui? Adesso non ti basta più girare indisturbato per il villaggio, ma ti aggiri anche nei nostri territori? – gli domandò un altro di loro, puntando il suo bastone sotto il mento del ragazzo, per impedirgli di abbassare lo sguardo.
Non si era accorto di star ansimando ancora per la corsa e il dolore alla caviglia, ma si accorse dei potenti giramenti di testa che gli fecero battere gli occhi un paio di volte.
Ora aveva anche la vista appannata.
- Lascialo stare, Esaù, non vedi che il ragazzo è affaticato? – gli disse scherzosamente un altro, come se stesse facendo il gioco più divertente del mondo.
- Continui a parlare come se avessimo trovato un trofeo, Devon.
- Infatti noi abbiamo trovato un trofeo, Terry. Se lo portiamo a casa dici che i nostri genitori faranno a gara per farlo a fette?
- Io direi di tenercelo per noi questo bell’“animaletto” – commentò Esaù premendo crudelmente il bastone più in basso, verso la gola, lacerandogli lievemente la carne, mentre si abbassava con il volto verso il suo, sussurrandogli direttamente in faccia con il suo alito fetido: - D’altronde, dobbiamo ancora fargliela pagare per tutte le volte in cui ci ha gonfiato di botte durante i nostri combattimenti alla Taverna, no? Lui e i suoi amici spocchiosi... hai qualcosa da dire a tua discolpa, servo del Diavolo?
Ma prima che Esaù potesse provocarlo in altro modo, un altro membro del gruppetto lo afferrò per i capelli e gli tirò indietro la testa, constringendolo ad alzare il viso totalmente verso il cielo.
- Ehi, lasciane un po’ anche a noi – commentò boriosamente colui che gli aveva afferrato i capelli e che continuava a stringerli dolorosamente tra le dita.
- Non ... fategli del male. Per favore.. – provò ad intervenire la ragazza, timidamente, guardando ad uno a uno i suoi amici, poi gettando uno sguardo fugace anche su Folker.
- Tu non intrometterti, Lorraine. Ti sei dimenticata che quello che abbiamo davanti è un mostro succhia-sangue? Non lasciarti ingannare da questo visino e dal fatto che ora sembra indifeso! È una belva!
- Già, e noi lo abbiamo sperimentato sin troppo bene quando ci picchiava senza pietà alla Taverna!
- Non atteggiatevi come se foste le vittime della situazione – esalò Folker, affaticato.
- Che cosa hai detto, dannato?? Prova a ripeterlo se hai il coraggio! – gli gridò in faccia Devon, abbassandosi verso di lui e tirandogli i capelli ancora più forte.
- Ho detto: non atteggiatevi come se foste le vittime. Anche voi servi del Creatore ci picchiavate. Tutti si picchiavano lì dentro. Era lo scopo per cui abbiamo creato quegli incontri... ci si picchiava, il più forte possibile, ma senza sorpassare il limite – disse Folker, sentendosi strattonare dalla mano callosa di quel ragazzo, che non gli lasciva un attimo di tregua.
- Allora ce l’hai la lingua per parlare, strige. E in una situazione come questa, in cui noi siamo in netta maggioranza, invece di chiedere scusa e di implorarci... ti azzardi a controbattere. Hai un bel coraggio, devo concedertelo – gli disse Terry mollandogli un potente schiaffo in faccia, talmente forte da fargli voltare la testa dall’altra parte. – Davvero... un bel coraggio – ripeté dandogli un forte calcio sullo stomaco, che lo fece tossire ripetutamente, mentre i suoi aggressori ridevano di goduria.
- Alzati in piedi, servo del Diavolo – gli intimò Devon, dopo aver smesso di ridere.
- Non può... ha la caviglia incastrata – rispose per lui la ragazza, la quale aveva notato quel dettaglio già da prima.
- Che dite? Potremmo tagliargliela con un’accetta – propose Devon.
- Ci penso io, vi prego, lasciate fare a me – li supplicò quasi Lorraine, l’unica che possedeva un po’ di compassione all’interno di quel gruppo, appurò il biondo.
Senza udire una risposta dagli altri, la ragazza si avvicinò a Folker e si accovacciò di fronte a lui, circondandogli la caviglia con le mani con delicatezza e cercando di far leva sulla terra circostante per liberarla il meno dolorosamente possibile.
Nell’osservare i suoi gesti, Esaù storse il naso. – Lo tratti con troppo riguardo, Lorraine. Questo dannato non si merita tutte queste moine. Ti stai lasciando incantare dal suo aspetto, come tutte le donne!
- Non mi sto lasciando incantare proprio da nulla – rispose lei rialzandosi in piedi e fronteggiando il fratello a testa alta, prima di continuare: – Quello che vedo io è semplicemente un ragazzo in difficoltà, palesemente sofferente, con una caviglia incastrata in una buca, in mezzo al bosco, percosso da voi buzzurri. Lo tratto con lo stesso riguardo con cui tratterei ognuno di voi – replicò.
- Non se lo merita! – esclamò Devon piazzandosi nel posto lasciato libero da Lorraine, di fronte a Folker, abbassandosi e prendendo a tirargli violentemente la caviglia fuori dal buco.
Il dolore del piede tirato in quel modo fu tanto forte da far urlare Folker fino a lasciarlo senza fiato.
Gettò la testa all’indietro e urlò, venendo immediatamente zittito dalla mano sporca di Terry che si abbassò dietro di lui e gli tappò la bocca strettamente, mentre l’amico continuava a strattonargli la caviglia brutalmente. – Abbassa quella maledetta voce o ti sentiranno fino a casa nostra.. e smettila di agitarti – gli sussurrò Terry dritto dentro l’orecchio, circondandogli anche le braccia e l’addome, per tenerlo fermo.
- Così gliela romperete! – esclamò Lorraine allarmata.
Quando finalmente Devon riuscì a tirargli fuori il piede dalla buca, Folker gli diede un calcio in faccia, che il servo del Creatore riuscì ad evitare di striscio.
- Oh, siamo scalmanati oggi! Abbiamo ripreso un po’ dell’indole che avevamo prima, vedo! – esclamò Devon piacevolmente stupito e irritato insieme, afferrandogli al volo una caviglia con una mano e l’altra con l’altra mano. Ora si trovava esattamente in mezzo alle gambe di Folker, che trascinò verso di sè improvvisamente, facendolo finire con la schiena a terra.
- Devon, per favore... lasciatelo andare – lo pregò per l’ennesima volta la ragazza, impaurita da ciò che potesse avvenire in seguito.
- Se non vuoi guardare vattene via, Lorraine.
- Cosa volete fargli..?
A ciò, Devon gli afferrò i polsi e glieli tenne fermi, mentre si abbassava su di lui e gli sussurrava, trionfante: - Non saresti dovuto venire qui, specialmente da solo... è stato un enorme errore da parte tua – detto ciò, lo fece alzare in piedi, e non appena Folker si ritrovò in piedi sulle sue gambe, prima che potesse anche solo pensare di iniziare a correre via, si ritrovò i fianchi circondati dalle braccia di Esaù, che lo immobilizzava da dietro, un braccio intorno al busto e l’altro intorno alle braccia.
- Allora? Abbiamo deciso cosa vogliamo fargli ora che è a nostra completa disposizione e che quel gustafeste di Ambrose non ci mette i bastoni tra le ruote?? – domandò impaziente Terry.
- Credi che Ambrose si dispererà quando scoprirà che sei stato maltrattato tanto? – gli domandò sprezzante Devon, riavvicinandosi e afferrandogli le mascelle con una mano.
- Dicci: come mai siete diventati tanto uniti? A noi puoi dirlo.. non lo diremo a nessuno – lo incoraggiò Terry avvicinandoglisi a sua volta. - Potremmo picchiarlo fino a lasciarlo qui nel bosco in fin di vita. Poi ci penseranno le bestie a mangiarselo – propose questo.
- Prima voglio vedere una cosa – disse Devon con uno sguardo in volto che non piacque per nulla al biondo. - Spoglialo – ordinò a Esaù, il quale ridacchiò, continuando a trattenerlo fermo contro di sè.
- Perchè vuoi spogliarlo? – domandò Lorraine, sempre più esterrefatta. – Rispondimi, Devon!
- Voglio vedere se è vero quello che dicono, che i servi del Diavolo hanno anche dei corpi perfetti, belli quanto i loro visi – disse ridendo e osservando ogni centimetro di pelle del ragazzo che veniva lentamente palesato alla vista: Esaù iniziò a slacciare faticosamente la malandata camicia di feltro che indossava il biondo con una mano sola, mentre con l’altra lo teneva fermo, mentre questo tentava ancora di sfuggire dalla sua presa.
Man mano che il petto del ragazzo stava pian piano venendo scoperto, Lorraine prese a tirare deboli calci e pugni a Devon e a Terry, protestando a gran voce: - Se non la smettete subito giuro che mi metto a urlare fino a quando i nostri genitori non ci sentiranno! Le nostre case non sono lontane di qui, d’altronde!! Avete idea di cosa vi faranno i monaci se scopriranno cosa gli state facendo?! Cosa sono questi atti immorali?! I servi del Diavolo non si possono toccare! Così come loro non possono toccare noi!
- Ma noi non lo stiamo toccando, Lorraine. Lo vogliamo solo guardare – rimarcò Devon.
- Smettetela immediatamente!!! – urlò a squarciagola la ragazza, facendo comprendere agli altri tre che non stesse affatto scherzando.
A ciò, Terry immobilizzò anche lei nella sua stretta, tappandole la bocca per tentare di farla star zitta.
- Lascia immediatamente andare mia sorella. Toglile le mani di dosso! – lo rimproverò con sguardo assassino Esaù, cessando di slacciare i bottoni della camicia del biondo, ma continuando comunuque a tenerlo fermo e stretto a sè.
- D’accordo, d’accordo, la smettiamo, sei contenta??? Basta che la smetti di urlare – sospirò sconfitto e irritato Devon, mentre Terry lasciava andare la ragazza come gli era stato detto.
- Allora? Cosa gli facciamo?
- Un’idea ce l’avrei. E se urlerai anche stavolta, Lorraine, giuro che ti porto a casa tirandoti per i capelli – le intimò Esaù lasciando Folker tra le grinfie di Devon, per poi afferrare il suo coltellino dalla tasca dei pantaloni. Mostrò la letale quanto piccola arma a Folker, sventolandogliela davanti al volto, ostentando un sorriso trionfante: - Sai cos’è questo? – gli domandò ridendo, mentre l’espressione sul viso del biondo non mutava minimamente.
Insoddisfatto da quella mancata reazione, Esaù gli puntò la lama del coltello sulla mascella, avvicinando il volto. – Ho sempre desiderato sfigurare uno di voi. Chissà come dev’essere... perdere la cosa migliore che si ha, letteralmente l’unica cosa che si possiede.
- Siete voi servi del Creatore quelli ossessionati con la nostra bellezza, non noi. Per me non ha valore – gli rispose per le rime Folker, ma senza arroganza. – Non è l’unica cosa che possiediamo, nè la migliore.
- Sentitelo!
- Beh... se è così allora non ti dispiacerà di certo se ti conficco questo.. – disse Esaù facendo vagare la lama del coltello sulla superficie della guancia del biondo. - .. sul naso, e faccio qualche profonda incisione.. una lunga fino al mento, e l’altra fino alla fronte magari – lo minacciò crudelmente.
Ma, ancora una volta, nessuna espressione di paura si dipinse nel volto di Folker mentre il coltello gli sfiorava pericolosamente la faccia. – Fa’ pure.
- Davvero non ti importa..? – gli domandò Devon sconvolto. – Come può non importarti?? Fossi in te, se avessi un viso del genere me lo terrei stretto, dato che sicuramente è l’unico motivo per cui ti hanno risparmiato la vita.
Folker continuò a non avere reazioni, mentre Lorraine si tappò gli occhi, iniziando a correre via, rifiutandosi di guardare oltre.
E mentre Esaù iniziò a premere la punta del coltello sul mento del biondo, mettendo in pratica le sue minacce, Folker chiuse forte gli occhi, pronto a sopportare anche quel dolore.
Ma il servo del Creatore non fece mai in tempo a portare a termine l’atto, in quanto qualcuno lo colpì talmente forte da farlo precipitare con la schiena a terra.
Il biondo riaprì gli occhi, visualizzando la figura di Ambrose, furioso come non mai, iniziare a picchiare ogni membro della sua vecchia combriccola, ognuno dei quali non reggeva il confronto con la sua dirompente stazza.
- Sei venuto di nuovo in suo soccorso come un fedele cagnolino?? Cos’è, hai fiutato il suo odore da parassita succhia-sangue fino a qui?? – lo provocò Esaù, nonostante fosse già per terra e le stesse prendendo di santa ragione da Ambrose.
Terry, da parte sua, aveva già indietreggiato impaurito, per poi prendere a correre verso casa.
Quando Ambrose ebbe finito con Esaù, riducendolo ad un groviglio rantolante e tossicchiante, con la faccia e i vestiti impregnati di sangue, si diresse verso Devon, il quale non demordeva, e stringeva ancora Folker contro di sè, non lasciandogli modo di scappare.
- Lascialo andare – gli intimò Ambrose con voce ferma e rabbiosa, avvicinandosi.
- Altrimenti..?
- Altrimenti ti ridurrò come lui – gli disse indicandogli il suo amico ancora steso per terra, intento a tossire sangue.
Devon deglutì rumorosamente, lasciandosi invadere dalla razionalità, una volta tanto.
Liberò Folker della sua presa, spingendolo malamente verso Ambrose, il quale lo afferrò prontamente per le braccia aiutandolo a reggersi in piedi.
Cercò i suoi occhi, per accertarsi che stesse bene, ma non vi riuscì, in quanto la vista del biondo aveva ricominciato ad essere appannata e le vertigini miste ai giramenti di testa avevano avuto la meglio, debilitandolo.
– Che ti hanno fatto? – gli domandò allarmato.
- Niente... – si limitò a sussurrare il biondo, per poi perdere definitivamente i sensi e svenire tra le braccia di Ambrose. Quest’ultimo lo afferrò per le cosce e se lo caricò in spalla, ma prima di andarsene si voltò nuovamente verso Devon, il quale stava cercando di far alzare in piedi Esaù, con non poche difficoltà. – Dì che è stato un animale selvatico a ridurlo così. Se non manterrai la parola, andrò dritto dai monaci a dir loro cosa gli stavate facendo – lo minacciò, vedendo l’altro annuire, per poi incamminarsi per la sua strada con Folker a peso morto sulle sue spalle.
 
Quando Folker riprese coscienza, qualche ora dopo, ritrovandosi dentro un’abitazione che non aveva mai visto, in una stanza e in un letto che non conoscenza, non era più Folker ad abitare quel corpo, bensì padre Cliamon.
Il monaco si domandò cosa avesse combinato il ragazzo, per ritrovarsi in quel luogo.
Nelle ultime quattro settimane, quando giungeva il giorno in cui si risvegliava dentro di lui, non si era mai ritrovato in posti strani, ma sempre a casa del biondo stesso, nel suo letto.
Non sapeva neanche se Folker ci fosse già stato in quel luogo a sua insaputa, perciò non poteva chiedere spiegazioni su dove si trovasse, per sicurezza, per non rischiare di destare sospetti.
Si sentì riposato, tuttavia indolenzito in qualche parte del corpo, la caviglia soprattutto, la quale gli faceva un male cane.
Al dolore alla schiena provocato dalle frustrate oramai ci era abituato, anche se ci era voluto un po’. Con Folker non si poteva mai sapere, in quale parte del corpo avrebbe trovato ferite o ematomi dolorosi da sopportare.
Inoltre, si accorse anche che aveva una fame da lupi.
Udì dei passi entrare nella stanza proprio quando si stava toccando il ventre da sopra le coperte.
- Il tuo stomaco faceva dei rumori strani mentre dormivi, così ti ho preparato qualcosa da mangiare. Devi essere affamato – disse Ambrose facendo il suo imponente ingresso nel suo campo visivo, con un vassoio di legno tra le mani. Il ragazzo chiuse la porta dietro di sè, poggiò il vassoio sul comodino vicino al letto addossato alla parete e si sedette su una sedia vicino a lui.
La stanzetta era modesta, i muri erano rovinati, con un arredamento essenziale quale il letto, un comodino, un tavolinetto e qualche candela; al suo interno vi era un odore di chiuso e di fieno, tuttavia non fastidioso.
La finestrella accanto al letto filtrava la luce del sole alto in cielo, e da fuori provenivano i rumori di mucche e pecore, a distanza.
Cliamon alzò la testa del cuscino e poggiò la schiena nella parete dietro di sè, sedendosi e tenendo le gambe distese, mentre osservava il ragazzone seduto lì accanto – Questo è il tuo letto? – gli domandò. Oramai aveva imparato grosso modo a conoscere anche lui Ambrose e la sua dedizione per Folker, sapeva che rapporto vi fosse tra i due, una bella amicizia sul punto di sbocciare.
Ambrose annuì con lieve imbarazzo. – Se te lo stai chiedendo, questa è casa mia, sì. Casa tua era lontana e tu eri svenuto, perciò mi sono permesso di...-
- Mi hai portato sulle tue spalle fino a qui..? – domandò sinceramente ammirato Cliamon, e riconoscente allo stesso tempo.
- Sì. Non preoccuparti, sei leggero. Ad ogni modo, non ti devi preccupare dei miei genitori: sono entrambi alla cattedrale, a partecipare ad una funzione. Mia sorella invece è fuori a pascolare.
- Sarebbe stato un po’ strano dover spiegare ai tuoi come mai hai portato una strige a casa vostra – disse Cliamon, cercando di sdrammatizzare.
- Sarebbe stato strano dover spiegare ai miei come mai ho portato un servo del Diavolo a casa nostra .. – aggiunse Ambrose abbassando lo sguardo, per poi indicare il piatto fumante che giaceva abbandonato sul vassoio. – Ti ho scaldato della zuppa di patate e legumi. Mia madre è la migliore a cucinare zuppe di legumi – gli garantì. – Mangia qualcosa – aggiunse poi, lievemente preoccupato.
A ciò, Cliamon prese con piacere il piatto tra le mani, poggiandolo poi sopra le proprie gambe stese e portandosi una cucchiaiata di zuppa alle labbra.
Ma non appena il buon odore della zuppa gli giunse alle narici, un improvviso conato di vomito lo colpì, spingendolo a tapparsi la bocca per trattenerlo, e ad abbandonare il cucchiaio nel piatto, riponendo quest’ultimo nel vassoio.
- Non ti piace..?
- No, no, sono sicuro sia squisita, però.. ho solo un po’ di nausea – minimizzò sorridendogli il più rassicurante possibile.
Ambrose annuì, senza dire nulla.
- Quanto tempo ho dormito?
- Qualche ora. Siamo all’ora di pranzo – gli rispose Ambrose, per poi prendere la parola poco dopo: - Folker, sei sicuro che non vuoi dirmi cosa ti hanno fatto quei ragazzi?
Cliamon si trovò in difficoltà, come sempre accadeva con ricordi che non aveva vissuto. – No – si affrettò a dire. – Non mi va di parlarne – liquidò, sperando non facesse altre domande a riguardo.
- Quegli idioti infami... non pensavo potessero spingersi a tanto – sussurrò a denti stretti il giovane servo del Creatore, permettendo alla rabbia di rimontargli dentro.
- Ehi – attirò la sua attenzione Cliamon posandogli istintivamente una mano sopra la sua, per cercare di calmarlo. – Va tutto bene ora. Siamo insieme e sono al sicuro, tu mi hai protetto.
- “Mi hai protetto”.. avresti mai immaginato di pronunciare queste parole un mese fa..? – gli domandò Ambrose accennando un sorriso a metà tra il divertito e il piacevolmente sorpreso.
- Assolutamente no – rispose sinceramente Cliamon, sorridendo a sua volta. – Quante cose sono cambiate.
- Già.
- Ambrose?
- Sì?
- Posso farti una domanda? – chiese il monaco voltandosi verso di lui con tutto il corpo, provando a mettersi davvero seduto e a poggiare i piedi per terra.
- Certo.
Cliamon non seppe perchè sentì l’esigenza di porre al ragazzo quella domanda. D’altronde, erano faccende che riguardavano prettamente Folker e Ambrose, tuttavia era curioso. Lui non avrebbe dovuto impicciarsi nelle loro questioni, non era affar suo, specialmente quando Folker non poteva sentirlo e non avrebbe ricordato nulla di quella giornata. Eppure, glielo domandò ugualmente:
- Perchè ci tieni così tanto a me? Perchè mi segui e mi proteggi? Lo fai perchè ti senti in colpa per avermi involontariamente fatto accusare di essere una strige?
Ambrose negò fermamente con la testa. – No, lo sai che ti avevo chiesto di stabilire una tregua e provare ad essere amici già prima che i monaci ti accusassero.
- E allora, perchè?
- Beh.. perchè voglio essere tuo amico.
- Perchè vuoi essere mio amico?
- Ci dev’essere un motivo..?
- Non so – disse vagamente Cliamon, distogliendo lo sguardo e puntandolo un po’ ovunque, con fare casuale. - Me lo stavo semplicmente chiedendo, tutto qui.
- Ho sempre ammirato la tua forza d’animo e la tua grinta – ammise Ambrose. – Anche quando ci odiavamo a vicenda e non avrei desiderato altro che atterrirti a suon di schiaffi e pugni. Mi è sempre piaciuto il tuo lato combattivo, e anche un po’ malefico in alcuni casi.
- Ah sì??
- Mi vergogno un po’ nel dirlo.
- E perchè mai?
- Non è facile dire a qualcuno che lo si ammira, sai?
- Hai ragione.
- E a te?
- E a me cosa? – gli domandò Cliamon.
- Ti piace essere mio amico? Ti ... dà fastidio la mia compagnia, oppure..?
- No, al contrario, mi aggrada stare con te – gli rispose di getto il monaco.
Forse ora stava superando il limite. Stava superando il limite nel dire al ragazzo tutte quelle cose che non sapeva se Folker pensasse davvero. Il rischio che vi fosse un futuro fraintendimento era alto.
Tuttavia, non si fermò. Non seppe neanche lui il perchè.
Quel giorno, si sentiva audace. O forse era semplicemente stanco.
Stanco di starsene con le mani in mano e di non sfruttare quel bel corpo nel modo migliore e più soddisfacente in cui sarebbe dovuto esser usato.
Era curioso, curioso e smanioso di provare nuove cose.
E dato che non aveva altri a disposizione che il ragazzo di fronte a sè.. perchè non approfittarne?
Tuttavia, il monaco non sapeva se si fosse fatto delle idee sbagliate. Avvertiva una tensione palpabile nell’aria, ma forse si trattava solo di una sua impressione e di un fraintendimento di segnali.
Inoltre, si trattava pur sempre di un servo del Diavolo e un servo del Creatore. Due categorie di persone che non potevano avere nessun tipo di relazione che sconfinasse i confini dell’amicizia, per nessun motivo al mondo, pena il rogo.
Ma prima che la sua mente potesse formulare altri vaneggiamenti, Ambrose fece qualcosa che, a dir la verità, il monaco aspettava con impazienza, ma che fu comunque in grado di lasciarlo senza parole: il servo del Creatore si sporse verso di lui e lo baciò fugacemente sulle labbra, tirandosi poi indietro immediatamente, rimettendosi a sedere con lo sguardo basso, totalmente rosso come un pomodoro.
Il silenzio calò tra di loro e Ambrose prese a grattarsi le mani convulsamente, tormentandosi come se avesse commesso il sacrilegio peggiore al mondo.
- Ascolta ... – iniziò a dire balbettando, quasi sull’orlo delle lacrime, in un atteggiamento che non si addiceva per niente alla sua stazza e al suo aspetto, facendo provare un’immensa tenerezza a padre Cliamon. - .. non so cosa mi sia preso, davvero..! – si giutificò. – Adesso probabilmente non vorrai vedermi mai più, e lo capirei.. Ma se me lo permetterai vorrei almeno restare tuo amico.. giusto per proteggerti da quei bifolchi, poi, se non vorrai avermi intorno, me ne andrei e ti lascerei in pace. Scusami..! Scusami davvero! Io... quello che ho fatto è un peccato imperdonabile, ma il fatto è che.. volevo farlo da tanto, da troppo tempo. Era da tanto che volevo toccarti così, perciò non ho resistito, ma non ricapiterà mai p-
Cliamon bloccò il suo flusso di coscienza balbuziente e tremendamente mortificato alzandosi in piedi e abbassandosi, per ricambiare il bacio del giovane servo del Creatore seduto dinnanzi a sè e ora pietrificato.
Cliamon approfondì il bacio, assaporando la bocca grande e capiente di quell’impacciato ragazzo dalle spalle larghe e il cuore buono. Se stare un giorno dentro il corpo di Ephram gli aveva insegnato qualcosa era proprio questo: lasciar andare le inibizioni.
Infilò le dita dentro la zazzera di capelli neri di Ambrose, mentre questo rimaneva ancora immobile nella sua bocca, come privato dell’essenza vitale.
Quando si staccò da lui, gli occhi scurissimi e spalancati di Ambrose lo guardavano come se avesse appena visto dinnanzi a sè l’apparizione di qualche santo o di Dio stesso.
Cliamon si prese del tempo per osservarlo da vicino: era uno scimmione, alto, con troppi capelli, un vago alone di fieno che gli impregnava i vestiti e il viso, come ci si aspettava che fosse, tutt’altro che di bell’aspetto.
Tuttavia, i suoi occhi erano grandi, scuri e sinceri, e il modo in cui lo guardava...
Dio, il modo in cui lo guardava in quel momento .. come se lo avesse resuscitato dalla morte o gli avesse appena fatto il dono della vita eterna.
Cliamon avrebbe sicuramente preferito una serva o un servo del Diavolo per approfondire adeguatamente quel tipo di piacere carnale, ma dovette ammettere a se stesso che il modo in cui Ambrose guardava Folker si faceva perdonare qualsiasi cosa, perciò andava bene così.
- Io ... – finalmente Ambrose riuscì a mettere insieme una parola, dopo un tempo che parve infinito. – Io .. non credo di riuscire ad emettere una frase di senso compiuto se mi sei così vicino... – ammise deglutendo visibilmente, continuando a guardarlo con venerazione.
- Scusami – gli disse Cliamon allontanandosi di un passo, fino a far toccare nuovamente i polpacci con il letto, ma restando in piedi.
Ma Ambrose ormai era andato.
Lo aveva mandato totalmente in subbuglio ed ora doveva assumersene le conseguenze: tremava, batteva nervosamente la gamba a terra, aveva il volto di una colorazione purpurea e il respiro lievemente affaticato.
- Posso baciarti ancora? – gli domandò infine Ambrose, con la voce palesemente sofferente.
Cliamon nel corpo di Folker annuì.
- Sei sicuro?
- Sì - confermò con sicurezza e lasciò che il giovane servo del Creatore si avventasse sulle sue labbra, questa volta con immenso impeto nonostante l’inesperienza.
Con sua somma sorpresa, Ambrose lo afferrò da sotto le cosce e lo prese in braccio quasi come fosse fatto di piume, costringendolo ad aprire le gambe per posizionarvisi all’interno e stringerlo ancor di più contro di sè.
Così padre Cliamon la riassaporò a pieni polmoni, l’insostituibile sensazione di trovarsi in un corpo bellissimo, amato, desiderato e adulato, una sensazione che sarebbe valsa tutti i sacrifici del mondo.
Ambrose lo spinse contro una parete e rinsaldò la presa sulle sue cosce, mentre si spingeva contro di lui con un’esigenza soffocante, divorandogli la bocca con tutta l’energia e la libido irrefrenabile che la piena adolescenza portava con sè, travolgente e implacabile.
Cliamon abbandonò le braccia dietro la sua nuca e rispose ai suoi baci con foga, strusciandosi il più possibile contro l’altro con il suo corpo sinuoso.
Mentre gli agganciava meglio le gambe intorno ai fianchi, percepì una mano di Ambrose staccarsi dalla sua coscia e vagare per la sua schiena inarcata, non azzardandosi minimamente ad andare sotto i vestiti.
Ambrose, da giovane famelico quale era, non resistette alla tentazione di staccarsi dalla sua bocca e di assaggiare la pelle morbida e perlacea del collo di Folker, leccandola e mordendola come potè, trovandola dolce come un miele delizioso. La succhiò e leccò per alcuni istanti, per poi riavventarsi sulle labbra carnose e arrossate del suo coetaneo, in cerca d’aria.
Ma mentre l’atto diveniva, di istanti in istante, sempre più acceso, sfuggendo al controllo di entrambi, di Ambrose in particolar modo, la mente di padre Cliamon venne invasa da un’agghiacciante consapevolezza:
Folker non si sarebbe ricordato nulla di tutto ciò che lui gli stava facendo fare in quel momento.
Folker non avrebbe approvato.
Folker non avrebbe voluto, probabilmente. Non poteva sapere.
Dunque, prima di pentirsene amaramente, avrebbe almeno dovuto tentare di salvare il salvabile.
Si staccò bruscamente dalla bocca del giovane servo del Creatore, che in un istinto animale cercò di riappropriarsi delle sue labbra, ma venne riscansato di nuovo.
- Basta... basta... fammi scendere – gli sussurrò tra le labbra, puntandogli i palmi al petto per cercare di allontanarlo da sè.
Quando Ambrose sembrò tornare in sè e accorgersi, realizzare ciò che stessero facendo, lo lasciò andare subito, facendolo scendere a terra con delicatezza e guardandolo negli occhi terrorizzato.
- Scusami... scusami, Folker, scusami tanto... non volevo.. è colpa mia, mi dispiace... – iniziò a scusarsi convulsamente Ambrose, mentre Cliamon si allontanava da lui e raggiungeva a grandi falcate l’uscita della casa, ignorando il dolore alla caviglia, senza dire una parola.
 
 
 
 
 

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Capitolo 41
*** Vetri rotti, sogni lucidi, amori spiranti ***


Vetri rotti, sogni lucidi, amori spiranti
 
 
Il ragazzo trascinò i piedi a terra svogliatamente, sperando di non trovare nessuno già sveglio, dato che era appena l’alba.
Ovviamente ogni sua speranza si infranse al suolo quando individuò la figura di padre Craig seduta già al tavolo della cucina, impegnato a bere un infuso caldo e a scrivere qualcosa sul suo fidato blocchetto di appunti, in religioso silenzio.
Non appena il prete lo udì arrivare, si voltò verso di lui, con uno strano sorriso in volto, un sorrisino che non piacque a Blake, il quale dedusse a cosa fosse dovuto.
 - No. Non dite niente – lo ammonì anticipandolo e puntandogli debolmente un dito contro, con la voce ancora rauca dal sonno, dirigendosi verso il ripiano della cucina e dandogli le spalle.
- Oggi compite diciassette anni – cinguettò padre Craig, sorridendo ancora e prendendo un altro sorso di infuso.
Con tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni, voleva almeno godersi quella bella notizia.
- State crescendo in fretta. Ditemi, avete intenzione di preparare una celebrazione per festeggiare questo traguardo?
- Vedete? È proprio questo che volevo evitare. Questa aria di “gioia” ingiustificata. Ma sospettavo che quel guastafeste di Ioan ve lo avesse rivelato.
- Me lo ha detto ieri sera, sì – confermò padre Craig. – Ad Armelle solitamente organizziamo dei festeggiamenti in questi casi. Qui a Bliaint non usate festeggiare questi eventi?
- No.
- Blake, perchè ho la vaga idea stiate mentendo per liquidare l’argomento?
- No.
- Potrebbe essere una bella idea per distrarci un po’. Credo ne avremmo bisogno dopo tutto quello che-
- Non festeggieremo niente.
- Come volete – si arrese il prete mentre lo guardava mettere a scaldare l’acqua (puntualmente già scaldata ma non sufficientemente per la sua bocca di alluminio) per farsi un infuso a sua volta. – Per la colazione non serve che prepariate nulla: la fornaia ieri ci ha portato delle pagnotte fresche e squisite – lo informò, continuando a sorseggiare.
- Che gentile – commentò il ragazzo senza un minimo di entusiasmo, prendendo una delle pagnotte e addentandola.
- Buongiorno a voi, amici miei – fece il suo ingresso nell’atrio anche Quaglia, sbadigliando e accomodandosi accanto al prete. – Cosa c’è per colazione? – domandò rivolto verso Blake, l’unico in piedi accanto alla cucina, il quale lo guardò storto, prima di rispondergli:
- Niente che tu non ti possa venire a prendere autonomamente alzandoti da quella sedia.
- Che sgarbato! E pensare che stavo per venire a fare questo – disse alzandosi in piedi e fiondandosi verso di lui, senza dargli il tempo di scanzarsi, abbracciandolo di slancio. – Tante felicitazioni per i tuoi diciassette anni!
Blake non ricambiò, ma gli diede una pacca sulla schiena nel massimo della sua affettività, specialmente di prima mattina, roteando gli occhi e guardando padre Craig da sopra le spalle dell’uomo.
Il prete se la rideva, dinnanzi alla scena.
- Questo è colpa vostra.
- Mia?? Cosa ho fatto? Non sono stato io a dirlo a Quaglia!
- Difatti me lo ha detto Ioan, che, a proposito, ha intenzione di prepararti qualcosa di buono da mangiare con le sue sole manine, per farti una sorpresa – spiegò l’uomo distaccandosi da Blake, afferrando una pagnotta a sua volta e andando a riaccomodarsi al suo posto, soddisfatto.
- Quel bambino è troppo dolce per avere voi come fratello – commentò padre Craig continuando a sorseggiare il suo infuso.
- Vorrebbe essere una battuta?
- È la pura verità.
- Judith come sta? – domandò Quaglia senza il minimo tatto, facendo piombare il silenzio tra di loro.
- Proprio di questo volevo parlarvi – iniziò Blake, rompendo il silenzio infinito, prendendo posto al tavolo, di fronte ai due, con la sua tazza fumante in mano. – Immagino saprete entrambi che Judith ha avuto un’amnesia a causa del colpo alla testa subìto. Non grave quanto quella di Quaglia, ma comunque dannosa. Proprio per tale motivo, ho deciso che non dirò a Judith cosa ci fosse tra noi. Nè della questione del matrimonio, nè di tutto il resto.
I due uomini di fronte a lui rimasero totalmente esterrefatti, tanto che Quaglia quasi si strozzò con la sua pagnotta.
- Blake... cosa diavolo state dicendo?? – balbettò padre Craig allibito e intristito insieme. – È davvero quello che volete?
- Sì. Ho già avvertito i monaci e grosso modo tutti quelli che sapevano di noi.
- Ma la voce riguardo il vostro fidanzamento e il fatto che voi foste il padre del bambino si è sparsa in tutto il villaggio...
- Lo so – rispose il ragazzo sospirando, massaggiandosi le tempie e tirandosi i capelli indietro, estremamente stanco. - Judith ora ha bisogno di calma. Ha subìto un tremendo trauma che l’ha scossa parecchio. Già si ritroverà gravida all’improvviso e dal nulla, non ha bisogno di sentirsi addosso anche la costrizione di un matrimonio che non vuole. Lei non si ricorda di me, del nostro incontro, non ricorda nulla degli ultimi mesi. È come se non ci conoscessimo – dicendo ciò si bloccò, volgendo lo sguardo fuori dalla finestra, da cui arrivavano i primi raggi del sole.
Padre Craig ebbe una tremenda stretta al cuore nell’osservare i suoi occhi, e nel cogliervi dentro tutta la sofferenza che il ragazzo stava provando nel dire quelle parole, e che stava cercando di nascondere per darsi un contegno, dinnanzi a loro.
- Blake... ci avete pensato attentamente? Siete sicuro che questo sarebbe quello che Judith, la Judith che conosciamo, vorrebbe? Vi state condannando in questo modo per... proteggerla e farla stare bene, nella vostra visione delle cose, lo capisco. Tuttavia...
- Questa è la mia decisione, padre – disse il ragazzo, mostrando tutta la risolutezza di cui era dotato, nonostante la giovane età. – Sono stato accusato dai monaci di essere un senzacuore e di non tenere a lei, ma non mi interessa. Non è una scelta facile per me, ma preferisco che sia così. D’ora in poi sarà serena, e potrà rifarsi una vita con chi desidererà.
- E se... dovesse riacquisire alcuni ricordi? – domandò Quaglia, intristito anche lui dalla faccenda, ma al contempo anche sin troppo energico, per i gusti di padre Craig.
- Come li hai riacquisiti tu..? – contestò il ragazzo con la voce pregna di disillusione, una disillusione che sembrava aver già in parte metabolizzato. – Dimmi, Quaglia, come ti saresti sentito se, una volta ripreso i sensi dopo l’amnesia, ti avessimo detto che a breve avresti dovuto sposarti? Con una donna di cui non ricordavi nulla?
Quella domanda non meritava una risposta, in quanto era già chiara di per sè.
- Beh, ma le loro due situazioni sono differenti. Quaglia sta facendo molta fatica a riacquisire i ricordi, ma magari Judith ha preso un trauma minore e comincerà a ricordare nel giro di poco ... – tentò padre Craig.
- Basta parlarne. Ho detto che questa è la mia decisione – chiuse il discorso il ragazzo.
Il giovane prete era visibilmente intristito da tutto ciò, mentre sul volto di Quaglia si dipinse un guizzo strano, quasi esaltato, che al prete non piacque per nulla.
- Heloisa vorrà vedervi. Almeno oggi. Sono giorni che mi chiede di voi ogni volta che mi affaccio alla sua stanza per assicurarmi che stia bene – cambiò discorso il prete. – Da quant’è che non andate a trovarla nella sua stanza, Blake?
- A proposito, quasi dimenticavo – enunciò Blake rialzandosi in piedi, prendendo una pagnotta, aprendola in due e infarcendola di marmellata di fichi. Dopo di che, la posizionò su un piatto e porse il tutto a padre Craig. - Se non vi pesa, portatele la colazione – gli disse il ragazzo come nulla fosse, riprendendo poi a bere tranquillamente il suo infuso.
Padre Craig lo guardò attonito. – Perchè non gliela portate voi?
- Perchè non ne ho voglia – rispose egli con noncuranza. – Il mio compito è di prendermi cura di lei, non di trascorrerci del tempo insieme.
- E se mi chiederà di nuovo di voi, dato che oggi compite diciassette anni e sicuramente se ne ricorderà... cosa le dirò?
- Ditele che sono impegnato. Solitamente quando glielo dice Ioan funziona e non fa ulteriori domande.
- Fate mentire vostro fratello per voi??
Blake alzò le spalle in risposta.
- Siete..-
- “Crudele”, sì, sì, lo so – completò la frase per lui Blake, roteando gli occhi al cielo. – Vi ricordo, tuttavia, che questo ritratto della crudeltà qui dinnanzi a voi è l’unico che provvede a comprare il cibo per tutta la famiglia, e per voi due parassiti che abitate abusivamente in casa nostra. E si dà il caso che io sia anche l’unico che cucina qui dentro, da quando sia mia madre che mio padre hanno smesso di curarsi di noi.
- Ah, ecco perchè la cucina in questa casa è diventata così caotica e sbrigativa.. – commentò pungente Quaglia.
- Dì un’altra parola e ti tappo quella dannata bocca con il catrame.
Quei continui battibecchi tra Quaglia e Blake divertivano oltremodo padre Craig, facendolo sentire a casa, e alleviando un po’ i timori e i tormenti che si annidavano nel suo animo.
- Beh, voi vi occupate del cibo, certo, ma io e Quaglia non ce ne restiamo di certo con le mani in mano: insomma, io mi occupo di tutte le faccende domestiche da quando Heloisa si è rinchiusa nel suo nido - commentò il giovane prete.
- Ed io intrattengo praticamente tutto il giorno Ioan, che non è un’impresa del tutto facile! – rimarcò Quaglia. - Considerando, oltretutto, che non sono certo io colui che vorrebbe avere accanto – quella frecciatina affatto velata fece rabbuiare visibilmente il volto di Blake.
Padre Craig avrebbe davvero voluto tappare la bocca di Quaglia con una benda quando se ne usciva in certi modi, non rendendosi conto di quanto poco tatto usasse.
Il giovane prete sapeva benissimo che Blake stava evitando di trascorrere del tempo con suo fratello, non certo perchè non lo volesse, bensì perchè la sua mente era talmente colma di pensieri oscuri e pericolosi ultimamente, che non voleva ne risentisse anche il suo amato fratellino.
Anche quella, era una strategia protettiva.
- Ad ogni modo... cosa vorresti insinuare con ciò che hai detto poco fa? – continuò Quaglia, osservando Blake rialzarsi in piedi dopo aver terminato il suo infuso.
- Intendo insinuare che, se non ci fossi io, voi due bambini troppo cresciuti morireste di fame, ecco cosa – gli rispose per le rime il ragazzo, accennando un ghigno malefico, senza dare il tempo a nessuno dei due di ribattere. – Io vado nella fucina, ho delle commissioni da sbrigare per conto di mio padre. Ricordatevi della colazione a Heloisa – terminò Blake dileguandosi un secondo dopo.
A ciò, padre Craig sbuffò lievemente, prese il piatto con la pagnotta e la portò ad Heloisa.
La donna riuscì a muoverlo in compassione, come al solito.
Fece come Blake gli aveva chiesto, dicendole che il ragazzo avesse degli impegni urgenti, e lei non fece ulteriori domande, riaccucciandosi nel suo giaciglio sfatto, con le coperte bianche ad avvolgere totalmente il suo corpo abbandonato.
Quando uscì dalla sua stanza e se ne ritornò in cucina, trovò Quaglia nella stessa posizione di prima, seduto, a terminare di mangiare la sua pagnotta.
- Da quant’è che non vi intrattenete più con Heloisa? – gli domandò improvvisamente, sbucando alle sue spalle.
A ciò, l’uomo si voltò verso di lui, rivolgendogli uno sguardo indefinibile. – Mi state davvero facendo questa domanda..? Sbaglio o è un tono di richiesta quello che sento?
- Non riesco più a vederla struggersi in tal modo, senza ragione... avrebbe bisogno di qualcuno che, per lo meno, la faccia sfogare un po’. O le parli, si intrattenga con lei.
- Sono settimane che non mi infilo nel suo letto, padre – rispose Quaglia, quasi seccamente. – Non dico che non sono dispiaciuto per la situazione in cui versa, ma non ho mai provato più che sentimenti di lussuria nei suoi confronti. Non riesco a fingere, in tal caso.
Padre Craig affilò lo sguardo. – Sbaglio o vi siete rianimato particolarmente quando Blake ha annunciato che sparirà dalla vita di Judith?
- Lo avete notato? – domandò Quaglia neanche troppo imbarazzato da ciò, anzi, tutt’altro.
Padre Craig se ne sorprese. Dove accidenti era finito il Quaglia infantile, puro e innocente dei primi tempi?
Ora sembrava totalmente un uomo nuovo.
- Avete mire nei confronti di Judith, non è così? E non vi sforzate neanche di nasconderlo, oh Signore!
- Cosa vi sarebbe di male? Ora che Blake si è fatto da parte, posso farmi avanti. Non ho trascorso una sola notte senza sognare quella fanciulla, padre.
- Non avete minimamente pensato al fatto che il vostro intento mostra degli evidenti problemi di fondo??
- Del tipo?
- Del tipo la vostra differenza di età. Ella ha quasi diciassette anni, mentre voi? A giudicare dall’aspetto siete mio coetaneo, se non addirittura oltre i trent’anni.
Inoltre, dimenticate che in questo villaggio i servi del Diavolo e del Creatore possono legarsi solamente a coloro del loro stesso culto?
- No, non l’ho dimeticato. Tuttavia... la punizione del rogo vale solamente per gli abitanti di Bliaint. Insomma, pensateci: nessuna legge vieta ad una serva del Diavolo o del Creatore di giacere con uno straniero, bensì solo di giacere/legarsi/sposarsi con un servo del culto opposto. Io non faccio parte di nessun culto. Non servo nè il Creatore nè il Diavolo. 
- Non potete sapere se non vi saranno delle ripercussioni! Così la metterete solo in pericolo!
- Oh suvvia, padre, perchè vi agitate tanto? Pensavo che la situazione giovasse anche a voi, no?
- Cosa... cosa intendete dire, di grazia...?
A ciò, Quaglia gli rivolse uno sguardo eloquente che lo fece tremare. – Se Judith è disponibile ora, significa che lo è anche Blake – disse mettendo particolare enfasi su quel nome.
- Non so di cosa diavolo stiate parlando.
- Oh, padre, perchè vi ostinate a negarlo davanti a me? Certo, per voi la situazione è ben più ostica, dato che voi non solo siete un uomo di dio con un voto di castità da mantenere, ma, per giunta, non so se Blake condivida lo stesso tipo di gusti. O magari invece sì, e ha avuto delle esperienze anche con persone del suo stesso sesso, chi lo sa.
- Smettetela! – esclamò padre Craig paonazzo di imbarazzo.
- Però vi converebbe sbrigarvi, se volete un consiglio, in quanto credo proprio lo abbia puntato anche Ephram, e da un bel po’. Dovreste farvi avanti prima di lui.
- Ho detto di finirla di parlare di tutto ciò! E abbassate la voce, potrebbero sentirvi..!
- Dunque non negate?
Padre Craig si arrese, cercando di calmarsi e di regolarizzare il respiro, senza troppo successo.
Per lo meno, almeno il suo volto era passato da una tonalità purpurea ad una accennatamente cremisi. – Da quanto...? Da quanto lo sapete?
- Volete davvero saperlo...?
Effettivamente, ripensandoci, no, non voleva davvero saperlo.
Tuttavia, Quaglia rispose comunque, dopo una breve pausa. – Più o meno da quando lo osservate costantemente con uno sguardo inebetito, ogni volta che lui pensa di non essere guardato. Ossia da sempre. Da quando sono arrivato qui.
Certo, devo ammettere che è molto difficile non essere attratti da una bellezza come la sua, ma non tutti lo guardano come lo guardate voi. Io no, ad esempio.
Padre Craig raggelò e si sentì avvampare nello stesso momento, capendo di essere stato colto con le mani nel sacco. - Voi... lo avete..?
- Detto a qualcuno? Mi credete tanto immotivatamente perfido, padre? È ovvio che non ne farò parola con nessuno, siete mio amico.
Padre Craig gli accennò un sorriso riconoscente, seppur sempre atterrito.
Un istante dopo ritornò immediatamente all’attacco: - Ad ogni modo, non vi permetterò di sedurre Judith!
- E per quale motivo? – gli domandò Quaglia assottigliando lo sguardo e osservandolo.
- Perchè tengo molto a lei e non permetterò che voi vi approfittiate del fatto che lei abbia perso la memoria.
- Oh. Oh... – realizzò Quaglia con sgomento. – Voi.. siete infatuato anche di Judith?! Padre, siete insaziabile! - esclamò l’uomo guardandolo risentito.
- Oh cielo, volete abbassare la voce?? E non ho mai detto questo!
- Ecco perchè andate spesso a trovarla per trascorrere del tempo con lei... ora è tutto chiaro! Ad ogni modo, non potete impedirmi di andare da lei. Judith è come se non vi conoscesse oramai. Non si fiderà di voi così facilmente. Vi conviene rinunciare a mettermi i bastoni fra le ruote con lei – disse fieramente.
- E se Blake dovesse venirlo a scoprire?? Cosa farete?
- Blake ci ha appena detto che ha rinunciato a lei, per permetterle di rifarsi una vita come più le aggrada. Anche volendo, non potrebbe rimangiarsi le parole che ha detto. Il mio interesse per Judith non minerà minimamente il mio rapporto con lui. E poi... non credete sia troppo cinico? Rinunciare a lei senza neanche averci provato? Sono certo che lei avrebbe lottato per lui, per tenerselo accanto, nel caso la situazione fosse stata invertita.
- Voi non capite ... – sospirò padre Craig, cercando di trovare le parole giuste per spiegargli. – L’amore è proprio questo. È sacrificarsi, rinunciare a qualcosa di molto importante, per il bene dell’altro. È molto più difficile lasciar andare la persona amata, piuttosto che tenerla ancorata a sè. A mio giudizio, è una dimostrazione d’amore molto più grande rinunciare a qualcuno, piuttosto che reclamarlo egoisticamente per sè.
- E voi ne sapete qualcosa, vero...? – gli domandò Quaglia, rivolgendogli uno sguardo colmo di compassione e di malinconia.
Padre Craig rimase a bocca aperta, senza nulla da dire, per diversi minuti.
- Ad ogni modo, state attento, padre: in questo villaggio non sono magnanimi con i monaci che violano i loro voti e non tengono fede al loro patto con dio.
Forse, la cosa più saggia da fare, per voi, è continuare a fare solo e solamente ciò che avete fatto finora: guardare.
 
 
- Inoltre... ah dimenticavo! Vi è stata anche un’epidemia poco dopo la ribellione. Ha mietuto un sacco di vittime, ma tu ne siete uscita totalmente illesa, fortunatamente, mia cara – concluse padre Thomas stringendo la mano dalla presa ancora debole della fanciulla che aveva visto crescere, appena risvegliatasi dalle sue lunghe ore di sonno.
Le aveva raccontato per filo e per segno tutto quello che era accaduto in un anno, o per lo meno, tutto ciò di cui lui era a conoscenza; eccetto, ovviamente, tutto quel che riguardasse in qualche modo Blake, facendo non poca fatica a trovare degli stratagemmi intelligenti per escluderlo dal proprio racconto.
Il monaco le sorrise teneramente, mentre Judith si intrecciava una cioccia di capelli bianchi tra le dita, ancora affatto abituata a quello strano colore. La sua testa era fasciata, dalla parte in cui vi era la lesione.
Quando Judith aveva domandato chi l’avesse aggredita, nessun monaco aveva saputo risponderle.
Quando aveva domandato di chi fosse il bambino, non avevano saputo darle una risposta certa, ancora una volta.
Tante erano le risposte che i monaci non avevano saputo darle, e lei era sempre stata di natura un’anima curiosa, incapace di accontentarsi di una risposta a metà o di una mezza bugia.
I suoi occhi neri come l’inchiostro, grandi e svegli, scrutarono padre Thomas, curiosi e confusi insieme.
- Grazie, padre. Posso farti giusto un’altra domanda?
- Certo, mia cara.
- Sai se io questo bambino lo volessi?
- Ma certo che lo vuoi!!
- Ne sei certo?
- Ovviamente, Judith! Una gravidanza è un dono del tuo signore! Non bisogna mai rifiutarlo.
- So quali sono le credenze comuni. Tuttavia, la volontà propria è una cosa e il volere dei testi un’altra. Ognuno di noi ha libero arbitrio, se ciò che desidera non va contro le sacre leggi di Bliaint. E ti ricordo che non è scritto da nessuna parte che una donna non possa non desiderare un bambino – disse con tranquillità la ragazza, poggiando più comodamente la schiena sul cuscino dietro di sè.
- Judith.. cara. Non è mai successo che una donna non volesse il suo bambino.
A ciò, la ragazza preferì non rispondere, capendo che continuare quel discorso col monaco non avrebbe portato ad alcun risultato, in quanto era come se parlassero in due lingue differenti.
Aveva tanta, tanta confusione in testa al momento.
Si era risvegliata in un mondo nuovo, o quasi, diverso da come lo ricordava.
Naren, il suo amato, non era accanto a lei.
Inoltre, quei monaci le avevano parlato di eventi che l’avevano vista protagonista e che non avrebbe mai pensato di sentir associare a sè, come uno spettacolo teatrale; e le avevano menzionato nomi, a loro detta che le erano molto vicini recentemente, che lei non ricordava minimamente: Hinedia, padre Craig, Maroine, Maringlen, Folker.
Persone di cui lei non rimembrava neanche l’aspetto.
Il fatto di aver perso la memoria dell’anno appena trascorso la turbava non poco, ma, al contempo, doveva anche cercare di non sforzarsi troppo, di restare calma, in quanto agitarsi non avrebbe portato a nulla.
Razionale, come sempre, la ragazza decise che, se la “vecchia” se stessa, quella prima della perdita di memoria, aveva per qualche motivo deciso di portare avanti quella gravidanza indesiderata, allora significava che doveva rispettare la sua decisione, e fare di tutto per non recare danno al suo bambino.
Bevve il suo latte caldo ristoratore e osservò padre Thomas rialzarsi dal letto.
- Dove vai? – gli domandò, credendo che volesse lasciarla sola per permetterle di riposare e riprendere le forze un altro po’.
- Vi sono degli ospiti fuori dalla porta, degli ospiti per voi, che vorrebbero vedervi e sapere come state – le disse con cautela. – Ospiti che dovreste ricordare ma che non ricordate, Judith.
- Oh ... – commentò la ragazza.
Non voleva vedere nessuno che non conoscesse, al momento.
Ma la parte irrimediabilmente cordiale del suo animo la fece empatizzare con le povere persone che dovevano trovarsi là fuori, preoccupati per lei, perciò decise di acconsentire a farli entrare.
Padre Thomas sorrise dinnanzi a tanta collaborazione e si affrettò ad uscire dalla stanza, dando il permesso a chiunque sostasse fuori di fare il suo ingresso.
Judith individuò la figura di due stranieri entrare dentro la sua camera, rimanendone non poco sorpresa.
Due stranieri a Bliaint? Da quando gli stranieri entravano e permanevano indisturbati nel loro villaggio?
Era palese che fossero stranieri, in quanto non mostravano nè una bellezza caratteristica ed evidente, nè un aspetto particolarmente brutto.
Il primo che individuò aveva uno sguardo che non riuscì a definire in altro modo che naturalmente buono.
Era tutto sommato giovane, forse sulla trentina, ed era un monaco (potè dedurlo dalla tunica e dal crocefisso appeso al collo); possedeva dei corti ma folti capelli stranamente dorati, di un colore tanto vivido da farle comprendere che anche lui doveva aver sottoposto la sua chioma a quella strana pigmentazione colorata; sembrava magro, ma al contempo non mingherlino, bensì di costituzione abbastanza robusta; aveva dei piccoli e gentili occhi marroni, la pelle molto chiara e il viso, seppur non particolarmente bello, piacevole da guardare.
Il secondo che entrò, sulla trentina anche lui, era sicuramente più affascinante del primo, seppur presentasse comunque un aspetto abbastanza neutro: era più alto, aveva gli occhi grandi e azzurri, un sottile filo di barba scura ad accarezzargli le mascelle, la postura ben eretta, la camminata sicura e, anche nel suo caso, i suoi corti capelli erano colorati artificialmente, di un rosa carne quasi identico alla sfumatura della sua pelle.
Judith li osservò e studiò bene, con un briciolo di diffidenza, vedendoli avvicinarsi cautamente al suo immenso letto, come due grandi gatti attenti a non far scappare via una cavalletta.
- Signorina Judith – le si rivolse rispettosamente il monaco, accennandole un sorriso che fu in grado di scioglierla, per qualche motivo: dolce, rincuorato, attento, sinceramente felice di rivederla viva, sana e salva, seppur non in grado di ricordarsi di lui. – Io mi chiamo Craig. Sono padre Craig – si presentò rivolgendole un lieve inchino, rimanendo lontano alcuni passi dal letto, come se avesse paura di avvicinarsi troppo e di spaventarla.
Judith gliene fu lieta. – Molto piacere, padre Craig. Mi hanno parlato di voi. Mi hanno detto ... che siete un mio caro amico, se non erro.
- Esattamente. Con la mia visita non intendevo spaventarvi o mettervi a disagio, in quanto posso solo lontanamente immaginare come vi possiate sentire in questo momento... tuttavia, stavate per morire, mi sono spaventato davvero molto, perciò ho comunque voluto venire qui per porgervi i miei saluti e i miei omaggi di pronta guarigione.
Il monaco era un vero signore e gentiluomo, e Judith capì immediatamente come mai doveva esserci diventata amica.
- Grazie. Ve ne sono grata. Premetto col dirvi che non ho intenzione di non permettere alle persone che mi conoscevano e che tengono a me di non starmi accanto, nonostante io non mi ricordi di loro.
Vorrei... sforzarmi di riacquisire un contatto con voi, sempre se voi avrete la pazienza di attendermi, di attenervi ai miei tempi e di starmi vicino. Inoltre, chissà, potrebbe essere che io riacquisisca la memoria tra qualche tempo. I medici sono positivi.
Padre Craig rimase piacevolmente colpito da quelle parole, sorridendole di slancio. – Vi starò sempre accanto in questo percorso, mia signora, lo prometto.
- Bene – rispose lei rivolgendogli un cordiale sorriso. – Poi mi racconterete come mai siete qui, dato che è evidente non siate un abitante di Bliaint. Dove alloggiate al momento? – gli domandò lei, non riuscendo a trattenere la sua curiosità.
- Sono qui da qualche mese oramai. Sono stato ospitato dal proprietario della galleria, Dun Rolland.
- Dun Rolland... se è il proprietario della galleria ho sicuramente sentito parlare di lui, tuttavia, non credo di averlo mai incontrato. Si dice che chiunque lavori nella galleria passi la maggior parte del suo tempo là sotto, nascosto dalla luce del sole.
- Già... – padre Craig iniziò già a sudare freddo non appena la conversazione si spostò sui Rolland.
Si rese conto quanto fosse realmente difficile non parlare di Blake dinnanzi a Judith solo in quel momento.
- Come vi state trovando con lui e la sua famiglia? – gli domandò la fanciulla, ancora genuinamente curiosa.
- Bene, molto! Sono tutti estremamente cordiali e ospitali! – esclamò lievemente nervoso, cercando un modo veloce per accantonare quell’argomento.
Fortunatamente, Quaglia venne in suo aiuto tossicchiando per attirare la sua attenzione.
A ciò, si ricordò dell’esistenza del suo amico accanto a sè. – Oh, ma che maleducato! Perdonatemi, Judith, non vi ho ancora presentato Quaglia, un altro ospite straniero che pernotta con me dai Rolland.
A tal punto, la bellissima fanciulla spostò l’attenzione su Quaglia, alzando un sopracciglio contrariato. - “Quaglia”...? Che nome bizzarro, se posso permettermi – commentò lei senza filtri.
A ciò, l’uomo si lasciò andare ad una risata genuina, avvicinandosi al letto e prendendosi un po’ più di confidenza rispetto a padre Craig, prendendole la mano e baciandogliela, in un gesto di pura galanteria che Judith non si aspettava per niente, e che la lasciò un po’ sorpresa.
- Oh... vi ringrazio, ma.. non ce ne era bisogno.
- Vi prego, mia signora, vorrei onorarvi come si deve – replicò lui, accennandole un bel sorriso. – Ad ogni modo, il mio bizzarro nome è dato dal fatto che anche io, come voi, ho perduto i miei ricordi.
- Dite davvero..?
- Sì. Ma, a differenza vostra, li ho perduti tutti. Dal primo all’ultimo. Dunque, non essendo più la persona che ero prima, ho deciso di cambiare nome e di chiamarmi come la prima cosa che ho visto appena ho ripreso i sensi. Un domani, se vi sarà occasione e me lo permetterete, mia signora, avrò modo di raccontarvi la mia storia, la storia che mi ha portato qui, a Bliaint, che mi ha portato ad incontrare voi.
Padre Craig roteò gli occhi al cielo a tali parole, sperando che quel tono neanche troppo velatamente stucchevole non avesse spaventato Judith.
Ma la fanciulla sorrise, di gusto. – Dunque eravamo amici anche noi, Quaglia, giusto?
- Sì esatto, mia signora.
- Allora, perchè no? Inoltre, siete anche amico di padre Craig e mi piacerebbe riallacciare i rapporti con tutte le persone di cui mi sono dimenticata.
“Con tutte le persone di cui mi sono dimenticata”. Quella frase risuonò nella testa di padre Craig con costanza, facendolo rabbuiare.
Non di tutti.
Come mai non riusciva ad esserne felice?
Perchè, nonostante fosse geloso dei due, non riusciva a gioire della cosa, come faceva Quaglia?
Non sapeva dirlo con certezza, ma il pensiero che forse Judith non avrebbe mai saputo e ricordato nulla di Blake, e che quest’ultimo si negasse la possibilità di ristabilire un contatto con lei, lo faceva stare male, e molto.
L’amore dev’essere questo  si ripetè, replicando le parole che aveva pronunciato a Quaglia quella mattina stessa, durante la loro imbarazzante conversazione  L’amore è rinunciare a qualcuno, volere solo il suo bene, persino se il suo bene implicasse farsi da parte.
- Beh.. se volete davvero conoscere tutti, avete una bella mandria di bambini che vi aspettano! – esclamò Quaglia facendo sorridere Judith e riscuotendo padre Craig dai suoi pensieri.
- Ditemi, Judith.. per caso ricordate qualcosa, anche solo una singola parola, un’immagine sfocata, qualsiasi cosa possa esserci d’aiuto per cercare di capire chi vi ha aggredita? – le domandò Quaglia prendendosi la libertà di sedersi sul letto, seppur all’altezza dei piedi della ragazza.
- Io ... sto cercando di riportare alla mente qualcosa da quando mi sono svegliata, ma è tutto davvero molto confuso – rispose lei riflettendovi su.
Quaglia la osservò mentre lei era troppo presa dai suoi pensieri.
Fu lieto di riuscire finalmente a prendersi quel poco in più di libertà per ammirarla, in tutta l’inconsapevole luminosità che quella splendida fanciulla emanava.
Al solo pensiero che, da quel momento in poi, avrebbe potuto stringere un rapporto più stretto con questa nuova Judith, non stava più nella pelle.
- C’è una parola.. una parola che proprio non riesco a togliermi dalla mente – rispose improvvisamente lei.
- Quale parola?
- “Homunculus”. Ma.. non mi è di alcun aiuto così decontesualizzata.
Non appena udì quel termine, Quaglia raggelò.
Immediatamente, una serie di immagini si susseguirono nella sua mente: Hinedia che beveva per errore l’infuso con dentro il suo siero, il volto di Ephram pietrificato dinnanzi a ciò in quella serata agitata dalle intemperie, la figura di Hinedia che si “trasformava” in mezzo al palco durante lo spettacolo, spingendo giù Edith e Gwen, Hinedia colpita da quella strana e spaventosa “crisi” dietro le quinte, mentre nessuno di loro riusciva a placarla.
Aveva avuto il sospetto che il siero c’entrasse qualcosa dal momento in cui l’aveva vista spingere già dal palco quelle due bambine, quasi uccidendole, dal nulla.
Ora... ora ne aveva la certezza: il suo siero aveva provocato qualcosa in Hinedia.
Qualcosa che, forse, solo lui stesso aveva dedotto.
Ma no, non poteva essere il solo, erano in quattro quella sera, ed Ephram era troppo intelligente per non esserci arrivato. Molto semplicemente, lo stregone non se ne stava curando, forse troppo spaventato dall’eventualità di ciò in cui si potesse trasformare quella ragazza.
Ephram era uno stregone, aveva a che fare con la magia nera, non con l’alchimia. Non ne sapeva nulla di alchimia. Per questo era spaventato.
Padre Craig invece? Aveva dedotto qualcosa? O era troppo preso dai demoni di Blake e dalla preoccupazione per Judith per averci pensato?
Quaglia non poteva saperlo.
Eppure, non sarebbe stato con le mani in mano. Doveva agire. In fondo, se la serva del Creatore si era davvero “divisa in due” come temeva, liberando una parte di sè estremamente candida, e un’altra decisamente mostruosa, era solo colpa sua e del siero che aveva creato per se stesso. Il suo più grande errore.
Non voleva che fosse quella ragazza a pagarne le conseguenze, così come non voleva che Judith e tutte le altre persone a lui care fossero in pericolo a causa sua.
- Signor Quaglia? Quaglia? – richiamò la sua attenzione Judith, vedendolo isolarsi nelle sue elucubrazioni. - Vi è venuto in mente qualcosa che potrebbe aiutarmi a ricordare?
- No. Nulla, mia signora. Ora riposate, ne avete bisogno. Io e padre Craig torneremo a trovarvi appena possibile.
 
 
- CHE COSA HAI FATTO?!? – urlò a squarciagola Hinedia dinnanzi allo specchio intero della sua camera, afferrando un suo stivale e gettandolo violentemente contro la superficie riflettente, crepandola in più pezzi.
Alcuni di quei pezzi si staccarono, cadendo a terra, mentre, i restanti, mostrarono un riflesso della ragazza instabile e distorto nei punti di rottura.
- CHE COSA DIAVOLO HAI FATTO!? – urlò ancora piangendo disperata, cadendo in ginocchio e stringendosi i capelli tra le dita.
Ora era di nuovo in sè.
Era di nuovo in sè?
Non c’era traccia di lei.
Così come non c’era traccia dell’altra.
Erano ben due le presenze indesiderate. Le due componenti che formavano ciò che era, in tutto e per tutto.
Con la differenza che, una di loro era molto meno dannosa, mentre l’altra era in grado di provocare danni irreparabili.
Erano trascorsi solo tre giorni, tre giorni da quando gli effetti di quel dannato siero si erano manifestati di nuovo in lei, e in quei tre giorni aveva ridotto in fin di vita due persone a lei care per colpa sua.
No, si rifiutava di darsi la colpa. La colpa era di lei. Quel mostro che le assomigliava terribilmente ma che si rifiutava di chiamare col proprio nome.
Improvvisamente, il ricordo della notte precedente, della conversazione con Judith, la invase di nuovo, tormentandola.
La sua più cara amica, prima di venire quasi uccisa da lei, le aveva dato un nome, per identificarla e distinguerla da Hinedia: Layla. Oscura come la notte.
Judith, come al solito, aveva capito tutto. Sin troppo presto. Aveva capito e, anche nella difficoltà, aveva fatto in modo di aiutarla, con i mezzi che aveva.
La sua più cara amica.
E il ricordo di ciò che aveva scoperto Judith se lo era portato con sè, perdendolo insieme a tutti gli altri ricordi che aveva perduto.
Hinedia si strinse le ciocche fino a quasi staccarsele, invasa dai singhiozzi.
- Era mia amica... lei è mia amica!! E TU! TU LE HAI FATTO DEL MALE, LAYLA! VIENI FUORI SE HAI IL CORAGGIO! VIENI FUORI DA ME, DANNATA!! -urlò cercando di strapparsi la vestaglia che indossava, l’unico indumento che copriva il suo corpo, in preda alla disperazione. – Non azzardarti mai più a toccarla, Layla!!! Mai più!!! Se farai di nuovo del male a Judith... mi toglierò la vita!!!
Non sapeva con quanta costanza venisse fuori, non sapeva come avvenisse la “trasformazione”, non sapeva nulla.
Quando era Layla a prendere il predominio del suo corpo, allora l’altra che fine faceva? Era evidente che il suo corpo era in grado, in qualche modo, di dividersi in due, in quanto, almeno ora riusciva a ricordare distintamente ogni ricordo di tutte e due le sue metà, contemporaneamente.
La prima volta non era stato così.
Dunque, sapeva cosa ognuna delle due avesse fatto.
Poi, quando ritornavano una sola anima e un solo corpo, ritornava anche lei. Ritornava Hinedia. La vera Hinedia.
Pianse, pianse ancora a dirotto, incurante che i suoi genitori potessero udirla e preoccuparsi per lei, per l’ennesima volta.
Difatti, non appena lo pensò, sua madre entrò immediatamente in camera sua, fiondandosi accanto a lei e abbracciandola di slancio, piangendo con lei.
- Geenie, ti prego, calmati.. calmati ora.. Geenie, non urlare, ti prego.. io e tuo padre siamo qui..
- Lasciami, mamma, ti scongiuro... vattene via. Non voglio vedere nessuno ... – la supplicò tremante.
- Geenie, tesoro.. – la richiamò sua madre prendendole il volto tra le mani e avvicinandolo al suo, guardandola dritta negli occhi lucidi almeno quanto i suoi. – C’è qualcuno di là per te. Dice di essere un amico...
In quel momento, Hinedia vagliò tutte le varie possibilità in pochi secondi: che fosse padre Craig? No, era sicuramente al capezzale di Judith. Naren? Neanche, altrimenti sua madre le avrebbe detto che si trattasse del suo promesso, non di un “amico”. Che fosse Blake...? No, Blake era escluso a priori.
Allora chi?
- Di chi si tratta, madre..? – le domandò mentre lasciava che sua madre l’aiutasse a rialzarsi in piedi e le sistemasse la vestaglia semistrappata, iniziando a vestirla con qualcosa di più consono a ricevere ospiti.
Nonostante lo stato pietoso di Hinedia, sua madre, in qualsiasi circostanza, avrebbe sempre messo al primo posto la buona educazione e le convenzioni, come quella di farsi trovare sempre abbigliati in maniera rispettabile dinnanzi agli ospiti.
- È quel gentiluomo straniero che vive a casa del proprietario della galleria. Dice di chiamarsi...-
- Padre Craig? – la interruppe sorpresa Hinedia.
- No, l’altro.
- Quaglia...??
- Esatto. Ora lo faccio entrare. Ti vuole parlare. Mi raccomando, per qualsiasi cosa, chiamaci, io e tuo padre siamo di là – le disse dandole un dolce bacio sulla fronte, poco prima di uscire dalla stanza.
- Mamma, aspetta- ma la ragazza non fece in tempo a pronunciare un’altra parola, che la porta si riaprì di nuovo, rivelando la figura di Quaglia.
L’uomo entrò nella stanza senza attendere un invito da parte di Hinedia, la quale si strinse nei suoi vestiti e abbassò lo sguardo, vergognandosi della situazione pietosa in cui si trovava la sua stanza.
Rialzò gli occhi solamente quando udì la voce dell’uomo esordire: - Peccato. Per lo specchio.
La ragazza lo squadrò, confusa. – Cosa ci fate voi qui?
A ciò, egli prese una sedia abbandonata in un angolo della stanza e la pose dinnanzi alla fanciulla, sedendovisi sopra. – Conosco il vostro segreto.
- Che cosa...?!
- C’ero anch’io, la notte in cui avete bevuto il mio siero, vi ricordo.
Ho fatto due più due.
Inoltre, sono stato a trovare Judith poco fa. Ella mi ha rivelato di ricordare solo una parola della notte passata..: “homunculus”, nonchè il fantoccio che contiene l’anima nera dell’uomo. Vi dice qualcosa?
A ciò, Hinedia raggelò e si rabbuiò insieme, riprendendo a stringersi i capelli.
- Non temete – tentò di rassicurarla l’uomo. – So che non l’avete fatto volontariamente. Il siero che ho creato, a quanto pare, ha un effetto molto più catastrofico di quel che credevo. Voglio aiutarvi.
- È colpa vostra...
- Lo so. E ne sono molto rammaricato. Per questo voglio tentare di rimediare e di tenere la situazione sottocontrollo per quanto possibile. Io sono il creatore del siero che adesso vi sta rovinando la vita, così come sta mettendo in pericolo quella delle persone a cui tengo, e a cui tenete anche voi... Judith è vostra amica, giusto? – le domandò, inclinando la testa per scorgere i suoi occhi bassi, i quali si rialzarono immediatamente su di lui, pregni di lacrime e di senso di colpa.
- Non ho più alcun diritto... di considerarmi sua amica... ho perso questo privilegio la notte scorsa.
- Hinedia, non incolpatevi. Ve lo ripeto: non siete stata voi. Le avete già dato un nome?
- A chi?
- Alle due entità che vi abitano e che si sono divise. Vi potrebbe servire per distinguerle da voi e per non incolparvi inutilmente a causa delle azioni che compiono e su cui voi non avete il controllo.
Hinedia annuì. – L’anima nera è Layla.
- E l’anima bianca?
- Non lo so ancora. Lei non mi ha dato problemi sinora.
- Il fatto che non vi abbia dato problemi finora non significa che non ve li darà in futuro, o che non dobbiate darle un nome. È pur sempre un’entità distinta da voi, che agisce autonomamente.
- Ma loro due sono me, Quaglia. Sono sempre io.
- Quando sono divise non siete voi. Sono altro. Dovete imparare a capirlo o, prima o poi, proverete a togliervi la vita con uno di quei vetri rotti e appuntiti lì a terra, devastata dal rimorso – la ragguardò pazientemente. Poi vi pensò un attimo su, prima di dire: – Agnes: il suo significato dal latino è “candida”. Aver riacquisito solo i ricordi della mia infanzia almeno è servito a qualcosa... – disse l’uomo, accennando un sorriso sconsolato.
- Agnes... – Hinedia assaporò quel nome sulla lingua, convenendo che fosse adatto, anche quello.
Ora erano definitivamente due persone diverse da lei, con un nome diverso, su cui non poteva esercitare un controllo, per lo meno non diretto. Erano estensioni estreme di se stessa, distorte, sbagliate.
- Ora, ditemi per filo e per segno, per come lo ricordate, cosa ha fatto Layla e cosa ha fatto Agnes, sin dalla prima volta in cui vi siete divise.
- La prima volta non la rimembro con esattezza, è stato un mese fa e ho dei ricordi molto confusi..: è stato il giorno dopo aver bevuto il siero. La mattina sono andata alla cattedrale con Judith, per la lezione teatrale con i bambini.
- Vi riferite ad Agnes.. l’anima bianca, giusto?
- Sì, Agnes, esatto.
- E Layla, nel frattempo? Cosa faceva mentre Agnes era con Judith e i bambini?
Hinedia abbassò lo sguardo, torturandosi le mani.
- Hinedia? – la richiamò Quaglia, notando che non rispondesse.
- Era con Blake. Layla era con Blake – rispose di getto, come per togliersi il pensiero una volta per tutte.
- Oh.. – rispose Quaglia, rivogendole un’espressione di pura realizzazione che agitò Hinedia ancor di più, facendola sentire inevitabilmente giudicata.
- Che c’è??
- Nulla. È solo che ora mi è tutto chiaro.
- Cosa vi è chiaro...?
- Si può capire molto da voi, notando come agiscono le vostre due metà. In tal caso, la vostra anima nera incarna i vostri desideri più perversi e proibiti, mentre l’anima bianca incarna la vostra razionalità, la vostra parte pura, fedele, priva di macchia.
- Dunque...?? Ciò cosa starebbe a significare?? – domandò la ragazza impaziente, temendo già per la risposta che si immaginava di ricevere e che si prospettava.
- Ciò significa.. – cominciò Quaglia facendo una breve pausa, cercando di dirlo nel modo più delicato possibile: - che, come dimostratosi dagli eventi e dalle scelte fatte, la vostra anima bianca incarna la vostra amicizia con Judith, sincera, basata sulla fiducia e priva di sentimenti pericolosi. Mentre... la vostra anima nera contiene ciò che provate per Blake: attrazione proibita, lussuria, desiderio represso e nascosto - concluse. - Dovete capire che, nelle vostre due anime, tutti questi sentimenti vengono estremizzati. Per tale motivo la vostra anima bianca andrà sempre in cerca di Judith, mentre quella nera andrà sempre in cerca di Blake, e non viceversa.
- Vi sbagliate!! – protestò Hinedia con vigore, scattando in piedi, iniziando a respirare a fatica a causa del nervosismo.  – State forse insinuando... – continuò con le lacrime agli occhi. – ..che tutto ciò che provo per Blake è dannoso e condannabile...? State insinuando che tutto ciò che mi lega a lui è un cumulo di pulsioni carnali?? Non è così!!
- Beh, a me sembra così. Spiegatemelo voi, allora, se avete un’altra teoria: per quale motivo Agnes si è diretta da Judith, mentre Layla ha cercato Blake? – le domandò, non lasciandole tuttavia il tempo di rispondere, in quanto continuò: - Io non sono qui per giudicarvi, Hinedia. Parlo solo in base ai fatti. È evidente che siete legata a Blake, in qualche modo: lo cercate spesso, anche in casa sua talvolta, gli avete chiesto di leggere per voi per poter trascorrere del tempo con lui senza dover dare spiegazioni a nessuno. Se vi chiedessi di guardarmi negli occhi e di dirmi che non è così, riuscireste a negare?
- Io non... non posso accettarlo – esalò la ragazza stringendo i pugni fino a ferirsi i palmi.
Poi, un pensiero piombò nella sua mente, come un elisir, un balsamo per l’anima, permettendole di riprendere a respirare. - Non è solo questo – affermò con convinzione. – Posso ammettere che provo attrazione fisica nei suoi confronti, non lo negherò. Tuttavia, non è il desiderio che mi lega davvero a lui. Così come non è solamente un sentimento di fiducia e lealtà senza macchia che mi lega a Judith.
- Come fate a dire questo?
- Ne sono certa perchè, ieri notte, nonchè la seconda volta che le mie due anime si sono divise, è accaduto esattamente il contrario: l’anima nera è andata da Judith, tentando di ucciderla, poichè pregna di tutta l’invidia e altre pericolose emozioni represse che non mi ero mai resa conto di provare nei suoi confronti; mentre Agnes, l’anima bianca, è andata a cercare Blake.
- Per quale motivo Agnes ha cercato Blake?
- Conforto. Semplicemente per ricevere conforto da lui. Null’altro. I sentimenti che provo per lui sono in grado di esulare dalla sfera carnale. C’è una connessione mentale tra me e lui, una connessione che ho percepito dalla prima volta che l’ho visto.
A ciò, Quaglia fu costretto a ricredersi. – D’accordo. Potreste aver ragione. Tuttavia, voglio mettervi in guardia: così come i sentimenti negativi che macchiano la vostra amicizia con Judith sono l’invidia, la rabbia e il risentimento; i sentimenti negativi che invece sopraggiungono quando c’è di mezzo un sentimento come l’infatuazione sono la gelosia, la possessività e la morbosità. Ciò che sto cercando di dirvi è che, oltre a stare attenta a non far mai più incontrare Layla con Judith, dovete anche evitare che Layla incontri Blake. Così come la vostra anima nera potrebbe fare ancora del male a Judith, potrebbe essere capace di farlo anche alle persone che sono care a Blake, solo per il fatto che gli si avvicinano troppo. Capite cosa intendo?
Hinedia annuì con vigore, riconoscendo quanto l’uomo avesse ragione.
- Ovviamente è inutile che vi dica che dovreste evitare che Layla si avvicini a chiunque in generale, in quanto verso ognuno dei vostri amici e conoscenti potrebbe nutrire diverse tipologie di emozioni sbagliate e pericolose. Probabilmente si è manifestata solo con Judith e Blake sinora perchè sono le persone verso cui nutrite dei sentimenti più forti e contrastanti. Layla è la più pericolosa tra le due, tuttavia non sottovalutate anche Agnes. Sembra innocua, ma potrebbe causare dei danni anche lei.
Hinedia annuì ancora.
- Bene. Ad ogni modo, Blake e Judith si sono accorti che ci fosse qualcosa che non andasse quando si sono trovati davanti Agnes e Layla?
- Con Agnes no, perchè infondo Agnes si comporta esattamente come me, per la maggior parte.
Con Layla invece sì. Blake si è accorto che ci fosse qualcosa di strano, mentre Judith ha compreso tutto. Tuttavia, ha perduto la memoria in seguito alla mia... perciò, ora non ricorda nulla – la ragazza si rintanò ancora su se stessa, circondandosi il busto con le braccia.
Quaglia per un attimo desiderò abbracciarla, tanta era la tenerezza che gli suscitava in quel momento, persa, incerta sul da farsi, estramamente immersa nel senso di colpa.
- Come posso capire quando sto per ...? – gli domandò.
- “Dividervi”? Non lo so, dovremmo capirlo. Voi riferitemi tutto ciò che accadrà in questi giorni, e avvertitemi la prossima volta che le due si manifestano. Dovremmo incontrarci in un luogo più discreto di casa vostra, tuttavia.
- Potrebbe andar bene la Taverna? Vi sono alcuni orari del giorno in cui è quasi vuota.
- La Taverna andrà bene.
- Cercherò di tenermi lontana il più possibile da Judith, non solo quando sarà Layla a dominarmi, ma in generale. Non voglio rischiare di farle ancora del male e non mi merito la sua amicizia. Vi chiedo solo di... aggiornarmi su come stia. D’accordo?
- Certo. Lo farò, statene certa.
- Quaglia, vi ringrazio per tutto ciò che state facendo per me.
- Non ringraziatemi.
Un’ultima cosa: non parlate mai, mai a nessuno di tutto ciò che ci siamo detti oggi.
 
 
Judith camminò a passo svelto, stringendosi nel suo mantello color perla, diretta verso una destinazione ben precisa.
Bussò alla bottega del mastro, sperando ardentemente che non fosse proprio il vecchio mastro ad aprirle, bensì qualcun’altro.
Le sue speranze si adempirono nel momento in cui un ignaro Naren aprì la porticina della bottega e si ritrovò immediatamente invaso dall’abbraccio soffocante della suo primo ed eterno amore.
Judith gli si fiondò addosso senza attendere che lui parlasse, circondandogli il collo con le braccia e stringendolo a sè, smaniosa.
Dal canto suo, il servo del Creatore, totalmente esterrefatto, si lasciò invadere dal profumo dolce della ragazza, indietreggiando nelle scalinate, ricambiando la sua stretta di slancio, dopo lo spaesamento iniziale.
- Judith... cosa...?
- Perchè non sei venuto da me al mio risveglio, Van?? – gli domandò lei con voce accorata, diretta nel suo orecchio.
- Arley... lo sai che i monaci non possono sapere di noi..
- Cosa è accaduto nel corso di quest’anno che ti ha allontanato da me? Non accampare la scusa dei monaci, avresti comunque trovato il modo per venirmi a trovare, se avessi voluto – gli disse, continuando a stringerlo, mentre il ragazzo non riuscì a fare a meno di ricambiare l’abbraccio e di affondare il volto nei suoi capelli, respirando pesantemente, sollevato, come se per cento anni fosse stato privato della sua linfa vitale e ora l’avesse ritrovata.
- Arley, amore... io ... mi sto per sposare... con un’altra donna – sussurrò sull’orlo delle lacrime, avvertendo immediatamente la presa della ragazza allentarsi, fino a cessare completamente.
Sconvolta, Judith si staccò immediatamente da lui, guardandolo ad occhi sgranati. – Cosa...? Io... credevo che il bambino fosse tuo...
- Difatti lo è – si affrettò a rispondere lui rassicurandola, cercando di riavvicinarsi, ma ella fece un passo indietro.
- Cosa è accaduto, allora, tra noi..?
Posso comprendere che non siamo riusciti più a resistere e abbiamo consumato, nonostante ci eravamo ripromessi di non farlo, tuttavia, com’è stato possibile che siamo stati tanto ingenui e incuranti da farmi incappare in una gravidanza..? Come è accaduto?
E per quale motivo ora sei promesso ad un’altra..?
Ho così tante domande... – sussurrò la ragazza stringendosi la testa tra le mani.
- Arley...
- Non chiamarmi così. Se il tuo cuore appartiene ad un’altra oramai, non chiamarmi più così.
- Il mio cuore apparterrà sempre a te...
- Naren. Parla.
- Judith, sono cambiate tante cose nel corso di questo ultimo anno.. devi comprenderlo.
Le circostanze della nostra ... “consumazione” carnale non sono state esattamente quelle che immagini .. - sussurrò Naren iniziando a tremare.
- Che cosa intendi..? Cos’è successo, dunque?? Dimmelo.
- Non posso...
Gli occhi di Judith si inumidirono, mentre si sforzava di mantenere la calma. – Chi è? Chi è la tua promessa?
- Una serva del Creatore, ovviamente.
- La conosco?
- Non ti ricordi più di lei, suppongo.
Le lampade a olio che vi erano nella piccola bottega li illuminavano di una luce calda e soffusa.
- Judith... sei stata tu stessa ad allontanarti da me.
- Cosa..?? Io ti amo, Naren. Come avrei potuto?
- Non mi ami più, da tempo... C’è.. – il servo del Creatore si bloccò, mentre cercava di riprendere a parlare nonostante il suo groppo in gola. – C’è un ragazzo. Un nuovo ragazzo, nella tua vita. Lui ha preso il mio posto.
- Cosa...?! Chi è costui??
- Se non è venuto lui da te... allora non posso dirtelo.
- Per quale motivo ho la costante sensazione che mi nascondiate tutti qualcosa da quando mi sono svegliata?! Per gli Inferi, non è possibile che io non ricordi nulla...! – esclamò poggiando i palmi della mani ad un tavolino, abbassando il volto per cercare di calmarsi, avvertendo tutto il proprio corpo invaso da brividi di nervosismo e agitazione.
- Judith...
- Voglio sapere come mai mi hai ingravidata, Naren. Come è successo? Dimmelo. Ho il diritto di saperlo.
- Judith...
- È questo il motivo per cui la nostra relazione è terminata, vero..? Allora, dimmelo, ti prego. Ho bisogno di saperlo.
Naren iniziò a tremare di freddo al solo ricordo lucido di quella dannata notte di celebrazioni che non avrebbe mai e poi mai lasciato le sue memorie, sfortunatamente.
Una notte che lo tormentava e che non aveva mai smesso di popolare i suoi incubi e i suoi sogni bagnati, facendolo sentire una specie di mostro.
Un mostro per ciò che aveva fatto a lei e a lui.
- Naren...? Stai tremando?
Il ragazzo si coprì il volto con i palmi, lasciandosi andare alle lacrime. – Io non posso dirtelo, Judith... non posso dirti cosa ti ho fatto... per favore, non posso...
- Che cosa hai fatto..? – chiese angosciata e perplessa la fanciulla.
- Eri così bella quella notte... sei sempre bella.. sei sempre bellissima – sussurrò in un momento di debolezza, cercando di riavvicinarsi a lei, e di risentire ancora il suo profumo.
Ma Judith indietreggiò ancora, d’istinto. Ciò che stava vedendo non le stava piacendo.
- Io ho commesso un grave peccato, amore mio. E tu non mi perdonerai mai.
Ogni volta che chiudo gli occhi, sogno le cose indicibili che ho fatto a te.. e anche a qualcun altro.
Non mi perdonerò mai. E neanche Dio mi perdonerà mai.
Ma non ho resistito e ho peccato e... nonostante io tenti di dimenticare, cerchi di trovare sollievo nel corpo della mia promessa, per quanto possibile, non ce la faccio, non ci riesco.
La mia volontà e il mio corpo sono ancora soggiogate da ciò che è accaduto quella notte – concluse, alzando poi il volto per osservare lo sguardo di Judith.
Uno sguardo indecifrabile, immobile, terribile e angustiato insieme.
Lo sguardo della rabbia, dell’orrore, della delusione, della sofferenza, di un amore ferito.
La fanciulla si rinfilò il mantello e lo superò, salendo le scalinate e uscendo dalla bottega, prendendo a camminare verso casa, verso la cattedrale.
Tornata nella sua stanza, si abbandonò sul letto e cadde in un sonno profondo.
Si ritrovò dentro una strana dimora.
La casa era in mezzo al bosco più fitto, una parte di Bliaint fuori dai confini del villaggio, nella terra di nessuno.
L’abitazione era colma di odori: spezie, erbe, fuoco, pennuti, sangue.
Judith camminò al suo interno, con passo incerto.
Entrò in un paio di stanze buie, lasciandosi poi guidare dalla luce del camino, che conduceva in una camera più ampia, colma di tappeti e di innumerevoli altri oggetti di origine sciamanica.
Seduta a terra, di spalle, in mezzo alla stanza, vi era una donna.
Tutto ciò che vide di lei fu una folta e lunghissima chioma di capelli chiari, color miele.
Le si avvicinò cautamente, non sapendo se la donna avesse già udito i suoi passi.
- Siete voi che mi avete condotto qui? Dove mi trovo? Chi siete? – le domandò l’ignara Judith.
Nel dire ciò, camminò intorno alla donna, fin quando non le fu di fronte, riuscendo a scorgere il suo meraviglioso volto e cosa stesse facendo: dava da mangiare ad un airone, libero per la stanza.
La donna aprì i suoi occhi incantatori, inchiodandola sul posto.
- Siete molto giovane, Judith – la sua voce era seducente come il canto di un usignolo. – Quanti anni avete, bambina?
- Vi ho chiesto chi siete e dove mi trovo – ripetè Judith, non lasciandosi incantare da lei.
- Il mio nome è Imogene. Avvicinatevi, vi prego – la incoraggiò, indicandole il tappeto, di fronte a sè.
Judith ci riflettè un attimo su, ancora incerta.
- Non voglio farvi nulla di male, ve lo garantisco – la incoraggiò la bionda, versando un liquido caldo e dall’odore invitante in una ciotola.
A ciò, Judith si convinse e si sedette di fronte a lei, alzandosi il bordo del lungo vestito nero e incrociando le gambe.
- Siete molto elegante. Possedete una femminilità raffinata e innata – osservò Imogene, porgendole poi la ciotola. – È brodo di pollo. Bevete – le disse, e Judith obbedì, lasciandosi scaldare da quel liquido dall’ottimo sapore.
- Sto sognando, non è così? È tutto troppo soffuso. So riconoscere i sogni.
- Vi ho portata io qui, nella mia nuova dimora.
- Cosa cercate da me e come sapete chi sono?
- Siete una ragazza molto curiosa, famelica di risposte, a quanto vedo. Mi piace.
- E a voi piace temporeggiare, credendo che quest’aura di mistero sia in grado di ammaliare tutti – osservò freddamente la rossa. – Siete una strega, non è vero?
- Una sciamana, per la precisione. Pratico magia sciamanica, ma rimango una serva di Lucifero, esattamente come voi – spiegò la donna.
- Dunque? A cosa devo questo “onore”?
- Vi osservo da un po’, Judith.
- Come?
- Ho i miei metodi. Credo potremmo andare d’accordo, io e voi.
- Siete stata voi ad aggredirmi ieri notte?
- Come avrei potuto, di grazia? Io non metto piede nel villaggio da anni, mia cara – rispose con tranquillità, bevendo un po’ di brodo a sua volta, mentre continuava a nutrire il pennuto accanto a lei.
- Prima che perdeste la memoria, qualcuno vi ha parlato di me. In fondo ai vostri ricordi, sapete già chi sono - aggiunse Imogene.
- Cosa cercate da me?
- Informazioni. Informazioni che, oramai, non potete più darmi.
- Riguardo?
- I miei nipoti: Maroine e Maringlen. So che non sono più al villaggio. Vorrei sapere dove si trovano e se stanno bene.
- I monaci li hanno menzionati, ma non so che fine abbiano fatto.
- Vorrei anche aiutarvi, se me lo permetterete.
A ciò, Judith affilò lo sguardo, sospetta, posando la ciotola quasi vuota a terra. – Aiutarmi in cosa? A recuperare i ricordi?
- Perchè no? Non è quello che volete? Non volete scoprire chi è stato a tentare di uccidervi e di chi avete perduto il ricordo?
- Certo. Ma, prima di tutto, vorrei scoprire come sono rimasta incinta – affermò sfiorandosi il ventre gonfio.
- Scopriremo anche questo. La magia sciamanica riesce a toccare vette ammirevoli se solo la si utilizza nel modo giusto – sussurrò, dando un dolce e lungo bacio sulla testa colma di piume del suo airone.
- E voi cosa ci guadagnereste?
- Riacquisendo i ricordi, riuscirete anche a darmi le risposte che cerco riguardo i miei giovanissimi nipoti - rispose melliflua la bionda, osservandola intensamente, e prendendosi tutto il tempo per scrutarla e ammirarla a dovere: era da tempo che non vedeva una fanciulla tanto violentemente bella, dato che non visitava il villaggio da anni.
Myriam era molto bella, certo, se la ricordava bene, tuttavia, la bellezza della sua vecchia amante non era minimamente equiparabile a quella della giovane ragazza di fronte a lei.
Quello di Judith era uno splendore abbagliante, quasi spaventoso in alcuni momenti, in quanto consapevole del proprio potere, ma al contempo incurante.
- Perchè mi guardate in quel modo? – le domandò l’oggetto dei suoi persistenti sguardi.
- Perdonatemi.. è che siete molto bella.
- Lo siete anche voi. Eppure io non vi guardo in questo modo.
- Avete ragione. Non parlo con una donna da molto, molto tempo.
- Con gli uomini, invece? Avete avuto modo di parlare con loro?
- Non amo la compagnia degli uomini – disse avvicinandosi cautamente a lei, posandole una mano leggera e adorna di anelli sul rigonfiamento del ventre, chiudendo gli occhi e pregustando quel contatto, come un’assetata.
Judith la guardò assorta, cercando di capire cosa sentisse.
- Percepite qualcosa..?
- Li sento..
- Chi?
- I vostri figli. Sono forti, vigorosi.
- “Figli”...?
- Sono tre, tre gemelli.
Judith rimase attonita in seguito a tale informazione.
- E sono bellissimi.
- Come fate a dirlo già da ora? Sono frutto del seme di un servo del Creatore.
- Lo so, ma l’aspetto di quel giovane uomo non ha intaccato la loro bellezza. Sono figli vostri, Judith. In tutto e per tutto, nell’aspetto soprattutto. Volete sapere se sono maschi o femmine? – le domandò Imogene, poggiando più pesantemente il palmo sopra il ventre di Judith, sorridendo a tal maggior contatto.
Judith, al contrario, cercò di tirarsi indietro. – Basta... basta, non voglio saperlo...
- Perchè no?
- Perchè non li voglio. Non li voglio!
- Non li volete?

- No!
- Sono due femmine e un maschio.
- Vi avevo detto che non volevo saperlo! – esclamò la fanciulla cercando di sottrarsi al suo tocco e di rialzarsi in piedi, per far cessare quell’assurdo sogno.
- Aspettate, Judith!
In un impeto di rabbia, Judith si liberò dalla presa della donna, scattò in piedi e corse via, verso l’uscita della casa.
- Potete tornare qui quando volete.
Io vi aspetterò, bambina.
Quella frase di Imogene fu l’ultima cosa che udì prima di risvegliarsi nel proprio letto.

La donna afferrò il suo boccale di vino e se lo portò alle labbra, assorta.
- Secondo te sta guardando te o sta guardando me? – la voce del giovane uomo seduto comodamente di fronte a lei, con lo sguardo lievemente annoiato, era rivolto alle spalle della sua interlocutrice.
A ciò, Myriam si voltò, individuando la persona di cui Ephram parlava: al bancone della Taverna, vi era una delle avvenenti locandiere che lanciava frequenti sguardi eloquenti nella loro direzione.
La strega accennò un sorriso annoiato a sua volta, tornando poi a guardare il suo interlocutore.
- Io sono di spalle, Ephram. È ovvio che stia guardando te.
- Non ne sarei così sicuro.
- Hai accettato di incontrarmi stasera solo per portarti qualche preda a letto stanotte?
- Può darsi.
- Che il Diavolo possa farti bruciare tra le fiamme per l’eternità. Se non dovessimo discutere di questioni importanti non mi sarei mai abbassata a tanto, chiedendoti un incontro. Che spreco di tempo, dover vedere la tua odiosa faccia.
A ciò Ephram si lasciò andare ad una risata divertita. – Sei insopportabile, Myriam – rispose, ridendo ancora, per poi guardarsi distrattamente intorno. – Questo posto è sempre più popolato da servi del Creatore. Ci hai fatto caso? – aggiunse sprezzante, mentre un servo del Creatore gli passava accanto, ricambiando il suo sguardo torvo e diffidente.
- Hai sentito la notizia? – gli domandò la strega.
- Quale notizia?
- L’ape regina ha perso la memoria. A quanto pare sembra sia stata salvata per un pelo.
- Sì, ho sentito. Dunque, cosa vuoi fare? Dato che i monaci ti hanno permesso di iniziare la procedura per diventare monaca, vuoi approfittarne per soffiare il trono del clero all’ape regina?
Myriam affilò lo sguardo, studiandolo. – Come hai fatto a convincere padre Cliamon a persuadere i monaci in modo che mi permettessero di diventare monaca? – gli domandò.
- Gli ho promesso che gli avrei mostrato come se la passano i suoi amati angioletti dispersi in mare, tramite un incantesimo – rispose lui.
- E glieli hai mostrati?
- Immagini fasulle, distorte dalla magia, per fargli credere che stiano bene. Non volevo arrecare un grave dispiacere al “povero” monaco.
- ... che grave dispiacere? – gli domandò Myriam interessata. – Cosa è accaduto ai gemelli?
- Tutto quello che accade in mare, a due ragazzini di bell’aspetto in un’imbarcazione piena di famelici marinai il doppio o il triplo più grandi e grossi di loro. L’unica cosa che avrebbero potuto fare è accettare ogni tipo di abuso, molestia e violenza riservata loro, per avere salva la pelle, ed è quello che hanno fatto, da intelligenti quali sono – rispose Ephram come se nulla fosse, facendo calare un parziale silenzio tra loro, che interruppe poco dopo, studiando il volto di Myriam. – Cos’è, ti dispiace?
- Quei ragazzini sono cresciuti con noi, Ephram. Che mi dispiaccia è il minimo. Non sono inumana come te.
- Oh, sentila! Se la caveranno quei due. Ci vuole ben altro per ucciderli. Qui a Bliaint si sono fatti la pelle come si deve – disse con tranquillità.
- Ad ogni modo, non ho intenzione di rubare il ruolo di Judith all’interno del sistema, credo mi sarebbe impossibile anche volendo. Inoltre la ragazza ha perduto la memoria solamente del suo ultimo anno di vita. Ha ancora tutte le facoltà per tenersi il “regno”. Tuttavia, posso provare a persuadere i monaci nelle mie possibilità, e a guadagnarmi la loro fiducia.
- Questo è l’unico motivo per cui ti ho aiutata ad ottenere questo ruolo, Myrim. Devi farlo.
Ad ogni modo, posso farti una domanda?
- Ti ascolto – gli rispose lei.
- Qual è esattamente il tuo scopo con il monaco che ha ucciso tua madre? Qual è il senso dello scambio di corpi?
- In cambio dello scambio, padre Cliamon mi ha promesso che avrebbe ucciso Imogene per me.
A tale informazione, Ephram sgranò gli occhi. – Imogene?? Quella donna è ancora un chiodo fisso per te? E come diavolo dovrebbe trovarla quel monaco, dato che tu l’hai cercata in lungo e in largo senza successo?
- Me lo ha promesso e lo farà. Inoltre, non è tutto: voglio condurlo alla più aberrante degradazione - aggiunse Myriam con semplicità, con uno sguardo che fece rabbrividire Ephram. - Voglio che diventi marcio e imputridisca nel suo marciume – concluse.
- Per tale motivo gli concedi di soddisfare tutte le sue più torbide fantasie e pulsioni, abitando il corpo di quel ragazzino?
- Esattamente.
- La tua vendetta non conosce confini. Ti avevo sottovalutata – si complimentò lo stregone alzando il suo boccale e prendendone una sorsata.
- Che cosa intendi?
- Quel ragazzino non c’entra niente con i tuoi piani di vendetta, Myriam. Fai un calcolo veloce: gli stai togliendo un giorno di vita alla settimana, un giorno che cancelli ogni volta dai suoi ricordi. Sostanzialmente, gli stai togliendo metà dei suoi anni di vita.
- Non riuscirai a farmi sentire in colpa stasera.
- Fino a che punto si è spinto il monaco? Giusto per curiosità. Ha già usufruito illecitamente del giovane corpo rubato, svendendolo al miglior offerente?
- Credo si stia approfittando del nascente amore che un giovane servo del Creatore nutre per quel ragazzo, assecondandolo.
- Tra tutte le scelte a disposizione, proprio con un servo del Creatore?!
- Se vuoi contestare le sue scelte, va’ pure da lui a comunicarglielo – lo incoraggiò Myriam con un sorriso sornione.
- Ad ogni modo, la “nuova” Judith riuscirà a continuare ad adempiere il suo dovere con i riti di purificazione?
- Non lo so. Se questa nuova Judith non dovesse sopportare di “torturare” Folker o qualsiasi altro con i riti, sarò io stessa a sottoporlo alle sessioni. Non lascerò che quei luridi monaci gli mettano le mani addosso.
- Gli stai togliendo metà dei suoi anni di vita a sua insaputa, eppure ti preoccupi di non lasciarlo nelle mani dei monaci: hai uno strano modo di dimostrare che ci tieni a qualcuno, Myriam.
La strega accennò un sorriso semi-esasperato, per poi cambiare discorso: - Non credi sia passato ormai parecchio tempo da che abbiamo visto Selma? Non ti chiedi mai che fine abbia fatto?
- Sì, me lo sono chiesto – rispose Ephram bevendo un altro sorso dal boccale. – Ma finchè non si farà viva lei, noi non possiamo fare nulla per rintracciarla.
Myriam annuì, assorta. – Tu nei sai qualcosa di quello che è successo allo spettacolo teatrale di Judith?
- Della serva del Creatore che ha avuto quell’attacco di rabbia improvviso e ha spinto giù dal palco le due bambine?
- Sì.
- No, non ne so nulla – mentì lo stregone.
- Non ti sembra strano? Dovremmo indagare a riguardo?
- Non lo so. I suoi genitori hanno affermato che soffriva di attacchi simili sin da piccola – disse casuale.
- Potrebbe esserci lo zampino della magia nera di mezzo – ipotizzò Myriam riflettendovi su.
- Credo abbiate altro di cui preoccuparvi al momento – una terza voce si intromise nella conversazione, facendo voltare i due verso la fonte, in piedi accanto al loro tavolo: Quaglia si tolse il cappuccio del mantello, appena entrato nella Taverna.
- E tu cosa ci fai qui? – lo accolse Ephram alzando un sopracciglio.
- Dobbiamo parlare. Dobbiamo parlare di molte cose. Avete mai sentito nominare un certo conte Agloveil? - domandò l’uomo prendendo posto al loro tavolo.
Quando Quaglia terminò di narrare tutto ciò che aveva detto loro Selma quella notte, e che la donna si era raccomandata di non rivelare a nessuno, la strega e lo stregone rimasero allibiti.
- E tu... vieni a dirmi tutto ciò solo adesso?? – fu Ephram il primo a parlare.
- È accaduto due giorni fa. Selma si è raccomandata con noi di non farne parola con nessuno ed è ripartita immediatamente in cerca di Sybil. Se Blake sapesse che ve ne ho parlato mi farebbe fare un bagno nell’acido.
- È fin troppo ovvio che Blake non voglia parlarcene, a prescindere dalle volontà di Selma: quel dannato vuole sempre fare tutto da solo. Come l’ha presa la notizia? – gli domandò Ephram.
- Stamattina, dopo colazione, si è chiuso nella fucina e non è più uscito.
Myriam sospirò pesantemente, mettendosi le mani tra i capelli. – La situazione non è delle migliori. Nessuno di noi conosce abbastanza bene il mondo là fuori per fare delle supposizioni certe e intervenire. Una cosa è certa, però: gli stranieri hanno paura di noi.
- Possiamo fidarci di questa “paura” e adagiarci sugli allori per questo? – domandò Ephram.
- Non lo so. Se non sono ancora venuti qui a cercarlo e ad attaccare il villaggio significa di sì: a quanto pare il conte al di là del mare è terrorizzato da voi servi del Diavolo – commentò Quaglia.
- Per gli Inferi...! Non è possibile che aspetti un bambino! – esclamò Ephram riferendosi a Sybil, non riuscendo a celare la frustrazione per quella scoperta.
- Non c’è nessuna possibilità che il bambino sia di Blake, invece che tuo? – domandò Quaglia.
- Sono abbastanza sicuro sia mio... – ammise il giovane stregone. – Non c’è motivo che Sybil menta a riguardo, anche perchè sono abbastanza certo che lei avrebbe preferito fosse figlio di Blake, piuttosto che mio – aggiunse. - Inoltre... sarei dovuto stare più attento. È colpa mia e della mia noncuranza.
- Stai davvero ammettendo le tue colpe?? – domandò Myriam sconvolta.
- Non mettertici anche tu.
- Non fare il melodrammatico ora: non credo sia la prima volta per te, che capiti una cosa simile. Giusto? Chissà quante fanciulle hai fecondato a Bliaint senza curarti minimamente della loro sorte. Dovresti esserci abituato, no? – insistette la strega.
Ephram la fulminò con lo sguardo.
- Ad ogni modo, a quanto pare avete goduto entrambi appieno di questa ragazza, la quale non si è risparmiata minimamente – osservò Myriam.
- Tornando al tema centrale: finchè il conte Agloveil ha Sybil e il bambino, sarà acquietato.
- Basterà un figlio acquisito con il sangue di uno stregone di Bliaint per acquietarlo?? Da come ci hai narrato, quell’uomo desidera l’oro. È ossessionato dalla trasmutazione dei metalli – rispose Ephram.
- Come può essere tanto avido se è già praticamente ricco? – domandò Myriam.
- Non è avidità... – dedusse Quaglia. – Quanto piuttosto voglia di veder compiersi un “miracolo” prima di tutti gli altri. È un uomo annoiato, e in quanto annoiato vuole quello che tutti gli altri vogliono, esattamente come un bambino viziato. Dunque, se tutti vogliono “il ragazzo alchimista che è riuscito a compiere la trasmutazione”, allora sarà lui il primo ad averlo. E coglierà ben tre piccioni con una fava, dato che, in tal modo, non solo diventerebbe anche il più ricco di tutto il continente, ma sfamerebbe anche tutta la sua curiosità e smania riguardo Bliaint e i servi del Diavolo. O, per lo meno, questo è quello che penso.
- Sei diventato perspicace, Quaglia. A quanto pare ti ha fatto bene vivere a stretto contatto con Blake nelle ultime settimane – osservò piacevolemente colpito Ephram.
- In conclusione: non si fermerà fin quando non troverà Blake – disse Myriam, facendo emergere tutta la sua inquietudine.
- Già... temo che Sibyl e il bambino non serviranno ad accontentarlo più di tanto. Sempre nel caso in cui la ritrovasse.
- Abbiamo già tante gatte da pelare qui al villaggio, ci mancava solamente doverci difendere anche dai pericoli che provengono da fuori – commentò seccato il giovane stregone.
- Avete detto che questo conte crede che noi servi del Diavolo abbiamo difeso il nostro villaggio con una maledizione, giusto? – domandò Myriam a Quaglia.
- Esatto.
- Perchè non rendere le sue paure veritiere, dunque? – propose la strega.
- Se non erro, c’è qualcuno che padroneggia le maledizioni egregiamente... – propose Ephram, vedendo Myriam sgranare gli occhi e impietrire.
- Non se ne parla! L’unica azione che permetterei mai ad Imogene di fare è quella di morire! Quella donna è un pericolo inimmaginabile – esclamò categorica.
- Non credi che vorrebbe difendere anche lei il villaggio, dato che, se mai dovesse venire attaccato, ci rimetterebbe a sua volta?
- Forse non ti è abbastanza chiaro, Ephram: ad Imogene non importa nulla di questo villaggio. Lei vive ai confini di Bliaint, non la scoverebbero neanche se venissero ad attaccarci con una legione di guerrieri. Possiamo cavarcela da soli.
- Siamo rimasti in pochi stregoni potenti. Non riusciremo a lanciare un incantesimo di protezione di tale portata senza l’aiuto di un’altra abilissima strega. Se solo avessimo Selma e Beitris, non sussisterebbe il problema, ma non abbiamo più neanche loro. Hai dimenticato che i monaci non hanno fatto altro che decimarci in tutti questi anni? – le ricordò Ephram.
- Non. Coinvolgeremo. Imogene. – ripetè Myriam, senza ammettere obiezioni. – Non appena la troverò la ucciderò. Di certo non le chiederò di aiutarci a proteggere il nostro villaggio. O meglio, non sarò io ad ucciderla.
Quaglia non comprese quell’ultima frase, ma preferì non indagare. D’altronde, lui non sapeva neanche chi diavolo fosse, questa potente strega di nome Imogene.
- Voi – si rivolse a lui Myriam, perforandogli lo sguardo con i suoi penetranti occhi scuri. – Tenete d’occhio Blake – gli ordinò, e Quaglia annuì.
- Tu, Ephram, parla della faccenda anche agli altri membri della compagnia e ragionate sul da farsi.
- E tu cosa farai invece? – le domandò Ephram vedendola alzarsi in piedi e infilarsi il mantello.
- Io? Oramai sono una donna votata al Signore, ricordi?
Questo villaggio brulica di monaci e stregoni.
I primi ostentano e impongono la loro presenza, mentre i secondi non hanno alcun bisogno di farlo.
Si dà il caso che io sia entrambe le cose - detto ciò, la strega rivolse loro un sorriso fiero e uscì dalla Taverna.
 
 
 
 

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Capitolo 42
*** Lascito ***


Lascito
 
 
Folker aprì la porta di casa sua, trovandosi davanti, come si aspettava, la figura massiccia del suo amico.
- Che fai lì impalato? Avanti, entra – lo incoraggiò, notando la sua reticenza nell’entrare in casa sua.
Ambrose gli parve strano: avevo lo sguardo inquieto, come lievemente afflitto, faticava a guardarlo negli occhi, e sembrava distante.
Tuttavia, Folker non vi prestò troppa attenzione. Intanto, sua madre accorse per accogliere il suo amico a sua volta:
- Ambrose, caro! Che bello rivederti! – gli disse la donna sorridendogli dolcemente.
- Buongiorno, Prudence.
- Desideri dei dolci al limone? Li ho preparati giusto poco fa, sono ancora caldi. Dammi un po’ di soddisfazione almeno tu, dato che Folker, per qualche assurdo motivo, mangia come un pulcino ultimamente.
- Mamma, dagli tregua. Noi andiamo di là – la placò Folker afferrando il suo amico per il polso e trascinandolo dentro la sua camera, poi chiudendosi la porta alle spalle.
- Scusala, lo sai com’è fatta, è sempre così – iniziò il biondo, scocciato, mentre Ambrose rimaneva in piedi, lievemente a disagio.
Folker lo squadrò. – Va tutto bene? Perchè non mi hai chiesto di vederci nei giorni scorsi?
- Avevo da fare – rispose lapidario l’altro. – E poi.. sono solo pochi giorni.
- Ultimamente ci vedevamo quasi ogni giorno. Comunque, non importa. Ti ho chiesto di venire perchè dobbiamo parlare di alcune cose – iniziò il biondo, prendendo a camminare per la stanza, assorto.
A ciò, Ambrose alzò il volto verso di lui e sbiancò. – Dobbiamo parlare...?
- Sì.
- E di cosa?
- Mi sono reso conto di qualche cambiamento che sta avvenendo nel mio corpo ultimamente.
A ciò, il servo del Creatore comprese di essersi allarmato per nulla e che Folker si stava comportando esattamente nello stesso identico modo di sempre dinnanzi a lui, restandone sollevato.
Era giunto lì in casa sua credendo di doversi scusare altre mille volte con lui per ciò che vi era stato tra loro qualche giorno prima, ma dato che Folker sembrava quasi essersene dimenticato, si impose di calmarsi a sua volta, e di rilassarsi, mettendosi a sedere.
- Sostanzialmente, mi sono reso conto di non riuscire più a mangiare.
- In che senso..?
- Nel senso che, qualsiasi cosa ingurgito, poi non riesco a non vomitarla. Non mi era mai accaduto prima.
- Avevo notato avessi perso un po’ di peso, ma non pensavo che... da quanto va avanti?
- Da due settimane, più o meno – rispose il biondo pensandovi su, continuando a camminare per la stanza. - Non trovi sia strano? Insomma... non è un problema ingestibile, però... mi manca mangiare. E poi la fame non è sparita. Ho fame ma non riesco a mangiare. È frustrante e anche doloroso.
- Dobbiamo fare qualcosa, Folker. Non puoi continuare a digiunare, o finirai per svenire da un momento all’altro. Il tuo corpo ha bisogno di cibo.
- Lo so. L’unica cosa che riesco ad inghiottire è l’acqua. E dato che tutto ciò è davvero strano, mi stavo cominciando a chiedere... – si bloccò, arrestando anche il suo passo.
- Cosa...?
- Ambrose, e se tu avessi avuto ragione?
- Cosa intendi?
- Se le strigi esistessero davvero..?
Tale domanda fece impallidire Ambrose, il quale comprese immediatamente dove volesse andare a parare il suo amico.
Anche Folker lo guardava con un’espressione che non gli aveva mai visto in volto: sperduto, confuso, turbato.
- Folker... ma come ti viene in mente?? L’abbiamo sempre detto che è solo una leggenda.
- E se non lo fosse? E se Allister Chaim avesse davvero visto una strige quella notte, e non fosse stato solo un delirio allucinatorio?
- Ma... come ti salta in mente?
- Come puoi non averci pensato?? Neanche un istante?? – gli domandò avvicinandoglisi. – Potrei essere davvero un mostro, ma non averlo mai saputo. O averlo dimenticato, dato che ultimamente sembro avere sempre più strani vuoti di memoria.
- Folker, quelle sessioni di purificazione ti stanno dando alla testa.
- Come lo giustifichi il fatto che non riesco più a mangiare allora?? Secondo la leggenda, le strigi si nutrono solo di sangue e carne umana, rigettando il cibo.
- No, no e no. Staresti insinuando che se ti nutrissi di sangue umano la tua fame si placherebbe??
- Ambrose, io non lo so! Per questo ne sto parlando con te! Che altra spiegazione vi sarebbe?
- È colpa di quelle sessioni, te l’ho detto. Non solo hanno cambiato completamente il tuo atteggiamento, ma ti stanno anche facendo credere cose che non esistono. Tu non sei un mostro.
- “Il mio atteggiamento”..?
- Non dirmi che non te ne sei accorto da solo, finora: prima di iniziare quelle sessioni eri un bulletto che non cercava altro che attaccare briga con chiunque, una canaglia sfiancante e malfidata con atteggiamenti maligni. Senza offesa – si premurò di aggiungere. – Mentre invece, dopo aver iniziato quelle sessioni, sei diventato totalmente l’opposto: non attacchi mai briga, anzi, non ti difendi neanche quando sono gli altri ad attaccarti. Certe volte la tua calma mi spaventa, sembri la reincarnazione di un angelo.
Folker accennò un sorriso lievemente divertito in seguito a quelle parole, facendo ridere di conseguenza anche Ambrose, che, per un attimo, credette di averlo offeso.
- So bene quanto il mio carattere fosse ingestibile qualche tempo fa – disse il biondo. – E sì, mi sono accorto di essere cambiato. Non lo faccio di proposito. Non sto fingendo. Altrimenti avrei gonfiato di botte quei balordi dei tuoi vecchi amici già dalla prima volta in cui mi hanno attaccato.
È come se... quelle continue sessioni putificatrici mi abbiano tolto qualcosa. Non so neanche io cosa. Probabilmente la voglia di combattere e di ribellarmi, di rispondere al dolore. È come se... il mio corpo fosse oramai abituato ad assorbire il dolore, inerme, a sottomettervisi. Ma non è solo quello... mi hanno anche cambiato nel modo di comportarmi con gli altri.
Beh, non dovrebbe essere una cosa brutta, no? – domandò il biondo, puntando i suoi occhi di giada in quelli dell’amico, sedendosi accanto a lui. – Avanti, non dirmi che ti dispiace, perchè non ci credo – continuò Folker roteando gli occhi al cielo. – Dovresti esserne contento. Che io non sia più così insopportabile. Non è quello che tutti vorrebbero vedere? Un ragazzo perbene che fa tutto quello che gli si dice, sorride e non si ribella.
- Che tu ci creda o no, Folker, mi piaceva davvero quel lato di te, nonostante tutto.. – ammise il servo del Creatore abbassando lo sguardo a terra. – Non che quello che vedo ora non mi piaccia, sia chiaro...
- Dici davvero?? – rispose il biondo sinceramente incredulo, ignorando totalmente l’ultima aggiunta.
- Certo. Pensa pure che io sia strano, ma è così. Altrimenti perchè ti avrei chiesto una “tregua” e sarei voluto diventare tuo amico?
- Non penso che tu sia strano, penso che tu sia masochista, è diverso! – esclamò il biondo sorridendo divertito, dando un pugno nella spalla dell’amico, il quale sorrise a sua volta.
- Ad ogni modo... – riprese Folker. – Mi sono ribellato.
- Cosa?
- Sono riuscito a ribellarmi – ammise. – Quando i tuoi vecchi amici mi hanno aggredito l’altro giorno, nel bosco... ho provato a ribellarmi. Non ci sono comunque riuscito perchè erano in tre e perchè mi sentivo debole, ma, a differenza delle altre volte, sono stato in grado di rispondere alle provocazioni – disse con gli occhi bassi e una certa fierezza nello sguardo. – Quindi, forse, sto ritornando come prima, poco alla volta.
- Se così fosse ne sarei felice.
- Già. Anche io.
- Folker.. – ritentò Ambrose, vedendo il suo amico alzare gli occhi chiari verso di lui in risposta.
- Cosa c’è?
- Puoi... dirmi, per favore, cosa ti hanno fatto quegli infami di Devon e gli altri?
- Nulla per cui tu debba preoccuparti. Davvero.
- Per te nulla è davvero degno di “preoccupazione”. Però io mi preoccupo lo stesso. Perchè li conosco, so come sono fatti, quanto il loro odio per i servi del Diavolo e per te possa spingerli oltre, e perchè sei mio amico...
A ciò, Folker si arrese, sospirando. – È stato tutto fumo e niente arrosto. Mi hanno strapazzato un po’, all’inizio. Mi hanno dato qualche colpo allo stomaco, mi hanno strattonato e mi hanno tenuto fermo.
- Per quale motivo ti hanno tenuto fermo..?
- Per non farmi scappare e perchè ... volevano sfigurarmi con un coltellino, prima che arrivassi tu. Ma il tuo arrivo glielo ha impedito – concluse. Evitò di menzionare il fatto che avessero cercato anche di spogliarlo, per salvare la propria dignità, e in parte anche quella degli stupidi balordi che lo perseguitavano. Non seppe neanche lui il perchè.
Ambrose, dal canto suo, per contenere la rabbia nascente, strinse forte i pugni, abbandonati sopra le proprie ginocchia.
Folker lo notò. – Ma va tutto bene ora. Non puoi essere sempre presente ogni volta che ho bisogno di aiuto. Saresti un dio, altrimenti. È normale che capitino cose come questa.
- No, non è normale. Non è normale che ti capitino cose come questa...
- Ambrose, che senso ha pensarci ancora?
- La caviglia. Cosa ti hanno fatto alla caviglia?
- La mia caviglia sta bene ora. Mia madre ha chiamato il medico dopo aver visto che zoppicavo, e lui me l’ha cosparsa di un unguento che l’ha fatta guarire quasi del tutto. Devo continuare ad applicarmelo per altri giorni, ma non sento quasi più dolore.
- Posso vederla?
- No. Perchè vuoi vederla?
- Folker, ti prego. Voglio vederla.
A ciò, vedendo quegli occhi scuri tanto decisi, determinati e a tratti imploranti, il biondo acconsentì, alzando la gamba e poggiando il piede nudo tra loro due, a mo’ di spartiacque.
Con il ginocchio piegato verso l’alto e la pianta del piede comodamente poggiata alla superficie morbida del letto, Folker si alzò il bordo dei pantaloni che indossava scoprendo la caviglia dalla forma raffinata e delicata.
Ambrose sgranò gli occhi scuri nel notare come la pelle candida appena sopra il piede fosse macchiata di un enorme ematoma che variava dai colori del nero, del viola scuro e del blu cupo, per tutta la circonferenza della caviglia.
- Avevi detto che-
- Ti ho detto che sto bene, d’accordo? – lo interruppe Folker. – Hai visto anche tu che cammino normalmente e non mi fa più male. Smettila di pensarci.
Ma prima che Folker potesse aggiungere altro o anche solo pensare di riportare il piede a terra, Ambrose cominciò a passare le dita grandi su quella porzione di pelle liscia e lesa, carezzandola con estrema delicatezza.
- Che diavolo stai facendo? – gli domandò contrariato l’altro.
Ma il servo del Creatore non resistette e continuò a carezzargli doviziosamente la caviglia, senza pensare.
A pensarci bene, non gli andava totalmente giù il fatto che Folker si comportava come se non fosse accaduto nulla.
Avrebbe accettato che si arrabbiasse con lui, che lo insultasse e incolpasse per ciò che aveva fatto, non pretendeva altrimenti; ma non gli andava bene che facesse finta che non si fossero affatto toccati. E baciati.
Senza pensarci e lasciare il tempo all’altro di rendersene conto, abbandonò ogni forma di resistenza e si sporse verso di lui, già impaziente di riassaggiare il buon sapore di quelle labbra bramate, che aveva avuto la fortuna di lambire giorni prima, e che aveva sognato le notti dopo.
Solo un assaggio si disse Solo un assaggio e andrà bene.
Nonostante tremasse di paura al solo pensiero che Folker potesse scappare via di nuovo e stavolta non volerlo davvero vedere mai più, al contempo voleva ricordargli ciò che c’era stato, e riaffrontare l’argomento con lui.
Ma il servo del Creatore non fece in tempo a sfiorare le labbra carnose dell’altro, che Folker lo colpì con un violento schiaffo in faccia, che gli fece voltare la testa dall’altra parte, e allontanare immediatamente.
- Che cosa accidenti credevi di fare, si può sapere?!? – esclamò esterrefatto il servo del Diavolo scattando in piedi e indietreggiando, con gli occhi chiari sgranatissimi.
Ambrose nel suo volto vide qualcosa che lo ferì, lo ferì più di quanto pensasse: sconcerto, delusione, paura, confusione, disgusto...
Fu davvero troppo.
- D’accordo, è colpa mia! Lo so che è colpa mia! Lo so perchè non ho fatto altro che dannarmi e sforzarmi di non piangere davanti ai miei genitori negli ultimi quattro giorni, a causa dei sensi di colpa per ciò che ti ho fatto!
È stato un grandissimo errore, lo so bene!
Ho pianto e sperato con tutto me stesso di riuscire a dimenticarmi di esserti mai stato amico, perchè credevo che non volessi più vedermi, e perchè sapevo in cuor mio che la decisione migliore sarebbe stata quella di starti lontano!
E credimi, credimi, sono stato davvero felice quando questa mattina mi hai accolto con il tuo mezzo sorriso scocciato, come se nulla fosse successo!
A me andrebbe bene esserti amico, mi basterebbe, sarebbe la cosa giusta e l’unica cosa che potremmo mai essere, me ne rendo conto!
Tuttavia, voglio comunque affrontare il discorso con te.
Non mi sta bene il fatto che fingi che non sia successo nulla.
Parlami, insultami, dimmi qualcosa a riguardo!
Dimmi che è stato un errore e che non dovrà succedere mai più! Dimmi tutto quello che vuoi e mi andrà bene, ma non far finta che quello che c’è stato non sia mai...
Folker, non fare quella faccia, ti prego.. la reazione che hai avuto poco fa.. è stato come se ti avessi baciato per la prima volta.
Quattro giorni fa, quando è accaduto a casa mia, non avevi quell’espressione.
Eri diverso, mi è sembrato ti fosse piaciuto, a mia immensa sorpresa, perchè non avrei mai creduto potesse piacerti essere baciato da ... me.
E poi hai addirittura ricambiato... per questo mi sono lasciato prendere la mano e mi sono permesso di toccarti, ma ti giuro, te lo giuro sul mio Signore, su mia sorella e su tutto ciò che vuoi: non avrei mai, mai e poi mai osato toccarti più di quanto ho fatto. Mai. Non mi sarei mai permesso ti toccare la tua pelle sotto i vestiti. Le mie fantasie non sono mai arrivate a tanto, devi credermi! – urlò tutto ciò sull’orlo della disperazione, alzandosi in piedi, buttando tutto fuori in un solo soffio.
Quando terminò il suo impetuoso flusso di coscienza, si concesse di guardare Folker, iniziando a preoccuparsi davvero della sua reazione: era spalmato con la schiena al muro, i suoi occhi erano spalancati all’inverosimile, lo sguardo più esterrefatto che mai, quasi allucinato.
- Folker..?
- Che. Cosa. Diavolo. Stai. Dicendo – esalò con voce rauca e incredula, scandendo bene ogni singola parola. – Per gli Inferi, che cosa diavolo stai dicendo, Ambrose?!?!
In quel momento di puro sconcerto e tremenda confusione, Ambrose sembrò realizzare con orrore:
- No... no, non può essere.. non dirmi che tu non ... Cosa ricordi dopo che ti ho salvato e mi sei svenuto addosso?
- Nulla.. solo che sono svenuto su di te e poi... era mattino e mi sono svegliato nel mio letto come al solito. Ho dato per scontato che mi avessi riaccompagnato a casa mentre ero incosciente..
- Quindi questo significa che non ricordi davvero nulla... – sussurrò attonito Ambrose, stringendosi le mani tra i capelli. – Chi diavolo ho toccato e baciato quel giorno, se non eri tu...? – si domandò in preda alla più debilitante confusione.
- Smettila di dirlo, maledizione!
- Quindi quello non eri tu...
- No, è evidente che non ero io! Altrimenti ti saresti ritrovato il palmo della mia mano schiaffato in faccia già da quel giorno! Ma tu per quale motivo hai fatto una cosa simile?! Sei uscito di senno per caso?!? – lo attaccò Folker, parandoglisi dinnanzi.
- Per quale ragione me lo stai chiedendo...? Non è evidente?? Per quale altro motivo una persona dovrebbe baciarne un’altra, secondo te??
- No! Non è possibile!
- Che cosa intendi dire??
- Non è possibile!
- Perchè credi non sia possibile?? Perchè siamo entrambi maschi? O perchè io sono un servo del Creatore e tu del Diavolo?? Ti informo che invece è possibile, Folker! È possibile ed è successo... – disse avvicinandosi di un passo, e non appena lo fece, Folker, con gli occhi iniettati d’odio, indietreggiò di tre passi, già pronto a colpirlo con un altro schiaffo.
- Se è così allora non osare toccarmi.
Non osare toccarmi mai più, Ambrose.
La realtà si schiantò addosso al giovane servo del Creatore con la violenza di un vulcano in eruzione.
Ora Ambrose era davvero disperato.
Il suo cuore stava letteralmente andando in frantumi per la paura, per la confusione, per il rammarico, per l’infrangersi di ogni sua speranza, per la profonda vergogna.
- Ho capito.
Ho capito, me ne vado.
Ti lascerò in pace – disse con voce incredibilmente dura.
Sorpassò l’amico senza neanche guardarlo in faccia, aprì la porta della camera e uscì anche dalla casa, senza dire altro, nè salutare Prudence.
- Che cos’è successo..? – provò a domandare incredula la donna, facendo capolino nella stanza di suo figlio, il quale si trovava in piedi, con i pugni dolorosamente chiusi e le unghie conficcate dentro la carne.
Il suo sguardo era perso nel vuoto.
- Dietrich…
- Mamma, non adesso.
Ma la donna non demorse, rimase in silenzio dietro di lui, con la spalla poggiata allo stipite della porta.
- È il tuo unico amico, caro... l’unico sincero, leale, che ti vuole molto bene e non fa altro che dimostrartelo. Ti è rimasto solo lui. Vale davvero la pena perderlo?
Non sapendo nulla, nè il motivo del litigio, nè tanto meno tutto ciò che era accaduto, Prudence, da madre premurosa quale era, si era sentita in dovere di dire la sua, svanendo poi con la stessa velocità con la quale era arrivata.
Folker vi pensò su per un po’, facendo trascorrere più di un’ora.
Dannò se stesso, per riuscire a provare pietà per qualcuno che aveva fatto qualcosa di così impudico, contro la sua volontà.
Tuttavia.. dovette riconoscere che Ambrose non aveva colpe.
Se era davvero andata come il ragazzo aveva raccontato (ed era certo fosse così, in quanto il suo amico non aveva motivo di mentire), c’era qualcuno che “prendeva possesso” del suo corpo a sua insaputa, agendo come più gli aggradava, mentre lui... lui dov’era, mentre quel qualcuno o qualcosa si appropriava della sua materia e della sua volontà?
Non sapeva chi fosse, nè come ci riuscisse.
Ma stava iniziando a diventare un problema.
Iniziò a domandarsi se quel qualcuno avesse fatto fare altro al proprio corpo, senza il suo consenso.
Se avesse fatto cose ben peggiori di quelle che si immaginava.
Ora lo aveva scoperto perchè Ambrose era suo amico e glielo aveva narrato, ma se le stesse cose le avesse fatte con qualcun altro... non lo avrebbe mai scoperto.
Doveva capire cosa stesse succedendo.
E Ambrose doveva aiutarlo a capire.
Per quanto odiasse ammetterlo, sua madre aveva ragione: era l’unico di cui si fidava ancora.
A ciò, mise da parte il suo orgoglio, afferrò un mantello e un paio di stivali e uscì di casa, in cerca del suo amico.
Aveva la vaga sensazione che non fosse tornato a casa, bensì che fosse ancora in giro.
Lo cercò per diversi minuti, girando a piedi tutta la piccola collina che ospitava casa sua, trovandolo infine seduto accanto ad un fiumiciattolo ai piedi della collina, un luogo tranquillo e isolato.
Aveva lo sguardo basso, e nonostante si fosse accorto di esser stato raggiunto da Folker, continuò a mantenere le iridi scure fisse sul fiume, giocando distrattamente con un rametto.
- Ambrose? – lo richiamò il biondo, restando in piedi a pochi passi da lui. – Possiamo parlare? – domandò avvicinandosi un po’.
- Tieniti a dovuta distanza. Non vorrei sfiorarti per errore – commentò pungente e apparentemente atono il moro, continuando a guardare l’acqua limpida del fiumiciattolo.
Folker sospirò, sedendosi accanto a lui, su una roccia sporgente. – Non dicevo sul serio. Prima – specificò.
Trascorsero alcuni minuti di silenzio in cui l’unico sottofondo della loro muta conversazione divenne il rumore del torrente.
- Quindi non mi odi? – domandò improvvisamente Ambrose, ancora atono.
- No.
- E non hai paura di me?
- No. Figuriamoci.
Tale commento spinse Ambrose a voltarsi verso il suo amico.
- So che non mi faresti del male – si spiegò il biondo, sostenendo il suo sguardo.
- Come lo sai?
- Perchè ho imparato a conoscerti e lo vedo dai tuoi occhi. Tu non sei come i tuoi amici.
- Non sono più miei amici quelli lì – lo corresse Ambrose lievemente offeso. – E poi.. non mi sembra che i miei “amici” abbiano provato a baciarti contro la tua volontà.
- Ambrose, so che mi rispetti e non faresti mai nulla che non voglio. Ti basta? Mi fido di te – lo rassicurò. - Altrimenti non ti sarei venuto a cercare ora.
- Ti ha disgustato così tanto...?
- Cosa?
- Quello che ho fatto poco fa – ebbe il coraggio di domandare Ambrose, smembrando inconsciamente il rametto che teneva in mano, per calmare l’agitazione.
- Disgustato? Perchè dovrebbe disgustarmi? In questi casi non ci si dovrebbe sentire... chessò, lusingati? - rispose con noncuranza il biondo.
Ambrose sgranò gli occhi per la sorpresa in risposta. - Non potresti mai sentirti lusingato dall’essere toccato da uno come me. Ti sei sentito lusingato...?
- No.
- Allora ti sei sentito disgustato.
- Neanche quello.
- Allora..?
- Non lo so. Non lo so come mi sono sentito, Ambrose.
- Ho visto la faccia che hai fatto. Eri... spaventato da quello che avevo appena fatto.. allibito..
- Ero confuso e sconvolto, se permetti.
- Ma eri anche infastidito. Ed era proprio quello che temevo e pensavo.
È per colpa del mio aspetto, non è vero? Sono un brutto ceffo ripugnante, è normale che tu sia schifato da..-
- Che idiozie stai blaterando? Non ho mai guardato cose come queste, io. Non mi importa nulla dell’aspetto fisico della gente, nè tanto meno del mio.
- Allora... è per il fatto che sono un ragazzo e non una ragazza?
- Sinceramente? Non ci ho mai pensato, Ambrose – ammise il biondo.
A ciò, il servo del Creatore si voltò a guardarlo, perplesso. – In che senso non ci hai mai pensato?
- Non ho mai pensato a cose come l’attrazione, l’infatuazione, nè tanto meno ai rapporti sessuali. Non mi è mai interessato.
- Dici davvero?
Folker annuì, lanciando un sasso nel torrente.
- Perchè ne sei così sorpreso? Insomma non ho nemmeno quindici anni, a me non sembra così strano.
- No, è che... sai, voi servi del Diavolo avete una certa fama.. – spiegò Ambrose, cercando di sconfiggere il lieve imbarazzo che gli tingeva le guance.
- Che fama?
- Per lo meno tra noi servi del Creatore, la avete. La fama di gente che sperimenta letteralmente di tutto in fatto di sessualità. Sai, la bellezza, la pratica della magia nera, i riti, le celebrazioni che spesso sfociano anche in orge...
Folker scoppiò a ridere in risposta, prendendosi tutto il tempo per sfogare l’ilarità dinnanzi a tali credenze e pregiudizi esagerati.
Ambrose si lasciò andare ad una leggera risata, a sua volta.
- Non potete davvero credere idiozie simili! – esclamò il biondo, con leggerezza. – Siete voi servi del Creatore che ci dipingete come diavoli tentatori e della seduzione in qualsiasi occasione e circostanza. Non tutti i servi del Diavolo praticano la magia, così come non tutti i servi del Diavolo sono così libertini e privi di inibizioni.
- Lo so. Immagino siano solo dicerie e pregiudizi. Tuttavia, credevo che ... insomma sei anche promesso ad una ragazza.
- Ronan? Non siamo più promessi.
- Cosa? E perchè?
- Non è ovvio? I suoi genitori non darebbero mai la loro figlia in pasto ad una strige. Nessuno lo farebbe - rispose con noncuranza.
- Mi dispiace..
- Non dispiacerti. Non la conoscevo nemmeno, ci saremmo parlati giusto due volte.
La nostra unione sarebbe stata totalmente combinata.
Quindi la risposta è no, non ci ho mai pensato, neanche con lei.
Avevo altro per la testa – concluse il biondo, facendo calare un breve silenzio tra loro.
Un silenzio rotto poco dopo da lui stesso. – Sei mai stato con una ragazza?
- Cosa..? – rispose Ambrose sin troppo sorpreso da tale domanda.
- Ti ho chiesto se sei mai stato con una ragazza, o hai sempre avuto le idee chiare sui tuoi gusti.
- No.. non sono mai stato con una ragazza. Prima di te, prima di ora, c’è stato solo un ragazzo, un mio amico, ovviamente un servo del Creatore – narrò un po’ impacciato Ambrose. – Con lui è stato strano.. eravamo troppo piccoli e troppo curiosi, forse... non è successo niente di che, alla fin fine. Però, a differenza tua, ci ho pensato. La fugace esperienza avuta con lui mi ha dato modo di pensarci.
Folker puntò i gomiti sul prato, stendendo la schiena all’indietro e continuando a guardare il fiumiciattolo, mentre ascoltava il suo amico.
Rimasero in silenzio un altro po’, poi Ambrose riprese la parola:
- Dobbiamo scoprire cosa sta succedendo al tuo corpo – affermò solennemente.
- Intendi per quale motivo non riesco più a ingurgitare cibo normale o cosa mi stanno facendo le sessioni purificatrici? Oppure com’è possibile che il mio corpo sia sotto il controllo di qualcun altro ogni settimana? A quanto pare abbiamo l’imbarazzo della scelta.
- È sicuramente opera della magia, Folker – gli rispose voltandosi verso di lui. – Non posso credere che qualcuno ti stia facendo questo... appropriarsi del corpo di qualcun altro è un oltraggio bello e buono.
- Le persone che mi odiano e che mi vogliono fare del male in questo villaggio sono in quantità a dir poco spaventosa.
- Ma tra gli stregoni che sappiano usare la magia? Cosa potrebbe mai volere una strega o uno stregone da te?
- Magari è un semplice popolano che si è rivolto ad una strega. Non possiamo saperlo.
- Ciò che è sicuro è che qualcuno si sta servendo del tuo corpo per abitarlo quando desidera e fare i suoi comodi. Questa volta è andata “bene” perchè ero io, ma... se la prossima volta non fossi io, non voglio che tu debba vivere situazioni spiacevoli inconsapevolmente e fuori dal tuo controllo. È orribile. Così come è orribile il pensiero che non fossi tu quello che ho baciato qualche giorno fa... – realizzò più concretamente Ambrose, provando un senso di inquietudine che lo fece rabbrividire.
- Ambrose? – lo richiamò Folker, vedendolo voltarsi nuovamente verso di lui.
- Sì?
Il biondo affilò lo sguardo, puntando le iridi dritte nelle sue e scrutandole. – Sei attratto da me?
- Penso sia ovvio, ormai..
Tale risposta sembrò infastidire Folker, piuttosto che compiacerlo, e Ambrose se ne accorse.
- Dunque, cosa hai pensato la prima volta che mi hai visto, al primo incontro della Congrega degli sciacalli alla Taverna? A quanto fossi bello?
- No, insomma, lo siete tutti voi servi del Diavolo, è normale pensarlo. Non è questo il punto.
- Quel giorno ci siamo sfidati e ci siamo picchiati fino a sputare sangue. A cosa pensavi quando mi picchiavi?
- Perchè mi stai facendo queste domande? – gli rispose Ambrose, cogliendo sempre più il suo tono d’accusa.
- Rispondi. Voglio sapere a cosa pensassi.
- A quanto fossi irritabile e ingestibile caratterialmente. A questo pensavo.
- E le volte dopo?
- Cosa vuoi sentirti dire, Folker? Che non mi sono mai incantato a guardarti anche quando volevo stenderti a terra con un pugno sui denti? Non posso dirtelo, perchè sarebbe una bugia.
Desidero toccarti da molto tempo. Lo confesso. E merito il rogo per aver accontentato questo indegno desiderio.
Mi fai impazzire, Folker, da sempre.
Amo i tuoi capelli, amo la tua pelle e i tuoi occhi, amo sin troppe cose di te, e vorrei farne e sperimentarne altrettante, con te.
È davvero così sbagliato?
Folker scattò in piedi senza neanche aspettare che terminasse di parlare, rivolgendogli un sorriso che si sforzò di far sembrare derisorio, ma che apparve più ferito e profondamente deluso. – Deve essere sempre così, non è vero??
- A cosa ti riferisci...? – gli domandò Ambrose, alzandosi in piedi a sua volta.
- Al modo in cui voi ci vedete e considerate!
Al modo in cui noi e voi ci approcciamo l’un l’altro!
Dai secoli dei secoli, i servi del Creatore hanno sempre venerato e al tempo stesso invidiato la bellezza dei servi del Diavolo, solo perchè loro stessi ne erano privi!
I servi del Diavolo invece, li hanno sempre odiati per il privilegio di essere figli di Dio e non di un traditore rinnegato!
È sempre stato così e mai cambierà a quanto pare!
- Folker... che cosa vorresti dire con questo?
- Tu non ti sei voluto avvicinare a me per ottenere la mia amicizia, Ambrose.
Hai voluto diventare mio amico per puro interesse, e null’altro.
Le tue intenzioni non sono mai state nobili, nè sincere.
Tu vuoi qualcos’altro da me...
Tu mi desideri. Desideri il mio corpo, perchè ne ammiri la bellezza e guardarmi ti fa risvegliare tutto quello che hai nei pantaloni.
Non è forse così??
- Folker, ti stai sbagliando! Non è come pensi!
Non ho mai voluto diventare tuo amico per riuscire ad infilarti le mani dentro i vestiti, non è così! – tentò di convincerlo Ambrose, avvicinandosi a lui, ma Folker lo allontanò immediatamente, indietreggiando di diversi passi.
Il biondo gli rivolse un ghigno pregno di delusione, misto a sprezzante compatimento:
- Voi servi del Creatore siete tutti uguali.
Vi nutrite della vostra brama carnale, desiderando solamente soddisfare i vostri appetiti e placare le vostre invidie, crogiolandovi nei vostri privilegi, senza neanche accorgervi di essere privilegiati!
Se voi metteste piede fuori da Bliaint, verreste trattati come pari.
Se noi mettessimo piede fuori da Bliaint, verremmo bruciati al rogo o venduti come schiavi.
A questo ci hai mai pensato tutte le volte in cui tanto “eroicamente” mi hai aiutato e mi hai difeso dai tuoi amici??
O eri troppo occupato a non farti cadere la mascella e a non sbavare davanti a me??
Ora capisco il perchè! Ora capisco tutto! Non vi era alcuna possibilità che qualcuno volesse diventarmi amico e starmi vicino senza ottenere nulla in cambio!
Immagino avrei dovuto aspettarmelo, no?? Altrimenti perchè proteggermi con tanta dedizione e trattarmi sempre con tanto riguardo? – la sua voce, oltre che rabbiosa, era anche incrinata dalla tristezza e dalla delusione.
Ambrose non lo aveva mai visto così.
Per un attimo sperò che Folker lo picchiasse, solo per non dover vedere quell’espressione sul suo viso.
Ma si pentì di aver desiderato di non vedere più quello sguardo su quel viso, nel momento in cui il volto dell’amico scomparve davvero dalla sua vista, defilandosi come trascinato via dal vento, lasciando dietro di sè solo una scia di malcelate lacrime d’ira.
In un battito di ciglia, Folker era corso via, lasciandolo solo e distrutto, dinnanzi al torrente.
 
 
- Questo luogo ha un valore affettivo per te? – domandò improvvisamente l’uomo, mentre ultimava la forgiatura di uno dei tanti utensili che avevano completato quel giorno, con il volto e il corpo sudato illuminati solo dalla luce della fornace.
Attese che il ragazzo gli rispondesse, iniziando a non sperarci più nel momento in cui trascorsero diversi minuti e la sua domanda rimase in sospeso nell’aria stagna e quasi tossica della fucina.
A ciò, si voltò verso il ragazzo, osservando la sua figura alta e slanciata in piedi, in perfetta posizione eretta. Solitamente, quando qualcuno leggeva restando scomodamente in piedi, soleva inconsciamente porsi con il volto in avanti, incurvando gobbamente la schiena verso il basso, per facilitarsi il compito. Invece, Blake no, Blake restava in piedi, con la schiena perfettamente dritta e gli occhi puntati sulle pagine aperte, senza scomporsi minimamente. Concentrato, leggeva uno dei tanti tomi dalle dimensioni spropositate, aperto sull’unico minuscolo tavolinetto (che prima o poi si sarebbe spezzato in due considerando l’illecita quantità di libri pesanti quanto mattoni che gravavano sul legno vecchio) presente in quell’ambiente angusto, di certo davvero poco adatto per attività di lettura, ma ben più consono per pesanti lavori manuali.
Ma Blake non sembrava essere toccato da quella scomodità, come fosse abituato a disagi ben più incomodi di quello: nonostante fosse quasi praticamente buio, se non per l’instabile fiammata della fornace, i suoi occhi riuscivano comunque a leggere quella pagine, scandagliandole con le sue iridi fameliche, con interesse.
Quaglia avrebbe passato ore a guardare quel ragazzo leggere, in quanto era una visione davvero magnetica e in qualche modo appagante: le sue iridi erano veloci e voraci, estraniate da tutto e da tutti, emettavano un fuoco e un ardore proprio che l’uomo non aveva mai visto in nessun altro, la curiosità e la pragmaticità fuoriuscivano da lui quasi in stato solido, le mani si appuntavano velocemente e accuratamente tutto ciò che riteneva essenziale, perdendosi poi in formule matematiche talmente complicate, che Quaglia non ci provava neanche a tentare di decodificarle, esulavano ampiamente dalla sua intelligenza e capacità operativa. Blake, invece, scriveva le formule e al contempo continuava a leggere, come se fare due cose insieme, entrambe così complesse, non lo disturbasse affatto, come fosse una creatura ultraterrena con capacità sovrumane, ma non lo desse a vedere, e magari lo era davvero. Il fuoco continuava ad illuminare la figura del ragazzo con potenti onde infuocate, quasi come volesse farlo apparire un essere mistico ai suoi occhi, facendo risplendere i suoi grandi occhi di un blu vivo e più chiaro del solito, i vestiti semplici che gli fasciavano con leggerezza la pelle accaldata, il volto concentrato e i folti capelli argentei legati malamente dietro la testa.
Quaglia pensò che se padre Craig fosse stato presente nella fucina con loro in quel momento, sicuramente il suo povero cuore non avrebbe retto una tale visione.
Forse non l’avrebbe retta nessuno.
- Blake? – decise di riattirare la sua attenzione, questa volta più autorevolmente.
A ciò, finalmente il ragazzo alzò il volto su di lui, spaesato dall’interruzione brusca. – Sì?
- Ti ho appena chiesto se questo posto, la fucina, abbia un valore affettivo per te – ripetè, con un lieve sorriso sghembo a rendere i suoi lineamenti adulti leggermente più fanciulleschi. – Insomma, ci trascorri davvero molto tempo, quando sei nel “tuo periodo”. E poi, ho notato che quando sei qui sotto è come se ti trasformassi.
- In che senso?
- Nel senso che .. non so come spiegarlo, ma è come se uscisse fuori il tuo vero “io”.
A ciò, Blake gli accennò un lieve sorriso sornione. – Siamo diventati filosofi oggi, Quaglia?
- Oh andiamo! Rispondi semplicemente alla domanda – lo spronò, divertito a sua volta da quel commento.
Blake si guardò intorno prima di rispondere, come perdendosi in ricordi lontani.
- Quando ero piccolo, mio padre usciva sempre dal seminterrato dopo ore passate qui dentro, tutto sudato e sporco di una patina nera che ai miei occhi appariva davvero interessante e singolare.
Non avevo idea di cosa facesse qui.
Poi, un giorno, mi portò qui sotto e mi insegnò tutto quello che dovevo sapere per prendere il suo posto, un giorno, in quanto proprietario del tesoro di ricchezze più grande di Bliaint, la galleria.
Mio padre appariva ai miei occhi come una specie di dio mentre prendeva un pezzo di metallo, lo poneva nella fucina alimentata col carbone, lo arroventava, lo fondeva, manteneva abilmente la fiamma accesa con il mantice, versava la colata nello stampo, e lo poneva sull’incudine con le tenaglie, per la fucinatura, per poi plasmarlo con quegli assordanti colpi di martello, dandogli, infine, la forma desiderata.
Mi diceva sempre che i metalli ci permettevano di creare qualcosa di nuovo e che questo ci rendeva potenti, diversi da tutti gli altri abitanti del villaggio.
Noi eravamo in grado di creare qualcosa al quale solo noi potevamo dar forma.
E io ci ho creduto. Me ne sono convinto – quando terminò quel breve racconto, si accorse che Quaglia lo stava osservando con gli occhi sgranati dalla sorpresa. – Cosa c’è? – gli domandò.
- No, nulla, è che... da quando sono qui non ti ho mai visto scambiare più di due parole con Rolland, se non per litigare aspramente. Mi è difficile immaginare un tempo in cui tu e tuo padre foste in buoni rapporti.
- Già... anche a me – commentò Blake con voce atona, se non per una lieve nota di malinconia. – Tante cose sono cambiate tra noi. Ed allora ero solo un bambino.
- Però lui ti ha insegnato tutto quello che sai.
- Sì, è vero. E di questo gli sarò sempre grato.
- E tu lo hai insegnato a me.. – realizzò Quaglia, grattandosi la testa lievemente impacciato. – Sai, quando mi sono svegliato su quel letto, privo di ricordi, senza neanche un’identità da custodire, non avrei mai immaginato che nel giro di qualche settimana un sedicenne mi avrebbe insegnato tutte le arti di una pratica tanto complessa, delicata e faticosa come la forgiatura di metalli.
Blake accennò un sorriso in risposta. – Ti avevo promesso che mi avresti fatto da apprendista, no?
- Infatti. Ne sono stato davvero felice. Mi hai insegnato che un uomo può essere in grado di studiare interi tomi, di eccellere nei calcoli matematici e, nel mio caso, di fare ritratti con foglio e carboncino, e al contempo, con le stesse mani, anche colpire un incudine con un martello che pesa quanto lui.
- Beh, non è così arduo coinciliare tali pratiche se non le si svolge nello stesso momento.
- Quello che intendevo è che... prima di arrivare qui, ero solito solamente svolgere compiti che riguardavano gli studi alchemici portati avanti da mio nonno e mio padre, non facevo null’altro se non quello. Da quei pochi ricordi che ho riacquisito del mio villaggio di provenienza, rimembro che vi fossero, per tutti, dei compiti ben precisi: o eri questo o eri quello, non potevi essere una sarta e al contempo anche una lavandaia, così come non potevi essere uno studioso e al contempo un lavoratore.  
- Non che qui sia molto diverso: ti ricordo che Bliaint è l’unico villaggio della pianura in cui ai popolani che non scelgono di prendere i voti è vietato categoricamente imparare a leggere e a scrivere.
- Ma a te non è importato nulla e sei andato per la tua strada, come sempre. Non hai paura che i monaci scoprano cosa stai facendo qui sotto e che... te ne facciano pagare le conseguenze, come stanno facendo con quel ragazzo accusato di essere una strige?
- Non sto facendo niente di male.
- Blake.. scommetto che i monaci sanno a malapena cosa sia l’alchimia, e sarebbe meglio per te che rimangano nella loro ignoranza.
Ad ogni modo, tuo padre ha insegnato anche a Ioan tutto quello che sa?
- Cos’è, un interrogatorio oggi?
- Avanti, Blake, è solo per fare conversazione, sono tre ore che forgio decine e decine di utensili ininterrottamente. Non so se lo stiamo facendo perchè, in tal modo, speri che magicamente qualcuno di questi utensili si trasmuti in un oggetto d’oro, trovando la soluzione al mistero che ti tormenta da quando Selma è tornata al villaggio. O meglio.. da quando sei tornato dal tuo viaggio – sputò fuori tutto ciò senza neanche rendersene conto, accorgendosi del danno fatto solamente dopo aver pronunciato ad alta voce il tema e problema centrale di Blake al momento, il demone che lo teneva sveglio ogni notte, togliendogli il sonno e la fame.
Come immaginato, il ragazzo gli rivolse uno sguardo talmente truce da farlo impallidire.
- Se non sbaglio nessuno ti ha costretto a restare qui con me, tanto meno io, che avrei preferito fare tutto il lavoro in sacrosanto silenzio e solitudine, piuttosto che rispondere alle tue domande pressanti e inutili. Vattene se sei stanco, continuerò io.
- Blake... non volevo dire questo. Sono stato io che mi sono proposto di assisterti oggi, in quanto tuo assistente. D’altronde, è quello che facciamo sempre: darci man forte in tali momenti – addolcì la voce Quaglia, tentando di ammansirlo. Con Blake bisognava muoversi così: cercare di avvicinarsi a lui come si faceva con i gatti forastici o con gli animali rari e selvatici, muovendo passi calmi, ragionati, circospetti ed estremamente delicati, per non rischiare di rovinare tutto con un solo movimento sbagliato in un momento di fatale distrazione. Se ciò accadeva, si rischiava di farlo scappare via e perderlo per sempre.
Padre Craig non aveva ancora imparato abilmente a fare ciò, nonostante fosse a Bliaint da prima di lui, mentre invece Quaglia, complice anche la maggiore vicinanza nei momenti di “lavoro”, sperimentazione e ricerca come quello, poteva vantarsi di esserci quasi riuscito, a capire come avvicinarlo senza farlo fuggire.
E il ragazzo non scappava via perchè spaventato, come facevano la maggior parte dei piccoli felini inavvicinabili, tutt’altro: era egli stesso a spaventare lo sciocco che desiderava stargli accanto, la maggior parte delle volte.
Judith era una delle poche che vi era riuscita subito e senza sforzi.
Ma, infondo, Judith aveva sempre avuto delle doti speciali e ammirevoli.
- Vorrei solo sapere perchè stiamo forgiando tutti questi utensili, dato che le commissioni di oggi non sono così tante, e ci siamo già ampiamente avvantaggiati anche su quelle dei prossimi giorni – concluse l’uomo.
- Tenermi occupato mi distrae.
Oh... ora Quaglia capiva, e si diede dello stupido per non averlo capito subito.
Quella era da sempre la strategia di Blake per non impazzire: tenersi la mente costantemente occupata.
- Ad ogni modo, per risponderti alla domanda di poco fa: no, mio padre non ha insegnato nulla a Ioan. A causa della sua malattia è sempre stato troppo debole per pratiche simili – rispose neutro, ritornando a concentrarsi sui libri.
Trascorsero alcuni minuti di silenzio, il ragazzo aveva ripreso a leggere e a fare calcoli, senza degnarlo di uno sguardo, così Quaglia si avvicinò a lui di qualche passo, sbirciando la pagina aperta del tomo mentre si puliva le mani da quella patina nera e appiccicosa che sarebbe andata via definitivamente solamente con un bagno caldo e pieno di oli e sali profumati.
- Questo è nuovo.. – realizzò Quaglia affilando lo sguardo per mettere a fuoco le parole scritte.
- Non che tu sia in grado di capire se è nuovo o no, dato che ne hai letti neanche la metà – lo rimbeccò pungente Blake, continuando a scrivere.
- Non è affatto vero – rispose fintamente offeso. – Insomma, quello che parlava interamente delle origini del padre dell’alchimia e dell’esoterismo, di quell’Ermete Trisegisto-
- “Trismegisto” – lo corresse Blake, con un ghigno divertito e semi esasperato.
- Trismegisto, sì sì, lui. Quello me lo ricordo bene. Così come gli altri tre che mi hai fatto leggere, sperando che mi riportassero alla mente ricordi dimenticati dei miei studi con mio nonno – affermò Quaglia, avvicinandosi ancora un po’ per leggere meglio e per tentare inutilmente di decodificare quella massa informe di numeri che stava scrivendo Blake.
- Quei calcoli a che cosa ti servono?
- Per calcolare la percentuale della quantità di zolfo e di mercurio presente in ogni metallo – spiegò il ragazzo.
- Giusto. Ogni metallo è composto di una determinata quantità di zolfo e di una determinata quantità di mercurio. La parte maschile e la parte femminile di ogni materia. Esattamente come i quattro elementi che compongono il mondo, ideati da quel filosofo antico.
Blake alzò il volto su di lui e gli rivolse uno sguardo, sebbene stanco, a metà tra il piacevolmente stupito e il sogghignante. – Vedo che abbiamo studiato – lo canzonò.
- Hai qualche idea in mente? Potrebbe essere che... magari ciò che sei riuscito a fare a casa del Giudice abbia a che fare con qualche passaggio di materia che non ti sei accorto di aver compiuto – ipotizzò Quaglia. La ricerca attiva da parte di Blake riguardo la trasmutazione era iniziata concretamente solamente dopo l’arrivo di Selma, con la conseguente notizia del conte Agloveil. Motivo per cui, Quaglia avrebbe dovuto rispolverare un po’ quelle letture alchemiche che aveva fatto durante le ultime settimane, per aiutare l’amico a venirne a capo, poichè, a quanto pare, Blake non si sarebbe dato pace fin quando non avesse scoperto come era riuscito a compiere la trasmutazione a casa del Giudice.
- Tuttavia – aggiunse l’uomo, ripensandoci su. – Dubito possa averti aiutato la calcinazione, così come la sublimazione è altamente improbabile... forse la soluzione o la coagulazione però...
- Oggi proverò la distillazione – lo interruppe Blake. – È il giorno giusto.
- Perchè?
- Oggi è sabato. Saturno, piombo, milza.
- Non so di cosa diavolo tu stia parlando e che attinenza abbia con la distillazione. Ti basi anche sulla posizione degli astri dunque?
- La posizione degli astri incide, anche se non in maniera determinante. Per farlo però mi serve un alambicco.
- Un alambicco? Dubito lo troveresti qui a Bliaint. Dubito anche che qualcuno oltre noi due e al massimo tuo padre sappia cosa sia. Potremmo forgiarne uno.
- Potremmo.
- Hai scoperto qualcosa di nuovo da questo tomo? A cosa ti serve calcolare la percentuale di zolfo e mercurio di ogni metallo?
- Qui c’è scritto che secondo un antico alchimista orientale, quando i due principi, zolfo e mercurio, sono in eguale quantità e raggiungono un equilibrio perfetto, si forma, o meglio si crea,  l’oro – rispose Blake.
- Dici davvero..? Sarebbe la soluzione a tutti i tuoi problemi...
- Non credo sia così semplice. Però qui dice un sacco di cose interessanti riguardo l’elisir di lunga vita, bramato da molti alchimisti, e a quanto pare anche da Fie, la sorella di Selma – lo informò Blake sfogliando le pagine, schiarendogli i ricordi riguardo il racconto di Selma.
- Cosa dice riguardo l’elisir?
- Hanno provato in molti a distillarlo. Qui dice che è la quintessenza della materia, qualcosa di estraneo sia all’acqua, che all’aria, al fuoco e alla terra, ma che, al tempo stesso li completa. Questo manoscritto sarebbe molto utile a Selma e a Sibyl.
- Quei simboli cosa sono? – domandò Quaglia attonito, scorgendo, tra tutti quei disegni, anche la raffigurazione di un drago fecondato da una colomba.
- Sto cercando di decodificarli.
- Se non sbaglio su uno dei tomi che ho letto tempo fa, veniva teorizzato anche un altro tipo di alchimia, che esulava dalla sfera puramente materiale, eppure strettamente connessa ad essa: l’alchimia spirituale.
Tale termine fu in grado di attirare gli occhi di Blake su di lui. - Sì, è così - confermò il ragazzo con calma. - Perchè ci hai pensato adesso?
- Si dice che la trasmutazione dei metalli, in alcuni rari casi, implica anche la trasmutazione dell’anima: la purificazione dello spirito dall’irrequietezza e dal turbamento, tipici dell’animo umano – mentre parlava, Quaglia sembrò realizzare qualcosa di importante, in quanto i suoi occhi chiari si sgranarono e il suo volto assunse un’espressione differente.
Blake affilò lo sguardo, osservandolo. – Sì, dunque? Sembri esserti accorto di qualcosa di importante.
- No, no è che ... – cercò di riprendere contegno l’uomo, ragionando anche su altro. – Non credi che il conte Agloveil potrebbe voler raggiungere anche questo? Uno stato di purificazione mentale e fisica che potrebbe permettersi di possedere solo un dio? Magari non è solo l’avidità o la curiosità a spingerlo a volerti. Magari vuole anche percorrere la via verso la perfezione spirituale. Avvicinarsi al mistero della vita e della materia, appagando e acquietando l’ansia di ricerca sempre presente nell’uomo, la sua fame di sapere... - improvvisamente, mentre parlava e scandagliava gli occhi di Blake, Quaglia si rese conto di non star più parlando del conte Agloveil, realizzando anche qualcos’altro.
- Perchè mi guardi così..? – gli domandò Blake, percependo già quello che stava per dirgli, mentre l’uomo lo guardava come se stesse avendo una visione mistica.
- Blake, non capisci..? L’alchimia aiuta a controllare le emozioni, a dominarle, ad imbrigliare l’irrequietezza e la fame di conoscenza! Conosci qualcun altro che possiede irrequietezza, sete di conoscenza e delirio di onnipotenza più di te?
- Io non ho nessun delirio di onnipotenza – si difese il ragazzo, poi sospirando poco dopo.
- Hai capito cosa intendo..: la trasmutazione, questa ricerca, potrebbe aiutare anche te.
- Non mi sta aiutando, mi sta solo facendo dannare.
- Perchè è una ricerca lunga, faticosa e che richiede tanto tempo e pazienza.
- Non ho tutto questo tempo.
- Cosa intendi?
- Niente. Hai finito di delirare?
- Aiutare un amico sarebbe delirare, secondo il tuo punto di vista?
La capacità di conoscere se stessi, di saper controllare le proprie emozioni e pensieri negativi, imparando a domarli e a decidere se vuoi assecondarli o no, a prendere il controllo della situazione, è un’arte rara e che ti sarebbe di immenso aiuto per liberarti dei mostri che infestano la tua anima. Non vorresti essere in potere di osservare ciò che vive in te ed andare oltre, di essere più vasto dell’emozione stessa?
- Non riuscirei mai a farlo, neanche tentando una vita intera, Quaglia – rispose il ragazzo, disilluso.
- Perchè no?
- Mi hai visto? – si indicò a figura intera, sorridendo malinconico. – Non riesco neanche a comprendere cosa sto provando. Non riesco a capire nulla delle emozioni che mi dominano. Non so se sto provando rabbia, rancore, tristezza, frustrazione, terrore, nostalgia, gioia o ... non so cosa sia l’amore.
La freddezza con cui Blake pronunciò quell’ultima parola spaventò quasi Quaglia.
- Non so niente delle mie emozioni, non so riconoscerle, non riesco a vederle nè a scorgerle da lontano, come pretendi che io possa anche solo provare a dominarle...? In questo momento la mia testa è un tripudio di numeri, di insicurezze e di rimasugli di allucinazioni che mi porto dietro dalla notte passata.
- E di irrequietezza.
- E di irrequietezza, sì, lo ammetto! Voglio scoprire come ho fatto e se sono in grado di rifarlo.
Voglio scoprire se posso creare, creare davvero, e spingermi oltre.
- Fin dove ti spingerai oltre, Blake...?
Blake gli diede proprio la risposta che temeva di più, e che lo tenne incatenato ai suoi occhi liquidi e ardenti insieme: - Non esiste un “fin dove”. Non c’è limite. E quando ne troverò uno, lo supererò ancora, ancora e ancora.
- Vuoi raggiungere il cielo...
Vuoi toccare il sole senza venire bruciato da esso.
- Non m’importa se mi brucerò. Non mi importa nulla se finirò carbonizzato, l’importante è che l’avrò fatto.
Calò un silenzio tombale tra loro.
Si guardarono fin quando Quaglia non riprese la parola, parlando sommessamente:
- Da quanto vai avanti così...? Da quanto non riesci a scorgere neanche uno stralcio delle tue emozioni, o di quelle degli altri?
- A dir la verità, Quaglia, non riesco a ricordare l’ultima volta in cui io sia riuscito a farlo – rispose sinceramente il ragazzo.
- E Judith...?
- Perchè dobbiamo tirare fuori lei, ora? – lo interruppe Blake, in tono infastidito.
- Mi chiedevo se con lei fosse diverso.
- Perchè vuoi saperlo?
- Perchè sei un mio amico e il mio mentore. Sei colui che mi ha ridato una vita da vivere. Se ancora tu non l’abbia capito, vorrei farti stare meglio! – esclamò facendo fuoriuscire tutta la propria più sincera frustrazione e preoccupazione per l’altro.
A ciò, con sua somma sorpresa, Blake gli poggiò una mano sulla spalla.
Quaglia rialzò lo sguardo su di lui, fissandolo.
- Quando è tornata Selma. L’ultima volta in cui ricordo che mi si è sinceramente scaldato il cuore, è stato quando ho visto Selma in questa fucina, dopo più di un mese che non la vedevo.
Io e lei ne abbiamo vissute tante insieme. In quel momento, è stato come ritrovare una parte perduta di me. Sono stato davvero sollevato di rivederla viva – si confidò.
A ciò, Quaglia sorrise. – Si è notato. Dal modo in cui vi siete abbracciati. Credo che anche lei fosse molto felice di rivederti. Avete stretto un legame davvero forte, solido e inscalfibile, durante quel viaggio.
Sai, anche io sono stato contento di rivederla. Lei è una delle poche persone che riesco a ricordare della mia giovinezza. L’unica donna della mia vecchia vita che riesco a ricordare, oserei dire – ammise l’uomo, abbassando lo sguardo, sorridendo senza rendersene conto. – L’ho sognata. Diverse volte. Ho sognato il giorno in cui è piombata a casa nostra, che era solo una ragazzina, e mio nonno l’ha accolta. Credo di averla guardata per ore, passando per un piccolo maniaco, quella sera. Deve essersene sicuramente accorta. Tuttavia, non avrei potuto fare altrimenti: era troppo bella. Ai miei occhi lo era.
Mentre lo ascoltava, Blake inclinò la testa di lato, accennando un lieve sorriso mentre scrutava i suoi occhi ancora sognanti. – Ti fa ancora lo stesso effetto?
Tale domanda colse impreparato Quaglia. – Cosa..??
- Ti fa ancora lo stesso effetto vederla?
- Beh... sono passati diversi anni ormai.. – iniziò a balbettare. – Lei è una donna matura ormai, e io sono un uomo, non più un ragazzino... insomma, bisogna ammettere che è una donna molto affascinante, possiede un’aura molto forte. Certo, non arriverà mai neanche lontanamente ai livelli di bellezza di voi servi del Diavolo, ma voi siete incomparabili con chiunque, perciò non vale... per i criteri di bellezza del mondo fuori da Bliaint, Selma è una donna molto apprezzabile. Magari per te non lo è, appunto perchè sei abituato a ben altro e-
- Smettila di dirlo – lo interruppe Blake, negando con la testa, in segno di esasperazione. – Un giorno mi spiegherete tutti perchè credete che noi servi del Diavolo setacciamo uomini e donne in base al loro “livello” di bellezza esteriore, neanche fossero bestiame. Non è così che funziona. La bellezza non è così importante.
- Non è così importante solo per chi ne possiede fin troppa – replicò Quaglia. Le parole del ragazzo, tuttavia, gli avevano riportato alla mente una delle conversazioni avute con la madre dello stesso, mentre condivideva con lei uno dei tanti momenti che seguivano il piacere carnale consumato nel letto nuziale della donna.
Era ironico pensare al fatto che fosse stato l’amante della madre di Blake, tremendamente ironico.
E di certo Blake era troppo intelligente per non essersene accorto già da solo.
Eppure, il ragazzo non aveva battuto ciglio.
Quaglia ne fu lieto, in quanto non avrebbe potuto sopportare un litigio con Blake a causa del suo rapporto adultero con Heloisa.
- Tua madre mi ha detto una cosa simile, tempo fa.
- Beh, non mi risulta difficile crederlo. Conoscendoti, sicuramente le avrai domandato come mai stesse tradendo un uomo tanto avvenente come mio padre, con uno straniero dall’aspetto discreto come te - ipotizzò Blake con naturalezza, sorprendendo Quaglia grazie alla semplicità con cui riusciva a parlare di una cosa simile, alle spalle del padre.
- Beh sì... è quello che le ho chiesto, grossomodo – disse, ma si sentì in dovere di aggiungere altro, perchè non gli sembrava giusto, per qualche motivo, far decadere quel discorso in tal modo. – Comunque.. volevo farti sapere che tengo a tua madre. Tengo a lei, ma... non in quel modo.
Blake affilò lo sguardo, studiandolo. – Lo so. So che non la ami.
- Lo davi per scontato?
- Mia madre non è una donna facile da amare – disse solamente. – E neanche mio padre lo è. La differenza tra i due, è che mia madre ci riesce, mentre lui no.
Quaglia deglutì rumorosamente, prima di dirlo ad alta voce: - Non ti disturba che tua madre sia una donna molto facile da venerare, eroticamente parlando, ma difficile da amare? Almeno per me?
- Perchè dovrebbe? Non è una novità, sarebbe sciocco non riconoscerlo. Non sei certo il primo uomo a cui il corpo di mia madre fa fremere i lombi, e non sarai l’ultimo.
Pensa che c’è riuscita persino con padre Craig.
- Che cosa...?
- C’è stato un periodo in cui ho spinto padre Craig nel letto di mia madre – ricordò Blake con un ghigno divertito. – C’era molta attrazione tra loro, era evidente che lui la desiderasse e si stava autoflagellando per provare dei desideri tanto peccaminosi.
Se solo sapessi quali ardenti desideri prova ora per te, mio ignaro amico..  non riuscì a fare a meno di pensare Quaglia.
- Gli ho detto che, a parte il suo voto di castità, niente avrebbe dovuto trattenerlo: mia madre condivideva quell’attrazione e aveva un gran bisogno di distrarsi, così come lui aveva un gran bisogno di sfogarsi. In quel periodo non faceva altro che vedere della perversione in qualsiasi cosa, e mi attribuiva colpe inesistenti. Gli avrebbe fatto bene trovare un po’ di sfogo negli stessi atti che lui reputa “perversioni”.
Quaglia rimase in silenzio, metabolizzando: non era a conoscenza di tutto ciò. Ed ora che ci pensava e cercava di mettere insieme i complicati pezzi del puzzle che costituivano i complessi istinti e appetiti di padre Craig, realizzò alcune cose: Blake assomigliava a sua madre. Certo, vi era una somiglianza più palese e diretta con suo padre per ovvi motivi, tuttavia, ad un occhio esperto, si potevano scorgere diverse somiglianze fisiche tra madre e figlio, specialmente in piccoli dettagli del volto. Appurato ciò, a questo punto gli era evidente per quale motivo il giovane prete si fosse invaghito di Heloisa nel periodo iniziale della sua permanenza a Bliaint: non essendo riuscito ancora ad identificare (o probabilmente ad accettare) la sua attrazione per Blake, aveva creduto che fosse la madre del ragazzo l’oggetto del proprio desiderio, rifiutando inconsciamente e categoricamente l’idea che tutto ciò che gli piaceva di Heloisa, erano le somiglianze che la donna condivideva con il figlio.
Tale realizzazione fu in grado di inquietarlo e non poco.
L’idea di un padre Craig intento a consumare un rapporto carnale con Heloisa, mentre nella sua immaginazione c’era Blake, lo lasciò turbato.
- Alla fine sono andati a letto insieme? – gli domandò, non riuscendo a nascondere il turbamento.
- No. Non ha ceduto.
Vorrei ben vedere... si disse Quaglia.
- Ad ogni modo, ritornando al discorso di poco fa, riconosco il fascino che emana Selma – lo informò Blake. - Vuoi sapere chi possiede la sua stessa aura forte e ammaliante?
- Chi?
- Sua cugina.
- La famosa Sybil?
Blake annuì. – La famosa Sibyl – confermò.
- Da come ne parlate tutti, sembra una ragazza davvero speciale.
- Lo è. Lei ha un qualcosa che ... rende impossibile resisterle – spiegò il ragazzo, pensandoci su e facendosi invadere dai ricordi.
- Cos’è che ti piaceva tanto di lei?
- La sua determinazione. La sua forza d’animo, il suo senso dell’umorismo, la sua passionalità soffocante, ed è strano, perchè solitamente la passionalità non è una qualità che apprezzo molto.
Invece su di lei sì. Possedeva anche questa strana dote, la capacità di capirmi, di leggermi, senza che io dicessi o facessi nulla per provare a farmi capire.
Lei amava leggermi. Facevamo spesso questo gioco, io e lei, mentre eravamo a letto insieme: io, avendo perso la voce, scrivevo su un blocchetto quello che pensavo o che volevo dirle, e lei, prima di leggerlo, cercava di indovinare cosa avessi scritto. La maggior parte delle volte lo capiva. E devo ancora spiegarmi come facesse.
Quaglia rimase vivamente sorpreso dell’intensa sintonia che i due avessero.
Non potè fare a meno di domandarsi se anche con Judith fosse così.
E nonostante sapesse che Blake non volesse sentir nominare il nome della fanciulla, non resistette:
- Non ho potuto non notare che questa Sybil sia molto simile a Judith, quando l’hai descritta.
- Sì, in diverse cose, sì. Ma Sybil non è Judith. Judith è innatamente elegante e spocchiosa in una maniera quasi spaventosa: passa da santa ad arpia nel giro di un istante, e nessuno se ne rende mai conto. Ha un cuore buono, davvero molto, ma non è pura, candida, nè irreprensibile. Non le sfugge niente, ha una sensibilità inumana, ma al tempo stesso riesce a farsi scivolare via tutto ciò che non è rilevante, procedendo per la strada che ritiene giusta, calpestando tutto e tutti se lo ritiene necessario.
La descrisse in maniera impeccabile, e Quaglia dovette trattenere un mesto verso di disappunto, puramente egoistico, a tale constatazione.
I due si conoscevano a pennello, nei limiti in cui due esseri umani si sarebbero potuti conoscere l’un l’altra.
O meglio, Blake conosceva Judith.
Ma Judith non conosceva più Blake.
I sentimenti di invaghimento che Quaglia nutriva per Judith non erano in grado di annebbiare totalmente il dispiacere che tale constatazione faceva sorgere, ma almeno riusciva a distorcerlo in qualcos’altro.
Come rendendosi conto di quanto appena detto e pentendosene, Blake distolse lo sguardo, portandolo verso la fornace e gli utensili finora forgiati.
- L’aria sta cominciando a diventare stagnante – commentò il ragazzo. – Presto inizierai anche tu a vedere gli stessi demoni che vedo io, senza neanche rendertene conto – lo schernì ironicamente Blake.
- Beh, finchè non è mercurio.. – commentò Quaglia. – Tuttavia, sto iniziando a sentire una gran pesantezza addosso, effettivamente. Oramai il carbone e lo zolfo mi si stanno impregnando anche dentro i calzoni. Ora capisco come mai voi di Bliaint siete così fissati con la pulizia del corpo: per ripulirvi da intere ore passate qui sotto vi servono tre bagni di acqua a temperatura di ebollizione – commentò scherzoso, vedendo nascere un sorriso anche tra le labbra di Blake.
Ma prima che potessero valutare di risalire in casa, fece il suo ingresso nella fucina una figura che i due non si aspettavano di vedere entrare lì, neanche in un milione di anni, e che fu in grado di lasciarli esterrefatti: Heloisa era finalmente uscita dalla sua stanza, oramai divenuta una tana.
I ricci della donna erano arruffati all’inverosimile, la sua vestaglia bianca era macchiata di sudore in diversi punti, la camminata era goffa e instabile, le sue braccia erano nascoste dietro la schiena.
Alzò il volto distrutto e senza vita su suo figlio, fissandolo, mentre calde lacrime si affacciavano ai suoi grandi occhi. – Even... sei qui...
Immobilizzati da tale visione, i due non reagirono subito.
- Mamma...  che ci fai qui? – riuscì a risponderle Blake attonito, dopo qualche secondo.
- Non ti vedo da settimane... perchè mi hai abbandonata...? – la sua voce era roca, affaticata e spirante.
Sembrava una morta vivente, una visione che agghiacciò in particolare Quaglia, il quale non sapeva davvero cosa fare. Decise di affidarsi totalmente a Blake, come spesso succedeva, e di lasciare fare a lui.
- Mamma, vieni, torniamo a letto. Ti accompagno io. Ti va...? – le propose Blake, fingendo calma, e rivolgendole un sorriso rammaricato, e al contempo compassionevole.
Heloisa negò con la testa, debolmente.
- Mamma.. cos’hai dietro la schiena? – provò a domandarle il ragazzo.
- Mi dispiace... – sussurrò la donna, ora tutto il suo corpo era scosso dai singhiozzi del pianto, mentre le lacrime le rigavano le guance come cascate, andandosi a schiantare a terra.
- Di cosa ti dispiace...?
- Per quello che ti ho fatto...
- Non mi hai fatto niente, mamma..
- Mi dispiace tanto! – ora era davvero disperata e non riusciva a riprendere fiato tra un singhiozzo e l’altro.
Poi, improvvisamente, il suo corpo estremamente indebolito piombò giù come una torre abbattuta, venendo prontamente afferrata prima che si schiantasse a terra da Blake, il quale fortunatamente era a pochi metri da lei, e in un balzo era riuscito a raggiungerla in un batter d’occhio.
- Ma che diavolo...?! – esclamò il ragazzo controllandole immediatamente le mani che teneva nascoste dietro la schiena, ora abbandonate a peso morto.
Ma prima che Quaglia potesse rendersi conto di cosa stesse succedendo, Blake sbiancò immediatamente, perdendo colorito.
- Che è successo..?? Blake! – cercò risposte l’uomo avvicinandosi.
- Si è tagliata i polsi.
- Che cosa...?!
- Si è tagliata i polsi! Sta morendo dissanguata! – esclamò Blake voltandosi immediatamente verso Quaglia mentre ancora teneva in braccio sua madre. Il ragazzo aveva le mani completamente sporche del sangue della donna, il quale stava continuando a colare a fiotti dai suoi profondi tagli ai polsi.
- Prendila, resta con lei – gli ordinò convulsamente Blake, senza pensare, adagiando il corpo privo di sensi di sua madre tra le braccia di Quaglia. – Io vado a cercare aiuto. Ci serve un medico.
- Blake, casa nostra è lontana dal centro del villaggio! Il medico del villaggio vive dalla parte opposta, accanto alle cattedrali! Tutto il tempo che impiegherai ad andare e tornare con lui a piedi potrebbe essere troppo per Heloisa! – esclamò l’uomo allarmato, reggendo Heloisa tra le proprie braccia.
Gli ingranaggi procedevano impazziti nella testa del ragazzo, il quale si strinse inconsciamente i capelli per l’ansia, macchiandoli di sangue, mentre pensava ad una soluzione.
- La galleria... – realizzò all’improvviso. – La galleria è qui vicino!
- Ma alla galleria non c’è nessuno che può aiutarla!
- Invece sì. Gli scavatori rischiano la vita ogni giorno là sotto, perciò serve sempre la presenza di una figura con le competenze mediche mentre i lavoratori scavano!
- Ossia??
- La moglie del medico. La moglie del medico è sempre presente alla galleria, quasi ogni giorno, per le emergenze! Vado e la porto qui, tu intanto occupati di lei e cerca di limitare la fuoriuscita di sangue! - esclamò il ragazzo, sembrava un marchinghegno a ingranaggi mentre si muoveva convulsamente veloce e meccanicamente. Salì immediatamente le scale della fucina e iniziò a correre verso l’uscita di casa.
- Blake!! – quella vocina fu in grado di farlo bloccare, fosse stata quella di qualsiasi altro l’avrebbe ignorata bellamente.
Si voltò verso Ioan, che lo guardava sull’orlo delle lacrime, non capendo cosa stesse succedendo, da solo.
- Dov’è padre Craig? – gli domandò Blake prendendolo in braccio e riniziando a procedere a passo di marcia verso l’uscita della casa.
- Non lo so.. – rispose il bambino, aggrappandosi al suo collo e seppellendo il viso sulla sua gola.
Blake sfondò quasi la porta con un piede, procedendo a gran velocità, deciso ad individuare la prima faccia conosciuta e fidata che gli si palesasse davanti: non poteva lasciarlo da solo in casa, e non voleva per nessuna ragione al mondo che vedesse sua madre in quelle condizioni. Doveva portarlo via di casa.
Intravide la fornaia che stava uscendo dalla sua dimora con i panni sporchi tra le mani, la quale, non appena lo intravide, così trafelato e sporco di sangue, si spaventò quasi, facendo per chiedergli cosa fosse successo, ma il ragazzo non le diede il tempo: - Tenete, prendetevi cura di lui finchè non sarò di ritorno – le disse solamente, mollandole Ioan tra le braccia, e iniziando finalmente a correre più veloce che poteva verso la direzione della galleria, ignorando qualsiasi persona gli si parasse davanti.
Corse a per di fiato, facendo attivare i muscoli delle gambe come non gli capitava da un po’, sfrecciando come una scheggia per le strade che iniziavano a diventare deserte, man mano che si avvicinava il terreno della galleria, con il vento che gli si schiantava contro.
Quando arrivò finalmente alla galleria, impiegando la metà del tempo che solitamente impiegava quando giungeva lì a passo svelto, cercò di riprendere fiato il più in fretta possibile nonostante non avesse più respiro.
Non appena lo videro e lo riconobbero, alcuni scavatori a riposo gli andarono incontro, allarmati:
- Blake..? Cosa ci fate qui?
- Blake, tutto bene??
Ma lui li ignorò e li sorpassò tutti, intenzionato a trovare solo una persona.
- Blake...?
Non ci voleva.
Quella voce non ci voleva proprio ora.
Sperava fosse tra le lenzuola di una delle donne che si portava a letto al posto di lavorare e di rincasare, invece, a quanto pare, quel giorno era lì, a compiere il suo dovere: Rolland lo raggiunse a grandi falcate, nonostante Blake lo stesse volutamente ignorando, afferrandogli una spalla e rigirandolo verso di sè.
Rolland osservò la faccia spiritata e in trance di suo figlio, il fiato corto, i numerosi ciuffi di capelli sfuggiti alla costrizione scompigliati e sporchi di sangue, i vestiti troppo leggeri per essere indossati all’aperto, nel freddo mattutino, la pelle del collo, delle clavicole lievemente esposte, del viso e delle braccia soprattutto, macchiata di sangue e di una patina nera che conosceva sin troppo bene.
- Blake... che diavolo ti è successo? – fu in grado solo di chiedergli, mentre una morsa di preoccupazione gli lacerava le viscere.
- Devo trovare la moglie del medico. Dimmi dov’è – rispose solamente il ragazzo, cercando di sfuggire da lui per continuare a cercare.
- Prima dimmi cos’è successo! Sei tutto sporco di sangue, cosa dovrei pensare??
- La mamma si è tagliata i polsi. Morirà dissanguata se non mando immediatamente la moglie del medico da lei – rispose automatico il ragazzo, continuando a guardarsi intorno convulsamente, alla disperata ricerca della donna.
Rolland rimase attonito per qualche istante, schiudendo la bocca in un tripudio di emozioni e sensazioni differenti.
- Serve il medico...
- Il medico è troppo lontano, papà, dannazione! Dimmi dov’è!!
- Sono qui! – fortunatamente fu la donna stessa a raggiungerli, richiamata da un gruppo di scavatori.
Blake si liberò finalmente dalla presa del padre e le andò incontro, come avesse visto una visione:
- Dovete venire con me! – esclamò solamente, con il fiato nuovamente mancante.
- Cos’è successo? – chiese ella allarmata. – Siete ferito?
- No, è mia madre. Si è tagliata le vene, dovete andare immediatamente da lei, ora!
- D’accordo, ora state calmo e prendete un bel respiro. So dov’è l’abitazione di Rolland, me lo ricordo, posso andarci da sola di corsa, ora. Voi intanto correte da mio marito, a casa nostra, chiamatelo e portate anche lui! Nel frattempo io me ne occuperò come posso e limiterò i danni maggiori, ma serve comunque il parere e l’aiuto di mio marito per evitare il peggio – gli spiegò.
- D’accordo, d’accordo, andrò da lui, ora andate, correte – rispose il ragazzo, vedendola cominciare a correre in direzione di casa Rolland.
A ciò, senza attendere oltre e senza neanche riprendere fiato, Blake iniziò a camminare a passo di marcia verso il centro del villaggio, senza percepire il freddo, nè il sangue incrostato addosso, nè il fastidio dei pesanti rimasugli di carbone appiccicati sulla pelle e sui vestiti. L’agitazione e il nervosismo lo muovevano come un automa, isolandolo da tutto e da tutti, ma purtroppo, non esattamente da chiunque, per sua sfortuna.
- Blake! Blake, aspetta!! – esclamò correndo a per di fiato Rolland. – Ho detto fermati, maledizione!! – urlò raggiungendolo almeno il minimo indispensabile per afferrargli un braccio e bloccarlo bruscamente. – Che Diavolo, Blake! Da quando sei diventato un simile corridore?? – gli domandò accasciandosi sulle ginocchia, tra un ansimo e l’altro.
Blake non si era neanche accorto di star correndo, prima che glielo facesse notare suo padre.
Senza curarsi di lui, riprese a camminare, questa volta in modo che l’uomo riuscisse a sostenere il suo passo.
- Vattene, torna a casa – gli disse senza voltarsi a guardarlo, sapendo che lo avrebbe seguito. – Ci penso io a chiamare il medico. Tu torna a casa, aiuta Quaglia e la moglie del medico, consola Ioan e pensa alla mamma.
- Voglio venire con te dal medico – insistette l’altro inseguendolo.
- Non ho bisogno che tu venga dal medico con me.
- Blake, per favore... possiamo parlarne?
- Parla mentre cammina.
- Lo sto facendo.. – rispose Rolland provando ad accelerare il passo per affiancarlo.
- Cosa vuoi dirmi? Abbiamo ancora una buona mezz’ora prima di arrivare alla casa del medico, prenditela pure con comodo.
- Sei adirato con me perchè non sono mai in casa? Per questo mi tratti in tal modo?
- Sono adirato con te perchè invece di passare del tempo con il tuo figlio minore, che a differenza mia, ti adora a dismisura e spera ancora di avere un padre, ti infili nel letto e nella casa di chiunque, tranne nella tua. Non mi importa nulla di chi e di quante te ne porti a letto, non sono affari miei, puoi anche fotterti l’intero villaggio, ma abbi la decenza di tornare a casa almeno una volta al giorno per assicurarti che tua moglie non sia morta su quel letto in cui l’hai abbandonata, e Ioan stia bene – disse tutto d’un fiato, continuando a camminare a passo di marcia e ignorando le espressioni delle persone in strada che si voltavano a guardarli perplessi.
- Credi sia facile per me?? Credi sia facile dover avere la casa invasa da stranieri che non fanno altro che mangiarsi con gli occhi mia moglie ogni volta che la scorgono??
- Oh, ma davvero?? Dimentichi di avere una famiglia perchè hai due stranieri in casa! Questa scusa è nuova! Dovresti usarla anche con i monaci semmai ti chiederanno per quale motivo stai conducendo una vita da scapolo negli ultimi tempi.
- E che mi dici della follia di tua madre, allora?! Ha perso la testa da un momento all’altro!
- Se non ci fossimo stati io e Quaglia oggi, tua moglie sarebbe morta dissanguata sul pianerottolo.
- E la malattia di Ioan..! Ti comporti come se tutto ciò non avesse alcun effetto su di te, ma lo so, lo so benissimo che anche tu ne hai risentito almeno quanto me, Blake!
- Io non sono scappato di casa. Io non mi sono sfogato di tutte le frustrazioni e i problemi fuggendo via e abbanonando i miei familiari, nonostante avrei potuto farlo.
- Sei partito per un viaggio fuori da Bliaint senza dire niente a nessuno, Blake!! Ti sembra un comportamento normale, questo??? – esclamò Rolland sfogando tutta la rabbia e la frustrazione che lo animavano, afferrando strettamente il braccio di suo figlio e strattonandolo, facendolo voltare verso di sè, per guardarlo in faccia.
Mentre discutevano avevano percorso parecchia strada, raggiungendo l’inizio della piazza centrale del villaggio, ma erano ancora a dieci minuti di distanza dalle cattedrali.
Quel luogo era gremito di bancarelle e di gente che comprava alle bancarelle, come ogni mattina.
Dare spettacolo lì in mezzo non sarebbe stata la scelta più raccomandabile, ma ai due sembrò non importare minimamente, dato che oramai avevano lasciato andare ogni freno inibitorio ed erano pronti a liberarsi dei rancori che nutrivano l’uno per l’altro.
- Lasciami – gli intimò Blake tra i denti, trucidandolo con lo sguardo e provando a sottrarsi dalla presa stretta del padre, inutilamente, dato che che Rolland rinforzò maggiormente le dita intorno al braccio del ragazzo. - Dobbiamo sbrigarci ad andare dal medico, non abbiamo tempo per queste sciocchezze, padre.
Era vero che con Heloisa c’era già la moglie del medico, ad occuparsi di lei, perciò non era divorato dalla fretta come poco prima, tuttavia voleva sottrarsi da quella scomoda conversazione il più in fretta possibile.
- Blake, ascoltami quando ti parlo – gli ordinò Rolland, questa volta con sguardo e occhi tremendamente autoritari. – Sono stanco del tuo atteggiamento incurante e sprezzante. Perchè te ne sei andato via? Dimmelo. Da quando sei partito è andato tutto in malora.
- Parli sul serio?! Ioan è guarito dal suo malanno esattamente dopo la mia partenza – gli ricordò.
- Sì, ma al contempo sono scoppiate altre decine di disastri! L’epidemia, la rivolta, la pazzia di tua madre, persino il ritorno di quella malsana sgualdrina di Myriam!
- Non ti azzardare a parlare così di lei – lo mise in guardia Blake con voce pregna di acidità e astio.
- Blake, non sto dando la colpa a te.. – cercò di darsi un contegno Rolland, addolcendo lo sguardo, cercando come potè di trovare un contatto perduto con lui.
- Ah no? Fino ad un minuto fa sembrava di sì.
- Dimmi, cosa è cambiato tra noi?
- Tutto.
- Che cosa significa?? Spiegami! Per quale motivo hai cominciato ad avere allucinazioni?? Per quale ragione sei così ossessionato dalla galleria e dalla fucina?? Io ho riposto tutte le mie speranze in te, sin dalla tua nascita! Sono tuo padre e ho bisogno di saperlo!!
- Smettila di urlare – gli ordinò Blake cercando di mantenere la calma e di sottrarre il braccio dalla stretta del padre, mentre una folla di persone iniziò lentamente ad accerchiarli, non sapendo se intervenire o no.
Hinedia, che, per caso, quella mattina aveva deciso di mettere fine al suo autoesilio e di uscire di casa, si trovava a fare delle piccole commissioni per sua madre al mercato, poco distante dall’appariscente scena che si stava svolgendo tra padre e figlio.
Udendo le urla, esattamente come gli altri, raggiunse i due, sgranando gli occhi attonita nel rendersi conto di chi si trattasse.
- Voglio delle risposte – ricancarò la dose Rolland.
- Dobbiamo andare a chiamare il medico per salvare la vita di mia madre e tua moglie, e tu vuoi delle risposte da me, ora?? – urlò liberandosi finalmente dalla presa del padre, girando i tacchi per riprendere a camminare. Ma Rolland, in un impeto di rabbia, gli afferrò una spalla con violenza e lo voltò di nuovo verso di sè.
Blake non fece caso alle maniere parecchio aggressive con cui suo padre lo stava trattando al momento, ma il resto delle persone intorno a loro sì, Hinedia soprattutto, che ne rimase allibita e agitata.
- Blake, devi toglierti dalla testa la galleria e tutto ciò che la riguarda!!
- Cosa ti prende ora?? Ancora con questa storia?? Per quale motivo vuoi tenermi lontano da ciò che un giorno sarà di mia proprietà? Sei sempre stato tu ad incoraggiarmi ad andarci, da sempre, ed ora non vuoi?
- Non con tali motivazioni...!
- Cosa ti importa dei motivi per cui voglio andarci??
- Mi importa perchè non sei l’unico membro della nostra famiglia ad essere impazzito a causa di quella dannata galleria!! – vuotò il sacco all’improvviso Rolland, lasciando suo figlio totalmente stupefatto e in balìa dei suoi strattoni, in trance a causa di quel che aveva appena sentito.
- Che cosa hai detto...?
- Non voglio che tu finisca come  loro... non voglio che tu esca totalmente di senno a causa di quel luogo maledetto... ho sottovalutato il suo potere. Ho sottovalutato l’energia e l’effetto che esercita su di te, Blake... quel posto è pericoloso, non immagini neanche quanto. Ed io non voglio... non voglio perderti. Sei il mio erede e mio figlio. Non posso permetterlo.
- Cosa stai dicendo...? Chi altro è...? – ma le parole gli morirono in gola in quanto, in quel momento, la figura di Bonnie si palesò ai suoi occhi, in piedi e sporca di terra, qualche metro dietro suo padre, che lo guardava con la solita smorfia infantile e ghignante.
- “Lei si sta per svegliare...
Lei si è svegliata...
Ha cercato tutti i suoi pezzi e li ha rimessi per bene insieme.
Hanno iniziato a muoversi da soli
Hai visto il mio sudario, madre?
È tutto bagnato dalle lacrime.
Ti prego, smetti di piangere, mamma
Altrimenti non riesco ad addormentarmi nel mio lettino sotto terra” – mimò con le labbra blu la solita litania, e Blake, come sempre, restò ad ascoltarla e a fissarla, consapevole di essere l’unico a poterla vedere.
Stava impazzendo. Stava impazzendo davvero. Formulò quel pensiero nel momento in cui si accorse che suo padre lo stesse scuotendo impetuosamente per le spalle, per risvegliarlo da quella visione ad occhi aperti.
- Blake! Mi senti?!
- Ti sento benissimo. Ora lasciami andare immediatamente: devo andare a prendere quel maledetto medico, per riparare ai danni che tu hai provocato – gli sibilò dritto in faccia con sdegno, per poi liberarsi della presa a voltarsi, deciso ad allontanarsi davvero da lui questa volta.
 - Non puoi attribuirmi anche la colpa per ciò che ha fatto Heloisa! Quella donna è totalmente impazzita e io non so più cosa fare con lei!
Blake rise sommessamente e nervosamente, stringendo i pugni e bloccandosi, voltandosi nuovamente verso di lui. – Certo che la attribuisco a te, perchè sei vile e vigliacco! – ora non ce la faceva più, l’ira lo dominava interamente ed era come se non esistesse nessuno in quel preciso istante, a parte lui e suo padre.
Rolland lo raggiunse di nuovo a grandi falcate, urlandogli: - Zitto!! Chiudi quella dannata bocca!
- Se solo ti fossi fatto vedere di più, anche una o due volte quando ne aveva bisogno e stava per crepare sprofondata su quel letto come un vegetale, ora lei non sarebbe in pericolo di vita!
La colpa è tua! Prenditi le responsabilità che devi per una volta, Dun Rolland, invece di fuggire e ripararti tra le cosce di altre donne! – gli urlò dritto in faccia, senza trattenersi.
Rolland ne aveva abbastanza. Era arrivato palesemente al limite e non poteva sopportare ulteriormente una tale mancanza di rispetto da parte di suo figlio, il quale lo stava svergognando davanti ad un’ingente folla di persone.
Rolland si guardò intorno, notando finalmente gli sguardi perplessi, sconvolti e preoccupati di coloro che li guardavano in disparte.
- Abbassa la voce ... – gli intimò tra i denti. – Ci stanno guardando tutti, Blake. Se continuiamo così penseranno che siamo una famiglia di pazzi.
- Oh, per quello non preoccuparti, papà, perchè lo pensano già tutti che siamo una famiglia di pazzi!
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
L’uomo, non vedendoci letteralmente più dalla rabbia, sferrò un violento pugno in faccia a suo figlio, scaraventandolo a terra e ferendolo.
Dei fiotti di sangue iniziarono a sgorgare dal naso del ragazzo, mentre un lungo taglio che partiva dal labbro inferiore e si dilungava fin sotto il mento, laddove la nocca di suo padre lo aveva colpito, si colorava di quel liquido scarlatto e vivo, dal sapore ferroso.
Blake si rialzò in piedi apparentemente senza battere ciglio, ingnorando le esclamazioni di stupore e di preoccupazione nei suoi confronti provenienti dalla folla osservante.
I suoi occhi ardenti e incenerenti erano diretti solo su suo padre, il quale era diventato una statua di sale, dopo aver realizzato ciò che aveva appena fatto.
Blake si sfiorò il taglio con un polpastrello, arricciando lievemente il naso per il dolore, ma tornando immediatamente con il viso composto e imperturbabile mentre accennava un sorrisino pregno di tutta la furia che stava trattenendo e che sfrigolava nel suo corpo sottopelle, intossicandolo.
- Blake, io... - a Rolland morirono le balbettanti parole in gola e, moritificato, allungò una mano verso suo figlio, il quale si scansò con un gesto brusco e nauseato.
- Non osare toccarmi. Mai più.
Detto ciò, senza aggiungere altro, si voltò e riprese a camminare come niente fosse, dirigendosi verso la casa del medico.
Hinedia si riprese da ciò a cui aveva appena assistito solamente quando una gentile signora le scosse il braccio con gentilezza, per incoraggiarla a riprendere l’attività che aveva lasciato in sospeso.
La scenata era giunta al termine.
E solo allora Hinedia si rese conto che, nel momento in cui Blake era stato colpito e scaraventato a terra, ella aveva stretto il sacco pieno di pomodori che aveva in mano talmente forte, da aver sfondato con le unghie il tessuto di iuta e aver perforato anche i rossi ortaggi, fino a spappolarli completamente, rendendoli inutilizzabili.
 
- Quindi ad Armelle tutti possono imparare a leggere e scrivere? – domandò incuriosita Judith, mentre terminava di catalogare gli ultimi tomi dentro un ripiano della biblioteca.
- Sì, esatto – le confermò padre Craig, accomodato davanti al grande tavolo centrale.
- Deve essere molto bello, vivere ad Armelle – commentò la ragazza.
- Non così tanto come pensate. Ad Armelle la magia nera non è tollerata mentre qui sì.
- Però immagino che ad Armelle non vengano bruciati al rogo centinaia di fanciulli e fanciulle ogni anno - rispose amaramente Judith.
- Sapete... quando ci siamo conosciuti, le prime volte che abbiamo parlato non mi avete posto così tante domande sul mio villaggio di provenienza – osservò padre Craig, guardandola camminare esperta tra i diversi scaffali, in cerca di un altro tomo.
- Ah no? Bizzarro, solitamente sono sempre curiosa riguardo le culture diverse dalla mia.
- Forse avevate molto altro per la testa. Volete che continui a leggervi la poesia di poco fa?
- Sì, vi ringrazio – gli disse Judith sorridendogli a distanza, avendo già riacquistato quel poco di confidenza con il giovane prete, avendoci trascorso l’intera mattinata assieme.
Padre Craig le aveva raccontato che, durante quegli ultimi mesi, Judith si fosse appassionata di poesia.
E la ragazza aveva avuto modo di sperimentare quella parte di sè dimenticata, speranzosa di poter riacquisire parte dei suoi ricordi in tal modo.
- “Amami quando lo merito meno, perché sarà quando ne avrò più bisogno.
Non so come posso
Amarti e odiarti insieme.
Tu lo sai, amore?
Ama come se dovessi morire.
Odia come se dovessi vivere in eterno.
Ma cos’è, cos’è la gelosia nel tuo cuore?
È ciò che l’occhio vede, ma che non esiste.
Il cuor non desidera nulla che non possa vedere.
E allora, permettemi di guardarti, ti prego, amore.
Così che io possa sconfiggere la morte
E odiarmi per non averti amata abbastanza” – terminò il giovane prete, alzando poi lo sguardo dinnanzi a sè, trovando, con sua somma sorpresa, Judith seduta davanti a lui, che lo ascoltava attentamente, mentre delle calde lacrime le rigavano le guance nivee e morbide.
- Mia cara Judith... state piangendo?
- Non è niente – minimizzò mestamente lei asciugandosi le lacrime velocemente con le maniche dell’abito pregiato.
- Soffrite per amore? – le domandò Craig, rivolgendole un sorriso intenerito e intristito, immaginando che la fanciulla stesse soffrendo per l’amore che credeva di provare ancora per Naren.
Ella annuì.
- Volete parlarmene? Egli, per caso, non ricambia il vostro amore?
- Egli è semplicemente uno stolto e un vigliacco – rispose duramente lei, poi posando lo sguardo distrattamente sul mazzo di rose che le era arrivato quella mattina presto, sorprendendola.
Infilato tra gli steli spinosi di quei fiori profumatissimi, vi era adagiato un messaggio:
“Alla meravigliosa fanciulla che abita da sola queste cattedrali,
con gli occhi di carbone e la pelle di luna.
Riservate anche solo un pensiero a me quest’oggi e mi farete felice.
A presto.”
Il messaggio era firmato con la “Q” di Quaglia.
- Padre? – richiamò la sua attenzione la ragazza, continuando ad osservare quel mazzo di rose che spuntava dal vaso colmo d’acqua.
- Sì?
- Secondo voi Quaglia prova qualcosa per me?
Quella domanda lo lasciò lievemente attonito. – Perchè me lo chiedete?
- Non so se ho interpretato male alcuni segnali.
Quando mi sono svegliata priva di ricordi ed è venuto al mio capezzale con voi, mi ha trattata in modo molto dolce e accorto.
Inoltre, questa mattina mi ha mandato un mazzo di fiori.
- Beh...
- Tra me e lui c’era qualcosa, per caso, prima che perdessi la memoria?
- No! – esclamò fin troppo veementemente il prete, sorprendendola per un attimo, poi riprendendo un contegno. – No, assolutamente no, cara.
- Immaginavo. Infondo, il mio cuore appartiene ad un altro, da un po’ di tempo.. – sussurrò.
Padre Craig deglutì a vuoto, riuscendo a fatica a immaginarsi che la ragazza si stesse riferendo a Naren e non a Blake. Ma egli non poteva permettersi di approfondire il discorso con lei, dato che la fanciulla non avrebbe dovuto sapere che lui sapeva. Nella mente di lei, la proibita relazione tra lei e il servo del Creatore, era ancora qualcosa di estremamente segreto.
- Inoltre, i rapporti con gli stranieri sono proibiti – lo informò Judith, facendogli piombare inspiegabilmente una cascata di acqua ghiacciata addosso.
- Cosa...? Davvero?
Judith fu incuriosita dalla sua reazione, a suo parere troppo spaesata e delusa, per non destare qualche piccolo sospetto.
A ciò, con la grazia che la caratterizzava sempre, la fanciulla gli rivolse un sorrisino fintamente casuale. - Sì, è vietato. La punizione per tale peccato non è grave come quella riservata ai rapporti tra servi del Diavolo e del Creatore, tuttavia è comunque giudicata severamente. Motivo per cui, se Quaglia nutrisse davvero dell’interesse per me, dovrebbe rinunciare ai suoi propositi in partenza – concluse, accigliando lo sguardo, mentre osservava ancora il prete dinnanzi a sè. – Ma... qualcosa mi dice che quello sguardo afflitto che vedo nel vostro viso non sia tutto dovuto al dispiacere per le mire infrante del vostro amico. Ho visto giusto? – gli domandò conferma assottigliando la voce, vedendolo vacillare lievemente. – Padre.. per caso siete interessato ad un’abitante di questo villaggio?
- Avete dedotto male, cara. Io sono un prete, un uomo votato a Dio. Non potrei mai desiderare alcuno. La mia fede è salda – pronunciò con tutta la convinzione di cui disponeva.
Ma la ragazza non sembrava convinta e continuò a scrutarlo, con quegli occhi da cerbiatta ipnotici da far accaponare la pelle e tremare le gambe.
- Padre. Al cuore e ai sensi non si può comandare. E non sono certo io a dovervelo dire.
Credete non sia mai capitato prima d’ora? Che una monaca o un monaco perdessero la testa per qualcuno, e gettassero alle ortiche i loro voti al Signore, rischiando il rogo?
- Dite davvero? È accaduto a Bliaint?
La ragazza annuì. – I libri di storia di Bliaint sono pieni di episodi come questo. Non è strano.. a meno che il monaco o la monaca in questione non si invaghiscano di un servo del culto opposto. Di ciò non esistono testimonianze. Ma sono certa che è accaduto anche quello. D’altronde, i monaci servi del Creatore non sono immuni all’attrattiva che noi esercitiamo su di loro – lo disse con naturalezza, come nulla fosse.
La curiosità si impadronì del giovane prete. – Per caso.. siete a conoscenza di un amore o un’infatuazione particolare che i monaci attuali, che vi hanno cresciuta, nutrono nei confronti di qualche... serva del Diavolo?
- Oh no, assolutamente no. Ho notato che alcuni di loro non rimangono indifferenti alla presenza di qualche giovane serva del Diavolo vestita in abiti particolarmente eloquenti, ma, d’altronde sono umani anche loro. Anche alle monache accade, con giovani uomini più seducenti di altri. Ma nulla più di questo.
- Ne siete certa?
- Dubitate di qualcuno di loro?
- Oh, certo che no. Ero solo genuinamente curioso.
Lo sguardo di Judith si fece ancor più indagatore puntato su di lui. – Dunque... siete sicuro che non ci sia nessuna? Oppure nessuno? Non sono certo una che dà per scontato i gusti di ciascuno.
- No, davvero, posso garantirvelo – si affrettò a rispondere, sperando vivamente che il discorso si troncasse così.
- Allora... avrò dedotto male io, perdonatemi. Tuttavia, se mai doveste invaghirvi di un’abitante di Bliaint, io sarò qui, per ascoltarvi. E persino confessarvi, se lo desiderete.
Oh, Judith...
Cara, dolce, intuitiva, bellissima Judith...
Come potrei mai dirti cosa provo per te in questo momento?
Mi dici di confessarti il mio amore per qualcuno di questo villaggio, per redimermi.
Ma come potrei?
Come potrei guardarti in faccia e dirtelo, di nuovo?
No, non commetterò per la seconda volta lo stesso errore.
Stavolta non lo saprai.
Resterò qui con te a leggerti tutte le poesie che vorrai, ma non te lo dirò.
Veglierò su di te, così come veglierò su di lui, e voi sarete ignari, come è giusto che sia.
Mio dolce bocciolo di rosa... è davvero bello guardarti e ascoltarti.
È davvero bello trascorrere queste dolci ore con te.
E se il prezzo da pagare è che anche Quaglia trascorra del tempo prezioso in tua compagnia, non farò obiezioni.
Tuttavia egli deve sapere, deve sapere i rischi che corre e che ti sta facendo correre corteggiandoti.
Non mi metterò in mezzo.
Cercherò di rimanere al mio posto e di proteggervi a distanza, come ho sempre fatto.
- Sapete, qualche notte fa ho fatto un sogno molto lucido – la calda voce della ragazza interruppe il suo flusso di pensieri.
- Avete voglia di raccontarmelo? – le domandò richiudendo il libro di poesie.
- Ero con una donna.
Una serva del Diavolo, dalla lunga chioma bionda, una sciamana.
- Una certa “Imogene”..?
- Sì, esatto.
- L’avete sognata anche prima dell’“incidente”. È stata lei a mettersi in contatto con voi. Cos’è accaduto nel sogno?
- Abbiamo parlato. È da quando ho fatto quel sogno che sto cercando in tutti i modi di capire cosa voglia da me.
- Non ve lo ha detto?
- Sì, ma non mi fido delle sue parole. Mi ha solo rivelato di volermi aiutare nello scoprire come sono stata ingravidata, e che, in cambio, vorrebbe che io le dicessi che fine hanno fatto i suoi nipoti, scappati da Bliaint settimane fa.
- I gemellini. Tuttavia, questa richiesta puzza un po’ anche a me.
- Già. Mettersi in contatto con me, dopo esser stata lontana dalla civiltà per tanto tempo, solo per sapere dei suoi nipoti? Non mi convince. Sento che c’è dell’altro. Ma non riesco a capire.
Lei.. sembrava quasi ossessionata dal “percepire” l’essenza dei ... – si bloccò, mordendosi la lingua, andando a toccare quel gonfiore accentuato e troppo strano al ventre, al quale si doveva ancora abituare. Stava per rivelare al prete che la sua pancia ospitasse non uno, ma ben tre bambini.
Un madornale errore. Si fidava del prete, ma non ancora così tanto da rivelargli un’informazione tanto infausta: quel numero non era mai segno di buon presagio.
- Era ossessionata dal percipire l’essenza del mio bambino – si corresse, prima che fosse troppo tardi.
Padre Craig cercò di vagare tra i suoi ricordi, grattandosi il mento. – Ricordo che, prima che perdeste la memoria, mi avete detto di averla incontrata in sogno e mi avete accennato qualcosa riguardo una... perdita che ha subìto Imogene in passato. Non ricordo molto altro purtroppo – il prete dannò se stesso e la sua memoria che stava facendo cilecca proprio nel momento del bisogno.
- Una perdita... – ripetè e riflettè la ragazza. – Padre. Vorrei cercare di usare gli indizi che ho nella mia mente, riguardo quel sogno, per capire cosa le è accaduto e cosa desidera davvero da me – disse decisa.
- D’accordo... e come?
- Ella è una sciamana. La sua dimora era colma di oggetti esoterici, di influssi stregoneschi. Ogni singolo utensile, erba o pietra in casa sua detiene un significato simbolico – disse scattando in piedi e dirigendosi verso uno degli scaffali, cercando un tomo che potesse aiutarla.
Quando trovò finalmente il manuale alla guida basica della simbologia sciamanica ed esoterica, ritornò seduta al suo posto e lo aprì, svoltando le pagine con velocità e precisione, catapultando le iridi di riga in riga, da una pagina all’altra.
- Cosa avete trovato? – le domandò curioso il prete.
- Prima di tutto l’airone: dava da mangiare ad un airone nel sogno.
A quanto pare l’airone è simbolo di fertilità .. – lesse Judith scorrendo alla voce “A” del manuale. – Fertilità e perdita... – la ragazza aveva già le sue ipotesi, ma preferì prima esserne certa.
- Ricordate altri oggetti che potrebbero aiutarci?
- Sì. Un vaso con una pianta all’interno, bella e rigogliosa. Un fiore rosso sopra di essa..
- Una rosa?
- No, nulla di tanto vivace e maestoso, era più sottile e fragile... un papavero. Un papavero macchiato di sangue. Sì, sì, lo ricordo distintamente – affermò convinta, cercando il papavero nel libro. Sgranò gli occhi nel leggere i vari significati di quel fiore. – Consolazione, sonno eterno.
- Tutto rimanda alla perdita.
- Padre.. potrebbe essere che Imogene abbia perso un figlio? Un aborto, forse? – ipotizzò, sempre più convinta della sua ipotesi.
- Potrebbe.. ora che ci penso, accennaste ad una cosa simile! – ricordò finalmente padre Craig.
- Bene. Dunque è così. Ella ha perso un figlio, o forse più di uno.
È ossessionata dal frutto che cresce nel mio grembo fertile... – Judith mise insieme velocemente i pezzi di quel puzzle. – Se l’istinto non mi inganna, ella potrebbe voler appropriarsi di mio figlio, avvicinandosi a me sempre più e magari sottraendomelo immediatamente appena dopo la nascita – tale pensiero la inquietava, ma, al contempo, la sollevava insieme, facendola inevitabilmente sentire una donna snaturata.
Eppure, non riusciva a non esserne felice, sotto sotto: lei quei bambini non li voleva.
Non voleva figli.
Voleva vivere libera, libera da costrizioni che le imposizioni della maternità dettavano.
Non voleva procreare, non voleva lasciare un lascito di sè al mondo, o meglio, voleva farlo, ma in altro modo, tramite le sue azioni.
Non le servivano dei figli per realizzarsi e completarsi.
Era una donna, e lo sarebbe stata anche senza figli, anzi, lo sarebbe stata ancora di più.
Di ciò era più convinta che mai.
Per tale motivo non le dispiaceva l’idea che Imogene volesse i suoi bambini.
L’unica cosa che la turbava al momento, è che tipo di vita e trattamento quella donna potesse riservare ai suoi figli.
Ma quello era un problema secondario, di cui si sarebbe occupata in seguito.
Oramai la sua idea era fissa e scolpita nella sua mente, e niente e nessuno avrebbe potuto dissuaderla.   
I due furono bruscamente interrotti dall’arrivo di un monaco all’interno della biblioteca, il quale spalancò la porta e si rivolse immediatamente a padre Craig:
- Padre, presto, accorrete! Là fuori sta avvenendo il finemondo, due persone di vostra stretta conoscenza si stanno urlando addosso e malmenando davanti a tutti! Credo vogliate raggiungerli al più presto!
- Che cosa..?? Buon Dio! Chi?! – esclamò il giovane prete scattando in piedi, sentendo il fiato morirgli in gola per l’ansia.
- Coloro che vi ospitano: Dun Rolland e suo figlio.
Non appena udì quelle parole il cuore di padre Craig gli si fermò nel petto.
Si fiondò fuori dalla biblioteca senza dire una parola, iniziando a correre.
 
La sera stessa, Judith si addormentò con l’intenso desiderio di rivedere Imogene.
A quanto pare bastò quello per permettere alla sciamana di invadere nuovamente i suoi sogni.
Questa volta, però, si trovavano in un’ambientazione differente: intorno a loro vi era il bosco, ululante, buio e immerso nella nebbia più fitta.
Senza timore e decisa come non mai, Judith si avvicinò ad Imogene, la quale se ne stava in piedi a qualche metro da lei, di spalle, con i lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena seminuda.
- Ho una proposta da farvi – esordì la fanciulla dai capelli rossi.
- Avverto una decisione fervida nella vostra voce. Cosa credete di aver riscoperto su di me che vi ha infuso così tanta sicurezza? – le domandò la donna, voltando solo il viso verso di lei, per guardarla al buio.
- So cosa desiderate da me.
- E cosa mai desidererei, mia splendida signora? – la adulò, pur sapendo di venire totalmente ignorata.
Judith rispose a quella domanda toccandosi il ventre visibilmente rigonfio. – Questo – disse semplicemente.
- E voi sareste disposta a darmelo?? – disse Imogene lasciandosi andare ad una grassa risata. – Non fatemi ridere!
- Non avete fatto i conti con un semplice fatto, Imogene, nell’architettare il piano che vi avrebbe portata a rubarmeli da sotto il naso: io non voglio questi bambini. Non li ho mai voluti. Ve li cederò di mia spontanea volontà.
- Vi state prendendo gioco di me, bambina.
- Affatto – disse la rossa ostentando lo sguardo più serio del suo vasto repertorio.
A ciò, la bionda si voltò verso di lui, puntando gli occhi nei suoi e scrutandola a fondo.
Restarono diversi minuti così, in silenzio, senza dire nulla, guardandosi solamente.
- Dunque... è così? – ruppe la calma la sciamana. – Voi siete talmente indifferente alla carne della vostra carne, al sangue del vostro sangue... al punto da svendermi i vostri figli come nulla fosse, permettendomi di fare loro ciò che voglio?
- Ovviamente voglio delle garanzie. Sono pur sempre frutto del mio ventre e vorrei quantomeno saperli in buone mani.
Imogene affilò lo sguardo. – E spiegatemi, la vostra sacra concezione di “buone mani” è una sciamana che vive isolata dal villaggio, ritenuta pazza dai pochi che conoscono la sua esistenza, e che campa di bacche e acqua piovana?
- Non sono gli agi a determinare il tenore di vita e la felicità di una persona.
- Disse colei cresciuta nel lusso.
- Difatti, guardatemi: vi sembro felice o quantomeno soddisfatta della mia vita?
Imogene non rispose, riconoscendo che la ragazza sapesse tenerle testa, come aveva sospettato e sperato dalla prima volta che era riuscita ad adocchiarla a distanza.
- Ciò che voglio dire è che mi basta saperli in salute, forti e amati. Vi procurerò io il denaro necessario per sfamarli – le disse. – Per quanto riguarda le credenze, potrete impartire loro qualsiasi insegnamento desideriate.
- Siete davvero sincera?
- Avete la mia parola – confermò Judith. – Potrete averli non appena saranno nati, almeno non rischieranno neanche di finire nelle mani dei monaci, i quali potrebbero sospettare sin da subito siano figli di un rapporto illecito con un servo del Creatore, o peggio, potrebbero volerli condannare a prescindere per il solo fatto di essere tre gemelli. Voi li porterete lontano, con voi, dove nessuno potrà trovarli e saranno quantomeno al sicuro. Simuleremo un rapimento. Era quello che desideravate, giusto?
Imogene impiegò un po’ a metabolizzare tutto ciò, ancora incredula di poter veder avverarsi il sogno di una vita con così poco, ancora poco convinta riguardo al tutto. – Non volete tenervene neanche uno? – le domandò.
- Che senso avrebbe?
- Per una madre avrebbe senso.
- Io non sono una madre. Non voglio nessuno dei tre. Cosa vorreste incoraggiarmi a fare? A prendere con me l’unico maschio?
- No! – esclamò fin troppo impetuosamente la sciamana bionda. – Non il maschio. Quello lo voglio io.
Judith alzò un sopracciglio sorpresa, a tale risposta. – Avevate detto di non amare la compagnia degli uomini.
- Difatti è così. Eccezion fatta per gli uomini che posso crescere interamente io – le rispose accennando un sorriso fiero e ferino.
- Dunque abbiamo un accordo?
- Qual è il prezzo da pagare per tutto questo? – domandò la sciamana, diffidente.
- Ho solo tre richieste.
- Tre gemelli, tre richieste. Mi sembra giusto.
- Mi aiuterete a scoprire come sono stata ingravidata.
Mi aiuterete a recuperare i miei ricordi perduti.
E l’ultima: verrete con me al villaggio, vivendo tra noi.
A ciò, le iridi dorate della sciamana si animarono di luce propria, mentre nella sua bocca sensuale si delineò alla perfezione un sorriso sornione:
- Oh, io avevo già intenzione di venire al villaggio con voi, bambina.
 
 
 

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Capitolo 43
*** Eros e Agape ***


Eros e Agape
 
Erano trascorsi quattro giorni dall’arrivo della misteriosa Imogene al villaggio.
Ed erano quattro giorni che, alla Taverna, vi era uno strano via vai, molto più intenso e frenetico del solito.
Le legge parlava chiaro: nessuna attività di prostituzione era ammessa con le locandiere della Taverna.
Tuttavia... la legge si limitava alle locandiere. Non parlava di altri.
Dunque, aggrappandosi a tale mancata specifica, la sciamana si stava muovendo come un sapiente ragno tra i popolani, tessendo la sua intricata tela.
Una tela che raggiungeva la quasi totalità degli uomini adulti, sposati, insoddisfatti e servi del Diavolo.
La sciamana bionda era scaltra, autoritaria ed estremamente seducente, molto più di molte altre serve del Diavolo decisamente più giovani di lei: quasi nessun uomo riusciva a resistere al suo fascino.
Per tale motivo, quando tra i popolani si era sparsa la voce che vi fosse una misteriosa serva del Diavolo che svendesse il proprio corpo alla Taverna, con il benestare delle locandiere e persino dei monaci, la stragrande maggioranza della fetta maschile e insoddisfatta del proprio matrimonio dei servi del Diavolo (talvolta anche delle donne), era accorsa alla Taverna senza farselo ripetere due volte.
D’altronde, il costo per assaporare interamente il corpo di quella dea e diavolessa non era neanche troppo elevato.
Sì, i monaci conoscevano ciò che stava facendo Imogene da quando era giunta al villaggio, eppure non stavano aprendo bocca a riguardo, un fatto che aveva oltremodo infastidito Myriam.
Lei oramai era all’interno dell’ordine, seppur in prova, perciò sapeva quali fossero le decisioni dei “messaggeri di dio” che tutto stabilivano, ed era costretta a non mettervi bocca, non ancora.
Come mai i monaci fossero d’accordo con l’“attività” di Imogene?
Solo e solamente grazie alla coercizione esercitata dalla loro pupilla: Judith.
La fanciulla, da quando Imogene aveva accettato il suo accordo, l’aveva accolta nella cattedrale del Creatore, fornendole una lussuosa camera e tutti gli agi che la sciamana non aveva mai posseduto in vita sua.
Come se non bastasse, cosa ancora più rara, Judith le stava pian piano concedendo il dono della sua compagnia.
Era un’amicizia strana la loro, basata sulla complicità scaturita dal loro tacito e tremendo patto, e da una verve forte e autoritaria che le contraddistingueva entrambe, ognuna in modo diverso dall’altra.
Seppur Judith disprezzasse l’attività di Imogene, rispettava la scelta della sciamana di praticarla ed era decisa ad agevolarla in ogni modo, mettendo la sua buona parola con i monaci, e ciò solamente per un unico motivo: la ragione che spingeva Imogene a svendere il proprio corpo era tra le più nobili.
Judith, così come chiunque conoscesse un minimo la sciamana, sapevano benissimo quanto costasse a quest’ultima svendersi, ma specialmente, giacere con gli uomini, più di quattro diversi a nottata.
Accogliere tra le sua calde e morbide cosce la virilità di un uomo era tra le sensazioni che odiava di più sulla faccia della terra.
Il suo Signore l’aveva creata così.
E persino le poche volte in cui aveva a che fare con delle clienti di sesso femminile Imogene doveva fare uno sforzo a se stessa per fare quel che aveva deciso di fare.
Tuttavia, era benissimo in grado di nascondere tutto ciò dietro un sorriso sensuale e strafottente, da padrona incontrastata.
Il motivo che spingeva Imogene a voler guadagnare denaro facile nel minor tempo possibile, consisteva nell’amore che la donna nutriva ancora nei confronti dei figli della sua defunta sorella.
Sapave che i suoi nipoti non fossero più al villaggio, così come sapeva che erano scappati imbarcandosi in una nave. Fuori dalla sua protezione. Fuori dalla sua guardia.
Finchè Maringlen e Maroine erano al villaggio, avrebbe potuto dormire sonni tranquilli; ma nel momento in cui era venuta a sapere della loro partenza, per addentrarsi fuori dalla campana di vetro che era Bliaint, si era sentita il sangue gelare nelle vene, e il desiderio di proteggerli, ad ogni costo, dalle insidie del mondo, era prevalso su tutto.
Imogene sapeva benissimo cosa fosse accaduto loro in mare, in quell’imbarcazione piena di marinai, di uomini sudici che non avevano mai visto in vita loro una tale accecante beltà. Ephram l’aveva informata, e anche se lo stregone non l’avesse fatto, lo avrebbe immaginato benissimo.
Imogene conosceva bene la natura umana.
Specialmente quella degli uomini.
Motivo per cui era sempre più decisa a guadagnarsi un’ingente quantità di denaro da donare ai gemelli, in modo che potessero avere vita più facile là fuori, ed evitarsi molti pericoli. D’altronde, il denaro convinceva tutti, a prescindere da tutto, no? Avrebbero potuto persuadere molti approfittatori a stare alla larga da loro se avessero offerto loro abbastanza soldi. O se li avessero investiti nel modo giusto.
Se non poteva riportarli indietro, allora li avrebbe almeno salvati ricoprendoli di denaro, finchè era in tempo.
In tutto ciò, le avrebbe fatto certo comodo una mano.
Svendere due corpi invece che uno, sarebbe stato sicuramente una grande fonte di guadagno in più.
La sciamana bionda sbuffò nel ricevere l’ennesimo sacchetto di monete d’oro da un cliente, poco lontana dall’entrata della Taverna.
Era il quinto quella sera, ed era uno dei clienti a cui piaceva particolarmente l’entrata posteriore, quella tra le sue natiche, rispetto alla calda e umida conchiglia dischiusa che custudiva sotto il ventre.
Era sera inoltrata, e diversi servi del Creatore stavano entrando a loro volta nella Taverna, puntando istantaneamente gli occhi curiosi e ammaliati su di lei.
Imogene li guardò con astio e non perse neanche tempo a fulminarli tutti, uno per uno, per lo più ignorandoli.
- Dovresti prendere in considerazione l’idea di svenderti anche ai servi del Creatore – commentò la scena una voce, ahimè, sin troppo ben conosciuta alla sciamana bionda, una voce dalle sfumature androgine che la fece rabbrividire e ghignare allo stesso tempo, proveniente dalle sue spalle. – Sai... pagherebbero molto meglio – aggiunse quella voce, avvicinandosi sempre più a lei.
- Credi che voglia finire bruciata al rogo fino a questo punto? Va bene sfidare la sorte, ma cedermi ai servi del Creatore implicherebbe morte violenta e istantanea, un prezzo che non pagherei neanche per tutto l’oro del mondo. In quel caso nessuna magia potrebbe salvarmi – rispose Imogene sorridendo spavalda e voltandosi finalmente a guardare in volto la donna che non vedeva da anni, il suo più grande e perduto amore. – In quattro giorni che sono qui, non abbiamo ancora avuto modo di vederci io e te, mia cara Myriam. Ho saputo della tua decisione di diventare monaca. Mi complimento con te.
Myriam le rivolse una smorfia infastidita in risposta, togliendosi il cappuccio.
Dopo pochi secondi, anche Ephram la raggiunse, facendo sorridere ancor di più Imogene. – Cos’è, una festa con i vecchi fantasmi del passato questa sera? – commentò squadrandoli entrambi e rinunciando una volta per tutte all’idea di ricontare i soldi che l’ultimo cliente le aveva lasciato.
- A che quota sei arrivata questa sera? – le domandò lo stregone.
- Perchè ti interessa? Vuoi essere il prossimo? – lo provocò lei rivolgendogli uno sguardo languido. – Credo di essere una delle poche donne del villaggio ad essere sfuggita dalle tue grinfie, Ephram. E non sono del tutto certa che anche Myriam faccia parte di questa lista.
La succitata le rivolse uno sguardo ancor più torvo e offeso, in seguito a tale insinuazione.
- Per quanto mi alletti l’idea di trascorrere il resto della nottata tra le cosce di una sciamana folle che potrebbe essere mia madre, non sono qui per questo – le rispose a tono il giovane stregone, facendola stizzire.
- Non ti disturba? – le domandò improvvisamente Myriam, con una sincerità che fu in grado quasi di farla rabbrividire. – Come puoi riuscire a farlo con tale naturalezza?
- Non lo faccio con naturalezza difatti. Ma lo faccio. Perchè lo voglio e perchè ne ho bisogno – rispose seccamente.
- Per i nipoti che hai tanto “amorevolmente” venduto a degli sconosciuti per una manciata di capre anni fa?
- Non... mettermi alla prova, Myriam – la ammonì mortalmente seria Imogene, fronteggiandola e guardandola duramente dall’alto. – Potrete anche non comprendere le mie scelte, non è mai stato un mio problema. Ma, che ci crediate o no, vendervi i gemelli è stata una scelta ragionata, nonchè l’ultima possibilità che avevo. Sapevo chi foste, di certo non li avrei mai venduti a individui violenti o perversi.
- Ma non eravamo di certo le persone più indicate ad occuparci di loro. Hai solo una vaga idea di cosa hanno vissuto con noi, quei due poveri bambini? Non abbiamo dato loro una vita facile, nè stabile o piena d’amore. Pensa solo al fatto che “l’amorevole guida della compagnia” qui presente li ha fatti imprigionare e stava quasi per farli finire al rogo.
- Ehi, avevo i miei buoni motivi – intervenne il succitato, completamente ignorato dalle altre due.
- Contesti le mie scelte? Bene. Non sei mai stata in grado di fare altro d’altronde – la provocò la bionda, sapendo di farla uscire di senno in tal modo.
- Attenta a come usi quella lingua, Imogene. Potresti ritrovarti senza. A quel punto come serviresti adeguatamente i tuoi esigenti clienti? Sai che le tue bollenti cosce bagnate non basterebbero a soddisfarli appieno.
- Vedo che siamo sul piede di guerra. Esattamente come anni fa. Non è cambiato nulla.
- No, non è cambiato nulla, Imogene. Anzi... se possibile, il mio odio nei tuoi confronti è accresciuto ancor di più.
- D’accordo, possiamo abbassare i toni ora? – intervenne Ephram, scocciato e annoiato da quel litigio tra le due. – Ad ogni modo, non avevi lanciato una maledizione sul villaggio per proteggere i gemelli? La maledizione per cui, “grazie” alla nostra Myriam che ha attentato alla loro vita, è piombata una tremenda epidemia che ha decimato Bliaint.
- La maledizione ha effetto solo all’interno dei confini di Bliaint: nel momento in cui i gemelli lasciano il villaggio sono fuori dalla mia protezione. Non avrei mai creduto potesse mai verificarsi un’eventualità simile... – ammise frustrata la donna, allontanandosi di un passo da Myriam e posando la sua attenzione su Ephram.
- Per quale motivo sei qui? – indagò Myriam, sempre più incalzante. – Per quale dannato motivo proprio nel momento in cui l’ape regina perde la memoria, tu piombi qui al villaggio, dopo anni di isolamento nelle paludi? L’hai aggredita tu quella notte?
- Oh, a quanto pare è una teoria che attira tutti quanti – rispose mellifluamente la donna. – Non ho bisogno di ricorrere a mezzi tanto estremi per entrare nelle grazie di una giovane donna – aggiunse provocatoria.
- Che mire hai nei suoi confronti? Vuoi tentare scioccamente di sedurla solo per il puro diletto di godere delle carni di una privilegiata?
- Oh, cos’è questo improvviso tono d’accusa? Per caso anche tu hai delle mire nei confronti della giovane ninfa dai capelli scarlatti? – le domandò la bionda assottigliando lo sguardo incuriosito.
Myriam rise di scherno in risposta. – Oh, Imogene, ingenua Imogene: tu non hai neanche idea di cosa, o meglio di chi popoli il cuore di Judith.
- Ti stavamo cercando – le interruppe nuovamente Ephram, deciso ad arrivare al punto. – Ti saremmo comunque venuti a cercare, ma, dato che sei improvvisamente saltata fuori, tornando alla luce del sole, ci hai facilitato un bel po’ il lavoro.
- Per quale motivo? – gli domandò Imogene, stavolta davvero curiosa di sapere la risposta.
Myriam abbassò lo sguardo, forzando tremendamente il proprio orgoglio. – Ci serve il tuo aiuto.
- Sono tutt’orecchie.
- Non possiamo parlarne qui – pronunciò lo stregone guardandosi intorno circospetto: essendo vicini all’entrata, vi era un immenso via vai di persone che avrebbero facilmente potuto udire i loro discorsi da quella postazione. – Sediamoci e beviamo qualcosa.
Quando i tre si furono accomodati, ebbero bevuto ed Ephram ebbe informato Imogene dell’intera faccenda, quest’ultima se ne uscì con una sola frase, al termine del racconto:
- Dato che è lui che il conte vuole, non potremmo semplicemente consegnargli il ragazzo e farla finita?
Tale frase provocò un evidente moto di agitazione in Myriam, la quale si avvicinò alla sua eterna nemica, trucidandola con lo sguardo e sibilandole tra i denti: - No. Non possiamo. Faresti meglio ad infilarti queste idiote idee malsane là dove non batte il sole.
Notando come fosse improvvisamente mutato lo sguardo della sua vecchia amante, trasformandosi in un’espressione spaventosa di puro odio iniettato nei suoi occhi, Imogene sembrò realizzare improvvisamente.
- Oh... ora capisco, mia vecchia amica.
Nel tuo sguardo scorgo un’ossessione antica, che pervade il tuo cuore come null’altro.
Il giovane che questo conte Agloveil cerca... è la luce dei tuoi occhi, non è vero?
È il ragazzo che hai cresciuto da bambino.
Ora che ci penso, non l’ho ancora conosciuto, questo fantomatico giovane visionario tanto amato dall’unica donna a cui io abbia mai donato il mio cuore – commentò Imogene, facendo sorgere in Myriam una varietà di emozioni differenti, le quali vennero momentaneamente annebbiate dalla rabbia.
- Bene. E sarà meglio per te non incontrarlo mai.
- Di cosa hai paura, Myriam?
- Sei pericolosa, Imogene. Da sempre.
- Non si tratta solo di lui – intervenne Ephram. – Bliaint è una meta ambita da ogni viaggiatore e non solo. Nessuno ci ha mai minacciati sinora solo perchè noi servi del Diavolo esistiamo e abbiamo la fama di essere dei diavoli scesi in terra a quanto pare. Dimostriamo loro che non si sbagliano. Tramite la maledizione, nessuno d’ora in poi oserà anche solo desiderare di mettere piede qui e minacciarci. Siamo sprovvisti di un esercito, l’unica cosa che possediamo è la magia, la scaltrezza e una reputazione secolare che ci precede ed è in grado di far tremare gli uomini più potenti del continente. Sfruttiamo i nostri assi nella manica.
- Nessuno ci ha mai minacciati sinora – commentò Imogene. – Ciò sta accadendo ora solo perchè un ragazzo troppo ambizioso e spavaldo ha deciso di uscire da Bliaint e di andarsene in giro in altri villaggi, spodestando l’ordine delle cose e provocando stragi, mettendo seriamente a rischio la sua vita per cosa? Una leggenda? Un ideale?
- Un’arma letale – rispose Ephram a tono, ostentando una strana decisione nella voce. – E perchè lui è libero, come ognuno di noi. La differenza, è che lui se ne è accorto, mentre noi no. Nessuno ci impedisce di uscire di qui e di costruirci la vita che vogliamo, a prescindere da tutto e da tutti. Nessuno dovrebbe condannarci per ciò che siamo, per essere nati come siamo. Nessuno. Non dovremmo avere simili catene ai nostri polsi, invece le abbiamo e condanniamo chiunque desideri vedere oltre, spingersi oltre, puntare più in alto.
Siamo codardi. Tutti quanti. Lui non lo è. Vuoi condannarlo per questo?
Tali parole colpirono non poco Imogene, la quale rimase a scrutare l’espressione determinata sul volto del giovane stregone.
- Noto che questo Blake è molto amato da entrambi – commentò la bionda dopo un tempo che parve infinito. - D’altro canto... ammetto di trovarmi in parte d’accordo: non possiamo rimanere qui e aspettare che un principe, un conte o un qualsiasi altro nobile più audace di altri si azzardi a giungere a Bliaint e a saccheggiare la nostra terra, attaccandoci e prendendoci come schiavi. Una protezione in più non è mai sgradita – concluse con naturalezza, bevendo l’ultimo sorso di quel liquido scuro e alcolico che riposava nel suo boccale. – Vi aiuterò.
Detto ciò, l’attenzione della sciamana si spostò sull’entrata della locanda, distrattamente.
Osservò ogni persona entrare dentro, non concentrando lo sguardo su nessuno in particolare, almeno sin quando non individuò una figura vagamente familiare varcare la soglia, con un cappuccio scuro calato sulla testa. Imogene lo squadrò. – Quel fanciullo.. lo scorgo spesso dentro la cattedrale del Creatore. L’ho intravisto anche poco fa.
- Folker? – rispose alla sua tacita domanda Myriam, individuando a sua volta la figura del ragazzo che aveva visto giusto un’ora prima. – È il ragazzo accusato di essere una strige. Deve sottoporsi ogni giorno alle sessioni di purificazione nella cattedrale. Da quando Judith ha perso la memoria, me ne sto occupando io. Prima egli era una sua responsabilità.
- Folker ... – ripetè Imogene articolando quel nome lentamente, mentre lo guardava a distanza, studiandone i tratti, osservando il suo corpo nascosto dai vestiti, per quanto possibile. – Con quel fondoschiena che si ritrova e quegli occhioni potrebbe essermi estremamente d’aiuto, mi farebbe guadagnare il doppio di quel che ricavo a nottata.
Tale affermazione fece emettere un sospiro esasperato a Myriam, ed un risolino divertito ad Ephram.
- Ad ogni modo... vorrei saperne un po’ di più – affermò la sciamana.
- Riguardo cosa?
- Riguardo questa faccenda della strige. Mi interessa.
C’è qualcosa in lui.. forse i suoi occhi o altro. Ha qualcosa da nascondere.
Ma forse è solo una supposizione un po’ avventata – si riscosse la bionda, distogliendo lo sguardo dal ragazzo. – D’altronde quali inestimabili segreti potrebbe mai celare un ragazzino?
Myriam ed Ephram si scambiarono uno sguardo complice.
- Tu non ne hai la minima idea.. – commentò Ephram prendendo un altro sorso dal suo boccale.
 
- Qualche ora prima -
 
La ragazza si lasciò sprofondare giù, dentro l’enorme vasca che occupava quasi tutta la stanza, immergendo le spesse ciocche rosse, il mento e la bocca chiusa, solleticata dalla schiuma profumata dei sali immersi nell’acqua calda.
Erano almeno dieci minuti che se ne stava con gli occhi chiusi.
Quasi un’ora da che era nella vasca.
“Arley, Arley, non rimanere immersa per troppo tempo o ti si raggrinziranno le dita!”  le diceva sempre sua madre quando era bambina, ogni volta che lei protestava per uscire dal fiume, mentre ella se ne stava a fare il bucato, guardandola ridendo.
L’immaginazione e la fantasia vagarono incontrollatamente.
Cercò di concentrarsi sui profumi, sul tatto, sulla forma delle cose, sui colori e sulle luci per recuperare almeno uno stralcio, un dettaglio, qualcosa di ciò che aveva perduto a causa dei suoi ricordi svaniti.
Cos’è che non ricordava?
Un colore: biondo miele. Dei capelli biondo miele. Null’altro.
Le risa di bambini. Di tanti bambini insieme.
Le lacrime calde sulla guancia di una bambina.
La pelle scura, color cioccolato, unita all’odore di una presenza amica.
Poi, di nuovo, parole incoraggianti, un sorriso caldo, che ricondusse a padre Craig, ne era quasi certa.
Poi la consistenza di una frusta tra le mani, di capelli morbidi e sin troppo chiari tra le dita, mugolii e lamenti di dolore da parte di un fanciullo troppo giovane per subire un tormento simile.
E poi... poi soggiunse qualcosa, di più potente e avvolgente: la forza liquida e la bellezza di due iridi di zaffiro, talvolta scure come l’abisso di un oceano, talvolta chiare come la superficie del mare colpita e rischiarata dai raggi del sole di mezzogiorno, variabile in base alla luce.
Judith non aveva mai visto il mare dal vivo, ma ne aveva ammirato delle immagini che lo rappresentavano sulle pagine di alcuni tomi che amava particolarmente. I vivaci colori che venivano usati per rappresentarlo erano gli stessi di quegli occhi.
Unito a loro, vi era anche un buon profumo. Un odore amato che riusciva ad animarla e a rasserenarla insieme, pregno di tante cose insieme e sottile, leggero, talmente leggero che si riusciva a percepirlo solamente a stretto contatto con la pelle.
Un amante, forse..?
Un amante che possedeva anche una voce calda e bellissima, ma dal timbro e dal colore indefinito, troppo vago e vacuo per poter riaffiorare nella sua mente.
Quanto aveva perduto...?
Chi aveva perduto...?
Cosa le sfuggiva in quello strano disegno?
In cosa si era cacciata?
Forse il tatto l’avrebbe aiutata di più, concentrarsi sulla sensazione delle mani che esperivano qualcosa.
Sorrise di sottecchi, sotto l’acqua.
Le piaceva tanto toccare le cose, soprattutto da bambina.
Amava sentire la consistenza della carta ruvida o liscia dei libri tra i polpastrelli, la sensazione dei fili di capelli che scorrevano tra le dita mentre se li pettinava, il caldo del fuoco delle candele accese che scottavano tra i palmi, la consistenza del cibo, dell’acqua, delle lenzuola pulite, dei diamanti, dei tessuti dei vestiti, persino del vento. La sensazione della palle liscia del ventre, gonfia...
Senza accorgersene la tastò, avvertendola ancora più liscia, immersa nell’acqua.
Provò a concentrarsi, tentando di avvertire anche il più piccolo movimento, sperando di sentirne uno scalciare, magari il più scalmanato o scalmanata dei tre.
Tastò il basso ventre con vigore, quasi spingendo, pur di avvertirli.
Ad un tratto li sentì.
Fu come avvertirli respirare.
E andavano alla stessa velocità del proprio cuore.
Se li immaginò davanti a sè, piccoli, ma abbastanza grandi da reggersi in piedi da soli: i loro capelli sarebbero stati biondo cenere come quelli di Naren o rossi come i suoi? O scuri come quelli di sua madre?
E i loro occhi?
Si immaginò a saggiare la loro pelle vellutata e profumata con le dita.
I loro lamenti sarebbero stati i classici mugolii dei bambini piccoli, ancora incapaci di comunicare, intestarditi con il mondo.
Si immaginò a baciare le loro guance e i loro capelli, per calmarli.
La sua mano continuò a massaggiare il proprio ventre, per poi spostarsi lentamente più sotto, verso la propria intimità.
Da quant’è che non si toccava là sotto, solo per sentire la consistenza di quel fiore dischiuso, troppe volte violato contro la sua volontà?
- Oh... bambina. Non potete farmi questo. Proprio nel momento in cui entro qui dentro e vengo avvolta dal profumo dei sali e dalla visione del vostro delizioso corpo immerso nell’acqua... – quella voce oramai familiare, la riscosse vagamente dal suo torpore, ma non troppo.
Judith rimase comunque ad occhi chiusi, con il volto per metà immerso in acqua, e la mano ancora impegnata a tastare la propria intimità, priva di vergogna.
Per qualche ragione, dinnanzi ad Imogene non provava alcun tipo di imbarazzo.
Quella donna riusciva a metterla stranamente a proprio agio, come nessun altro.
- Da quanto siete lì dentro? – le domandò Imogene, avvicinandosi alla vasca, non risparmiandosi minimamente nell’osservarla appieno, cercando di scorgere anche ciò che si celava sotto il pelo dell’acqua.
La bionda si denudò a propria volta, facendo il suo ingresso dentro la spaziosa vasca e avvicinandosi a Judith con molta calma.
Fu in quel momento che gli occhi neri come la pece della rossa si schiusero, individuandola a meno di un metro da lei.
- A cosa stavate pensando? – le domandò la sciamana.
Judith scosse lentamente la testa, emettendo qualche bolla sott’acqua.
Avrebbe sicuramente preferito rimanere sola in quel sacrosanto momento di tranquillità estatica, ma la compagnia di Imogene non la disturbava come avrebbe dovuto.
Si stava gradualmente abituando a lei.
Alla sua presenza mentre dormiva accanto a lei, quando consumavano i pasti, e persino mentre faceva il bagno.
 A pensarci bene, la presenza di quella donna accanto a lei era quasi asfissiante.
- Pensavo ai miei ricordi. E all’aspetto che avranno i miei figli – rispose sinceramente la fanciulla.
A ciò, Imogene si avvicinò ancor di più, posando a sua volta le mani sul ventre gonfio.
Lo carezzò con dovizia, incatenando i suoi occhi a quelli vacui di Judith.
- Vi state rilassando?
Judith annuì, lasciando che la donna la carezzasse.
Poi, i palmi attenti e curiosi della sciamana si spostarono più sù, posandosi sui seni sodi e prosperosi della fanciulla, la quale non ebbe alcuna reazione.
A ciò, incoraggiata dallo stato quasi metafisico in cui galleggiava Judith, si permise di osare come non aveva mai fatto in quei quattro giorni.
Palpò i seni gonfi, con delicatezza e vigore insieme, facendole emettere un lieve mugolìo, un’incantevole musica per le sue orecchie.
I suoi lombi si stavano accendendo, tuttavia, l’atmosfera febbricitante del momento e del luogo fece rilassare anche lei, motivo per cui i suoi tocchi procedettero con una calma esasperante.
Judith non le permetteva mai di toccarla così.
Nonostante Imogene si fosse già presa molte libertà in pochi giorni, la rossa aveva un’idea ben precisa e intransigente di spazi personali. Ci teneva che fossero rispettati.
Toccandola, percependo la delizia di una carne morbida e soda al contempo, quelle curve perfette e procaci, libidinose ed estremamente sensibili, la sciamana si rese conto sempre più di quanto la ragazza di fronte a sè fosse davvero giovane.
Diciassette anni non ancora compiuti, eppure ne dimostrava di più.
Judith si rilassò sempre più, lasciandosi saggiare, palpare con venerazione, non muovendo un muscolo, chiudendo gli occhi e godendosi quegli spudorati massaggi.
Tuttavia, quando Imogene spostò le mani sui suoi fianchi succulenti, Judith ebbe un sussulto.
Si risvegliò dalla trance all’improvviso, prendendo realmente coscienza del momento.
Si allontanò lievemente dalla donna, guardandola dritta negli occhi mentre spostava le sue mani dal proprio busto.
- Devo depilarmi le gambe – le disse all’improvviso, vedendola sgranare gli occhi chiari con un cipiglio divertito.
- Cosa?
- Vi ho già spiegato che tengo particolarmente a queste cose. Rientrano nella mia concezione di pulizia del corpo. Stavo per farlo prima che arrivaste voi qui.
- Ci penso io, allora. Dov’è la resina?
- Ma non lo avete mai fatto in vita vostra..
- Imparerò – insistette Imogene. – Dov’è la resina?
- È miele, in realtà – la informò la rossa, poggiandosi con le spalle alla parete della vasca. – La trovate laggiù.
A ciò, Imogene uscì dalla vasca, esponendo tutta la sua nudità e dirigendosi verso il barattolo colmo di miele, poggiato accanto agli strati di morbida carta, fatta appositamente per tali pratiche.
La sciamana non aveva mai sentito il bisogno di fare una cosa del genere, e non capiva per quale motivo molte donne di Bliaint si torturassero in questo modo senza motivazione.
Non era stata una grande sorpresa scoprire che anche Judith fosse tra loro.
Si rimmerse nella vasca, prese una gamba della fanciulla con delicatezza e la tirò fuori dall’acqua, alzandola e facendola poggiare comodamente sul bordo, in modo da lasciare tutto il polpaccio scoperto.
Judith la osservò mentre lo faceva, in silenzio.
Imogene, senza difficoltà, prese uno strato di miele con le dita, lo spalmò su tutta la lunghezza del polpaccio di Judith, per poi farvi aderire sopra uno strato di carta vellutata, e strappare con vigore.
Notando il risultato quasi perfetto, la sciamana continuò, senza dire una parola, quasi come stesse compiendo un rito sacro o un incantesimo delicato.
Quando ebbe finito la prima gamba e passò alla seconda, Judith ruppe il silenzio:
- Cosa farete se non riuscirete a far arrivare loro il denaro che state guadagnando?
Imogene rimase sorpresa da tale domanda. – Ho i miei metodi. So che arriverà loro.
- E se fosse troppo tardi? – domandò Judith con spaventosa freddezza. – Se fosse troppo tardi per i gemelli? Se loro fossero morti?
Imogene si voltò a guardarla, con espressione stranita e astiosa. – Per quale motivo state ipotizzando un simile catastrofico scenario che mai si avvererà?
- Bisogna considerare ogni ipotesi.
- Non è un’ipotesi verosimile. Ed ora lasciatemi finire in silenzio.
Judith obbedì inizialmente, restando zitta per qualche minuto, ma poi persistette:
- E se dovessero morire?
- ...Chi?
- I miei bambini. Se dovessero morire nella mia pancia?
Di nuovo, la rossa lo disse con una freddezza che fu in grado di congelare Imogene sul posto.
I suoi occhi neri non lasciavano trapelare nulla mentre la sciamana cercava di scrutarli.
- È una minaccia, per caso?
- Chiamatela come più vi aggrada. Ma tenete pur sempre a mente che è un dato di fatto: considerando le violenze subìte... mi è sempre stato detto che non avrei potuto avere figli.
Quello che è accaduto.. può ritenersi un vero e proprio miracolo.
- Forse il Signore ha in serbo dei piani per voi.
- Potrebbe essere. O potrebbe essere stata una fatalità.
Per questo devo scoprire come Naren mi abbia ingravidata.
- Arrivate al punto, Judith.
Una cattiveria improvvisa animò l’animo della rossa, la quale la sfidò ancora, con quei suoi occhi impossibili:
- Vi ho promesso una grande ricompensa.
In cambio, tuttavia, vi ho chiesto di farmi tornare i ricordi e di farmi scoprire come sono stata ingravidata.
Non mi sembra vi siate portata avanti con nessuna delle due cose sinora.
Dovreste darvi da fare, non credete?
Altrimenti... potrei riconsiderare l’idea che avevo inizialmente: uccidere “accidentalmente” i miei figli in grembo.
A ciò, la sciamana non ci vide più e afferrò le mascelle della ragazza con una mano, affondando nella pelle bianca con le unghie, avvicinando il viso al suo, mentre ella continuava a reggere il suo sguardo, fiera, audace e astuta, senza battere ciglio, nonostante il male fisico che le stava provocando.
 Imogene sapeva di averla sottovalutata.
Lo sapeva sin da subito.
- Vi ho già detto di aver avuto delle visioni, della notte in cui il vostro ripugnante amante ha piantato il suo seme in voi – sibilò la bionda con voce rabbiosa, senza mollare o indebolire la presa.
- “Ballavate ebbra di vino al chiaro di luna, come un sinuoso serpente, muovendo i fianchi come se steste scuotendo una campana, i capelli rossi sciolti e ondeggianti, lo sguardo appagato e perso, un lungo vestito lilla di seta a fasciarvi gentilmente tutte le forme, ben illuminate da un grande focolare”. Questo dovrebbe essermi d’aiuto? – le domandò in tono di scherno Judith, sottraendosi dalla sua presa senza difficoltà, dopo aver riportato le esatte parole con cui Imogene aveva descritto la sua visione su quella notte.
- È tutto ciò che ho visto.
- Per quale motivo siete venuta qui? Non dovete andare alla Taverna a compiere la vostra “attività”?
Imogene sospirò, mettendo da parte il suo orgoglio solo per quella sera, sfinita e affranta. – Secondo voi..? Non mi fa piacere fare quello che faccio, lo sapete. La mia è una necessità temporanea. Passare del tempo con voi... mi permette di rigenerarmi un po’, di risanarmi prima di compiere un’attività tanto degenerante e avvilente – ammise, abbassando lo sguardo.
Judith la osservò con lieve diffidenza. – Per questo mi toccate come si tocca un’amante? Che senso ha toccare me e poi fare lo stesso con i vostri clienti?
- Voi non mi pagate, per toccarvi. Non è un servizio quello che vi offro.
È un piacere, per me, perchè lo voglio, consensualmente.
A ciò, Judith si mosse nell’acqua, camminando verso di lei.
Si avvicinò e fece qualcosa che sorprese nuovamente la donna: le infilò le mani oltre le spalle, circondò i suoi fianchi in una morsa stretta tra le cosce, e la baciò intensamente sulla bocca, stuzzicandole costantemente le labbra con la lingua e i denti, esattamente come ricordava piacesse tanto a Naren.
Imogene la accolse con stupore ed eccitazione, trattenendola a sè con i palmi puntati sulla schiena, ma Judith non le diede neanche il tempo di realizzare appieno cosa stesse succedendo che, staccandosi dalla bocca della bionda, le sussurrò a fior di labbra:
- Dovrai sforzarti un po’ di più... – bisbigliò minacciosa e melliflua insieme, scendendo poi a terra e guardandola negli occhi. – Buon lavoro, Imogene – le disse uscendo dalla vasca, coprendosi con un telo bianco e defilandosi dalla stanza.
Per rivestirsi optò per qualcosa di semplice, qualcosa che raramente si permetteva di fare: indossò un semplice vestito nero, di pregiato velluto, che aderiva al suo busto come una seconda pelle, lungo fino alle caviglie; i capelli li legò in una crocchia alta, per farli asciugare in ordine.
Scese la scalinata che l’avrebbe condotta verso il salone principale della cattedrale, occupato dalle due navate, arrestandosi nel momento in cui notò un’unica presenza, una serva del Creatore inginocchiata dinnanzi all’altare, intenta a pregare convulsamente e quasi disperatamente, con la schiena piegata in giù, in una posizione di supplizio.
Non aveva mai visto nessuno pregare così.
Ne rimase affascinata.
Senza rendersene conto, si avvicinò quatta quatta a lei, osservandola e ascoltando le sue preghiere in silenzio.
- Oh, Signore, oh mio Signore, perdonami.
Trova un senso alle mie gesta.
Immeritevole sono e sarò sempre,
Dinnanzi alla tua grandezza e onnipotenza.
Nata peccatrice, cresciuta peccatrice, morirò peccatrice.
Sono macchiata, oh Potentissimo, Araldo di misericordia.
Oh, Signore, oh mio Signore, perdonami.
Trova un senso alle mie gesta... – Hinedia continuò a pregare con le lacrime agli occhi, fin quando non si accorse che una presenza vicina a lei la stesse osservando.
A tal punto si arrestò, e si voltò verso l’osservatrice, sgranando gli occhi scuri e lucidi non appena la vide, percependo il corpo tremare visibilmente.
Ebbe l’imminente impulso di correre, di scappare via, non appena le sue iridi si posarono su quelle inconsapevoli di lei.
- Non immaginavo ci fosse qualcuno qui a quest’ora – esordì ingenuamente Judith, accennandole un sorriso cordiale, velato di scuse. – Mi spiace di aver interrotto la vostra accorata preghiera. Continuate se volete.
Non merito il tuo perdono.
Io non lo merito.
Non merito il perdono di nessuno.
- Non fa niente... – ebbe il coraggio di risponderle, dopo un tempo che le parve infinito. – Avevo quasi finito.
In quello sprazzo di lucidità, mentre osservava gli occhi neri dell’unica amica che aveva mai avuto e a cui aveva fatto del male, realizzò che anche Blake l’aveva incontrata per la prima volta in quel modo: i loro sguardi si erano incrociati mentre lei stava pregando accoratamente, col volto rigato dalle lacrime.
Ironia della sorte.
Per Judith era la prima che la vedeva. E non sembrava intenzionata ad andarsene via.
- Va tutto bene? – le domandò la rossa, riferendosi alle lacrime che stavano rigando le guance della fanciulla dalla pelle scura come il cioccolato.
Hinedia annuì, non riuscendo a trovare le parole per parlare.
- Come vi chiamate? – le domandò Judith, facendola gelare.
Gliel’avrebbe dovuto dire?
Era sbagliato quello che stava facendo.
Quaglia le aveva detto di starle alla larga.
D’altronde, Layla si sarebbe potuta manifestare da un momento all’altro.
Non avrebbe dovuto cercare il perdono della sua più cara amica.
Non avrebbe dovuto preoccuparsi di sapere come stesse.
Non avrebbe dovuto...
- Hinedia. Geenie Hinedia.
- “Hinedia”? Il vostro nome mi è stranamente familiare.. i monaci, se non erro, mi hanno detto che ho un’amica, una serva del Creatore, chiamata Hinedia. Siete voi?? – le domandò con genuina e gioiosa sorpresa Judith.
- Sì... sono io – alla fine si arrese e le disse la verità. Ciò valse tutto, in quanto il sorriso che si dipinse sul bel volto di Judith ripagò ogni suo timore.
- Onorata di conoscervi, Hinedia.
Come mai non siete venuta prima da me? – le domandò curiosa la rossa, sorridendole ancora.
A tale domanda, la serva del Creatore iniziò a balbettare, non sapendo cosa rispondere.
- Io... sono stata molto ... molto impegnata... inoltre... l’idea che non vi ricordaste più di me... mi faceva troppo male... – mentì, ma a quanto pare bastò, perchè Judith non pretese altre spiegazioni.
- Sapete... quando i monaci mi hanno informata di essermi fatta amica una serva del Creatore.. mi è risultato molto difficile crederci. A parte i monaci, non ho mai avuto molti contatti con i servi del Creatore, prima. In realtà, ho sempre avuto pochi contatti in generale. Mi sono svegliata con la consapevolezza di non avere amici, e invece... mi sono ritrovata invasa da amici di cui non ricordo disgraziatamente nulla... – pronunciò, lasciando trasparire un pizzico di tristezza e malinconia.
- Mi dispiace! – non riuscì a controllarsi Hinedia, gridando accoratamente le sue scuse, ancora con le lacrime agli occhi.
- Oh, no, non scusatevi. In realtà non amo essere compatita – la pregò Judith con un sorriso dolce, doloroso da guardare. – Sapete, sono felice di aver scoperto di essere diventata amica di una serva del Creatore.
- Beh.. devo confessarvi che anche per me è stato un gran cambiamento, aver stretto amicizia con una serva del Diavolo – ammise Hinedia, cercando di farla sentire più compresa. – È molto raro che accada.
- Già. Mi piacerebbe riallacciare i rapporti con voi, Hinedia... se per voi va bene.
Dovrete essere solo un po’ paziente, per me.
Quella richiesta la mise con le spalle al muro.
Avrebbe voluto, avrebbe tanto voluto riallacciare i rapporti con la sua amica che credeva perduta.
Le avrebbe fatto leggere il copione che aveva scritto lei stessa per cercare di farle tornare i ricordi, le avrebbe fatto conoscere i bambini e le avrebbe raccontato tutto ciò che avevano fatto insieme.
Si sarebbe redenta, e Judith le avrebbe voluto di nuovo bene.
Tuttavia... dentro di lei erano insediati due mostri.
No. Non poteva permettersi di perdere il controllo di nuovo.
Non poteva, per nessuna ragione al mondo.
Nè con lei... nè con Blake.
In quel momento, prima che Hinedia potesse darle la sua risposta, fece il suo ingresso nella cattedrale anche un’altra presenza, che attirò l’attenzione delle due.
Era uscito da una delle porte secondarie e i suoi capelli erano tutti bagnati, segno che fosse stato appena sottoposto ad uno dei tanti riti di purificazione che era costretto a subire.
Hinedia spalancò gli occhi, riconoscendo in lui il ragazzo che l’aveva fermata in tempo dal porre fine per sempre alla vita della sua amica, o meglio... che aveva fermato Layla.
Il ragazzino dai capelli biondissimi procedette per la sua strada senza degnarle di uno sguardo, dirigendosi verso l’uscita della cattedrale.
Fu a quel punto che Hinedia lo richiamò, in un impeto di urgenza: - Ehi voi! Fermatevi!
Sentiva il bisogno di parlare con lui, di chiarire ciò che era accaduto, di capirne qualcosa in più...
- Voi! Vi prego, fermatevi! – esclamò ancora, alzandosi in piedi, intenzionata a rincorrerlo.
Ma lui si voltò solo un attimo, incrociando i suoi occhi con quelli di Hinedia, poi uscendo dalla cattedrale come niente fosse.
A ciò, la serva del Creatore prese a correre, lasciando Judith sola e confusa, raggiungendo a sua volta il portone d’uscita, con la speranza di essere ancora in tempo per fermarlo.
Quando aprì la porta e uscì, entrando a contatto con il fresco della sera, di lui non vi era più traccia.
 
Non seppe per quale motivo gli tornò alla mente quel nefasto episodio, rimasto impresso nei suoi ricordi a fuoco.
Forse perchè accadde in Primavera.
E anche a Bliaint si stava avvicinando la Primavera oramai.
Ma la Primavera di Bliaint non era la stessa Primavera di Armelle.
Nonostante i due villaggi distassero pochi giorni di viaggio in carovana, Bliaint era collocato nella postazione più a Nord e in entroterra del continente: oltre questo, non vi era più nulla oltre le gelide steppe disabitate.
La Primavera a Bliaint, padre Craig ci averebbe scommesso, si sarebbe manifestata con un cielo terso e ceruleo, privo di nuvole grigie, ma mai davvero chiaro, illuminato da un debole sole instabile e distante, e da un’aria fredda e profumata di muschio bianco e forse di fiori, non più gelida ma pur sempre  paralizzante a primo impatto.
Ad Armelle invece la Primavera si faceva sentire, leggera e potente come una dea antica, annunciava il suo arrivo con venti tiepidi e dolci, portando fiori coloratissimi a germogliare, ricoprendo l’aria di polline e petali.
La Primavera ad Armelle era dolce, delicata e colorata come quella ragazzina, la ragazzina esorcizzata a morte.
Un caschetto sfilato di capelli color albicocca, folte sopracciglia chiare e grandi occhi verdi come un prato sconfinato. Leah era il suo nome. Leah Jane Cable. Aveva tredici anni.
Per questo ci aveva ripensato proprio in quel periodo.
La ricordava ancora, la sua voce acuta e un poco timida, mentre guardava fuori dalla finestra della cattedrale e gli diceva: “Mi piace la Primavera, padre. A voi?”
Leah aveva dato i primi segni di possessione demoniaca quando i genitori avevano denunciato all’ordine dei preti del villaggio (di cui anche lui faceva da poco parte) che la loro bambina  aveva ucciso di punto in bianco un giovane falco prendendolo a morsi sulla collottola, fin quando il povero pennuto non aveva smesso di dimenarsi tra gli spasmi di dolore, in un tripudio di sangue.
A ciò, lui e gli altri preti avevano deciso unanimemente di esorcizzarla, poichè doveva essere posseduta dal Diavolo.
Quante cose aveva imparato durante quel soggiorno a Bliaint, che gli avrebbero fornito tutti i motivi necessari per dissuadere i suoi compagni dal compiere un esorcismo su quella giovane fanciulla.
Specialmente sapendo come sarebbe andata a finire.
A Leah piaceva sognare. Era una ragazzina curiosa, tanto che la beccava sempre ad avventurarsi nelle steppe  fitte del bosco inesplorato.
Un giorno, a detta dei genitori, era tornata da una delle sue escursioni solitarie nel bosco, e non era stata più la stessa.
Doveva aver incontrato qualcosa o qualcuno in quel bosco, a detta loro.
Padre Craig non avrebbe mai e poi mai dimenticato gli occhi allucinati e spalancati di quella fanciullina, mentre, col corpo magro come lo stelo di un fiore, si dimenava come un’ossessa, sputava sangue e saliva, urlava a squarciagola e piangeva, pronunciando parole incomprensibili in lingue all’apparenza sconosciute.
Fradicia e sudata, gli stracci che indossava sporchi di sangue, i capelli arruffati appiccicati al collo, le labbra bianche e spaccate, le lacrime a rigarle le guance, bocca e occhi orribilmente spalancati,  le forme di quel corpo acerbe scosse da tremendi fremiti e tremolii, contorta in posizioni anomale, convulsa, famelica, disperata, martoriata.
Le avevano legato polsi e caviglie con una corda e l’avevano stesa sopra la tavola di pietra dinnanzi al crocefisso, sistemandosi a cerchio intorno a lei, pregando per lei.
Ma cià non era bastato.
Leah aveva morso ferocemente al collo una delle suore, ferendola gravemente, e aveva sfondato l’occhio di un altro prete con le unghie, mentre continuava a parlare in quella lingua incompresibile.
Infine, disperati dall’inefficacia delle loro preghiere, l’avevano immobilizzata con le mani per farle fare il bagno nell’acqua santa.
Dopo neanche un’ora di esorcismo, Leah era orribilmente morta, col corpo contratto, le cosce spalancate, gli occhi all’indietro, affogata nel suo stesso vomito.
Padre Craig era stomacato.
Quello era il ricordo peggiore conficcato nella sua memoria.
Ma persino il ricordo di quell’esorcismo terminato atrocemente non avrebbe retto il confronto con ciò che avrebbe vissuto di lì a breve.
Cominciò tutto con uno strano profumo di cucinato in casa.
L’aria era dolce.
Dolce come non lo era mai stata.
Heloisa era bellissima. Saltellava in giro come una giovane fanciulla, con indosso un vestito turchese, fresco di sartoria.
Rolland ostentava un sorriso sincero, meraviglioso, che era in grado di illuminare l’intera casa, e guardava sua moglie con occhi sognanti.
Ioan era più energico che mai mentre se ne stava ancorato alle spalle di Quaglia, ridendo e scherzando, mentre fingeva di cavalcarlo come un vero cavaliere col suo destriero.
Le risa e la gioia che imperversava in casa era visibile fino all’esterno e padre Craig ne fu contagiato.
- Sedetevi, padre! La cena è pronta in tavola! – squittì Heloisa, con i suoi ricci castani che ballavano in ogni dove, dandole un’aria ancora più giovanile.
Quando la donna ebbe sistemato ogni vassoio colmo di qualsiasi prelibatezza sul tavolo, suo marito la cinse per i fianchi e i due si lasciarono andare ad uno spassionato e lunghissimo bacio.
Padre Craig sorrise nel guardarli, e prese posto accanto ad un affamatissimo Ioan e ad un sereno Quaglia.
- Cosa c’è per cena? – domandò quest’ultimo.
- Purea di patate viola, pasticcio di verdure, agnello con miele, zuppa di radici e alloro e focaccia appena sfornata – pronunciò fieramente Heloisa, guardando tutti quanti incoraggiante. – Avanti, che aspettate? Mangiate!
Padre Craig, già con l’acquolina in bocca, fece per inforchettare un po’ di verdure, quando, improvvisamente, si accorse che mancasse qualcuno all’appello. – Dov’è Blake?
- Blake? – Rolland sembrava confuso.
- Sì, Blake.
- Oh, certo, Blake. Andatelo a chiamare, padre, e ditegli che è pronta la cena – lo esortò Heloisa con naturalezza.
- Dove posso trovarlo?
- Oh, lo sapete benissimo dov’è: sepolto, lontano dal sole – gli disse Quaglia, già con la bocca piena, mugolando per la bontà del cibo.
A ciò, il giovane prete si alzò dalla sedia, si infilò il suo mantello e uscì dall’abitazione, dirigendosi verso l’unico luogo in cui si aspettava di trovarlo.
Fuori era buio pesto e la luna era alta in cielo.
La luna era stranamente inquietante quella sera.
Era come se gli sussurrasse qualcosa, ma non ne era certo.
Padre Craig arrivò finalmente alla galleria, combattendo contro la paura di quel luogo buio, macabro e destabilizzante.
Si fece coraggio e si addentrò sottoterra con una fiaccola accesa per farsi luce, cercando di coprirsi naso e bocca come meglio poteva con la manica della tunica.
- Blake, siete qui? – provò a richiamarlo, essendosi addentrato in profondità ma non avendolo ancora scorto.
Improvvisamente, illuminò anche le pareti di quella galleria umida e sibilante, scorgendole completamente colme di scritte, calcoli e simboli di difficile comprensione, che sembravano addirittura geroglifici, i quali si dilungavano per decine di metri, forse per chilometri.
Lo spessore di quella calligrafia era talmente elevato da aver formato dei solchi sulla terra dura delle pareti... solchi pieni di sangue.
Riconobbe immediatamente quella calligrafia, sapeva a chi appartenesse, e se aveva ricoperto la galleria di quelle scritte, allora voleva dire che fosse lì, da qualche parte.
Padre Craig corse all’interno di quel tunnel sconfinato, perdendo il senso dell’orientamento, percependo un orribile sensazione alla bocca dello stomaco.
“Sepolto”.
“Sepolto, lontano dal sole”.
Improvvisamente, la disperazione e la paura presero possesso del suo animo e il giovane prete tornò indietro, avendo compreso che il ragazzo non fosse lì sotto.
O meglio, era lì sotto... ma con il corpo compresso da chili e chili di terra.
Uscì dalla galleria non svenendo là dentro solo per miracolo, per poi  cominciare a guardarsi intorno per cercare  una porzione di quel terreno diversa dalle altre, con la terra mossa e avvallata.
Non ebbe bisogno di farlo.
Alla sua destra, sbucò dal terreno scuro un braccio.
Un braccio che sembrava troppo magro per essere quello del ragazzo, ma il prete non ci fece caso e iniziò a scavare disperatamente e con vigore.
- Vi prego... vi prego, resistete!
Quando ebbe scavato abbastanza per rivelare il corpo che giaceva seppellito, padre Craig sbiancò:
non Blake, bensì Leah, viva e immobile, con gli occhi spalancati, che lo guardava sorridendo.
Il giovane prete urlò spaventato e cadde seduto all’indietro, fissandola più che mai inquietato.
- Che state facendo, padre?
Quella voce lo riscosse, facendolo saltare per lo spavento.
Padre Craig si voltò e osservò la sagoma di Blake dal basso, che si ergeva in tutta la sua altezza e lo guardava con sguardo confuso.
Gli occhi del monaco vagarano involontariamente sulle mani scoperte del ragazzo che amava, trovando le dita affusolate tutte sporche, ferite e macchiate del suo stesso sangue.
Lo stesso sangue fresco che vi era sui solchi di quei simboli e numeri tracciati sulle pareti della galleria.
- Blake... avete scritto voi tutti quegli strani geroglifici? – gli domandò continuando a guardarlo come fosse una visione destinata a svanire in breve.
A ciò, il ragazzo si osservò le mani a sua volta. -  Dovrei fasciarle – commentò con tranquillità, senza la minima smorfia di dolore in volto.– Presto verranno qui – aggiunse.
-  Chi?
-  I monaci.
- Per fare cosa?
- Per tagliarmi le mani – disse con naturalezza.
- Cosa...? Tagliarvi le mani? Perchè..?
-  Perchè ho osato infrangere la sacra legge che ci vuole tutti ignoranti e analfabeti.
Con queste stesse mani ho scritto migliaia di volte, su centinaia di pagine bianche.
Vogliono toglierci la parola, vogliono impedirci di sapere, di comunicare, di entrare in contatto tra noi e con il mondo.
Vogliono tenerci segregati in un orrore indistinto.
- No, non possono!
Ad Eva non fu tagliata la mano con cui afferrò il frutto maledetto, così come a voi non verranno tagliate le mani con cui avete lasciato la vostra impronta nel mondo – pronunciò il giovane prete.
-  Eppure Eva è stata punita.
- Con la perdita della vita eterna. Ma voi siete stato già punito abbastanza .. – disse  padre Craig con le lacrime agli occhi.
Blake lo scrutò, il suo sguardo algido mutò in un piccolo sorriso dai contorni inquietanti. – Vi riferite al fatto che il conte Agloveil stia venendo a prendermi?
- Non verrà a prendervi ... non verrà...
- E se mi taglieranno le mani con cui ho compiuto il mio peccato..
- Non vi faranno nulla di male!
- Come farò a soddisfare il più ardito e proibito desiderio del conte? Come farò a plagiare i metalli sotto il mio volere? Come farò a scrivere ancora? – pronunciò tutto ciò con fasulla disperazione.
Il suo splendido viso illuminato dalla luna nascondeva qualcosa di sinistro che spaventò padre Craig. 
Improvvisamente, accadde qualcosa che fece gelare il sangue nelle vene del giovane prete:
“Cala la luna, cala la luna
Cala la luna, il cielo la inghiotte
Cala la luna, cala la notte
Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più.
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù” – la litania che aveva udito per la prima volta dalle labbra di Blake. Ora era Leah a cantarla.
Padre Craig fissò esterrefatto la ragazzina, ancora stesa con il corpo semisepolto , intonare quella canzone con la sua voce acuta.
- Che cosa...? Che cosa sta succedendo??
- Avreste dovuto rimanere al sicuro, dentro la galleria – pronunciò improvvisamente Blake, portandolo a voltarsi di nuovo verso di lui.
-  Per quale motivo?? Io dovevo...
- Ora che l’avete disseppellita il conte la verrà a prendere.
- Lei..? Il conte vuole voi, non vuole lei.
- Guardatela meglio – gli intimò Blake a ciò.
Ma non appena il prete si voltò di nuovo verso la ragazzina, trovò solamente un mucchio di terra smossa, e nessuna traccia di Leah.
Iniziarono ad udire dei rumori: urla, esclamazioni, lamenti, sempre più vicini.
Improvvisamente gli occhi di padre Craig divennero bui.
In un istante, si ritrovò altrove: la cattedrale non era nè quella del Creatore, nè quella del Diavolo di Bliaint, bensì quella dell’unico vero Dio, ad Armelle.
Si trovavano ad Armelle.
Rincontrò i volti di tutti i suoi compagni e amici di infanzia: padre Rubert, padre Elijah, padre Ton, madre Dorothy.
Tra loro tuttavia, c’era anche una presenza nuova, che spiccava su tutti: Judith era tra loro, vestita con la stessa tunica larga color ruggine che indossavano tutti gli uomini e le donne di Dio ad Armelle, i suoi bei capelli rossi ordinatamente acconciati in alto come di consueto e gli occhi autoritari.
Ma ciò che attirò maggiormente l’attenzione del prete, facendolo impietrire per l’orrore, era la presenza di Blake steso sul tavolo di pietra, con le caviglie e i polsi legati strettamente a stella, esattamente come lo era stata Leah.
Tuttavia, egli aveva un sorriso stampato sul volto, a differenza di Leah, apparendo come l’impersonificazione del Demonio, consapevole ed estremamente pericoloso.
Ogni tanto rideva di gusto, come se non aspettasse altro che trovarsi in quella situazione.
- Che state... Cosa volete fare..?? – balbettò in preda al terrore padre Craig, rivolgendosi a Judith in particolare, la quale appariva ai suoi occhi come una statua immobile e granitica, quasi una Madonna.
- È il Diavolo che parla per lui – disse lei con voce atona.
- È il Diavolo che parla per lui – ripeterono gli altri, riunendosi in cerchio intorno al tavolo di pietra, trascinando anche padre Craig tra loro, e prendendosi le mani tutti insieme.
Solo in quel momento il giovane prete si rese conto che i vestiti di cotone del ragazzo erano tutti sporchi di terra, così come il suo volto e i suoi capelli, quasi come se, poco prima, fosse lui ad essere sepolto e non...
Un urlo si elevò in tutta la cattedrale, facendo tremare le pareti.
Il ragazzo iniziò a dimenarsi inumanamente come una bestia in cattività, con una tale forza ed energia dirompente che terrorizzò padre Craig, facendogli credere che, se solo fosse riuscito a liberarsi, avrebbe ridotto in cenere l’intero edificio a suon di calci e pugni, spaccando le vetrate con solo l’uso della voce.
Si muoveva come elettrizzato, come scosso artificialmente da un’entità esterna che lo agitava dall’interno e dall’esterno, come se una corrente d’aria o d’energia maligna stesse manovrando e alzando il suo corpo, per poi sbatterlo sulla superficie di pietra con violenza, in pose contorte e dolorose solo da guardare.
All’improvviso alzò la testa in avanti come in un tremendo colpo di frusta, nonostante la costrizione dei polsi, e sputò in faccia al prete che si trovava ai suoi piedi, sorridendogli diabolico.
- Preghiamo – si elevò la voce di Judith.
A ciò, iniziarono tutti a pregare intorno a Blake:
“Exorcizamus te, omnis immundus spiritus,
Omnis satanica potestas, omnis incursio infernalis adversarii, omnis legio, omnis congregatio et secta diabolica
In nomine et virtute Domini Nostri Jesu Christi, eradicare et effugare a Dei Ecclesia, ab animabus ad imaginem Dei conditis ac pretioso divini Agni sanguine redemptis
Non ultra audeas, serpens callidissime, decipere humanum genus, Dei Ecclesiam persequi, ac Dei electos excutere et cribrare sicut triticum
Imperat tibi Deus altissimus, cui in magna tua superbia te similem haberi adhuc præsumis; qui omnes homines vult salvos fieri et ad agnitionem veritaris venire
Imperat tibi Deus Pater
Imperat tibi Deus Filius
Imperat tibi Deus Spiritus Sanctus
Imperat tibi majestas Christi, æternum Dei Verbum, caro factum, qui pro salute generis nostri tua invidia perditi, humiliavit semetipsum facfus hobediens usque ad mortem
Qui Ecclesiam suam ædificavit supra firmam petram, et portas inferi adversus eam nunquam esse prævalituras edixit, cum ea ipse permansurus omnibus diebus usque ad consummationem sæculi
Imperat tibi sacramentum Crucis, omniumque christianæ fidei Mysteriorum virtus
Imperat tibi excelsa Dei Genitrix Virgo Maria , quæ superbissimum caput tuum a primo instanti immaculatæ suæ conceptionis in sua humilitate contrivit.”
A ciò, Blake spalancò gli occhi e rigirò le iridi all’indietro, iniziando a lamentarsi agonizzante e a ridere allo stesso tempo, la follia impersonificata nel suo volto cosparso ovunque di scarmigliati ciuffi di capelli scuri e ribelli impregnati di terra.
Tremava, sudava, ansimava, ma non si fermava, continuando a muovere il suo corpo lungo, levigato e ardente come se stesse andando a fuoco, le gambe andavano da una parte, il busto dall’altra e le braccia da un’altra ancora.
Padre Craig non ce la faceva più.
Era troppo per lui.
Tuttavia rimase fermo, fermo ad osservare quella follia, come se attendesse la fine del mondo da un momento all’altro, ad osservare i rivoli di sangue macchiare la pelle contratta del ragazzo, provenienti da chissà quale delle innumerevoli ferite che si stava provocando, ferite senza importanza.
Una bestia. L’accecante bellezza di un mostro, provato a domare innumerevoli volte, senza successo.
L’essenza di un’era, di una generazione, si ritrovò a pensare padre Craig durante quel maestoso e sovrannaturale esorcismo.
Leah cercava la stessa cosa che cercava Blake, infondo.
La differenza era che Blake avrebbe smosso mari, cieli e monti per trovarla.
Poi, accadde il fatto più spaventoso di tutti:
Blake iniziò a parlare con le voci di più persone unite insieme, ripetendo al contrario tutte le preghiere in latino che i preti e Judith stavano pronunciando intorno a lui.
- Sued ileoc, Sued earret, Sued murahcrairtap, Sued muratehporp, Sued murytram, Deus munigriv, Sued iuq metatsetop sebah eranod mativ tsop metrom, meiuqer tsop merobal: retilimuh itatsejam eairolg eaut sumacilppus, tu ba inmo muilanrefni muutirips etatsetop, oeuqal, enoitpeced te aitiuqen son retnetop erarebil, te semulocni eridotsuc sirengid. Rep Mutsirhc Munimod Murtson. Nema – urlò il ragazzo sorridendo ancora, con quelle voci meschine che risalivano tutte insieme dalla sua gola, facendoli rabbrividire.
- Tappategli la bocca! – urlò madre Dorothy in preda al terrore.
-  Ab insidiis diaboli – continuò a pregare Judith, restando ferma e inscalfibile.
- Ba Siidisni Ilobaid – ripetè Blake penetrandola con quei suoi occhi che perdevano umanità ogni secondo che passava.
- Libera nos Domine
Ut Ecclesiam tuam secura tibi facias libertate servire
Te rogamus, audi nos
Ut inimicos sanctæ Ecclesiæ humiliare digneris
Re rogamus, audi nos! – urlò Judith, ma prima che il ragazzo potesse ripeterle al contrario venne imbavagliato come era stato ordinato.
Ora era ancor più inerme, disteso su quella tavola di pietra, legato e imbavagliato; ma, nonostante tutto, continuava a muoversi come scosso dalle fiamme o dai fulmini, ribellandosi a quelle costrizioni come un ossesso.
Le corde gli lacerarono i polsi e le caviglie, macchiando la superficie di pietra e i suoi vestiti di sangue scarlatto.
- Vi prego... non ce la faccio più... – implorò padre Craig, non sapendo bene a chi rivolgersi, stremato, distrutto, deanimato.
- Tenetelo fermo! – esclamò un altro dei preti, e tutti lo assecondarono, non senza un’ingente dose di difficoltà:
Uno di loro, posizionato ai piedi del ragazzo, gli afferrò strettamente le caviglie; altri due le gambe, un altro i fianchi e il bacino, altri due le braccia e le spalle, e Judith la testa.
Memore di ciò che era accaduto a Leah, padre Craig fece qualche passo indietro, allontanandosi dalla tavola di pietra con orrore. – Che cosa state facendo...? Che cosa volete fargli..??
Si pietrificò nel momento in cui vide uno dei preti avvicinarsi con una sorta di strano pentolone tra le mani: al suo interno, al posto dell’acqua santa, vi era dell’oro in stato liquido. Lo stesso oro che si sarebbe dovuto ottenere dalla trasmutazione alchemica che sempre più uomini bramavano.
Oro. Accecante e bellissimo.
Fu quando sembrò rendersi conto di cosa si trovasse dentro il recipiente che Blake si paralizzò immediatamente, sgranando gli occhi ora spauriti e terrorizzati.
Tuttavia, non poteva fare nulla, nè urlare, nè tanto meno muoversi ora che era anche immobilizzato da una dozzina di mani che lo stringevano e ancoravano alla tavola di pietra.
- No, aspettate...! – provò ad intervenire padre Craig, ma fu tutto inutile: le gambe avevano iniziato a cedergli facendolo piombare a terra.
Il prete con il grosso recipiente tra le mani poggiò quest’ultimo a terra, immerse dentro l’oro le dita, per poi avvicinarsi a Blake.
Nel momento in cui toccò la pelle del ragazzo, tracciando dei segni sul suo viso con l’oro, la pelle di Blake iniziò a bruciare fino ad arroventarsi sotto quei segni dorati, consumandosi.
Nonostante il bavaglio a comprimergli la bocca, l’urlo di agonia del ragazzo fu talmente immenso che tuonò e rimbombò per tutta la cattedrale, spezzando il cuore di padre Craig.
Il giovane prete aprì gli occhi tra i singhiozzi, nel suo letto, ritrovando il cuscino su cui poggiava la testa zuppo di lacrime.
Era troppo reale per essere un incubo. Troppo reale.
Non poteva credere di averlo sognato in quel modo.
Possibile che quando Blake invadeva i suoi sogni accadessero eventi tanto nefasti e tremendi?
Ancora terrorizzato e animato da una disperazione che non credeva di possedere, si alzò in piedi senza neanche darsi una sistemata davanti allo specchio, senza togliersi la camicia da notte o sciacquarsi il viso, corse fuori dalla camera ansimante, piombando dritto dinnanzi alla porta sbarrata che dava accesso alla fucina sotterranea, oramai sigillata a chiunque non fosse Blake.
Il ragazzo si trovava là sotto da quattro giorni di seguito, apparentemente senza uscire nè per mangiare, nè per dormire o per qualsiasi altro bisogno fisiologico.
Poteva essere morto là sotto, e loro non ne sapevano nulla.
Era stato lui stesso a sigillare la porta dall’interno, per evitare che qualcuno entrasse, per isolarsi dal mondo e continuare le sue folli sperimentazioni.
Da quando aveva scoperto del conte Agloveil la situazione era evoluta di male in peggio.
Neanche Quaglia, che solitamente era il solo ad assisterlo nelle sue sperimentazioni quando era là sotto, aveva il permesso di raggiungerlo.
Padre Craig, in un impeto di esasperazione, si aggrappò alla porta, cominciando a riempirla di pugni, con la speranza di sfondarla e aprirla.
- Vi prego!! Vi prego, aprite la porta!!
Quanto poteva apparire patetico visto dall’esterno?
Quanto avrebbero potuto compatirlo Quaglia o Heloisa?
Ioan forse sarebbe stato l’unico a non giudicarlo, dato che piangeva tutti i giorni da quando il fratello si era chiuso là sotto senza dare più notizie o tracce di sè.
Pianse, il giovane prete pianse tutte le lacrime che gli erano rimaste, invaso dalla preoccupazione e dal terrore.
Voleva sapere se stesse bene, se fosse ancora vivo, se gli servisse qualcosa, qualsiasi cosa.
Anche solo vederlo sarebbe andato bene.
Anche solo scorgerlo da lontano...
Si lasciò andare ad un pianto singhiozzante e liberatorio come quello di un bambino, trascinando i palmi sul legno della porta chiusa, fino a lasciarsi cadere inginocchiato a terra.
I pugni con cui colpì la porta divennero sempre più deboli e il suo pianto sempre più forte.
- Perchè...? Perchè mi fate questo...?
Io ho bisogno di voi...
Non potete neanche immaginare quanto io abbia bisogno di voi...
Troppo in preda alle lacrime e alla disperazione, non si era accorto di una presenza che lo aveva raggiunto, e che ora se ne stava in piedi, a guardarlo, a metri di distanza.
Padre Craig si accorse di Rolland, ma non fece nulla per placare il suo attacco di pianto.
Oramai aveva perso la sua dignità.
In una circostanza come quella non la possedeva una dignità.
E se Rolland non l’avesse compreso, o peggio, avesse scoperto il suo torbido segreto, poco sarebbe importato.
Per lo meno fu quello che pensò in quel momento di perdita totale, quando i suoi occhi appannati dal pianto incontrarono quelli duri, un poco confusi e al tempo stesso velatamente malinconici di Rolland.
Aveva quasi dimenticato che il capo famiglia avesse ricominciato a tornare a casa da quando vi era stata la sfuriata con Blake e la quasi-morte scampata di Heloisa, quattro giorni prima.
Era tornato e si era preso cura di sua moglie malata e del suo figlioletto, non potendo tuttavia fare nulla per raggiungere nuovamente il suo primogenito.
Non seppe dire se quello sul suo viso fosse anche senso di colpa.
Senso di colpa o... rassegnazione.
L’uomo si avvicinò a lui di qualche passo, con sguardo indefinibile.
Il prete resse il suo sguardo mentre i suoi singhiozzi diminuivano di intensità, ma rimanevano comunque costanti e persistenti.
- Ho bisogno di vederlo... – gli disse con voce rotta.
- Perchè? – gli chiese Rolland.
- “Perchè” mi domandate...?
Un lampo di strana consapevolezza apparve negli occhi di Rolland, senza che padre Craig ebbe aggiunto nulla.
Fu in quel preciso istante che padre Craig capì che Rolland avesse capito.
- Non aprirà la porta – disse l’uomo con voce improvvisamente fredda.
- Non volete sapere se sta bene?
- Sta bene.
- Come potete esserne certo..??
- Lo stato di mio figlio non sono affari che vi riguardano.
Ricomponetevi, padre, prima che qualcun altro possa scorgere la vostra spregevolezza.
Alzatevi in piedi e andate via di qui.
Non avvicinatevi più a questa porta.
- Mi caccerete via di casa...?
Attimi di attesa pari a secoli si dilungarono dinnanzi agli occhi del prete.
- Se gli starete alla larga, no.
Toglietevelo dalla testa.
E con quella minaccia, Rolland si dileguò, uscendo dalla sua vista.
La sua anima ormai irrimediabilmente macchiata e torturata cedette.
Cedette, spingendolo a rialzarsi in piedi e a raggiungere la sua stanza.
Non appena si infilò le scarpe, l’abituale tunica monacale gli si palesò davanti agli occhi, fresca di lavaggio e appesa all’attaccapanni della camera, pronta all’uso.
A causa dello strautilizzo era lievemente rovinata in diversi punti.
Padre Craig la carezzò con la punta delle dita, come a volergli dire addio.
Dopo di che, raggiunse la stanza di Quaglia, trovandola vuota. Frugò tra i suoi vestiti, prese un paio di pantaloni di tela e una maglia di cotone bianca, in quanto egli non possedeva altro che la sua tunica da indossare.
Una volta vestito da semplice popolano, afferrò il proprio mantello e uscì di casa, dirigendosi verso una meta ben precisa.
Era il suo dolore a fargli muovere i passi per raggiungere l’unico luogo che avrebbe potuto dargli un po’ di illusorio sollievo in quel momento, in quanto, l’idea di andare da Judith e di farsi vedere da lei in quello stato non gli si era neanche affacciata alla mente.
Giunto all’entrata delle segrete fece un cenno di saluto ai monaci di guardia e scese la scale che lo avrebbero portato a quel luogo buio, umido e maleodorante.
Raggiunta la cella di suo interesse, imbucò la chiave ed entrò dentro.
Quella fu la seconda volta che diede sfogo ai suoi impulsi sessuali, la seconda volta che entrò dentro le carni di Beitris in quella cella putrida.
La seconda volta che la bellissima strega lo lasciò fare, accettandolo dentro di sè, come in un tacito patto che condividevano, e che li avrebbe resi indissolubilmente legati.
Beitris gli baciò la testa o lo rassicurò cullandolo come una madre premurosa, mentre lui si aggrappava a lei disperato.
- “Sorga Dio
I suoi nemici si disperdano
Fuggano davanti a lui quelli che lo odiano.
Come si disperde il fumo, tu li disperdi
Come fonde la cera di fronte al fuoco, periscano gli empi davanti a Dio” – ripetè il giovane prete a se stesso, come una punizione autoinflitta e persistente.
Beitris lo cullò ancora, avvicinando poi le labbra al suo orecchio, per sussurrargli parole di conforto sopra le sue di dannazione:
- Ama con tutto te stesso.
Ama intensamente.
Ama insistentemente.
Amare non è mai peccato.
Amare non è mai un errore.
Ama. Ama fino alla morte.
 
Folker entrò dentro la Taverna, il cappuccio ancora tirato sù.
Individuò subito facce conosciute al suo interno e non se ne sorprese: quello era un luogo di incontro e di svago per ogni abitante di Bliaint di entrambi i culti.
Riconobbe anche i volti di Myriam, la donna che aveva iniziato a sottoporlo ai riti di purificazione al posto di Judith, e la nuova ospite di Judith, la sciamana che era apparsa da un giorno all’altro, e che aveva acquistato una certa fama in tutto il villaggio nel giro di pochi giorni.
Camminò, facendosi largo come potè tra la folla di gente, alcuni già ebbri, altri in procinto di diventarlo.
Si tirò il cappuccio ancor più sù, tentando di nascondere il suo viso, volendo evitare che qualche ubriaco riconoscesse in lui “il ragazzino-strige”, per evitare problemi.
Si sedette in un posto libero dinnanzi all’affollato bancone colmo di locandiere, cercando con gli occhi una figura in particolare, che tuttavia non vide.
C’erano quasi tutte dietro quel bancone, come era possibile che mancasse proprio lei?
Attese a testa bassa, torturandosi le mani nel frattempo.
- Ehi, biondino – lo richiamò una delle locandiere notandolo. Era una voce giovane che non conosceva, forse era una ragazza nuova.
A ciò, lui abbassò ancora di più la testa, dannando i suoi ciuffi di capelli chiarissimi che sbucavano fuori dal cappuccio.
- Guardate che vi vedo lo stesso, anche se tenete la testa bassa – persistette lei avvicinandosi. - Perchè non mi guardate?
Vedendo che egli non rispondesse, lei schioccò la lingua scocciata. – Almeno posso prepararvi qualcosa da bere?
- Sto cercando una persona.
- Una locandiera?
- Sì.
- Di chi si tratta?
- Bridgette. Nora Bridgette.
- Oh.. siete uno dei suoi numerosi ammiratori? – domandò la fanciulla puntellandosi le mani suoi fianchi e inclinando la testa, per scorgere qualcosa in più del suo volto celato.
Senza preavviso, la ragazza gli sfilò il cappuccio a gran velocità, facendolo sussultare.
- Immaginavo foste un servo del Diavolo – affermò con ovvietà lei, osservandolo a dovere. – Sapete di essere molto bello. Ma sapete anche di non avere l’età adatta, giusto? A Bridgette non piacciono i ragazzini, ma gli uomini più grandi. Non lo sapete che ha compiuto diciannove anni?
- Voglio solo parlarle.
Ma proprio mentre quella fanciulla persistente dai voluminosi boccoli neri stette per replicare, Bridgette fece il suo ingresso dietro il bancone, posando alcuni boccali vuoti dentro un recipiente colmo di altri bicchieri sporchi.
Non appena la ragazza lo vide e lo riconobbe, sgranò i suoi occhi a mandorla. – Folker...?
- Lo conosci? – gli domandò la fanciulla dai ricci neri.
- È un ... amico di mio fratello.
Folker ringraziò mentalmente Bridgette di essersi limitata a quella descrizione, in quanto l’altra locandiera non lo aveva riconosciuto come “la strige”, poichè non lo aveva mai visto in vita sua, fortunatamente.
- Oh.. vi lascio soli, allora – si dileguò la ragazza ammiccante.
Folker fissò gli occhi in quelli di Bridgette, senza dire nulla.
Non sapeva come avrebbe potuto reagire, vedendolo, la sorella di quello che era stato il suo amico di una vita, il quale gli aveva improvvisamente voltato le spalle per avere salva la pelle; nonchè la ragazza che li aveva guardati crescere silenziosamente, partecipando talvolta ai loro giochi infantili quando erano bambini.
Bridgette lo conosceva da una vita, e anche lui conosceva lei.
Ricordava distintamente persino il periodo in cui la spiava di nascosto mentre cantava, quando lei credeva di non essere udita. I suoi occhi innocenti di bambino, a quei tempi, erano rimasti incantati a guardarla pettinarsi i capelli, associandola spesso alle sensuali sirene delle storie fantastiche che gli narrava suo padre.
Ma ora che aveva quasi quindici anni, ora che Ambrose gli aveva aperto nuovi orizzonti, seppur contro la sua volontà, comprese che Bridgette fosse l’unica ragazza che avesse mai guardato con desiderio.
Probabilmente lei avrebbe riso di lui e lo avrebbe preso per sciocco.
Tuttavia, aveva bisogno di parlarle.
Specialmente ora, dato che erano giorni che non rivolgeva la parola ad Ambrose, dopo il litigio che avevano avuto.
Era rimasto davvero solo.
E non avendo nessuno con cui poter anche solo parlare senza venir perseguitato o evitato, sperò ingenuamente che almeno lei, almeno la fanciulla con la quale era cresciuto, nutrisse ancora un po’ di affetto nei suoi confronti. Affetto e pietà.
Lo sperò perchè Bridgette sapeva che le strigi non esistessero, in quanto suo fratello prima di ogni altro era stato vittima di quelle accuse infondate, ed ora la stessa sorte stava toccando a Folker.
Sperò che la ragazza si sentisse in colpa per ciò che aveva fatto suo fratello, almeno un po’.
Lo sperò perchè era quel giorno della settimana. Il giorno della settimana in cui non ricordava niente di cosa gli fosse accaduto il giorno prima.
E oramai era quasi certo che qualcuno gli avesse fatto una maledizione e prendesse possesso del suo corpo di settimana in settimana, rubandogli i ricordi.
La sua testa stava esplodendo, l’ansia di non sapere lo stava risucchiando.
La fame tremenda lo stava consumando.
Bridgette continuò a guardarlo con occhi colmi di preoccupazione e di un velo di senso di colpa, come Folker aveva sperato.
Quando ella capì che lui non avrebbe detto nulla, parlò per prima:
- Ho finito il mio turno, per stasera.
Barclay e i miei genitori non sono in casa.
Vuoi venire con me?
Quella proposta lo lasciò a dir poco perplesso.
- D’accordo – le rispose senza pensarci.
- Bene. Aspettami fuori e tirati sù il cappuccio: non credo sia saggio tu ti faccia vedere in giro a quest’ora.
Quando i due furono giunti a casa di Bridgette, la quale distava pochi minuti a piedi dalla Taverna, la ragazza accese alcune lampade ad olio e le sparse in vari punti della cucina.
Folker si accomodò su una di quelle sedie familiari, che sapevano tanto di casa.
- Non hai un bel colorito.
Ti preparo qualcosa da mangiare – fu la prima cosa che gli disse lei.
- Non serve.
- Folker, hai palesemente perso peso e sembri senza forze.
Permettemi di offrirti qualcosa.
- La tua preoccupazione è commovente – commentò lui con sarcasmo.
- Cosa vuoi dire con questo?
Lo sai che non ho convinto io mio fratello ad accusarti, vero?
Folker rimase in silenzio, dandole ragione internamente, sapendo che non avesse alcun senso essere arrabbiato con lei per ciò che aveva fatto Barclay.
Inoltre, poteva davvero biasimare totalmente Barclay per essersi salvato la vita in quel modo?
- Trovavo ignobile la sua idea.. – aggiunse la ragazza, ripensando a ciò.
- Ti ringrazio. Per avermelo detto.
I loro occhi si incrociarono di nuovo, in silenzio.
Dopo di che, la fanciulla distolse lo sguardo e afferrò una piccola teglia coperta da un coperchio di legno.
Sotto di essa si ergeva qualche pezzo avanzato di una crostata di fragole.
- Tieni – gliene porse una fetta, posandola sul tavolo, davanti ai suoi occhi.
Quell’odore invitante e la consapevolezza che l’avrebbe rigettata non appena l’avesse assaporata sulla lingua lo fece indisporre. – Non la voglio. Ti avevo detto di non volere nulla – le rispose distogliendo lo sguardo dal pezzo di dolce, stizzito.
- Perchè ti stai agitando, ora?
- Non mi sto agitando – rispose lui continuando a grattarsi i polsi in un istinto involontario, come stava facendo da tutta la sera.
- Folker, ti stai indisponendo per una fetta di torta – gli fece notare lei accennando un mezzo sorriso, che unito alle fossette sulle guance le diede un aspetto ancor più effeminato e ricercato.
Il suo sorriso ebbe il potere di rilassarlo per qualche motivo, così ritentò, facendosi attrarre dal profumo di fragole. Prese il pezzo di dolce, lo avvicinò alla bocca e lo morse velocemente, per evitare di sputarlo subito dopo.
Combattè contro l’istinto involontario di rigettarlo fuori, percependo una fitta alla bocca dello stomaco.
La soddisfazione per quella piccola vittoria lo galvanizzò tanto da spingerlo a divorare l’intero pezzo di crostata quasi senza neanche masticarlo, pur di non vomitarlo.
Bridgette emise un risolino nel guardarlo.
- Visto? Non c’era bisogno di indisporsi per così poco – disse con semplicità lei, addentando un pezzo di crostata a sua volta.
Folker attese che ella finisse di mangiare, guardandosi intorno in cerca delle parole giuste da dirle.
- Dimmi, come mai mi hai cercato questa sera? Sono settimane che non ci vediamo – cominciò lei.
- Posso farti una domanda?
- Certo.
- Mi hai ... visto entrare alla Taverna prima di oggi? Mi hai visto... fare delle cose strane, cose non “da me”?
- No. Oggi è la prima volta che ti vedo alla Taverna da quando c’è stato l’ultimo incontro della congrega.
Folker tirò un respiro di sollievo nell’udire tali parole.
- Perchè me lo chiedi?
- Qualcuno sta... prendendo possesso del mio corpo a mia insaputa.
- Prendendo possesso..? Come una possessione demoniaca?
- No – si affrettò a rispondere lui. – O almeno non credo. Credo sia qualcuno che si diverte a fare ciò che gli pare e piace con il mio corpo.
- Oh... – commentò Bridgette turbata. – Se ciò fosse vero, sarebbe un po’ perverso, anche solo pensarlo.
Folker rimase in silenzio, non avendo la forza di guardarla.
Strinse i pugni tra loro e chiuse gli occhi, tutti movimenti che vennero abilmente captati dalla ragazza dalla chioma mogano.
- Folker?
- Ieri io.. non ricordo niente di quello che mi è successo. Non so mai quando capiterà. Ho queste perdite di memoria improvvise e... so che non sono dovute ai riti di purificazione, ne sono certo.
- Ti credo. Potrebbe essere qualcuno che si sta rivolgendo ad una strega per operare la magia su di te. I servi del Creatore lo fanno spesso.
- Perchè dai per scontato sia un servo del Creatore? – domandò lui riaprendo gli occhi e puntando quei fari chiari e lucidi su di lei.
- Oh, Folker, ma è ovvio – rispose ella avvicinandosi un po’, fin quando non fu abbastanza vicina da accarezzargli una guancia con la mano delicata, abbellita da qualche anello. – Sono i servi del Creatore a desiderare di essere noi. Non è strano pensare che uno o una di loro siano rimasti ammaliati da te, tanto da voler essere te.
- Ma... come potrebbe qualcuno arrivare a tanto?
- Per sperimentare. Sperimentare la lussuria, il desiderio, l’atto sessuale e le perversioni.
- Così non stai aiutando...
- Non è detto che lo abbia già fatto. Quali sospetti ti hanno fatto giungere a questa conclusione?
- Una persona che conosco mi ha detto di avermi baciato e toccato, ma io non ricordo minimamente di averlo fatto. Io non ho mai pensato al desiderio fisico.
- Ah no? – gli domandò lei sorpresa.
- No.
- Neanche in merito alla tua promessa sposa?
- No, mai. Forse.. – si bloccò, imponendosi di tapparsi la bocca per non dirle altro.
- Cosa? – insistette lei curiosa.
- Mi è sempre piaciuto guardarti – ammise. – Guardarti cantare, sentirti ridere ed essere così attenta a noi.
Bridgette rimase meravigliata da tale ammissione.
- Non lo sapevi? – le domandò lui scrutandola. – Credevo te ne fossi accorta.
Ella negò con la testa. – È lusingante. E lo sarebbe ancora di più se non avessi l’età di mio fratello – disse lei girando intorno al tavolo, sospirando.
A ciò, Folker aguzzò lo sguardo, riflettendo. – Ne sei dispiaciuta?
- Di cosa?
- Che io sia più giovane di te.
- Può essere – rispose vagamente la ragazza poggiando il mento affilato sui palmi delle mani.
- Ci scambiamo solo quattro anni – precisò lui.
- Alla tua età quattro anni sono tanti, Folker. Devo spiegarti anche questo? – gli rispose bonariamente.
I due si guardarono per un po’, senza dire nulla, fin quando Bridgette non glielo domandò di nuovo:
- Folker, perchè hai voluto incontrarmi stasera?
- Non lo so – rispose continuando a guardarla. – Se io fossi più grande... – iniziò. – saresti attratta da me?
A ciò, lei rise divertita per un po’, prima di dire qualcosa che lo fece paralizzare sulla sedia per lo stupore:
- Sciocco. Sono attratta da te anche adesso.
Il ragazzo si alzò in piedi, compiendo qualche timido passo verso di lei, ancora seduta.
Bridgette lo guardò per tutto il tempo che impiegò ad avvicinarsi.
Normalmente, quando erano in piedi, la ragazza era poco più alta di lui.
Ora, la situazione era invertita.
- Posso chiederti una cosa? – le domandò lui.
- Che cosa?
- Dormiresti con me?
- Sei piuttosto diretto... – sussurrò lei fissandolo negli occhi, scrutando ogni espressione sul suo volto giovane e inconsapevole.
- Sono stanco. Sono stanco di sentirmi usato, stanco che gli altri usino il mio corpo a loro piacimento.
Per una volta vorrei essere io a decidere per il mio corpo – le disse con la voce sfinita e incrinata.
- Folker – lo richiamò a sè lei, prendendogli le mani tra le sue.
- Cosa c’è?
- Stai tremando. Rilassati.
- Io non..
- Se non ti rilassi, non riusciremo a farlo.
Una scintilla di speranza e di sorpresa si accese negli occhi di topazio del ragazzo. – Vuoi dire che lo farai?
- “Lo faremo”. È una cosa che si fa insieme – lo corresse lei in tono incoraggiante, spostandogli un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
- Ci penserò io a farti rilassare, promesso – lo rassicurò ancora, vedendolo annuire. – Però prima devi trovare il coraggio.
- Il coraggio di fare cosa?
- Di sedurmi – gli rispose penetrandolo con le sue vivide iridi argentee, una parte di lei che gli era sempre piaciuta molto. – Non posso iniziare se sembri un pulcino spaventato, mi sembrerebbe di strapparti via la verginità senza alcun ritegno.
- Come faccio? Non so sedurre, non l’ho mai fatto.
- Non è difficile. In parte lo fai già, senza accorgertene – gli disse lei poggiando la schiena allo schienale della sedia e sondandolo da capo a piedi, con il suo sguardo argenteo. – Sai.. non tutti coloro che sono belli sono anche in grado di sedurre. La bellezza e la seduzione non vanno di paripasso. La capacità di sedurre è una dote, un dono. C’è chi lo ha naturalmente, e non se ne accorge. C’è chi deve esercitarsi per acquisirlo. C’è chi ne è talmente dotato da considerarla quasi una maledizione.
Ad esempio, esistono delle persone bellissime, talmente eteree da sembrare un dipinto: un dipinto da contemplare, nulla più di questo.
Ma esistono anche delle persone che, invece, oltre ad essere belle, sono anche in grado di farti provare sensazioni strane e destabilizzanti laddove non batte il sole. Persone che sono in grado di farti tremare solo guardandoti o muovendosi con naturalezza in una stanza...
Vuoi sapere a quale categoria appartieni tu?
Folker annuì, un po’ incerto.
- Il tuo corpo è perfettamente in grado di sedurre.
La tua è una dote innata, riesco a vederla, ma è celata in profondità.
Devi solo tirarla fuori, ma c’è, è lì e si scorge chiaramente.
Forse è proprio questo che ha visto in te chiunque stia cercando di appropriarsi del tuo corpo con la magia.
Quell’ultima frase fece gelare il sangue nelle vene del ragazzo. – Non parlare di questo – la ammonì in un impeto di rabbia.
- Allora muoviti e fa’ qualcosa – lo esortò Bridgette, inchiodandolo a lei con i suoi occhi ipnotici.
A ciò, Folker agì d’istinto: si avvicinò a lei e al contempo la ragazza gli fece spazio aprendo le cosce coperte dalla sottana blu notte, non appena capì che si sarebbe avvicinato.
Senza attendere troppo, la guardò negli occhi, incantandola a sua volta con le sue iridi liquide e curiose, si abbassò e posò le sue labbra calde su quelle di lei schiuse.
Fu un contatto lento, accennato e stranamente dolce.
Un contatto che si prolungò più del dovuto, divenendo un assaggio febbricitante.
Quando il ragazzo si staccò da lei, con ancora le labbra schiuse e umide, la guardò negli occhi per capire cosa provasse.
Ma prima che potesse chiederle qualsiasi cosa, la ragazza gli infilò una mano dietro la nuca e gli disse - Vieni qui – tirandolo di nuovo a sè e facendogli provare realmente cosa significasse scambiarsi un vero bacio, pregno di lingue vorticanti e di morsi alle labbra.
Il biondo riuscì finalmente a sciogliersi grazie a quel bacio mozzarespiro, iniziando a spostarsi più in basso autonomamente. Le baciò e leccò il collo beandosi del sapore della sua pelle dolce, per poi giungere al petto di Bridgette, stretto nel corpetto.
La ragazza, già lievemente ansimante, lo aiutò a slacciarsi il corpetto, liberando i propri seni smaniosi di essere saggiati.
Bridgette possedeva dei seni piccoli ma sodi e pieni, e lasciandosi guidare ancora dall’istinto e dalla frenesia, Folker iniziò a succhiarli, facendo mugulare di approvazione la ragazza, la quale iniziò già a rilasciare qualche gemito soddisfatto.
- Che cosa sto facendo... ? – sibilò tra un sospiro e l’altro la ragazza, in un attimo di lucidità. – Se mio fratello lo scoprisse...
- Non deve saperlo per forza – si affrettò a rispondere lui staccandosi dai suoi seni e ritornando a baciarla.
Ella ricambiò con trasporto, mentre esponeva i suoi dubbi tra un bacio famelico e l’altro. – Non ho mai tolto la verginità a nessuno. Non ho mai istruito un ragazzo privo di esperienza – gli sussurrò mentre lui le stringeva i capelli tra le dita.
- Andrà bene. Farò tutto quello che mi dirai – sussurrò il ragazzo, facendo vagare le mani inesperte sulle cosce coperte dalla sottana della ragazza.
Ma Bridgette non gli diede il tempo di proseguire, poichè infilò una mano dentro i suoi pantaloni, afferrando la sua intimità, facendolo paralizzare sotto il suo tocco.
- Va tutto bene... – lo rassicurò. – Fidati di me – gli disse sorridendo, alzandosi in piedi e iniziando a sua volta a torturargli il collo con baci vogliosi, mentre intanto proseguiva a toccare la sua erezione, massaggiandola con dovizia.
Il ragazzo buttò la testa all’indietro, sospirando a pieni polmoni, rendendosi conto solo in quel momento di aver indietreggiato talmente tanto da aver toccato il muro con la schiena, e di potersi appoggiare ad essa.
Ma non ve ne sarebbe stato comunque bisogno, in quanto Bridgette si spostò verso il basso, abbassandogli i pantaloni e sfilandoglieli senza preavviso, per poi afferrargli i fianchi con le mani e ancorarli al muro. Lo guardò dal basso un’ultima volta, rivolgendogli un sorriso che il ragazzo avrebbe custodito preziosamente nelle sue memorie, lo sguardo più lussurioso e diabolico che avesse mai visto.
Dopo di che, Bridgette tuffò il viso nell’intimità del ragazzo, iniziando a leccare, a baciare e a succhiare ovunque arrivasse, quasi come volesse divorarlo, quasi come se la sua pelle avesse un sapore irresistibile.
Gli ansimi del ragazzo divennero sempre più forti e intensi, la testa iniziò a diventargli infinitamente leggera, il corpo era fremente e scosso dal destabilizzante piacere che quella bocca e quelle mani gli stavano donando, un idillio che non credeva esistesse nel mondo terreno.
Cercò di trattenersi dall’urlare per il piacere e per la sorpresa quando la ragazza spalancò l’antro caldo che era la sua bocca e lo inglobò tutto dentro di sè, iniziando succhiarlo con impeto e padronanza, facendogli ancorare le mani al muro.
Andarono avanti tutta la notte, venerando i rispettivi corpi in ogni modo possibile, scoprendosi, desiderandosi, rassicurandosi e lasciandosi andare persino a dolci effusioni prima di addormentarsi.
Bridgette non fece domande quando tastò la sua schiena d’avorio colma di ferite provocate dalle frustate.
Bridgette non fece domande riguardo ai lividi o riguardo le sue anche troppo sporgenti.
Bridgette non domandò e non pretese nulla, se non la sua completa attenzione e il suo dominio, prima che il sole sorgesse su un nuovo giorno.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 44
*** Sensazioni ***


Sensazioni
 
 
Sentiva l’erba umida sotto le mani, un paio di mani artigliate ai fianchi, un respiro caldo e ansimante, come quello di un toro, dietro di sè.
- Basta... smettila... ti prego – sussurrò Judith, ma Naren non smise, anzi, intensificò le spinte, facendola piangere per il dolore. – Smettila! Allontanati!
- Vedrai, amore.. ti piacerà.. aspetta solo un poco, e inizierà a piacerti.

- No.
- Sei stata tu a chiedermelo.
- Ho cambiato idea.
Quei ricordi non le appartenevano. Li stava vivendo come fossero qualcosa di estraneo, fuori da sè.
Poi, ad un tratto, davanti a sè apparve la sagoma maestosa e bellissima di Imogene, che la guardava a distanza e le sorrideva, mentre lei soffriva.
- Perchè siete qui...? Questo .. è opera vostra??
- Sto cercando di aiutarvi – disse la bionda avvicinandosi di qualche passo alla torbida scena, in tutta serenità.
Naren sembrava non essersi accorto di lei.
- Il vostro inconscio ha partorito queste immagini... immagini che, evidentemente, sono rimaste ben impresse nella vostra memoria, ma che non riescono ad emergere, rimanendo celate se non stimolate – disse la sciamana accovacciandosi davanti a lei, riservando un’occhiata schifata al ragazzo che la stava brutalmente violando. – Tuttavia, sono immagini partorite dalla vostra mente. Sono un misto tra ricordi reali e ricordi che voi credete di avere, in parte inventati.
- Quindi non saprò mai se questo è accaduto veramente...?
- Sono abbastanza certa che il vostro “amato” servo del Creatore vi abbia realmente stuprata su questo prato. Il resto.. potrebbe non essere perfettamente attinente alla realtà.
In questa fase del ripercorrimento della memoria tramite i miei acchiapparicordi, potrebbe anche accadere che i vostri desideri modifichino il ricordo vero e proprio, per renderlo più piacevole e sopportabile.
Voi volevate consumare un tale rapporto col vostro amante proibito, Judith, vero? – le domandò la bionda, alzandole il mento verso di lei.
- Sì.. lo volevo..
- Allora come mai vi state lamentando tanto?
- Perchè non è questo il modo in cui lo volevo.. egli è una bestia.. mi sta trattando come una bestia... – ansimò Judith, tra un urlo di dolore e l’altro.
- Povera bambina. Siete stata voi a voler rivivere i vostri ricordi traumatici e celati per scoprire come siete stata ingravidata.
- Non può essere accaduto in questo modo...
- Perchè no? Perchè vi sta facendo soffrire? Lo sapete che si può rimanere incinta anche se il rapporto non è piacevole, vero? – le disse in tono di scherno.
A ciò, Judith, seppur dolorante, le prese il viso tra le dita e glielo sbattè a terra con violenza.
- Non voglio rivivere questo dolore... – sussurrò la rossa, avvertendo le mani fameliche e smaniose dell’uomo dietro di sè stringerla ancora più forte, fino a perforarle la carne.
- Allora trovate un modo per renderlo più piacevole.. – le rispose Imogene per nulla turbata, rialzando il volto e sputando la terra che le era entrata in bocca.
A ciò, qualcosa nel sogno cambiò prima che Judith fu in grado di realizzarlo: Imogene non era più dinnanzi a lei, bensì dietro di lei, al posto di Naren.
Ora era la donna a stringerle i fianchi e a sovrastarla, violandola con le dita.
La bionda le prese il viso e la rigirò verso di lei, sorridendo trionfante. – Dunque è questo che desiderate, bambina? Che io sia al posto di quel servo del Creatore? Questo è il vostro modo di migliorare il vostro sogno? Non potrei esserne più onorata – le disse la sciamana avventandosi sulle labbra della ragazza smaniosamente famelica e stringendole i fianchi nudi, nivei e morbidi.
Dal canto suo, Judith divaricò le gambe per imprigionarla tra le sue cosce, le strinse i capelli tra le mani e ricambiò vogliosamente il bacio, senza il minimo pudore.
Ora che Naren era sparito dal suo ricordo, si sentiva famelica.
Si lasciò saggiare, toccare e stringere lussuriosamente da quelle mani e da quella lingua che prometteva meraviglie inaudite, gettando la testa all’indietro e gemendo a bocca spalancata, con il volto stravolto dal piacere, fin quando la sua voluminosa chioma scarlatta non toccò l’erba, fondendosi con essa.
Tremò, tremò indecentemente quando raggiunse il culmine grazie alle dita e alla lingua della donna, sentendo tutti i nervi e i muscoli contrarsi, danzando con il ventre come un serpente, mentre la vista le si appannava.
Si sentì libera. Libera, completa e appagata come non lo era mai stata.
La fanciulla riaprì gli occhi ansimante, ritrovandosi tra le confortevoli lenzuola di seta del suo letto.
Nella stanza vi era un forte odore di erbe bruciate.
Judith alzò la testa dal cuscino ed individuò la figura di Imogene, seduta in mezzo alla stanza, circondata da candele accese, intenta a bruciare alcune bellissime piume.
- Com’è andata? – le domandò la donna.
- Per quale motivo lo chiedete, se eravate con me nel mio ricordo, poco fa?
Imogene le rivolse uno sguardo malizioso, fissandola dal punto in cui si trovava. – Dalle vostre guance rosate deduco che vi è piaciuto almeno quanto è piaciuto a me. Vi ricordo che siete stata voi a volerlo. La vostra mente mi ha voluto al posto del servo del Creatore.
- Il servo del Creatore ha un nome.
- Sì, lo so bene che il servo del Creatore che vi ha stuprata ha un nome – affermò senza mezzi termini.
Judith si strofinò il volto frustrata. – Sembra che, per quanto tenti, io non riesca mai a venirne a capo...
- Avete fatto molti passi avanti, in realtà: il vostro amante proibito vi ha stuprata nel bosco. Cos’altro volete sapere? – le domandò la sciamana rialzandosi in piedi e avvicinandosi di qualche passo al letto.
- Ha detto che sono stata io a chiederglielo. Io non avrei mai potuto chiedergli di fare una cosa del genere, la mia razionalità me lo avrebbe impedito. Sono sempre stata io la più responsabile tra i due, la più coscienziosa. Motivo per cui non ha il minimo senso che io gli abbia chiesto di violarmi, soprattutto in mezzo al bosco..!
Inoltre: perchè eravamo nel bosco? Cosa stavamo facendo? Perchè eravamo circondati da persone che fornicavano come noi in mezzo al nulla? – si domandò la ragazza infilandosi le mani tra i capelli e sospirando.
- Tempo al tempo, Judith.
- L’unica cosa che ho scoperto “grazie” alla vostra mania di invadere i miei ricordi stimolati da voi, è che non sono indifferente alle attenzioni di una donna – affermò la rossa pungente, alzando il volto verso di lei.
- Mi date la colpa per le vostre voglie?
- No, Imogene. Al contrario di ciò che pensate, non è così sconvolgente per me scoprire di sentirmi attratta da una donna.
- Vi è già successo in passato? – le domandò sedendosi sul suo letto, curiosa.
- No. Ma non la ritengo una perversione come invece la considerano i monaci. Non mi fa sentire sbagliata con me stessa.
- Avete la mente più aperta di quanto pensassi, bambina.
Ditemi, l’unico uomo di cui siete mai stata attratta è il vostro ripungnate servo del Creatore con cui avevate una relazione proibita?
Perchè se così fosse, avete dei gusti alquanto osceni, lasciatemelo dire.
A ciò, Judith si lasciò andare ad una risata divertita e colma di sarcasmo. – Davvero credete che io non sia mai stata attratta da nessun altro uomo? Ditemi, che concezione avevate di me quando mi avete studiata a distanza, “sapiente” Imogene? Che io fossi votata a Dio come una monaca e non possedessi desideri carnali?
La sciamana si zittì, colta in fallo.
A ciò, Judith continuò: - Volete primo e secondo nome di tutti gli uomini che mi hanno attratta nel corso della mia vita? Ne sono molti, vi avverto. Nessun viso mi lascia indifferente, brutto o bello che sia, specialmente se maschile.
- Bene, buono a sapersi – commentò neutra la bionda. – Ad ogni modo, non avete notato un dettaglio strano nel vostro controverso ricordo?
- Che cosa?
- Il vostro amante vi ha presa da dietro. Non è strano l’atto in sè e per sè, quanto più il fatto che, essendo il primo rapporto intimo tra voi due, come prima cosa voi abbiate scelto di farvi prendere da dietro, invece che optare per la “via più facile” e naturale.
Inoltre, il rapporto anale viene considerato osceno e peccaminoso dai monaci, giusto?
Specialmente agli occhi dei servi del Creatore, se non erro, i quali cercano di evitarlo.
E poi, cosa più importante: non si può ingravidare una donna prendendola da dietro.
- Alcune vostre obiezioni sono giustificabili: potrebbe essere che mi abbia presa da dietro solo in seguito, e che la mia mente ricorda più facilmente solo il rapporto da dietro in quanto è stato più doloroso e sgradito.
- È stato davvero completamente sgradito per voi?
A tale domanda, le guance di Judith divennero nuovamente rosate. – No.. inizialmente non lo era. Inizialmente ricordo un grande piacere. Un piacere enorme, che non avevo mai provato prima. Poi il tutto è degenerato.. non ricordo altro. È tutto così tremendamente confuso...
- La cosa più saggia sarebbe parlarne con lui, non credete?
- No – rispose categorica Judith. – Non metterò da parte il mio orgoglio. Lo scoprirò da sola, non mi serve il suo aiuto – pronunciò alzandosi in piedi, dando sfoggiò del suo bellissimo corpo nudo e infilandosi una lunga vestaglia bianca. 
 - Cosa avete da dire riguardo al fatto che per i servi del Creatore è considerato un atto peccaminoso prendere una donna da dietro? – insistette Imogene, ancora seduta sul letto.
Judith vi riflettè su.
Effettivamente, tutto ciò risultava davvero strano.
Specialmente per un fatto interessante di cui non aveva accennato nulla a Imogene: la costante percezione che il suo corpo, nel sogno, non fosse davvero il suo.
Una sensazione a dir poco sbalorditiva, strana e surreale al contempo.
Quasi come se il modo in cui era formato il suo corpo fosse diverso, molto diverso dal solito, così come i punti di maggior piacere erano situati in zone che ... non riconosceva.
Un dubbio iniziò a tartassarle la mente, ma era un’ipotesi troppo stravagante per venire formulata ad alta voce.
Prendere una donna da dietro era considerato peccaminoso ma... nei rapporti tra uomini è l’unica cosa da fare.
- Dove state andando? – le domandò Imogene, quando la vide iniziare a vestirsi e ad allacciarsi il corpetto.
- Devo vedere una persona – le rispose lapidaria.
Imogene non le face altre domande e la lasciò andare, restando nella sua stanza.
Judith scese la scalinate, percorse il corridoio tra le due navate e uscì dalla cattedrale, incontrando il sole placido del mattino.
Davanti al portone, una ragazza con un mantello color castagna la attendeva.
- Buongiorno – la salutò Judith, attirando la sua attenzione.
- Buongiorno a voi – le rispose Hinedia, sorridendole timidamente.
- È tanto che mi aspettate?
- No, sono arrivata giusto dieci minuti fa – le rispose la fanciulla, prendendo a camminare a fianco a Judith.
Il villaggio pullulava di vita e di vociferare ora che le ore mattutine non erano più così gelide.
- Sta arrivando la primavera – commentò Judith accennando un sorriso, osservando alcuni bambini che giocavano tra i banconi del mercato.
- Già – confermò Hinedia inspirando il profumo delle spezie e dei fiori di una bancarella lì di fianco. – Vi sto portando in un posto.
- Ah sì? Che posto?
- Un posto che, forse, vi farà tornare in mente alcuni ricordi.
- Ora mi avete incuriosit- Judith non riuscì a terminare la frase che qualcuno le andò a sbattere contro, facendola barcollare.
- Oh, mi spiace tanto! State bene?? – le domandò mortificato il ragazzo che l’aveva urtata mentre trasportava una botte, un giovane servo del Diavolo dai capelli ricci e corvini.
- Oh, non fa niente, non preoccupatevi – lo rassicurò Judith accennandogli un sorriso gentile.
- Ne siete sicura? Vi ho fatto male?
- Affatto, davvero, sto bene.
- Bene, ne sono felice – rispose lui sorridendole impacciatamente, ancora mortificato, raccogliendo la botte da terra. – Allora.. buonagiornata!
- Anche a voi!
Detto ciò, ognuno riprese la sua strada.
Hinedia, di sottecchi, notò che il ragazzo si fosse voltato di nuovo per guardare Judith e non riuscì a trattenere un genuino sorriso nell’accorgersene.
- Si è voltato a guardarvi di nuovo – le sussurrò accostandosi un poco a lei.
- Ah sì? – domandò Judith, per nulla sorpresa.
- Dovrete esserci abituata.
Judith vi riflettè su.
Lo era, fin da bambina, ma per ogni serva del Diavolo era così, era alquanto naturale sentirsi osservate e ammirate.
A situazione inversa, invece? Per lei era naturale guardare i ragazzi, quando passeggiava?
Judith si guardò intorno, provando a concentrarsi su coloro che attiravano di più la sua attenzione nella folla: ve ne erano per tutti i gusti. Biondi, castani, dai capelli scuri, dai capelli rossi, dagli occhi chiari, dalla pelle ambrata o pallida.
Judith si rese conto solo in quel momento di quanto non prestasse attenzione agli uomini, nella quotidianità, o meglio.. a quanto non prestasse attenzione agli uomini in quel senso.
Si rese conto solo in quell’istante che, da quando conosceva Van Naren, non aveva più guardato nessun altro oltre lui.
Certo, c’era da dire che non era mai stata una persona in cerca di qualcosa o di qualcuno che potesse completarla.
La relazione con Naren era semplicemente capitata, ed era stata la cosa più sbagliata che le potesse accadere, ma non aveva potuto fare a meno di rimanerne invischiata.
Se provava ad indagare le motivazioni dietro a ciò, non riusciva ad indentificarle con certezza: una ragazza indipendente come lei, come aveva potuto cadere tra le grinfie dell’amore? Per di più, di un amore impossibile?
A parte tutto ciò, fu felice di sentirsi, per la prima volta dopo tanto tempo, libera.
Libera di guardare anche altri uomini all’infuori di Naren, e non perchè prima non lo fosse, ma semplicemente perchè non se ne accorgeva neanche.
Ora, invece, ora che aveva avuto un assaggio del sesso, del sesso vero, soprattutto grazie ad Imogene, iniziava a chiedersi come fosse, condividerlo con qualcuno che non fosse l’uomo di cui credeva di essere innamorata da quasi un anno.
Si riscosse dai suoi pensieri nel momento in cui Hinedia le disse che erano arrivate.
- Di chi è questa casa? – le domandò la rossa, confusa e incuriosita.
- Qui dentro vi abita una bambina, una bambina con i suoi genitori. Il suo nome è Jydaline Gwen.
- Questa bambina.. ha un significato particolare per me?
Hinedia abbassò lo sguardo e annuì mesta, come se qualcosa la turbasse, quasi come stesse per piangere.
- Hinedia... – provò a richiamarla con tatto, poggiandole una mano sulla spalla. – Che vi succede?
- Vi prego. Vi prego, entrate, Judith. Vi garantisco che ne varrà la pena. I bambini che sono dentro quella casa... vi riempiranno il cuore di gioia, e forse... con il loro immenso affetto e amore nei vostri confronti, riusciranno a farvi tornare un po’ dei vostri preziosi ricordi .. – le disse la serva del Creatore, guardandola con un sorriso doloroso e le lacrime agli occhi.
Judith comprese che vi fosse qualcosa, un ricordo, che addolorava profondamente Hinedia, ma preferì non approfondire, per il momento.
- D’accordo.. voi entrerete con me?
- No, vi aspetterò qui fuori – le disse fermamente, cercando di nascondere la tristezza che la affliggeva.
Judith annuì e si avviò verso la porta, bussando.
Dopo qualche secondo la porticina si aprì e la madre di Gwen la fece entrare, accoglienadola con un grande sorriso.
Hinedia la aspettò lì fuori per tutto il tempo, immaginandosi, ogni secondo che passava, come potesse essere riabbracciare i bambini, uno per uno, senza il fardello della profonda vergogna che portava sulle spalle.
Dopo circa un’ora, Judith uscì dalla casa, andandole incontro con un sorriso ad illuminarle il volto meraviglioso.
- Hinedia, eccovi.
- Com’è andata?? Avete ricordato qualcosa?? I bambini.. cosa vi hanno detto?
- I bambini vogliono vedervi, Hinedia.
Quella frase la fece congelare sul posto, portandola a sgranare gli occhi all’inverosimile.
- C-cosa...?
- I bambini. Vogliono vedere anche voi. Ho detto loro che mi avete accompagnata. Gwen ha chiesto di voi.
No... non poteva essere.
Non poteva crederci.
Doveva star vivendo un sogno... solo un bellissimo sogno...
- Gwen... ha chiesto di me? – ripetè, sull’orlo delle lacrime.
Judith annuì dolcemente, posandole le mani sulle spalle, incoraggiante. – Io.. putroppo non ho ricordato nulla. Ma i bambini mi hanno raccontato tutto... mi hanno raccontato dello spettacolo, del copione, delle settimane di prove e di preparazione, di quanto ci siamo divertiti tutti insieme, di quanto sia stato bello il risultato finale... sono stata davvero, davvero felice. Ora, però, è il vostro turno.
Andate da loro, Hinedia.
Io vi aspetterò qua fuori.
- Io... non so se ne sono degna... ho commesso un gesto davvero orribile, Judith.
- Hinedia, ve lo ripeto: hanno chiesto di voi e vogliono vedervi.
Perciò andate, andate prima che vi trascini io lì dentro – scherzò Judith per smorzare la sua agitazione.
A ciò, Hinedia, ricolma di felicità come non lo era mai stata, si avvicinò alla casa, bussando.
Ciò che non si aspettò, è che fosse proprio uno dei bambini ad aprirle: il bellissimo volto di Kilian si palesò ai suoi occhi, guardandola dal basso mentre sgranava i suoi occhioni.
- C’è Hinedia! – urlò il bambino, senza neanche lasciarle il tempo di entrare, sorprendendola.
A ciò, una mandria di altri cinque bambini accorsero all’entrata e si fiondarono su di lei, stringendola fino a stritolarla.
Tutto si sarebbe aspettata la ragazza, tranne quella commovente e calorosa accoglienza.
Credeva che non volessero mai più vederla, Gwen ed Edith soprattutto.
E invece... invece sembrava che per loro non fosse successo nulla.
Sembrava quasi che per quei piccoli angeli ogni suoi peccato fosse stato assolto.
Non aveva parole per descrivere le emozioni che provò.
Era senza fiato.
Li strinse tutti a sua volta, inglobandoli e benedicendo il Creatore per averle donato tante gioie in una sola giornata, il perdono dei bambini e la compagnia di Judith, tutto insieme.
Per la troppa commozione credette che il suo cuore non avrebbe retto.
Si lasciò andare ad un toccante pianto liberatorio mentre li abbracciava, sentendoli ridere di gioia tra le sue braccia.
- Ci sei mancata tanto! – esclamò Jogger.
- Dov’eri finita?? – le domandò May.
- Basta piangere ora – la esortò dolcemente Sorie, asciugendole le lacrime con le dita, atteggiandosi come la piccola donna che era.
Hinedia si accorse che solo un bambino (a parte Gwen), mancasse all’appello: di Ioan non c’era traccia.
- Sbaglio o manca qualcuno? – pensò a voce alta mentre continuava a stritolarli nel suo abbraccio.
- Hai visto bene! Manca il nostro Superbia! Ultimamente ha avuto dei problemi familiari, perciò non è potuto venire – le rispose Kilian.
Hinedia annuì, immaginando grossomodo quale fosse la ragione della sua assenza, avendo udito le voci che riguardavano il tentato suicidio di Heloisa.
Tuttavia non potè fare a meno di sorridere intenerita, nel notare che i bambini non avevano perso quella buffa abitudine di chiamarsi tra loro usando i nomi dei rispettivi vizi capitali.
Judith doveva averlo trovato molto divertente.
- Gwen ti aspetta dentro – la informò Dionne. – Si è ripresa ma è ancora un po’ debole, perciò è a letto.
- Noi le siamo rimasti vicini quasi ogni giorno, venendo qui a casa sua e portandole molti doni – le disse Edith.
- Accompagnatemi da lei.. – acconsentì Hinedia, ancora con la voce rotta dal pianto.
A ciò, Kilian e May la presero per mano e la condussero nella cameretta della piccola Invidia.
Quando Hinedia fece il suo ingresso nella sua stanza, le lacrime riniziarono a pizzicarle violentemente gli occhi scuri.
- Gwen...? Posso?
Nell’udire la sua voce e nello scorgere la sua figura, la bambina alzò la testa insonnolita dal cuscino e spalancò gli occhi per la sorpresa.
A grande sollievo della serva del Creatore, la piccola le sorrise e le fece segno di avvicinarsi al letto.
Hinedia obbedì e si sedette accanto al suo giaciglio.
- Sei venuta a trovarmi – commentò la bambina, sorridendole incoraggiante.
Aveva la testa ancora fasciata, ma, a parte ciò, sembrava in salute: i suoi capelli erano cresciuti, le sue guance erano rosee, i suoi occhi luminosi e non vi era traccia di stanchezza nel suo splendido visino.
- Sì... scusa. Scusa per averci messo tanto.
Io... – si bloccò, dovendo trovare il coraggio per parlare. – Io credevo che tu mi odiassi. Che non volessi più vedermi.
- Hinedia – la richiamò con fermezza la bambina, spingendola a guardarla in viso. – Lo so che non eri davvero tu quella che ha spinto me ed Edith giù dal palco. I monaci ci hanno detto della tua crisi. Che sei stata male anche tu e che non ti risvegliavi. Ci hanno detto tutto.
Io non sono arrabbiata con te.
Nessuno è arrabbiato con te – le disse posandole la manina sulla sua e stringendogliela.
A ciò, Hinedia, non reggendo più tutta la commozione, si lasciò andare di nuovo ad un pianto liberatorio, baciando più e più volte la mano di Gwen.
- Grazie. Grazie, grazie, grazie, grazie... – ripetè tra un bacio e l’altro, quasi fosse un mantra.
Gwen rise e la lasciò fare.
Restarono a parlare ancora un po’, fino a quando, ricordandosi della presenza di Judith che l’attendeva fuori dalla casa, Hinedia non decise di congedarsi, con la promessa che sarebbe tornata a trovarla con gli altri bambini, e che la prossima volta avrebbero cercato di portarsi anche Ioan: a quanto pareva, lui e Gwen avevano legato molto, sia durante lo spettacolo che durante la guarigione di Gwen, tanto che quest’ultima arrossiva come un bocciolo di rosa ogni volta che parlava di lui.
Ma prima che Hinedia uscisse dalla camera, Gwen le afferrò la mano e le fece segno di avvicinarsi a lei, per sussurrarle un’ultima cosa all’orecchio:
- Riportaci anche Judith. Falle tornare i ricordi. Riportala da noi – le chiese, e Hinedia non potè fare a meno di prometterglielo, di giurarglielo con fermezza.
Salutò anche gli altri bambini e uscì dalla casa.
Il resto della mattinata lo trascorse con Judith, a mangiare fragole e ciliegie, e a parlare di qualsiasi cosa venisse loro in mente, passeggiando beatamente.
Per alcuni istanti, a Hinedia parve di star parlando con la vecchia Judith, con la sua cara amica che possedeva ancora tutti i ricordi preziosi che avevano accumulato insieme. Ma quella sensazione durava solo un attimo, in quanto poi Hinedia accennava involontariamente a qualcosa del passato e puntualmente Judith non sapeva di cosa stesse parlando.
Nonostante ciò, si divertirono molto, e per la prima volta dopo tanto tempo, Hinedia si sentì leggera.
Leggera e felice.
Per Judith fu lo stesso. Ed era raro che accadesse con una sconosciuta. Per questo non faticava affatto a credere che quella ragazza fosse stata davvero sua amica prima della perdita della memoria.
Sembrava conoserla da sempre.
Hinedia stava gustando una fragola seduta su una bancarella vuota, accanto a Judith.
Si voltò a guardare quest’ultima e la trovò intenta a sporcarsi le labbra con il succo della succulenta ciliegia che stava mangiando con gusto.
La serva del Creatore sorrise, sentendo un ulteriore peso levarsi dal suo cuore sempre più leggero.
- Sapete.. è bello vedervi gustare del cibo così spensieratamente – commentò, vedendo Judith voltarsi verso di lei a sua volta e guardarla con un sorriso confuso, in cerca di delucidazioni.
- C’è stato un periodo.. un periodo non troppo lontano, in cui avevate smesso di mangiare.
- Cosa...? Parlate sul serio?
- Sì... è stato orribile guardarvi deperire. Eravamo tutti molto preoccupati per voi – la informò Hinedia.
- Sapete... perchè lo avessi fatto? – le domandò Judith, faticando a metabolizzare appieno quella notizia.
- Perchè, inconsciamente, volevate sbarazzarvi del vostro bambino, suppongo – rispose sinceramente Hinedia, sperando di non destabilizzarla e intristirla troppo.
- E credevo che con questo metodo a dir poco brutale e... barbaro, sarei riuscita ad.. uccidere il bambino che porto in grembo? – domandò con voce addolorata, stupita e delusa da se stessa.
- Judith, ora è passato. Poi vi siete ripresa ed ora state bene – la rassicurò Hinedia sorridendole. – Questo è l’importante.
La rossa le accennò un sorriso, asciugandosi il succo di ciliegia dal mento con un fazzoletto di seta. – Vorrei farvi una domanda.
- Tutto quello che volete – le rispose Hinedia prendendo in bocca un’altra piccola fragola rossissima.
- Voi siete innamorata?
Quella domanda improvvisa fece strozzare la serva del Creatore col suo proprio boccone, facendo preoccupare e al contempo ridere Judith, la quale si tranquillizzò quando vide l’amica inghiottire con affanno la fragola e cercare di regolarizzare il respiro, con la faccia palesemente affaticata e imbarazzata insieme.
- Deduco di sì... dalla vostra bizzarra reazione. Oppure è decisamente un tasto dolente – commentò Judith continuando a sorriderle di sottecchi. – Mi rendo conto solo ora che è una domanda che non pongo mai a nessuno. Forse un po’ troppo intima e un po’ strana da porre alla nostra prima uscita. Perdonatemi.
- Oh, no, no, non è quello... non siete stata inopportuna! – si scusò Hinedia, cercando di trovare le parole giuste e di non prendere a balbettare per l’imbarazzo, come sempre le accadeva quando parlava di argomenti simili. – È che.. sono promessa. Ben presto mi sposerò – rispose, cercando di giustificare in tal modo la sua impacciatezza.
A tal notizia Judith sgranò gli occhi. – Oh, non ne avevo idea! E com’è lui?
- A dir la verità lo conoscevate.
- Ah sì? Non conosco molti servi del Creatore.
- Era.. un vostro amico. Il suo nome è Van Naren.
Nell’apprendere tal notizia Judith pietrificò.
Hinedia tentò di comprendere dove avesse sbagliato, notando una reazione tanto contrariata, ma non riusciva davvero a capire come mai quella nuova Judith avesse reagito così. – Ho detto... qualcosa di sbagliato? – tentò.
- Cosa..? No, no, affatto – cercò di riprendersi dalla sorpresa e dall’evidente stato di confusione e di delusione Judith.
Tuttavia, la tremenda sensazione di tradimento che le era piombata sullo stomaco non se ne andava.
“- Arley, io sto per sposare un’altra donna.
- Chi è?
- Una serva del Creatore, ovviamente.
- La conosco?
- Non ti ricordi più di lei, suppongo.”
Ora i pezzi iniziavano a combaciare.
Eppure... non poteva, non riusciva a provare rancore nei confronti di Hinedia.
Lei non aveva alcuna colpa.
La colpa era la loro, di lei stessa e di Naren, per aver violato le leggi di Bliaint. Di nessun altro.
Hinedia era una sconosciuta per lei al momento, eppure vedeva chiaramente quanto fosse puro il suo cuore.
- Perdonate il mio spaesamento. È che non credevo che vi steste per sposare, tutto qui – cercò di giustificarsi Judith, riprendendo il suo sorriso sereno, cercando di non far trasparire nuovamente il suo stato confusionale.
- Se posso confessarvi qualcosa, tuttavia.. – cercò di destare la sua attenzione la serva del Creatore, indecisa se rivelarle tale informazione su cui aveva meditato negli ultimi tempi. – Non lo amo.
Tale notizia sorprese Judith, ma meno di quanto si aspettasse.
Era quasi come se lo immaginasse.
- Allora perchè lo state sposando? – la domanda nacque spontaneamente, così come la risposta, che Judith era certa di conoscere già, e ne ebbe conferma quando Hinedia gliela diede:
- Ho l’età giusta per sistemarmi. Se superassi i diciott’anni sarei considerata “troppo vecchia” per sposarmi. Non che non potrei comunque farlo, ma sarebbe più difficile per me trovare un marito – disse rigirandosi il cesto di vimini con le fragole all’interno tra le dita.
- E a voi sta bene?
- Cosa?
- Sposare un uomo che non amate?
- In molti dicono che l’amore non è immediato. Mia madre spesso dice che l’amore nasce col tempo, man mano che si trascorre molto tempo con una persona.
Spesso l’amore tra due coniugi sorge solo dopo il matrimonio.
Non so se per me sarà così.
- È vero – rispose Judith puntando gli occhi verso l’orizzonte. – Ma non vale per tutti. Se credete che lui sia una persona meritevole e avete fiducia in lui.. dovreste tentare e sperare che sia così. In ogni caso, anche se non nascesse l’amore tra voi, vi sarebbe comunque il rispetto reciproco.
Hinedia vi riflettè su. – Mi trovo bene con lui. È un giovane che si adopera, a cui piace provvedere ai bisogni della famiglia, che si interessa a me – disse. – Posso farvi io una domanda? – aggiunse all’improvviso, mordendosi il labbro.
- Sì, certo.
- Cosa si prova a ... giacere con qualcuno?
Stavolta fu Judith a sussultare per la sorpresa. Alzò un sopracciglio e si voltò a guardarla.
La risposta a quella domanda non era poi così semplice...
Si poteva dire che avesse giaciuto con Imogene?
Non sapeva dirlo con certezza, ma sicuramente erano diventate molto intime.
Si poteva dire che avesse giaciuto con Naren?
Certo, lui l’aveva persino ingravidata, ma lei non ricordava niente dell’accaduto, se non frammenti di ricordi sfocati e distorti.
Dunque, cosa si provava...?
D’altra parte, Hinedia temette di aver azzardato troppo.
Il pensiero di Blake la colpì come una cascata in un deserto.
Aveva dato per scontato che, nonostante Judith non si ricordasse di Blake, sicuramente avesse avuto altri uomini prima di lui.
Lo aveva dato per scontato... come una sciocca.
Forse, per un istante, aveva addirittura creduto che, per qualche ragione, Judith ricordasse come fosse assaporare i piaceri e le gioie della lussuria con Blake.
- Judith, mi dispiace. Se non volete rispondere lo capisco – si affrettò a dire.
- No, non è così. 
Sapete, avete toccato un argomento che, a dir la verità, mi sta turbando da questa mattina presto.
- Davvero?
Judith annuì. – La sciamana che sto ospitando alla cattedrale mi sta aiutando a riacquisire un po’ di ricordi - le rivelò. – C’è stata una notte in particolare – Judith si stava addentrando in un terreno pericoloso nel rivelarle tali informazioni.
Per quanto provasse ancora dei sentimenti per Naren, non avrebbe mai rovinato il rapporto che vi era tra lui e Hinedia, per l’affetto che nutriva per Hinedia.
Tuttavia, la ragazza meritava anche di sapere con che tipo di uomo si stava per sposare.
Un uomo capace di stuprare una serva del Diavolo, un uomo con un istinto animalesco talmente prevalente su quello razionale, da essere incapace di fermarsi nel momento in cui lo si supplica di fermarsi.
Un uomo incapace di vedere il dolore nel volto della donna che sta possedendo, e che afferma di amare.
Hinedia meritava di meglio.
Judith stessa meritava di meglio.
- Judith, sento che mi volete dire qualcosa ma che vi state trattenendo – la incoraggiò Hinedia, con un pizzico di impazienza. – Narratemi.
- Ricordo vagamente una notte in cui era presente anche il vostro promesso, Van Naren.
Lui ha... – non riuscì a pronunciarlo e si bloccò.
- Lui ha..? – la incalzò Hinedia.
- Ha violentato una serva del Diavolo – evitò accuratamente di dire che si trattasse di lei stessa. – L’ho visto distintamente, ma i miei ricordi sono comunque molto vacui al momento.
Il volto della serva del Creatore era sconvolto, ma in esso non vi era pizzico di delusione, di rancore o di risentimento.
Solo del profondo sconcerto.
- Lo avete visto.. mentre violava una serva del Diavolo? – ripetè Hinedia, ricordando dettagliatamente e con disgusto, la volta in cui Naren aveva provato a convincerla a giacere con lui, famelico e impaziente, con le sue dita frementi e smaniose, quando ancora non erano promessi.
Quella tremenda informazione non le risultò così strana come credeva, alla fin fine.
Eppure, quello era l’uomo che stava per sposare, consensualmente.
Judith, preoccupata della sua reazione, si voltò verso di lei. – Hinedia, non era mia intenzione sconvolgervi. Voglio solo che parliate con lui, per chiarire la cosa. Desidero che siate consapevole a chi state andando in sposa. Null’altro.
- Ditemi cosa avete visto – la spronò Hinedia, curiosa di sapere. – In modo che io possa avere una visione più chiara dell’accaduto.
- Non ricordo con esattezza. Tuttavia ho una vaga e conturbante sensazione che mi vortica nella mente da questa mattina.
- Che sensazione?
- Non chiedetemi come mai sento sia così, in quanto i ricordi che riesce a riportarmi alla luce Imogene sono soffusi e strani da interpretare.
Eppure, sento che Naren abbia commesso anche un altro ignobile peccato.
- Che peccato?
- Credo abbia violentato anche un ragazzo.
Hinedia schiuse la bocca per la sorpresa, i suoi occhi erano due biglie spalancate ed esterrefatte.
Al solo udire tutte quelle probabili nefandezze compiute da Naren, percepiva già Layla scalpitare dentro di sè, per uscire fuori.
Non era affatto un buon segno.
Nè Layla nè Agnes sarebbero dovute emergere in quel momento.
Per nulla al mondo.
- Vorrei chiedervi qualcosa in più, Judith. Ma immagino di dovermi basare solamente sul vostro istinto..
- Purtroppo sì. Si tratta solo di una sensazione, una sensazione molto vivida e reale. Magari lui vi negherà tutto e avrete la conferma che non ha fatto ciò che vi ho detto. Magari è la mia mente che gioca brutti scherzi...
- O magari avete ragione – affermò Hinedia con dura serietà. – Forse, sto andando in sposa ad un ignobile della peggior specie e dovrei fermarmi ora che sono ancora in tempo.
Judith, voi avete idea di dove si trovasse Naren nel vostro ricordo?
- Eravamo nel bosco, era buio.. era pieno di servi e serve del Diavolo intorno a noi, con la mente annebbiata, forse dal vino, forse da qualche sorta di incantesimo. Naren era l’unico servo del Creatore presente. Per lo meno questo è quello che sono riuscita a carpire dal mio soffuso ricordo.
Hinedia vi pensò su, concentrandosi.
In quale tipo di circostanza i servi del Diavolo si riunivano tutti insieme, bevevano e si sottoponevano ad incantesimi di varia natura?
- Potrebbe essere stata... una celebrazione? Una celebrazione, un festeggiamento per qualcosa – ipotizzò la serva del Creatore, sempre più confusa.
- Può essere.
- Tuttavia.. com’è possibile che Naren si sia infiltrato ad una celebrazione dei servi del Diavolo? Non ha alcun senso.
Judith tacque, pensando al fatto che l’unico motivo che poteva aver spinto il suo amante proibito ad imbucarsi ad una tale celebrazione, fosse la presenza di lei stessa.
- Dobbiamo scoprire chi altro ha partecipato a quella celebrazione – disse improvvisamente, facendo annuire Hinedia. – Se riuscissimo a parlare con tutti i presenti o con la maggior parte... capiremmo qualcosa in più.
- Sono d’accordo.
Mi siete stata molto d’aiuto oggi, Judith – disse Hinedia, alzandosi, con l’intenzione di congedarsi: per quanto il tempo trascorso con la sua amica la stesse rigenerando, la smania di parlare il prima possibile con Naren era troppa. – Sono stata davvero bene con voi. Come sempre – le disse, sorridendole felice, vedendola ricambiare con gentilezza.
- Anche io, Hinedia. Venite da me quando volete.
Io vi accoglierò sempre.
- Senza dubbio.
Ora riposate e fate riposare anche il vostro bambino.
Io parlerò con Naren e vi darò notizie.
- Anche io cercherò di carpire quanti più ricordi possibili di quella notte e, eventualmente, anche di scoprire chi fosse presente.
Le due annuirono, e con quella tacita promessa tra sorelle, ognuna proseguì per la sua strada.
Giunta dinnanzi alla porta della bottega del suo promesso sposo, Hinedia bussò, attendendo.
Dopo qualche minuto, Naren aprì la porta, rivolgendole uno dei suoi sorrisi gioiosi.
Il ragazzo si pulì la fronte imperlata di sudore e la accolse. – Vieni, mia cara. Entra.
- C’è una cosa di cui ti devo parlare.
- Di cosa si tratta?
- Di una celebrazione dei servi del Diavolo alla quale hai partecipato.
Cosa è accaduto quella notte?
 
 
Heloisa venne svegliata dal suo sonno da un leggero bacio sulla fronte.
La donna aprì gli occhi e venne invasa dalla luce del giorno, mentre una mano calda le carezzava il ventre e i fianchi da sopra le coperte.
Si voltò verso quell’odore familiare, trovando suo marito intento a guardarla e a carezzarle la guancia, come non faceva da mesi.
Rolland le sorrise, illuminandola con i suoi bellissimi occhi e con il suo sguardo dolce.
Heloisa sorrise di rimando, sentendosi bene, non potendo fare a meno di sentirsi bene.
Lo amava. Lo amava ancora e lo avrebbe sempre amato.
Quella era la sua condanna, e ne era ben consapevole, quanto era incapace di contrastarla.
Si beò di quel contatto chiudendo gli occhi e sospirando, trattenendosi dallo sbadigliare.
- Come ti senti? – le domandò lui con voce vellutata.
- Bene. Molto meglio oggi – gli rispose sinceramente, giocando con le dita della mano affusolata di suo marito.
Nonostante il duro lavoro alla galleria fin da bambino, le sue dita rimanevano sempre belle, lunghe, immensamente gradevoli da toccare e da guardare.
- Bene. Di là c’è la colazione. Ci ha pensato padre Craig stamani: uova sode, formaggio fresco e marmellata di more.
- Una colazione da regina – commentò scherzosamente, avvertendo già l’acquolina in bocca e un lieve sentore di fame alla bocca dello stomaco. – Ioan?
- Con Quaglia a farsi il bagno al fiume. Non si staccava dalla porta della fucina. Ha dovuto trascinarlo via .. - le comunicò mestamente.
Heloisa rimase in silenzio.
Non avrebbe accennato all’argomento.
Non era il modo, nè il momento.
Rolland si stava finalmente prendendo le sue responsabilità e, dopo la sfuriata con Blake di cui le avevano parlato, sembrava star cercando di recuperare almeno un po’ del tempo perso.
Nulla sarebbe bastato a farsi perdonare gli errori che aveva commesso.
Ma almeno ci stava provando.
Heloisa era sempre stata abituata ad apprezzare ogni singolo sforzo, ogni minimo tentativo di ogni persona accanto a sè, riconoscendolo come un passo avanti, in qualsiasi circostanza: era stata costretta a farlo con la malattia di Ioan, la quale non lasciava intravedere alcuno spiraglio di miglioramento se non impercettibili sprazzi; era stata costretta a farlo con un figlio per lo più apatico e incapace di amarla come Blake, il quale le dimostrava affetto a modo suo, disprezzando i suoi baci e le sue carezze come veleno gettato sul viso.
Dunque ora apprezzava anche gli sforzi di Rolland, di rimediare all’irrimediabile.
Non era il momento di parlare di Blake ora.
Non era il momento di parlare della preoccupazione che li stava divorando vivi, non proprio ora che le ferite sui polsi di Heloisa erano ancora fresce di medicazione.
L’uomo le sfiorò i polsi, con sguardo greve. – Dovremmo cambiare la fasciatura.
- Ci penserà padre Craig. Va’ se devi andare alla galleria, caro. Starò bene – lo rassicurò lei, lasciandosi baciare il palmo della mano, ammirandolo mentre si alzava in piedi, abbandonando il letto.
- Ne sei sicura?
- Certo.
Ma prima che Rolland potesse fare un passo lontando da lei, Heloisa lo richiamò:
- Aspetta.
L’uomo si bloccò, voltandosi nuovamente verso la moglie, in attesa.
A ciò, Heloisa gli prese il polso e lo trascinò giù con delicatezza, portandolo ad abbassarsi verso di lei.
Gli lasciò un bacio sulle labbra, assaporando quella sensazione che le mancava tanto, beandosene.
Quando si distaccarono, Rolland sorrise, e sembrava soddisfatto anche lui di quel bacio rubato e inaspettato, un contatto intimo che non si concedevano più da molto, troppo tempo.
Dopo ciò, Rolland uscì dalla camera e di casa, pronto ad intraprendere la giornata di lavoro.
Padre Craig, intanto, era sin troppo impegnato a non addormentarsi in piedi: per tenersi attivo aveva preparato la colazione per tutti, per Heloisa soprattutto, la quale doveva ancora riprendere completamente le forze dopo ciò che le era accaduto sei giorni prima.
Stava gradualmente riacquistando vitalità: stava uscendo dalla camera, passava del tempo con Ioan, si intratteneva con loro, e usciva addirittura a fare delle passeggiate, talvolta.
In confronto a prima, per quanto fosse tremendo ammetterlo, il tentato suicidio sembrava averle fatto molto bene.
In compenso, lui, invece, sentiva di star deperendo.
Non riusciva più a dormire, nè a mangiare adeguatamente da quando Blake era chiuso là sotto, e da quando Rolland lo aveva velatamente minacciato di stargli lontano.
Non indossava più la sua tunica monacale, non pregava più, si stava addirittura proibendo di andare a trovare Judith.
A tanto lo aveva spinto, quell’estenuante amore?
Sentiva la presenza di Dio sempre più lontana da lui.
Ciò non era affatto un bene.
Almeno, dopo la seconda volta che aveva ceduto alla tentazione di consolarsi tra le braccia e le cosce di Beitris, non vi era stata una terza volta: aveva preferito restare a crogiolarsi nel suo dolore e nella sua angoscia, piuttosto.
Ora, come ogni mattina da quasi una settimana, combatteva contro l’impulso di non cadere addormentato per terra a causa della notte insonne, e di non bruciare quella casa dalle fondamente, solo per costringere Blake ad uscire fuori di lì.
Aggiunse un po’ di burro e spezie al suo stufato, mentre udiva distrattamente dei passi entrare in cucina.
Escluse la possibilità che fossero Quaglia o Ioan: i due erano al fiume, e Quaglia lo aveva informato che, non appena avrebbe terminato di fare il bagno a Ioan, lo avrebbe riportato a casa e poi avrebbe raggiunto Judith alla cattedrale, per passare un po’ di tempo con lei.
Padre Craig non aveva potuto fare nulla a riguardo, se non annuire a quell’assurda speranza e pretesa che quell’infatuazione a tratti morbosa trovasse il suo epilogo nel consenso di Judith.
Escluse anche la possibilità che si trattasse di Rolland, dato che era uscito di casa un attimo prima.
- Buongiorno.
Quella voce carezzevole e per metà insonnolita lo fece voltare verso la fonte: adocchiò un’Heloisa in vestaglia, con i voluminosi ricci rialzati in alto da una spilla, e i sottili polsi fasciati, intenta a stiracchiarsi con raffinatezza.
Oramai persino il voluttuoso e bellissimo corpo di Heloisa non gli provocava più alcun effetto.
Le accennò un sorriso stanco e ricambiò:  - Buongiorno. Prego, sedetevi – la incoraggiò, avvicinandole il piatto colmo di uova, di formaggio fuso e di focaccia.
La donna gli sorrise caldamente, quasi dolcemente, poi prese le posate e iniziò a mangiare con calma, gustandosi ogni boccone: sembrava davvero un’altra persona.
Dopo una quantità di tempo infinita di placido silenzio, in cui Heloisa mangiò guardando fuori dalla finestra e padre Craig si impegnò ad insaporire lo stufato, la donna parlò di nuovo:
- Padre.
- Sì?
- Cosa sapete dirmi di Myriam?
Tale domanda sorprese non poco padre Craig, il quale ormai aveva compreso quanto la donna dinnanzi a sè dovesse odiare la strega nominata.
- Ho sentito dire che i monaci stanno istruendo una strega, avendole fatto intraprendere il percorso per diventare monaca.
La prima strega a diventare monaca.
Ho sentito dire si chiami Myriam – spiegò Heloisa con una calma che spaventò quasi il prete.
- Sì.. è così.
Heloisa poggiò la schiena allo schienale della sedia e posò nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra, osservando un passerotto poggiarsi sul davanzale.
- Me lo sentivo. Sentivo fosse tornata – commentò, non aggiungendo altro.
- Cosa pensate, Heloisa? – le domandò padre Craig, incuriosito da quel comportamento.
- Nulla. Semplicemente che trovo strano il fatto che non abbia ancora tentato di uccidermi.
O che non si sia già messa in contatto con mio figlio – sospirò con calma.
- Sapete.. – riprese dopo qualche attimo di silenzio. – Sto iniziando a credere che la mia “pazzia” sia stata provocata volutamente, e che io non sia la causa del mio male. Credete pure che io abbia delle strane manie di persecuzione, ma sento che è così.
- Non è una percezione strana, la vostra – le rispose con calma il prete.
- Trovate?
Padre Craig alzò le spalle. – Ricordate qualcosa, un evento in particolare, accaduto nel periodo appena prima la vostra crisi?
- In realtà sì. Riesco ad associare l’insorgere della mia violenta crisi ad un episodio specifico.
- Che episodio?
- Ero andata a confessarmi.
Data l’assenza di monaci del Diavolo, sono stata confessata da un monaco del Creatore. Credo che il suo nome sia Cliamon. Padre Cliamon.
- Lo conosco. Continuate.
- Egli.. mi ha detto delle cose orribili, che hanno provocato in me un grave e profondo senso di colpa, legato ad un ricordo lontano – ricordò lucidamente Heloisa. – Non lo trovate strano? Non trovate strano che un monaco dica delle parole tanto pesanti ad una fedele che sta cercando di redimersi, sapendo che il senso di colpa la divorerà irreversibilmente? Per questo credo sia stato voluto.
- Ma... per quale motivo padre Cliamon dovrebbe volervi far del male? – ragionò padre Craig, confuso.
- Me lo sto chiedendo anche io. C’è qualcosa che non mi quadra in tutto questo.
Ho come una strana sensazione...
Sapete se padre Cliamon ha mai avuto contatti con Myriam?
- Non saprei dirlo con certezza. Perchè me lo chiedete? Cosa sospettate?
- Sospetto che c’entri Myriam in questa storia.
Ella avrebbe tutte le ragioni per volermi far impazzire, per volermi morta.
Padre Cliamon invece non ne ha nessuna, a malapena mi conosce.
- Supponete che i due, in qualche modo, siano alleati?
In quel momento, i due vennero interrotti dal bussare alla porta.
Incerto su chi potesse essere, padre Craig andò ad aprire, senza far scomodare Heloisa.
Aprì la porta e sgranò gli occhi nel trovarsi davanti il ragazzone dalle spalle larghe che aveva preso sotto la sua ala ultimamente:
- Ehi, Ambrose.
- Buongiorno, padre.
- Buongiorno a voi. Cosa ci fate qui?
- Sono venuto a portarvi un po’ di latte di capra e della carne fresca da casa mia. Avevate detto di averne bisogno – disse il ragazzo mostrandogli il sacco che aveva sulle spalle.
- Oh, giusto. Quanto vi devo?
- Nulla. Offre la casa. Mia madre vorrebbe incontrarvi da quando sa’ che ho stretto amicizia con voi, padre. Per questo, a maggior ragione, ha voluto farvi questo dono.
- Oh, che premurosa! – commentò il giovane prete lievemente in imbarazzo. – Ma prego, entrate e sedetevi – lo invitò, facendosi da parte per fargli spazio.
- Non vorrei disturbare – rispose il ragazzo, grattandosi la nuca, a disagio nel trovarsi in una casa in cui non era mai stato.
Ma non appena Heloisa scorse la sua reticenza a distanza, si affacciò lievemente dalla sedia su cui era seduta e gli sorrise gentilmente rassicurante: non conosceva quel giovane servo del Creatore, ma l’ospitalità era sempre un requisito d’obbligo in casa sua. Inoltre, era anche un conoscente di padre Craig, perciò era felice di farlo entrare in casa. – Non fate complimenti, giovanotto.
Ambrose, con le guance velate di imbarazzo come ogni volta che si trovava per la prima volta di fronte ad una serva del Diavolo più grande di lui, annuì mestamente ed entrò, senza farselo ripetere, osservando la casa in silenzio.
- Avete una bella casa – commentò.
- Vi ringrazio – gli rispose Heloisa, vedendolo accomodarsi nella sedia che padre Craig aveva lasciato libera per lui.
- Come state? – gli domandò il giovane prete, sedendosi accanto a lui.
- Bene – rispose sommariamente il ragazzo, sforzandosi di sorridere.
Ma Craig capì subito che qualcosa non andasse. – Non siete molto bravo a mentire, Ambrose – lo smascherò bonariamente, mostrando a sua volta la sua debolezza. – Anche io sto soffrendo in questo momento, Ambrose. Non abbiate paura di aprirvi con me.
Tale ammissione colpì in particolar modo Heloisa, la quale lo guardò comprensiva e amorevole.
A ciò, incoraggiato dall’empatia che il prete gli stava mostrando, il ragazzo abbassò il volto, iniziando a torturarsi le dita, e parlò: - Ho.. avuto una discussione con un amico.
- È Folker questo amico?
Ambrose alzò il volto, guardandolo in quegli occhi che sembravano sapere più di quanto pensasse. Annuì, cercando di mantenere un tono quanto più neutro possibile, a fatica. – Non ci parliamo da giorni. Era diventato l’unico. L’unico amico che avevo.
Heloisa si intristì a sua volta, nonostante non conoscesse i trascorsi.
- Ed ora vi sentite perso senza di lui? È così?
- Non è questo. Posso anche farmi nuovi amici, senza problemi – si vantò, non credendoci neanche lui.
- Beh, non si crea un’amicizia solida come la vostra così, da un giorno all’altro. È normale che vi dispiaccia. Non sentitevi strano per questo.
- Ma non credo che anche lui si senta così.
- È quello che credete?
- Credo che lui non mi voglia più vedere.
Ho sbagliato, padre.
Ho sbagliato su tutto.
Non avrei dovuto avvicinarmi a lui, fin dal principio.
- Non dovete dire questo.
Sono certo che anche lui tiene a voi. L’ho notato – lo rassicurò.
- Davvero?
- Ma certo che è così, Ambrose.
Folker è un ragazzo che non ha mai voluto appoggi da nessuno.
Invece, si è affidato completamente a voi.
Questa non è una dimostrazione già abbastanza grande?
Ambrose vi riflettè su. – Il fatto è che ho tradito la sua fiducia. L’ho fatto fuggire via.
- Avete provato ad affrontarlo?
- Ho paura della sua reazione. Ho paura di perderlo.
Padre Craig venne toccato profondamente da quelle ultime parole.
Per qualche assurdo motivo, si immedesimò in quel ragazzo.
Lui viveva nella costante paura di perderli.
Di perdere Blake. Di perdere Judith. Di perdere Blake soprattutto.
Perchè Blake era scostante, era irriconoscente, era cieco di fronte al suo amore.
Valeva davvero la pena vivere in quella costante paura?
Paura di perderlo, paura che si facesse del male, paura che non lo volesse più al suo fianco?
Valeva la pena?
Improvvisamente, non seppe più la risposta a quella domanda.
Prima di quella settimana infernale, credeva di sì.
Credeva che Blake ne valesse la pena, che valesse ogni pena e tortura del mondo.
Ora non ne era più così sicuro.
La sua stima nei suoi confronti non sarebbe mai mutata, mai diminuita.
Tuttavia, forse un’anima come la sua era destinata a rimanere sola, isolata, a volare via, senza essere visto o sfiorato da occhi o pensieri.
Forse era meglio così.
- Non dovete avere paura.
Non vale la vostra preoccupazione, se vi fa vivere perennemente nella paura – rispose ad Ambrose.
- No, mi avete frainteso.
Non vivo costantemente nella paura con lui.. anzi – rispose Ambrose, sorridendo di sottecchi, senza accorgersene. – Con lui mi sento me stesso, mi sento bene. È una sensazione completamente nuova per me.
- Allora che aspettate?
Andate da lui. Parlate con lui.
- Come posso farlo?
- Pretendete la sua attenzione – lo incoraggiò vivamente, con una forza che lui non avrebbe mai avuto.
- E se... e se scappasse di nuovo?
- Non fatelo scappare.
Non intendo con la forza, ovviamente.
Fate in modo che lui vi ascolti.
Ditegli ciò che è nel vostro cuore.
- Ho timore di deluderlo ancora.
- Non lo farete.
Lui vi ascolterà, e se davvero è una persona speciale come credete, rimarrà accanto a voi – terminò il prete, come se, improvvisamente, una strada limpida e vuota si fosse aperta dinnanzi ai suoi occhi, per la prima volta, in tutta la sua vita: la strada del libero arbitrio.
Non sarebbe rimasto accanto a Blake come voleva.
Non avrebbe percorso la via dell’autodistruzione insieme a lui.
Avrebbe reciso quel legame.
Solamente legami e rapporti sani sarebbero stati ammissibili: Judith era certamente uno di questi.
Non era un fardello soffocante amarla in silenzio, come lo era amare Blake.
Le sue pene sarebbero giunte al termine ed ora, già ora si sentì così leggero, che avrebbe potuto mettersi ad urlare e a saltare, gridando di essere libero e ringraziando a non finire l’inconsapevole Ambrose.
Ambrose lo ringraziò, rinvigorito da quella conversazione, la quale lo aveva reso più determinato e speranzoso. – Vi ringrazio, padre. In merito a Folker, in verità, volevo anche parlarvi di qualcos’altro.
- Certo, ditemi pure.
- Voi, per caso, conoscete qualcuno che possa voler utilizzare la magia nera per... assumere le sembianze di qualcun altro?
Tale domandò lasciò alquanto basito il prete, ed Heloisa con lui.
La prima cosa che venne in mente a padre Craig, era il fantomatico e maledetto gioco dello specchio. – Per “assumere le sembianze” intendete...?
- Uno scambio di corpi, sì – confermò Ambrose, deglutendo.
- Beh, in verità... Come mai mi fate questa domanda? È successo qualcosa a Folker che ha a che fare con...?
- Sono abbastanza certo sia vittima di magia nera. Qualcuno si sta impossessando del suo corpo un giorno alla settimana, cancellandogli i ricordi di quella giornata, e usando il suo corpo come più gli aggrada - confessò senza filtri, trattenendo la rabbia, lasciandoli entrambi esterrefatti. – Voglio scoprire chi gli sta facendo questo...
- Non è possibile... si tratta di una grave infamia...! – commentò Heloisa, allibita.
- Sono abbastanza certo sia così, signora.
- Ambrose, io... non so cosa dirvi. Se siete davvero convinto di ciò che dite.. si tratta di un’accusa molto grave. Sapete, per caso, se qualcuno che è stato vicino a Folker potrebbe voler.. possedere il suo corpo e ricorrere addirittura alla magia per farlo?
Ambrose sembrò spremere le meningi per ricordarsi di qualcuno o di qualcosa che potesse essere loro d’aiuto. – I miei vecchi amici che lo perseguitano li escludo. Certo, sono servi del Creatore, ma non hanno mai desiderato con tanto ardore possedere un bel corpo. Almeno credo.
- Deve essere per forza un servo del Creatore – commentò Heloisa, sempre più interessata a quel discorso.
- Già. Deve esserlo. Le motivazioni non potrebbero essere altre.. giusto? – ipotizzò il prete.
- Folker è odiato da tutto il villaggio a causa dell’accusa di essere una strige.
Nessuno vorrebbe essere nei suoi panni.
L’unico motivo per cui qualcuno potrebbe desiderare di avere le sue sembianze, è per l’avvenenza del suo corpo.
Dunque sì. Credo anch’io sia un servo del Creatore.
- O una serva del Creatore.
Non sono rari i casi di donne che bramano trovarsi nel corpo di uomini e viceversa – sottolineò Heloisa.
Ambrose ci riflettè su ancora un po’.
- Non mi vengono in mente altri servi o serve del Creatore che gli si sono avvicinati/e.
L’unico che mi viene in mente è.. un certo monaco.
Un monaco che Folker mi ha nominato qualche volta, che si è interessato a lui già qualche tempo fa.
- Un monaco...? Qual è il suo nome?
- Non ricordo di preciso. Ma ha partecipato allo spettacolo di Judith, se non sbaglio.
Si è avvicinato a Folker alla fine dello spettacolo.
Interpretava l’Ammirazione.
Un guizzo di consapevolezza agghiacciante colpì in pieno padre Craig. – Cliamon?? Padre Cliamon??
- Sì, sì, esatto.
- Un monaco del Creatore che usa la magia per prendere le sembianze di un giovanissimo servo del Diavolo...? – spirò Heloisa, guardando padre Craig sconvolta, il quale la stava fissando con la stessa intensità:
era la seconda volta quella mattina, che a quel tavolo saltava fuori il nome di quel monaco.
La prima volta accostato a Myriam.
La seconda volta accostato a Folker.
A Folker stava accadendo qualcosa che aveva a che fare con la magia nera.
In quello strano triangolo, solo Myriam avrebbe potuto effetturare un incantesimo di magia nera.
Tutto tornava e, al contempo, tutto era tremendamente strano e confuso.
Padre Craig ed Heloisa sentirono di starsi addentrando in una situazione più grande di loro, in un puzzle dai pezzi così intricati e complessi, da apparire grottesco e tremendamente insidioso.
- Cosa c’è? – domandò loro Ambrose. – Cosa state pensando?
 
 
Lo stregone si ritrovò dentro quell’ambiente asfissiante, pregno di zolfo e di carbone, tanto da portarlo a tossire ripetutamente, cercando di non farsi soffocare da quel terribile odore debilitante.
Era avvezzo agli odori forti, grazie al grande uso di incenso che faceva alla sua dimora, ma quello che regnava lì dentro era un’altra storia: sembrava di trovarsi direttamente nel cuore dell’Inferno.
- Ho sigillato appositamente la porta, saldando il ferro dall’interno, dunque la domanda mi sorge spontanea: come hai fatto ad entrare? Probabilmente non dovrei neanche chiedertelo, considerando che sei tu, ma stavolta farò uno strappo alla regola, dato che mi sono isolato in questa fucina per essere lasciato in pace da qualsivoglia anima viva, e che stai violando deliberatamente i miei spazi – la voce di Blake, calma e infastidita, attirò la sua attenzione sulla sua figura, quella che stava cercando e che non aveva ancora individuato a causa dei fumi che impregnavano la fucina, animata dalla fornace ardente.
Fece qualche passo verso di lui e lo individuò seduto a terra, a gambe incrociate, con la schiena e la testa appoggiate al muro, le mani abbandonate in grembo e gli occhi chiusi. Doveva aver tirato ad indovinare, per capire fosse lui.
Gli abiti che il ragazzo indossava erano anneriti a più non posso, e così anche la sua pelle e la selvaggia chioma di capelli castani, coperti a chiazze di sostanze nere dall’evidente tossicità.
Ephram si avvicinò ancora, affilando lo sguardo per osservarlo meglio.
- Credevo che questo posto puzzasse di morto, dato che, da come ho sentito, sono sei giorni che sei qui dentro senza mai uscire, neanche per dormire o per altri bisogni corporei.
Dovresti essere morto asfissiato, se così fosse.
Invece non lo sei, e inoltre l’unico odore che sento è quello tossico dei tuoi amati metalli.
- C’è la finestra – rispose sommariamente Blake, senza disturbarsi ad aprire gli occhi, cercando di farlo fesso a quel modo.
Ephram, dal canto suo, accennò un impercettibile ghigno nell’osservare la piccola finestra dietro di sè, situata verso il soffitto della fucina, da cui usciva del fumo nero per nulla rassicurante che, grazie al Signore, dava sul retro deserto della casa, altrimenti avrebbe intossicato qualche passante. Lo stregone si avvicinò ancora a Blake, guardandolo dall’alto. – Oltre che essere morto asfissiato, dovresti anche essere notevolmente dimagrito – aggiunse osservando il suo viso disteso per quanto potè da quella distanza. – Ma a parte quelle occhiaie da morto vivente e le labbra screpolate, non mi sembri esattamente uno scheletro. Dunque la domanda sorge spontanea anche a me: come fai tu, piuttosto, ad uscire da qui senza farti vedere, con la porta sigillata?
Blake continuava a non aprire gli occhi, restando immobile. – Sei una proiezione astrale o una cosa simile? Hai usato uno dei tuoi trucchetti per farmi credere che sei qui, ma il tuo corpo non è davvero qui. Se ti toccassi probabilmente la mia mano ti trapasserebbe – concluse Blake.
A tal punto, Ephram si accovacciò di fronte a lui, allungò una mano e gli accarezzò una guancia.
Solo in quel momento Blake aprì gli occhi.
Erano stanchi, liquidi, ma non troppo sorpresi.
Ephram resse il suo sguardo e gli accennò un lieve sorriso, impiegando qualche secondo di troppo a spostare la mano dalla sua guancia. – Teoria confutata. Sono qui. In carne ed ossa, Blake.
A ciò, il ragazzo schiuse le labbra e gli rispose, con una lentezza che fece presupporre allo stregone che stesse facendo fatica a parlare. – Basta con queste moine. Rispondi alla domanda e dimmi come hai fatto ad entrare.
- Uno dei miei trucchetti. Uno di quelli difficili, che non posso replicare. Dimentichi che ora abbiamo anche una sciamana al villaggio, il che amplia lo spettro di usi e applicazioni della magia da cui possiamo attingere.
- Oh, giusto. Ho sentito dire che la nuova arrivata ha aperto una nuova attività alla Taverna. Felice che andiate d’accordo – commentò con disinteresse. – Ma dato che non puoi replicarlo... come hai intenzione di uscire di qui, dunque?
- Speravo di farlo con te, dalla porta principale. Magari fondendo il ferro che hai usato per sigillarla, o smantellandola direttamente.
Blake sorrise di scherno a tali parole. – Hai davvero una tale fiducia in te stesso, stregone?
- Tu, invece, non hai ancora risposto alla mia, di domanda: come fai ad uscire di qui?
Blake fece incrociare nuovamente i suoi freddi e distanti occhi blu con le iridi di sabbia del suo amico. Senza dire nulla, si alzò le maniche della maglia larga che indossava, scoprendosi interamente le braccia, le quali erano ricoperte di graffi di sangue secco su tutta la loro lunghezza. – Non mentivo, prima: c’è la finestra - spiegò il ragazzo.
- Quella finestra è strettissima, Blake.
- Come credi me le sia provocate queste ferite? E non ti ho fatto vedere come sono ridotti i fianchi e il bacino. Mi sono arrampicato su quella finestrella ogni notte, incastrandomici dentro ogni santa volta, per uscire di qui e respirare un po’ di aria pulita. Di notte, le strade sono deserte. Vado fino alla galleria e talvolta mi addormento sopra il terreno morbido e sconfinato, al chiaro di luna, giusto qualche ora. Se ho dei bisogni, li soddisfo di notte, che possa essere sete, fame o qualsiasi altra cosa. Poi torno qui prima che il sole sorga.
- Ho sentito dei lievi nitriti prima. La cavalla che ci siamo portati dietro dal viaggio te la sei tenuta tu ed è legata qua fuori, non è vero? Ci vai con lei a fare le tue “passeggiate” notturne alla galleria?
- No, amo camminare. E poi Aliya non ama passeggiare di notte – rispose Blake accennando un lieve sorriso.
- Oh, quindi le hai dato persino un nome? Devi tenerci a lei. Eppure, la tieni qua fuori, nel retro della casa, proprio dove sbuca quella maledetta finestrella da cui escono fumi neri che intossicherebbero un branco di elefanti. Sei un po’ contraddittorio, Even Blake.
E lo stesso schifo lo stai respirando anche tu, ogni giorno. Non importa che di notte esci di qui e respiri aria pulita. Se continuerai così, finirai per... – lo stregone si bloccò, iniziando a tossire, coprendosi naso e bocca con la manica della maglia.
- Passerà, vedrai – gli disse il ragazzo in quella calma surreale. – Il mio organismo si sta abituando allo schifo che respiro. Forse perchè lo respiro fin da piccolo.
- E tutto questo... – disse Ephram non appena si fu ripreso dal violento colpo di tosse. – ..tutto questo perchè non vuoi vedere nè incontrare nessuno?
Hai una vaga idea di quanto stai facendo preoccupare tutti gli stolti che tengono a te?
Quella zavvorra sui piedi del prete straniero che ospiti, ad esempio.
Sono sicuro che quel padre Craig si starà disperando come un dannato per te.
Pover’uomo.
- Devono imparare a rispettare le mie decisioni.
Anche padre Craig. Per lui sarà più difficile.
Ha un attaccamento viscerale nei miei confronti, talvolta. Come quello di un bambino che si è perso e non riesce a ritrovare la strada di casa – disse Blake, guardando nel vuoto.
Quel paragone fece storcere il naso allo stregone.
Lui non l’avrebbe proprio definito così il morboso attaccamento che quel prete mostrava nei confronti di Blake.
Piuttosto, qualcosa di molto più intenso e venerante.
Riconosceva la frustrazione sessuale e quello sguardo idolatrante da chilometri di distanza ormai.
Anche lui stesso era stato oggetto di quegli sguardi da parte di alcuni, in passato.
Tuttavia, riflettendoci, quello che doveva provare padre Craig era diverso rispetto al tipo di ossessione che era stata riservata a lui. O che aveva provato lui stesso.
Era talmente diverso, da farlo sentire invidioso.
Ephram sapeva di non aver mai provato qualcosa di differente da del banale interessamento sessuale, mascherato da qualcos’altro, ma pur sempre finalizzato a quello.
Il sesso era il suo modo di sfogarsi, e il modo degli altri di sfogarsi con lui.
Se il giovane stregone si avvicinava a qualcuno, era sempre per servirsi del suo corpo per provare piacere, oppure perchè voleva ottenere qualcosa, un beneficio per se stesso.
Era sempre stato così.
Invece, padre Craig non sembrava provare solo attrazione sessuale nei confronti del ragazzo dinnanzi a lui.
Il suo era un sentimento che lo faceva “vegliare” su Blake da lontano, che gli permetteva di lasciarlo andare, di lasciarlo libero, che si accontentava delle minuscole briciole che quel ragazzo era in grado di dargli, facendosele bastare, era un tipo di sentimento che, lo stregone ne era quasi certo, lo avrebbe spinto ad attendere in eterno, forse per secoli, solamente per ricevere uno sguardo da Blake.
Era un sentimento ammaliante, quanto spaventoso.
Si riscosse dai suoi pensieri, decidendo di porgli quella domanda, per capire se fosse davvero ignaro del tipo di attenzioni che stava ricevendo da quel prete straniero: - Non ti dà fastidio il suo atteggiamento nei tuoi confronti?
Blake attese qualche secondo prima di rispondere. – No, non mi dà fastidio.
- Credevo di sì, dato che non ami che qualcuno ti dedichi attenzioni.
- Lo so, è strano. Ma si tratta pur sempre di un amico.
Finchè capisce quando è il momento di lasciarmi solo, quando allontanarsi da me, va bene.
- Lo compatisci?
- Perchè dovrei?
Dunque, non ne aveva idea, Ephram ne ebbe la conferma.
E dato che la cosa non andava a proprio favore, chi era lui per fargli aprire gli occhi su quel prete?
Avrebbe continuato a far credere a Blake ciò che voleva.
- Sono certo darebbe fuoco a quella porta pur di venire qui da te, per essere al mio posto, se solo ne avesse il coraggio. Sei sicuro che sappia qual è il suo posto? Forse sì che dovresti compatirlo, se si strugge credendoti morto qui sotto.
- Se credi che riuscirai a convincermi a farmi uscire di qui con te facendo leva sui miei sensi di colpa nei confronti di padre Craig e gli altri, mi spiace deluderti, ma hai sbagliato strategia, Ephram – gli rispose secco, troncando il discorso.
- D’accordo, ricevuto il messaggio. Ad ogni modo, sono venuto qui per darti questo – disse lo stregone infilandosi una mano dentro la tasca dei pantaloni e tirando fuori una piccola sacca.
Blake osservò ogni suo movimento e prese la sacca quando gliela porse.
Prima di aprirla la annusò, aprendo appena di più gli occhi, per la sorpresa gradita.
Dopo di che, un sorrisino sereno e furbo si delineò sul suo viso. – Oppiacei.
- Come hai fatto a riconoscerlo solo dall’odore? – domandò lo stregone piacevolmente stupito, alzando un sopracciglio.
- Mi credevi un santo? Ho già goduto degli effetti dell’oppio.
- Credo che tu possa essere qualsiasi cosa, tranne che un santo, Blake.
- Ho dovuto fare i salti mortali per ottenerlo in passato – spiegò il ragazzo. – I monaci ne proibiscono l’utilizzo, ma alcune erbolaie ne avevano un po’, tenendoselo gelosamente per loro. Qui a Bliaint è raro trovare papaveri, perciò è altrettanto raro ottenerlo. Lo usavo su mio fratello, per farlo calmare quando la malattia lo faceva stare troppo male e piangeva a dirotto per nottate intere. Solo gli oppiacei riuscivano a calmarlo un po’, alle giuste quantità. Quello che avanzava, lo assumevo io.
- Come convincevi le erbolaie a dartelo? – domandò Ephram spinto dalla curiosità.
Blake non rispose, ma posò lo sguardo su di lui. – E tu chi hai dovuto convincere per averlo oggi?
Ephram fece il gesto di cucirsi la bocca con la mano, un chiaro segnale che non gli avrebbe rivelato nulla.
- Ho pensato che avrebbe potuto farti bene perdere il senno con qualcosa di più “sano”, piuttosto che inspirando mercurio e zolfo qui dentro.
- Pensi che io stia subendo un avvelenamento da mercurio?
- A giudicare dal tuo sguardo rilassato, dall’odore che c’è qui dentro e dal colpo di tosse mortifero che mi ha colpito poco fa, mi sto decisamente chiedendo come tu faccia ad essere ancora cosciente. Inoltre, qui dentro si sta diffondendo anche qualcosa che... mi sta chiudendo le vie respiratorie e mi sta dando prurito al naso e in fondo alla gola... che diavolo è?
- Acido – rispose Blake.
- Di quelli corrosivi..? Lo hai composto tu?
- Abbiamo un sacco di tipologie diverse di acidi per lavorare con i metalli.
Alcuni servono anche per riconoscere se l’oro è davvero oro.
- Per questo hai anche iniziato a creare acidi come se niente fosse?
Per questo riempi tutti quei fogli che hai sparsi su quel tavolino e a terra di formule e segni assurdi?
- Non solo – rispose il ragazzo, rimanendo ancora perfettamente calmo. – Ad ogni modo grazie, ma per ora non ne ho bisogno. L’oppio mi fa perdere la lucidità e io voglio rimanere lucido.
- Come preferisci – disse lo stregone coprendosi nuovamente la bocca con la manica della maglia e accomodandosi di fianco a lui.
Trascorsero alcuni minuti senza dirsi nulla, poi Ephram ruppe il silenzio. – Cosa pensi che ti farà quel conte se dovesse riuscire a catturarti, ma tu non fossi in grado di fare la trasmutazione?
A ciò, gli occhi di Blake saettarono di nuovo su di lui. – Dunque lo sai. Non perderò neanche tempo a chiederti chi te lo abbia detto, dato che le opzioni sono solo due, e credo di sapere chi è stato – sbuffò senza reale fastidio.
- Come hai potuto pensare di tenerti tutto per te? Quel maledetto nobile non è un pericolo solo per te, ma per l’intero villaggio. Dobbiamo cercare di fermarlo, ed è quello che mi sto adoperando a fare.
- E come?
- Con l’aiuto di quante più influenze occulte possibile.
Blake accennò un sorriso disilluso a tali parole, facendo ripiombare poi quel placido silenzio occupato solo dai rumori del fuoco della fornace.
- Mi hai chiesto cosa mi farebbe se io non riuscissi a fare quello che desidera da me? – riprese Blake, riattirando l’attenzione di Ephram. – Non ci ho mai pensato. Probabilmente mi venderebbe come schiavo. Immagino sarei un enorme fonte di reddito per lui, considerando che sono un servo del Diavolo di Bliaint. Mi venderebbe ad una cifra spropositata al miglior offerente, e si arricchirebbe ancora di più, proprio come desidera.
- E dare via come niente fosse un “inestimabile servo del Diavolo di Bliaint”? Non credo proprio – commentò lo stregone. – Ti terrebbe per sè. Vantandosi con chiunque di averti, in quanto saresti unico, un insostituibile pezzo da collezione.
- E poi mi farebbe sempre ritentare, ancora e ancora, fin quando non avrò trasformato il piombo in oro.
- Per questo stai tentando così strenuamente di riuscirci, chiuso qui dentro?
- Non lo sto facendo per lui – rispose con fermezza il ragazzo.
- Per quale motivo lo stai facendo, allora?
Il loro discorso venne troncato da un evento che fu in grado di riscuoterli e “risvegliarli” immediatamente.
Da un recipiante in acciaio, poco più lontano e vicino ai fumi della fornace, iniziarono a fuoriuscire delle minuscole scintille. Inizialmente piccole, rade e apperentemente innocue, poi sempre più frequenti, grosse e per nulla rassicuranti..
Blake scattò immediatamente in piedi ed Ephram poco dopo di lui.
Il ragazzo si avvicinò al recepiente con gli occhi totalmente spalancati, allibiti, e lo stregone non era da meno, nonostante, al contrario di Blake, si manteneva a debita distanza dal diabolico recipiente.
- Blake... se è quello che penso io, ti prego, non avvicinarti troppo... – la voce di Ephram era esterrefatta, niente a che fare con il solito tono spavaldo e arrogante. La sua voce era un soffio spaventato e orripilato.
- Non ci posso credere... non ci posso credere! Ci sono riuscito... Ephram, l’ho creata... questa è la stessa reazione che ha avuto la polvere nera a casa di Philippus!! Ephram, è la polvere nera!!
- Proprio per questo dovremmo andarcene immediatamente di qui!! Mi hai sentito, Blake?! Dobbiamo uscire di qui prima di saltare in aria!
- Non salteremo in aria, non è ancora completa, è ancora una versione grezza!
A ciò, Ephram fece violenza a se stesso e al proprio egoistico spirito di sopravvivenza, piombando verso l’amico, prendendolo per le spalle e iniziando a scuoterlo con vigore.
- Blake. Dobbiamo andare immediatamente via di qui. Ora – disse severo, autorevole, senza ammettere repliche, perforandogli lo sguardo con i suoi occhi determinati e terrorizzati al contempo, mentre, intanto, le scintille scoppiettavano sempre di più, espandendosi dentro la fucina.
In quell’attimo in cui Blake incontrò le iridi dello stregone e la sua presa artigliante sulle braccia, nell’unico momento in cui tutta l’eccitazione e l’entusiasmo abbandonarono la sua mente, la realizzazione della circostanza prese il loro posto e il sopravvento, facendolo annuire, mentre Ephram aveva già iniziato a  spingerlo verso la finestrella con urgenza.
Come era avvezzo a fare ogni notte, Blake si arrampicò su quel buco quadrato che svettava tra i mattoni anneriti, fece forza sulle braccia e si issò sù, entrando in quella via d’uscita troppo stretta per qualsiasi corpo che non fosse quello di un bambino, ferendosi le braccia e i fianchi come ogni volta nel tentare di strisciare fuori di lì, mentre i mattoni lo graffiavano e lo trattenevano.
Intanto, Ephram, ancora nella fucina, trascorse i momenti peggiori della sua vita mentre non riusciva a fare a meno di osservare le scintille iniziare già a scoppiettare intorno a lui, e il calore della stanza arrivare a livelli inumanamente insopportabili.
Blake gli porse la mano appena fu fuori e lo aiutò a salire, prendendolo poi per i polsi e tirandolo verso di sè, per aiutarlo a far passare il corpo attraverso la stretta finestrella, facendolo urlare per il dolore necessario.
Fortunatamente, erano del tutto certi che il danno non si sarebbe esteso a tutta la casa, ma solo alla fucina: trovandosi in una zona sotterranea, rivestita di mattoni dal doppio strato, ed essendo l’esplosione non ai livelli di quella che vi era stata a casa di Philippus, sicuramente avrebbe distrutto completamente la fucina nella peggiore delle ipotesi, ma si sarebbe limitata solo a quella.
Una volta usciti entrambi dalla finestrella si trovarono davanti la puledra che brucava le poche erbette rimaste sul retro della casa, bellamente ignara di tutto.
Era ancora giorno. Ciò significava che se qualcuno fosse passato di lì e li avesse visti in quello stato, trafelati e con i vestiti impregnati di zolfo e carbone, sicuramente avrebbe fatto delle domande.
Senza pensare, Blake sciolse la corda che legava il muso di Aliya alla staccionata e salì su di lei, attese che Ephram montasse dietro di lui e partì al galoppo, diretto in nessun luogo, con i sensi troppo annebbiati per riuscire a guidare la puledra. Difatti, dopo neanche un minuto di galoppo, Blake perse i sensi.
Si risvegliò qualche ora dopo, ritrovandosi nella stessa posizione in cui era svenuto: seduto in groppa al cavallo, con l’addome che aderiva completamente all’animale, spalmato su tutta la lunghezza della criniera scura, le braccia a penzoloni e il viso poggiato sulla nuca. Ogni tanto Aliya abbassava il muso per brucare l’erba, facendolo distendere involontariamente verso davanti.
Erano stati proprio i leggeri movimenti della puledra, il suo sbuffare, il suo respirare piano e il solletico che gli provocava la criniera sulla guancia che lo fecero risvegliare.
Schiuse gli occhi lentamente, percependo già le membra intorpidite per essere rimasto nella stessa posizione per troppe ore, specialmente il fastidio delle gambe costantemente divaricate, e intanto iniziò a mettere a fuoco l’ambiente intorno a sè: buio, alberi alti, erba, il rumore di una cascata nelle vicinanze. Bosco. Erano nel bosco.
Si voltò dall’altra parte, da cui proveniva una bella sensazione di caldo e una luce arancione che riusciva a illuminare chiaramente un bel perimetro, trovandovi un focolare acceso, animato con cura da Ephram, il quale era seduto a terra, con la schiena appoggiata ad un piccolo tronco caduto.
- Ben svegliato – gli disse lo stregone, annunciandogli di essersi già accorto del suo risveglio. La sua voce era calma, distesa.
- Per quanto tempo sono stato privo di sensi? – fu la prima cosa che disse, staccando il busto dal cavallo e stirandosi, mentre un tremendo mal di testa gli piombava addosso.
- Tre ore. Il sole è già tramontato da un po’ come vedi.
- Tre ore? Siamo qui da tre ore..? – gli domandò palesemente confuso, scendendo dal cavallo.
- “Grazie mille, Ephram, per aver guidato il cavallo al posto mio dietro di me, mentre io ero praticamente un corpo senza vita” – mimò la sua voce Ephram, alzandosi in piedi e avvicinandosi a lui.
- Perchè mi hai portato qui in mezzo al nulla?
- Perchè ultimamente il villaggio brulica sin troppo di vita e di gente, e io avevo bisogno di parlare con te. Da solo – specificò, affrontandolo mentre lo guardava negli occhi, annullando la distanza. – Che cosa è successo dentro quella fucina, Blake?
- Lo hai visto anche tu. Invece di creare la trasmutazione ho creato la polvere nera – rispose, ghignando con una soddisfazione che non fu in grado di trattenere.
- Era voluto?
- Ho sempre letto e riletto gli appunti che ho rubato dalla casa di Philippus quel giorno, ma non sono mai riuscito a cavare un ragno dal buco.. fino ad oggi – rispose Blake riflettendo attentamente tra sè e sè, sorpassando lo stregone e avvicinandosi al fuoco. – Ora so come fare. Ora ho capito. È stato l’acido N2. È l’acido N2 il tassello mancante... non so come ho fatto a non sperimentarlo prima! Zolfo, carbone e acido N2. Intanto è una base. Certo, è pur sempre una versione grezza, incompleta, ma posso lavorarci su, ora so come fare, so come fare! – parlava a rafficava e camminava avanti e indietro, con il sorriso delineato in volto, un sorriso che Ephram non gli aveva mai visto: il sorriso del potere e del trionfo.
- Sembri soddisfatto ora – commentò continuando a guardarlo, ponendo le braccia conserte.
- Certo che lo sono, è quello che sto strenuamente cercando da più di due mesi.
- Lo so bene. Ti faccio presente, tuttavia, che stavamo per morirci là dentro. Se non ci fossi stato io con te-
- Se non ci fossi stato tu sarei scappato comunque in tempo – lo interruppe il ragazzo.
- Tu sei un folle.
- Beh, sono felice di esserlo se ciò mi porta a questo – gli rispose sorridendo soddisfatto.
- Blake, stai giocando con la tua vita in una maniera che non ho mai visto fare a nessuno – replicò Ephram avvicinandoglisi. – Perchè non mi coinvolgi? Perchè mi tagli fuori quasi come fossi un elemento di disturbo?
- Cosa intendi?
- Lo hai fatto persino con Sybil: perchè nessuno di voi due mi ha detto che lei fosse incinta di me?
A tale domanda, Blake distolse lo sguardo, senza rispondere.
- Blake.. sono dovuto venirlo a sapere da Quaglia.
- Lei non voleva dirtelo. È stata una sua decisione, non mia.
Ad ogni modo perchè ci tieni tanto ad aiutarmi, Ephram? – gli domandò tornando a guardarlo.
- Come “perchè”?? Perchè noi due siamo una squadra. Lo siamo da quel viaggio. Da cosa deriva la tua diffidenza?
- Non è diffidenza, nè cattiveria. Semplicemente ho sempre agito da solo, non ho mai fatto diversamente. Inoltre, tu ti occupi di qualcosa di diverso.
A ciò, Ephram scoppiò in una risata frustrata. – Oh, ci siamo! Ci siamo di nuovo! Il tuo rigetto nei confronti della magia. Perchè la matematica non è magia, l’alchimia non è magia! Beh, lascia che, per una volta, sia io a illuminarti su qualcosa, Even Blake: anche io ne so qualcosa, della tua alchimia.
Anch’io so qualcosa di quella che chiamano la “Grande Opera” e delle quattro fasi che la compongono:
La prima, la Melanosi, l’annerimento, l'elemento Terra, nonchè piombo che conduce alla putrefazione, alla decomposizione della materia, al caos primordiale della notte, di Saturno che, incarnato in un corvo, porta l'inverno e la vecchiaia con sè.
La seconda, Leucosi, l'elemento Acqua che si rispecchia nell’argento, distillazione e calcinazione, la purificazione dell'alba tramite l’influsso della Luna, l’energia femminile che trova la sua massima espressione nella libido adolescenziale e nella primavera.
La terza, la Xanthosis, l’Aria, l'oro, l’entità maschile del Sole si sublima nella combustione della venuta del giorno, nella potenza dell’estate matura.
Infine Iosis, il fuoco, il tuo amato mercurio filosofale, il tramonto, l'incontro tra Sole e Luna, l'Androgino, la coagulazione tra anima e spirito, la fenice che rinasce come pietra filosofale, messaggera degli dèi – terminò tutto d’un fiato, rendendosi conto di essersi avvicinato talmente tanto a lui, da far sfiorare i loro nasi e mischiare il respiro con il suo.
Gli sarebbe bastato meno di un istante, un soffio di vento, un battito di ciglia, per annullare quella irrisoria distanza che lo divideva dalle sue labbra.
Ma non lo fece. Saggiamente, non lo fece.
- Il fatto che io non ottenga gli stessi risultati che ottieni tu, il fatto che io non sia un prodigio nella materia, il fatto che non la pratichi, non significa che io non ne sappia nulla, Blake – concluse fissandolo nei suoi occhi blu, trovandoli per la prima volta velatamente smarriti e sinceramente meravigliati, ma pur sempre orgogliosi. – Per tale motivo sono autorizzato ad avere paura. Sono autorizzato ad avere paura perchè so che ti stai avventurando in qualcosa di pericoloso, so che la tua ossessione ha portato altri prima di te a bruciarsi con le loro stesse mani, in cerca di gloria, di fama, o di una via di fuga.
Ma per te non si tratta di nessuna di queste, giusto?
Blake distolse lo sguardo e gli sfuggì di nuovo da sotto il naso, sorpassandolo e spostandosi dall’altra parte del focolare.
A ciò, Ephram sospirò, cercando di rianimare il fuoco come poco prima, beandosi di qualche istante di silenzio.
Ora Blake era tornato silenzioso e imperscrutabile, esattamente come poco prima nella fucina.
Era impossibile sondare quel ragazzo e scoprire come funzionasse la sua testa, cosa gli passasse per la mente.
- Ho sentito che tu e tuo padre avete dato spettacolo qualche giorno fa, in mezzo alla gente – spezzò il silenzio lo stregone.
Blake lo guardò, attendendo che terminasse.
- Mi è stato detto che ti ha messo le mani addosso.
La cosa ti ha innervosito parecchio, immagino.
Lo aveva mai fatto prima?
Blake non rispose, ma affilò lo sguardo, continuando a guardarlo dall’altra parte del fuoco.
- Dove vuoi arrivare, Ephram? – disse poi.
Già. Dove voleva arrivare?
Ephram era ben consapevole di aver avuto la vita che avevano avuto tanti orfani prima di lui: violenza fin dalla tenera età, essere disposti a fare letteralmente di tutto per accontentare qualcuno in grado di darti un pezzo di pane o un posto dove dormire, essere costretti ad imparare a leggere e ad usare la magia abilmente, per essere almeno uno o due passi davanti a tutti gli altri, davanti a tutti quelli che avevano tutto , e che, in quanto tali, avevano un immenso potere su di lui. Essere costretti a cavarsela da soli, sempre e comunque, a fare di più, ad essere di più, a cercare di più, per scappare via dalla propria realtà becera.
Questa era stata la sua vita, e quella di tutti coloro che, come lui, non erano nati in una buona famiglia, con dei genitori che li amavano e che riversavano le loro ambizioni su di loro.
Invece, Blake era il suo esatto opposto.
- Sarai l’erede della galleria.
Il luogo più caratteristico, più ricco e importante di Bliaint.
Tuo padre confida in te, sei il suo primogenito maschio, il suo diretto erede e lui ti ha insegnato tutto quello che sa, perchè vuole che tu prenda il suo posto. In quanto suo prediletto, ti ha sempre portato sotto la sua ala e protetto, non permettendo a nessuno di toccarti neanche con un dito.
Lui ha fiducia in te, ti ha ricoperto di attenzioni, ti ha dato uno scopo, ti ha donato una vita agiata, ti ha donato amore e serenità, ti ha offerto una vita che chiunque desidererebbe, da cui nessuno vorrebbe mai scappare. Tu, invece... – sputò il rospo, lasciando la frase in sospeso. - .. tu cerchi altro. Sei sempre in cerca d’altro.
Nonostante tu abbia tutto, cerchi sempre qualcosa che non hai. Non ti adagi nelle tue agiatezze e certezze come farebbero tutti al tuo posto, ma ti ribelli e fai tutto ciò che desideri e che potrebbe metterti in cattiva luce davanti agli occhi di tutti.
E la cosa buffa è che... dovrei odiarti per questo, dovrei odiarti per avere tutto e per sputare sopra a tutto ciò che hai senza ritegno, senza alcun rispetto e considerazione, ma... a dir la verità, Blake, questa è la parte che più mi piace di te – ammise infine, quasi più a se stesso che al ragazzo, fissando le fiamme dinnanzi a sè.
Alzò gli occhi su Blake per vedere la sua reazione e trovò gli angoli della sua bocca alzati in sù, in un lievissimo sorriso indefinibile. – Se vuoi farmi sentire in colpa per questo, sappi che non servirà a nulla. Non dovrò mai giustificare a nessuno le mie scelte. Non dovrò mai chiedere scusa a nessuno per la mia vita agiata, o per non rispettarla. Non spiegherò a nessuno per quale motivo ho scelto la mia strada. Non sono la persona adatta con cui fare una gara su chi ha vissuto la vita peggiore, e non sono la persona giusta per compatire - disse, rivelando una sicurezza e una tale determinazione da farlo apparire più grande di quanto non fosse, come sempre accadeva. – Io sono una persona egoista – ammise poi, sorprendendo Ephram. – Lo sono sempre stato, e lo riconosco. Lo sono stato persino con Judith: il motivo per cui ho voluto sparire dalla sua vita dopo che ha perso la memoria sta nel fatto che non avrei mai sopportato di stare accanto ad una persona a me estranea, completamente diversa da quella che ho amato e amo. Avrebbe fatto troppo male. Non l’ho fatto per lei. L’ho fatto per me – la sua voce esprimeva una nota di rammarico che Ephram non aveva mai sentito su di lui, e che fu in grado di stupirlo maggiormente.
Dopo qualche minuto, lo stregone gli rispose, guardandolo dritto negli occhi oltre le fiamme: - Non credo tu sia egoista. L’egoismo presuppone l’amor proprio. Qualcosa che a te manca, dato che non stai facendo altro che cercare di ucciderti e autodistruggerti pur di raggiungere un obiettivo nella tua testa. L’egoismo presuppone anche la ricerca di gloria, ma, nuovamente, non è il tuo caso, dato che non ti curi minimamente di cosa pensano gli altri di te. E allora perchè, Blake? Perchè non ti accontenti mai? Perchè continui a cercare, a cercare, a cercare sempre, senza fermarti mai, senza guardare in faccia nessuno? Da dove viene questa tua impazienza di sapere e di scoprire il proibito che farebbe impallidire la Prima Donna, e che ha tanto ammaliato Sybil? Questa tua smania di andare oltre che sta facendo impazzire anche me? Questa incapacità di fermarti, di smettere? – lo stregone si bloccò improvvisamente, avvertendo una fitta di dolore al costato, laddove la ferita più sanguinolenta che si era fatto nel tentitativo di passare da quella dannata finestrella era stata fasciata alla bell’e meglio tre ore prima, con delle erbe curative che aveva raccattato nel bosco.
Blake non rispose, rimanendo immobile, sommerso da tutte quelle domande che ebbero il potere di debilitarlo e disarmarlo, forse per la prima volta dinnanzi all’altro.
- Maledizione... – mormorò Ephram premendosi il palmo della mano sulla ferita coperta dai vestiti, allontanandosi di qualche passo da Blake.
- Sei ferito? – gli domandò quest’ultimo, sorprendendo lo stregone.
- Non sei stato proprio delicato nel trascinarmi fuori da quella finestra, sai? – gli rispose Ephram, fintamente piccato.
- Se fossi stato più delicato non ti avrei tirato fuori di lì in tempo. Avresti preferito saltare in aria lì dentro piuttosto che sopportare un graffietto? Bene, lo terrò a mente per la prossima volta – commentò pungente Blake, lasciandosi cadere a terra, con la schiena poggiata al tronco contro cui poco prima era poggiato Ephram. Quest’ultimo sorrise di sottecchi, arrendendosi.
- D’accordo, lo ammetto: non mi dispicerebbe essere un po’ compatito da te, ogni tanto. Soprattutto dato che sei stato tu a farci quasi uccidere entrambi.
- La decisione di invadere abusivamente i miei spazi ed entrare nella fucina è stata tua, a quanto pare tendi a dimenticarlo se non te lo ricordo – controbattè Blake.
- Hai ragione.
- È tanto grave la ferita?
- Vuoi venire a dare un’occhiata? – gli domandò Ephram, beccandosi un’occhiataccia e una leggera sassata sul petto, sapendo di essersela un po’ meritata. – Tu stai bene? – gli chiese poi, palesando un dubbio che aveva da quando Blake era svenuto davanti a lui sul cavallo, ma che aveva aspettato per porgli fino a quel momento.
A ciò, Blake inclinò la testa e gli rivolse uno sguardo penetrante e pregno di scherno. – Quanta premura – fu la sua sarcastica risposta.
- Parlo sul serio.
- Sano come un pesce – affermò con convinzione, per poi alzare il volto stravolto verso il cielo scuro, verso le stelle, ascoltando distrattamente lo stregone trafficare con un padellino messo a riscaldare sul fuoco.
- Mi sono fatto un bagno prima che ti svegliassi – ruppe il silenzio Ephram, portandolo a riaprire gli occhi. - Qui vicino c’è un lago. Dovresti fartene uno anche tu. Con quella roba impregnata addosso spaventeresti anche le belve selvagge, che fiuterebbero l’odore di zolfo da chilometri di distanza.
Blake accennò un sorriso in risposta, osservando i movimenti dello stregone. – Che stai facendo?
- Secondo te? – gli rispose l’altro, iniziando a mescolare ciò che si trovava dentro il pentolino, il quale oramai stava emettendo fumi dall’odore ben familiare al ragazzo, il quale comprese:
- Hai intenzione di assumerlo adesso? Qui, in mezzo al nulla? – gli domandò Blake alzando un sopracciglio.
- C’è un momento giusto per godersi i rigeneranti effetti dell’oppio? Ne ho decisamente bisogno, dopo quello che mi hai fatto vivere in quella maledetta fucina – rispose lo stregone togliendo il pentolino dal fuoco. - Dovresti prenderlo anche tu. Ti aiuterebbe a rilassarti un po’, e sembri averne bisogno molto più di me - tentò Ephram, porgendogli il pentolino.
- Hai intenzione di rimanere qui tutta la notte? – gli domandò Blake contrariato. – In balìa degli animali, davanti ad un focolare, come i bruti delle foreste?
- Che c’è di male? Non dirmi che vuoi tornare indietro a quest’ora e incontrare i tuoi genitori, dato che la tua preziosa fucina è inutilizzabile e non puoi tornarci.
- Non resterò qui tutta la notte.
- Fai come vuoi. Allora? Lo vuoi o no? – insistette Ephram, con la mano che reggeva il pentolino ancora a mezz’aria, rivolta verso il ragazzo seduto.
Blake distolse lo sguardo e lo fissò sul fuoco. – No, non lo voglio. Preferisco rimanere lucido.
- Come vuoi – disse l’altro, accomodandosi poco distante da lui, e iniziando ad inspirare quei fumi intensi e pregni, beandosene e sospirando di piacere e di rilassatezza.
Trascorsero altri minuti in totale silenzio, poco prima che Blake parlasse di nuovo:
- Credi che qualcuno giudicherà i nostri peccati? – domandò improvvisamente, con voce soffusa e neutra.
- Il Diavolo non giudica i nostri peccati come fa il Creatore.
- Non sto parlando di un dio.
Intendo un giudice. Qualcuno incaricato di capire per quale motivo abbiamo agito come abbiamo agito.
Come un confessore onnisciente, che decide se siamo meritevoli o no di essere perdonati.
Ephram, con la testa mollemente abbandonata sul tronco dietro di sè, voltò il viso per guardare Blake.
Nonostante i sensi annebbiati dall’oppio, lo stregone scorse distintamente il suo profilo etereo, con gli occhi liquidi e lo sguardo perso e vuoto fisso nel fuoco scoppiettante. I suoi capelli folti erano lasciati liberi di appoggiarsi sulle spalle ed erano tanto ribelli da ricadergli sul viso, nascondendolo lievemente dallo sguardo indagatore dello stregone.
- Hai bisogno che qualcuno ti giudichi? – gli domandò Ephram continuando a guardare quel viso imperscrutabile che, forse, mai avrebbe compreso.
A ciò, Blake, senza dire nient’altro, allungò la mano verso di lui, in attesa. – Dammelo.
Ephram capì immediatamente a cosa si riferisse e, con un sorriso soddisfatto a delineargli i lineamenti, celebrò in silenzio la sua prima vittoria, porgendogli il pentolino con dentro l’oppio senza aggiungere altro.
Blake lo prese e inspirò quei fumi, abbandonandosi a sua volta a quella pace interiore che mai avrebbe potuto ottenere in altro modo.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 45
*** Vanitas vanitatum ***


Vanitas vanitatum
 
 
La vanità era sempre stata un’ossessione, sin dalla prima infanzia.
Quando era piccolo, ricordava un episodio, in particolare, che cambiò il suo modo di atteggiarsi e di vedere il mondo.
Si vergognava, da sempre, nel desiderare qualcosa che gli uomini come lui non potevano bramare.
All’età di quattro anni, nell’ascoltare gli insegnamenti impartiti severamente da un monaco dal carattere burbero e brutale, lui non riusciva a pensare ad altro se non alle orribili verruche sulla sua faccia, alla sua pelle squamata, al suo corpo corpulento e grasso.
Mentre tutti gli altri bambini erano spaventati dal suo vocione, lui era spaventato solamente dalla ripugnanza della sua immagine.
Trascorreva ore e ore a guardarsi allo specchio da bambino, per autoconvincersi di essere piacevole da guardare, accettabile, quantomeno la metà di quanto lo fosse qualsiasi servo del Diavolo incrociato per le strade.
Sarebbe rimasto ore e ore a guardarli e non perchè attratto da loro, in quanto a quell’età non poteva capire cosa fosse l’attrazione fisica o la lussuria.
Restava a fissarli ammirato e incantato, perchè desiderava ardentemente essere come loro.
Da bambino, quando possedeva ancora una cospicua chioma di capelli ramati e ricci, aveva un’apparenza che considerava quantomeno accettabile: se li acconciava nei modi più stravaganti e avvenenti possibili, rubava le stoffe pregiate che sua madre comprava per farne delle tende, e le modellava in modo che potessero diventare degli splendidi abiti di tela, androgini, succinti e incantenvoli indossati su di sè.
Sua madre era una delle persone più abneganti, fedeli e intransigenti del villaggio, lontana da qualsiasi tipo di vanità, così come si richiedeva ad ogni donna e uomo servi del Creatore.
I servi del Diavolo potevano permettersi di esserlo, in quanto il Diavolo era il primo ad essere categorizzato come il re della vanità, così come di mille altre cose proibite dal Creatore.
I servi del Creatore dovevano essere ligi al dovere, dediti alla loro fede, votati all’abnegazione, concentrati solo sulle pratiche innalzanti per l’anima, quali la preghiera, il pentimento, la confessione, la fede cieca verso il loro dio. Ogni pratica materiale o carnale era da rifuggire.
Per questo il piccolo Cliamon si sentiva sempre in colpa nel fare ciò che faceva con costanza, nel formulare quei pensieri poco consoni a quella che considerava la sua natura, la categoria di cui faceva parte.
Tuttavia, non riusciva a farne a meno. Non riusciva a farne a meno neanche dopo le speventose lezioni di quel monaco che somigliava più ad un temibile orco che ad un uomo.
E proprio perchè sua madre era una serva del Creatore esemplare, oltre a non possedere begli abiti, non possedeva neanche cosmetici.
Per tale motivo il piccolo Cliamon raccattava sempre un po’ di quella “polvere bianca” di bellezza che vedeva usare dalle donne serve del Diavolo rubandola da qualche bancarella senza farsi vedere, per poi spalmarsela sul viso e sul corpo nei suoi momenti segreti, quelli che passava davanti allo specchio, vestito da puttino, a rimirarsi su quella superficie, tentando in ogni modo di abbellirsi nel meglio delle sue possibilità.
Poi, i capelli avevano iniziato a cadere, la schiena era divenuta gobba, già in giovane età, e tutti i suoi tentativi erano sempre più inutili.
Tuttavia, non aveva mai smesso.
Il peggio arrivò quando sua madre lo scoprì.
Una mattina, aprì la porta della sua stanza e lo vide a quel modo. Cacciò un urlo di disperazione al cielo e lo picchiò con un bastone, mentre gli urlava di togliersi subito quei vestiti di dosso e di gettare quell’enorme specchio fuori dalla finestra.
Dopo quell’episodio rivelatorio, sua madre aveva deciso di fargli prendere i voti.
Diventare monaco era considerato il privilegio più grande per i servi del Creatore, l’aspirazione maggiore da perseguire, sia per gli uomini che per le donne.
Motivo per cui, prendendo i voti, sua madre era convinta che l’anima di suo figlio sarebbe stata purificata dal tremendo peccato della vanità di cui era immerso e cosparso fino al midollo.
Cliamon, profondamente scosso e invaso dal rimorso e da quello che credeva essere pentimento, aveva accettato immediatamente, iniziando il percorso per diventare monaco.
Poi, era arrivata Henni Adaira.
Credeva che, nei lunghi anni che aveva trascorso alla cattedrale, ad aiutare le anime dei peccatori, ad essere un esempio per tutti, a distaccarsi da ogni cosa materiale, immerso nei testi sacri, credeva che fosse bastato a seppellire per sempre quegli istinti torbidi.
Invece, l’incontro con Henni Adaira, la madre di Myriam, la prima strega che aveva fatto bruciare, aveva cambiato tutto.
Da quel giorno aveva compreso di non essersene mai liberato.
Non si sarebbe mai liberato di quella brama di essere desiderato, di essere guardato, di essere ammirato per una bellezza che mai avrebbe posseduto. Una bellezza che non gli era concessa. Perchè era nato nella metà sbagliata del villaggio.
E, a sua grande sorpresa, era stata proprio la figlia di Adaira a fargli quel dono.
A compiacere i suoi appetiti di attenzioni e di eruttante vanità, donandogli un corpo che gli avrebbe permesso di fare letteralmente di tutto.
Ma soprattutto, di essere guardato finalmente nel modo in cui voleva.
Però non gli bastava più.
Ora che aveva avuto un assaggio del potere che quel corpo giovane, bellissimo ed efebico poteva esercitare sugli altri senza neanche provarci, voleva di più, pretendeva e bramava di più.
Voleva vedere cosa sarebbe successo se si fosse davvero impegnato.
Per tale motivo, quel giorno, per la prima volta dopo anni, aveva ripreso quell’ossessionante abitudine che aveva da bambino, ma sfoggiandola dentro un corpo nettamente più degno di quello che visionava allo specchio molti anni prima.
L’immagine di Folker si stagliava davanti al grande specchio che Cliamon aveva acquistato di nascosto al mercato, un’ora prima, e che aveva posto nella stanza del ragazzo, da sempre priva di qualsivoglia superficie specchiabile.
La casa era vuota, fortunatamente. Quel giorno i genitori del ragazzo erano andati a pregare per la loro figlioletta scomparsa, alla galleria; dunque il monaco aveva avuto modo di portare lo specchio dentro la casa senza essere visto, ed era libero di agire e muoversi come desiderava, senza la paura che qualcuno lo scoprisse.
Lo specchio non era l’unico acquisto che aveva dovuto fare, con discrezione, al mercato. Folker era un ragazzo che indossava sempre gli stessi, banali vestiti da popolano, un popolano benestante, ma pur sempre un popolano: mantelli scuri, casacche di tela, pantaloni e calzoni larghi, stivali.
Per tale motivo aveva dovuto comprare anche dei tessuti pregiati e, come ai vecchi tempi, si era dilettato nell’attività del cucito per farne degli splendidi capi d’abbigliamento ricercati, succinti e vivaci.
Poi, prima che l’alba di un nuovo giorno fosse sorta, si sarebbe adoperato a nascondere quei vestiti e lo specchio in un posto sicuro, prima di risvegliarsi di nuovo nel suo repellente corpo.
Ora che si era vestito e preparato di tutto punto, si perse ad osservarsi, rimanendo a rimirarsi davanti allo specchio per ore, estasiato dalla propria immagine, compiaciuto ed emozionato insieme: i pantaloni stretti di cuoio scuro fasciavano le gambe lunghe e magre del ragazzo in maniera indecente, facendo risaltare alla perfezione anche l’intera curva del fondoschiena sodo; il bacino stretto e sin troppo magro era circondato dalle cintole ben strette che tenevano sù quei quei pantaloni a vita alta, fasciando le anche sporgenti e il basso ventre piatto come una tavoletta; il torace tonico asciutto e sinuoso era invece ben fasciato da una camicia leggerissima di raso blu scuro, leggermente aperta sul petto, in modo da lasciare ben scoperto il collo d’elegante avorio e le clavicole sporgenti; i vestiti dai colori intensi creavano un contrasto a dir poco sublime con la pelle e i capelli chiarissimi. Questi ultimi li aveva intrecciati in una raffinata ma non troppo complessa acconciatura: una treccia morbida a lisca di pesce, che partiva sin dalla testa e terminava lungo l’inizio della schiena, lasciando completamente scoperto quel viso dai lineamenti a dir poco divini.
Padre Cliamon sorrise, e quel sorriso sul volto di Folker era ciò che di più peccaminoso avrebbe mai potuto sperare di vedere o immaginare: le labbra carnose e rosee scoprirono i denti bianchi, gli zigomi taglienti si rialzarono, i grandi diamanti di topazio che il ragazzo possedeva al posto degli occhi sorrisero a sua volta, maliziosi e vanesii, con le ciglia folte e quasi bianche che li incorniciavano.
Il monaco non era un amante degli orpelli di metallo, tuttavia, dovette riconoscere che, in quel bellissimo quadretto, un anello d’oro o un orecchino in pietra di smeraldo sarebbero stati il perfetto tocco di classe per rendere l’immagine di quell’angelo tentatore dinnanzi a sè ancor più intrigante.
Si alzò sù le maniche larghe della camicia, scoprendo gli avambracci nivei, fino al gomito spigoloso, per poi accingersi ad indossare l’ultimo indumento: almeno in quello, si mantenne fedele al vero Folker, rindossando gli abituali stivali neri, che aderivano al piede donando anche a quella parte del corpo un’inaspettata eleganza.
Decidendo di aver trascorso sin troppo tempo ad ammirarsi e a gongolare davanti allo specchio, Cliamon decise di agire, e di godersi la focosa e peccaminosa serata che lo aspettava al meglio delle sue possibilità.
Non si sentiva in colpa per Folker, no.
Non gli avrebbe fatto troppo male quella sera, sarebbe stato attento, in modo che il ragazzo non si accorgesse di nulla la mattina seguente.
Non si sentiva in colpa neanche per la sua fede, quella oramai era violata e macchiata da molto.
Prendere i voti era stato un errore a cui l’aveva sottoposto la sua stessa madre, e riconoscendo finalmente ciò, non riusciva a fare a meno di sentirsi rigenerato, finalmente, all’idea di fare quello che aveva sempre voluto fare: essere ammirato, voluto, e trattato come un oggetto bello, esattamente come i servi del Diavolo.
Non era sua la colpa, se era nato nella metà sbagliata del villaggio.
Il suo era un bisogno, e in quanto tale avrebbe dovuto soddisfarlo.
Si diresse alla Taverna con un mantello scuro a coprirlo, per evitare sguardi troppo eloquenti lungo la strada: di quelli si era già saziato abbastanza.
Entrato dentro il luogo, che pullulava di risa, di schiamazzi e dell’odore del vino, come ogni sera, si guardò intorno, deciso ad adocchiare almeno una serva e un servo del Diavolo da far cadere nella sua rete.
Purtroppo, in molti si stavano dirigendo verso la figura di quella sciamana bionda che aveva ammaliato il villaggio in due giorni, e che aveva deciso di concedersi a chiunque sapesse pagare abbastanza bene.
A pensarci bene, la Taverna era un luogo troppo esposto.
Se qualcuno che Folker conosceva lo avesse visto lì, i sospetti sulla stranezza della cosa si sarebbero moltiplicati e Folker stesso avrebbe iniziato a sospettare maggiormente.
Era meglio essere discreti e sedurre qualcuno in maniera più appartata.
Così, Cliamon si diresse verso il retro della Taverna, dove si trovava la seconda uscita, spesso utilizzata dalle coppie che desideravano distanziarsi un poco dalla folla e dal rumore, per amoreggiare in intimità.
 Si tolse il cappuccio e si sfilò il mantello, poggiando la schiena alla parete esterna dell’edificio, alzando il volto verso le stelle.
Osservò un paio di coppie camminare mano nella mano, annebbiate dal vino, in preda alle risa.
Purtroppo c’era poco affluenza in quel punto, perciò dovette attendere altri dieci minuti prima di scorgere un’altra anima viva.
Un paio di serve del Creatore uscirono di lì, chiacchierando, e non appena lo individuarono arrossirono vistosamente nonostante il buio, e quasi non inciamparono sui loro stessi passi, nel tentativo di non staccare gli occhi da lui.
Le ignorò volutamente, voltando la testa dall’altra parte.
D’improvviso, una voce nascosta nel buio lo raggiunse, facendolo sussultare per la sorpresa:
- Attendete la vostra fidanzata? – gli domandò una voce rauca, decisamente maschile e adulta.
Si voltò, e incontrò la figura avvenente di un uomo, un servo del Diavolo, dai corti capelli biondo cenere, una leggera barba incolta, un corpo visibilmente possente e ben formato nonostante i vestiti a schermarlo, e dei furbi occhi grigi e chiarissimi.
Si avvicinò a lui, apparentemente senza malizia, sorseggiando dal boccale che teneva in mano e osservando di tanto in tanto la gente uscire.
Cliamon realizzò che avrebbe dovuto sedurlo.
E non vedeva l’ora di farlo.
Mai come quella sera si sarebbe sentito tanto sicuro di sè, della sua bellezza, del suo potere.
Dunque, sfoderò le inestimabili armi che quel ragazzo aveva a disposizione, per troppo tempo sprecate e inutilizzate: arcuò la schiena all’indietro in un gesto casuale, poggiando la nuca e la testa alla parete dietro di sè, prendendo ad osservare l’uomo di sottecchi.
- Non sto aspettando nessuna ragazza – gli rispose, attirando i suoi occhi nuovamente su di sè.
L’uomo lo scandagliò dalla testa ai piedi, prendendosi tutto il tempo per osservare a dovere il suo corpo, facendo rabbrividire di aspettativa il monaco, il quale fremette, smanioso di quegli sguardi.
- Quanti anni avete, ragazzo?
Sedici? – ipotizzò l’uomo, continuando a sorseggiare dal suo boccale, mentre lo guardava e cercava di restare concentrato sul suo viso e non su altro.
Cliamon fremette ancora e accennò un sorriso furbo, riconoscendo che fosse un gentiluomo.
Negò con la testa, senza tuttavia rispondere alla sua domanda.
A ciò, l’uomo ricambiò il sorriso, il quale velava un pizzico di frustrazione. – Quindici? – ritentò.
Cliamon emise un risolino che aveva un che di sadico, e gettò la testa all’indietro, sapendo di avere gli occhi dell’uomo incollati su di sè, sulla sua camicia stretta e sbottonata, sulle sue gambe lunghe e fasciate di cuoio.
- Quasi ... – rispose casuale, fissando gli occhi nel cielo sopra di sè.
- E che ci fa un ragazzino di quattordici anni, da solo, vestito in questo modo, qua fuori? – gli domandò, con la voce a metà tra il frustrato e il giudicante.
A ciò, Cliamon si voltò a guardarlo, inchiodandolo con gli occhi grandi e liquidi di Folker, che brillavano nel buio della sera.
- Mi parlate come foste mio padre? Siete così vecchio? – gli domandò con giocosa arroganza.
- E dov’è vostro padre? Lo sa che siete qui?
- Vi interessa tanto? Mi volete riaccompagnare a casa per accertarvi lo sappia? – lo sfidò, sorridendogli ancora in quel modo peccaminoso e sfacciato.
Lo aveva in pugno.
L’uomo rise sardonico, scoprendo i denti, bevendo un altro sorso di vino.
Sembrava un uomo benestante, controllato, ma anche pronto ad esplodere da un momento all’altro.
Quel corpo aitante e prestante, quella voce roca, quegli occhi talvolta famelici, talvolta sfuggenti, lasciavano presagire fosse arrivato al limite.
- Nel nome del Diavolo... – imprecò sottovoce. – Sembrate attendere che qualcuno vi salti addosso.
- Perchè dite così?
- Per il modo in cui mi guardate, in cui vi muovete, in cui parlate.
- Sarà la vostra immaginazione – commentò divertito Cliamon, vedendolo vacillare ancora.
- Sono un uomo. Con più del doppio della vostra età. Mi avete visto bene?
- Sì, vi ho visto.
- Dunque è così? State cercando di sedurre un uomo?
- Sono vostre supposizioni.
- Ditemi, da quanto tempo lo fate? Siete come la donna che ha cominciato a svendersi là dentro? Avete preso spunto da lei? – il suo voleva essere un tono di scherno, ma risultò anche incuriosito.
- No. Io non svendo il mio corpo – disse con decisione, offeso da tali parole.
- E allora perchè lo fate?
- Fare cosa?
L’uomo rise ancora, gettando il vino rimasto a terra e portandosi i capelli all’indietro, mentre inspirava. Si voltò di nuovo a guardarlo. – Come mai siete certo di risultare attraente ad un uomo?
A tale domanda, Cliamon alzò un sopracciglio biondissimo e gli rivolse uno sguardo saccente, estremamente sicuro di sè, uno sguardo di superiorità che ostentò con naturalezza:
- Non è chiaro? Avete il coraggio di dirmi che il mio aspetto non farebbe gola a uomini e donne di ogni sorta?
L’uomo affilò lo sguardo, osservandolo ancora. – Sono sposato. Ho due figli piccoli.
- Bene. Buono a sapersi. Se la cosa vi preoccupa perchè non siete già a casa vostra a riscaldare il letto di vostra moglie, invece che qui a parlare con me?
- Perchè, da quando siete entrato nella Taverna venti minuti fa, e vi ho visto attraversarla per poi uscire di qui, non sono riuscito a distogliere lo sguardo da voi – ammise finalmente l’uomo, dichiarando la sua resa.
Cliamon sorrise trionfante.
- Cos’avete da sorridere come un gatto?
- Oh no, nulla – rispose sorridendogli ancora, furbo. – Ditemi di vostra moglie: sarebbe felice di sapervi tra le gambe di un uomo piuttosto che tra le gambe di un’altra donna?
- No.
- Allora, perchè escluderla?
L’uomo sgranò gli occhi, alzando un sopracciglio sorpreso.
Era riuscito a lasciarlo senza parole e se ne compiacque.
- Mi state proponendo di portarvi a casa mia? Volete sedurre anche lei?
Cliamon sorrise ancora di più, vedendo l’uomo abbassarsi su di lui, avvicinare il viso al suo.
Ma la sua sicurezza non venne meno e ostentò ancora il suo sguardo tronfio mentre egli gli fissava le labbra piene. – E se io non volessi che mia moglie venga toccata da un altro? – gli domandò soffiondogli il suo alito caldo sulla bocca.
- Potete sempre tornarvene a casa e lasciarmi qui.
Quella frase fu il colpo di grazia: l’uomo lo spinse maggiormente contro la parete e gli invase la bocca con la sua, baciandolo famelico e assaggiando le sue labbra come fossero succosi frutti maturi, facendolo mugolare di piacere.
Cliamon gli avvolse il collo con le braccia seminude, mentre egli continuava ad esplorare con dovizia il suo antro caldo, circondandogli la schiena con le mani, i palmi intenti ad esplorare ogni centimetro di quel fascio di nervi e pelle deturpata dalle ferite dalle frustrate e fasciata con la camicia di raso.
Ma il desiderio era troppo grande, cresceva a dismisura, e mentre Cliamon si aggrappò con esigenza al suo collo forte, distaccandosi dal muro e andandogli incontro, l’uomo non attese un minuto di più nel piantare le mani sulle sue natiche tonde, aggrappandovisi con forza.
Cliamon si distaccò lievemente da lui, ansimante e sorridente, e gli poggiò una mano sul petto per fermarlo, nel momento in cui egli tentò di riappropriarsi delle sue labbra.
- C’è una cosa... che dovete sapere... – esordì sospirando.
- Avete i capelli morbidi come quelli di una fanciulla.. – gli disse lui tra le labbra. – Avete la pelle setosa e profumata.. come quella di una fanciulla – continuò. – Ma il vostro corpo no.. il vostro corpo non è quello di una fanciulla – sussurrò rinforzando la stretta sulle natiche a pieni palmi e affondando il viso sullo scollo della sua camicia, iniziando a leccargli il petto e le clavicole.
Cliamon se lo spinse addosso e gettò la testa all’indietro mentre si lasciava stringere convulsamente e ansimava, facendo appello a tutta la sua forza di volontà per pronunciare quello che stava per dire:
- Dovete... sapere.. che io sono stato accusato.. di essere una strige – gemette, sentendo la stretta dell’uomo allentarsi improvvisamente, fino a cessare.
La sua preda si distanziò di poco da lui e lo guardò in volto, stupito, ma non impaurito. – Voi... siete il ragazzo-strige?
Cliamon annuì, cercando tuttavia di rassicurarlo con il suo sguardo e con i suoi gesti: gli si riavvicinò e gli accarezzò le mani con le sue.
- Io... non posso – pronunciò l’uomo, ora confuso e indeciso.
A ciò, il monaco fece aderire nuovamente l’addome con il suo, guardandolo dal basso a causa della differenza d’altezza, facendogli sentire anche quanto la sua intimità stesse scalpitando dentro il cavallo dei pantaloni.
Quella sera si sentiva più audace che mai.
- Ve lo sto dicendo solo perchè sono una persona corretta.. ma questo non significa che sto ammettendo di essere un mostro succhia-sangue.
Mi accusano di esserlo. Ma voi sapete benissimo che le strigi non esistono, e che sono solo una ridicola invenzione di quei maledetti servi del Creatore – gli disse, allungando una mano e carezzandogli delicatamente una guancia, mentre egli lo guardava smarrito.
Bastarono solo un altro paio di sguardi, affinchè l’uomo lo rinchiodasse al muro e riprendesse a vezzeggiarlo, impaziente di arrivare a casa per saziarsene come desiderava.
- Voi siete un’anima passiva..
Un’anima che ama essere vezzeggaiata, adulata e desiderata.
Proprio perchè siete un’anima passiva vi lasciate fare questo da un uomo – gli sussurrò dritto nell’orecchio, mentre gli succhiava e leccava un lobo, mentre le sue mani gli slacciavano la camicia lì fuori, e gli si infilavano sotto i vestiti, smaniose.
“Sì” pensò Cliamon.
Era un’anima passiva.
Lo sapeva. Fin da bambino.
Per tale motivo nei rapporti intimi preferiva godere dei piaceri da sottomesso, piuttosto che da una posizione di comando, sia con gli uomini che con le donne.
Non se ne vergognava.
Non se ne vergognava più.
Quando i due giunsero a casa dell’uomo, non fu difficile convincere l’ignara e bellissima moglie di quel servo del Diavolo ad unirsi a loro.
La donna era persino più curiosa e creativa del marito.
Cliamon visse la notte più favolosa, intensa e indimenticabile della sua vita con loro.
Ed era abbastanza certo che per i due coniugi fosse lo stesso.
Ad un tratto, la donna, in preda al piacere, gli fece anche una richiesta che non si sarebbe dimenticato facilmente: “Dato che dicono tu sia una strige, avanti, mordi il mio collo e assaggia il mio sangue”.
Era stata una richiesta annebbiata dal piacere, divertita, ma anche determinata e troppo vogliosa e decisa per venire ignorata.
A ciò, lasciandosi prendere dalla foga, mentre l’uomo affondava in lui, riempendolo, il monaco morse con forza il collo tenero e bianco della donna, facendola urlare di dolore misto a piacere, percependo chiaramente il sapore ferroso del sangue tra le labbra e sulla lingua.
Venne inebriato da quel sapore.
Quella notte si addormentarono tutti e tre sul letto dei due coniugi, e quando l’alba stette per sorgere, Cliamon abbandonò il giaciglio e la casa, ritornò a casa di Folker, nascose i vestiti e lo specchio, e si lasciò ricadere a letto.
Si era ricordato di fare tutto, tralasciando un unico, essenziale dettaglio:
quando Folker si risvegliò nel suo letto quella mattina, ignaro, stravolto e lievemente dolorante in zone strane del corpo, percepì anche una sensazione che fu in grado di paralizzarlo per il resto della giornata.
I suoi denti erano sporchi di sangue.
Sulla sua lingua, vi era ancora il retrogusto ferroso di quel liquido denso e scarlatto.
Proprio per tale motivo, con la consapevolezza di non sapere cosa gli fosse accaduto il giorno prima, per l’ennesima volta, quella sera decise di andare alla Taverna per incontrare Bridgette.
Dopo quella notte trascorsa tra le sue braccia e il suo corpo accogliente, aveva incontrato la ragazza altre volte, di nascosto, per fare l’amore con lei.
Ciò riusciva minimamente a distoglierlo da quel pensiero, dal pensiero che il suo corpo gli stesse venendo rubato.
Tuttavia... quell’atroce sensazione di sangue sulla lingua e in fondo alla gola.. non se ne andava.
Non se ne andava mai.
 
Padre Cliamon, col suo inadeguato corpo di nascita,  giunse alla dimora in cui abitava Myriam, la casa abbandonata in cui l’aveva incontrata la prima volta.
Fremeva e scalpitava per incontrarla.
La strega gli permise di entrare, senza domandargli cosa volesse.
- Lo voglio io – esordì il monaco, la voce tremante e lo sguardo disperato.
- Che cosa volete?
- Il suo corpo. Non mi basta più una volta ogni sette giorni. Non mi basta. Lo voglio sempre, ogni giorno.
Lo voglio io.
- Non potete averlo – gli rispose atona lei. 
- Ma io me lo merito!
Lui  non sa come usarlo! Io sì!
Myriam si lasciò andare ad una crudele risata sguaiata che parve durare secoli, a tali parole.
Terminato di ridere, parlò:
– C’è un modo giusto o sbagliato per usare un corpo, padre?
Illuminatemi, dunque: come si usa un corpo nel modo giusto?  - gli domandò malignamente.
- Lui non lo apprezza abbastanza!
Lui lo dà per scontato!
Tutti voi lo date per scontato! – esclamò in preda al delirio.
- Quando capirete che se anche voi foste nato con un corpo simile lo dareste per scontato?
L’essere umano vuole sempre ciò che non ha: che sia la bellezza, che sia la sapienza, il potere, l’intelligenza, il talento, la ricchezza, l’amore.
La vostra insulsa scenata farebbe raccapricciare capre e asini – sputò sprezzante la strega.
- Voi... voi mi avete fatto questo.. – pianse il monaco coprendosi il volto con le mani. – Se non avessi mai saputo cosa si prova... se avessi continuato a vivere nell’ignoranza... la mia anima sarebbe-
- La vostra anima non sarebbe mai stata pura.
Il vostro spirito è corrotto dalle radici, marcio dall’interno – gli sussurrò ad un palmo dal suo viso.
Il volto di lei era una bellissima maschera di cera, e padre Cliamon deglutì, tremando.
- Immaginavo foste lurido.
Ma non mi aspettavo sino a tal punto – continuò Myriam.
- Voi mi avete condotto alla degradazione!
- Io vi ho solo dato ciò che avete chiesto.
- Siete un demonio!
- Non vi donerò il corpo di quel ragazzo, togliendolo a lui.
A Folker spetta di diritto.
E il fatto che voi non riusciate minimamente a empatizzare con lui, con tutto il male che gli state facendo, è un’ennesima conferma del vostro sudiciume.
Padre Cliamon si inginocchiò e pianse.
- Io non sto facendo niente...
Non sto facendo nulla di male...
- Lo state assassinando lentamente.
- Non lo sto assassinando!
Io mi prenderei il suo corpo e lui si prenderebbe il mio!
Voi gli cancellereste i ricordi!
Avrei cura del suo corpo, del corpo che lui non ha mai apprezzato.
- Perchè vi interessa tanto la vostra apparenza? – indagò la strega, ponendo le braccia conserte e affilando lo sguardo felino.
- Perchè desidero l’adulazione degli altri su di me.
- Esistono molti altri modi per ottenere l’adulazione e l’attenzione degli altri.
- Non mi interessano gli altri modi – ammise. – Mi è sempre importato solo di questo.
- C’è un solo modo per ottenere quello che desiderate – gli disse melliflua la donna, girandogli intorno.
- Cosa...?! Cosa devo fare?
- Questo tipo di incantesimo ha un solo epilogo: nel caso in cui voi uccideste il vostro corpo carnale mentre la vostra anima abita il corpo di Folker, l’anima di quest’ultimo perirebbe dentro le vostre membra, mentre voi vivreste dentro le sue, per sempre.
Cliamon sgranò gli occhi per lo sconcerto. – No ... non posso farlo... non posso...
- Ovvio che non potete.
Non osereste.
Non osereste mai.
 
Era sceso dal cavallo, legandolo nel retro della casa.
Era mattino inoltrato.
Aveva dormito nel bosco in compagnia dello stregone, entrambi annebbiati e stimolati dagli effetti degli oppiacei.
Una volta svegliati dopo quel sonno affatto ristoratore, Blake era andato a farsi un bagno al lago.
Ci era voluta quasi un’ora intera di sfregamenti sulla pelle per togliersi via almeno i residui più neri e fastidiosi di zolfo e carbone.
Una volta rivestito, non aveva atteso un istante di più per montare a cavallo, con tutta l’intenzione di tornare a casa.
Ephram, dal canto suo, era rimasto nel bosco, dicendogli che sarebbe tornato alla sua dimora (la quale si trovava nelle vicinanze) a piedi.
Blake si diresse nella porta principale di casa sua, emettendo un lungo sospiro stanco.
L’idea di dover rimettere la fucina in sesto, da capo a piedi, non lo entusiasmava affatto.
Ma avrebbe dovuto farlo presto, se voleva riprendere da dove si era fermato.
Aprì la porta di casa con calma, entrando dentro.
Non aveva neanche sperato di non trovare nessuno in casa, stavolta.
Non appena la porta si richiuse, padre Craig, il quale si trovava di spalle alla porta, e che stava sorseggiando un infuso calmante in piedi, in cucina, si paralizzò.
Nonostante non avesse visto di chi si trattasse, era come se una sorta di sesto senso, un sesto senso che aveva solo per il ragazzo dietro di sè, lo avesse avvertito, e gli avesse fatto gelare il sangue.
Per poco non lasciò andare la tazza di ceramica a terra, facendola frantumare in mille pezzi.
Strinse il manico tra le dita fino a farsi sbiancare le nocche, senza voltarsi.
Improvvisamente, si sentì come quell’eroe di quel mito greco che gli avevano letto da bambino: “Non voltarti a guardarla” era stato detto all’eroe di quel racconto. “Se ti volterai a guardarla lei sparirà e la perderai per sempre”.
Blake, dal canto suo, diede un’occhiata alle spalle del prete straniero, studiando quella figura ormai così familiare a lui, una figura alla quale si era abituato in poco tempo, alla quale si era stranamente adattato con facilità. Notò che non indossava i suoi abiti monacali. Era alquanto strano vederlo con una semplice camicia bianca e dei pantaloni di lino.
Il ragazzo si spostò verso il bancone della cucina, versandosi dell’infuso caldo rimasto sul fuoco, rimanendo alle spalle di padre Craig, il quale non aveva mosso un dito, nè emesso un suono.
Blake si appoggiò con il fondoschiena al bancone, iniziando a sorseggiare il suo infuso con calma e naturalezza.
Vi era un silenzio surreale tra loro.
Una tranquillità che non vi era mai stata.
Inaspettatamente, fu Blake a rompere il ghiaccio, facendogli finalmente riascoltare la sua voce, dopo sette giorni che non la udiva:
- Sto bene – esordì con calma il ragazzo, fissando il camino a pochi metri da lui. – Mi è stato detto che eravate preoccupato – aggiunse, spiegando la sua affermazione.
Stringendo maggiormente le nocche sulla maniglia della tazza, padre Craig non perse tempo e rispose:
- Bene.
Ad ogni modo, non sono la vostra balia.
Non dovete rendermi conto di niente.
- Lo so bene.
Nella voce di Blake non c’era freddezza, in quella di padre Craig sì.
Freddezza autoimposta e una malcelata rabbia.
- Non indossate la vostra tunica – osservò Blake inclinando lievemente la testa di lato mentre guardava di sottecchi la figura del prete ancora voltata di spalle, lievemente tremante.
- Ho deciso di fare dei cambiamenti nella mia vita – rispose lapidario il giovane prete, riprendendo a sorseggiare a sua volta.
Blake annuì, riprendendo a guardare dinnanzi a sè.
D’improvviso, come un fantasma del mattino, ricomparve dinnanzi ai suoi occhi sempre la solita lugubre ed inquietante figura, al quale era oramai avvezzo:
Bonnie sorrise provocatoria, con tutti i dentini sporchi di terra, tenendosi in equilibrio su un piedino solo, poi con l’altro, in uno strano gioco infantile che le faceva svolazzare il vestitino lurido di terriccio scuro.
- “Ha cercato tutti i suoi pezzi...”
E li ha rimessi per bene insieme  completò nella sua mente il ragazzo, la solita litania che lei canticchiava di continuo.
La guardò con sguardo distratto e gli occhi stanchi.
- L’avete trovato? – la voce di padre Craig, ancora di spalle, concreta e reale, lo distolse lievemente dalla visione della bambina.
- Che cosa?
- Quello che state disperatamente cercando – disse padre Craig, attendendo una sua risposta.
Blake vi riflettè su. La scoperta improvvisa e insapettata della polvere nera e la fucina che andava quasi distrutta la notte prima, ricomparve con lucidità nella sua mente, facendolo involontariamente fremere.
Ad ogni modo, sarebbe stato meglio non far sapere ad altra anima viva della sua scoperta.
- Sì – si limitò a rispondergli, riportando lo sguardo su Bonnie, che ballava maldestramente nel salotto, con gli arti tutti rotti e snodati.
- Bene.
Sappiate che non appena lei saprà che siete uscito, vorrà parlarvi.
Blake sapeva benissimo a chi padre Craig si riferisse.
Heloisa era sicuramente alla cattedrale a pregare in quel momento, se le voci che aveva udito sulla sua quasi totale ripresa non mentivano.
Presto o tardi, l’avrebbe incrociata e il pensiero, per una volta, non lo disturbava.
Non lo angustiava un confronto con sua madre, dopo tutto quel tempo.
Blake non fece in tempo a rispondere, che la porta di casa si aprì nuovamente, rompendo la calma surreale instauratasi tra loro.
Dall’entrata comparve per primo un trafelato Ioan, tutto accaldato per la corsa.
- Padre, padre, abbiamo raccolto un sacco di stelle alpine! – esclamò il bambino correndo verso il prete per mostrargli il suo cesto colmo di fiori.
Ma non appena si accorse di un’altra presenza accanto all’entrata, Ioan si paralizzò, lasciando cadere a terra tutto il suo bottino.
Il bambino si voltò verso destra, incontrando la figura di suo fratello, impietrito quanto lui, in piedi e appoggiato al bancone della cucina, sano, vivo e vegeto.
Gli occhioni chiarissimi di Ioan si riempirono istantaneamente di lacrime salate, mentre, come un automa, il suo corpo si mosse, saltando addosso a Blake in un unico grande e disperato balzo verso di lui.
Blake, con la prontezza che lo caratterizzava soprattutto quando si trattava di lui, lo afferrò al volo, accovacciandosi e stringendolo a sè a sua volta, beandosi dell’unico contatto fisico che avrebbe voluto ricevere.
Ioan affondò il volto in lacrime nei suoi capelli, inspirando a pieni polmoni per riabituarsi al suo profumo, stringendolo come se non lo volesse mai più lasciar andar via.
Blake sorrise, con le labbra premute alla sua spalla esile, accarezzandogli la schiena e i capelli con familiarità e intimità, cercando di rassicurarlo come potè:
- Sono qui. Sono qui, Christopher.
- Non te ne andrai più...? Non ti rinchiuderai più là sotto, vero? – lo supplicò il bambino tra i singhiozzi.
Il cuore del ragazzo si spezzò dinnanzi alle suppliche di suo fratello.
Erano in quei momenti che si chiedeva se non avesse sbagliato tutto.
Erano quelli i momenti in cui gli tornavano in mente le parole di Ephram della notte appena passata, le sue domande insistenti sul perchè stesse facendo tutto questo, su cosa lo spingesse a farlo.
Blake gli prese la testa e portò le proprie labbra sulla fronte candida del bambino, baciandogliela con calma, mentre il piccolo non sembrava affatto intenzionato a lasciarlo andare.
- No. Non mi rinchiuderò più là dentro – gli sussurrò rassicurante, sentendolo rilassarsi tra le proprie braccia.
Udendo quella commovente riunione tra i due fratelli dietro di sè, padre Craig sorrise tra sè, con il cuore un po’ più leggero.
Quando Ioan si staccò da lui, lo guardò negli occhi e sorrise raggiante. – Oggi, dovunque andrai ti seguirò, Even.
- Davvero dovunque? – lo sfidò il più grande, alzando un sopracciglio castano.
- Dovunque!
- Beh allora, preparati, perchè ti porterò con me dentro la bocca di un vulcano – lo avvertì scompigliandogli i capelli e rialzandosi in piedi, rivolgendo lo sguardo verso la seconda e ultima persona rientrata in casa al momento:
Quaglia era in piedi dinnanzi a lui, che lo fissava quasi fosse una visione.
L’uomo gli si avvicinò e allungò una mano per toccarlo, come per accertarsi fosse reale.
Gli sfiorò il collo e Blake lo lasciò fare, mentre lo vedeva avvicinarsi a lui, finendo per abbracciarlo.
Un abbraccio discreto, non stretto come quello di Ioan, ma che esprimeva tutta la sua gioia nel rivederlo dopo tutto quel tempo e tutto intero.
Quaglia sospirò di sollievo, avvertendo le braccia di Blake ricambiare lievemente l’abbraccio.
- Stai bene.
- Sto bene.
Quaglia si distaccò da lui e gli sorrise. – Ora mi permetterai di tornare ad affiancarti? – gli domandò cautamente.
Inaspettatamente, Blake annuì, ricambiando il sorriso accennato.
Padre Craig udì tutto, da quella posizione, senza muoversi di mezzo millimetro, continuando a sorseggiare.
Due giorni prima avrebbe dato via l’anima per rivederlo, per abbracciarlo, per accertarsi stesse bene.
Ma, al momento, non riusciva a muovere un muscolo.
La sua razionalità dominante aveva preso il sopravvento e gli permetteva di tenere fede alla promessa che aveva fatto a se stesso: Non ne valeva la pena. Non sarebbe mai valsa la pena.
E con quella voce vorticante in testa represse la voglia di fare ciò che desiderava fare da sette giorni, giorno e notte.
Quando Blake uscì di casa insieme a Ioan, padre Craig emise un sospiro di sollievo, rendendosi conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
Solo in quel momento si accorse che Quaglia lo stava guardando.
Lo guardava con gli occhi seri e consapevoli di qualcuno che la sapeva lunga.
Tuttavia, l’uomo non gli disse nulla.
Semplicemente, si defilò dalla sua vista.
 
Judith entrò dentro la biblioteca della cattedrale del Diavolo, come stava facendo da circa tre giorni, trovandola  pulita e ben illuminata.
Quella biblioteca era enorme e bella quanto quella del Creatore, eppure nessuno ci entrava più, dato che ogni singolo monaco del Diavolo era morto durante la ribellione degli stregoni.
Una ribellione che Judith non ricordava, ma di cui aveva ampiamente sentito parlare, da quando si era risvegliata dalla sua amnesia.
Così aveva deciso di sobbarcarsi quel compito affatto sgradito, e di dargli una ripulita, ma, a quanto pare, non ve ne era così bisogno: già da quando vi aveva rimesso piede (dopo diverso tempo che non la visitava), qualche giorno prima, l’aveva trovata sin troppo ordinata.
Forse i monaci del Creatore avevano provveduto a sistemarla negli ultimi mesi.
Chissà.
Lei di certo non poteva esser stata, dato che poteva essere considerata la guardiana della biblioteca del Creatore, ma non di quella del Diavolo.
Prendersi cura di entrambe le avrebbe tolto troppo tempo e aveva sempre creduto vi fossero i monaci del Diavolo a tenerla in ordine, pulita e sistemata.
La ragazza decise di finire di controllare che la catalogazione dei tomi fosse corretta in quelle decine e decine di altissimi scaffali, riprendendo dalla parete di Storia Antica.
Ma mentre controllava la disposizione dei libri, credendo di essere sola, udì il rumore di alcuni passi, di libri che si incastravano tra loro e di pagine che si muovevano, a qualche scaffale poco distante da lei.
Alzò un sopracciglio sorpresa, credendo di esserselo immaginato: l’accesso alle biblioteche era vietato a chiunque non fosse un monaco o lei stessa, ed era altamente improbabile che vi fosse uno dei monaci in quella biblioteca, dato che al momento erano in riunione.
Ignorando quel pensiero, continuò il suo operato, fin quando non udì ancora dei rumori.
Stupita e convinta di non esserselo sognato questa volta, la fanciulla si avvicinò alla fonte di quei lievi suoni, decisa a scoprire chi si trovasse là dentro con lei.
Poi, lo vide: infilato tra il quinto e il sesto scaffale, vi era un ragazzo che le dava la schiena, in piedi su una scala, intento a tirare fuori alcuni tomi e a sfogliarli con tranquillità.
Egli si muoveva con estrema familiarità in quel luogo, e ciò fece storcere il naso a Judith, quanto la incuriosì.
Come poteva un popolano, ai quali l’accesso ai luoghi di cultura era categoricamente vietato, muoversi in quella biblioteca quasi come se ci abitasse dentro?
Ma soprattutto, come poteva un popolano essere in grado di leggere??
Nulla di tutto ciò quadrava a Judith, la quale restò ad osservarlo di soppiatto, nascosta dietro il quinto scaffale.
Nonostante la sua schiena e tutta la parte posteriore del suo corpo fosse l’unica cosa che riuscisse a vedere di lui da quella posizione, era certa si trattasse di un servo del Diavolo.
Il ragazzo scese dalla scala e si diresse verso il grande tavolo in mezzo alla biblioteca, spingendo Judith a nascondersi ancor più segretamente dietro lo scaffale, per non farsi vedere.
La ragazza lo vide restare in piedi mentre leggeva il tomo con attenzione, per poi abbassarsi con il volto sulle pagine, estremamente interessato al suo contenuto.
Dopo circa cinque minuti trascorsi a guardarlo e a studiarlo di soppiatto, la ragazza mosse un passo e prese una lieve storta alla caviglia a causa del tacco, un rumore che rimbombò in tutta la biblioteca, distraendo il ragazzo.
Egli alzò lo sguardo dal tomo, dandosi una distratta occhiata intorno, senza notarla, in quanto la ragazza era ancora nascosta.
Tuttavia, non sembrava atteggiarsi furtivo o temere di essere scoperto.
Era come se tutti sapessero della sua permanenza lì e ne fossero d’accordo.
Tutti tranne Judith.
Il ragazzo tornò a concentrarsi sul tomo, emettendo tuttavia delle parole che sorpresero la fanciulla:
- Se siete venuto per dirmi che il mio tempo da passare qui dentro è scaduto, fate pure, ma sappiate che resterò ancora un po’. Dunque potete anche smettere di nascondervi e uscire allo scoperto per farmi la ramanzina riguardo tutte le regole che non rispetto faccia a faccia, padre Thomas – disse con voce annoiata, continuando a leggere le pagine.
La sua voce era sicura di sè, calda e bella da sentire.
A ciò, Judith convenne che fosse il momento di uscire davvero allo scoperto e di presentarsi al misterioso sconosciuto, quantomeno per capirci qualcosa.
Fece risuonare i tacchi sul pavimento, avvicinandosi a lui da dietro.
Si schiarì la voce e iniziò a parlare, facendo ben comprendere di non essere padre Thomas:
- È la prima volta che vedo un popolano entrare in una delle biblioteche e la cosa mi lascia alquanto perplessa - esordì, ottenendo in parte la reazione che si aspettava, in parte qualcosa che la lasciò basita:
Non appena udì la sua voce, il ragazzo sussultò e si voltò verso di lei in uno scatto, mostrandole il suo volto esterrefatto, quasi come avesse appena visto un fantasma.
In quel momento Judith ebbe finalmente modo di osservarlo meglio: i suoi grandi e luminosi occhi blu si spalancarono all’inverosimile, le labbra si schiusero per la sorpresa, le sue mani si arpionarono al tavolo, ora dietro di lui, come per reggersi in piedi.
Era alto e slanciato, era un suo coetaneo, possedeva un corpo invidiabile, folti capelli scuri legati e presumibilmente lunghi, e sì, come aveva immaginato, era decisamente un servo del Diavolo.
Judith rimase allibita a sua volta dalla reazione esagerata del ragazzo non appena l’ebbe vista.
- Scusatemi... mi avete già vista? Per caso mi conoscevate prima che perdessi la memoria? – azzardò Judith con un fil di voce, mentre continuava a guardarlo.
Ma non appena porse quella domanda, lo sconosciuto si riscosse dallo sconcerto e sembrò tornare in sè. - No - le rispose lui, con voce apparenemente calma. – Non vi ho mai vista.
- Ah.. perchè dalla vostra reazione sembrava aveste visto uno spettro.
- Mi avete semplicemente spaventato, tutto qui – le spiegò lui, rivolgendole un mezzo sorriso di circostanza, tornando a guardare il suo tomo.
- Ad ogni modo.. – riprese Judith, lievemente offesa dal fatto che lui la stesse già ignorando. – Avete mai sentito parlare di me?
A tal domanda, Blake rialzò gli occhi dal tomo e li riportò su quella nuova Judith, che lo guardava con insistenza.
Non poteva bastare averla incontrata. A quanto pare la ragazza aveva anche voglia di intavolare una coversazione.
Perfetto.
Avrebbe voluto dirle che non la ricordava così altezzosa, e che la cosa inaspettatamente lo divertiva, ma si morse la lingua prima di dire qualsiasi cosa.
Si morse la lingua prima di chiamarla per nome.
Prima di dirle tutto quello che non le aveva mai detto e che avrebbe dovuto dirle molto tempo prima.
Prima di dirle quanto fosse immensamente felice di rivederla.
Se solo avesse saputo che vi fosse la probabilità di incontrarla lì, non vi avrebbe affatto messo piede. 
Judith non andava mai nella biblioteca del Diavolo.
Perchè, proprio quel giorno, doveva trovarsi lì e ucciderlo lentamente con la sua sola presenza, con i suoi soli occhi estranei su di lui?
- Siete la pupilla dei monaci? – le disse, vedendola sorridere affermativamente.
- Non ve l’ho chiesto per vantarmi, ci sono un sacco di persone che non sanno chi sono, d’altronde.
Era per farvi comprendere per quale motivo ho il diritto di trovarmi qui, dato che l’accesso alle biblioteche è-
- Vietato ad ogni popolano, sì, lo so – la interruppe lui.
La fanciulla si stava innervosendo per tanta sconsideratezza, almeno quanto si stava incuriosendo.
- Allora, ditemi: per quale motivo un servo del Diavolo che non ha preso i voti si trova qui? E perchè, da come parlavate poco fa, sembra che ogni monaco che mi ha cresciuta sia a conoscenza della vostra presenza qui, e la accetti per di più, mentre io non ne so nulla? – chiese lei impaziente.
Blake vi rifletté su qualche istante, senza scervellarsi troppo. – Non sono affari miei se i vostri monaci non vi hanno informata. Forse hanno convenuto di non farlo perchè sapevano avreste reagito così.
- State forse insinuando io sia troppo rigida e irascibile?
- State facendo tutto da sola, signorina.
- Da quanto tempo sgattaiolate dentro la biblioteca del Diavolo con il benestare dei monaci?
- Da un po’.
- Se così fosse... come mai non vi ho mai visto qui in questi ultimi giorni?
- Magari non mi avete notato.
- Impossibile, non siete certo uno che passa inosservato. Mi sarei sicuramente ricordata di voi – si lasciò sfuggire lei.
A ciò, Blake emise un lieve sorriso storto, osservandola. – Mi avete scoperto: sono stato .. impegnato, in questi ultimi giorni. È la prima volta che torno dopo diverso tempo.
- Voi... sapete leggere. Come avete fatto? – continuò lei imperterrita, sempre più interessata a quel bizzarro ragazzo.
- Ho imparato – rispose lui con semplicità.
- Da solo?
- Quasi. Mi ha aiutato la mia balia, da piccolo.
Judith avrebbe voluto fargli i complimenti, e al contempo rivelargli quanto fosse internamente felice di aver finalmente trovato qualcuno che sapesse leggere come lei, e che non fosse uno dei monaci.
- Io ho imparato grazie ai monaci – gli disse. – Sono i vantaggi di essere la loro protetta – aggiunse, distogliendo lo sguardo da lui e posandolo sul tomo che egli stava leggendo. – Ditemi: come avete fatto a convincere i monaci a farvi entrare qui indisturbato? Solitamente sono molto intransigenti sulle regole di Bliaint – domandò dubbiosa la ragazza.
A ciò, Blake affilò lo sguardo furbo. – Credete che vada a rivelare i miei trucchi alla prima sconosciuta che incontro?
Riconoscendo la logica di quel ragionamento, Judith si lasciò andare e sorrise a sua volta. – Sapete.. è strano per me incontrare qualcuno, qualcuno come me, che non sia un monaco, che sappia leggere e che sia acculturato – confessò con una certa eccitazione.
- Lo è anche per me.
- Posso domandarvi cosa state leggendo?
A ciò, Blake riappoggiò lo sguardo sul tomo aperto. – Non è semplice da spiegare – le disse, cercando di svignarsela così.
- Provateci – lo incoraggiò lei, guardandolo con quegli occhi da cerbiatta, neri e penetranti, a cui nulla poteva essere negato. 
- Conoscete l’alchimia? – rispose lui tornando a guardare le pagine. Il suo profilo era stanco e velato di una cupezza che Judith non aveva notato prima: i suoi bellissimi lineamenti erano appesantiti da qualcosa, un fardello che la ragazza non poteva comprendere.
- Vagamente. Siete uno stregone?
- In certi momenti vorrei esserlo. Sarebbe tutto più facile – confessò lui. – Ma poi rinsavisco e torno in me.
- Siete contro l’uso della magia?
- Nella maggior parte dei casi.
- Io ultimamente la sto sperimentando – ammise lei. – Non direttamente, ma grazie ad una donna che la pratica, la quale mi è molto vicina. Devo dire che mi sto ricredendo. Non fraintendetemi: continuo a pensarla per lo più come voi, e a non approvarne l’utilizzo sconsiderato, tuttavia... ora riesco anche a coglierne i benefici. Grazie a lei sto riuscendo persino.. a mettermi in contatto con i miei bambini – disse toccandosi il rigonfiamento sulla pancia, domandandosi internamente come mai stesse rivelando a quel ragazzo tutto ciò.
- Davvero? – domandò lui sinceramente sorpreso, ponendo le braccia conserte.
Judith annuì con un sorriso, per poi cambiare argomento:
- Dunque.. siete un uomo di scienza. Immagino vi piaccia la concretezza e che le vostre letture si accodino a  questi gusti – suppose.
A ciò, Blake roteò gli occhi al cielo.
- Cosa c’è? – domandò lei.
- Riconosco quello sguardo: lo sguardo di qualcuno che ama la poesia e che sta per dirmi che le letture “concrete” non fanno per lei.
Judith si permise di sorridere, stupefatta. – Mi avete beccata. Ma non amo solo le poesie. Mi piaccono anche i racconti di fantasia – aggiunse lei. Era davvero bello poter parlare a qualcuno delle letture che le interessavano. - A voi no?
- No – rispose lui senza esitazione.
- Davvero? Vi piaccono solamente i libri di alchimia e quei tristissimi tomi pieni di formule matematiche?
- Non sono tristissimi – si difese lui. – Sono reali, pratici e concreti. Non come le vostre storielle.
- Ah sì? – domandò lei ponendo le braccia conserte a sua volta e guardandolo con un ghigno a metà tra la sfida e la curiosità. – Permettetemi di farvi ricredere, mio signore.
- Sono tutt’orecchie.
- C’è un racconto che vi consiglio e che vorrei leggeste. Ho il presentimento potrebbe rientrare nei vostri gusti, nonostante non vi conosca.
- Di che si tratta?
- Non ha titolo e non si sa chi sia l’autore o l’autrice.
- Come posso trovarlo allora?
- Ve lo darò io personalmente. Lo tengo nelle mie stanze.
A ciò, il ragazzo affilò lo sguardo, in attesa. – Continuate.
- Il racconto parla di un’ossessione. Un’ossessione e il terribile peso del libero arbitrio.
La storia inizia con un uomo talmente ossessionato da una donna, da cercarla fino in capo al mondo.
Egli è talmente innamorato di lei, da desiderare persino i suoi figli. A ciò, la donna scappa da lui, ma l’uomo, in qualche modo, la trova sempre. I due figli, stanchi di tal situazione opprimente, escogitano un piano: il fratello propone alla sorella di uccidere la madre per liberarsi del fardello dell’uomo, che non li inseguirà più non appena la donna sarà morta e la sua ossessione per lei svanita con ella. Ma la sorella rifiuta di mettere in atto un piano tanto egoistico e brutale.
Blake, il quale la stava ascoltando assorto, in piedi di fronte a lei come lo era da quando si erano incontrati, la esortò a continuare: - Ora avete stuzzicato la mia curiosità: avanti, continuate.
- Volete conoscere il finale? Lo leggerete comunque, anche se vi rivelerò il finale? – chiese conferma lei, fiera di vederlo interessato.
A ciò, il ragazzo si mise una mano sul petto e le fece il favore di suggellare quella promessa: - Ci troviamo dentro la nostra cattedrale, perciò il Diavolo mi è testimone: lo giuro.
- Bene. Dunque, dove ero rimasta?
Il Diavolo viene in soccorso della ragazzina e gli propone un patto: Lui le darà il potere di comandare su tutti gli uomini indistintamente (dunque anche sull’uomo che li perseguita), ma in cambio lei dovrà uccidere suo fratello. Lei accetta, ma senza l’intenzione di uccidere davvero il fratello, difatti non lo fa, infrangendo il giuramento.
In compenso, il potere le dà alla testa e comanda il ragazzo a bacchetta, così come comanda su tutti gli altri uomini, tra cui il loro persecutore. La ragazza decide di donare quel potere anche a sua madre, ma la madre non lo usa con equilibrio e finisce per tiranneggiare su tutti gli uomini, in modo molto più crudele della figlia. A ciò, in preda alla disperazione e pentendosi delle sue scelte, la ragazza finisce per uccidere sua madre.
Alla fine, ella scopre che quella non era davvero sua madre, e che la vera madre aveva venduto lei e suo fratello per una manciata di grano ad una sconosciuta.
- Oh.. – commentò il ragazzo, stupito. – Interessante sviluppo.
- Già, non credete?
Tante volte mi sono fermata a pensare a cosa avrei fatto io al posto della ragazza, a come avrei agito.
Provo sentimenti molto aspri verso la vera madre dei due fratelli, per averli venduti alla prima persona apparsa nel suo cammino, senza accertarsi se sarebbero stati o no in buone mani.
Nonostante non appaia nel racconto, ma venga solo menzionata, me la sono sempre immaginata, vivida davanti a me: l’avrei uccisa con le mie mani. L’avrei cercata, l’avrei cercata ovunque, con l’unico scopo di ucciderla. Poi avrei continuato la mia vita senza guardarmi indietro – concluse Judith, alzando poi lo sguardo sul ragazzo, per osservare la sua reazione:
Egli la guardava riflessivo, ripensando a quella storia.
I suoi occhi irrequieti e stanchi turbinavano in pensieri a lei celati.
- E voi? – gli domandò, riscuotendolo, come naturale conseguenza del suo discorso.
- Io cosa?
- Voi cosa avreste fatto invece? Se foste stato al posto della ragazza?
Eccola, la domanda che avrebbe dovuto aspettarsi, sin dall’inizio.
La solita domanda che Judith, la vecchia Judith, non faceva altro che porgli, nei momenti meno opportuni:
“- Voi che cosa avreste fatto se foste stato al mio posto?
- Mi state chiedendo cosa sarei diventato se avessi vissuto tutto quello che avete vissuto voi?
- Esattamente. Come avreste agito?
- Io non sono voi, Judith.
- Lo so. Per questo ve lo sto chiedendo.
- È impossibile determinare come sarebbero andate le cose.
- Provateci.
- Io non sarei qui.
Non avrei scalato la gerarchia come avete fatto voi, non mi sarei ingraziato il clero come avete fatto voi, non avrei assunto un grado così alto come avete fatto voi, non avrei fatto buon viso a cattivo gioco, non sarei riuscito a reggere qui dentro per più di due anni.
Niente di tutto questo, Judith.
Ora che sapete ciò, vi sentite rincuorata?
- Che cosa avreste fatto, allora?
- Me ne sarei andato via da Bliaint. Lontano da qui.
- Voi … volete andarvene, non è vero?
... quando e se mai lascerete Bliaint, dove volete andare?”
- Allora? – riattirò la sua attenzione lei, genuinamente impaziente di conoscere la sua risposta, come lo era sempre stata.
Come se la risposta di lui avrebbe mai potuto cambiare le cose.
Avrebbe voluto chiederglielo, ora che erano due sconosciuti, come mai le interessasse tanto il suo punto di vista sul mondo.
- Volete sapere come mi sarei comportato se avessi scoperto che la mia vera madre mi ha venduto come fossi un oggetto, facendomi passare le disgrazie che ha vissuto la ragazza del racconto?
- Sì, esatto.
- L’avrei cercata anche io – rispose lui con sguardo neutro, distaccato. – L’avrei cercata per conoscerla, prima. Mi sarei preso il tempo di cui avessi avuto bisogno per conoscerla. E solo allora, dopo averla conosciuta, l’avrei uccisa con le mie mani – le rispose senza battere ciglio.
- Per un attimo ho temuto mi avreste detto che avreste accettato la proposta del fratello all’inizio del racconto, uccidendo quella che credevate vostra madre solo per sbarazzarvi del persecutore.
Blake alzò un sopracciglio. – Mi credete un senzacuore?
Judith non rispose subito, si prese il suo tempo. – Mi sembrate una persona molto determinata e fredda. Una persona che farebbe di tutto per ottenere quello che vuole e che non teme di sporcarsi le mani. Forse è solo una mia sensazione. Vi ho offeso?
- Affatto. Ci vuole ben altro per offendermi.
Ad ogni modo, la vostra domanda non era questa.
Mi avete solo chiesto cosa avrei fatto in merito alla vera madre, non alla donna che li aveva cresciuti.
- Avete ragione. Perchè avreste voluto conoscere la vostra vera madre?
- Per scoprire come fosse.
- Per quale motivo, se tanto lo scopo sarebbe stato comunque quello di ucciderla?
Il ragazzo alzò le spalle. – Forse per scoprire qualcosa su di me.
- Non lo avreste fatto nella speranza di cambiare idea su di lei e di risparmiarla?
- No.
- Non ci credo – disse lei. – Se io l’avessi conosciuta.. non credo sarei comunque riuscita ad ucciderla a sangue freddo.
- Perchè dite così? Solo perchè sarebbe stata sangue del vostro sangue?
Judith ammutolì, non riuscendo a trovare una risposta giusta da dare.
- Se invece.. vostra madre vi avesse ceduto ad una persona fidata, che avrebbe potuto prendersi cura di voi, e si fosse assicurata che foste al sicuro, seppur restando lontana .. l’avreste giudicata alla stesso modo? – gli domandò improvvisamente la ragazza, temendo la risposta.
- Immagino di no. La madre del racconto l’avrei uccisa senza esitazione, perchè a causa sua avrei vissuto degli eventi che mi avrebbero rovinato la vita, a prescindere dal fatto che fosse mia madre o no: il suo abbandono sconsiderato ha provocato tutte le sofferenze della figlia. Nel caso che mi avete posto voi, invece, non avrei avuto interesse nell’ucciderla, anzi, le sarei stato grato.
- Nonostante vi avesse abbandonato?
- Che importanza avrebbe? – le domandò.
- Cosa intendete?
- Che importanza avrebbe essere cresciuto da una vera madre, con cui si condivide il sangue, o da una madre adottiva? – disse lui con naturalezza.
- Beh, l’avrebbe – controbattè lei.
- Perchè?
- Perchè vi è un fattore biologico alla base. Un attaccamento che ha origine dal ventre della madre naturale.
- Lo dite per esperienza, perchè lo state sperimentando anche voi? – le domandò lui, cogliendola di sorpresa.
Judith si accarezzò la pancia, poi ritornò con lo sguardo sul ragazzo.
Quella conversazione la stava stimolando e galvanizzando in qualche modo.
- Posso chiedervi come mai siete qui proprio oggi? – gli domandò all’improvviso, curiosa di scoprire di più.
- Devo fare delle ricerche. A dir la verità, è ora che vada, devo andare a riprendere mio fratello.
- Avete un fratello?
- Sì, è venuto con me oggi, ma si è fermato a salutare una sua amica che abita nelle vicinanze. Gli ho detto che sarei passato a riprenderlo non appena avessi finito qui – gli spiegò il ragazzo, puntando gli occhi sul maestoso pendolo appeso ad una delle pareti.
Judith guardò l’orario e si sorprese nell’accorgersi che fosse passato più tempo di quanto si aspettasse da che l’aveva incontrato e aveva iniziato a parlare con lui: un’ora, volata via completamente.
- Ad ogni modo, che maleducata sono stata: il mio nome è Judith. Arley Judith. Avrei dovuto presentarmi molto prima.
- Onorato, Judith – le rispose lui.
- Qual è il vostro nome?
Ma il ragazzo non ebbe il tempo di rispondere, in quanto i due furono interrotti dalla voce di un monaco in lontananza:
- Judith, cara, sei dentro la biblioteca? Ho un incarico per te, sto arrivando.
La voce di padre Thomas era vicina, perciò Blake riportò lo sguardo su Judith, la quale, granitica come sempre, non sembrava aver gradito quell’inaspettata interruzione.
- Vi auguro una buona giornata. Lasciatemi il racconto di cui mi avete parlato qui, su questo tavolo, così la prossima volta che verrò lo troverò – le disse, per poi avviarsi verso l’uscita della biblioteca.
- Aspettate – lo bloccò lei, confusa e stranita. – Non mi avete ancora detto il vostro nome. Se ve ne andate senza dirmelo, vi annovererò come sgarbato, scortese e persino cafone.
A ciò, Blake rise di gusto, una risata dal sapore dolceamaro che durò un battito di ciglia. – Avrebbe importanza?
- Certo che la avrebbe – gli rispose Judith. – Per me l’avrebbe.
- No, non l’avrebbe – le rispose. – Non l’avrebbe se non ci incontrassimo più – terminò lui.
- Beh.. allora sperate di non incontrarmi più.
- Addio, Judith.
Detto ciò, lo sconosciuto uscì dalla sua visuale e dalla biblioteca, lasciandola in balìa di un vuoto e di un’anomala mancanza ai quali la ragazza non seppe dare un nome.
 
 
Il ragazzo era inginocchiato, ai piedi dell’altare, del crocefisso voltato al contrario.
Aveva appena terminato la quinta sessione di purificazione della giornata con uno dei monaci, e i suoi capelli del color della luna erano ancora totalmente bagnati e gocciolanti di acqua fredda.
Il suo volto era piegato verso il basso, la sua preghiera al Diavolo tacita tra le sue labbra scure, tremanti per il freddo.
Una presenza improvvisa si inginocchiò accanto a lui.
Il ragazzo, tuttavia, non si voltò verso di lei.
La sua mente era altrove.
Il sapore del sangue ancora tra le labbra, anche a distanza di giorni.
- I miei genitori narravano spesso a me e a mia sorella, leggende sulle strigi – esordì quella voce femminile ma tremendamente roca e spaventosa, che ricordò come familiare, per qualche motivo.
Tuttavia, decise comunque di non voltarsi a guardarla, e di rimanere con lo sguardo fisso ai piedi del crocefisso al contrario, nell’esatto punto in cui, quella notte, aveva trovato il corpo seminudo di Judith riverso in posizione innaturale, in una pozza di sangue.
- Che leggende? – le domandò in un fil di voce il ragazzo.
Sapeva che le descrizioni e le dichiarazioni di Allister Chaim riguardo le visioni avute quella notte sulle creature ultraterrene fossero note a tutti, ma non credeva che i servi del Creatore ci avessero ricamato sopra, aizzando con le loro paure e le loro fantasie quelle leggende, tramandandosele persino.
- Mia madre ci narrava di due fratelli, fratello e sorella, che compaiono di notte alle porte di chiunque sia giovane abbastanza da aizzare i sensi e le voglie delle due creature.
Creature belle come il Diavolo in persona. Ma perfide, tremende, spietate, atroci.
Il loro aspetto è quello di fanciulli tra i quindici e i diciotto anni.
La loro violenza è nota e incomparabile con quella di qualsiasi essere umano.
La loro forza non è da meno.
Folker deglutì, restando a guardare quel punto ai piedi dell’altare, con sguardo fisso, mentre ascoltava quella voce accanto a lui continuare a parlare:
- Diceva che una notte, i due terribili fratelli fecero visita ad un rifugio di bambini orfani, fingendo di essere orfani a loro volta, di avere fame e sete, di necessitare un posto dove dormire.
La vecchina che presiedeva il rifugio li accolse, ovviamente, intenerita dal loro aspetto camuffatamente innocente e trasandato, e al contempo incantata dai loro visi.
Quella notte, le due strigi fecero strage di bambini, trasformando ogni fanciullino e fanciullina presenti nel rifugi in mostri succhiasangue come loro.
Folker, per la prima volta, si voltò a guardarla, riconoscendo in lei il volto ripugnante e distorto dalla perfidia della serva del Creatore che aveva quasi ucciso Judith quella notte.
Ella si voltò a guardarlo a sua volta, paralizzandolo sul posto. – Avresti dovuto lasciarmela uccidere quella notte – gli disse in un ringhio sprezzante. – È colpa tua se lei è ancora viva.
- Come sei arrivata qui?
- Non me lo ricordo.
- Come mi hai trovato?
- Mi è bastato seguire la puzza di sangue.
- Tu menti – le disse lui alzandosi in piedi, indietreggiando.
A ciò, lei lo osservò e gli sorrise diabolica.
- Stai ribollendo di rabbia, non è vero, strige?
- Sta’ zitta.
- Sei un soggetto davvero interessante, sai?
Talvolta il tuo volto è quello di un’arpia, pregno di una malignità perversa e divorante che si manifesta in uno di quei sorrisini che a pochi lasci il privilegio di vedere, un inno alla pura crudeltà.
Altre volte, la maggior parte delle volte, mostri l’espressione spaurita e stralunata che hai ora, quella che cerca di impietosire chi hai davanti, un mascheramento ridicolo e insensato di una natura che scalpita per uscire.
Perchè non lo lasci uscire?
- Smettila.
- Perchè non scateni il mostro che c’è in te?
Perchè non lasci vedere a tutti di cosa il tuo animo puro e demoniaco è capace?
- Ho detto di stare zitta! – esclamò lui indietreggiando ancora, percependo le lacrime montargli ai lati degli occhi, stringendosi convulsamente i capelli tra le dita.
- Ti manca poco, non è vero? – persistette Layla, alzandosi in piedi a sua volta e avvicinandosi, ghignando soddisfatta. – Ti manca pochissimo per lasciarlo uscire di nuovo. A nulla sono servite quelle inutili torture a cui ti sottopongono. Ma non ho tempo da perdere con te, sfortunatamente.
- Che cosa vuoi??
- Lo sai che aspetto hanno i bambini-strige?
Mia madre ce li descriveva sempre, con estrema minuzia: i volti lisci, le bocche sempre assetate, sempre affamate, che succhiano e mordono tutto quello che capita loro sotto i denti, con i dentini perennemente sporchi di sangue e la lingua rossa, lunga e snodata. Alcuni ce l’hanno anche biforcuta, come quella dei serpenti. Le labbra bianche, incolore. Gli occhi vuoti. Come i tuoi.
- Smettila!! – esclamò lui, vedendola avvicinarsi a lui. – Sta’ lontana da me!
- Altrimenti?? Cosa vuoi fare? Vuoi mordermi fino a togliermi il respiro, prosciugandomi il sangue e gli organi interni?? Cosa vuoi fare, strige?! – lo provocò lei scoppiando a ridere istericamente.
A ciò, l’espressione di Folker e la sua voce, mutarono completamente:
- Mi disgusti – sputò schifato.
- Cosa ti disgusta? Dillo, avanti, servo del Diavolo.
- La tua faccia.
La tua voce.
I tuoi occhi.
Il tuo corpo.
Tutto mi disgusta di te – le disse sprezzante, ora avvicinandosi a lei con infinita lentezza.
- Bravo. Ora ti vedo davvero.
- Chi sei tu?
- La parte migliore di una donna.
Così come tu sei la parte migliore di un uomo.
Fu a quel punto che il ragazzo accontentò quel fastidioso formicolio che persisteva e permeava il suo essere come lava incandescente, persino quando era incosciente.
Senza più alcun freno, la colpì con un violento pugno in faccia, ridendo di gusto, non potendone fare a meno.
La sensazione di averla picchiata lo allettò e lo rinvigorì talmente tanto da accendergli tutti i sensi.
La picchiò ancora e ancora, colpendola con calci e pugni, sprezzante, e sorridendo malignamente ogni volta che la vedeva annaspare in cerca d’aria, tossire e sanguinare.
- Potrei ucciderti con un unico calcio ben assestato sul petto, sai? – le domandò infine, con la sua voce schifata e arrogante, puntandole la suola dello stivale sul collo per impedirle di rialzarsi in piedi. - I monaci mi ringrazierebbero, dato che sei stata tu a ridurre in fin di vita la loro protetta.
- Fallo, strige – lo incoraggiò lei, sorridendo senza un briciolo di terrore o vergogna, anzi, soddisfatta del risultato ottenuto.
- Non azzardarti mai più a chiamarmi così.
- Fallo, e vedrai quanto piacere proverai!
- Tu sei pazza.
- E tu sei senza anima.
Non puoi essere salvato.
Mai potrai esserlo.
Folker la lasciò lì.
Si fermò un attimo prima di fare danni irreparabili, lasciandola ferita e sanguinante ai piedi dell’altare.
Scappò via, come ultimamente faceva sempre più spesso, tornando a casa.
Ignorò le domande di sua madre, che lo vide rientrare trafelato, col fiatone e le mani sporche di sangue, e si chiuse in camera.
Si asciugò convulsamente le mani e le braccia, fino a togliere ogni traccia e frammento di sangue di quella donna; poi, sentì l’esigenza per l’ennesima volta di bere un po’ d’acqua, e tenerla in bocca quel tanto che bastasse per autoconvincersi di non sentire più il sapore di sangue in bocca, da quella notte.
Si specchiò dentro l’acqua contenuta nella bacinella, scoprendo i denti, ossessionato e terrorizzato all’idea di vederli sporchi di sangue. Eppure erano bianchi, non sembravano appuntiti, nè rossi, apparivano del tutto normali.
Si rannicchiò sul suo letto, stringendosi le ginocchia al petto.
Dopo un tempo che gli parve infinito, che impiegò a cercare di rimanere sveglio, combattendo il sonno incombente, sua madre bussò alla porta.
Il ragazzo mugolò. – Lasciami in pace...
- Dietrich, caro, c’è qualcuno per te.
- Non è possibile ci sia qualcuno per me – le rispose infastidito. L’unica che avrebbe potuto volerlo vedere era Bridgette, ma la fanciulla non sarebbe mai arrivata al punto di presentarsi a casa sua. – Non voglio vedere nessuno – aggiunse.
Tuttavia, nonostante il suo negato consenso, qualcuno entrò nella stanza, richiudendo la porta dietro di sè.
- Ti avevo detto che non volev- ma le parole gli morirono in bocca nel momento in cui alzò la testa dal cuscino e individuò l’imponente figura di Ambrose in piedi davanti alla porta.
Rimase senza parole a fissarlo, fin quando non fu lo stesso servo del Creatore a schiarirsi la voce e a prendere la parola. – Prima che tu dica qualsiasi cosa, prima che mi cacci via a calci, voglio che mi ascolti. Che ascolti tutto quello che ho da dire – chiarì. – Poi sarai del tutto libero di cacciarmi via.
Il ragazzo attese un qualsiasi segno di consenso da parte di Folker, il quale continuava a guardarlo stupito, senza emettere un suono.
Almeno, non lo stava platealmente fuliminando con lo sguardo e già questo era qualcosa.
- Mi ascolterai? – gli domandò diretto il moro, impaziente.
- Parla – gli rispose semplicemente il biondo, quasi in un sussurro.
Non assunse una posizione di minaccia, nè di difesa, rimase semi seduto sul proprio letto, in attesa che il suo unico amico spiccicasse parola.
- Sono qui perchè voglio dirti tutto quello che penso.
Non mi sta bene che giudichi le mie azioni e le mie parole senza che io mi sia spiegato.
Non ti permetterò mai più di giungere a conclusioni affrettate – mise le cosa in chiaro Ambrose, con una determinazione che non avrebbe mai creduto di avere. – Io non mi sono avvicinato a te per l’attrazione fisica che provo nei tuoi confronti, Folker. Se avessi avuto qualsiasi altro aspetto, l’esito sarebbe stato lo stesso: ti avrei chiesto una tregua e saremmo diventati amici.
Il tuo carattere è uno dei peggiori esistenti su questa terra, e anche se non ho di certo visitato il mondo, posso dirlo con certezza.
Dunque non lo so, detto sinceramente.
Non so perchè la tua personalità, il tuo modo di essere mi attiri così tanto, e mi piaccia, per lo più.
So solo che questi giorni senza di te sono stati a dir poco infernali – ammise, abbassando lo sguardo afflitto.
- Mai nessun amico mi è mancato quanto mi sei mancato tu.
Mi sono mancate le chiacchierate con te, le passeggiate, gli insulti velati, fare le compere al mercato e le gare di corsa su per la collinetta.
Mi piace l’idea di svegliarmi la mattina e sapere che ti incontrerò, che potrò essere una roccia e un conforto per te, non appena uscirai da quella cattedrale maledetta, dopo ogni rito di purificazione.
Il mio cuore... batte più veloce del normale ogni volta che penso a te, e credimi, posso garantirti che non è dovuto al fatto che tu sia bellissimo.
Siete tutti bellissimi, eppure con gli altri servi del Diavolo non mi sento così.
Solo con te.
Rimasto in silenzio, ad ascoltarlo con attenzione fino a quel momento, con gli occhi sgranati per la sorpresa, il cuore di Folker si scaldò, e così le sue membra infreddolite.
Avrebbe voluto sorridergli, ma era ancora in parte arrabbiato con lui, per aver osato toccarlo senza il suo consenso.
Inoltre, si sentiva anche in parte in colpa nei suoi confronti: aveva giaciuto con Bridgette diverse volte da quando aveva litigato con Ambrose, e anche se Ambrose sembrava sapere che non avrebbe mai potuto avere il suo cuore, gli avrebbe comunque fatto male scoprire che lui fosse stato con un donna.
Questo, Folker riusciva a comprenderlo.
- Quello che provi per me.. – si azzardò a rispondere il biondo, dopo diversi istanti di silenzio. – Che cos’è? Lo hai capito?
A ciò, Ambrose si trovò, per la prima volta da quando era entrato in camera sua, in difficoltà: guardò ovunque tranne che in direzione del suo interlocutore, torturandosi le dita con le mani.
- Io sto cercando di comprenderlo.
Ma non è facile.
Mi piaci. Questo è certo.
- Ti piaccio come dovrebbe piacerti una donna – realizzò Folker, con voce tranquilla e priva di qualsivoglia tono d’accusa.
- Sì.
- Però vuoi essermi amico.
- Mi importa solo  di esserti amico. Non voglio null’altro da te.
- Ne sei sicuro? – lo mise alla prova il biondo.
- Sicurissimo.
So che non potresti mai provare niente nei miei confronti, e mi va benissimo così.
Non cerco altro.
- Eppure mi hai baciato, quella volta.
- Non sapevo non fossi tu! – si difese il moro. – Non lo avrei mai fatto, altrimenti! Ti ho baciato solo perchè chiunque abitasse il tuo corpo quel giorno, ha ricambiato e voleva la stessa cosa che volevo io, inizialmente.
- Inizialmente?
- Di punto in bianco mi ha scacciato ed è scappato via. Forse.. ha una coscienza anche lui...
- Come può una persona che abita il corpo di qualcun altro, facendoci ciò che più gli aggrada, avere una coscienza...?
- Lo vorrei morto quanto lo vuoi morto tu, Folker. Odio quello che ti ha fatto, e che ti sta facendo – affermò il moro, con la voce intrisa di rabbia.
- Anche se ti ha permesso di toccarmi?
- Ovvio!
- Quindi non ti approfitteresti di me, se io non fossi nel mio corpo.
- Folker, come puoi anche solo pensarlo?? Hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto finora?! – esclamò Ambrose, ferito e frustrato per essere messo alla prova in tal modo. Strinse i pugni e sibilò: - Perchè sei così diffidente nei miei confronti? Ti faccio paura a tal punto? Esiste un modo per far tornare tutto come prima? Per riguadagnare la tua piena fiducia?
- Non mi fai paura – affermò il biondo, risdraiandosi sul letto, con il viso rivolto verso il soffitto.
Ambrose si rese conto solo in quel momento di quanto la voce del ragazzo risultasse atona, lontana, priva di vitalità.
Ciò lo preoccupò e non poco.
- Non ho mai avuto paura di te, Ambrose – ammise Folker. – Al contrario, nonostante tutto, mi sento al sicuro al tuo fianco. Mi dà fastidio il fatto di aver bisogno di sentirmi al sicuro.
Percepisco delle mani fantasma su di me, che mi toccano.
È una sensazione che ho costantemente, da qualche giorno, e non è piacevole.
Mi strapperei via la pelle di dosso pur di non sentirle più – pronunciò in tono distante, come distaccato dalla realtà, continuando a guardare verso l’alto.
- Posso sedermi? – gli domandò Ambrose.
Folker annuì, e il ragazzo prese posto sul letto affianco al suo.
Il biondo voltò la testa verso di lui, perdendosi nei ricordi legati a quel letto.
- C’era un periodo.. in cui non la smetteva mai di cantare.
Cantava e ballava sempre, come una trottola.
Io non ne potevo più. Ero talmente snervato da questa cosa, che fingevo non fosse mia sorella davanti ai miei amici.
Mi vergognavo di lei, della sua molesta vivacità, della sua energia.
Quando cantavo per lei erano gli unici momenti in cui si calmava.
Ambrose sorrise, a quel racconto, carezzando distrattamente le coperte sotto di sè. – Doveva essere una bambina simpaticissima, Bonnie.
- Lo era – confermò il biondo, accennando un sorriso spezzato. – Era anche dolce. Tutta la dolcezza che non ricevevano da me, i miei genitori la ricevevano da lei.
Amava da morire andare a giocare in quella maledetta galleria, aspettando che mio padre finisse di lavorare.
Quella è stata la sua condanna.
- Ti somigliava? – gli domandò Ambrose guardandolo.
Folker annuì, perdendosi ancora nei ricordi. – I capelli biondi erano meno chiari dei miei, sempre in disordine. I suoi occhi... li ha presi da mia madre: tondi e infinitamente espressivi.
- Folker.. – lo richiamò Ambrose guardandolo allarmato, essendo oramai del tutto certo fosse accaduto qualcosa. – Che è successo?
Il biondo negò, con la testa ancora rivolta al soffitto, trattenendo i tremori.
- Ti prego, dimmelo – insistette il moro.
- Ho picchiato una donna poco fa.
- Cosa..?
- L’ho picchiata, come avrebbe fatto il vecchio me stesso – ripetè il biondo. – L’ho picchiata fino a farle sputare sangue, e poi l’ho lasciata lì, ad annaspare, dentro la cattedrale – mentre parlava, la sua espressione mutò, assumendo involontariamente un maligno ghigno di soddisfazione, un ghigno che Ambrose non era più abituato a vedere da sin troppo tempo.
- E.. come ti sei sentito? – si azzardò a chiedergli.
- Rigenerato. Soddisfatto. Realizzato. Come mi sentivo ad ogni incontro con la congrega. Come mi sento ogni volta che prendo a pugni e calci qualcuno.
- Però lo sai che è sbagliato. Quando eravamo nella congrega andava bene, eravamo tutti d’accordo, ma nella vita reale..
- Credi che non lo sappia?
L’ho sempre detto che non sono una bella persona! – esclamò Folker ritirandosi su e fulminandolo con gli occhi.
- Non si tratta di essere una bella persona o no.
- Invece sì, si tratta di questo.
A volte, è come se fosse un bisogno per me.
Un bisogno che solo le torture a cui vengo sottoposto tengono a bada.
- Non puoi farlo comunque.
In un gesto involontario, Folker si portò le dita tra i denti, qualcosa che oramai faceva sempre più spesso, senza accorgersene.
- Che stai facendo? – gli domandò Ambrose.
- Quella donna mi ha raccontato delle storie sulle strigi.
- Non avrei mai dovuto tirare fuori la storia delle strigi, mai. Rimarrà sempre il mio più grande rimpianto - disse il moro, rammaricato.
- Invece hai fatto bene.
Mi sta succedendo qualcosa e voglio scoprire cosa sia.
Sento perennemente il sapore del sangue in bocca, tra i denti, come se non riuscissi a sentire altro.
Riesco a mangiare solo se mi sforzo di farlo e...
- Basta, basta con questa storia – pronunciò Ambrose in tono più che deciso. – Tu non hai succhiato il sangue di nessuno. Sei solo un ragazzo confuso, che sta delirando a causa di tutto ciò che gli stanno facendo passare, e questo è quanto.
- Vorresti fosse così semplice, non è vero? – gli domandò il biondo sorridendogli sprezzante e disilluso, stringendosi le ginocchia. – Ma non lo è. Non so che ne sarà di me. Ma se dovessero scoprire che ho fatto del male a qualcuno.. se dovessero scoprire che ho morso qualcuno e succhiato il suo sangue, anche se non ero in me quando è accaduto, non farebbe differenza : i riti di purificazione dovrebbero servire a trattenermi, a guarirmi. Se non riescono a guarirmi, mi bruceranno al rogo.
È passato sin troppo tempo dall’ultimo rogo, a causa dei riti.
I monaci non vedranno l’ora di farne un altro.
- No, no, no, smettila! – esclamò Ambrose non volendo più sentire una sola parola, scattando in piedi.
Folker tacque, stranamente.
- Hai idea di chi possa essere colui che abita il mio corpo? – domandò improvvisamente quest’ultimo, trattenendo i tremori di rabbia e di terrore. – Hai scoperto qualcosa?
- Ci sto lavorando. Un’idea ce l’avrei – gli disse il moro, cercando il suo sguardo, ma non trovandolo, in quanto il biondo si ostinava a fissare un punto nel vuoto, distante.
- Chi?
- Un certo monaco che ti sta sin troppo appiccicato.
A ciò, Folker alzò il volto perplesso e confuso su di lui. – Padre Cliamon...? Impossibile.
- Perchè?
- Perchè è un dannato monaco.
- Quindi? Abbiamo già avuto dimostrazione del fatto che anche i monaci hanno desideri e atteggiamenti perversi, circa dieci anni fa. Non sono santi, nè messaggeri dei signori. Sono solo uomini – affermò il moro.
- Deve essere qualcun altro – controbattè Folker. – Uno dei tuoi stupidi vecchi amici, ad esempio.
- Credi quello che vuoi, ma dobbiamo scoprire di chi si tratta.
Dunque... in merito a quello che ti ho detto finora.. di nuovo amici? – tentò Ambrose porgendogli la mano.
Folker la guardò, poi guardò lui.
Si alzò in piedi e si avvicinò al moro.
Gli strinse la mano in segno di accettazione, scrutando i suoi occhi, ma non mollò subito la presa.
- Se fosse davvero il monaco .. – sussurrò, senza rispondere alla sua domanda. - .. da come ha reagito a te, è evidente che ti desidera.
- No – rispose Ambrose, deglutendo rumorosamente. – Non desidera me.
- Sì.
- Desidera essere te.. per essere toccato da me.
Mi desidera solo quando è dentro il tuo corpo.
Gli piace l’idea che noi due.. – il servo del Creatore si bloccò, non riuscendo a terminare la frase.
- Se è così, potrebbe riaccadere.
- Che cosa?
- Che lui provi a sedurti mentre possiede il mio corpo.
Sa della tua infatuazione nei miei confronti, Ambrose.
Potrebbe sfruttarla a suo favore.
A quel punto come reagirai? Cosa farai? – gli domandò in un sussurro, avvicinandosi ancora all’amico, guardandolo intensamente negli occhi, sfidandolo.
- Io non alzerò un dito su di te.
Mai più.
- Neanche se usasse le mie sembianze per offrirsi completamente a te?
- Mai. Saprò che non sei tu, lo riconoscerò e non lo farò, a prescindere.
Non ti toccherò mai – promise con convinzione, sostenendo i suoi occhi di cristallo incatenati ai suoi.
- Non ti toccherò mai – ripeté, come fosse un mantra.
- Bene.
Di nuovo amici.
- Di nuovo amici.

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Capitolo 46
*** Assassina ***


Assassina
 

- SEI SECOLI PRIMA - 
 
La ragazza urlò a squarciagola, dando un’ultima spinta, stremata.
-Non arrenderti, cara, ci sei quasi! - la incoraggiò il suo giovane consorte stringendole la mano durante il parto.
Allister Chaim assisteva in disparte, pronto a dare la sua benedizione non appena il bambino o la bambina fosse nato/a; un rituale che si ripeteva spesso.
La divisione del villaggio nei due culti era già stata attuata da lui stesso e diverse fratture interne erano già insorte: coloro scelti come i più belli, dunque costretti a convertirsi e a diventare servi del Diavolo, non si trovavano d’accordo con la scelta, e manifestavano il loro malcontento. Specialmente coloro che, prima della divisione, erano promessi a qualcuno che era stato scelto/a per appartenere ad un altro culto, i quali erano stati forzati ad annullare il fidanzamento dopo la divisione, in quanto servi del Creatore e servi del Diavolo non potevano assolutamente avere alcuna relazione gli uni con gli altri.
Padre Chaim non se ne curava. Certo dell’efficacia della sua decisione e di quel cambiamento drastico che aveva ideato, divenendo il salvatore del villaggio, sapeva che i due signori fossero fieri di lui, e che la tremenda calamità fosse stata placata.
Tuttavia, i monaci del Diavolo erano ancora pochi ed esigui di numero, perciò, molto spesso, erano i monaci del Creatore a presiedere i parti in casa anche dei servi del Diavolo.
Ed era proprio quello che stava facendo padre Chaim in quel momento, mentre osservava assorto la levatrice aiutare la fanciulla serva del Diavolo a spingere fuori il neonato nascente.
Oramai il monaco conosceva ogni dettaglio del corpo di una donna, nonostante non avesse mai giaciuto con una di loro: grazie ai parti a cui assisteva, aveva imparato che ogni donna possedeva un’apertura sul davanti, tra le gambe, larga ed elastica, morbida come una pagnotta di pane appena sfornato, la quale si apriva a dismisura per far uscire i bambini che le donne ospitavano dentro di loro. E per accogliere l’intimità maschile durante i rapporti.
Come ogni uomo dotato di desideri che teneva abilmente repressi e silenti a favore del suo voto di castità, padre Chaim, il Santo, aveva iniziato a nutrire curiosità nei confronti di quell’organo femminile che il gentil sesso teneva nascosto sotto le sottane, coprendone l’odore e la visione, per naturale e scontata pudicizia.
Sapeva quanto fossero sbagliati quei pensieri, ma, al contempo, aveva iniziato ad autoconvincersi che non potevano esserlo così tanto se il suo Dio lo aveva creato in grado di provarli. Dio non sbagliava mai. Inoltre, lui era il Santo, il Salvatore, oramai, e chiunque al villaggio lo rispettava e seguiva ciecamente le sue direttive. Tutto ciò che diceva e pensava, automaticamente, era giusto, insindacabile.
Per di più, la donna e l’uomo che stava assistendo quella sera erano particolarmente belli.
Essendo la prima generazione della divisione, le differenze tra belli e brutti (dunque tra servi del Diavolo e del Creatore) non erano così plateali ed evidenti, ancora. Tuttavia, il monaco dovette ammettere che quei due erano davvero un grande piacere per gli occhi, e chiunque lo avesse negato sarebbe stato cieco.
La fanciulla in travaglio possedeva una lunghissima chioma di capelli color albicocca, ondulati come le onde del mare, una pelle chiara come l’alabastro, liscissima.
Il suo consorte, che avrà avuto massimo diciott’anni come lei, era un ragazzo dagli affilati e seducenti occhi di smeraldo, e i capelli folti e neri.
-Ce l’avete fatta! È una femmina! Una splendida bambina! - esclamò la levatrice, stringendo tra le braccia la neonata, che piangeva come un’ossessa.
La fanciulla tremava e piangeva di gioia, stringendo la mano di suo marito e guardando la sua bambina a distanza.
- Sia lodato il Diavolo! - esclamò lei.
- Sia lodato il Diavolo - ripetè lui abbracciandola e baciandole la fronte sudata. - Sei stata bravissima, Erin.
Lei si beò di quel contatto, poi guardò la levatrice. - Posso tenerla..? - domandò felice, ancora in lacrime.
- Attendete ancora un attimo, padre Chaim deve ancora benedirla.
- Oh, giusto, perdonate, Sommo Chaim – disse il ragazzo, attendendo che il monaco prendesse in braccio la neonata.
Allister si avvicinò alla levatrice e prese tra le braccia la piccola, la quale aveva smesso di piangere, e ora sbatteva gli occhietti annebbiati, riscaldata dal panno nel quale era avvolta.
I suoi occhi erano già bellissimi: verdi, come il più prezioso degli smeraldi.
In quel momento, un’idea balenò in testa al Salvatore del villaggio.
D’altronde, quella dolce e giovane coppia avrebbe potuto sfornare una moltitudine di altri figli, erano entrambi in salute e nel pieno delle forze. Non sarebbe stata una perdita, per loro, se la loro prima figlia fosse stata loro sottratta. Inoltre, il villaggio era sin troppo sovrappopolato, negli ultimi tempi.
Una bocca in meno da sfamare, soprattutto se femmina, avrebbe solo potuto giovare a Bliaint.
A ciò, il monaco approfittò del fatto che la bambina si fosse addormentata per disporsi di spalle alla coppia. Iniziò a sforzarsi di singhiozzare.
-Padre..? Sommo padre, che succede? - domandò il ragazzo, allarmato.
- La bambina... la bambina è... - Allister Chaim pianse forzatamente, stringendosi il fagottino al petto.
La madre della piccola, ancora col fiatone, spalancò gli occhi, ma non per la gioia questa volta. - Che succede? Padre.. mostratemela, per favore. Padre, voglio vedere mia figlia...
-Mia dolce figliola.. la vostra bellissima bambina ha appena spirato tra le mie braccia.
- No.. no, no, no, no... non può essere - affermò la ragazza, gli occhioni scuri lucidissimi, la testa che negava convulsamente, le forze che le mancavano.
- Stava bene fino ad un attimo fa.. Padre, ne siete sicuro?? - gli domandò il padre della piccola, con voce distrutta.
A ciò, padre Chaim voltò lievemente la testa verso di loro, mostrando il suo volto distrutto. - Mi spiace tanto.
Un urlo atroce si elevò dentro la casa. Erin, la giovanissima madre, urlò a squarciagola per il dolore, trattenuta dal marito, il quale pianse con lei, condividendo il suo dolore.
Intanto, la levatrice si avvicinò al monaco, notando immediatamente che la piccola fosse ancora viva, ma che stesse semplicemente dormendo.
La donna, sconvolta, alzò lo sguardo su di lui e incontrò gli occhi scuri e minacciosi del Salvatore del villaggio. - Tenete la bocca chiusa, figliola, o il vostro Signore vi punirà amaramente – sussurrò ricattandola, facendola impietrire, ma sapendo che avrebbe mantenuto il segreto.
-Penserò io a benedire il corpicino e alla sepoltura – disse poi ad alta voce padre Chaim, sovrastando i pianti disperati dei due neogenitori, mentre si apprestava ad uscire in fretta e furia dalla casa.
Durante il tragitto pensò a dove potesse tenerla nascosta, a dove potesse crescerla senza che nessuno la vedesse.
Sicuramente avrebbe dovuto dare delle spiegazioni agli altri monaci, ma non era un grande problema, in quanto i monaci, così come i popolani, così come chiunque a Bliaint, si affidavano alle sue parole, anima e corpo.
Un colpo di genio lo colpì, mentre la piccola si risvegliava dal suo sonno, avendo incontrato il freddo della sera sulla pelle chiara: sotto le due cattedrali vi erano delle cripte, fatte costruire dai costruttori secoli prima, come rifugio in caso di assedio da parte di popolazioni straniere.
Quelle cripte erano inabitate e inutilizzate da decenni, ed erano abbastanza spaziose da permettere ad una bambina di viverci dentro. O a più bambini.
Scacciò via quel pensiero, ripetendosi mentalmente che il suo era un gesto di pura curiosità e di altruismo verso la sovrappopolazione del villaggio.
Si sarebbe preso cura di quella bambina e non le avrebbe fatto mancare nulla.
Avrebbe sperimentato con lei ciò che gli altri uomini del villaggio sperimentavano con le loro mogli. Quando sarebbe stata abbastanza grande, certo.
E solo se lei lo avesse voluto. Ma era ovvio che lei lo avrebbe voluto. Nessuno avrebbe potuto negare qualcosa al Salvatore del villaggio.
L’avrebbe cresciuta e accudita nell’ombra, tenendola lì dentro e facendola svagare tramite la sua compagnia, e insegnandole a leggere e a scrivere, come avrebbe fatto ad una donna di culto.
L’uomo guardò la neonata, sorridendole e sfiorandole la guancia morbida come il velluto.
Trascorsero mesi e anni.
I genitori della piccola si ripresero dal dolore ed ebbero altri figli, come padre Chaim aveva previsto.
Tuttavia, i monaci erano venuti a conoscenza del suo segreto prima del previsto.
Non tutti si erano mostrati inizialmente d’accordo, in quanto vedevano l’atto come un sequestro, una vita in prigionia.
Poi, col tempo, si erano ricreduti. Più precisamente, si erano ricreduti quando il Salvatore del villaggio sostenne con fermezza che avesse rapito la piccola serva del Diavolo per volere di Dio.
Era stato il Creatore a dirgli di crescerla come una figlia, nell’ombra.
Ma, soprattutto, i monaci si erano ricreduti nel momento in cui padre Chaim aveva permesso anche a loro di avere rapporti sessuali con la bambina.
Non aveva atteso che diventasse grande abbastanza da avere il sangue, da poter essere chiamata una “donna”.
L’aveva istruita per dare piacere ad un uomo, dicendole che quelle attività fossero buone e giuste per una bambina.
La piccola aveva solo lui come unico punto di riferimento, perciò credeva a tutto ciò che le diceva.
Non conosceva l’esistenza del sole perché non l’aveva mai visto, non conosceva il colore del cielo e delle nuvole, non aveva mai visto un animale, non sapeva cosa volesse dire avere un papà e una mamma, non sapeva cosa volesse dire pregare, o chi fossero i due signori, o cosa fosse la bruttezza e la bellezza.
Padre Chaim avrebbe potuto dirle che il corpo umano non avesse bisogno di cibo per vivere, o che i generi “maschio” e “femmina” non esistevano e lei ci avrebbe creduto.
Credeva a tutto ciò che le dicevano i monaci, gli unici contatti umani che aveva.
Le monache erano sempre le più premurose con la piccola. Si comportavano da mamme con lei, accudendola, coccolandola, ma non muovendo un dito per opporsi a quell’inumana prigionia, non facendo nulla per porre fine a tutto ciò.
Semplicemente, restavano a guardare.
Solo i libri che padre Chaim le aveva portato e che le aveva insegnato a leggere erano l’unica finestra sul mondo che aveva la piccola, difatti ne era ossessionata e ne chiedeva sempre di più, per passare il tempo e per viaggiare con la fantasia.
Non era una prigionia per lei, quella in cui viveva. Non lo era perché era l’unica cosa che conosceva.
Credeva fosse giusto vivere così, credeva di essere proprietà dei monaci, e difatti così era.
Padre Chaim era davvero fiero di lei.
Specialmente perché, oltre ad essere buona e obbediente, la piccola, man mano che cresceva, era sempre più bella.
I capelli erano gli stessi di sua madre, una morbida matassa di lunghi riccioli color albicocca; mentre gli occhi erano quelli del padre, tanto verdi e intensi da mozzare il fiato.
La pelle era chiara come la neve d’inverno, il naso piccolo, il viso tondo, la bocca sottile.
L’aveva chiamata Erin. Erin, come sua madre. Non aveva perso tempo a scegliere un nome per lei, non aveva senso preoccuparsi per tali sciocchezze, dato che la piccola non avrebbe mai saputo dell’esistenza della madre, perciò non c’era motivo di non darle il nome della donna che l’aveva messa al mondo, e che la credeva morta.
Quando Erin compì quattro anni, padre Chaim decise che era il momento di estendere la piccola famigliola segreta che custodiva gelosamente, e di dare a Erin una sorellina, in modo che non si annoiasse.
Oramai vi erano monaci del Diavolo quanti monaci del Creatore, perciò padre Chaim non assisteva da un po’ ai parti delle donne serve del Diavolo, per sua sfortuna, ritrovandosi sempre a benedire i neonati delle donne del suo stesso credo.
Per riuscire nel suo intento, chiese ad un monaco del Diavolo di poter assistere ad un parto di una serva del Diavolo al suo posto e, ovviamente, lui glielo concesse, in quanto sapeva. Anche i servi del Diavolo erano coinvolti nella faccenda, e molti di loro usufruivano della piccola Erin a loro volta, quando ne avevano voglia.
Esattamente come la prima volta, padre Chaim assistette al parto e finse che la neonata fosse morta tra le sue braccia, assistendo indifferente ai pianti disperati dei genitori mentre usciva di casa loro e la portava con sé, diretto verso la cripta.
Inizialmente Erin era stata felice per l’arrivo della sorellina. Si prendeva cura di lei insieme alle monache, le dava il latte e la aiutava a dormire a terra, in quel lurido luogo buio e colmo di blatte che era tutto il loro mondo.
Tuttavia, la seconda arrivata, anche lei con lo stesso nome della madre, Nellie, non era obbediente come Erin. Nellie non ascoltava mai, era una bambina ostinata, che faceva dispetti infantili, infastidiva la “sorella”, le faceva sempre troppe domande ed era decisamente meno intelligente.
Nellie non imparava in fretta. Anzi, alcune volte non imparava affatto, facendo rimpiangere a padre Chaim di averla presa, talvolta.
Difatti, se Erin riusciva a dar piacere ad un uomo alla perfezione già alla tenera età di tre anni; Nellie, al contrario, alla stessa età, non capiva minimamente cosa dovesse fare per soddisfare i loro padroni. Le veniva spiegato ma non apprendeva. Era impacciata, goffa, svogliata.
Per questo Erin aveva dovuto lottare per riuscire ad insegnarle come si deve tutto quello che doveva sapere per soddisfare i monaci, e specialmente padre Chaim.
“Padre Chaim è buono con noi.
È buono con noi se noi facciamo tutto quello che ci dice.
E se farai la brava, ti tratterà bene come tratta me e ti darà tutto quello che vorrai:
libri da leggere, pane fresco alla mattina, e persino una coperta la notte, quando fa troppo freddo.”
Anche Nellie aveva imparato a soddisfare i monaci, col tempo, anche se meno abilmente di Erin.
Erin le aveva insegnato anche a leggere, ma a Nellie non piaceva né leggere, né scrivere, al contrario della sorella.
Erin amava alla follia leggere e scrivere. Lo amava talmente tanto che un giorno inventò una storia. Una storia di fantasia a cui non sapeva dare un nome.
Chiese a padre Chaim di darle dei fogli di carta vuoti, una piuma e dell’inchiostro, quando era particolarmente di buon umore.
Erin era furba, e chiedeva a padre Chaim cose proibite che solitamente non le concedeva, solo quando lo aveva soddisfatto a dovere.
Una volta avuto carta e piuma, Erin iniziò a mettere per iscritto il suo racconto di fantasia, simile ad alcuni che aveva letto in altri libri che le aveva portato padre Chaim. Il racconto parlava di una bambina e di suo fratello (che in realtà era Nellie trasformata in fratello) e delle loro avventure. Alcune cose se le era immaginate, sempre leggendole da quegli strani racconti che parlavano del “mondo reale”, un mondo che a lei e a Nellie non era permesso vedere, a detta di padre Chaim.
Ad esempio, si era immaginata che avessero una mamma, una mamma che non era quella vera, ma che le aveva cresciute.
Lei non sapeva cosa fosse una mamma, ma sapeva che avrebbe voluto averne una, perché nei racconti che aveva letto c’era sempre una mamma.
Madre Aether, che la coccolava sempre, assomigliava ad una mamma, per lei, ma era certa che una mamma fosse anche altro.
Nel racconto aveva inserito anche un uomo che li perseguitava (padre Chaim), e un'entità che nei libri aveva letto chiamarsi “Diavolo”, che faceva promesse cattive e ingannava sempre tutti.
Quando Nellie le aveva chiesto perché l’avesse trasformata in un fratello nel racconto, invece che lasciarla femmina, Erin le aveva risposto con nonchalance che lo aveva fatto perché avrebbe desiderato un fratellino, invece che una sorellina.
La figura del “fratellino” era diventata una figura mistica nella testa delle due bambine, dato che avevano letto la sua esistenza nei libri, ma non ne avevano mai visto, né mai avuto uno.
Sapevano che “fratellino” era come “sorellina”, con la differenza che era un maschietto. Avevano già visto dei maschi in vita loro, anzi, ne vedevano sin troppi ogni giorno. Tuttavia, non avevano mai visto un maschio della loro età, non avevano mai avuto un maschio come parte della loro ristretta famiglia di bambini.
Desideravano tanto averne uno, ma padre Chaim non glielo portava mai.
Per questo Erin aveva trasformato Nellie in un fratellino nel suo racconto di fantasia.
Anche se quello non era l’unico motivo: Nellie aveva sempre avuto ben poco di femminile.
Aveva i capelli scuri e cortissimi (le monache glieli tagliavano perché i suoi si intrecciavano troppo e le facevano male quando la pettinavano), grandi occhi marroni che, alla luce della fiaccola che illuminava la cripta, sembravano neri come l’inchiostro, un viso tondo, e una piccola fossetta sul mento.
Le monache le dicevano sempre di essere più femminile e di prendere esempio da Erin, ma lei non ci riusciva, e anche con un vestitino addosso sembrava più un bambino con dei tratti dolci.
C’era stata una volta in cui Nellie si era ammalata di una brutta febbre, all’età di tre anni.
L’ambiente umido, l’assenza di luce solare e il poco nutrimento che veniva dato loro, contribuivano a far proliferare malattie e a indebolire le due bambine, le quali non erano a conoscenza di quale fosse un ambiente sano in cui vivere.
Erano state tre settimane infernali.
Erin le era stata vicina tutto il tempo, giorno e notte, stringendole la mano, sussurrandole di tutto e di più, cullandola, e facendo i salti mortali pur di non farle mancare nulla: era lei stessa a chiedere ai monaci di poterli incontrare più spesso per soddisfarli, in modo che loro le dessero tutto quello che lei chiedeva, per il bene della sorellina. Anche le monache la aiutarono a non farle mancare nulla per la guarigione: brodi caldi, coperte, bacinelle colme di acqua pulita, vestiti nuovi e asciutti, dei cuscini morbidi in cui poggiare la testa.
Ma Nellie sembrava non riprendersi mai.
Ad un tratto, tutti credevano sarebbe morta e padre Chaim si era già preparato all’idea di scavarle una piccola fossa dietro la cattedrale, e seppellirla lì, nascosta al mondo, come era sempre stata.
Solo Erin non abbandonava mai la speranza e le restava sempre vicina.
Non l’avrebbe lasciata andare.
Lei era l’unica cosa che aveva, l’unica.
L’avrebbe protetta, sempre.
E anche se litigavano sempre, erano sorelle e sarebbero rimaste sempre insieme, nel bene e nel male, unite contro tutto.
Poi, come per miracolo, Nellie si riprese.
Fu da quel giorno che qualcosa cambiò e si spezzò dentro le due bambine.
I nomi che padre Chaim aveva scelto per loro avevano iniziato a non piacerle.
Volevano scegliersi da sole, un proprio nome, perché sentivano che quello che possedevano non fosse giusto per loro.
Ma come scegliere dei nomi? Da dove venivano i nomi?
Allora Erin prese uno delle decine di libri che padre Chaim le aveva donato e lo sfogliò.
Era un libro in cui venivano riportate le immagini e i nomi dei cristalli e delle pietre preziose.
Fu così che Erin divenne “Giada” e Nellie divenne “Tormalina”.
Tra loro iniziarono a chiamarsi così, senza dire nulla ai monaci.
Quelli erano i loro veri nomi, e nulla avrebbe potuto impedire loro di scegliersi la propria identità, in quanto l’identità era l’unica cosa che rimaneva loro.
Giada e Tormalina avevano rispettivamente dieci e sei anni quando padre Chaim decise di donare loro il tanto agognato fratellino.
Quando domandò alle sue due principessine se desiderassero un fratellino a tener loro compagnia, le due risposero in coro un caloroso “sì!”, rallegrando il monaco, il quale aveva intenzione di aggiungere anche un bellissimo maschietto alla sua collezione di bambini prigionieri già da un po’.
Doveva solo trovare l’occasione giusta e avere la certezza che la malcapitata serva del Diavolo di cui avrebbe assistito il parto generasse un maschio.
Ed eccolo lì, un bel neonato da aggiungere alla combriccola, ovviamente col nome rubato al padre: Noam.
Giada e Tormalina erano felicissime del nuovo arrivo, e se ne presero cura come due sorelle maggiori sin dall’inizio, nutrendolo e crescendolo con amore e disciplina.
Ovviamente, cambiarono nome anche a lui: Rubino.
Rubi, come si erano abituate ad abbreviarlo, cresceva bello e sano, e presentava tutte le differenze fisiche che un maschio presenta da una femmina, e non solo: egli aveva i capelli biondi, un biondo particolare come la cenere chiara, mentre i suoi occhi erano azzurri.
Rubi era stato una scoperta anche per i monaci, soprattutto per alcuni di loro, che sembravano avere una netta preferenza per lui, piuttosto che per le due bambine.
Giada e Tormalina avevano un elevato senso di protezione nei confronti di Rubi. Preferivano passare più tempo loro due con i monaci, per compiacerli, pur di non farci andare Rubi.
Iniziarono a capire che quello che facevano con i monaci fosse sbagliato. Soprattutto perché i monaci diventavano sempre più difficili da compiacere, e a volte dovevano sforzarsi davvero tanto per lasciarli soddisfatti, e venivano picchiate da loro fin quando non ci riuscivano. Per questo non volevano che Rubi venisse istruito e sfruttato allo stesso modo. Loro due ci erano abituate mentre lui ancora no, potevano ancora “salvarlo”. Ma le loro speranze si infransero al suolo quasi subito, quando, all’età di soli due anni, Rubi venne richiesto per la prima volta da padre Chaim.
Rubi si abituò a quel ritmo, e anche lui crebbe con la convinzione che quello che facevano fosse giusto.
Intanto, i tre si legavano sempre di più, manifestando caratteristiche caratteriali tutte diverse e incastrandole tra loro, proprio come tre fratelli di sangue: Giada restava quella intelligente, posata e raffinata; Tormalina il solito “maschiaccio”, allegra e impertinente; mentre Rubi, il piccolo di casa, era quello dolce, curioso e silenzioso.
Quando compì ventiquattro anni, Giada terminò finalmente il suo racconto di fantasia, con una consapevolezza e una conoscenza molto diversa rispetto a quando era bambina.
Quello fu anche l’anno in cui tutti e tre si ammalarono di polmonite a causa delle rigidissime temperature invernali, che penetravano spietate dentro la fredda cripta dentro cui erano rinchiusi da tutta la vita.
Padre Chaim e gli altri monaci non si resero conto della gravità della situazione. Poco importava che tutti e tre tremassero di freddo quando gli oramai vecchi monaci li abbracciavano e stringevano possessivamente. Poco importava che, ogni volta che li convocavano per essere soddisfatti, li trovavano sempre con le labbra blu.
Si spensero lentamente. Soli. Il loro ricordo se ne andò con loro e con i monaci, che piansero la loro morte in lacrime di vergogna e sensi di colpa.
Il loro ricordo se ne andò con padre Chaim, che, dopo di loro, ne prese altri.
Morirono insieme, abbracciati stretti, in quella cripta buia, in quella dimora surreale che condividevano solo loro, come unici esseri viventi al mondo, pieni di sogni, di vitalità e di voglia di conoscere.
Giada aveva ventiquattro anni, Tormalina venti e Rubi solo quattordici.
Solo una traccia fisica rimase di loro, i primi tre.
I primi tre a cui seguirono molti altri nei secoli a venire, con lo stesso destino e la stessa dimora buia e spenta.
Il racconto di Giada, la prima bambina rapita/morta, per mano del primo carnefice votato a Dio, il Salvatore del villaggio.
Un racconto che, per un’affezione che albergava nel cuore del vecchio Allister Chaim, il quale credeva di aver amato con tutto il cuore quella prima bambina e amante, a lui tanto cara, tenne con sé, tutto intatto, invece di bruciarlo.
Con il tempo, quello strano racconto con la copertina sgualcita e i fogli rovinati, finì nei ripiani della biblioteca della cattedrale del Creatore, venendo ritrovato e letto solamente secoli dopo, da un’ignara fanciulla dai capelli cremisi.
 
- SEI SECOLI DOPO -
 
La sua intera famiglia era stata convocata dai monaci del Creatore per la loro condotta affatto esemplare.
L’unico ad essere risparmiato da tale accusa era stato il piccolo Ioan, il quale non aveva fatto nulla di male, ma con due genitori e un fratello così, non sarebbe stato strano se avesse iniziato a manifestare qualche comportamento poco consono anche lui.
Così, si trovavano tutti e quattro alla cattedrale del Diavolo, seduti su quattro sedie della prima fila della navata vuota, circondati dai monaci.
-Spero vi rendiate conto della gravità delle vostre azioni - iniziò padre Petrit, guardandoli uno per uno.
Rolland guardava un punto fisso nel vuoto, Heloisa aveva lo sguardo basso, Ioan fissava a terra impaurito, mentre Blake alzava gli occhi al cielo ogni trenta secondi, scocciato e palesemente infastidito dalla situazione, un atteggiamento di cui non faceva certo mistero.
-Dun Rolland. Avete aggredito vostro figlio pubblicamente - esordì con la prima accusa il monaco, solenne e rimproverante. - Inoltre, avete abbandonato il letto nuziale e la vostra casa, tradendo le promesse che voi e vostra moglie vi siete scambiati dinnanzi al vostro signore il Diavolo, anni fa, il giorno delle vostre nozze. Violenza e adulterio. Avete qualcosa da dire a vostra discolpa?
Rolland negò con la testa, alzando il volto verso l’uomo. - Chiedo umilmente perdono per i miei peccati. Non avrei dovuto aggredire Blake. Così come non avrei dovuto tradire mia moglie. Mi dispiace. Non riaccadrà di nuovo.
Lo sguardo sincero e sottomesso dell’uomo fu abbastanza da convincere i monaci. - Bene. Dato il vostro sincero pentimento, e la non elevata gravità dei vostri peccati, sarete assolto con dieci preghiere al Diavolo, inchinato dinnanzi all’altare. Nel vostro caso non vi è il bisogno di un rito di purificazione - decretò padre Thomas.
A ciò, gli undici monaci riuniti passarono ad Heloisa. - Alma Heloisa. Avete manifestato degli atteggiamenti chiaramente autodistruttivi e tutt’altro che esemplari nelle ultime settimane. Vi siete rinchiusa nella vostra stanza e avete smesso di prendervi cura dei vostri figli, venendo meno ai doveri di una donna. Avete smesso di pregare e avete smesso di rivolgervi al vostro signore il Diavolo. Inoltre, avete tentato di togliervi la vita. Uno dei peccati più gravi descritti nel libro sacro. Avete qualcosa da dire, figliola?
Heloisa, a sua volta, con sguardo pentito, alzò il volto verso di loro, mantenendo tuttavia la sua dignità. - Non vi supplicherò di non sottopormi ad un rito di purificazione. Se sentenzierete che, per essere purificata, io ne abbia bisogno, sarò felice di sottopormi a ciò. Vi chiedo umilmente e sentitamente scusa per ciò che ho fatto. Lo chiedo a voi, al mio signore.. ma soprattutto ai miei figli – concluse la donna, poggiando lo sguardo su Ioan, che le sorrise in risposta, e poi su Blake, che non la guardava. - Mi dispiace. Non vi meritavate una madre come me – aggiunse sinceramente.
I monaci si consultarono con gli occhi e decisero mutamente:
-E sia. Nessun rito di purificazione neanche per voi. Vi siete mostrata pentita a sufficienza e anche il Diavolo è un signore misericordioso. Venti preghiere al Diavolo, dinnanzi all’altare.
- Vi ringrazio, padri.
- Ed ora giungiamo a voi – disse padre Petrit, pregustando il momento in cui i loro occhi giudicanti virarono tutti sull’arrogante ragazzo che non faceva altro che palesare la sua mal disposizione e sfacciata insofferenza. - Even Blake. Avete già manifestato atteggiamenti blasfemi e dannosamente ribelli in passato.
- “Blasfemi”..? Ma cosa? Vi state sbagliando.. - commentò Heloisa, venendo immediatamente zittita dal gesto della mano di un altro dei monaci.
- Avete smesso di partecipare alle funzioni del vostro Signore parecchio tempo fa.
Avete violato la regola di non uscire da Bliaint, addentrandovi in un viaggio dalla dubbia moralità, in cerca di una pericolosa arma sconosciuta.
Avete anche imparato a leggere e a scrivere, nonostante le leggi lo vietino.
Non è stato ancora stabilito se sia stato per colpa vostra e della vostra sconsideratezza che la tremenda epidemia abbia colpito Bliaint.
E, come se non bastasse, vi “dilettate” in esperimenti pericolosi, addentrandovi in pratiche persino più oscure e maligne della magia nera, estraniandovi e mettendo in pericolo coloro che vi circondano - terminò il monaco.
-Avete finito? - domandò svogliatamente il ragazzo, con le braccia conserte e gli occhi irriverentemente puntati su quelli del monaco che lo aveva appena accusato di una miriade di peccati diversi, più o meno gravi.
Con una traballante vena di nervosismo che faceva bella mostra nella sua tempia, padre Petrit gli rivolse la consueta domanda: - Avete qualcosa da dire a vostra discolpa..?
- Nulla da dire – rispose il ragazzo, reggendo ancora il suo sguardo con fierezza.
- In seguito a tutto ciò.. avete l’audacia di risponderci in tal modo insolente?? - si intromise un altro monaco.
- Come altro dovrei rispondere? Non prendiamoci in giro, il motivo per cui mi avete condotto qui sono principalmente i miei esperimenti, no? Ebbene, non faccio nulla di male, non reco danno a nessuno e, per vostra informazione, non pratico neanche la magia nera. Non ho altro da dire. Ditemi pure qual è la mia punizione e lasciatemi andare, non ho tutta la giornata.
- Oh, padri.. perdonate le sue maniere, ve ne prego - li pregò Heloisa.
- Non scusarti per me, madre. Loro non devono perdonarmi nulla.
- Blake. Taci – lo esortò Rolland, prevedendo già il disastro dietro l’angolo.
- Dunque ammettete anche di aver peccato di blasfemia? - gli domandò padre Thomas.
- Non ho mai detto questo – rispose Blake.
- Vi dichiarate del tutto innocente in tal senso? Credete pienamente nel vostro signore il Diavolo e nella sua potenza sconfinata?
- Ovviamente - mentì il ragazzo, sorridendo derisorio. - Come tutti i fedeli del mio stesso credo. Sono un servo del Diavolo, è in questo che devo credere. Non mi sarei battezzato se non ne fossi convinto, non credete?
- Questo tono di sfida non ci piace affatto, ragazzo.. - commentò greve padre Petrit. - Quando eravate il promesso della nostra Judith ella mediava per voi e vi difendeva a spada tratta, nonostante avessimo già adocchiato le vostre pratiche e il vostro atteggiamento deprecabili. In quel caso potevamo chiudere un occhio grazie a lei. Non mi resta difficile supporre che vi siate avvicinato a lei per godere dei privilegi che la sua posizione vi avrebbe offerto!
- State accusando mio figlio di essere un subdolo manipolatore senza scrupoli?! - domandò interdetta Heloisa.
- Per quale motivo non dovrebbe esserlo?
- Forse perché ha rinunciato a Judith di sua spontanea volontà, facendosi da parte per il suo bene, costringendosi ad uscire dalla vita di quella ragazza per lasciarla libera di vivere come vuole - replicò Heloisa fermamente, zittendo i malfidati monaci e sorprendendo Blake.
- Beh.. dato che avete preso la decisione di uscire dalla sua vita, non siamo più tenuti a fare distinzioni: d’ora in poi pagherete per ogni peccato commesso – riprese la parola Petrit.
- Io non ho commesso alcun peccato - ripeté Blake poggiando la testa sul palmo della mano, sempre più seccato. - Quali sono le prove concrete che avete contro di me? Vi ascolto.
- Il fatto che abbiate imparato a leggere e a scrivere è già di per sé una violazione-
- Una violazione per cui non mi avete mai punito sino ad ora. Altro?
- L’epidemia.
- Sapete benissimo che i nostri signori non ci hanno puniti con l’epidemia perché io me ne sono andato.  A dir la verità non credo affatto che l’epidemia sia stata voluta dai nostri signori.
- Avete lasciato Bliaint, per di più prima del battesimo-
- Non è scritto o detto che non si possa uscire da Bliaint per un breve periodo; bensì nei testi sacri scritti da Allister Chaim si parla di non poter lasciare Bliaint definitivamente, a meno che non si decida di non battezzarsi, dunque di autoesiliarsi spontaneamente – rispose prontamente il ragazzo, facendo adirare sempre più gli uomini di culto che erano lì per giudicarlo.
- Da quant’è che avete smesso di partecipare alle funzioni del Diavolo? - lo colse in fallo padre Thomas, avanzando tra loro e avvicinandosi al ragazzo seduto, fin quando non fu esattamente in piedi dinnanzi a lui, una posizione che gli permetteva di poterlo guardare dall’alto in basso.
Blake non rispose, continuando a scrutarlo sfrontato.
- Non partecipare alle funzioni non è un peccato, padre - andò in suo aiuto Rolland, cautamente, cercando di non far adirare ulteriormente i monaci. - Semplicemente, è indice che la sua fede si è un po’ raffreddata, nulla di più. In quanto pastori del gregge di Dio e del Diavolo il vostro compito è quello di andare in aiuto delle “pecorelle smarrite”, giusto? - tentò, vedendo vacillare alcuni di loro. - Giusto? - insistette.
- Giusto - confermò un po’ risentito padre Petrit, continuando a fissare Blake.
- Bene. Dunque sarà nostro compito esortare nostro figlio a partecipare più attivamente alle funzioni nel momento in cui ricominceranno - garantì Heloisa.
- Lo farete, Blake? Tornerete ad essere attivamente una pecorella del gregge scelto per voi? - gli domandò insinuante padre Thomas, guardandolo ancora dall’alto, testandolo.
A ciò, il ragazzo gli rivolse un sorriso falso e di scherno, senza rispondere. Un sorriso che non prometteva nulla, tanto meno la sottomissione.
Thomas lo squadrò ancora un po’, poi parlò di nuovo: - Voglio che pronunciate la preghiera proibita. Ora. Qui davanti a me.
 - Cosa?? Come sapete della preghiera proibita?? - domandò Heloisa sconvolta, facendosi immediatamente il segno della croce al contrario.
- No, non potete farlo.. Quella preghiera è proibita a tutti noi, se-
- Lo sappiamo – disse padre Petrit, interrompendo Rolland in tono saccente. - Se padre Thomas gli ha ordinato di pronunciarla, vostro figlio la pronuncerà. Ora – lo esortò anche lui.
Ioan, intanto, era sull’orlo delle lacrime e si era stretto a sua madre.
- “Lucifero, Portatore di luce, sono qui dinnanzi a te per invocare il tuo aiuto” - cominciò Blake, guardando il monaco dinnanzi a sé dritto negli occhi, dal basso.
Blake sapeva e poteva solo immaginare quanto piacesse al monaco quella posizione di predominio su di lui, mentre pregava un dio che non era il monaco, ma che costui si illudeva potesse essere lui stesso, grazie ad una buona dose di autoesaltante immaginazione.
 - “Lucifero, mostrami qual è la via da seguire.
Apri la terra in due e conducimi a te.
Svelami il destino che hai in serbo per me.”
- Inginocchiatevi, ragazzo – lo interruppe il monaco porgendogli la mano, mano che Blake rifiutò, alzandosi dalla sedia e inginocchiandosi da sé dinnanzi a lui.
- “Lucifero, cos’è che merito?
Io sono un corpo opaco, senza valore, e tu sei il sole.”
Padre Thomas gli mise due dita sotto il mento e glielo alzò sù, verso di lui, per esortarlo a guardarlo ancora, mentre pregava.
- “Portami con te, Lucifero.
Portami con te e mostrami lo splendore che sei in grado di emanare perchè io non appartengo più a questo mondo.
Appartengo a te.” - concluse il ragazzo, osservando la faccia compiaciuta del monaco, il quale credeva di averlo plagiato.
Ebbe pietà per quell’uomo. Provò una stomachevole pietà macchiata di disgusto per tutti quegli uomini “di dio”.
- Era davvero necessario...? Era davvero necessario sottoporlo a questo per farlo redimere..? - non riuscì a trattenersi Heloisa, celando a stento la rabbia che la animava. - La preghiera proibita non si deve mai pronunciare. MAI. Non si deve mai pronunciare il nome del nostro Signore invano.
- Figliola, mantenete la calma. Vi prego di uscire dalla cattedrale. Con voi abbiamo terminato. Ci sottoporrete le vostre preghiere in un secondo momento.
- Che significa “con voi”? - domandò Rolland confuso.
- Vostro figlio rimarrà qui con noi ancora un po’.
Non vi angustiate.
Dobbiamo solo continuare a discutere con lui di alcune faccende e della gravità delle sue azioni.
Dopodiché, decreteremo se sottoporlo ad una o più sessioni di purificazione.
Ora andate.
-No, io non me ne vado. Voglio sapere cosa gli farete – si lamentò Heloisa.
- Cara, va’ e porta Ioan con te. Ci penso io qui – la incoraggiò Rolland con un sorriso.
Ma lei non si mosse. - Non gli faranno del male, vero?
- No, non gli faranno del male - garantì Rolland facendo per carezzarle una guancia.
Heloisa si scostò prima che potesse toccarla, voltando il viso verso Blake, poi verso Ioan accanto a lei, il quale tremava e guardava il fratello a distanza.
- Resta qui con lui.
Io lo porto via – si convinse infine, prendendo la mano del bambino biondo e avviandosi mestamente verso l’uscita della cattedrale.
A ciò, Rolland si diresse verso padre Thomas e Blake, che ora era in piedi e superava il vecchio monaco di almeno due spanne d’altezza.
- Padre, posso assistere?
- No, non potete. Dobbiamo parlargli da soli. Inoltre, i riti di purificazione non sono pratiche a cui si può assistere. Sarò io stesso a occuparmi di vostro figlio e a fargli passare la voglia di ribellarsi alle leggi.
- D’accordo - accettò Rolland, senza indisporsi. Si voltò a guardare Blake, il quale non sembrava per nulla preoccupato di ciò che lo aspettava, poi tornò a rivolgersi al monaco: - Posso parlare da solo con mio figlio per un istante, prima di lasciarlo a voi?
Il monaco annuì, permettendo a Rolland di avvicinarsi a Blake, allontanandosi da loro insieme agli altri monaci.
- Ho una cosa per te – gli disse semplicemente Rolland, infilando le mani dentro una piccola sacca.
Blake lo guardò, in attesa, e rimase lievemente stupito quando suo padre tirò fuori una collana: un cordoncino scuro terminava in un bellissimo ciondolo, un'opale ovale, di dimensioni non indifferenti. L’opale era una particolare gemma che raramente si riusciva a trovare nella galleria, per questo era molto preziosa, oltre che per la sua straordinaria bellezza raffinata, con i colori del bianco argenteo e dell’azzurro chiaro che si mischiavano tra loro in sfumature e giochi di luce ipnotici, simili alla pietra di luna, ma più iridescenti. Blake conosceva bene il significato dell’opale: speranza, purezza, equilibrio, protezione contro le energie negative. Gli effetti e le proprietà delle pietre non avevano nulla a che fare con la magia. Riguardavano il cielo, la posizione degli astri, la luna e le stelle. Appoggiare l’uso delle pietre e delle gemme per migliorare la vita e scacciare le energie negative non comprendeva di conseguenza l’appoggiare anche la magia, e viceversa. Tuttavia, Blake rimase comunque stupito che suo padre si affidasse al potere delle pietre, dato che non l’aveva mai fatto prima. Si domandò come mai avesse iniziato in quel momento.
-Tieni. È tua – gli disse Rolland sventolandogli il ciondolo davanti al viso, lasciandolo ancora più sgomento.
- Per me? Parli sul serio..?
Senza rispondergli, Rolland si avvicinò a lui per legargli il cordoncino dietro la nuca, come se avesse fretta che la indossasse, in quanto temeva che, se gliel’avesse semplicemente lasciata tra le mani, Blake non l’avrebbe mai indossata di sua sponte.
L’uomo si bloccò nel momento in cui avvicinò le sue mani al collo del ragazzo, memore di ciò che era accaduto nella piazza qualche giorno prima: da quell’episodio, non aveva più osato toccare suo figlio, seguendo l’ammonizione di quest’ultimo alla lettera.
Ora aveva quasi paura nel toccarlo di nuovo, il suo pentimento l’aveva condizionato fino a tal punto e Blake, ancora una volta, ne rimase stupito.
Il ragazzo gli si avvicinò, dandogli il muto permesso di toccarlo, cosa che Rolland fece subito, legandogli il cordoncino dietro la nuca.
Terminato di legarlo, ammirò la splendida pietra opalescente che risaltava in mezzo al petto di suo figlio. Il cordoncino sfiorava le sue clavicole scoperte, sovrastando poi il tessuto della maglia, terminando nell’opale.
Blake abbassò il viso per guardarlo meglio. - Non è un accessorio propriamente da uomo - commentò il ragazzo, rialzando lo sguardo su suo padre, in cerca di spiegazioni. - Perché? - gli domandò solamente, sapendo che Rolland avrebbe compreso tutte le mute domande contenute in quella parola.
-Tu tienilo e basta. Indossalo sempre. Ho questa unica richiesta per te. Nessun’altra - il tono con cui lo disse era solenne, tanto da far quasi allarmare Blake, il quale lo studiò, affilando lo sguardo.
Non erano affatto tornati in buoni rapporti, anzi.
Tuttavia, vedere suo padre in quel modo era un evento più unico che raro, che meritava sicuramente delle spiegazioni.
- Noi non fabbrichiamo mai gioielli.
Perché ne hai fatto uno per me?
L’opale è..-
-Ti proteggerà - lo interruppe Rolland poggiandogli le mani sulle spalle e guardandolo negli occhi. - Questo amuleto ti proteggerà - disse con convinzione, ed era tutto ancora più strano.
- Da chi? - gli domandò il ragazzo. - Dai monaci?
Rolland non rispose, ma, in compenso, strinse l’opale tra le dita, come per farsi infondere coraggio, continuando a guardare suo figlio negli occhi. - Lo indosserai sempre? - gli domandò con determinazione.
A ciò, Blake annuì, ricambiando lo sguardo a sua volta, confuso e sempre più curioso di sapere.
-A più tardi, figliolo – lo salutò suo padre carezzandogli fuggevolmente una guancia, poi girando i tacchi e dirigendosi verso l’uscita della cattedrale, lasciandolo solo.
Non fece neanche in tempo a dare un’ulteriore occhiata all’opale, che padre Petrit lo raggiunse in un batter d’occhio, sventolandogli davanti agli occhi due corde spesse e porgendogli la mano, con sguardo tronfio. - Ci perdonerete.. - gli disse fintamente dispiaciuto il monaco. - .. ma non possiamo permettere che scappiate via. In qualsiasi modo possibile. E dato che siete un ragazzo pieno di risorse... meglio non rischiare. Non credete? - gli disse. A ciò, Blake, senza opporre resistenza, gli porse i polsi, sfidando il suo sguardo imperturbabilmente.
Padre Petrit gli scoprì i polsi e iniziò a legarglieli strettamente con la corda, strattonandoglieli per stringere il nodo sempre più.
Poi passò alle caviglie.
Quando ebbe finito, il monaco alzò lo sguardo verso di lui. - Abbiamo molto di cui parlare. Quando avremo finito, padre Thomas si occuperà di sottoporvi a più riti di purificazione. Assaporerete cosa prova il ragazzo-strige ogni giorno. Credo proprio vi farà bene, provare un po’ di dolore sulla vostra pelle, dato che i vostri genitori non vi hanno disciplinato abbastanza, a quanto pare, pecorella smarrita. Non ingannate nessuno, Blake. Io lo so benissimo chi siete. Siete un serpente, non una pecora.
 
Judith percepiva i raggi del sole penetrare dalla finestra accanto al letto e colpire diretti i suoi occhi chiusi.
Si mosse strusciando dentro il suo giaciglio, sparso di coperte di seta al profumo di acqua di rose e di incenso di Imogene.
I venti stavano iniziando a scaldarsi.
Così come anche l’amore che le donava Imogene, il quale era sempre più intenso.
La posizione a pancia in giù non era più così comoda da quando il suo ventre aveva iniziato a gonfiarsi visibilmente, perciò si voltò di lato, incontrando il corpo caldo e accogliente della sciamana, seminuda accanto a lei, con solamente un velo trasparente color pesca ad accarezzare le sue curvilinee forme.
Judith mugolò, ancora a metà nel mondo dei sogni, mentre Imogene sorrideva dolcemente e la stringeva a sé, carezzandole i capelli, facendole sentire la consistenza del suo profumo forte e della sua morbidezza.
Si stava adagiando troppo in quello strano e idilliaco rapporto che aveva creato con Imogene, Judith ne era perfettamente cosciente.
Eppure, per il momento, non riusciva a distaccarsene.
L’essere amata, amata in tal modo, liberamente, era qualcosa di totalmente nuovo, a cui non riusciva a rinunciare.
- Profumi di sale e di pesca.. - commentò distrattamente Judith, con le labbra premute sopra il petto della donna, la quale aveva iniziato a baciarle la tempia.
- Ho fatto il bagno poco fa, con i tuoi sali - commentò Imogene.
In un batter d’occhio, Judith si ritrovò sdraiata a pancia in su, con la sciamana tra le proprie gambe, che si stava preparando a fare l’attività che, a quanto pare, amava di più al mondo, nonché tuffare il viso tra le cosce della fanciulla dai capelli cremisi, lambendo la sua intimità rilassata e dilatata con la lingua. Era un rituale che si ripeteva tutte le mattine, ed era un elisir che riusciva a far svegliare Judith nel modo migliore possibile per iniziare la giornata.
La fanciulla sospirò e gemette, mentre la sciamana era sepolta nella sua intimità, stringendole la matassa di capelli biondi.
-Ora che ti sto facendo vivere nel lusso con me... - commentò Judith tra un ansito e l’altro. - .. non ti sarai mica dimenticata il luogo in cui hai vissuto finora..?
A tale domanda, Imogene rialzò il viso e la guardò dritta negli occhi, ancora con la bocca piacevolmente vicina alla sua apertura. - Mai. Mai dimenticare da dove vieni. Io non lo farò mai. Questo lusso non è niente per me. Se tornassi a vivere nelle paludi e a farmi il bagno nell’acqua fangosa non batterei ciglio – disse senza esitazione. - Talvolta lo faccio ancora.
- Cosa?
- Fare il bagno nell’acqua sporca. Per ricordarmi da dove vengo.
- E da dov’è che vieni? - Judith le porse quella domanda, nella quale erano contenute milioni di altre domande che non le aveva mai posto, e che Imogene comprese immediatamente.
- Vuoi sapere del luogo da cui proveniva Guadalupe, la donna che ha istruito me e Drusilla? - le domandò, allontanandosi dall’inguine della fanciulla e raggiungendo il suo viso, sdraiandosi nuovamente accanto a lei.
Judith annuì. - Hai detto che veniva dall’Est e che seguiva un credo antico, quello che ha trasmesso a te, con radici molto più arcaiche di quelle che potrei anche solo immaginare. Parlamene.
- Non ho rinunciato al culto del Diavolo, ad ogni modo, seppur credendo anche nella Dea profetizzata e descritta da Guadalupe.
- Beh, se vi avessi rinunciato, i monaci ti avrebbero già arsa al rogo. Ma non importa. Voglio sapere di questa Dea – disse Judith, ora con gli occhioni neri spalancati, bramosa di conoscenza. - Tre volti. Una volta mi hai detto che questa Dea ha tre volti.
- Quattro. Ne ha quattro, ma il quarto è impronunciabile. Nessuno ne parla. Neanche Guadalupe stessa ha mai citato questo quarto volto dinnanzi a me e a mia sorella.
- Perché è impronunciabile?
- Se lo sapessi non sarebbe più un segreto, non sarebbe più impronunciabile.
Secondo il culto della Dea, ogni madre che mette al mondo una figlia, quando questa raggiunge l’età di sette anni, sa già che verrà divorata da lei, dalla bambina che ha messo al mondo, così come lei stessa ha divorato la madre a sua volta. È come un ciclo che si ripete. Sette, sette, sette. Tre cerchi concentrici che si incontrano e culminano nella perfezione.
- Cannibalismo, dunque? In senso letterale? Anche Guadalupe ha dovuto..?
- In senso simbolico, la maggior parte delle volte. Anche se alcune popolazioni seguono il culto in senso letterale. Ci sono ancora alcuni villaggi, persino in questo continente, che seguono pratiche simili a questa, che si accordano al culto della Dea, implicitamente. Villaggi in cui i genitori si nutrono dei figli, o viceversa.
- Da dove viene questa Dea?
- Da un’isola, un’isola piena di sacerdotesse come Guadalupe, come me, come Drusilla. Voi le chiamereste “sciamane”, lì si chiamano “sacerdotesse” - spiegò la bionda, perdendosi nei ricordi di numerosi racconti dinnanzi al fuoco, in cui lei e sua sorella pendevano dalle labbra di quell’affascinante e sapiente donna che aveva rapito il cuore di sua madre.
- “La terra trema nel grande oceano” - citò improvvisamente le parole di lei, come fossero una profezia. - “Al di là dell’oceano che noi conosciamo, al di là del tramonto, le isole emergono e scompaiono, anche dove la gente non sa nulla del peccato e vive nell’innocenza. Non so se la distruzione ha uno scopo o se la terra non ha ancora assunto la sua forma finale, evoluta. Dicono che la vera felicità si trova soltanto nella liberazione dalla Ruota della Morte, e della Rinascita, e che dobbiamo disprezzare le gioie e le sofferenze terrene, aspirare alla pace della presenza dell’eterno. Eppure io amo questa vita e amo di un amore più forte della morte” - terminò Imogene, con gli occhi chiari fissi verso un punto lontano. - Queste furono le sue parole.
- Come puoi.. - iniziò Judith puntando un gomito sul letto, per alzarsi e guardarla negli occhi. - Come puoi servire questa Dea e anche il Diavolo? Come è possibile?
Imogene non rispose. Rimase ad ammirarla, ad accarezzare le ciocche scarlatte intrecciatesi tra le proprie dita, ad osservarle gli zigomi grandi e alti.
La baciò sulla punta delle labbra, beandosi del suo calore e del suo buonissimo odore.
- Ho un regalo per te – le disse invece, sorprendendola, e saltando giù dal letto poco dopo.
Judith alzò un sopracciglio sorpresa. - Un regalo? Cosa festeggiamo?
- Non far finta di non saperlo, bambina – la rimbeccò Imogene, afferrando una piccola sacca dorata e infilandoci una mano dentro, mentre continuava a guardare la sua splendida fanciulla. - Diciassette non è propriamente un numero fortunato. Ma mi auguro che, per te, questa età lo sia.
- Come facevi a sapere che oggi avrei compiuto diciassette anni? Io non te l’ho detto – disse Judith, piacevolmente stupita.
- Difatti sei senza cuore! - esclamò melodrammaticamente la donna.
- Tu sai sin troppe cose di me, Imogene – rispose Judith, fintamente inquietata, osservando con curiosità il gioiello che la sciamana aveva appena tirato fuori dalla sacca.
Imogene le sorrise a trentadue denti e le mostrò il meraviglioso accessorio: una cavigliera sulla quale erano incastonate pietruzze di rubini e lapislazzuli, luminosi e magnetici.
Judith sgranò gli occhi e la guardò sconvolta. - Imogene, non posso accettarla. Le gemme hanno un costo molto elevato.. Come hai potuto usare i soldi che hai guadagnato prostituendoti alla Taverna per comprarmi questo regalo..?
- Non li ho usati tutti, ovviamente, non preoccuparti.
Ho già guadagnato un bel gruzzoletto da spedire ai gemelli.
E continuerò a guadagnarne altri.
Ho solo sottratto una “piccola” cifra da quella somma, per farti un regalo degno di te, bambina. Accettalo senza fiatare, se non vuoi farmi un torto – la esortò sorridendo, prendendole delicatamente un piede tra le mani e allacciandole il meraviglioso gioiello intorno alla caviglia nivea, dalla forma raffinata e femminea.
Judith ammirò il risultato, trovandola splendida.
- Ho scelto il rubino perché si intona ai tuoi capelli.
- L’hai creata tu?
- Ho comprato le gemme, e l’ho creata io, sì. Ti piace, mia signora?
Judith le rispose donandole un ghigno appagato e felice, prendendole dolcemente il viso tra le mani e baciandola profondamente.
Imogene si beò di quel contatto finché poté.
- È inutile chiederti di non andare alla Taverna, almeno per oggi, non è vero..? - tentò Judith, sussurrandole tra le labbra.
- Fosse per me.. resterei tutto il giorno accanto a te, godendo del calore e della bellezza della mia donna... - rispose Imogene in un sospiro frustrato. - Ma gli affari stanno andando bene e devo approfittarne – concluse amaramente.
All’improvviso, le due vennero interrotte da un rumore che somigliava inaspettatamente ad un miagolio.
Judith raggelò.
Erano anni che non udiva un miagolio.
Dalla volta in cui, a otto anni, padre Sebastian l’aveva beccata con un gatto dentro la cattedrale, mentre gli dava da mangiare, e le aveva ordinato immediatamente di cacciare via quell’animale “demoniaco” dalla casa del Creatore.
- Cos’è stato?? - domandò lesta la rossa, venendo blandamente distratta dalla bionda.
- Cosa?
- Non hai sentito anche tu? Sembrava un gatto.
- Te lo sarai immaginato.
- Imogene... - la richiamò Judith guardandola serissima. - Devi dirmi qualcosa? Per caso la cavigliera non è l’unico regalo che hai deciso di farmi per i miei diciassette anni?
A ciò, la sciamana si arrese, sbuffando contrariata. - Non poteva rimanersene zitta almeno per un altro po’, quella lamentosa bestiolina pelosa? Per gli Inferi, i gatti dormono venti ore al giorno, ma lei no, deve svegliarsi per forza adesso! L’ho trovata ieri, sola, con la zampetta incastrata in un cespuglio e-
Imogene non fece in tempo a terminare la frase che Judith si precipitò giù dal letto come una bambina, correndo per la stanza e cercando di capire da dove provenisse quell’insistente e squillante miagolio.
-L’ho messa dentro il baule portagioie – le disse Imogene, trattenendo una risata di sottecchi nel vedere la sua compagna tanto esagitata.
Judith piombò inginocchiata davanti al baule e lo aprì, avvertendo distintamente i miagolii divenire sempre più intensi e acuti, fin quando una pallina di pelo non le saltò quasi addosso, impigliandosi con le zampette sulla sua vestaglia di seta, rovinandogliela tutta.
Judith non badò a ciò, quanto più rise estasiata, avvicinandosi la gattina al viso e godendo della sensazione del suo pelo morbido a contatto con la guancia.
Era un felino palesemente con qualche settimana di vita, una gattina vispa e lievemente diffidente, con il manto tigrato che variava dai colori del nero, al grigio e all’arancio, con dei grandi occhi giallo limone, e il pelo tutto sgualcito.
La gattina si ribellò alla sua presa, ancora diffidente, iniziando a graffiarle la mano, forse per giocare, o forse per difendersi. Judith guardò il lato positivo: almeno non le aveva soffiato.
-Vivace la signorinella.. - commentò la ragazza, sorridendo di sottecchi, mentre iniziava a farle dei grattini sotto al mento, i quali la rilassarono e la ipnotizzarono, rendendola più docile. La micetta iniziò a farle le fusa.
Dopo qualche minuto di coccole col minuscolo felino, Judith tornò alla realtà. - Non possiamo tenerla, Imogene. Se i monaci la vedessero, la getterebbero fuori di qui in un batter d’occhio. Lo sai che i servi del Creatore credono che i gatti siano creature maledette.
- Lo so, lo so, per questo volevo tenertela nascosta. Se rimarrà qui, in questa stanza, forse potremmo..
- No. È fuori discussione. Non voglio che i monaci le facciano del male. Se restasse qui, quando miagolerebbe la scoprirebbero. Se vogliamo tenerla, dobbiamo portarla nella cattedrale del Diavolo. Lì i monaci non vanno quasi mai, se non saltuariamente o per impegni necessari, ma, in ogni caso, non visitano mai le camere al piano di sopra, oramai disabitate. E poi, anche se la scoprissero lì, non potrebbero cacciarla via, in quanto non è la cattedrale del Creatore, ma quella del Diavolo, e non possono dettar legge lì dentro.
- Ne sei sicura?
- Me ne prenderò io la responsabilità se dovessero scoprirla - affermò Judith con convinzione, alzandosi in piedi e riavvicinandosi a lei, mentre la gattina era ancora in estasi per le carezze rivoltele. - Andrò lì ogni giorno per darle da mangiare e curarmi di lei, e potrai farlo anche tu.
- D’accordo. Sei tu che conosci meglio quei maledetti monaci - commentò Imogene, mentre guardava la ragazza adagiare la gatta sul letto, accanto a lei.
- Dove vai?
- La porto ora nella cattedrale del Diavolo – rispose Judith iniziando a vestirsi di tutto punto.
- Adesso..? Non vuoi riposarti ancora un po’, qui, con me e la gatta? - le propose, ammirandola vestirsi con i suoi abituali indumenti eleganti, mentre la micetta si divertiva a rotolarsi tra le lenzuola e a graffiare e mordere la sua mano, che la conteneva interamente, date le piccole dimensioni.
Non appena Judith fu pronta e vestita, mentre si specchiava si ricordò immediatamente di qualcosa.
Si diresse subito verso lo scaffale sotto uno dei comodini, su cui era contenuto un piccolo baule che non apriva da un po’. Soffiò via la polvere e lo aprì, felice di trovare perfettamente intatto, seppur con le pagine vecchissime e sul punto di sgretolarsi, il racconto anonimo che le aveva rapito il cuore, trovato per caso nella biblioteca, anni prima.
Lo teneva come fosse un tesoro, e tale sarebbe rimasto.
In effetti, non era ancora del tutto decisa a prestarlo a quel ragazzo.
Imogene la studiò, interessata. - Che cos’è?
- Un libro – si limitò a risponderle. - Un libro che ho promesso ad un ragazzo.
- Un ragazzo..? - domandò Imogene incuriosita. - Che ragazzo?
- Un giovane che ho conosciuto per caso due giorni fa, dentro la biblioteca della cattedrale del Diavolo.
- Sa leggere? - le domandò la sciamana, sorpresa.
- Sì. Strano, vero? - disse Judith infilandosi le sue abituali scarpe col tacco.
- Come si chiama? - non le interessava davvero conoscere il nome di quell’incontro fortuito, ma lo domandò comunque, di riflesso, mentre continuava ad indispettire la palla di pelo.
- Non lo so. Non me lo ha detto.
- Cosa..? E perché?
- Perché è un maleducato.
- Se è un maleducato, allora perché gli presti il tuo “prezioso” libro?
- Non lo so neanche io, ma ho fiducia che ne avrà cura finchè non me lo restituirà. Mi ha fatto una bella impressione, a dir la verità. È sveglio, intuitivo, impertinente e ha senso dell’umorismo.
- Oh.. Noto che te lo ricordi bene, il ragazzo.. - la punzecchiò Imogene, beccandosi una bonaria occhiataccia da parte della fanciulla.
Judith prese il libro e la gattina tra le braccia, e uscì dalla stanza.
Uscita dalla cattedrale del Creatore, entrò in quella del Diavolo, apparentemente non venendo notata da chiunque stesse intrattenendo una concitata conversazione in quel momento, in cima alla navata.
Di soppiatto, Judith si infilò nel corridoio dietro le colonne che delimitavano le navate, intenzionata a continuare a non farsi udire da nessuno mentre portava la micetta al piano di sopra, sperando che quest’ultima continuasse a rimanere in silenzio ancora un po’.
Non era previsto che vi fosse qualcuno dentro la cattedrale del Diavolo.
Il piano era chiaro nella sua mente, ma lo dimenticò temporaneamente nel momento in cui si concentrò su quelle due voci, minacciose l’una contro l’altra, e stranamente familiari entrambe.
Quando fu abbastanza vicina da poter ascoltare e osservare i due, Judith restò nascosta dietro l’ampia colonna, pregando che la micetta non emettesse un fiato.
Incuriosita, si affacciò dalla colonna cautamente, spalancando gli occhi per lo stupore, nel notare padre Petrit rivolgersi in modo adirato a quello che riconobbe essere il ragazzo della biblioteca, a cui doveva dare il libro.
Incontrarsi per due volte a distanza di due giorni era davvero una strana casualità per due sconosciuti.
Il ragazzo era seduto su una sedia della prima fila della navata, con polsi e caviglie legati, e già ciò fece storcere il naso alla ragazza. Padre Petrit era invece in piedi dinnanzi a lui.
Si chiese per quale ragione il ragazzo fosse lì, e per quale motivo il monaco sembrasse avercela con lui.
- Quindi negate tutto ciò?? - lo incalzò il monaco.
- Non so dove abbiate udito tale voce – rispose il giovane vagamente.
- Nei villaggi circostanti oramai è sulla bocca di tutti. Credevate di aver messo a tacere quel verme, quel “Giudice” che voleva uccidervi e sfruttarvi a suo piacimento? Invece no, è riuscito comunque a parlare di voi e della vostra breve visitina al suo villaggio. Per colpa vostra la voce si è sparsa oltreoceano. Ditemi, chi è il conte Agloveil?
- Dovrei saperlo? - rispose serafico il ragazzo.
Judith era sempre più confusa dinnanzi a quell’assurda conversazione.
- Dato che, a quanto si dice, sarebbe disposto a vendere il suo intero esercito per avervi, direi di sì. Avreste dovuto prevedere che i vostri dannati esperimenti avrebbero attirato i più avari.
- Mentono. Non sono in grado di tramutare i metalli in oro.
- Come ci riuscite?
- Avete udito quello che ho appena detto?
- Non possiamo permettere a nessuno di venire qui e di rapire la nostra gente!
Nessuno di noi. Noi siamo sacri, siamo protetti dai due signori, e nessuno di noi può finire nelle mani del nemico.
Nessuno, per nulla al mondo.
Quell’uomo può anche essere disposto a vendersi l’anima per trovarvi, ma non gli permetteremo in alcun caso di avervi.
Il problema, in tutto ciò, siete voi e voi soltanto: attirate guai come il miele per le mosche. È colpa vostra se il nemico vuole giungere qui a Bliaint!
Il ragazzo continuò a subire l’astio del monaco senza batter ciglio.
- Siete una calamità - concluse il monaco.
Judith era sempre più esterrefatta dal tremendo atteggiamento di padre Petrit.
- “Non possiamo condannare al rogo un fedele che si può redimere con i riti di purificazione” - citò il monaco. - Queste sono le nuove leggi e direttive, da quando Judith ha deciso di dare inizio alla pratica dei “riti di purificazione”. Avete salva la pelle solo grazie a ciò, altrimenti vi avrei bruciato al rogo entro domani all’alba.
Di nuovo, il ragazzo non batté ciglio.
- Avete qualcosa da dire riguardo la famosa “polvere nera”, invece?
- Nulla da dire.
- Non siete partito per il vostro viaggio per trovarla e scoprire come ottenerla? Ci siete riuscito, non è vero?
- I miei esperimenti non hanno dato alcun risultato – rispose il ragazzo.
- Come è possibile?? Siete rinchiuso da giorni in quella fucina, non è possibile non abbiate ancora scoperto nulla sulla polvere nera.
- Credetemi o no, è così - insistette il ragazzo.
A ciò, trattenendo a stento la rabbia, il monaco si avvicinò al giovane e si abbassò su di lui, fino a che non rimase solo una spanna di distanza tra i loro volti.
- Ora verrete sottoposto a diversi riti di purificazione.
Mi assicurerò personalmente che siano lunghi ed estenuanti.
Ho sentito dire che a Carbrey siete stato sottoposto alla tortura della vasca, la prova brutale che veniva operata per riconoscere le streghe, secoli fa.
Dovrà essere stato traumatico per voi, figliolo.. - nelle sue parole ora vi era una nota persino sadica. - Dunque.. non sarà facile sopportare, nuovamente, la sensazione di star annegando, mentre qualcuno vi spinge a forza la testa sott’acqua.
A tali parole, Judith impietrì, mentre il ragazzo ebbe la sua prima reazione visibile, un tremito fugace che gli scosse le membra e che fece lievemente vacillare il suo sguardo.
Fu in quel momento che la ragazza non si trattenne più e intervenne, dimenticando l’intenzione di non farsi scoprire:
- Che state facendo?? - annunciò la sua presenza uscendo da dietro la colonna, facendo sussultare il ragazzo e il monaco, il quale saltò per lo spavento.
- Judith..?? Mia cara, cosa ci fai qui?? Da quanto tempo sei-
- Abbastanza – lo interruppe lei, infastidita ai limiti della sopportazione dalla sua presenza. - Abbastanza da aver udito delle parole che mi hanno a dir poco schifata uscire dalla vostra bocca, padre. Non me lo sarei mai aspettata da voi. Si può sapere cosa gli state facendo? Perché è legato? Cosa ha fatto? - gli domandò tutto in una volta, rivolgendosi a lui in tono formale per trasmettergli quanto fosse delusa da lui.
- Judith, cara, la faccenda non ti riguarda. Tu non capisci..
- Cosa non posso capire? Oramai mi coinvolgete in qualsiasi faccenda di fondamentale importanza riguardi il villaggio. Perché non so nulla di ciò che stavate dicendo al ragazzo? Non mi piace essere tenuta all’oscuro di circostanze tanto rilevanti - affermò decisa.
- Judith - cercò di placarla il monaco, ponendole una mano sulla spalla. - Questo giovane servo del Diavolo sta per subire i riti di purificazione. Perché non vieni con me e-
- Qual è l’accusa rivoltagli?
- Cosa?
- Quale peccato ha commesso, per dover subire i riti di purificazione? - domandò lei.
- Principalmente per aver compiuto esperimenti pericolosi con metalli.
- Questa è l’accusa più grave rivoltagli...? Ha nuociuto a qualcuno?
- No.
- Allora ritengo che il ragazzo non meriti di essere sottoposto ad alcun rito di purificazione; ma soprattutto, non ritengo meriti un tale trattamento irrispettoso e tremendamente irriguardoso da parte vostra, padre. Questo è quanto.
- Judith..
- Potete rispettare la mia decisione e accontentarmi, dato che, sono certa, in cuor vostro sapete che ho ragione? Inoltre, oggi compio diciassette anni, perciò fatemi questa “concessione”, che concessione non è, perché trovo assurdo anche solo il fatto che stiamo qui a discuterne.
Blake era a dir poco sgomento da tale intromissione da parte di Judith, piacevolmente sgomento.
Quella fanciulla non avrebbe mai smesso di sorprenderlo.
Seppur ora non lo conoscesse, prendeva le sue difese, le difese di chi riteneva fosse oppresso.
- D’accordo - accettò con riserva il monaco, posando poi lo sguardo solo in quel momento sulla minuscola palla di pelo miagolante che si agitava tra le mani di Judith. - Quello cos’è..? - chiese contrariato.
- È un animale nobile, che ho deciso accudirò nella cattedrale del Diavolo – rispose prontamente lei.
- Voi servi del Diavolo e i vostri animali diabolici.. - commentò il monaco facendosi velocemente il segno della croce e allontanandosi dalla bestiolina, di conseguenza anche da Judith.
- Potete andare, allora – disse lei.
A ciò, padre Petrit, risentito, girò i tacchi e se ne andò, lasciando i due ragazzi soli.
- Aspettate, lasciate fare a me – si affrettò a dire la fanciulla, sedendosi accanto a Blake, poggiando la micetta e il libro sulle proprie cosce e adoperandosi a sciogliere i nodi strettissimi che legavano i polsi e le caviglie di lui.
- Non ce ne è bisogno – disse egli riferendosi alle corde.
- Sì, che ce ne è bisogno invece. Padre Petrit vi ha trattato come un condannato a morte, senza alcun motivo – disse lei, mentre scioglieva i nodi.
Mentre la guardava, Blake si domandò come facesse ad avere una tale fiducia cieca in lui, pur non conoscendolo.
Una volta libero, si massaggiò i polsi, sui quali svettavano dei lividi rossi che coprivano l’intera circonferenza. Dopo di che, posò gli occhi sulla gattina che miagolava sulle gambe di Judith, non riuscendo a reprimere un lieve sorriso intenerito.
- Quanto ha? - le domandò accarezzando la micetta.
- Non lo so. Imogene l’ha trovata incastrata in un cespuglio, così ho deciso di tenerla qui. Vi piace? - gli domandò scrutandolo guardinga.
Lui annuì, mentre la gattina saltava dalle gambe di Judith a quelle di lui, richiedendo nuovamente coccole dal ragazzo.
- I servi del Creatore odiano i gatti. Se non li bruciano tutti in massa, è solo per rispetto di noi servi del Diavolo – commentò Blake.
Il piccolo felino iniziò a fare le fusa con lui, e la ragazza se ne sorprese.
- Ci sapete fare con lei. Ne avete avuto uno?
- Quando ero piccolo li rincorrevo e li tiravo giù dagli alberi di tanto in tanto. Tempo fa io e mio fratello abbiamo accudito un vecchio gatto per un po’, ma, una notte, all’improvviso, se ne è andato. Mi piace credere se ne sia andato spontaneamente, per morire isolato e in pace, e non che sia stato mangiato dalle volpi. Non lo saprò mai - commentò, riportando lo sguardo su Judith, che lo guardava meravigliata.
- Come la volete chiamare?
- Non lo so ancora – ammise lei. - Dato che sembra gradire le vostre premure, potreste venire a coccolarla, talvolta – propose, mentre, intanto, i suoi occhi curiosi virarono sullo splendido ciondolo che faceva bella mostra sul petto del ragazzo. - Questo lo avevate anche quando ci siamo incontrati la prima volta? - gli domandò, fissandosi ad ammirare la pietra opalescente, mentre, intanto, la gatta tornava sulle sue cosce.
- No, l’ho ricevuto oggi, da mio padre – le rispose lui, rigirandoselo tra le mani. Le proprie parole gli parvero estranee persino a se stesso.
- È davvero bellissimo. Mi piace e vi sta molto bene – gli disse lei, tornando a guardarlo.
Il rumore di una porta che si chiudeva distolse la loro attenzione, cogliendoli di sorpresa.
Tuttavia, nessuno era entrato, erano ancora soli.
- Fareste meglio ad approfittare e ad andarvene, prima che cambino idea – gli consigliò Judith, fermandolo tuttavia un attimo dopo. - Ma prima.. vorrei chiedervi delucidazioni su quello di cui stavate parlando poco fa con padre Petrit, se vorrete darmene - azzardò. - Capisco che non mi conoscete, e che dev’essere strano parlare ad una sconosciuta di temi così importanti e delicati, ma.. io sono sempre stata informata di tali argomentazioni, e.. sembrava che ciò di cui steste parlando voi e padre Petrit fosse davvero grave - tentò, sperando di averlo convinto.
Il ragazzo la osservò con uno sguardo strano, uno sguardo che sembrava in grado di studiarla e scandagliarla dall’interno. Si appoggiò allo schienale della sedia e rivolse gli occhi dinnanzi a sé, sull’altare. - È una storia lunga, Judith. Lunga e sfinente.
- Mi piacerebbe ascoltarvi.
- Non ditelo – le disse lui, sfiorando lo sguardo di lei con i suoi occhi stanchi. - Non ditelo, senza sapere che sarà così.
- Allora provate semplicemente a dirmi ciò che sareste in grado di dirmi, con naturalezza.
Si osservarono ancora, e il ragazzo parlò: - Ho compiuto un viaggio. Fuori di qui. Un viaggio che mi rimarrà dentro e che ha causato una serie di … complicanze. Fuori da Bliaint credono che io sia in grado di compiere la trasmutazione dei metalli. Sapete cos’è?
Judith negò con la testa.
- Creare l’oro. Dal nulla. Purificare qualsiasi metallo fino a farlo diventare oro.
I nobili stanno iniziando ad interessarsi a questa pratica alchemica per arricchirsi.
La ragazza era allibita da tale informazione. - Come è possibile...? Neanche la magia riuscirebbe in ciò. La magia sarebbe in grado solamente di camuffare l’aspetto di un oggetto, non di cambiarne la natura.
- Già. È impossibile.
- Dai vostri occhi vedo che non lo credete davvero – gli disse lei, continuando a studiarlo.
- Ne sono quasi certo, Judith. Ho tentato tanto, e non per arricchirmi. Volevo sapere se ne sono in grado davvero, ma non ci sono riuscito. Tantissimi alchimisti hanno tentato ma hanno raggiunto magri risultati, di certo non sarò io a cambiare le cose.
- Perché credono che voi ne siate capace?
Il ragazzo ammutolì.
- Non volete parlarmene. Lo capisco.
Per quanto possa valere, ci sono diversi modi per portare un cambiamento.
Se non è questa la via giusta, ne troverete un’altra, e non sarà, in nessun caso, una sconfitta.
Altrimenti.. se voi ci credete e volete continuare a tentare.. non permettete a nessuno di fermarvi. Non ascoltate la gente, i monaci soprattutto.
- State parlando degli uomini con cui vivete e che vi hanno cresciuta.
- Ma so riconoscere tutti i loro difetti – rispose lei risoluta.
Blake annuì e abbassò lo sguardo sulla gattina, la quale era salita di nuovo sulle sue gambe e si stava arrampicando sulla sua maglia, usando le sue unghiette a mo’ di picconi mentre gli scalava l’addome.
- Come avete udito dalle parole di padre Petrit, c’è un uomo, un nobile straniero e potente che mi sta cercando. Crede che io possa operare la trasmutazione. Non sappiamo se si spingerà al punto di venire qui, ma..
- Non vi lasceremo a lui. Nessuno straniero riuscirà mai ad averci – disse la ragazza, con decisione. Poi, una strana e conturbante realizzazione la colpì, facendole corrucciare il bel viso. - Non starete pensando di consegnarvi di vostra spontanea volontà... Perché se lo state pensando, sono pronta a colpirvi con un poderoso schiaffo in faccia.
- Gentile da parte vostra.
- Non servirebbe a nulla, lo sapete? Se a quell’uomo venisse voglia di invadere il nostro villaggio lo farebbe in ogni caso, anche senza il pretesto di trovarvi.
- Lo so, ne sono cosciente – disse lui prendendo la gatta in mano e riportandola giù, prima che potesse raggiungere il cordoncino della collana e aggrapparvisi.
- Posso strapparvi una promessa? - domandò Judith, riprendendo il felino dalle mani di lui.
- Non fare nulla di stupido? - ipotizzò il ragazzo.
- Non arrendetevi. In nessun caso, per nessuno.
Se credete in qualcosa, proseguite per la vostra strada – si raccomandò lei, guardandolo fisso negli occhi, lasciandolo interdetto.
Ora sembrava davvero la vecchia Judith.
Era lei, negli occhi, nelle parole e nell’animo.
Per un attimo, si illuse che la fanciulla non avesse perduto neanche un ricordo, ma quell’illusione durò il tempo di un battito di ciglia, in cui le sue iridi chiare si distaccarono da quelle d’ossidiana di lei.
- Mi avete portato il racconto di cui mi parlavate .. - osservò il ragazzo qualche istante dopo, posando lo sguardo sul vecchio libro abbandonato sulle cosce di Judith, libro che stava pericolosamente attirando troppo l’attenzione di una vivacissima gattina.
Judith si affrettò ad afferrare il libro tra le mani, allontanandolo dalla micia e cercando di rassettarlo come poté, nonostante alcune pagine non ne volevano proprio sapere di non sfuggire via. - È molto vecchio – gli disse, porgendoglielo. - Dovrete averne molta cura.
- Ne avrò. Vi ringrazio – le disse, sorridendole sinceramente riconoscente.
- Io ringrazio voi, per esservi aperto con me, anche se per poco.
Ad ogni modo, ci siamo rincontrati... – concluse lei, lasciando la frase in sospeso.
Il ragazzo le rivolse uno sguardo interrogativo, non capendo. - Sì. Dunque?
- Dunque, dovete mantenere la parola - affermò Judith, rivolgendogli un piccolo ghigno, felice e fintamente saccente.
- Quale parola?
- Credevate non ci saremmo rincontrati.
Invece ci siamo rincontrati.
Ora dovete dirmi il vostro nome.
Credo di meritarmelo, no? - disse pungente, facendolo sorridere di nuovo spontaneamente, esattamente come due giorni prima.
Terminato di sorridere, il ragazzo si arrese: - Blake. Even Blake.
- Onorata di fare la vostra conoscenza, Blake – gli disse trionfante la ragazza.
- Ora è meglio che vada, davvero. Probabilmente ci rivedremo quando vi riporterò il libro.
- Probabilmente - confermò ella vedendolo alzarsi in piedi.
- A presto, Judith.
- A presto Blake.
 
Heloisa entrò dentro la Taverna, con lo sguardo cupo e pensieroso.
Era in ansia per Blake, certo, ma infondo, razionalmente sapeva che i monaci non avrebbero potuto fargli nulla di più che sottoporlo a qualche rito di purificazione.
Oltre ad essere preoccupata per lui, c’era anche qualcos’altro che la turbava, da qualche giorno: la conversazione avuta con padre Craig e con quel giovane servo del Creatore le aveva aperto gli occhi sulla depravazione di padre Cliamon, e sulle nefandezze dei monaci in generale.
Le parole che le aveva rivolto quel monaco, e che l’avevano portata alla pazzia, erano ancora incise a sangue nella sua mente:
“Dovete sapere che... prendendo esempio dal caso di quel monaco, e dal fatto che nessuno lo avesse mai scoperto e denunciato i suoi peccati.. altri monaci hanno iniziato ad agire come lui, nell’ombra.”
Fortunatamente, e stranamente, padre Cliamon non era presente quella mattina tra i monaci riuniti per giudicare lei e la sua famiglia.
Fortunatamente... perché se fosse stato presente anche lui, Heloisa non sarebbe riuscita a trattenersi dal saltargli al collo e strozzarlo.
Non sarebbe mai più riuscita a mostrare rispetto per lui.
Eppure.. dovevano essere cauti.
Anche padre Craig si era raccomandato con lei di rimanere in silenzio per ora, di non denunciarlo subito. Si trattava pur sempre di un “messaggero di dio”, di un membro del clero, e loro non avevano prove concrete contro di lui.
Avrebbero dovuto pazientare e aspettare che Ambrose riuscisse a trovare qualche prova reale a sostegno delle sue accuse.
Intanto, Heloisa non riusciva a darsi pace.
E se fosse stato vero? E se il monaco depravato non le avesse detto quelle cose solo per portarla alla pazzia, ma vi fosse un fondo di verità in tutto ciò?
Avrebbe dovuto indagare, per saperne di più.
Forse avrebbe potuto parlarne con Judith.
Tuttavia, Judith aveva perso la memoria e non si ricordava neanche di averla rincontrata.
Inoltre.. non voleva riportarle alla mente ricordi spiacevoli della sua travagliata infanzia.
Si sedette su uno dei tavoli e attese che una delle locandiere le portasse da bere. Aveva bisogno di svagarsi e di annebbiarsi la mente.
Notò solo in quel momento, guardandosi un po’ intorno, che la Taverna fosse più affollata di come la ricordasse.
Poi rimembrò le dicerie riguardo una donna che aveva iniziato a svendersi a chiunque lì dentro, con il benestare dei monaci, e capì il motivo di tutto quell’affollamento.
Individuò subito la donna in questione: ella era in piedi, con dei vestiti che più che vestiti erano cenci, ma che, su di lei, risaltavano in ogni caso, evidenziandone la straordinaria bellezza.
Heloisa la scorse di profilo, in quanto la lunga cascata di capelli biondi di lei e le persone che la circondavano, probabilmente clienti, non le permettevano una visione chiara.
Tuttavia, già solo da quel poco, riuscì a trovare alcuni suoi tratti decisamente familiari.
Heloisa arricciò il naso, confusa.
Dov’è che l’aveva già vista?
Si perse nei ricordi.
Quella donna, alta e imponente, non le ricordava nessuno di coloro che aveva visto recentemente, negli ultimi anni.
Le sarebbe sicuramente rimasta impressa, se così fosse stato.
E allora chi..?
Quando la sciamana si voltò verso la sua direzione, dandole finalmente modo di osservarla bene in volto, Heloisa ebbe come una realizzazione lampo:
Lei, all’età di sei anni, che giocava con le sue cugine, più grandi di lei, ma che considerava al pari di sorelle. Due bambine bionde, bellissime e altissime, che ridevano e la chiamavano con il suo primo nome “Alma”, tanta era la confidenza che avevano.
In lontananza, l’immagine di sua madre e della madre delle due bambine, cugine di sangue, che parlottavano insieme, spensierate.
Poi, ad un tratto, il vuoto. Le bambine erano sparite, insieme alla loro madre, che le aveva portate via con lei, non lasciando traccia.
Da quando aveva nove anni, non le aveva più riviste.
Ora ricordava il nome delle sue cugine: Imogene e Drusilla.
Osservò attentamente la donna a qualche metro da lei, studiandone il volto, cercando di capire quale delle due fosse.
Drusilla e Imogene erano quasi identiche da piccole, perciò era difficile capire quale delle due si trovasse dinnanzi a lei.
Affilò lo sguardo per scrutarla meglio, senza pensare al fatto che la donna potesse essersi accorta dei suoi occhi insistenti addosso, carpendo i dettagli che stava cercando: orecchie molto piccole, carnagione ambrata, un po’ più scura rispetto a quella della sorella, la mascella lievemente più squadrata. Era Imogene.
Ne era pressocché certa.
Troppo sconvolta e internamente felice nel rivedere la cugina scomparsa viva e vegeta dinnanzi a sé, a malapena si era accorta che l’oggetto che aveva attratto la sua attenzione si fosse appena seduta al tavolo con lei, nella sedia lasciata vuota, e che la guardasse interessata.
- Buongiorno - esordì la bionda, osservandola con sguardo seducente.
Heloisa, ancora interdetta per tutto ciò che stava accadendo, la guardò allucinata, senza dire una parola.
- Ho notato che mi fissavate da un po’, a distanza.
Forse siete troppo introversa per recarvi voi da me e chiedermelo platealmente.
Oppure avete paura che qualche amico di vostro marito vi veda - ipotizzò la sciamana, facendo finalmente capire ad Heloisa a cosa stesse alludendo, facendola avvampare inconsapevolmente.
- Rilassatevi. Non c’è niente di cui vergognarsi, cara – le disse melliflua, accennandole un sorriso che, Heloisa ne era certa, avrebbe fatto sciogliere ogni uomo presente sulla faccia della terra, suo marito compreso.
Heloisa poteva aspettarselo, che fosse diventata a dir poco irresistibile, dato che era procace già da bambina.
Tuttavia, per quanto desiderasse abbracciarla e stringerla a sé in quel momento, chiedendole dove fosse finita per tutto quel tempo, Heloisa non voleva nient’altro da lei.
Per questo, internamente, la divertiva quello strano fraintendimento che si era creato tra lei e Imogene, a causa dei propri sguardi insistenti, i quali avevano tutt’altro significato.
- Ci sono persone che hanno dei gusti molto statici e banali.
Altre, invece, hanno gusti molto variegati. E credo proprio voi siate una di queste - continuò la bionda.
Heloisa decise di stare al gioco, e di capire quanto ancora sua cugina avrebbe impiegato a riconoscerla a sua volta.
- Ah sì? - le rispose vaga.
- Ditemi, cara, siete mai stata con una donna, prima d’ora?
- Può essere.
- Sfuggente. Mi piace - commentò sorridendo la sciamana, scrutandola ancora sfacciatamente. - Sapete, ho acquisito una certa fama qui dentro. Una fama tale da permettermi di scegliere personalmente i miei clienti. Per questo ho liquidato quel gruppo di contadini per venire da voi.
- Ne sono lusingata. Non gradireste di più la compagnia di un uomo?
- Assolutamente no. La persona di cui sono follemente infatuata al momento è una donna. Il mio più grande amore è stato una donna. La maggior parte dei clienti che scelgo personalmente sono donne, se possibile. Di tanto in tanto seleziono anche gli uomini, ma è raro che qualcuno di loro riesca a colpirmi - spiegò lei.
- Accidenti - commentò sinceramente stupita Heloisa. - Dunque mi avete selezionata solo perché sono l’unica donna dentro la Taverna ad avervi guardata, al momento.
- Non per questo – le disse, avvicinandosi lievemente. - È a dir poco scontato dirlo, tra noi servi del Diavolo, me ne rendo conto: ma voi siete abbagliante, abbagliante nella vostra estesa bellezza. I vostri occhi, i vostri capelli.. tutto di voi, mi seduce.
- Ma davvero? - commentò la mora, sorridendo di sottecchi, internamente deliziata da quei complimenti. - Avete detto di avere una compagna. Lei sarebbe d’accordo?
- Lei sa quello che faccio, e che lo faccio solo per soldi. Il nostro rapporto non è superficiale, né bigotto - le disse decisa. - Ora basta giochetti. Qual è il vostro nome, cara?
Heloisa, non sapendo se sentirsi più offesa o divertita, sorrise di sottecchi nuovamente, pronta a porre fine a quel siparietto: 
- Imogene, sono io.
La sciamana, di contro, alzò un sopracciglio, confusa. - Ci conosciamo?
- Alma. Alma Heloisa. Ti dice qualcosa questo nome?
A tale rivelazione, la bionda sgranò gli occhi chiari, impallidendo.
- … Alma??
- Sì, Imogene. Sono io - confermò. - E per quanto io sia lusingata dalle tue provocanti attenzioni, posso dire di ritenermi delusa dal fatto che tu non mi abbia riconosciuta, cugina.
- Oh, dacci un taglio! - esclamò scocciata e lievemente imbarazzata la sciamana, bevendo dal boccale che le era appena stato portato. - L’ultima volta che ti ho vista ti mancavano due denti, eri alta la metà di quanto lo sei ora, ed eri tanto magra da fare invidia ai chiodi. È ovvio che io non ti abbia riconosciuta, sarebbe stato diverso il contrario.
Heloisa rise di gusto, bevendo a sua volta, felice di poter finalmente godere della sua compagnia, dopo più di vent’anni di assenza.
- E poi, dico le stesse cose a tutte le mie clienti.
- Sì, certo - replicò la mora, osservandola. - Cosa ci fai qui, Imogene? Dove sei stata per tutto questo tempo. Come sta Drusilla?
Imogene si rabbuiò, mantenendo comunque il suo tono sostenuto. - La bambina che conoscevi non esiste più, cugina.
Drusilla se ne è andata.
Mia madre se ne è andata anche lei.
Troppe cose sono accadute, nel corso di questi anni.
- Beh, io non ho fretta.
Fu così che le due si trovarono a raccontarsi le rispettive vite, senza approfondire i dettagli, ma comprendendo di essere molto più legate di quello che credevano.
Non appena Heloisa le disse di essere andata in sposa al proprietario della galleria, Imogene mise insieme i pezzi e comprese che sua cugina fosse la madre del famoso giovane ragazzo cresciuto da Myriam, al quale la strega era tanto affezionata.
Anche quando Imogene informò Heloisa di star condividendo la vita (e il letto) con Judith, la mora pensò che Bliaint fosse un villaggio davvero piccolo.
Avevano inoltre scoperto di condividere un fortissimo senso di maternità, che le univa e le accomunava.
Erano state indirettamente legate per tutto quel tempo, senza saperlo.
Non vi era il tempo di informarsi anche sui rispettivi drammi personali al momento.
Tuttavia, le due furono immensamente felici di essersi rincontrate e ritrovate.
Si ripromisero che si sarebbero riviste e che avrebbero tentato di recuperare almeno minimamente il tempo perduto.
Quello che era accaduto loro nel corso di quei lunghi anni di silenzio non era importante.
La famiglia, la famiglia era tutto ciò che le legava, ed era l’unico strascico di sicurezza a cui avrebbero potuto aggrapparsi tra mille incertezze che popolavano la loro esistenza peritura.
 
Erano trascorsi due giorni da quando si era ritrovata sanguinante e dolorante ai piedi dell’altare della cattedrale del Diavolo.
Cosa ci facesse lì non lo ricordava.
Chi l’avesse ridotta in quello stato, non lo ricordava.
Tutto ciò che sperava, al momento, era di non aver fatto del male a nessuno.
Negli ultimi giorni Layla era stata imprevedibile.
Emergeva quando meno se l’aspettava, e questo era un grave, gravissimo problema.
Non riusciva a tenerla sottocontrollo, non riusciva a tenere sottocontrollo il proprio corpo.
Quando si adirava, quando provava una forte delusione, gelosia, paura, tormento, o una qualsiasi altra emozione negativa, Layla trovava terreno fertile e usciva allo scoperto, in tutta la sua prepotenza.
In quel momento stesso, Hinedia non sapeva se Layla fosse in agguato, ad attendere sottopelle il momento giusto per manifestarsi.
Eppure stava tenendo lontane le due principali fonti di forti emozioni per lei: Judith non la vedeva da giorni, mentre Blake non ricordava neanche l’ultima volta che lo aveva incontrato.
Non seppe il perché, forse perché era un luogo che riusciva a trasmetterle calma e a cui aveva legati preziosi ricordi, ma si diresse verso la locanda sopra la galleria, quel posto semi sconosciuto in cui l’aveva portata Blake la prima volta che avevano conversato.
Per quanto fosse frequentato solo dagli scavatori, per quanto fosse strano per una giovane serva del Creatore come lei recarsi lì, non le importò, e varcò la soglia del luogo senza pensare. Venne invasa da una calda luce traballante e da un piacevole odore di cibo di speziato.
Oramai era buio da un po’, e a differenza della Taverna, che era affollata quasi fino a notte fonda talvolta, quella piccola locanda era semideserta, se non per tre o quattro presenze, le ultime rimaste.
Tra gli uomini che si trovavano lì, tutti rigorosamente scavatori e servi del Diavolo, vi erano anche due o tre bellissime donne che si intrattenevano con loro.
Non potevano essere locandiere, non erano vestite da locandiere, bensì da semplici popolane.
Sicuramente erano madri di famiglia, adultere che cercavano uno svago da un matrimonio infelice, esattamente come gli uomini sposati con i quali si intrattenevano.
Tra loro, con sua sorpresa, Hinedia individuò anche Rolland.
Ebbe conferma che le voci che circolavano su di lui fossero vere.
L’uomo sorrideva, seduto su una sedia, abbracciato da una splendida serva del Diavolo (che non era sua moglie) ancorata a lui come una scimmia.
Che coraggio... pensò amaramente la serva del Creatore, osservandolo.
Nel suo sguardo vi era un qualcosa di malinconico, una scintilla triste nel suo sorriso sguaiato e annebbiato dall’alcol; ma Hinedia non vi diede molto peso, concentrandosi piuttosto sulle sue mani agguantate ai fianchi della civettuola dai vaporosi capelli neri che gli si era spalmata addosso, sfacciata e vogliosa persino più di lui.
Chissà come mai non faceva tali oscenità alla Taverna, invece che in quel luogo sperduto.
Forse era proprio per tale motivo, perché era sperduto, e avrebbe avuto sicuramente molti meno occhi addosso nel tenere i suoi incontri proibiti lì.
Eppure, da tempo, nella Taverna era giunta una meretrice che donava il suo corpo a ogni servo del Diavolo che posasse gli occhi su di lei; perciò avrebbe avuto molti più motivi per recarsi lì.
Invece rimaneva nascosto, agiva nell’ombra. Il peso della vergogna e del senso di colpa gravava anche su di lui, a quanto pare.
Ma ciò non bastò a far diminuire il disgusto che la ragazza provò per il padre di Blake.
Quell’uomo non solo era infedele a sua moglie, ma trascurava anche i suoi figli, aggredendoli pubblicamente e non lasciandogli tregua.
Quell’uomo non meritava niente. Niente. Non meritava uno stralcio di ciò che aveva, non meritava la sua splendida famiglia.
Un’improvvisa rabbia iniziò ad invaderle le viscere, spingendola a fissare quel verme sempre più intensamente.
Dopo circa un’ora, Rolland uscì dalla locanda, da solo, con una bottiglia di vino semivuota tra le mani.
La ragazza, senza esitazione, decise di seguirlo, tenendosi a distanza. Quando uscì dalla locanda, non era più Hinedia, bensì Layla.
Con un ghigno d’ira a deformarle la fisionomia, Layla, provvista di mantello e cappuccio a celarle parzialmente il viso, seguì l’uomo, il quale camminava a passo lievemente barcollante.
Rolland si fermò non appena giunse sul terreno sconfinato della galleria, dinnanzi alla stessa entrata del lunghissimo tunnel.
Alzò la bottiglia al cielo nero, come se quel terreno di sua proprietà, tramandatogli dai suoi antenati, potesse brindare con lui, e si lasciò cadere seduto sul terriccio morbido e scuro, finendo quel poco vino rimasto.
I suoi occhi erano fissi su un punto distante nel vuoto, colmi di tristezza e di una lontana nostalgia. Era talmente perso nel nulla e nei suoi pensieri, da non aver affatto notato la presenza oscura alle sue spalle.
Rolland aveva lasciato la bottiglia di vetro vuota accanto a sé, non curandosene.
Layla fissò i suoi occhi neri e sadici su quella bottiglia, provando un istinto cieco, animale, senza freno.
Un istinto che surclassava persino quello che aveva nutrito per Judith, quando aveva tentato di ucciderla.
Improvvisamente, davanti ai suoi occhi ricomparvero le immagini di quell’uomo, le uniche immagini che la sua mente aveva immagazzinato di lui. Il ricordo della prima volta che lo aveva visto litigare con Blake, proprio in quel punto, davanti alla galleria, al modo in cui lo strattonava, e alle parole che erano uscite dalla propria bocca, quando aveva detto a Blake: “Non c’è nulla che vi lega. Egli è solo un codardo, un essere debole, degno del più assoluto disprezzo, che ha fatto un’unica cosa buona nella vita: mettervi al mondo... se la sua presenza e la sua influenza vi infastidisce tanto, cosa aspettate dall’eliminarlo dalla vostra vita e da questo mondo? Siete una persona fredda ed intelligente, non dovrebbe essere difficile per voi uccidere qualcuno che non merita la vita.”
Aveva detto a Blake di uccidere il proprio padre, ma lui non lo aveva fatto.
Perché non lo aveva fatto? La mente di Layla non riuscì proprio a comprenderlo.
Ciò di cui era certa, era che, se non lo avesse fatto Blake, lo avrebbe fatto lei, per lui.
Perché per lui, Layla avrebbe fatto di tutto.
Il desiderio bruciante e rabbioso di uccidere quell’uomo che aveva fatto del male al ragazzo, la stava invadendo da capo a piedi.
Il colpo di grazia, ciò che la spinse definitivamente a compiere quel passo e a perdere ogni briciolo della propria umanità, fu il ricordo di Rolland che colpiva violentemente Blake in volto in mezzo alla folla, facendolo cadere a terra e ferendolo.
Quell’unica immagine la spinse ad agire senza alcuno scrupolo.
Afferrò la bottiglia accanto all’uomo, da dietro, e in un batter d’occhio gliela scagliò sulla testa castana.
Rolland precipitò a terra, emettendo un’agonizzante smorfia di dolore e tossendo, aggrappandosi alla terra con le dita.
Ma Layla sapeva che non sarebbe bastato quell’unico colpo per uccidere un uomo adulto della sua statura.
Difatti Rolland provò ad alzarsi in piedi, a fatica, stordito dal colpo appena ricevuto, posando lo sguardo esterrefatto sulla sua aggreditrice.
Era alto, molto più alto di lei.
Ma era anche ingobbito, affaticato dal dolore.
- Chi diavolo...? - le domandò rantolante. Sembrava che anche la sua voce, solitamente scura e calda, stesse venendo meno.
Layla lo guardò senza dire nulla, ghignando di soddisfazione.
Poi, improvvisamente, l’uomo iniziò a tremare e ad avere degli strani tic al volto, frequenti quanto inquietanti.
Fu in quel momento che entrambi realizzarono che un pezzo di vetro della bottiglia si fosse conficcato dentro la testa dell’uomo, rimanendo sporgente, ma essendo penetrato dentro il cranio.
Rolland si toccò la testa, laddove il vetro lo aveva trafitto, guardando la ragazza dinnanzi a sé quasi con gli occhi fuori dalle orbite per il dolore.
Sputò saliva e iniziò a tremare, e fu in quel momento che Layla gli sferrò il colpo di grazia: in un balzo si avvicinò a lui e gli tagliò la gola con la bottiglia rotta che aveva ancora in mano, incidendo la pelle morbida da parte a parte.
L’uomo cadde in ginocchio, con gli occhi fissi su di lei, battendo le palpebre in maniera lentissima, mentre un fiume di sangue gli sgorgava dal collo.
Quando vide i suoi occhi chiari, a tratti simili a quelli di Blake, divenire lucidi e ancora più belli dinnanzi alla pallida luce lunare, Hinedia tornò in sé, riuscendo a scacciare Layla.
Rolland, con le ultime forze rimastegli, gorgogliò e si portò debolmente una mano sul collo, laddove sgorgavano fiumi di denso sangue borgogna.
Sull’orlo delle lacrime e in preda ad un attacco d’ansia, Hinedia si fiondò inginocchiata dinnanzi a lui, cercando di rimediare all’irreparabile.
-No, no, no, no, no! Vi prego, vi supplico, rimanete vigile! Rimanete sveglio, vi prego!! - esclamò tra i singhiozzi, vedendo gradualmente la vita abbandonare il corpo dell’uomo. - Vi supplico! Io non volevo, non volevo!! - disse coprendogli inutilmente la ferita sgorgante, macchiandosi completamente di sangue a sua volta.
Ma il liquido denso e scuro continuava a scendere.
E oramai erano litri e litri, sparsi su quella terra nera, macchiata per sempre.
Rolland la guardò, nel suo ultimo momento di lucidità, con lo sguardo perso e già più vitreo che vivo, mentre ella, disperata, gli copriva la ferita con le mani.
- Siete pazza... - le sussurrò.
Furono le sue ultime parole.
Cadde col volto in avanti, a terra, e Hinedia accompagnò la sua caduta a peso morto.
Restò a guardare il cadavere di quello che era stato Dun Rolland, il proprietario della galleria, per un tempo che le parve infinito.
Un corpo lungo, abbandonato sulla terra scura in una posizione tutt’altro che naturale, a pancia in giù, con il profilo a metà premuto contro il terriccio, a metà rivolto verso la luna, la bocca schiusa e macchiata di sangue, alcuni ciuffi di capelli scuri infilati dentro le labbra, gli occhi grandi, chiari come due diamanti d’acquamarina, vuoti e vitrei.
Era bello persino da morto, e ciò inquietò e conturbò Hinedia ancor di più, facendola tremare di dolore e paura.
- Che cosa ho fatto...?
Che cosa hai fatto?  le ripeté la voce di Agnes, l’anima pura, dentro di sé.
- Che cosa ho fatto??
Che cosa hai fatto..?
-Che cosa ho fatto?!?
Che cosa hai fatto!!
Hinedia si strinse i capelli, piangendo disperata, restando inginocchiata a terra mentre emetteva una flebile e tacita preghiera per l’anima di Rolland.
Poggiò un palmo tremante e insanguinato sulla schiena di lui mentre pregava, con la voce rotta.
Poi ne prese coscienza:
Aveva appena strappato via una vita.
Aveva ucciso un uomo.
Aveva assassinato il padre di una delle persone più importanti della sua vita.
Gli aveva rovinato la vita.
Egli avrebbe sofferto, terribilmente, per colpa sua, sua e del suo malsano e ossessivo terrore che gli venisse fatto del male. Della sua distorta gelosia.
Aveva rovinato la vita a tutta la sua famiglia.
Aveva ucciso un uomo. A mani nude.
Si asciugò convulsamente le lacrime che continuavano ad uscirle, con le maniche del vestito, sfregandosi il viso fin quando la pelle non si irritò.
Ripresa parzialmente la lucidità, si guardò intorno: non l’aveva vista nessuno. Era buio. Nessuno avrebbe trovato il corpo fino all’indomani mattina.
Avrebbe camminato fino a casa e nessuno l’avrebbe vista con i vestiti sporchi di sangue, nemmeno i suoi genitori, in quanto dormivano tutti.
Una volta arrivata a casa, avrebbe bruciato quei vestiti e si sarebbe lavata via il sangue di dosso.
Questo è ciò che avrebbe fatto.
Per quanto il senso di colpa la stesse divorando da dentro, la razionalità prevalse, per il momento: consegnarsi ai monaci era fuori discussione.
Non sarebbe morta al rogo.
Avrebbe accettato di morire cento volte per il tremendo peccato commesso, ma non di morire bruciata al rogo. Quello no, non lo avrebbe mai sopportato.
Pianse ancora, e si riasciugò le lacrime più volte, prendendo a camminare, a passo serrato, ferma nella sua decisione.
Se l’unico modo per uccidere Layla fosse stato togliersi la vita, lo avrebbe fatto.
Si sarebbe tolta la vita, o avrebbe chiesto a Blake di togliergliela e di vendicarsi di lei, accettando il suo nefasto destino senza aprir bocca.
L’anima di un’assassina non era un’anima a cui spettavano le porte del Paradiso, nemmeno quelle dell’Inferno.
Non meritava più di pregare, non meritava più di avere un dio.
Da quel momento in poi, sarebbe stata eternamente orfana.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 47
*** La fuga dell'innocente ***


La fuga dell’innocente 

 

Blake si trascinò in cucina, con passo sonnolento. 
Era l’alba, come al solito, e già solo la consapevolessa di essere riuscito a dormire quattro o cinque ore senza la costante e sgradita visita di Bonnie nel suo sonno, era una conquista non indifferente.  
Tuttavia, una perenne sensazione, la sensazione che fosse accaduto qualcosa di terribile, gli stava facendo contorcere le viscere da quando aveva aperto gli occhi. 
Si versò un po’ di infuso e iniziò a berlo, nonostante sentisse lo stomaco sottosopra. 
Dei passi dietro di lui attirarono la sua attenzione, un passo felpato, leggiadro. 
Istintivamente, senza alcun motivo apparente, Blake si strinse l’opale che gli ricadeva in mezzo alle clavicole, poggiato sul petto.  
Non aveva sentito suo padre rincasare la sera prima. 
Strano, dato che, dalla litigata che avevano avuto, Rolland aveva iniziato a rincasare tutte le sere, per quanto ad ora tarda. 
Si chiese, ancora una volta, perché gli avesse donato quell’opale. 
A distoglierlo dalle sue riflessioni, fu il tocco familiare di sua madre che, giunta dietro di lui, gli appoggiò le mani sui fianchi con delicatezza, spingendolo a voltarsi verso di lei. 
Un sorriso dolce e adorante abbelliva il volto insonnolito di Heloisa, che lo guardava dal basso.  
- Dormito bene? - gli domandò, con una premura che, stranamente, non gli stava dando fastidio quanto gliene avrebbe dato solitamente. 
Tanto che non si scansò da lei, mantenendo il contatto visivo. - Sì. Tu? 
La donna annuì. - Non hai fame? 
- No, non preoccuparti. 
Non avevano parlato di cosa gli avessero fatto o detto i monaci il giorno prima, quando erano stati costretti a lasciarlo lì con loro, ed Heloisa si era trattenuta, non chiedendogli nulla a riguardo. 
Blake le era stato tacitamente grato.  
Di nuovo, sua madre tentò un approccio fisico, allungando un braccio, delicato e affusolato ma non gracile, e spostandogli un ciuffo di capelli scuri dietro l’orecchio, con premura. 
Blake la lasciò fare, continuando a guardarla. 
- Andrà tutto bene – gli disse improvvisamente la donna, sorprendendolo. 
- Lo dici tu a me? - rispose prontamente, senza risultare maligno o pungente.  
- Voglio solo che tu lo sappia.  
Farò andar bene le cose.  
Non permetterò che ti facciano del male, né che lo facciano a tuo fratello. 
Farò quello che dovrà esser fatto per essere una madre degna di te.  
Quelle parole non lo scalfirono come avrebbero dovuto, ma ebbero il potere di lasciarlo senza parole, senza nulla da dire. 
In quel momento, qualcuno bussò alla porta, interrompendo il loro dialogo.  
- Vado io – disse Heloisa allontanandosi da lui e dirigendosi verso la porta. 
Di nuovo, gli si ripresentò quella sensazione tremenda, di un avvenimento nefasto di cui a breve sarebbero venuti a conoscenza, una sensazione sottopelle che non riusciva a controllare e che si moltiplicò nel momento in cui sua madre aprì la porta con sguardo sorridente, dando il buongiorno a chiunque si trovasse fuori. 
Blake strinse di nuovo l’opale, inconsciamente, mentre vedeva il viso di sua madre mutare improvvisamente, divenendo una maschera di puro terrore, sconcerto e disperazione.  
La donna cadde in ginocchio, portandosi le mani dinnanzi alla bocca spalancata in un urlo muto, e tutto si svolse come a rallentatore dinnanzi agli occhi del ragazzo. 
Heloisa si voltò lentamente verso di lui, rimasto immutato nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato.  
- Blake...  

  

Hinedia si svegliò in un letto estraneo, con degli abiti nuovi a coprirle il corpo, estramemente morbidi e pregiati. 
La ragazza schiuse la bocca impastata dal sonno agitato e si spostò i capelli scuri da davanti il viso, guardandosi distrattamente intorno. 
Fu quando prese coscienza di non essere a casa sua, che saltò quasi sull’enorme giaciglio in cui aveva il corpo comodamente sepolto. 
La camera in cui si trovava era chiara e ariosa, a coprirle il corpo vi era una vestaglia bianca e setosa. 
Poi, come se non bastasse, improvvisamente, percepì una lingua minuscola, ruvida e rasposa, leccarle le dita della mano. 
Hinedia abbassò lo sguardo e individuò la figura di una micetta distesa sulle lenzuola morbide, la quale alternava leccatine a giocosi morsetti alla sua mano ignara, divertendosi come poteva. 
- Siete sveglia, finalmente – quella voce accigliata ed estranea la fece riscuotere di colpo, spingendola ad indirizzare gli occhi scuri verso la seducente e slanciata presenza bionda in piedi a pochi metri dal letto, che la osservava con uno sguardo di sufficienza e le braccia conserte. 
- Cosa... dove sono..? - ebbe il coraggio di domandare, con voce incerta, abbassando immediatamente lo sguardo da quella figura intimorente.  
- Oh, sei sveglia! Ti ho portato la colazione. Hai fame?  
Finalmente una voce familiare. Familiare ed estremamente gradita da udire.  
Hinedia si voltò verso la porta della camera, individuando la bellissima sagoma di Judith, appena entrata, dirigersi verso di lei con un vassoio colmo di leccornie tra le mani. 
Era giunta in Paradiso, forse?  
Cosa aveva fatto per meritarselo? 
Una camera bellissima e lussuosa, splendidi abiti di seta, la sua più cara amica a darle il buongiorno e a portarle la colazione a letto, e persino un gattino da coccolare. 
Poi, improvvisamente, la realtà la investì come un tornado pronto a spazzare via ogni cosa:  
I ricordi della serata appena trascorsa piombarono nella sua mente tanto violentemente da farla colpire da un capogiro. 
Desiderò fosse solo un sogno, un orribile sogno, ma era sin troppo realista e intelligente per credere a tale bugia.  
Aveva ucciso un uomo a sangue freddo. 
E non un uomo qualsiasi. Il padre di Blake. L’uomo che aveva messo al mondo colui che occupava sempre più spesso i suoi pensieri, una delle poche scintille nel mare oscuro che era la sua vita. 
Dei conati di vomito si impadronirono di lei, nel ricordare il volto dell’uomo con gli occhi quasi fuori dalle orbite, gorgoliante, con le labbra macchiate di denso sangue scuro. 
Gli occhi le si riempirono di lacrime, la gola le si seccò, la bocca le si spalancò in cerca d’aria, il corpo iniziò a tremarle. 
- Che le sta succedendo..? - domandò incerta Imogene, catapultando gli occhi verso la sua amata appena entrata. 
Judith, confusa e preoccupata insieme, posò il vassoio su un comodino e si fiondò accanto al letto, cercando lo sguardo della sua amica. - Hinedia, che ti succede..? Ti senti male?? Ti prego, parlami e dimmi cos’hai... 
- Forse deve vomitare - commentò Imogene. 
Hinedia cercò di calmarsi, osservando Judith dinnanzi a sé, che cercava in ogni modo di assisterla e di capire quale fosse la fonte del suo malessere. 
Ma Judith non avrebbe potuto venire a conoscenza della fonte del suo malessere. 
Nessuno avrebbe potuto. 
Oramai. Era sola, sola al mondo. 
Un’assassina destinata a morire nell’ombra. 
Hinedia afferrò le mani gentili della sua amica e le usò per aiutarsi a mettersi seduta, continuando a respirare a fatica, il cuore troppo pesante e colmo di dolore. 
Non era stata lei. No, non era stata lei. 
Eppure, Layla era una parte di lei. Recondita, selvaggia e contorta, ma lo era. 
Layla e la sua cieca, assurda, immotivata gelosia. Gelosia, o forse possessività o morbosità. Non sapeva individuare con certezza per quale motivo la sua gemella perfida avesse ritenuto necessario uccidere Rolland, pur di allontanarlo da Blake. 
E se era così... ciò voleva dire che Layla, d’ora in poi... avrebbe tentato di uccidere chiunque si fosse avvicinato a Blake con cattive intenzioni...? 
Un nuovo conato la colpì, facendola quasi piangere per il dolore, fisico e mentale. 
- Ecco, tieni – le disse premurosamente Judith, reggendola saldamente e porgendole un fazzolettino di seta, che Hinedia non esitò un secondo a portarsi alla bocca, per tossirci dentro, e forse vomitarci. 
Alla fin fine, considerando che il suo stomaco era ancora vuoto, Hinedia non vomitò, ma tossì violentamente grandi quantità di saliva. 
Judith attese pazientemente che si riprendesse, poi le porse una tazza di latte caldo e un tortino al limone. 
Hinedia cercò di calmarsi e accettò la premura dell’amica, iniziando a sorseggiare un po’ di latte, per poi dare un morso al tortino. 
Si ricordò di non sapere ancora come mai si trovasse lì, in quello che premusimibilmente doveva essere il letto di Judith (o meglio, il letto che Judith condivideva con la sua amante, dato che quest’ultima la stava fissando con uno sguardo incenerente e scocciato da quando si era svegliata), invece che nel letto della casa dei suoi genitori. 
- Perché... cosa ci faccio qui? - domandò dopo aver bevuto un altro sorso di latte addolcito col miele, il quale lenì la sua povera gola massacrata. 
- Forse dovreste dirlo voi a noi – le rispose ancora diffidente Imogene, avvicinandosi di un passo al letto. 
- Ti ho trovata questa notte, ai piedi della cattedrale – rispose Judith, palesando la sua preoccupazione. - Eri delirante, Hinedia. Fortunatamente questa notte ho avuto un po’ di insonnia, perciò mi trovavo seduta su una navata quando ti ho udita, all’esterno. Colpivi il portone con la mano, piangendo disperata.. Come se volessi scusarti con Dio per qualcosa.. Ma la cosa persino più curiosa è che- 
- Eravate nuda – la informò Imogene, interrompendo la sua amante, la quale non gradì totalmente quell’interruzione.  
Nonostante quell’informazione avrebbe dovuto suscitarle una bella dose di imbarazzo, per una questione di pudore e perché le donne dinnanzi a lei erano carnalmente il ritratto della perfezione, Hinedia non riuscì a fare a meno di sentirsi sollevata nell’apprendere ciò: 
Ciò significa che, almeno, la mia seppur poca lucidità mi ha permesso di spogliarmi dei vestiti macchiati di sangue e di riporli chissà dove.. e magari di pulirmi il sangue residuo dal corpo.. prima di giungere qui, da Judith.  
Hinedia non era sorpresa per il fatto che il suo inconscio delirante e bisognoso di supporto fosse giunto proprio in cerca di Judith dopo aver compiuto il terribile atto che aveva compiuto. 
Infondo, la fanciulla era l’unica vera amica che aveva. 
Inoltre, la cattedrale del Creatore era la casa del suo dio, un dio nei confronti di cui si sentiva tremendamente in colpa. 
Dunque, ora comprendeva come mai si trovasse lì, e ciò spiegava anche come mai fosse vestita con gli abiti di Judith. 
- E poi..? - le domandò in un sussurro. 
- Ovviamente ti ho aperto il portone e ti ho presa con me, con l’aiuto di Imogene.  
Ti abbiamo vestita e ti abbiamo messa a letto. 
Sono contenta che tu sia riuscita a dormire almeno un po’, Hinedia.. 
Tuttavia, mi hai davvero fatta preoccupare. Dimmi, ricordi qualcosa di quello che ti è accaduto ieri sera per ridurti in quello stato...? 
Insomma, eri nuda e... vorrei solo capire se qualcuno ti ha aggredita e ti ha fatto qualcosa, in modo che possiamo rivolgerci ai monaci per punire chiunque si sia permesso di- 
- Non sono stata aggredita – la bloccò Hinedia, con il cuore scaldato grazie all’affettuosa preoccupazione della sua amica, riguardo la sua incolumità.  
Magari si fosse trattato della propria incolumità... e non di quella strappata e violata di qualcun altro. 
Avrebbe preferito mille volte che le preoccupazioni di Judith si avverassero, e che la sera prima fosse stata davvero aggredita da qualche losco vecchio servo del Creatore, in cerca solamente di un buco in cui inserire la propria bisognosa virilità. Avrebbe preferito un milione di volte venire stuprata e disonorata, venire picchiata e torturata, piuttosto che la consapevolezza di aver ucciso Dun Rolland. 
- Allora... come mai eri denudata? E perché deliravi? Cosa ti è successo...? 
Hinedia non fece in tempo ad elaborare una risposta credibile da dare alla sua amica, e che potesse convincere anche il sospetto diffidente di Imogene, così come fece appena in tempo a pensare al fatto che, a quell’ora del mattino, col sole già alto in cielo, sicuramente dovevano aver già trovato il corpo; che qualcuno bussò vigorosamente alla porta, interrompendo la loro conversazione. 
Judith si alzò dal giaciglio e andò ad aprire, seguita da Imogene come un’ombra. 
Capendo cosa stesse venendo riferito all’amica, a Hinedia si gelarono nuovamente le vene, e il respiro le mancò. 
- Di chi hai detto che si tratta...? 
- Rolland. Dun Rolland. Il proprietario della galleria. 
- Perché questo nome mi dice qualcosa...? Non è il nome dell’uomo che sta ospitando padre Craig in casa sua..? Mi pare di averlo udito da lui. 
- Sì, è lui. 
Un gemito di tristezza fuoriuscì dalle labbra di Judith. - Povero padre Craig, sarà sconvolto.. E come...? 
- Meglio non saperlo, mia cara... il cadavere era in condizioni raccapriccianti. Ben presto inizieremo ad indagare sul colpevole di tale tragedia e atroce nefandezza - pronunciò il monaco, con voce mesta e grave. 
- Ditecelo, monaco – insistette Imogene. - Com’è morto l’uomo? 
- La sua gola è stata orribilmente tagliata con il collo di una bottiglia. 
Dun Rolland è morto dissanguato. 
Dallo stato del corpo presupponiamo che sia stato assassinato questa notte. 
A breve si terranno i funerali nella cattedrale del Diavolo.  
Tutta la sua famiglia sarà presente, insieme a moltissimi servi del Diavolo.  
Essendo il proprietario della galleria, Rolland era un uomo molto noto, sia dai suoi numerosi scavatori, che dalle famiglie degli stessi. 
Sarebbe gradita anche la tua presenza, Judith, se lo desideri, per porgere le tue condoglianze alla famiglia di Rolland, come è consuetudine. 
- Ma certo - acconsentì la ragazza. - Posso sapere i nomi dei suoi familiari? In modo che saprò come chiamarli quando porgerò loro le mie condoglianze. 
- Sua moglie porta il nome di Alma Heloisa.  
Il suo figlio più piccolo Christopher Ioan.  
Il suo primogenito Even Blake. 
Fu in quel momento che Judith raggelò, e Hinedia lo notò visibilmente già a distanza.  
- No... non può essere... - sussurrò Judith con voce rotta, tappandosi la bocca. 
- Che succede? - le domandò Imogene, notando tale reazione inaspatteta. Gli occhi della sua amata si erano improvvisamente riempiti di lacrime e la sua mano tremava. - Conosci qualcuno di loro? 
- Il ragazzo.. Il ragazzo di cui ti ho parlato.. quello che ho conosciuto qualche giorno fa, a cui ho prestato il libro.. è lui, è suo figlio. 
Grazie, padre, potete andare, ci vediamo più tardi - liquidò l’uomo Judith, ancora sconvolta per la notizia appena appresa, tornando in camera e chiudendosi la porta dietro di sé con il volto impietrito. 
Imogene aveva compreso subito che fosse il marito della sua ritrovata cugina ad essere morto orribilmente e apparentemente senza scopo, in un mistero che aveva dell’assurdo. 
Tuttavia, oltre al desiderio di confortare la cugina, la donna era intrigata da quel fatto, dallo scoprire chi avesse potuto fare una cosa simile.  
Rolland era, per lo più, amato da tutti quelli che lo conoscevano, a detta di Heloisa. 
Da tutti tranne che da Myriam, ma Imogene escludeva a priori che la strega avrebbe potuto fare una cosa tanti stupida e insensata.  
Che fosse stata Heloisa, per gelosia, considerando quanto l’avesse vista innamorata di quell’uomo, adultero e libertino? 
Anche quell’opzione era da escludere. Per quanto non avesse visto sua cugina per decenni e non potesse vantarsi di conoscerla, era certa che Heloisa non fosse capace di una compiere un atto simile. 
Dunque il figlio? Il famoso Blake? 
Imogene doveva ancora inquadrare quella figura enigmatica, inquadrarlo e incontrarlo, primariamente, dato che non aveva ancora avuto modo di scorgerlo, neanche da lontano. 
Perciò era curiosa di conoscerlo ai funerali che si sarebbero tenuti entro qualche ora. 
Non poteva ancora fare ipotesi su di lui, dunque. 
D’altro canto, Judith non sapeva ancora del suo incontro con Heloisa, la sua ritrovata cugina. 
Invece, Judith aveva già incontrato il figlio di Rolland, ed era rimasta colpita da lui, tanto da essere triste e sgomenta per la sua perdita più di quanto avrebbe dovuto. 
Imogene si voltò verso Hinedia, quella strana serva del Creatore amica di Judith, che era giunta dinnanzi alla cattedrale nel cuore della notte (proprio nella fascia oraria in cui si presupponeva fosse stato ucciso l’uomo) delirando, nuda dalla testa ai piedi, in cerca di aiuto. Quella ragazza che si comportava in modo strano, non spiccicando quasi parola, e che ora, da quando aveva appreso a sua volta la notizia della morte di Rolland, origliando la loro conversazione con il monaco, aveva la faccia pietrificata come una statua di sale.  
Quella ragazza non la convinceva. Non la convinceva per nulla. Così come il suo strano comportamento. 
Tuttavia, che motivi poteva avere quella pressochè sconosciuta serva del Creatore per uccidere un uomo come Dun Rolland? 
- Sarà distrutto... - la voce della sua amata la riportò alla realtà. La vide coprirsi il volto con una mano, gli occhioni da cerbiatta lucidi e il volto contrito dalla tristezza. - Sarà distrutto, Imogene... era suo padre.. Io l’ho incontrato solo ieri, nella cattedrale, quando ancora non era accaduto nulla.. Come è possibile?? Chi può essere stato..?  
Imogene la consolò, avvicinandola e prendendola tra le sue braccia, cullandola amorevole, mentre con la coda dell’occhio non si perdeva un movimento di Hinedia. 
Poi, non si trattenne più e parlò. - Vi vedo sconvolta. Lo conoscevate? - le domandò improvvisamente mentre continuava ad abbracciare Judith, vedendo sussultare la diretta interessata, ancora distesa sul loro letto. 
Hinedia non rispose, ma ciò basto a Imogene per capire che sì, doveva per forza conoscerlo, per reagire in tal modo. 
- Come lo conoscevate? 
- Non conoscevo Rolland direttamente.. - rispose Hinedia. 
- Ah no..? Allora uno dei suoi familiari? Il figlio, per esempio? 
Chi altro poteva essere, se non il figlio...  
Quel ragazzo che era sempre sulla bocca di tutti, inspiegabilmente. 
Imogene sospirò, seccata da quel pensiero.  
Il mutismo di Hinedia le confermò che avesse indovinato. 
Come facesse Hinedia a conoscere così tanti servi del Diavolo intimamente, Imogene non riusciva proprio a spiegarselo. 
Cos’aveva quella ragazza addosso, una pozione attira-servi del Diavolo?  
E perché lei non ne era affetta? 
- Dunque sarete presente anche voi ai funerali quest’oggi, immagino.  
- Imogene, non vessarla.. - commentò finalmente Judith, indisposta dall’atteggiamento pungente della sua amante. 
- Sì, sarò presente - confermò Hinedia, e non seppe neanche lei stessa perché lo disse. 
Non si sarebbe dovuta permettere, neanche lontanamente, di avvicinarsi ai funerali dell’uomo che aveva ucciso... di avvicinarsi a Blake, soprattutto. 
Tuttavia, sapeva che se non lo avesse fatto... se non gli fosse stata vicina in un momento simile per lui... non se lo sarebbe mai perdonata. 
Quelle due parti di lei erano in battaglia, come sempre, mentre la sciamana la scrutava e la giudicava. 
- Sapete, è davvero strano che voi, questa notte, foste in giro, proprio nell’orario in cui si presuppone la vittima sia stata orribilmente uccisa.  
Cosa stavate facendo fuori, da sola, a quell’ora? - indagò la sciamana, avvertendo il corpo di Judith distanziarsi improvvisamente e piccatamente dal suo, in seguito a quella palese accusa. 
- Imogene... che cosa stai insinuando?? - le domandò velenosa la sua amata, fulminandola con gli occhi; e come se la gattina l’avesse udita, anche ella manifestò il suo felino disappunto, soffiando contro la sciamana. 
- La difendi a spada tratta solo perché è tua amica. Il tuo giudizio è così irrimediabilmente offuscato, bambina? Le ho solo fatto una domanda. 
- Non le stai solo facendo una domanda, la stai accusando, quando è evidentemente scossa e spaesata a causa di quello che le è successo stanotte! - andò subito in sua difesa Judith, allontanandosi dalla bionda. - I traumi hanno bisogno di tempo per essere elaborati. Il fatto che non riesca a dirci cosa è accaduto non presuppone che sia colpevole di qualcosa. Quando sarà più calma e rilassata, Hinedia mi dirà tutto - garantì per lei. - Ma non osare accusarla di un crimine tanto nefasto senza alcuna prova, Imogene! Nessuno ti dà il diritto di farlo! - esclamò decisa, poi voltandosi verso Hinedia, la quale aveva lo sguardo abbassato. 
Tale reazione preoccupò e insospettì insieme Judith, la quale, tuttavia, continuò a difenderla senza remore.  
- Vieni con me, cara – le disse aiutandola ad alzarsi, e Hinedia si lasciò accompagnare mansueta e silenziosa. - Dobbiamo scegliere dei vestiti per la cerimonia funeraria. 

 

 Il funerale di Dun Rolland fu uno degli eventi più maestosi e affollati che vi furono negli ultimi anni a Bliaint. 
In pochi non erano accorsi a porgere le loro condoglianze alla famiglia di uno degli uomini più ricchi e prodigiosi del villaggio. 
Quell’atmosfera di convivialità solidale, quell’esigenza di toccare, toccare e toccare, per confortare, per piangere, per esprimere la propria empatia … se avesse potuto, Blake avrebbe evitato tutto ciò seduta stante. 
Ma non poteva. Non poteva sottrarvisi. 
Percepiva gli occhi di tutti puntati addosso, degli occhi impietositi, tristi, disperati, solidali. Occhi che cercavano disperatamente di trasmettergli tutto il loro dispiacere e la loro preoccupazione. 
Ma soprattutto, tra tutte le paia d’occhi che il ragazzo percepiva addosso, ve ne erano due che sentiva penetrargli il corpo con perenne e ininterrotta insistenza: gli occhi di padre Craig. 
Era da quando avevano appreso la notizia, che il giovane prete non gli staccava gli occhi di dosso, quegli occhi devastati, più di quanto sarebbero dovuti essere, più di quelli di Blake stesso. 
Sua madre, nonostante la disperazione più totale, aveva comunque avuto la forza di mandare Quaglia a prendere i vestiti migliori che la sarta avesse a disposizione al momento, e li aveva esortati ad indossare quegli eleganti e raffinati abiti neri da cerimonia, stretti, scomodi, solenni. 
Nonostante non avesse minimamente la forza o la voglia di cambiarsi per indossare abiti diversi da quelli che aveva, Blake aveva dovuto farlo. 
Aveva dovuto trovare la forza di infilarsi in quegli indumenti estranei, di uscire di casa e di recarsi alla cattedrale del Diavolo, dove si sarebbe tenuta la cerimonia, dove avrebbero portato il corpo.  
Il corpo martoriato di suo padre. Un corpo che non aveva ancora visto. 
- So che è ancora prematuro pensarci, ma... dato che ora siete voi il proprietario della galleria: avete intenzione di far proseguire gli scavi, o .. volete prendervi un periodo di pausa, dato il lutto? - gli domandò con ben poco tatto uno degli scavatori, più precisamente il padre della defunta Bonnie. A quanto sembrava, doveva essere un quesito che premeva molto agli scavatori in generale, a giudicare dall’aspettazione con cui lo guardavano tutti, attendendo una sua risposta.  
- Ma insomma! Vi sembra il modo di porre una domanda simile quando solo questa notte..! - esclamò Quaglia, adirato da tale mancanza di rispetto, a suo parere.  
- No – rispose prontamente Blake, freddo, flemmatico, senza alcuna inflessione nella voce. - Non ho intenzione di prendermi una pausa. Farò riprendere gli scavi immediatamente – rispose, sorprendendo tutti. 
Dopo le condoglianze e i commiati degli scavatori, giunse una carovana di sette bambini, molti di loro con un fiore tra le mani, e non dei bambini qualunque: erano i bambini degli otto peccati capitali, giunti per consolare il loro compagnetto Ioan, in lacrime, e per porgere le loro condoglianze a tutta la sua famiglia.  
Il bambino si ritrovò abbracciato e circondato da tutti, i quali iniziarono a piangere con lui, condividendo il suo dolore. Gwen, colei con la quale si era maggiormente legato, rimase accanto a lui anche dopo, dandogli un dolce bacio sulla guancia e prendendolo sottobraccio. 
Heloisa, esattamente come stava facendo da mezz’ora, da quando erano arrivati, abbracciava e si lasciava abbracciare da tutti, lasciandosi consolare, e bevendo assetatamente le parole di conforto e di consolazione da parte di tutti, anche degli sconosciuti, manifestando tutto il suo dolore nella maniera più esplicita possibile. 
Tutto il contrario di Blake, il quale sperava che, notando la sua aura mortifera, nessuno si fosse azzardato ad avvicinarglisi, ovviamente sperando invano.  
Era stato abbracciato e “consolato” da decine e decine di persone diverse, per lo più sconosciute, le quali giungevano addirittura prima da lui a porgere le loro condoglianze, per poi spostarsi su sua madre e su suo fratello.  
I bambini dei vizi capitali andarono a portare i loro fiori ad Heloisa, mentre solamente Sorie ebbe il coraggio di consegnare il suo fiorellino blu a Blake, alzandosi sulle punte nel tentativo di fargli comprendere che lo volesse abbracciare. 
A ciò, il ragazzo prese il fiore e si abbassò, ma invece di un abbraccio, Sorie, rossa in volto sia per la tristezza che per l’imbarazzo, gli diede un piccolo bacio sulla guancia. 
- Vi porgo le mie condoglianze – gli disse poi, garbatamente. 
- Vi ringrazio. 
Dopo i bambini, i tre videro avvicinarsi a loro altre due figure note, le quali avevano atteso in disparte che madre e figlio venissero liberati dalla morsa della folla di persone venute a porgere le loro condoglianze. 
Imogene si fece strada e andò verso la cugina, abbracciandola di slancio, tenendola stretta a sé come non aveva avuto modo di fare per decenni.  
- Oh, Imogene... oh, Imogene...! - esclamò disperata Heloisa, lasciandosi stringere e affondando il volto sconvolto dalle lacrime sulla spalla della cugina. - Lo amavo così tanto... tu non ne hai neanche idea.. Come sono felice che tu sia qui con me, cugina... 
- Sono qui, cugina... sono qui. Vedrai, vedrai, scopriremo chi è stato e la pagherà cara - affermò la sciamana decisa, accarezzandola sinceramente amorevole e lasciando che piangesse disperata e si sfogasse su di lei. 
Padre Craig e Quaglia rimasero stupiti dinnanzi a tale scena, ma specialmente Judith restò sorpresa di venire a conoscenza che la sua amante fosse imparentata con la moglie del defunto Rolland, decidendo, tuttavia, di chiederle spiegazioni in seguito, lasciando alle due il dovuto riguardo. Prima che raggiungesse la sua meta, nonché Blake, la fanciulla dai capelli cremisi venne bloccata da padre Craig e da Quaglia, i quali, a turno, la abbracciarono e la salutarono. 
- Mi dispiace tanto per ciò che è accaduto, padre.. - sussurrò Judith all’orecchio di padre Craig, il quale la strinse forte, trattenendo a stento le lacrime. - Se avrete voglia di sfogarvi... la mia porta sarà sempre aperta – lo rassicurò accarezzandogli la schiena, sentendolo sospirare sotto il suo tocco. 
- Vi ringrazio, mia dolcissima Judith... - le rispose lui con voce rotta ma estramamente riconoscente. 
Poi, fu il turno della presentazione di Imogene a Blake da parte di Heloisa, perciò Judith attese ancora, osservando la scena da parte. 
- Blake, Ioan, so che è un po’ improvviso, ma non ho avuto il tempo di parlarvene prima: questa è mia cugina da parte di madre, Imogene. Imogene, questi sono i miei due figli, Ioan .. - disse Heloisa indicando per primo il piccolo angioletto biondo con il viso rosso e sconvolto dalle lacrime, il quale venne salutato da Imogene con un lieve sorriso addolcito e un cenno della mano. - ..e questo è il mio primogenito, Blake.  
Per presentarsi al secondo, Imogene si avvicinò a lui, avendo finalmente modo di incontrarlo e di osservarlo, studiandolo anche se per poco.  
Tuttavia, quando la donna si sporse ulteriormente verso di lui per stringergli il polso, provò un inspiegabile dolore all’altezza del petto, un dolore tale da toglierle quasi il respiro. 
Guardò il ragazzo con sguardo confuso, stringendo i denti per sopportare quella sensazione di agonia mentre lo toccava, cercando di comprendere come mai stargli vicino gli facesse così male, fisicamente. 
Poi, gli occhi chiari della sciamana si posarono sul meraviglioso opale che ricadeva sul petto del ragazzo, e un sospetto la colse, su cosa la tenesse lontana da lui. 
- Molto onorata, Blake. 
- L’onore è mio – disse lui, per nulla interessato alla vaga smorfia di dolore che emise la donna mentre lo toccava.  
Finalmente, fu il turno di Judith. 
Blake l’aveva notata già da quando la ragazza era entrata nella cattedrale, diversi minuti prima. 
Non si aspettava fosse presente anche lei, al funerale di suo padre. 
Vederla lì gli riempì il cuore vuoto di qualcosa che non riuscì a classificare. 
Dal canto suo, Judith potè finalmente raggiungerlo e nel mentre camminava verso di lui, all’improvviso, avvertì come se lo conoscesse da sempre. 
Lo aveva incontrato per la prima volta solo tre giorni prima, eppure, rivederlo lì, a pochi passi da lei, poterlo raggiungere e poterlo stringere in quel momento tanto delicato e tanto terribile insieme, tanto irrimediabilmente importante, la rendeva insieme impaziente, impaurita, triste, malinconica, e al contempo (e di ciò si vergognò) felice.  
Stupidamente felice.  
Felice di rivederlo così presto, nonostante lo avesse visto appena ventiquattro ore prima.  
E no, ciò non andava bene, la fanciulla la sapeva, perché non poteva desiderare di rivederlo al funerale di suo padre, non avrebbe dovuto. 
Lo guardò, con gli occhi scuri colmi di lacrime mentre gli si avvicinava, mentre studiava il suo volto distante, ma al contempo animato, forse quanto lei, nel rivederla. 
Non riuscì a fare a meno di inclinare lievemente il viso e di rivolgergli un sorriso sentito, un sorriso tremendamente malinconico, ma anche colmo di tutte le emozioni che la stavano animando al momento.  
Quando gli fu abbastanza vicino lo guardò fisso negli occhi, poi gli prese le mani tra le sue, gliele strinse nella speranza di trasmettergli tutto il proprio calore, poi lo trascinò a sé, circondandogli il collo con le mani e abbracciandolo, lasciandosi stringere a sua volta da lui. 
Lo tenne a sé, lasciando andare i singhiozzi che aveva tanto magistralmente trattenuto fino a quel momento. 
Ma dinnanzi a lui no. Dinnanzi a lui non era stata più in grado di trattenersi, così singhiozzò, dandosi della stupida più volte, perché non era possibile che iniziasse a piangere lei e non lui in quella circostanza. 
Blake la sentì fremere tra le sue braccia, così la rassicurò, accarezzandole la schiena lievemente. - Va tutto bene.. - le sussurrò, con una voce paurosamente vuota, una voce in grado di rompere il cuore della fanciulla, poiché così diversa da quella che gli aveva sentito il giorno prima e quello prima ancora. 
- Non dovreste dirlo voi a me.. - cercò di ironizzare lei, continuando a piangere per lui, per il dolore che immaginava stesse provando. 
Perché le faceva tanto male sapere che stesse soffrendo? 
Perché...? 
Se lo domandò. Più volte. 
- Ci sono passata una volta. Per la perdita di un genitore. È devastante, orribilmente.  
Ma sono certa... che voi riuscirete a superarlo.  
Perché, anche se non vi conosco, Blake, so che siete forte.  
E perché, non chiedetemi per quale motivo, ma ho un’immensa e irrimediabile fiducia in voi. 
So che non ci conosciamo ma... voglio che sappiate che io sono qui, per voi. 
Judith lo sentì tremare sotto la sua stretta, e ne fu ingenuamente felice. 
Poi si staccarono, ma le loro mani restarono unite. 
Si guardarono e Blake, con quel suo volto granitico e glaciale, le rivolse un piccolo sorriso riconoscente, che solo lei potè vedere, o per lo meno, le piacque pensare che solo lei potesse vederlo. 
- Fate le condoglianze in questo a modo a tutti gli sconosciuti che perdono un parente? - le domandò lievemente sardonico, facendola sorridere tra le lacrime. 
- Beh, non tutti gli sconosciuti riesco ad incontrarli tre volte in quattro giorni – gli rispose per le rime. 
Ma non ci riusciva, non riusciva a smettere di piangere. 
Vedeva i suoi occhi, vedeva il suo dolore scorrergli liquido addosso, laddove tutti gli altri vedevano un volto algido e statuario, e non riusciva a trattenere le lacrime. 
Iniziarono a sgorgarle sulle guance senza sosta, neanche Rolland fosse un suo parente. 
A ciò, Blake sgranò gli occhi blu e avvicinò le mani al suo viso, asciugandole quelle piccole cascate salate che le bagnavano le guance bianche e morbide, con le dita. 
- Ora basta. Non piangete. Non piangete per me – le disse. 
Judith annuì, sorrise mestamente e abbassò lo sguardo, cercando di darsi un contegno. 
Poi, disse qualcosa d’istinto, qualcosa che non riuscì a controllare e che gli uscì fuori dalle labbra prima che potesse rendersene conto: 
- Posso scrivervi delle lettere? 
Blake rimase visibilmente stupito da tale richiesta, anche se non lo diede troppo a vedere. - Delle lettere..? 
- Sì. Se non vi crea disturbo.. dato che entrambi sappiamo leggere e scrivere, mi piacerebbe restare in contatto con voi – gli disse diretta, temendo di essersi spinta troppo oltre. 
- Va bene. Se voi mi scriverete, io vi risponderò - le rispose, sorprendendola e alleggerendo il suo cuore. 
La ragazza gli sorrise ancora, rendendosi conto troppo tardi che erano rimasti attaccati sin troppo tempo, e che vi fossero altre persone, sicuramente ben più importanti di lei, che volessero porgere le loro condoglianze al ragazzo, e che non fosse normale agli occhi di tutti che una fanciulla pressoché sconosciuta si prendesse così tanto tempo con lui. 
Già, non era normale.  
Si mise in disparte, ma restando comunque nelle vicinanze, insieme ad Imogene. 
Quasi si era dimenticata della presenza silenziosa, cupa e guardinga di Hinedia, fin quando quest’ultima non sbucò fuori, con lo sguardo basso e l’andamento grave, avvicinandosi a Blake a sua volta.  
Il ragazzo sembrò lievemente sorpreso di vederla lì, ma, al contempo, a suo modo felice che vi fosse anche lei. 
Hinedia lo notò, notò il suo debole sorriso rivolto a lei, un sorriso riconoscente e colmo d’affetto, quando trovò la schifosa audacia di alzare gli occhi su di lui. E ciò non potè far altro che spezzarle l’anima in frantumi, facendola sentire ancora più vile, ancora più vigliacca, ancora più egoista e infame.  
Aveva ucciso suo padre e ora si stava avvicinando per consolarlo. 
P
er fargli le condoglianze, per la sua orribile perdita. 
Per trasmettergli il suo calore e fargli sentire la sua presenza.  
Se solo sapesse... 
Se solo avesse saputo... 
Probabilmente l’avrebbe pugnalata lì, in mezzo alla navata. 
E tutti intorno gli avrebbero applaudito, gridando di gioia per l’esecuzione dell’assassina. 
L’ho fatto per te   avrebbe voluto dirgli, sperando di ricevere il suo perdono  In qualche modo distorto, l’ho fatto per te. 
Come nulla fosse, il ragazzo le si avvicinò. 
Allora, Hinedia si arrese. Si arrese, cedendo alla tentazione di abbracciarlo, di abbracciarlo come non aveva mai fatto, e come non avrebbe mai più fatto. 
Cedette alla tentazione di instaurare quel contatto proibito con lui, solo in quel momento, solo in quell’istante, per la prima e ultima volta, circondando il suo addome con le braccia e affondando il volto nella sua spalla.  
Da quella vicinanza, riusciva a sentire persino il profumo della sua pelle. 
- Mi dispiace … - gli disse, svuotata anche lei, da tutto, massacrata dal senso di colpa. - Mi dispiace tanto, Blake... 
- Sono contento che tu sia venuta – le rispose semplicemente lui, facendole provare solo il desiderio di piangere fino alla fine dei tempi e di morire tra le sue braccia. 
Quando la cerimonia iniziò, a presenziare il funerale furono scelti padre Thomas e, a grande indisposizione di Heloisa, padre Cliamon. 

Quando arrivò il momento di mostrare il corpo del defunto, come la tradizione del Diavolo richiedeva, Heloisa, Blake e Ioan si alzarono in piedi, accompagnati da padre Craig e da Quaglia. 
Si avvicinarono alla bara di legno che conteneva il cadavere di Rolland, il quale non era stato ancora visto da nessuno di loro. 
Padre Craig, inorridito, sgranò gli occhi colmi di lacrime e avvertì un conato di vomito a tale vista: Rolland aveva la testa e i capelli macchiati di sangue secco, come se fosse stato violentemente colpito anche in testa; mentre il suo collo, solitamente affusolato ed elegante, era tremendamente deturpato da un taglio netto, dritto, ed estremamente profondo, gonfio e colmo di sangue scuro, il quale faceva sembrare quasi che la testa fosse staccata dal corpo. 
Heloisa ebbe un mancamento, ma Quaglia la prese al volo prima che piombasse a terra, stringendola a sé mentre la donna piangeva a dirotto, gridando e urlando tutta la sua disperazione dinnanzi ai presenti seduti e muti, e ai monaci che presenziavano quella visione. 
Ioan, dal canto suo, crollò come sua madre, scoppiando in lacrime e saltando addosso a Blake, il quale lo prese in braccio e lo strinse a sé strettamente, cercando di calmare i tremori del corpo del fratellino tramite costanti e dolci carezze sulla schiena. 
Padre Craig spostò l’attenzione su Blake, immediatamente, senza degnarla a nessun altro oltre lui. 
In mezzo a tanto dolore, voleva sapere come si sentisse lui, smaniava di saperlo. 
Immediatamente, la decisione che aveva preso qualche giorno prima, di allontanarsi da quell’amore, di non combattere più per quell’amore, gli sembrò spaventosamente stupida, e se ne pentì, come non si era mai pentito di nient’altro in vita sua. 
Ormai lo conosceva abbastanza bene da sapere che non riuscisse ad esternare i suoi sentimenti e le sue emozioni all’aria aperta come facevano sua madre o suo fratello. 
Il ragazzo aveva gli occhi spalancati fissi sul cadavere di suo padre, non si erano mai staccati dalla sua sagoma deturpata. 
Con grande sorpresa di padre Craig, il quale sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto in quel modo all’infuori di quel momento, gli occhi di Blake divennero lucidi e le sue labbra si schiusero, mentre una lacrima solitaria rigava il suo zigomo.  
Quando ripresero posto, seduti in prima fila, per ascoltare le parole dei monaci intenti a benedire l’anima di Rolland, padre Craig, di nuovo, voltò il viso verso Blake, seduto accanto a sé. 
- Come vi sentite? - gli domandò semplicemente.  
Non aveva ancora avuto modo di chiederglielo, non aveva ancora avuto modo di parlargli, dopo tutto ciò che era accaduto, e riusciva a farlo solo ora, chiedendogli come stesse dopo l’assassinio di suo padre. 
Inizialmente, il ragazzo non rispose e sembrò non averlo neanche udito, tanto che padre Craig si arrese a tal fatto, e tornò a guardare i monaci dinnanzi a sé. 
- L’unica cosa a cui riesco a pensare … - esordì Blake, riattirando la sua attenzione sul suo profilo incorporeo, dolorosamente lontano da lui e dalla realtà. - … è al modo disumano in cui sia stato ucciso. Chi può essere stato tanto spietato e bestiale, da avergli tagliato la gola, lasciandolo a soffrire, a morire dissanguato, da solo, nella notte? 
Padre Craig schiuse la bocca, schiuse la bocca per rispondere a quella voce inconsistente, eterea e sbagliata in qualche modo, troppo diversa da quella che conosceva.  
Ma non disse nulla.  
Rimase in silenzio, guardandolo stringersi tra la mano l’opale che indossava al collo, inconsciamente, quel magnetico quanto inusuale gioiello che risaltava sul suo petto, ancor di più sui vestiti neri, e che attirava inevitabilmente gli occhi su di sé. 
L’ultimo regalo di Rolland a suo figlio.  
Si domandò perché glielo avesse donato, cosa simboleggiasse e come mai stuzzicasse tanto la propria curiosità, ma sapeva che tali domande sarebbero state destinate a rimanere senza risposta. 
Perché Rolland era morto. 
E per quanto lo avesse odiato, a volte, il giovane prete non poteva fare a meno di compiangerlo, di compiangerlo amaramente. 
Sapeva che la sua morte avrebbe gettato un’ombra su Bliaint e sulla sua famiglia, che lo stava già facendo tremare. 
Ad osservare la cerimonia a distanza, senza prendervi parte, vi era una figura incappucciata, dall’aspetto losco, ad un primo sguardo. 
La figura, alta e prestante, se ne restava con la spalla poggiata allo stipite del portone spalancato della cattedrale, ad osservare tutto e tutti come uno spettatore onnisciente.  
Improvvisamente, Myriam, la quale era rimasta tutto il tempo in disparte ma presente, ad osservare Blake e la sua famiglia dalla postazione dei monaci, si avvicinò alla figura, accostandosi ad essa senza guardarla, ma restando anch’ella fissa sui vari presenti al funerale. 
- Per quale motivo non ti sei unito alla cerimonia e non hai posto le tue condoglianze? - gli domandò, più per indispettirlo, che per conoscere la sua risposta. 
- Non fa per me – rispose lo stregone, distrattamente. 
- Hai notato qualcosa di interessante da questa postazione? 
- A parte te, che per tutto il tempo non hai fatto altro che lanciarti sguardi di odio con Heloisa, e guardare il tuo desiderato figlio acquisito con la voglia divorante di andare da lui e stringerlo a te? Nulla di interessante – le rispose sardonico. 
- Non posso avvicinarmi a lui con Heloisa vicino – rispose la strega, con una palese nota addolorata e frustrata nella voce. 
- Beh allora perché non fai fuori anche lei? È l’unico ostacolo tra te e Blake, no? 
- Smettila di parlare vanvera. Non ho ucciso io Rolland. 
- Ma sei felice sia morto. 
- No. Perché so che la sua morte lo sta facendo soffrire, perciò no. 
- Non fingerti più altruista di quanto non sia, Myriam. 
- E tu non fingerti più sveglio di quanto la tua superbia possa spingersi, Ephram. 
- Ammetti di nutrire una gelosia marcia nei confronti di Heloisa e della sua vicinanza al figlio che consideri tuo, nonostante non lo sia. 
Myriam emise uno schiocco di labbra adirato, restando in silenzio. 
A ciò, Ephram accennò un sorriso trionfante, continuando a far saettare i felini occhi di sabbia tra i presenti. 
La sua postura era fiera e sensuale nella sua freddezza, forse persino troppo per lui. 
- Come mai tu e la moglie del defunto non vi siete ancora sventrate dentro questa cattedrale non appena vi siete riviste, dopo anni di pace fittizia e di assenza? 
- Perché è, appunto, una cattedrale. E perché Heloisa è importante per lui, a suo modo, perciò non la toccherò. Da come mi guarda, so che lei vuole uccidermi, e che sta aspettando solo che io posi lo sguardo su suo figlio per saltarmi addosso con le mani alla gola. Ma non può farlo, non ora che sto diventando monaca – concluse Myriam. - C’è altro? - gli domandò poi, voltandosi a guardarlo. 
- Da dove comincio? 
- Dal mio “grande amore” perduto, ad esempio. 
- Che dire di lei? Quel padre Craig e Quaglia sono palesemente intimoriti da lei e dall’influenza che esercita sulla loro amata Judith. Inoltre, sapevi che Heloisa fosse sua cugina? 
- No, non lo sapevo. 
- Beh, è stata una sorpresa per tutti, allora. Quando le due si sono abbracciate sentitamente come due sorelle ritrovate, oltre al tuo sguardo incuriosito su di loro, ho notato anche la sorpresa genuina di Judith. Poi, è successo anche un altro fatto bizzarro, di cui in pochi sembrano essersi accorti- 
- Quando Imogene si è presentata a Blake, lei ha fatto palesemente fatica a stargli vicino. Per qualche motivo, non riesce ad avvicinarglisi. Credo si tratti di magia – si affrettò a dire Myriam. 
- Ovviamente, lo hai notato... non mi aspettavo nulla di diverso, dato che hai letteralmente incenerito Imogene nel momento in cui si è presentata a lui. Di cosa hai paura? Che gli faccia bere uno dei suoi infusi sciamanici? 
- Tu non fai altro che sottovalutarla, Ephram. Non sai quanto dannatamente è pericolosa quella serpe. 
- Ad ogni modo, un’ultima cosa che ho notato su di lei, è lo sguardo palesemente geloso e possessivo che ha lanciato quando Judith e Blake sono rimasti avvinghiati tra loro quasi come se la prima non avesse mai perduto i ricordi. A quanto pare il tuo vecchio amore sembra decisamente più che invaghita della pupilla dei monaci. E, oltre a Imogene, anche quel povero cane bastonato di padre Craig e quell’idiota di Quaglia stavano morendo di gelosia nel guardarli... è stata una scena esilarante! Ah, e non dimentichiamoci della serva del Creatore. Anche lei non è rimasta indifferente al loro contatto prolungato. 
Myriam sbuffò. - Hanno una scia di pretendenti, tutti e due. Sono questioni di secondaria importanza, queste. 
- Di secondaria importanza solo fin quando uno dei suddetti pretendenti non inizia a violare la legge e a fare del male a qualcuno per pura morbosità - gli scappò detto, ma si bloccò subito, essendosi reso conto di aver già attirato la curiosità della strega. - Tornando alla serva del Creatore, hai notato la sua reazione quando ha abbracciato Blake? 
- Ho notato quella di Judith, che è rimasta sorpresa che Hinedia e Blake fossero così in confidenza.  
- No, ti sto parlando della sua, di reazione: la serva del Creatore aveva uno sguardo strano, decisamente sin troppo angustiato. 
- Potrebbe essere che lo sia perché è talmente assuefatta da Blake da soffrire per lui, persino più di lui. Quale motivo avrebbe una persona del genere per uccidere Dun Rolland? - domandò Myriam, contrariata. 
- Non sto ipotizzando nulla. 
- Tu sai qualcosa che io non so, demonio.  
Quella serva del Creatore è sempre in mezzo in qualche modo, è incredibile.  
- Ad ogni modo, ho l’impressione che, per qualche motivo, sia padre Craig che Quaglia sospettino che sia stata Hinedia ad uccidere Rolland, l’ho capito dal modo in cui l’hanno guardata mentre abbracciava Blake. 
Myriam affilò lo sguardo, a tale informazione. - In ogni caso, non credo sarà lei ad essere accusata. 
Ephram si voltò verso di lei, confuso. - Come lo sai? 
La strega emise un ghigno diabolico. - I monaci sospettano già c’entri Heloisa. 
- Che cosa..? Perché mai? 
- Beh, è l’unica con un motivo valido per ucciderlo, non è chiaro? Rolland la tradiva con altre donne, e ciò è noto a tutti. Così come è nota la gelosia di Heloisa nei suoi confronti. 
Un reato di gelosia. Che altra spiegazione ti serve? 
- Myriam... - la richiamò Ephram scrutandola accigliato. - Hai convinto tu i monaci a rivolgere i loro sospetti a Heloisa..? 
- Non ho così tanto potere su di loro. Ci sono arrivati da soli. Considerando la frenesia nel formulare le loro ipotesi, Heloisa sarà dietro le sbarre delle segrete massimo entro domani mattina. 
- E ovviamente tu ne sei felice. Non avevi detto che non l’avresti toccata, in quanto è ancora importante per Blake? 
- Imprigionarla non significa ucciderla, Ephram – rispose lei con naturalezza. - Altro? - insistette poi. 
- Mi hai preso per il tuo personale marionettista? 
- Parla, stregone. 
Ephram vi pensò un po’ su. - Il monaco. La tua cavia perversa, Cliamon. Heloisa lo ha guardato per tutto il tempo come se si trovasse davanti all’impersonificazione della lebbra. 
Credo sospetti qualcosa su di lui. 
- Sospetti qualcosa? - chiese chiarimenti Myriam. - Non può nutrire sospetti riguardo Folker. Non c’entra nulla con lei. 
- Dimentichi che è stato Cliamon a farle perdere il senno con quella storia dei monaci maniaci. 
Inoltre, lo sapevi che padre Craig conosce ed è in contatto con i tuoi due “allegri” innamorati, Ambrose e Folker? 
Se loro dovessero sospettare di Cliamon, potrebbero averlo riferito a padre Craig e, casualmente, padre Craig potrebbe averne parlato ad Heloisa.  Non ci avevi pensato? A volte sei più stupida di quanto sembri - commentò, evitandosi per poco un calcio in zone alquanto delicate da parte della strega. 
- Anche fosse? Vedi un rischio più grande di quello che in realtà è. 
- Potrei sbagliarmi o potrei aver ragione – concluse lo stregone, lo sguardo flemmatico e il volto mortalmente serio questa volta, che alla luce del giorno si irradiava di una sconfinata bellezza, sacra quasi dolorosa all’occhio. - Ascolta le mie parole, strega: il patto tra te e padre Cliamon sarà fonte di indicibili catastrofi per il nostro villaggio, molto più di quanto immagini. 
- Hai visto qualcosa, Ephram?  
Lo stregone non rispose, restando con gli occhi fissi verso l’altare del suo signore. 

 

 

La ragazza, in piedi, si rinfilò il corpetto di velluto verdognolo, rintrecciando i lacci con maestria, mentre il suo giovanissimo amante era ancora disteso sul proprio letto, nudo dalla cintola in su, con il volto stravolto rivolto verso il soffitto. 
- Hai saputo? - gli domandò lei. 
- Di cosa? 
- Della tragedia di stamattina: il proprietario della galleria è stato trovato morto, orribilmente dissanguato davanti alla galleria. Oggi si sono tenuti i funerali. 
- Ah, sì, vagamente. Com’è morto? 
- Gola tagliata. 
- Si sa chi possa esser stato? - domandò distrattamente lui, per nulla interessato all’argomento. 
Bridgette negò, ancora occupata ad allacciarsi il corpetto. - Mi dai una mano? 
Folker annuì mentre la vedeva riavvicinarsi al letto, che profumava ancora di sesso appena consumato, e sedersi sul bordo. Il ragazzo tirò su il busto e si avvicinò a lei da dietro, iniziando ad intrecciare i nastri. - Quanto devono essere stretti? - le domandò. 
- Il più possibile – rispose lei. 
A ciò, il ragazzo si adoperò per fare come gli era stato detto. 
- Ora che il padre è morto, il figlio primogenito erediterà tutto: la galleria, gli scavatori, il dominio sugli affari commerciali... - riprese la fanciulla. 
- Non potrebbe essere stato il figlio a far fuori il padre, dunque? Per ereditare tutto in anticipo. 
- La parola parricidio appare tanto facilmente tra le tue labbra? Non credo sia arrivato a fare una cosa simile. E poi che senso avrebbe? Tanto avrebbe ereditato tutto comunque, essendo il figlio. 
- Immagino che ora tutte le giovani serve del Diavolo del villaggio ancora nubili si sbraneranno tra loro per accaparrarselo. 
Bridgette emise un risolino in risposta. - Beh, è ricco e bellissimo. Puoi biasimarle? Tuttavia, l’unico motivo per cui non credo che avrà una fila lunghissima di pretendenti, è che è un ragazzo parecchio difficile da gestire. Si dice faccia esperimenti pericolosi, sia invischiato con l’alchimia, abbia violato diverse leggi sacre e persino che sia blasfemo.  
- Anche tu lo ritieni difficile da gestire? - la testò lui. 
- Nah, io riuscirei benissimo a tenerlo a bada, non mi faccio certo intimorire da certe cose – rispose lei, avvertendo Folker stringerle troppo uno dei nastri, facendole emettere un versetto di dolore. - Ahi. Lo hai fatto apposta? 
- Niente affatto – rispose lui, accennando un sorriso di sottecchi.  
- Tuttavia... che gusto ci sarebbe nel vederlo morire al rogo nel giro di un anno o due? Il rischio che venga condannato è talmente elevato che riesco già a vedere la sua pelle fumare. 
- Beh, se lo sposassi, non sarebbe meglio per te, se morisse subito? A quel punto erediteresti tutto tu, essendo la consorte.  
A tali parole, Bridgette si voltò verso di lui, offesa. - Mi ritieni così cinica e approfittatrice...? - gli chiese lanciandogli un cuscino, poi tirandolo a sé per la nuca e baciandolo sulle labbra quasi con dispetto. Il ragazzo approfondì lievemente il bacio, poi Bridgette si staccò da lui e riprese: - Si dà il caso che vorrei godermelo almeno per qualche decina d’anni, il mio bel maritino – gli disse a fior di labbra. 
Quando il ragazzo terminò di allacciarle il corpetto, ella si rivoltò verso di lui abbassando lo sguardo, rivelando ora un’espressione lievemente cupa a deformarle i bei lineamenti. - Sono stata promessa a qualcuno. I miei genitori me lo hanno comunicato ieri. 
Alzò lo sguardo per notare la sua reazione e vide distintamente qualcosa spezzarsi nel volto del ragazzo: la guardava con gli occhi spalancati e la bocca schiusa, come se gli avesse appena detto che l’indomani avrebbero smantellato la sua dimora dalle fondamenta. 
- Oh, Dietrich, ti prego, non fare quella faccia... - sussurrò ella, tristemente supplicante. 
- Chi è? È il ragazzo di cui hai parlato finora, il nuovo proprietario della galleria? 
Bridgette, malgrado la tristezza, accennò un sorriso divertito in risposta. - Credi davvero sia lui? 
- Perché non dovrebbe? 
- Folker, basta essere informati un minimo sulle voci che circolano al villaggio per sapere che la pupilla dei monaci ha già allungato le mani su di lui, da un bel pezzo.  
Non si tratta di lui. 
- Allora chi è? 
- Non lo conosci. Lo conosco a malapena persino io, a dir la verità. 
- Non sai nemmeno com’è..? 
- È più grande di te. Molto più grande di te – gli sussurrò lei, mestamente, accarezzandogli una guancia con dolcezza e riverenza.  
- Smetterai di lavorare come locandiera quando gli andrai in sposa? 
- Suppongo di sì. 
- Non … non puoi opporti? - tentò il ragazzo, continuando a guardarla negli occhi, spaesato più che mai. 
- Folker.. lo sai anche tu come funzionano queste cose. Non posso contestare la loro decisione. Neanche tu hai potuto farlo, quando eri stato promesso a Regan. Solamente quando la famiglia di lei ha deciso di rompere la promessa, sei stato libero. 
- Sei felice..? Sei felice di sistemarti, di andare in sposa a quest’uomo? - le domandò un po’ risentito. 
- Non la sto vivendo come una condanna, se è questo che intendi. Perché reagisci in tal modo? Ehi, non cambierà niente tra di noi – gli garantì sorridendogli incoraggiante, stringendogli la mano. 
- Cosa intendi...? Cambierà tutto, Bridgette. 
- Perché? Perché deve cambiare tutto? Continueremo a vederci, ma di nascosto. Non dovrebbe essere un grande problema, dato che già ci vediamo di nascosto. A proposito: a che ora torneranno i tuoi genitori? Devo defilarmi prima che tornino – disse lei cercando di cambiare discorso. 
- Bridgette, rischieremo grosso se continueremo ad incontrarci – le rispose lui per niente convinto, sfilando la mano dalla sua. 
- Di cosa hai paura?  
- Di qualsiasi cosa. Mi vogliono tutti morto, ricordi? Non ho bisogno di dare motivi in più a qualcuno per spingerlo a volermi staccare la testa. 
- Ehi, ci siamo dentro insieme, intesi? Andrà tutto bene – gli garantì. - Possiamo vederci domani? Per parlarne meglio? - gli domandò ella cercando il suo sguardo. 
A ciò, Folker riportò gli occhi verdi sulla ragazza. - Domani non posso. Devo incontrare un amico. 
- Un amico? - domandò lei alzando un sopracciglio, incuriosita. 
- Ti ho già parlato di lui. 
- Il servo del Creatore con il quale avevi litigato? Dunque avete chiarito? 
Il ragazzo annuì, intercettando lo sguardo lievemente malizioso della fanciulla. 
- Che c’è? - le domandò. 
- Nulla. Solo che i servi del Diavolo e i servi del Creatore non diventano amici. A meno che non vi sia qualcosa sotto.  
- Perché lo pensi?  
- Perché è così, Folker, lo è sempre stato. Per quale motivo ti sei abbassato a tanto? 
- È capitato e basta. Lui mi ha difeso più volte da persone che hanno provato ad aggredirmi e ad uccidermi. 
- Veglia su di te. E in cambio della sua protezione, tu cosa gli dai? 
- Nulla. 
La ragazza storse il naso, poi lo fisso negli occhi, quasi potesse leggergli dentro. 
Fu a quel punto che un’espressione di pura realizzazione si dipinse sul suo bellissimo volto, facendola ghignare. - Per caso questo tuo amico … non è attratto dal gentil sesso? 
Il ragazzo distolse lo sguardo, convincendola ancor di più della propria ipotesi. 
- Dunque è così? Ha un debole per te e per il tuo bel faccino statuario?  
Folker, Folker, non si fa così. Non dovresti illuderlo in tal modo. 
- Non l’ho mai illuso. Lui sa bene che non gli concederò mai niente. La legge stessa lo vieta. 
- E nonostante lo sappia ti sta ancora appiccicato? Allora, sotto sotto, continua a sperarci. 
- No. Mi ha garantito che non vuole nulla da me, non spera in niente. 
- E tu gli credi? 
- Solo uno sciocco crederebbe che un servo del Creatore possa riuscire a sedurre e a conquistare l’attenzione di un servo del Diavolo.  
- La disperazione rende sciocchi, caro il mio ragazzo – gli disse lei posandogli una mano sulla guancia e voltandogli il viso verso di sé, spingendolo a guardarla. - Non sfuggirmi, Dietrich. Voglio il tuo sguardo su di me quando parlo – aggiunse baciandolo languidamente, sentendolo sciogliersi dentro la sua bocca. - Conosco i servi del Creatore. Sin troppo bene – disse poi, distaccandosi da lui con un sospiro grave. - In molti hanno provato a guadagnarsi la mia attenzione alla locanda, persino in modi... non proprio pacifici. 
Folker sgranò gli occhi in risposta. - Cosa stai dicendo...? Ti hanno toccata?? 
- Ci hanno provato, talvolta. Io non gliel’ho permesso. Spesso, quando non sanno cosa tentare provano con le minacce e i ricatti. Non si fermano dinnanzi a nulla, alcuni di loro.  
- E la legge..? 
- Se ne fregano della legge. Parlano mossi da ciò che hanno nei pantaloni.  
Per questo è giusto che io ti metta in guardia: fa’ attenzione a lui. Anche se so che sai ben difenderti, fa’ comunque attenzione.  
- Non farebbe mai una cosa simile. Non mi farebbe mai una cosa simile. Lui non è come gli altri.  
- È facile credere che non lo sia, finché gli dai anche solo un briciolo di illusione che un giorno, riuscirà ad averti, come premio per la sua sconfinata e ininterrotta lealtà.  
- Io non l’ho illuso, non l’ho mai illuso. 
- Lui sa di noi? - quella domandò lo spiazzò, facendolo paralizzare. 
- Folker.. gli hai detto di noi? - insistette lei.  
- Neanche tu hai detto alla tua famiglia di noi, e io non l’ho detto alla mi- 
- È ben diverso – lo interruppe lei fermamente. - Perché non gli hai detto di noi? 
Folker distolse ancora lo sguardo, sentendosi con le spalle al muro. - Per non ferirlo. 
- Se non vuoi continuare a fargli sperare in qualcosa che non arriverà... dovresti dirgli di noi. In tal modo si metterebbe l’anima in pace e andrebbe avanti con la sua vita. A meno che... 
- A meno che..? 
- A meno che tu non voglia che lui vada avanti con la sua vita.. - indagò la ragazza, studiandolo ancora, facendolo impietrire maggiormente. 
- Tu sei pazza... 
- Perché ho insinuato che le sue attenzioni, sotto sotto, potrebbero farti piacere? Ci vorrebbe ben altro per definirmi pazza - commentò lei sorridendo sorniona. - Lo troveresti così strano? 
- Sì, perché non è così. 
- Ti dispiacerebbe se lui guardasse qualcun altro nello stesso modo in cui guarda te? 
- Perché mi stai facendo domande simili? 
- Per capirti, Dietrich. La tua anima è uno scrigno colmo, che vorrei aprire ed esplorare fino ai suoi più reconditi angoli. Lo conosco, questo ragazzo? 
- È Ambrose. Kåre Ambrose.  
Stavolta fu Bridgette a rimanere sbigottita. - Il ragazzone? Quello che, agli incontri della vostra congrega, non facevi altro che sfidare continuamente? Ora capisco perché quel tipo volesse sempre vedersela con te, nonostante tu lo riducessi ad un cumulo strisciante di sangue e lividi ogni volta.  
- Puoi smetterla di parlarne così? In tal modo pungente? 
- Ne parlo così perché vorrei che tu ti schiarissi le idee e capissi cosa vuoi, Folker – gli rispose ella con uno sguardo addolcito e intristito insieme. - So che mi vuoi. E ti ho anche garantito che ciò che abbiamo non finirà dopo che mi sarò sposata, se tu lo vorrai. Ma devi anche comprendere cosa altro c’è nel tuo cuore e quali sentimenti ti legano a quel ragazzo. 
C’è un’altra cosa... che volevo dirti. 
Folker la guardò insistentemente, attendendo che ella continuasse. 
- Alla Taverna, ieri... è venuto un uomo, un servo del Diavolo sui trent’anni circa.  
Cercava te. 
- Me...? Cosa voleva da me? 
- Era biondo, alto, impostato.. Ti dice nulla questa descrizione? 
Il ragazzo negò, confuso. 
A ciò, Bridgette sospirò, trattenendo la preoccupazione. - Devi risolvere al più presto questa faccenda dello scambio di corpi, Folker. Devi scoprire chi sta operando la magia nera su di te, sottraendoti il tuo corpo. Quell’uomo cercava te, perché voleva rivederti. Ha detto di averti incontrato alla Taverna circa una settimana fa... mi ha fatto comprendere di averti portato a casa e... - la ragazza si bloccò, facendogli ben comprendere quale fosse il proseguo della frase. 
- No... - spirò il ragazzo, tremando. - No, ti prego, dimmi che non... 
- Parlava come se fosse disposto persino a pagare, per rivederti.  
Mi ha spaventato. 
Folker, quell’uomo chiedeva di te e ti cercava esattamente come cercano Imogene, la puttana che si sta svendendo ogni sera alla Taverna, e questo non è affatto un buon segno... 
Il ragazzo si strinse i capelli biondi e spettinati tra le mani, seppellendo la testa tra le ginocchia.  
La fanciulla lo abbracciò in silenziò, tentando di placare i suoi tremolii, ascoltandolo trattenersi dal singhiozzare. 
- Io lo uccido...  
Chiunque si stia appropriando del mio corpo.. 
Lo ucciderò. Con le mie mani.   

 


Il clima in casa era teso come una corda di violino. 
Nessuno spiccicava parola, nessuno diceva o faceva nulla. 
Solo un pianto sommesso si udiva, il pianto della vedova. 
Padre Craig posò distrattamente lo sguardo stanco e perso su Heloisa, la quale continuava a piangere, singhiozzando e gemendo come una bambina, mentre Quaglia si ostinava a tentare di consolarla. 
Come mai provasse ancora a consolarla, nonostante era evidente fosse tutto inutile, padre Craig non riusciva a spiegarselo. 
Ioan, intanto, era accucciato sulle sue gambe, sfinito dal pianto perpetuo, e il giovane prete gli accarezzava i fili biondi lentamente.  
Blake era alla galleria, ad accordarsi con gli scavatori su come avrebbero organizzato gli scavi nei prossimi giorni. Nonostante fosse presto per voltare pagina, quegli accordi erano pressoché necessari se Blake voleva continuare a portare avanti l’attività di suo padre, senza pause. 
- Lasciatemi ho detto! - esclamò ad un tratto Heloisa, spingendo Quaglia per allontanarlo da lei, improvvisamente inviperita. - Quello che vi ho concesso di ricevere da me non vi dà il permesso di prendervi la libertà di tentare di placare il mio dolore! Lasciatemi stare, lasciatemi piangere, lasciatemi disperare per il mio amore... 
Forse sarebbe stato il caso di portare Ioan in camera sua, pensò padre Craig. 
Ma sapeva bene che il piccolo volesse attendere il ritorno del fratello sveglio. 
Oramai Blake era rimasto il suo unico punto di riferimento. Lo era sempre stato. 
- Voglio solo aiutarvi, Heloisa... sto cercando di darvi un minimo di conforto. Non dovreste reagire in tal modo - commentò Quaglia, con voce carezzevole e dura insieme. 
- Non guardatemi in quel modo... io lo amavo.  
L’ho amato sin dal primo momento. 
L’ho amato più della mia stessa vita. 
Ma lui … lui ora non c’è più.. Come farò?? Come farò senza di lui?! 
- So che lo amavate. 
- Lo amavo anche se lui non aveva più occhi per me.. 
Lo amavo anche se non mi guardava più. 
Oh, che il Diavolo sia con me.. ricordo ancora quando lo vidi la prima volta. 
Era talmente bello e carismatico da togliere il respiro e tutte, tutte lo desideravano. 
Negli anni, è rimasto tale.  
Io... io non l’ho mai meritato. 
- Non dite così.  
Non vi permetterò di dire così - le disse duramente Quaglia, riprendendola per le braccia e cercando il suo sguardo, i suoi occhi. - Voi... voi, Alma Heloisa, siete una donna bellissima. Bellissima, intelligente, determinata e buona di cuore. Non dite mai, mai più che non lo meritavate. 
- Non mi serve la vostra pietà! - urlò lei schiaffeggiandolo in lacrime, ma dopo due o tre colpi la sua mano venne intercettata dall’uomo, il quale la bloccò e la strinse nuovamente a sé, sopportando i suoi deboli colpetti al petto e le sue grida di disperazione. 
- Nessuno se ne rende conto... 
Nessuno si rende conto di quanto lo amassi... 
- Smettetela di dirlo. 
- Ma è così! 
Nessuno capisce quanto io soffra al pensiero di non poterlo più vedere o toccare! 
- Smettetela di dirlo! - gridò Quaglia, sorprendendo tutti. - Smettetela di ripeterlo! 
- Che cosa vi prende?? 
- Voi e lui non avevate più nulla da condividere! 
Non c’era più niente tra voi! 
Non parlate come se lui foste il grande amore della vostra vita! 
- Lo era!! 
- Forse un tempo, ma non lo è più da molto, troppo tempo! 
Ditemi: per quale motivo mi avete permesso di infilarmi nel vostro letto?? A tale domanda, gli occhi chiari di Heloisa saettarono su Ioan, il quale aveva le palpebre socchiuse, come in trance, e la testa ancora appoggiata sulle gambe del giovane prete. 
Anche se aveva udito, il bambino era troppo distrutto per prestare attenzione al loro litigio, e padre Craig sembrava dello stesso avviso, continuando a guardarli con sguardo perso e lontano, come se non li guardasse davvero. 
Quaglia riportò l’attenzione della donna su di sé, scuotendole le spalle. - Rispondetemi! Perché mi avete permesso di infilarmi tra le vostre cosce?? 
- Perché mi mancava... 
Perché lui mi mancava.. - rispose ella sommessamente, con le lacrime che facevano ancora capolino sui suoi occhi. 
- E lui se ne è accorto??  
Vi ha prestato attenzione anche una sola volta, nelle ultime settimane?? 
Vi è stato vicino quando stavate male??  
È stato lui a trovarvi quando avete provato a togliervi la vita??  
Fosse stato per lui, sareste morta settimane fa, forse anni fa! 
Quell’uomo non ha mai meritato nulla da voi, lo volete comprendere?? 
- Lui era tornato... 
Lui era tornato da noi... 
- È tornato per Blake, non per voi! 
È tornato per i suoi figli! 
- Smettetela di rovinare la sua memoria! 
Voi non sapete niente di lui! 
Voi siete solo un estraneo! 
- Sarò pur un estraneo, ma quell’uomo non è mai stato degno del vostro amore! 
Non è mai stato degno dell’amore di nessuno di voi! 
Tempo un altro mese, e vi avrebbe abbandonati definitivamente, dimenticandosi di voi. 
- Come osate?!?! - urlò dandogli un altro schiaffo in pieno volto, facendogli voltare la testa dall’altra parte. 
Fu in quel momento che la porta di casa si aprì, facendoli ammutolire. 
Blake entrò dentro la dimora, chiudendosi la porta dietro di sé e poggiandovi la schiena sopra. 
Padre Craig, come sempre, lo guardò, studiandolo da capo a piedi. 
Il giovane padre si domandò se Blake avesse realizzato e metabolizzato appieno cosa fosse accaduto.  
Probabilmente ancora no. 
Il ragazzo aveva gli occhi fissi nel vuoto, lo sguardo estremamente stanco, i folti capelli sciolti. 
Blake se li strinse, all’altezza della nuca, emettendo un sospiro sfinito. - Avete finito? - domandò atono, facendo loro comprendere che i loro urli si udissero sin fuori dall’abitazione. 
- Com’è andato l’incontro con gli scavatori? - si affrettò a chiedergli Heloisa, fissandolo. 
- Vado a letto. Christopher, vieni, porto a letto anche te – gli disse incoraggiante, e, in un batter d’occhio, il bambino era già scattato in piedi e lo aveva raggiunto, circondandogli i fianchi con le braccine sottili. 
- Blake! - lo bloccò sua madre parandoglisi davanti nel momento in cui il ragazzo iniziò a camminare verso le camere. 
- Che cosa? - le domandò lui. 
Heloisa lo scrutò. - Non hai versato neanche una lacrima oggi.  
Perché reagisci in questo modo? 
Non capisco cosa stai provando, non lo capisco mai..! 
Non mi permetti di comprendere come ti senti in merito a ciò che è successo! 
Padre Craig temette seriamente che quella conversazione sfociasse in putiferio. 
- Devo necessariamente fare il bagno nelle mie stesse lacrime come fai tu per convincerti di star soffrendo, madre?  
- Allora parlami, dì qualcosa! 
- Cosa vuoi sentirti dire? 
- Che lo amassi! 
Lui ti amava tantissimo, Blake. 
Lui ti amava.. 
Voglio sentirti dire che lo ami, e che ami anche me. 
- Lo amavo – ammise lui. - Lo amavo. Anche se lui non aveva bisogno del mio amore. Né del tuo o di quello di Ioan. Hai raggiunto il tuo scopo, madre? Sei abbastanza soddisfatta? 
- Non gli hai mai dimostrato amore, né a lui né a me – disse lei risentita. - Negli ultimi tempi non gli hai mai dimostrato amore.  
Lui ti ha insegnato tutto ciò che sai..! Lui era tuo padre! 
- E con questo?
Cosa dovrei farmene? Spiegamelo. 
Un padre deve essere amato? Un padre deve essere onorato, venerato e rispettato a prescindere, giusto? 
Beh, mi spiace deluderti, ma non avrai mai quello che cerchi tanto ossessivamente da me. 
Io non dono il mio amore e il mio rispetto gratuitamente.  
Io non amo a priori, io non amo perché possiedi il mio stesso sangue. 
Il sangue non ha alcuna importanza per me. 
Non importa che fosse mio padre o no. 
Io lo amavo, ma non per questo. 
Quell’uomo ha perduto il mio rispetto e la mia ammirazione molto tempo fa. 
Ma ora è morto.  
È morto e nessuno di noi può più dirgli ciò che avrebbe voluto dirgli: 
tu non puoi dirgli quanto disperatamente lo desiderassi, io non posso spiegargli i motivi per cui mi ha perduto. 
È morto - ripetè, come fosse un mantra, con quella voce algida, distante, che fu in grado di rimbombare per tutta la casa. - Se n’è andato. Se ne è andato per sempre, madre – Heloisa tremò di fronte a qualle parole e a quello sguardo di suo figlio, catapultando inconsciamente gli occhi più in basso, sull’opale che il ragazzo indossava e che Rolland gli aveva donato prima di morire.  Quell’unico legame che ancora condivideva con lui. 
Mentre a lei... a lei non era rimasto nulla per tenersi ancorata a lui. 
Poi, Blake, con quel volto gelido e a tratti crudele, le si avvicinò alla guancia, sussurrandole all’orecchio: 
- E sì.. amo anche te, ahimè.  
E, proprio per questo, ti esorterei a prendere in mano la situazione e ad allontanarti di qui per un po’, invece di continuare a piangerti addosso. 
Heloisa rabbrividì da capo a piedi, poi lo guardò fisso negli occhi, spaesata. - Cosa stai...? 
- I monaci. Li ho ascoltati di sfuggita oggi, durante il funerale – le comunicò lui improvvisamente. - Facevano spesso il tuo nome, madre. Parlavano di venire ad interrogarti. Se il mio istinto non mente, entro questa sera o domani mattina verranno qui, a farti delle domande. Lo sai cosa succede, quando i monaci si convincono di qualcosa. Potresti essere la donna più innocente del mondo, loro ti rinchiuderebbero comunque dietro le sbarre, dandoti dell’assassina. 
- Ma io non ho fatto niente!! Sono la persona che meno di tutte avrebbe potuto fare una cosa simile! Io lo amav- 
- Non dirlo a me. Dillo a loro – la interruppe atono il ragazzo, prendendo Ioan tra le sue braccia. 
- Cosa...? Cosa dovrei fare? - sussurrò, stringendosi le mani tra i capelli. 
A ciò, nonostante fosse rimasto in silenzio fino a quel momento, Quaglia intervenne: 
- L’unica opzione sarebbe … 
- Scappare via - completò la frase Blake.  
- Non credo affatto sia una buona idea – si intromise padre Craig, scattando in piedi. - Vorreste vivere la vostra vita da fuggiasca, Heloisa..? 
- Non si tratterebbe di vivere una vita da fuggiasca, ma di allontanarsi per un po’, fin quando le acque non si saranno calmate, e non avremo trovato il vero colpevole - continuò Blake. 
- E se il vero colpevole non si trovasse mai...? 
- Blake ha ragione - sibilò la donna, circondandosi il busto con le proprie braccia, ancora sconvolta. - L’unica alternativa è andarmene, se non voglio che mi imprigionino. O peggio.. essere condannata al rogo.  
- Scappando via fareste aumentare i loro sospetti! - insistette padre Craig, sempre meno convinto di tale soluzione. 
- I loro sospetti rimarrebbero tali sia se restasse qui, sia se se ne andasse - controbatté Quaglia. 
- Ma … ma dove potrei mai andare?! Insomma, nel mondo là fuori mi ucciderebbero o mi farebbero passare l’inferno che hanno fatto passare a te, Blake! - esclamò la donna. 
- No, se non sapessero che siete un’abitante di Bliaint - commentò Quaglia. - Potreste fingervi una vedova che ha perduto tutto a causa di saccheggiamenti, e cercare riparo. 
- Potrebbe. Ma sarebbe meglio non rischiare di farla andare là fuori.  
Conosci qualcuno, qualcuno di fidato, che potrebbe nasconderti all’interno del villaggio?  
Quando Blake le pose quella domanda, Heloisa fu immediatamente colpita da una scintilla di realizzazione: 
- Imogene... Imogene! Mia cugina mi aiuterà a nascondermi! Lei.. lei viveva nelle paludi prima di tornare qui.. Sicuramente lei mi aiuterà. 
- Bene. Se ti fidi di quella donna, allora affrettati ad andare da lei prima che i monaci giungano qui - la esortò Blake. 
Ma Heloisa ebbe un fremito nel momento in cui posò lo sguardo sul volto confuso e disorientato di Ioan, ancora in braccio al fratello maggiore. 
- Blake... non so quanto tempo dovrò restare nascosta. 
Sarò sola.. non avrò nessuno con me. 
Sarò sola, in compagnia della mia sola agonia per la perdita di vostro padre.. 
- Dunque? È per il tuo bene.  
- Lo so, lo so.. 
Non ti chiedo di scappare via con me, non lo farei mai.  
Ma almeno... almeno lasciami portare via Ioan con me.. ti prego. 
A tale richiesta da parte di sua madre, il bambino non ci mise un secondo ad ancorarsi ancor di più al collo del fratello, stringendosi a lui, per nulla intenzionato a lasciarlo. - No! - esclamò Ioan verso sua madre. - Non voglio venire con te, madre! Voglio restare con Even! Non voglio lasciarlo! Non voglio! Io non vado da nessuna parte senza di lui! 
A ciò, Blake posò nuovamente lo sguardo su sua madre. Una lieve nota impietosita ombreggiava sui suoi occhi. - Ioan non vuole seguirti, madre. Vuole rimanere qui. E io non permetterò che tu lo porti via con te.  
- Ma Blake! Ti prometto che non correrà alcun pericolo! Quando sarà tutto finito, torneremo sani e salvi.. insieme! Ti prego... non togliermi il mio bambino.. 
- È deciso. Lui non verrà. Mio fratello rimarrà qui, con me.  
E per dare man forte a quelle parole, Ioan accostò maggiormente il viso a quello del fratello, accucciandosi sulla sua guancia e stringendolo ancor più forte. 
- E sia. Preparerò una sacca con del cibo, dei vestiti e delle coperte e me ne andrò. Stasera stessa - pronunciò la donna, asciugandosi velocemente le lacrime che le bagnavano gli occhi.  

Dopo trenta minuti di camminata spedita, nascosta dietro uno scuro mantello, Heloisa era già dinnanzi alla porta della stanza che Imogene condivideva con Judith. 
Fortunatamente, in quel momento non vi era traccia di Judith in camera, in quanto la fanciulla soffriva ancora di insonnia, motivo per cui aveva approfittato per raggiungere la cattedrale del Diavolo e passare un po’ di tempo con la micetta che aveva deciso di accudire. 
- Cugina...? - la richiamò sorpresa e confusa Imogene, mettendo a fuoco il suo volto con l’aiuto di una candela. - Cosa ci fai qui...?   
- Ho bisogno di un favore, cugina. Mi aiuterai? - le domandò, con uno sguardo implorante, ma al contempo determinato e deciso.  
- Ma certo. Di cosa hai bisogno? 
- Di un luogo inaccessibile. Un luogo in cui nascondermi. 
E di un sonnifero, il sonnifero più potente che hai. 
Quando Imogene fece entrare sua cugina nella stanza e questa le spiegò la sua situazione, per filo e per segno, la sciamana rifletté tra sé. 
- Allora? - le domandò Heloisa. - Cosa ne pensi? 
- Penso che tuo figlio è un ragazzo sveglio e ha ragione. Anche io ti avrei suggerito di scappare via, restando lontana per un po’. So io dove portarti. 
Ma sei sicura che, quando Blake scoprirà che hai rapito suo fratello nel bel mezzo della notte per portarlo con te contro la sua volontà, si farà andar bene la cosa? 
- Neanche Blake saprà dove trovarmi. Dovrà farselo andar bene.  
E poi, infondo, mio figlio si fida di me, e sa che Ioan sarà al sicuro.  
- D’accordo. Se ne sei convinta e sei ben cosciente delle conseguenze delle tue azioni, allora, hai tutto il mio appoggio, cugina. 
Ma dobbiamo muoverci.  

Quando Heloisa tornò a casa, chiese ad Imogene di aspettarla fuori. 
Oramai era notte fonda. Prese con sé quanti più viveri possibili, riponendoli in una sacca. 
Poi, stringendosi il mantello addosso, si diresse prima verso la camera di Blake, entrando in punta di piedi, per non svegliarlo.  
Si inginocchiò dinnanzi al suo letto, ammirando il suo volto addormentato per un po’, come era abituata a fare, e scostandogli i capelli dal viso. 
- Mi dispiace, amore mio.  
Mi dispiace.  
Ci rivedremo presto, promesso - sussurrò dandogli due lunghi e lenti baci sulla fronte. 
Poi si rialzò in piedi e, come si era ripromessa, si fece forza e raggiunse la camera di Ioan. 
Senza farsi udire, la donna gli fece ingurgitare l’intruglio sonnifero che aveva preparato Imogene, nell’incoscienza, vedendolo aprire gli occhioni chiari solo per un momento, poco prima di richiuderli pesantemente, addormentandosi a peso morto tra le sue braccia. 
Ma Ioan era talmente gracile e magro che non era affatto un peso da portare sulle spalle, neanche per una donna. A ciò, certa che non potesse svegliarsi neanche con l’ululato di un lupo dritto nei timpani, Heloisa prese tra le braccia il suo bambino, e scappò via di casa. 
Quando Imogene la vide uscire, con la sacca e il bambino tra le braccia, la guardò un’ultima volta negli occhi. - Ne sei certa? 
Heloisa, in risposta, si voltò verso l’abitazione, quella che, da tempo immemore, era stata la sua dimora. 
La frenesia di quell’assurda e agghiacciante giornata se la sarebbe ricordata fino al nuovo ordine.  
Stava scappando via. 
Stava scappando via di casa per avere salva la vita, nonostante fosse innocente. 
Nonostante la sofferenza per aver perso suo marito fosse talmente dolorosa da sopportare, da toglierle il respiro e da paralizzarla. 
Ma, nonostante tutto, doveva muoversi. 
Doveva iniziare una nuova vita, lontano da tutti i suoi pilastri portanti. 
Era ora di ricominciare. 
Osservò un’ultima volta il meraviglioso volto addormentato di Ioan, tra le sue braccia, poi tornò a guardare Imogene.  
- Sì, sono sicura. 
Andiamo. 
Detto ciò, svanirono nella notte. 

 
 

L’alba seguente a quel giorno infernale, Hinedia sentì bussare alla porta di casa sua. 
I suoi genitori dormivano ancora, lei era la sola già sveglia. 
A ciò, dubbiosa, andò ad aprire, sgranando gli occhi nel momento in cui si ritrovò dinnanzi i volti di padre Craig e di Quaglia, iniettati di amara determinazione. 
- Dobbiamo parlare - decretò il prete, entrando in casa senza attendere che la ragazza lo invitasse, seguito da Quaglia. 
Ancora sconvolta, Hinedia si accinse a chiudere la porta, ma prima che potesse farlo, un piede si infilò tra la porta e lo stipite, bloccandone la chiusura.  
Sorpresi da un’ulteriore inaspettata intromissione, i tre puntarono gli occhi sulla persona che si trovava fuori dalla porta, e che fissava Hinedia con un cipiglio vagamente irritato a plasmargli i lineamenti perfetti.  
- Sì, dobbiamo decisamente parlare – esordì Ephram, facendosi strada dentro la casa a sua volta.  

 

 

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Capitolo 48
*** Da mozzare il fiato ***


 

Da mozzare il fiato  

 

 

Trovarsi in casa in presenza di tre uomini era alquanto indecoroso per una fanciulla. 

Hinedia ne era ben consapevole ma, in quel momento, era decisamente l’ultimo dei suoi pensieri. 

L’ultima volta che si era ritrovata in una situazione simile, con i tre uomini dinnanzi a lei, se la ricordava, sin troppo bene. 

Era la sera in cui aveva bevuto per errore quell’intruglio infernale.  

La sera in cui era cominciata la sua condanna 

Troppo presa a scrutare i volti silenziosi di ognuno di loro, Hinedia non aveva pensato a cosa potesse dire ai suoi genitori per giustificare quelle presenze in casa sua. 

Insomma, si trattava pur sempre di due stranieri e un servo del Diavolo. Quest’ultimo, per di più, persino stregone. 

Nessuno di loro era un servo del Creatore, nessuno di loro era il suo legittimo consorte, che oramai non vedeva da giorni. 

A suo padre sarebbe preso un colpo seduta stante nel momento in cui si fosse trovato davanti quella scena.  

La ragazza non fece in tempo a pensarlo, che un rumore da dietro le sue spalle la fece ghiacciare sul posto: la porta della camera dei suoi genitori si aprì, e da essa uscì sua madre, con una pesante veste da notte addosso, e la bocca intenta a sbadigliare, coperta da una mano. 

Insonnolita, la donna impiegò almeno due passi per rendersi conto delle presenze estranee nel salotto della sua dimora, in compagnia di sua figlia. 

La donna spalancò gli occhi e si fece il segno della croce, trattenendo il respiro per la sorpresa. 

- Buongiorno, signora – padre Craig fu il primo a salutarla, con la sua solita cortesia. 

- Mamma, posso spiegarti – le disse Hinedia avvicinandosele e prendendole le spalle, emettendo un forzato sorriso. Intanto, la donna continuava a fissare gli sconosciuti uno ad uno, senza dire nulla. 

- Sono miei amici, miei ospiti, e sono venuti per- 

- Falli accomodare – la interruppe lei con garbo. - Se sono tuoi ospiti, falli accomodare, che aspetti? 

Hinedia sgranò gli occhi, e con lei anche gli altri presenti, che forse si aspettavano una reazione ben differente.  

- Falli accomodare e prepara loro la colazione, da brava padrona di casa. 

- D’accordo.. 

- Io e tuo padre andremo a fare delle commissioni questa mattina – le comunicò, riattizzando il fuoco, nonostante oramai la primavera fosse alle porte. 

- Un’unica raccomandazione...: - disse sua madre posando lo sguardo in particolare sulla figura slanciata e aitante del giovane stregone. - Nessuna magia. Nessuna magia in casa mia – disse categorica, guardandolo dritto in quegli occhi maestosi e magnetici, per nulla intimorita. 

A ciò, accennando un sorriso sghembo, Ephram alzò le mani in segno di resa, e facendo ciò la manica larga della tunica nera che indossava scorse giù, scoprendo i suoi avambracci colmi di disegni e marchi neri impressi sulla pelle, non lasciando alla donna più alcun sospetto che fosse uno stregone.  

Nonostante ciò, mantenne il contatto visivo con lui dignitosamente e fieramente, per poi salutare sua figlia con un bacio sulla guancia e dileguarsi in camera.  

Quando i genitori della ragazza uscirono di casa per le loro commissioni, Hinedia emise un sospiro di sollievo.  

- Vostra madre mi piace - commentò Ephram, già accomodato sulla sedia più comoda, un ghigno divertito a plasmare i sensuali lineamenti. 

- Bene. Chi comincia? - esordì Quaglia.  

Ma non vi fu bisogno di risposta, in quanto, subito dopo, padre Craig si rivolse alla fanciulla con sguardo addolorato e la voce rotta: - Hinedia... dunque è vero? Siete stata voi...? 

La ragazza abbassò lo sguardo contrito, percependo già le lacrime ammucchiarsi ai lati degli occhi. 

- Non lei – lo corresse prontamente Quaglia, in tono rimproverante. - Layla.  

- Dunque ora ha anche un nome, l’entità. O “gemella malvagia”, comunque vogliate chiamarla - commentò lo stregone. 

- Già. Ho già spiegato ad Hinedia che è importante distinguere lei dalle due parti della sua anima che lottano per il predominio del suo corpo, e che non dipendono dalla sua volontà.  

Se non lo facesse, si incolperebbe e autoflagellerebbe a vita per qualcosa di orribile che non avrebbe mai compiuto se solo fosse stata in sé... come in questo caso - spiegò Quaglia. 

- Ma le azioni di … Layla, come la chiamate voi, non possono prescindere totalmente dalla sua volontà, giusto? Se ho compreso anche solo un minimo come funziona il tuo intruglio, Quaglia, le due anime, la nera e la bianca, sono comunque una parte intrinseca di Hinedia, imprescindibile da lei - controbatté lo stregone. 

- Non possono essere imprescindibili da lei.. mi rifiuto di crederlo - commentò il giovane prete. 

- Vi prego, smettetela... - li supplicò Hinedia stringendo fortemente le palpebre e abbracciandosi da sola, per calmare i tremori.  

- Io non sono Layla. Né Agnes. Sono due persone diverse da me. Completamente.  

- Hinedia, non possono esserlo – la contraddisse pacatamente Quaglia. - Ephram ha in parte ragione: loro agiscono in base ai vostri desideri e ai vostri istinti più basici e reconditi. Ma ognuno di noi compirebbe atti tremendi se solo avesse bevuto l’intruglio che avete bevuto voi.. se non peggio. Perciò, almeno sotto questo aspetto, potete tranquillizzarvi.  

- Tranquillizzarmi...? Come faccio a tranquillizzarmi dopo aver ucciso un uomo?! - urlò ora, esasperata.  

Tutti ammutolirono, lasciando che la fanciulla continuasse. 

- Non ho fatto in tempo... non ho fatto in tempo a combatterla, a serrarla dentro di me in tempo che... quando ero di nuovo in me, quando ero di nuovo io.. lui stava già morendo. Con la gola squarciata. Non ho potuto fare niente... non ho potuto fare niente per salvarlo. 

Sarebbe impazzita. Sarebbe impazzita o si sarebbe tolta la vita.  

Queste erano le uniche due soluzioni possibili. 

Neanche gli uomini dinnanzi a sé, per quanto intelligenti, ben intenzionati o potenti, avrebbero potuto evitare ciò. 

- Posso sapere come mai proprio Rolland? Se davvero Layla agisce secondo i vostri desideri più oscuri.. Perché? Perché proprio lui? Non avete mai neanche scambiato due parole con lui – riprese padre Craig. 

- Come avete fatto a capire che fossi stata io? - domandò improvvisamente lei, senza rispondere alla sua domanda. - Qualcun altro lo sospetta...? 

- No, i monaci sospettano di sua moglie – le rispose Ephram facendola impietrire. 

- Che cosa...?? - domandò ella balbettando, ora ancora più invasa dai sensi di colpa. 

- Non avevate messo in conto che la colpa potesse ricadere sui suoi parenti, vero? 

- Ephram, stai peggiorando la situazione... 

- No, Quaglia, la sto solo aiutando a riflettere. Ad ogni modo, sono abbastanza certo che nessuno nutra sospetti su Blake, perciò potete rilassarvi. Tanto è di lui che si tratta, no? 

Padre Craig affilò lo sguardo, confuso. - In che senso? Lo avete fatto per Blake? Che significa, Hinedia? 

- L’idea che mi sono fatto, buon padre, è che la nostra Hinedia sia rimasta “scandalizzata” o “allarmata” forse dovrei dire... da alcuni atteggiamenti che Rolland ha manifestato nei confronti di Blake. La sfuriata pubblica in mezzo al mercato, ad esempio - spiegò lo stregone con naturalezza, facendo sorprendere la stessa Hinedia, la quale si chiese come avesse fatto a leggerla così bene. 

Ma, d’altronde, stava pur sempre parlando di uno stregone. 

- E questo cosa starebbe a significare..? Layla ha reagito perché... credeva che Blake fosse in pericolo? 

- Suppongo di sì - confermò Hinedia. 

- Ciò tuttavia non spiega quali motivazioni ben più oscure abbiano spinto Layla a ridurre in fin di vita Judith, facendole perdere la memoria - commentò Quaglia, lasciando padre Craig totalmente esterrefatto nell’apprendere tale notizia. 

- Che cosa...?!? Siete stata voi?? 

- Layla – lo corresse ancora Quaglia. - Layla, non lei. 

- Ci ho riflettuto... suppongo sia per il fatto che Judith suscita alcune invidie in me. Per quanto siano sicuramente molti di più i sentimenti positivi che nutro verso di lei... Layla incarna tutta la negatività che c’è in me, perciò.. - spiegò Hinedia. 

- Oh Signore.. - imprecò padre Craig, stringendosi i capelli. - Hinedia, se quella che nutrite verso Blake è gelosia... sarebbe meglio che non vi avvicinaste più a coloro che suscitano il suo interesse. Come Judith, ad esempio. 

- Non potrei mai fare del male a Judith! Non di nuovo... non di nuovo - ripetè la fanciulla come un mantra.  

Dopo una breve pausa in cui ebbe modo di calmarsi, ancora una volta, alzò lo sguardo e li scrutò per l’ennesima volta: - Cosa siete venuti a dirmi, per la precisione...? - domandò finalmente, frustrata e spazientita. - Se siete qui per far sorgere in me ulteriori sensi di colpa, vi comunico che non è necessario, dato che ne sono totalmente devastata al momento. E lo sarò per il resto dei miei giorni. Non solo la vita di Blake è rovinata. Anche la mia lo è. 

- La vita di Blake non è rovinata – cercò di rasserenarla Quaglia, posandole una mano sulla spalla, accennandole un sorriso pregno di fiducia. - Ciò che gli è accaduto è terribile, ma si riprenderà. Si riprenderà presto.  

- Ma se accuseranno anche Heloisa... 

- Heloisa è scappata di casa questa notte. Starà lontana per un po’ – le rivelò Quaglia, stupendo sia Hinedia che Ephram. 

Padre Craig assunse uno sguardo cupo e contrariato a tale informazione.  

Non sappiamo ancora se sia scappata davvero  avrebbe voluto rispondere, palesando le sue speranze: scappare avrebbe sicuramente esasperato la situazione e le accuse contro di lei. 

Siamo usciti di casa all’alba come dei ladri, questa mattina, per venire qui, senza premurarci di controllare se Heloisa fosse ancora in camera sua o no  si ripetè. 

- Sarà al sicuro. Anche Blake è al sicuro. Ci siamo io e padre Craig ad affiancarlo, non temete.  

Hinedia annuì, lievemente rincuorata. 

- È meglio che io mantenga le distanze da lui. 

- Sì, sarebbe decisamente meglio - confermò Ephram.  

- Hinedia, personalmente sono qui non per incolparvi, né per farvi stare male. Vorrei solo aiutarvi, come posso, come amico e confidente, per cercare di tenere a bada le due anime che lottano dentro di voi – le rivelò padre Craig, riuscendo a scaldarle un po’ il cuore. 

In quel momento, Hinedia ebbe come l’impressione che i tre uomini fossero tre messaggeri dei signori, giunti al suo cospetto come tre cavalieri, ognuno con un dono da darle, ognuno con il suo modo di offrirle il proprio irrinunciabile aiuto: 

Padre Craig, con le sue parole, le aveva fatto comprendere di essere venuto per donarle la sua amicizia e la sua comprensione umana:  

Pace ed equilibrio. 

- Io, invece, sono qui per dirvi che vi aiuterò a tenerle a bada con dei metodi pratici – intervenne Quaglia, con un incoraggiante sorriso impresso nel volto. - Gli studi alchemici che sto compiendo con Blake potrebbero essere la soluzione che cercavamo. Inoltre, se intanto vogliamo tentare con qualcosa di più immediato, potrei provare a farvi svagare e catalizzare la mente in un’attività che sviluppa l’autocontrollo e che aiuta a liberarsi delle energie negative. 

- E sarebbe..? 

- Potrei insegnarvi a combattere. Con la spada. 

Hinedia sgranò gli occhi scuri, non credendo alle proprie orecchie, e padre Craig con lei.  

- Voi... voi sapete maneggiare una spada?? Come...? - gli domandò stupefatto il giovane prete. 

- Qui a Bliaint non si insegna l’arte della spada, in quanto i monaci non hanno mai ritenuto necessario istituire un esercito a protezione del villaggio. Nel mio villaggio, invece, solitamente vi era sempre una piccola cerchia di guerrieri predisposti a difendere il popolo. Mio nonno mi insegnò quando ero bambino. Alcuni nostri antenati erano guerrieri, combattenti, a quanto pare, perciò ci siamo tramandati anche l’arte della spada in famiglia. 

- Oltre all’arte di far saltare per aria le persone - commentò pungente Ephram. 

- Dunque? Che ne pensate? - domandò Quaglia alla ragazza, ignorando lo stregone. 

- Penso che... mi piacerebbe molto! Non l’ho mai fatto e non ho mai creduto fosse un’attività adatta ad una ragazza, ma perché no!  

Quaglia le sorrise. - Questo è lo spirito giusto. Nonostante spero siano delle abilità che non vi serviranno mai nella vita di tutti i giorni, chi ha mai detto che una donna non può combattere o apprendere a difendersi da sola? 

Quaglia le proponeva rimedi pratici, una possibile soluzione all’orizzonte: 

Speranza. 

- Belle, bellissime parole le vostre – fu il turno di Ephram, il quale applaudì, con il suo solito sguardo indefinibile, riattirando l’attenzione su di sé. 

- Ecco il mio rimedio invece... - iniziò togliendosi la sacca che portava a tracolla e poggiandola sopra il tavolino con garbo. Hinedia e gli altri due lo osservavano con estrema attenzione. 

Lo stregone, con una delicatezza ultraterrena, tirò fuori dalla sacca quella che, agli occhi inorriditi dei tre, parve come una grossa coda di scorpione nera come l’inchiostro e lucida come il vetro. 

Tuttavia, no, non poteva essere uno scorpione, era troppo grossa per appartenere ad uno scorpione. 

La coda, orribilmente recisa, con l’enorme aculeo svettante di veleno in bella vista, venne avvicinata dallo stregone ad una piccola ampolla contenente già del liquido giallognolo. 

Ephram, con sguardo concentrato e imperturbabile, spinse accuratamente l’aculeo dentro l’ampolla, facendovi cadere all’interno una sola goccia di veleno. 

Poi, ripose la coda accuratamente dentro la sacca e si concentrò solo sul piccolo contenitore in vetro. 

Il ragazzo la alzò in alto, in modo che fosse all’altezza dei suoi occhi, e cominciò a pronunciare una formula incomprensibile.  

“Nessuna magia in casa mia”  si era raccomandata la padrona di casa. 

Ma ad Ephram non era affatto importato, e, come suo solito, aveva agito secondo il proprio volere. 

Vi era sempre qualcosa di irresistibilmente affascinante, ipnotizzante e conturbante nell’osservare Ephram compiere stregonerie di ogni sorta, qualcosa che spingeva chi lo guardava a desiderare di osservarlo per ore intere, pensò padre Craig, una sorta di incantesimo che svaniva nel momento stesso in cui lo si udiva aprir bocca.  

Il giovane stregone, soddisfatto, si voltò verso di loro, un accennato sorriso sostenuto da esporre ai compresenti.  

- Che cos’è...? - ebbe il coraggio di domandare Quaglia. - La mostruosa coda recisa che hai tirato fuori poco fa... 

- Manticora. Si tratta di una creatura oscura, quasi leggendaria, con la coda di scorpione, il corpo di leone e il volto da uomo. Il suo veleno è letale - spiegò, facendo deglutire rumorosamente la ragazza. 

- Ciò che cosa starebbe a significare..? - domandò padre Craig, non essendo sicuro di voler conoscere la risposta. 

A ciò, gli occhi di Ephram si spostarono su Hinedia, facendola rabbrividire. 

- Il rimedio estremo.  

L’ho incantata. Ho incantato la pozione con il veleno di manticora al suo interno, per fare in modo di renderla innocua. Innocua, a meno che... non si pronuncino due esatte parole, per scatenarne il potere letale.  

- Ephram... non starai pensando di... 

- Esatto, Quaglia. 

Hinedia deglutì ancora e tremò al solo pensiero. 

Ephram era giunto da lei con il rimedio più semplice ed efficace di tutti: 

L’assoluzione. La morte. 

- Non se ne parla... - commentò sbigottito padre Craig. 

- Vi basterà berne un sorso... rimarrà dentro il vostro corpo, senza arrecarvi nessun danno. 

Ma quando ne avrete bisogno... se vi doveste trovare di nuovo in una situazione come quella di due notti fa... se Layla dovesse prendere il controllo e dovesse tentare di uccidere qualcun altro... vi basterà mantenere un minimo di lucidità per pronunciare le due parole che sbloccheranno il potere del veleno. E sarete morta. In un batter d’occhio. Prima che Layla possa compiere altri danni. 

- Ephram, no! - esclamò Quaglia contrariato. 

- Come può fidarsi di voi?? Neanche vi conosce! E se bevesse la pozione, e morisse ora, seduta stante, perché ci state ingannando? - ipotizzò padre Craig diffidente. 

- Avete sempre una grandissima considerazione di me noto, padre - commentò lo stregone, rivolgendogli i suoi occhi e il suo sguardo accigliato, per poi tornare su Hinedia, la quale era rimasta ammutolita, ma aveva una strana luce negli occhi. - Sta a voi decidere. Ma, immagino dovrete fidarmi di me e della mia parola – concluse lui, scrutandola a lungo. 

- Lo voglio. Voglio farlo. Voglio bere il veleno – disse lei, risoluta. 

Non farò del male più a nessuno. 

E se mi troverò di nuovo sul punto di ferire coloro che amo... 

Sarò io a morire piuttosto.  

È esattamente la soluzione che mi serve. 

- Bene – sorrise Ephram, con una certa fierezza. Le porse l’ampolla di vetro, e Hinedia l’afferrò con mani tremanti. 

L’idea di stare bevendo del veleno la ripugnava e al contempo la galvanizzava, in qualche modo contorto. 

- Hinedia... ne siete certa? - le domandò padre Craig, con un velo di preoccupazione ad adombrargli lo sguardo. 

Ella annuì, fissando decisa l’ampolla. La aprì, la avvicinò alla sua bocca e ne bevve un sorso. 

Dopo averlo fatto, si sentì strana. Strana e più forte.  

- Quali sono... le due parole che devo pronunciare? - domandò allo stregone. 

- “Adsum martikhoras” - rispose lui.  

E fu come se Hinedia volesse imprimersele nella mente con il fuoco sacro: 

Adsum martikhoras 

Adsum martikhoras 

Adsum martikhoras 

“Sono qui, mangia-uomini” 

 

A distanza di pochi minuti da che erano usciti da casa di Hinedia, i tre uomini si ritrovarono alla Taverna, la quale era pressoché vuota di prima mattina. 

Padre Craig non seppe come ci fossero finiti lì, oppure sì, ora che ci rifletteva su. Forse era lui la causa di tutto, lui che, usciti dalla dimora della ragazza, aveva afferrato il braccio dello stregone, avendo addirittura l’ardire di strattonarlo, chiedendogli come diavolo gli fosse passato per la testa di avvelenare una fanciulla, spacciandola come la “soluzione ultima”, e a quel punto Ephram gli aveva risposto in un modo che gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene dalla rabbia: sorridendogli diabolico come si divertiva a fare spesso, gli aveva risposto qualcosa come “Mi complimento con voi, padre, siete diventato spavaldo ultimamente! Non solo andate in giro senza la vostra tonaca, ma ora vi azzardate anche a toccare un uomo, senza fare cinquanta ammende al signore subito dopo”, per poi accennare al fatto che gli conveniva non farlo irritare, dato che aveva ancora la coda di un’orrenda e pericolosissima creatura sepolta nella saccoccia, sprizzante di veleno. A quel punto, Quaglia aveva ritenuto saggiamente di intervenire e di proporre ai due di calmarsi e di sedersi, per bere qualcosa alla Taverna, schiarendosi le idee e parlando, perché era evidente vi fosse un immenso bisogno di parlare.  

Dunque era in parte a causa sua se padre Craig si trovava alla Taverna, seduto al tavolo con lo stregone e con Quaglia, nell’ultimo posto in cui voleva essere. 

Ma, d’altronde, qualsiasi posto sarebbe stato l’ultimo in cui voleva essere, dato che, in quel momento, il suo unico desiderio era tornare a casa. 

Batté nervosamente il piede a terra, attendendo che qualcuno dicesse qualcosa. 

- Riesco ad avvertire le vostre energie negative e la vostra frustrazione fin da qui, padre, rilassatevi, per gli Inferi - sbuffò Ephram roteando gli occhi annoiatamente mentre prendeva un altro sorso dal suo boccale. - Per quale motivo siete così affezionato a quella ragazza? Non mi pare che anche lei attiri le vostre mire. 

“Mire”?? Ora era davvero troppo. 

- Non si tratta di questo! Si tratta del fatto che è una ragazza, un essere umano! Avete avvelenato un essere umano, per lo più tormentato! Come potete comportarvi con tanta tranquillità..? 

- Un essere umano che ne ha ucciso un altro – gli ricordò. - E poi deciderà lei come e se attivare il potere del veleno. 

- E come possiamo fidarci di voi...? 

- Ancora con questa storia? - gli domandò palesemente scocciato, con la voce più roca di un’ottava. 

- Mi stavo chiedendo – intervenne Quaglia, nel rinnovato tentativo di stabilire la pace tra i due. - I monaci a Bliaint amministrano tutto, no? Hanno potere assoluto. 

- Sì. 

- Vi sono contadini, scavatori, commercianti, venditori, mastri... Perché non hanno mai ritenuto necessario istituire anche un ordine di guerrieri a difesa del villaggio? Nella situazione in cui ci troviamo, con la minaccia del conte Agloveil alle porte, ci sarebbe molto utile. 

- Non ce ne è mai stato bisogno, secondo loro – rispose Ephram atono. - Il nostro villaggio è “protetto” dai due signori. Così è scritto nei libri sacri. Dunque non ha bisogno di essere protetto da forze umane, perché nessun nemico potrà mai attaccarci. 

- E tu ci credi? 

Ephram lo guardò stranito. - Che razza di idea ti sei fatto di me, Quaglia? Che io sia un babbeo, per caso? Sono fedele al mio Signore, ma non sono un’idiota. So bene che se qualcuno ci attaccasse di certo i nostri signori non si impersonificherebbero dinnanzi a loro per combatterli al posto nostro. 

Saremmo spacciati. Voi stranieri e servi del Creatore sareste tutti morti, per lo più, mentre noi servi del Diavolo verremmo fatti schiavi.  

Tempo fa Judith aveva provato a proporre ai monaci di istituire un esercito di guerrieri e di insegnare a tutti i ragazzi e le ragazze di Bliaint sopra i quindici anni, senza distinzioni di culto, l’arte della guerra - spiegò. 

- E i monaci cos’hanno risposto? 

- Judith ha potere su di loro, ma non in qualsiasi cosa.  

Quella ragazza ha portato a molti cambiamenti positivi, ma non è onnipotente lì dentro.  

Le donne non hanno tutta questa libertà decisionale all’interno del clero. 

A mio parere, conoscendo com’è la situazione in altri villaggi, Judith ne ha anche troppa. Dovrebbe ritenersi fortunata. 

Padre Craig fu costretto a dargli ragione: anche ad Armelle (anzi, molto più ad Armelle che a Bliaint) le donne non godevano degli stessi privilegi degli uomini. 

- Quando io era solo un bambino - raccontò Ephram - dunque circa dieci o quindici anni fa, alle donne serve del Diavolo era persino vietato partecipare alle orge e ad altri festeggiamenti rituali permessi dal nostro culto del Diavolo durante i matrimoni e altre celebrazioni. Solo gli uomini potevano prendervi parte. 

Le gote di padre Craig non poterono fare a meno di imporporarsi, nel ripensare agli sprazzi di ricordi vaghi vissuti quella notte dissoluta in cui tutto era cominciato, alla consapevolezza di aver giaciuto con se stesso, mentre possedeva il corpo di Beitris. E viceversa. E che Beitris avesse giaciuto con lui anche da lucida, nell’ombra, più di una volta. 

Il pensiero lo fece vergognare oltremodo di se stesso, attorcigliandogli lo stomaco di sensi di colpa, ma meno del solito. 

Anche il suo animo stava diventando avvezzo al peccato. 

Fu in quel momento che una consapevolezza amara prese forma nella sua mente: 

Beitris era stata l’unica. 

L’unica donna della sua vita, nell’effettività. 

Ed era doloroso pensare che per lei non provasse niente più che attrazione fisica e compassione al momento.  

- Dunque gli uomini erano costretti a giacere tra loro – il commento di Quaglia lo riportò alla concreta realtà di quella conversazione. 

- “Costretti” non è esattamente la parola che userei.. - rispose lo stregone in tono vagamente provocante. E anche lui sembrò perdersi nei ricordi per un attimo, assumendo un’espressione inconsciamente seducente.  

Padre Craig arrossì di nuovo d’imbarazzo a quelle parole. 

Non voleva neanche pensare a quali turbolenti e lussuriosi ricordi si stesse abbandonando il giovane stregone.  

Ephram poteva avere chi volesse, come ogni servo e serva del Diavolo. 

Dunque era naturale pensare che avesse davvero avuto chiunque aveva desiderato. 

Inoltre, con sé aveva anche il fascino del mistero della magia nera impregnata sulla sua pelle, e ciò accentuava ancora di più gli sguardi eloquenti che donne e uomini gli lanciavano. 

Padre Craig si ritrovò improvvisamente a chiedersi se anche Judith lo avesse mai guardato a quel modo. Con desiderio, un desiderio nascosto magari. O se lui avesse guardato lei così. Probabilmente sì, dato che Judith faceva quell’effetto a tutti, complice anche il suo modo di abbigliarsi e l’aura che emanava. 

Su Blake non si interrogò neanche, dato che Blake non guardava mai nessuno. 

Erano piuttosto gli altri a guardare lui. 

E fu a quel punto che la domanda gli sorse spontanea: Ephram aveva mai guardato Blake a quel modo? D’altronde i due erano amici, e lo stregone non faceva certo mistero dei suoi gusti passionali molto variegati. Sicuramente nessuna serva o servo del Diavolo abbastanza giovani e maliziosi gli erano passati inosservati.  

Ma Judith e Blake, per quanto bellissimi, non erano maliziosi. 

Forse, poteva sperare che fossero sfuggiti alle sue voglie... 

Si paralizzò nel momento in cui notò che lo stregone lo stava fissando con uno sguardo che la diceva lunga. 

- A cosa state pensando, padre? - gli domandò candido, calcando l’ultima parola. 

Il giovane prete raggelò. 

Quaglia ebbe timore per lui, timore che saltassero fuori argomenti da tenere celati.  

Inaspettatamente, fu proprio Quaglia il primo a venire interrogato:  

- Dimmi, mio caro amico, cosa ti piace in una donna? - Quaglia alzò un sopracciglio confuso in risposta, ma non fece in tempo a parlare che lo stregone lo anticipò: - Non c’è bisogno che tu lo espliciti: posso benissimo leggertelo negli occhi quali caratteristiche fisiche ti attirino di Judith. E di Heloisa – si premurò di aggiungere, facendo abbassare lo sguardo imbarazzato dell’uomo. 

Come osava?? si domandò padre Craig scandalizzato ridurre le persone ai corpi, meri contenitori materiali, cagionevoli, di carne e sangue e- 

- Il nostro padre Craig, invece, non è così facile da leggere sotto questo aspetto: ditemi padre, cosa vi piace di lui? 

A quella domanda, il tempo sembrò fermarsi. 

Padre Craig, esterrefatto, ghiacciato sulla sedia, osservò lo stregone come se d’improvviso avesse iniziato a sputare fuoco verde dalla bocca. 

- Di lui... chi...? - domandò con un fil di voce, provocando la grassa risata di Ephram. 

- Se non dicessi il suo nome, sarebbe più facile per voi rispondermi? - gli domandò diabolico dopo aver smesso di ridere, con il bel volto traboccante di pura e provocatoria curiosità. 

No, non sarebbe più facile. Non lo sarebbe in nessun caso. 

Si trovava con le spalle al muro e non sapeva più come fuggire. 

Glielo aveva detto Quaglia? 

O lo aveva capito da solo? 

Era così evidente? 

Valutò seriamente l’opzione di alzarsi in piedi senza dire una parola e uscire dalla Taverna, diretto verso casa, dove sarebbe dovuto già essere da un po’. 

Ma lo sguardo di fuoco che gli stava rivolgendo lo stregone non gli lasciava più alcuna via di scampo, dunque, disse ad alta voce la prima domanda che gli attraversò la mente, incurante delle conseguenze: 

- Perché mi chiedete di lui? Perché non mi chiedete cosa mi piace di Judith, invece? 

Anche se mi chiedesse di lei, non risponderei in ogni caso. 

Allora, perché l’ho domandato? 

Ephram alzò un sopracciglio, interessato sì, ma non quanto prima. 

- Vi piace anche Judith? 

Il giovane prete si morse la lingua, dandosi internamente dell’idiota. 

Come poteva essersi tradito a quel modo?? Esattamente come si sarebbe tradito un bambino? 

- Dovrei chiedervi di lei solo perché è una donna?  

Di una donna si possono indovinare facilmente, le zone di maggior interesse – rispose lo stregone prendendo un altro sorso. - Per il corpo maschile, invece, ci si ritrova in mezzo ad una tempesta di soggettività. E poi... - aggiunse vagamente. - … non mi interessa chiedervi di Judith perché tendo ad apprezzare molto di più corporature diverse dalla sua. 

- Che tipo di corporature diverse dalla sua? - gli domandò Quaglia, ora curioso anche lui. 

- Meno curvilinee, con meno carne e più ossa, in parole povere. Come Beitris, ad esempio. Le donne magre e vertiginose come Beitris mi fanno impazzire. 

Anche Myriam aveva un corpo simile, piatto e quasi privo di forme, ma pur sempre bellissimo. 

Tuttavia, riudire di nuovo il nome di Beitris fece agitare padre Craig, il quale sentì l’esigenza di spostare il focus altrove. 

- Non mi piace nulla di lui – disse improvvisamente il giovane prete, riattirando due sguardi sconcertati su di sé. - Non sono attirato solo dalla mera carne. L’animo è ciò che mi piace di lui.  

Ephram scoppiò a ridere ancora più forte ora, fino a lacrimare quasi.  

- Oh, padre, siete esilarante! 

- Non mi credete...? 

- Siete davvero, davvero spassoso! 

- Voi riducete gli esseri umani a contenitori che deliziano la vista e i sensi. Io non sono come voi. Trovo sconvenevole e irrispettoso che esaltiate così tanto- 

- “Irrispettoso”? - ripeté Ephram, zittendolo. - Cosa trovereste irrispettoso, di grazia? Che si guardi, si esalti, si apprezzi e si tocchi un corpo?  

I sensi derivano dal corpo. 

Tutto ciò che è reale e tangibile deriva dal corpo.  

Ammirare un corpo è come ammirare il frutto di un’arte. 

Con venerazione e con desiderio. 

Desiderio di saggiare e di assaggiare, con tutti e cinque i sensi. 

La sensibilità si fonde con l’intelletto nell’unione di due o più corpi. 

Le nostre facoltà si potenziano. 

Non è un istinto animale il desiderio, padre, al contrario di quello che vi hanno insegnato. 

Così come non è un atto bestiale e dissoluto il sesso. 

È vita che si espande e che trova il suo dispiegamento. È raggiungimento di un fine ultimo, nel piacere. Per questo non è sbagliato guardare con desiderio. 

E voi dovreste smetterla di considerare i loro corpi come due tempi sacri e inviolabili. 

Non lo dissacrerete, né lo disonorerete se mi direte cosa amate di lui, del suo corpo. 

Per vostra informazione, se così fosse, vorrebbe dire che sono già stati violati centinaia di volte, da innumerevoli occhi.  

E lo sono stati. Gli atti sessuali che hanno consumato non li hanno resi meno sacri, perché sacri non lo sono mai stati.  

Non state svalutando un uomo o una donna se vi concentrate ad ammirarne il corpo, bramandolo. 

Non gli state facendo un torto, né lo state relegando a mero oggetto di piacere se fantasticate su di lui in solitudine.  

Non siete un pervertito. Non siete un pervertito se lo volete, e se non vi vergognate di ammetterlo.  

Non lo state profanando esprimendo ad alta voce ciò che la vostra mente e i vostri occhi hanno già decretato.  

State solamente amando e apprezzando una parte del suo essere, importante tanto quanto tutte le altre – concluse. 

Quelle parole furono in grado di fargli divenire gli occhi lucidi.  

Poteva essere davvero così? 

Si poteva associare un corpo al sesso, ai peccati della carne, senza disonorarlo? 

Padre Craig si chiese più volte come quello stregone riuscisse a leggergli dentro così bene, e si trattenne dal versare quelle lacrime inutili, continuando a guardarlo, ma non trovando comunque il coraggio di rispondere alla sua domanda. 

A ciò, Ephram riprese, stavolta rivolgendogli uno dei sorrisi più taglienti del suo repertorio: 

- D’accordo, vorrà dire che comincerò io a dirvi cosa mi piace particolarmente di lui: 

i fianchi.  

- I fianchi? - domandò Quaglia, sorpreso dalla risposta. 

- I suoi fianchi, sì. Stretti ed estremamente sensuali, con le anche ben in rilievo, ma quasi sempre nascosti dietro vestiti che non li fasciano.  

Dei fianchi che fanno venire la brama di afferrarli e di affondarci le unghie e i denti dentro.  

E dietro di essi, la perfetta curva del fondoschiena, molto facile da notare anche sotto i vestiti, poiché tali linee da capogiro non si possono celare.  

Poi le gambe. Lunghe ed energiche. Le cosce in particolare, ben delineate, dalla forma affusolata ma non ossute.  

È davvero difficile trovare delle gambe belle come le sue in un uomo. 

Non posso che menzionare anche il collo - sospirò con gli occhi chiusi, come se riuscisse ad immaginarselo davanti a sé. - Anche quando possedeva ancora quell’enorme cicatrice a deturparlo... il suo collo rimaneva e rimane una delle cose più ammalianti e invitanti che abbia mai visto. Delicato, quasi femmineo ma non femminile, flessibile, morbido e pulsante.  

Padre Craig, immobile, lo ascoltava rapito e con le guance lievemente imporporate, lo ascoltava parlare con una consapevolezza e una razionalità tali da sconvolgerlo. 

Fu mentre lo stregone parlava del corpo di Blake come se parlasse di un meraviglioso quadro da poter toccare, che padre Craig ricordò. Ricordò di quel giorno alla dimora degli stregoni, quando, durante il rituale, le labbra di Ephram avevano indugiato immotivatamente qualche secondo di troppo su quelle di Blake; e ricordò anche le esatte parole di Quaglia della mattina in cui gli aveva rivelato di conoscere il suo segreto: “... credo proprio lo abbia puntato anche Ephram”, e allora gli fu tutto chiaro e si diede dello sciocco per non averci pensato prima. 

Ephram era interessato a Blake. Forse più di quanto volesse far credere. 

E ciò lo mandava letteralmente in bestia, almeno quanto era in grado di scuoterlo e atterrirlo insieme. Sapeva che lo stregone gli stava palesando tutto ciò solo per spingerlo a parlare a sua volta, a rivelare quelle verità scomode che il giovane prete custodiva dentro il suo cuore gelosamente. 

Ephram si limitava a parlare solo del corpo di Blake, non del suo viso, come per metterlo maggiormente con le spalle al muro. 

È più facile sessualizzare un corpo, che un viso, si ritrovò a pensare.  

Il suo corpo, dunque, eh?   

Amava tutto, qualsiasi cosa del corpo del ragazzo, ma si concentrò a sua volta per carpire qualcosa che catalizzasse la sua attenzione più di tutto il resto, dovendo ripetersi costantemente dentro la mente ciò che gli aveva detto Ephram poco prima: “Non lo dissacrerete, né lo disonorerete se mi direte cosa amate del suo corpo. Non lo state profanando esprimendo ad alta voce ciò che la vostra mente e i vostri occhi hanno già decretato.” 

Amava talmente tanto ogni parte di lui, da tremare al solo pensiero. 

Ma era comunque disonorevole. Disonorevole e peccaminoso esprimere ciò ad alta voce, per un uomo votato alla castità come lui. 

E mentre forse Ephram aveva già fantasticato più volte, padre Craig non si era mai permesso di farlo davvero.  

Sarebbe stato troppo.  

Ma, dato che Ephram glielo aveva chiesto e non si era fatto alcun problema nel palesare cosa gli passasse per la mente quando guardava Blake, padre Craig l’avrebbe accontentato. 

- Le sue spalle e le sue bracci- 

- Il suo profumo.  

Ephram stava andando avanti, ma padre Craig lo aveva interrotto. - È un odore buono, fresco ma non dolce, che solletica magnificamente i sensi e che riesco ad avvertire distintamente solo di prima mattina, quando è rimasto parecchie ore a spalmarsi e immergersi nelle lenzuola che sanno di lui, che si sono impregnate di lui per giorni e notti. Lo si può avvertire solo da molto vicino, e io non gli sono mai abbastanza vicino – disse tutto d’un fiato, facendo ammutolire totalmente gli altri due. - La sua postura stuzzicante, nonché la forma che prende il suo corpo quando si muove, spesso con inconscia grazia: quando è annoiato, turbato o esasperato, si poggia su qualsiasi superficie vicina, con la schiena, con i fianchi o con le anche, rilassando la postura elegante, come se gli servisse a lasciar andare la tensione.  

La sua schiena. Di proporzioni perfette, lunga, sinuosa, ma non troppo larga, che si contrae e si flette con un nulla, che incanta i miei occhi per minuti interi quando si distende, creando dei solchi lunghi e profondi su porzioni di pelle che non credevo nemmeno esistessero. 

La pelle, d’ambra baciata dal sole, calda e luminosa. 

I suoi capelli … - si bloccò, sorridendo sovrappensiero. - I suoi capelli sono un putiferio. Quando si sveglia la mattina in particolar modo, somigliano alla chioma di un leone. Sono sempre più folti, ribelli, ma morbidi, di un colore che gli sta d’incanto, caldo e scuro, ma che tendono a schiarirsi facilmente. Sono bellissimi.  

E sì, anche il collo, naturalmente – concluse, non rendendosi nemmeno conto di tutto ciò che aveva appena esplicitato. Specialmente dinnanzi ad altre quattro orecchie udenti.  

La vergogna e l’imbarazzo non ebbero modo di sconvolgerlo in quel momento.  

Era troppo persino per vergognarsi. 

Si era messo a nudo dinnanzi ad una delle persone che sopportava e tollerava meno, ma con cui, inaspettatamente, aveva almeno qualcosa in comune. 

Fu grato che Ephram gli avesse domandato solo riguardo al corpo, perché se si fossero dovuti incentrare anche sul viso non ne sarebbero più usciti. 

- Accidenti... - fu il commento meravigliato di Quaglia a quella intensa descrizione.  

Anche il giovane stregone sembrò sinceramente stupefatto dalle sue parole, dal modo in cui era riuscito a lasciarsi andare, a dire tutto ciò alla luce del sole, finalmente. Al contempo, pareva anche vagamente infastidito, mentre lo fissava con i suoi occhi di sabbia scrutanti e affilati.  

Dal canto suo, Ephram sembrò individuare qualcosa nello sguardo del prete, una diffidenza e un timore che non potevano essere celati tanto facilmente. - Non angustiatevi, padre: non voglio portarvelo via. Nessuno riuscirebbe nell’impresa. Dunque rilassatevi. Per ora – gli disse rivolgendogli un sorriso di scherno, e padre Craig fu certo che lo avesse fatto apposta, con lo scopo di turbarlo e infiammarlo ancor di più. 

 

 

Blake si svegliò di colpo quella mattina, reduce da un altro incubo, dei soliti, estremamente reale.  

Ansimò, cercando di riprendere il respiro, mentre si crogiolava ancora un po’ tra le coperte.  

Oramai era caldo per dormire con coperte così pesanti, si rese conto tastando il lieve strato di sudore che gli copriva il collo.  

Aveva bisogno di un bagno. Un bagno e qualcosa da mettere sotto i denti. 

Sentiva uno strano sapore in bocca, che aveva iniziato a percepire ogni mattino, da quando si era chiuso nella fucina senza più uscirne per una settimana. 

Era come l’odore di piombo e mercurio mischiati insieme, ma che risalivano dalla gola fino ad impregnarsi sulla lingua. 

Quella mattina era più forte e fastidioso delle mattine precedenti, tanto da fargli provare il desiderio di mangiare subito qualcosa per toglierselo dalla bocca. 

Alzò la testa, reggendosela con le mani, capendo che il dolore sarebbe sicuramente persistito per tutta la giornata. 

Per qualche assurdo motivo, un motivo che, forse, se si fosse impegnato di più, avrebbe saputo riconoscere, quella mattina si chiese dove fosse suo padre. 

Il suo primo pensiero andò a lui, in una sorta di istinto fanciullesco di vederlo, per accertarsi che stesse bene e che fosse ancora al suo fianco, per farsi calmare dal suo sorriso sornione e rassicurante. 

Un istinto che aveva provato talvolta, anni prima, quando era bambino. 

Poi, quell’istinto, quell’esigenza lasciò il posto alla realtà, che lo colpì come una valanga di neve in piena estate.  

Suo padre non c’era più. 

Al suo posto, era rimasto solo l’opale che gli aveva donato, e che pendeva dal suo collo come un amuleto, come un macigno. 

Si alzò dal letto, deciso a controllare come stesse Ioan quella mattina, e se si fosse calmato un po’ dal giorno prima. 

Tuttavia, prima lo avrebbe lasciato dormire un po’, e ne avrebbe approfittato per preparare la colazione.  

Mentre si avviava verso la cucina, passò davanti alla porta aperta che dava alla camera da notte dei suoi genitori: era totalmente vuota, con il letto perfettamente in ordine e per nulla disfatto. 

Dunque era scappata via davvero. 

Sua madre lo aveva fatto, e ciò lo allietò istantaneamente, e non solamente per i giusti motivi. 

Passò oltre e giunse alla cucina. 

Ora erano soli, e avrebbero dovuto badare a se stessi completamente, esattamente come avevano fatto quando suo padre non tornava a casa neanche per dormire e sua madre era un vegetale divenuto un tutt’uno con il talamo. 

Bevve avidamente mezza brocca d’acqua per togliersi quell’odioso sapore metallico dalla gola, poi ruppe due uova dentro una pentola e accese il fuoco, muovendosi placidamente, con gli arti ancora intorpiditi per il sonno. 

Avrebbe dovuto buttare giù la porta sigillata della fucina, e rimettere in sesto quel luogo al più presto, si ritrovò a pensare.  

Stranamente, i monaci non erano ancora giunti a casa loro per fare domande.  

Un altro fatto bizzarro era che padre Craig non si fosse già svegliato all’alba, come suo solito, ma non si interrogò molto a riguardo. Era stata una giornata pesante per tutti, quella appena passata. 

Il suo pensiero ritornò al volto sconvolto e distrutto di suo fratello e non poté fare a meno di sospirare.  

Aveva fatto bene a lasciar andare sua madre impedendole di portarsi via Ioan con sé? 

Heloisa aveva bisogno di qualcuno al suo fianco e lo aveva pregato di poter portare con sé il bambino. 

Ma Ioan non aveva voluto, perché suo fratello era troppo attaccato a lui. 

E Blake, egoisticamente, aveva sfruttato ciò a suo vantaggio, per tenerselo con sé. 

Poichè, fin quando suo fratello fosse stato al suo fianco e sotto la sua protezione, era certo che nessuno gli avrebbe fatto del male, nessuno gli avrebbe torto un capello. 

Inoltre, avrebbe potuto tenere sotto controllo la sua salute da vicino. 

Tuttavia, quel fastidioso senso di colpa alla bocca dello stomaco nei confronti di sua madre, ritornò a farsi sentire, e Blake lo scacciò via con decisione. 

Troppo sovrappensiero, non si accorse subito che le uova fossero oramai ben cotte e il latte già caldo. 

- Chris, è pronta la colazione! - lo richiamò, sapendo che lasciasse sempre la porta socchiusa per dormire, perciò lo avrebbe sentito. 

Attese qualche secondo, poi lo richiamò di nuovo. - Christopher, mi hai sentito? Se non vieni si raffredderà! 

Ancora nessuna risposta, ed era davvero strano. 

Ioan aveva sempre avuto il sonno leggero di mattina. Bastava un solo richiamo e se lo ritrovava sempre già seduto davanti al tavolo, oppure bastava che qualcuno parlottasse in cucina a svegliarlo.  

Blake alzò un sopracciglio.  

Possibile che volesse restare a letto perché si era svegliato in lacrime per Rolland? 

Poi, un sospetto vivido gli deformò i lineamenti. 

Un sospetto che, era quasi certo, non fosse solo un remoto sospetto, ahimè. 

- No. Non può essere - sussurrò inviperito, scattando verso le camere e aprendo la porta della stanza del fratellino, trovandola, come temeva, vuota, col letto sfatto. 

Strinse la maniglia della porta fino a quasi frantumarsela tra le mani, fin quando alcune schegge non gli perforarono il palmo. 

Heloisa lo aveva preso con sé. 

Lo aveva preso contro la sua volontà, portandolo dentro l’antro di quella sciamana, chissà dove, sicuramente in un luogo ignoto persino a lui stesso. 

Ioan si sarebbe risvegliato in un luogo estraneo, non sapendo dove si trovasse, scoprendo che suo fratello non era accanto a lui... 

- Dannata... - imprecò inacidito, tornando in cucina e sedendosi, cercando di calmarsi e di ritrovare un briciolo di razionalità che potesse spazzare via tutta la rabbia che lo stava animando al momento.  

Doveva cercare dei lati positivi in tutto ciò, doveva cercarli:  

Sua madre era sempre stata una donna attenta, a parte nei suoi periodi bui, questo c’era da riconoscerglielo. 

Si era sempre occupata al meglio della malattia di Ioan insieme a lui, teneva a suo figlio, teneva ai suoi figli.  

Il suo giudizio era sano, perciò se si fidava di quella donna, doveva avere i suoi buoni motivi. 

Almeno... dovette ammettere a se stesso ...Ioan sarà al sicuro con lei. 

Poteva tranquillizzarsi, ma al contempo la rabbia non svaniva. 

La rabbia per aver agito di nascosto, alle sue spalle, per aver ingannato lui e il bambino pur di fare quello che desiderava. 

E mentre pensava a quanto fosse stata scorretta sua madre, seppur spinta dalla disperazione, Blake avvertì un fastidiosissimo pizzicore in fondo alla gola, risalire su in quell’orrendo saporaccio che aveva da giorni. Fu così che iniziò a tossire, a tossire e a tossire ancora, fin quando non ebbe quasi più fiato. 

Si alzò e afferrò un panno pulito per tossire al suo interno, avvertendo come una strana sensazione di nausea risalirgli su per lo stomaco. 

Tossì ancora per qualche secondo, poi la sensazione si placò e la sua gola anche. 

Il respiro gli tornò regolare e il pizzicore si attenuò. 

Tuttavia, avvertì distintamente le labbra bagnate da qualcosa. 

Quando guardò dentro il panno su cui aveva tossito, sgranò gli occhi nell’accorgersi fosse sporco di nero.  

Nero come piombo. 

Nero come carbone. 

Nero come... 

Qualcuno bussò alla porta, facendolo sussultare. 

Si pulì velocemente le labbra con il polso e richiuse il panno, gettandolo nel camino. 

Aprì la porta e si trovò davanti, come si aspettava, le facce garbatamente sorridenti di padre Thomas, padre Petrit e padre Cliamon. 

- Buongiorno, Blake. Disturbiamo?  

- No. Prego, entrate – disse loro, facendogli spazio per farli entrare in casa. 

- Davvero una bella casa - commentò padre Thomas guardandosi intorno, poi catalizzando tutta l’attenzione sul ragazzo. Lo osservò e assunse un’espressione allarmata, tanto che, se non lo conoscesse, Blake avrebbe pensato che fosse sinceramente preoccupato - Avete un aspetto stanco, ragazzo, e delle profonde occhiaie. Immagino stanotte non siate riuscito a dormire, a causa di quello che è accaduto ieri... avete mangiato qualcosa, almeno? 

Blake mentì annuendo, nonostante le due uova facessero ancora bella mostra dentro la pentola. 

- Come state, Blake? - gli domandò poi il monaco, prendendosi una vicinanza non concessa e appoggiandogli una mano sulla spalla, come in segno di solidarietà. 

A Blake venne il voltastomaco e combatté contro l’istinto di allontanarsi. 

Cosa diavolo avrebbe dovuto rispondere? 

- La tragedia è avvenuta poco più di un giorno fa, padri.  

Come supponiate che stia? - rispose diretto, ponendo le braccia conserte. 

- Giusto. Domanda inappropriata. 

 - Come posso esservi d’aiuto? - domandò poi, giungendo al punto. 

- Siamo qui per porvi delle domande. A voi, a vostro fratello e a vostra madre. Specialmente a vostra madre.  

- Per quale ragione? 

- Come sapete, stiamo indagando su chi possa essere il possibile assassino, per fare giustizia a vostro padre ed evitare che costui se ne vada in giro a mietere altre vittime. 

- Sì. Dunque? Perché volete interrogare noi? - domandò facendo il finto ingenuo. 

- Perché alcuni di noi nutrono sospetti su alcuni membri della vostra famiglia, Blake. Voi incluso. 

Il ragazzo alzò un sopracciglio. - Me? 

- Diteci, ragazzo - esordì anche padre Petrit, avvicinandoglisi. - Avete chiarito con vostro padre dopo il preoccupante “spettacolo” che avete dato in mezzo alla piazza? 

- Sto venendo interrogato per una litigata in mezzo alla strada? Non avete mai visto un padre e un figlio discutere? 

- Non nel modo in cui avete discusso voi. E poi, è risaputo che, ultimamente, tra voi e vostro padre non scorresse buon sangue.  

- Volevo bene a mio padre e lui ne voleva a me – disse secco, serrando la mascella. - Le questioni in sospeso tra me e lui non dovrebbero interessarvi. 

- Avete ragione. Tuttavia, stiamo parlando di un omicidio a sangue freddo.  

Nessuno di noi crede siate stato voi, Blake. 

Per quanto siate indubbiamente un ragazzo incurante delle regole e difficile da trattare, non crediamo che possiate essere arrivato al punto di uccidere il vostro stesso sangue. 

- Tuttavia – intervenne padre Thomas. - Rimanete il suo erede. Chi ci dice che, dato che vostro padre non vi permetteva più di entrare nella galleria nell’ultimo periodo, e data la vostra ossessione a riguardo, non abbiate ben pensato di ucciderlo per diventare il prima possibile il nuovo proprietario? 

- Credete davvero questo? - domandò loro. - Mi complimento per la creatività, padri. 

- Vi stiamo solo mettendo alla prova. 

- E cosa dovrei fare per superarla? Perché se vi aspettate che io supplichi la vostra sacra misericordia inchinandomi a voi, nonostante sia evidente che io sia innocente, mi spiace deludervi ma non accadrà - disse con convinzione, squadrandoli uno ad uno. 

- Bene. E invece lo straniero che ospitate da pochi mesi? Qual è il suo nome... 

- Quaglia. Volete interrogare anche lui? 

- Quaglia... nome interessante. Gira voce che lui e vostra madre abbiano consumato diversi atti sessuali alle spalle di Rolland. Anche lui avrebbe dei motivi per ucciderlo, nonché togliere di mezzo il marito della sua amante, per averla per sé.  

- Quaglia e mia madre non giacciono più insieme da molto tempo. 

È capitato solo qualche volta e mio padre, in cuor suo, lo sapeva e se lo è fatto andar bene, dato che anche lui faceva lo stesso. 

- Mmm  

E vostra madre, invece? Lei è sicuramente colei che avrebbe più motivazioni per ricorrere ad un atto tanto ignobile.  

- La gelosia? 

- Vostro padre la tradiva ogni notte.  

Molte donne hanno strangolato i loro mariti nel sonno per motivi simili in passato, qui a Bliaint.  

Dov’è vostra madre, Blake? 

- Al momento non c’è - rispose il ragazzo atono. - Deve essere uscita questa mattina presto. 

- Possiamo controllare? Non che non ci fidiamo di voi, ma- 

- Prego, fate pure – disse loro allungando una mano verso il corridoio che avrebbe condotto alle camere. 

I tre cercarono in ogni stanza, non trovando nessuno. 

- Ma qui non c’è nessuno .. - osservò padre Cliamon. - Neanche vostro fratello e i due stranieri che ospitate in casa. Dove sono tutti? 

- Non lo so – rispose l’unica cosa che avrebbe potuto rispondere al momento, poggiando il fondoschiena al bordo del tavolo. 

- Strano... 

- Blake, voglio che sappiate che non è nostra intenzione privarvi di un altro genitore - tentò un altro metodo di approccio padre Thomas, riavvicinandosi a lui ancor più di prima, fino ad arrivare a toccargli la mano, forse nel tentativo di stringerla. - Ma dovete anche comprendere che è nostro dovere punire il colpevole. Perciò, ve lo chiedo di nuovo: sapete dove possa trovarsi vostra madre? 

- Ed io ve lo ripeto: non ho la minima idea di dove sia – gli rispose guardandolo dritto negli occhi mentre sfilava la mano dalla sua presa, riacquisendo una certa distanza. 

- Cosa c’è qua sotto? Perché la porta non si apre? - la voce di padre Petrit, l’unico rimasto ancora nella zona delle camere, giunse alle loro orecchie, distraendoli. 

Blake si accorse che l’uomo stesse provando a forzare inutilmente la porta della fucina, e gli si ghiacciò il sangue nelle vene. 

Se solo quegli infimi e turpi ometti avessero scoperto qualcosa riguardo la polvere nera... 

Cercò di calmarsi e di non darlo a vedere, rispondendo con naturalezza: - La fucina in cui lavoriamo io e mio padre. 

- Perché non si apre? 

- Perché è sigillata. L’unico modo per aprirla è buttarla giù. 

- Capisco – si arrese padre Petrit, fortunatamente senza porre altre domande, e tornando verso la zona giorno. 

- Blake, vorremmo- 

Ma le parole di padre Cliamon vennero interrotte dalla porta di casa che si apriva, mentre due presenze entravano al suo interno, come se nulla fosse. 

Padre Craig e Quaglia si pietrificarono nel momento in cui notarono quelle tre figure nuove dentro la casa, che sembravano quasi tenere in ostaggio Blake.  

Un Blake che, nel momento in cui erano rientrati, aveva iniziato a guardarli con un’espressione di puro sospetto dipinta in volto. 

- Cosa succede qui...? - ebbe il coraggio di domandare padre Craig. 

- Oh, ecco qua padre Craig e Quaglia. Buongiorno, signori. Dove siete stati? - domandò loro padre Petrit in atteggiamento finto affabile. 

- Già, dove siete stati? - rimarcò Blake, guardandoli dall’altro lato della stanza, con le braccia serratamente conserte. 

- A fare delle commissioni – si affrettò a rispondere Quaglia, chiudendo la porta dietro di sé. 

- Volevamo porre anche a voi delle domande, ma Blake ha già risposto a tutto quello che volevamo sapere.  

- Che tipo di domande..? 

- Ci ho già pensato io – rispose Blake. 

- Ad ogni modo, padre e Quaglia, voi sapete dove siano finiti Heloisa e il piccolo Ioan? Blake ha detto di non saperlo. 

- ...Ioan...? - domandò padre Craig incredulo, puntando immediatamente gli occhi su quelli di Blake, i quali, a distanza, furono in grado di trasmettergli tutto ciò che avrebbero dovuto dirgli in un solo sguardo. 

- No.. non lo sappiamo neanche noi – si affrettò a rispondere Quaglia, mantenendo un tono naturale e sostenuto, senza aggiungere altro. 

- Capisco – concluse padre Thomas ritornando su Blake. - Voglio essere chiaro con voi, ragazzo – gli disse poggiandogli di nuovo quell’indesiderata mano invadente sulla spalla. - Heloisa è il nostro sospetto certo. Siamo abbastanza sicuri che potesse perpetuare solo lei il tremendo omicidio, spinta dalla gelosia. Quando la troveremo, prima la interrogheremo, poi, molto probabilmente... 

- La rinchiuderemo nelle segrete - completò la frase padre Cliamon. - Per poi decidere quale punizione le spetterà. 

Il rogo. 

Blake represse il desiderio di togliersi quella mano dalla spalla e di staccargliela con un’accetta. 

- Bene. Ora è meglio che togliamo il disturbo – disse il monaco sorridendogli affabile e allontanandosi da lui, dirigendosi verso la porta in compagnia degli altri due. 

Quando le tre presenze estranee se ne furono uscite di casa, padre Craig fece per prendere la parola, ma Blake, a distanza, gli fece segno di rimanere in silenzio, osservando con la coda dell’occhio fuori dalla finestra, ascoltando i loro passi farsi sempre più lontani. 

Quando fu certo se ne furono andati, Blake puntò i suoi occhi giudicanti sui due uomini. - Dunque? “Commissioni”? Fino a tarda mattinata? Non voglio sapere cosa steste facendo, non mi interessa. Ma quegli infami sono venuti qui mentre voi non c’eravate, e il vostro supporto avrebbe sicuramente aiutato a tenerli a bada.  

- Blake, mi dispiace...! - esclamò Quaglia, riconoscendo che il ragazzo avesse ragione. 

- Cosa vi hanno fatto?? - si affrettò a domandare padre Craig, avvicinandoglisi di un passo. 

- Cosa diavolo avrebbero dovuto farmi? Mi hanno solo riempito di domande – gli rispose alzando gli occhi al cielo e voltandosi verso il ripiano della cucina, dando loro le spalle. 

Si appoggiò con i palmi sul bordo, per far leva sulle mani e tenersi in piedi, rigettando la testa verso il basso mentre prendeva un bel respiro. 

- Blake, dove sono Heloisa e Ioan...?  

Eccola la domanda saliente. 

La domanda che Blake si aspettava gli venisse rivolta molto prima quella mattina, almeno all’alba, ma dato che padre Craig era tornato solo in quel momento era arrivata tardi, ma era arrivata comunque. 

Il giovane prete si era lievemente avvicinato a lui, poteva percepire la sua presenza dietro di sé, ma, come sempre, gli lasciava comunque i suoi sacrosanti spazi. 

- Blake... 

- Non riuscite a rispondervi già da solo? 

Devo farvi un disegno? - sbottò irritato, senza voltarsi. 

- Ma anche Ioan?! Com’è possibile?? Avevate stabilito che Ioan sarebbe rimasto qui – era stato Quaglia a parlare questa volta, il tono di voce più allarmato di quanto si aspettasse. 

- Oh, vi prego, non mettetevici anche voi due ora... - commentò Blake chiudendo gli occhi e massaggiandosi le tempie. 

Il tremendo mal di testa non se ne andava, anzi, tendeva a peggiorare. 

- Non può essere! Insomma... come ha potuto farlo?! - esclamò padre Craig sull’orlo del panico, stringendosi i capelli. - È impazzita per caso?? Non solo scappare via di qui affidandosi ad una sciamana, ma rapire anche suo figlio?? Dobbiamo riprendercelo con noi! 
Blake sorrise, di nervosismo e di scherno. - E come intendereste riprendercelo? Sono tutt’orecchie - domandò voltandosi finalmente verso padre Craig, fronteggiandolo.  

- Blake... non ditemi che intendete rimanere qui con le mani in mano..? Si tratta di Ioan! Non volete ritrovarlo anche voi? 

Fu in quel momento che il ragazzo rise ancora, per trattenere tutto il nervosismo che lo stava pervadendo da capo a piedi. - Oh, spavaldo padre, ditemi, vi prego... come pensate di trovarli? 

- Potremmo andare da Imogene e convincerla a dirci dove si trovano, o a riportarci solo Ioan.. Potremmo andare da Judith e spiegarle la situazione! Lei capirebbe e ci aiuterebbe a convincere Imogene! 

- Non coinvolgeremo Judith in tutto questo. 

Imogene non ci dirà nulla. 

Per quanto tutto ciò mi stia facendo avvelenare il sangue.. so che Heloisa avrà cura di lui. 

Ne ha sempre avuto cura. 

Se dovesse esserci qualcosa che non va Imogene verrà a chiamarci e ci avvertirà. 

Cercare di scoprire dove si trova e di andare da lei insospettirebbe ancor di più i monaci, i quali si convincerebbero che la stiamo aiutando a fuggire o nascondendo.  

Dovremmo comportarci come abbiamo sempre fatto, per non metterli in pericolo - decretò Blake, parlando con una calma e una razionalità di cui si sorprese egli stesso. 

- Ma Blake! - padre Craig non ci vedeva più dallo sconcerto e dalla frustrazione. - Per quale motivo ieri sera le avete messo in testa quest’assurda idea di fuggire via?? Non lo capite che in tal modo avete solo peggiorato la sua situazione?? Cosa credete che le faranno quando lei tornerà qui?? 

- Dunque insistete ancora, ancora e ancora. Nonostante sappiate benissimo che questa fosse l’unica soluzione attuabile, e che ci permetterà di prendere abbastanza tempo. 

- Siete uscito di senno?? La cercheranno ovunque!! E se dovessero trovarla?? 
- Non la troveranno. 

- E se dovesser- 

- Non la troveranno!  

Che il Diavolo possa prendervi ora, prete, tappatevi la bocca! 

Padre Craig ammutolì per un attimo, devastato da quella distanza, da quella lastra di ghiaccio eretta tra di loro.  

- Vi rendete minimamente conto della gravità di ciò che avete fatto, Blake? - riprese poi. - Avete spinto vostra madre tra le grinfie di una sconosciuta, l’avete persuasa ad affidarsi a lei per avere salva la vita, e ora non sapete neanche se Heloisa sia viva o morta, e vostro fratello con ella! Voi avete fatto questo! Avete agito in maniera tremendamente sconsiderata! 

- Padre, che diavolo state blaterando?? Era l’unico modo! - gli disse anche Quaglia. 

- No, che non lo era! Ed ora andrà tutto in malora! Per colpa sua! - esclamò puntando il dito su Blake. 

Il tempo sembrò fermarsi. 

Padre Craig ansimò, riprendendo fiato, come prendendo coscienza solo in quel momento della situazione creatasi e delle parole appena pronunciate. 

- Andatevene. 

Era stato solo un sibilo, un sibilo nitido e ben articolato, velenoso e agghiacciante.  

Padre Craig impallidì nel guardare l’espressione che Blake gli stava rivolgendo in quel momento. 

- Dato che non approvate il mio modo di agire, siete libero di andare via da questa casa – insistette, sempre più tagliente e apparentemente gelido, avvicinandosi di un passo al giovane prete, il quale lo fissava con gli occhi improvvisamente lucidi. 

- Stai scherzando, Blake? - gli domandò Quaglia incredulo, spaesato. 

- Niente affatto. Ora sono rimasto solo io qui.  

Non è il massimo, vero, padre? 

Eravate ospite di mio padre, non mio. 

Dunque vi suggerisco di andarvene, ora, se non volete ritrovarvi tutte le vostre cose gettate nel camino prima di sera. 

Padre Craig comprese di aver sbagliato. 

Di nuovo. 

Ma stavolta... il danno era irrecuperabile. 

Sarebbe stata davvero la fine. 

La fine di un’agonia durata mesi, ma che sembrava così vicina al paradiso da averlo accecato e da averlo reso diverso, diverso da se stesso. 

Aveva rovinato tutto, e se ne era accorto troppo tardi. 

Quaglia, confuso e atterrito da tutta quella situazione, cercò di salvare l’insalvabile: - Blake, ti prego, cerca di- 

- Ho detto andatevene!! - esclamò furente stavolta, facendo sussultare il giovane prete, il quale ritrovò improvvisamente l’uso delle braccia e delle gambe.  

Giunse nelle sue stanze, mise tutte le sue cose dentro una sacca e ritornò nella zona giorno. 

- Me ne vado – ebbe la forza di dire, poco prima di varcare quella porta. 

- Padre... dove andrete? Dove starete? Chi vi ospiterà? - gli domandò Quaglia apprensivo, avvicinandoglisi.  

- Starò da Judith per un po’, se mi ospiterà. Troverò un modo – gli rispose, accennandogli un sorriso distrutto. 

Poi, come sempre oramai, i suoi occhi virarono verso Blake, il quale era nella stessa posizione in cui lo aveva trovato appena entrato in casa: braccia serratamente conserte, a mo’ di scudo verso il mondo circostante, bacino appoggiato al bordo del tavolo, sguardo perso nel nulla, glaciale. 

Anche lì, anche in quel momento, si sorprese di provare solo amore verso di lui. 

Un amore totalizzante e spaventoso.  

Un amore che lo avrebbe spinto ad annullare le distanze in quell’istante esatto, a gettare le sue cose in aria e a correre verso di lui, pregandolo di dimenticare la conversazione appena avvenuta, chiedendogli scusa mille volte per come lo aveva trattato. 

Gli avrebbe chiesto scusa di averlo lasciato solo quella mattina, nonostante a Blake non importasse, rivelandogli che, per tutta la mattinata aveva desiderato solamente defilarsi e tornare a casa da lui, per sapere come si sentisse. 

Gli avrebbe detto che gli dispiaceva per suo padre, almeno mille e uno volte, promettendogli che lo avrebbe aiutato a non soffrire più, a non stare più male. 

Gli avrebbe chiesto scusa per non aver avuto riguardo per il suo stato fisico, perché era visibilmente stanco e spossato, ma padre Craig gli aveva urlato addosso comunque.  

Gli avrebbe chiesto scusa per non avergli domandato subito come si sentisse, cosa provasse, invece di attaccarlo appena messo piede in casa, per un motivo che ora gli sembrava così maledettamente stupido. 

Gli avrebbe detto che avrebbe accettato la decisione sua e di Heloisa, nonostante non la condividesse. 

Gli avrebbe detto che non lo avrebbe lasciato solo anche lui. 

Gli avrebbe detto che lo avrebbe persino aiutato negli esperimenti come faceva Quaglia, pur di non lasciarlo solo, in balìa dei suoi demoni interiori e di qualsiasi cosa lo stesse divorando da dentro. 

Gli avrebbe detto che ci sarebbe stato. Sempre, fino alla fine dei suoi giorni. 

Ma tutto ciò che fece... fu salutarlo con la mano, trattenendo a stento le lacrime e uscendosene di casa. 

Il silenzio calò per interi minuti, tra Quaglia e Blake.  

- Sei adirato con me per averlo cacciato – non era una domanda, ma un’affermazione che Blake dava per assodata, pregna di rassegnazione. - Puoi andartene anche tu. Non ti tratterrà nessuno. Sarà meglio per tutti – disse voltandosi nuovamente verso il ripiano della cucina, dandogli le spalle. 

Quaglia, in poche falcate, lo raggiunse. 

- “Sarà meglio” per chi...? - gli domandò con voce ferma ed estremamente vicina. - Io non me ne vado. Io non ti lascio. Rimango qui con te. Ti è chiaro il concetto? 

Blake si voltò verso di lui, trovandoselo a due palmi dal viso. Lo fissò negli occhi senza dire una parola, poi gli accennò un lieve sorriso. 

Quaglia ricambiò. - Siamo solo noi due, quindi. D’ora in poi cucino io. 

Blake gli diede un calcio sottogamba in risposta, poi spostando lo sguardo verso il corridoio. 

Quaglia intercettò subito quell’espressione. 

- La fucina – disse l’uomo. 

Blake annuì. - Dobbiamo rimetterla in sesto. C’è qualcosa che devo confessarti – gli disse puntando i suoi tempestosi occhi blu su quelli azzurri e frementi di aspettativa dell’uomo.  

- L’ho trovata, Quaglia. 

Ho trovato ciò su cui tuo nonno ha lavorato per tutta la vita. 

Ho scoperto la polvere nera 

E dicendo ciò, le iridi del ragazzo assunsero una sfumatura più scintillante, accecante quasi, e al contempo più scura e profonda, come un pozzo con un immenso diamante sul fondo.  

In quel momento di pura contentezza ed eccitazione per la notizia appena appresa, Quaglia capì che non avrebbe più tirato fuori Blake da quell’abisso senza fine.  

Mai nessuno vi sarebbe riuscito, in quanto quegli occhi ora brillavano come non li aveva mai visti brillare prima, emanando luce propria e urlando ai sette venti: Toccherò il sole. Fosse l’ultima cosa che farò.  

 

 

“Caro Blake, 

vi scrivo per la prima volta, ammettendo di sentirmi un po’ impacciata nel farlo. 

Siamo praticamente due estranei, me ne rendo conto, ma il fatto che condividiamo questo desiderio di acculturarci malgrado le rigide regole del villaggio, il fatto che siamo entrambi alfabetizzati e traboccanti di curiosità, mi spinge a desiderare di condividere con voi almeno una parte del mio mondo interiore. 

Devo confessarvi che ho pensato molto ai nostri incontri. 

Quando ci siamo visti l’ultima volta, ieri, al funerale del vostro caro padre defunto, ho sentito una connessione. Ma forse sono stata l’unica. 

Come avrete compreso, non ho peli sulla lingua. 

Mi piace parlare schiettamente, con voi in particolar modo, mi viene spontaneo. 

Non avrei mai pensato di sentirmi tanto vicina a voi, ieri, conoscendoci da così poco. 

Il vostro dolore si è trasformato nel mio. So che può sembrare presuntuoso da parte mia, e sicuramente starete pensando che io lo sia. 

Ma ora basta, non voglio più rammentarvi la tragedia che avete appena vissuto, e che sicuramente brucia ancora come lava nel vostro giovane cuore. 

Non voglio mettervi fretta riguardo al libro, però sono curiosa di sapere se lo avete iniziato. 

Quando lo inizierete, vi prego di farmelo sapere e di dirmi, man mano che procedete con la lettura, cosa ne pensate. Nonostante io vi abbia già raccontato tutto. 

Sono stata pessima quel giorno alla biblioteca, non credete? 

Quel nostro primo incontro sicuramente vi avrà fatto una pessima impressione, dato che non avete voluto neanche rivelarmi qualcosa di naturale e semplice come il vostro nome. 

No, non è vero. Il nome non è affatto qualcosa di semplice. 

Il nome ci definisce. Il nome ci determina e ci identifica. 

Il nome è importante, molto importante. 

Ora capisco perché non avete voluto dirmelo. 

Tuttavia, credo di essermi riscattata al nostro secondo incontro, non credete? 

Non mi piace vantarmi di salvare la pelle alle persone, ma sto scoprendo che con voi mi piace atteggiarmi in modi che non esplicito mai con altri, ma che mi sono sempre appartenuti, dunque... 

Sono felice di aver evitato che padre Petrit vi sottoponesse al rito di purificazione.  

Per quanto riconosca di essere stata io stessa a proporlo come soluzione per evitare i roghi, nel periodo di cui non ho più memoria, ritengo comunque che non debba essere abusata come metodologia. 

Si tratta pur sempre di un metodo di tortura mentale, per quanto lieve.  

Mi spiace che siate stato accusato ingiustamente, specialmente un giorno prima che accadesse la tremenda tragedia. 

Sono cosciente che vi sono moltissime cose che non so di voi, probabilmente più di quante io immagini. 

Ma la curiosità nei vostri confronti mi spinge a voler sapere di più. 

E con la lettura del libro e i vostri commenti a riguardo, sono sicura che riuscirò un po’ nell’intento di esplorarvi a dovere. 

Vi sembro di nuovo troppo pretenziosa, non è vero? 

La mia compagna, Imogene, non fa altro che ripetermelo. 

Se sapesse cosa sta facendo ora, scrivendovi nel cuore della notte, sicuramente mi direbbe di essere presuntuosa nel credere che voi possiate ben accogliere delle lettere da parte di una sconosciuta. 

Ma non mi importa. 

Ultimamente i bambini che porto in grembo non mi stanno facendo dormire. 

Si muovono costantemente ed è come se cercassero di risucchiarmi tutta l’energia vitale. 

Ho sempre meno forze, ma cerco di nasconderlo come posso. 

La mia energia, nello spirito, è ancora tanta. 

Spero lo sia anche la vostra. 

La forza che ho visto in voi, nei nostri pochi incontri, mi ha colpita. È talmente sfrigolante sotto la vostra pelle, da emergere dai vostri occhi distintamente, e non lo sto dicendo per compiacervi, non ci tengo a farlo. 

Spero amiate scrivere lettere anche voi, e spero anche che la vostra calligrafia sia comprensibile. Da una mente tanto pratica e matematica come la vostra, mi aspetto ordine e pulizia nella scrittura. 

Tornando al discorso dei miei bambini, forse troverete strano quello che sto per dirvi, ma è da molto che sento l’esigenza di dirlo a qualcuno. 

Mi prenderete per folle, ne sono certa.  

Ma forse voi avrete un’interpretazione tutta vostra a ciò che sto per dirvi, che mi sarebbe d’aiuto. 

Ultimamente, grazie alle energie magiche di Imogene, sto avendo modo di esplorare sprazzi di ricordi e di sensazioni della notte in cui sono stata ingravidata. 

Ho capito che era una notte di festeggiamenti, di celebrazione. 

Probabilmente un matrimonio. 

E ai matrimoni si sa, vi sono dei rituali da seguire. 

Il gioco dello specchio ad esempio. 

Talvolta rimane un rito volto solo a testare gli sposi, altre volte si trasforma in altro. 

La probabilità che la nottata sia sfociata in un’orgia collettiva non mi stupisce affatto. 

Tuttavia.. mi stupisce che possa davvero esser successo ciò che credo esser successo. 

Ho questa costante sensazione a tormentarmi, di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato a qualcuno. 

È come una maledizione.  

Ho appreso che è accaduto qualcosa di grave, e io non so per certo cosa. 

L’incertezza mi sta tormentando, nonostante io abbia ben più di qualche sospetto, tremendo sospetto, a riguardo. 

Per questo sono decisa ad andare ancora più a fondo, per scoprirlo. 

Vorrei almeno sapere chi fosse presente quella notte, per indagare con più chiarezza, ma non ricordo quasi nulla, ahimè, e senza le giuste stimolazioni di Imogene temo che sarei in alto mare, data la mia perdita di memoria. 

Perché? Perché ho perduto la memoria? 

Me lo sto chiedendo sempre più spesso, sapete? 

In quest’ultimo anno sembra io abbia compiuto molte scelte, che ora, nella totale inconsapevolezza, non riesco a spiegarmi. 

Cosa darei... per riavere i miei ricordi. Tutti quanti. 

Probabilmente sarei disposta a dare via un braccio o entrambi i miei occhi.  

Voglio scoprire cosa è accaduto in questo intero anno di buio mnemonico per me.  

Vorrei scoprire chi mi ha fatto questo. Non tanto per punirlo, bensì per chiedergli ‘Perchè?’ 

Ora la smetto, con questi flussi di coscienza inutili.  

Sono felice, a modo mio, al momento, nonostante questo grande vuoto che mi pesa sul cuore. 

Posso almeno dire di ritenermi felice per avervi conosciuto. 

Forse, se non avessi perso la memoria, io e voi non ci saremmo mai incontrati, chi lo sa. 

Tornando a quella notte...  

Potrei aver agito in maniera tanto crudele poiché sopraffatta dagli effetti di un potente incantesimo, e di qualche mio recondito piacere carnale che è stato liberato senza freni inibitori. 

Tuttavia... per quanto mi disturbi ammetterlo, questa sarebbe solo una scusa. 

Quella notte ho perduto la mia umanità, me lo sento. 

Ho agito spinta da un istinto animalesco senza eguali e ne ho pagato amaramente le conseguenze. 

Cosa fareste se scopriste di aver fatto tanto male a qualcuno?  

A qualcuno che non rammentate. 

Vorrei solo trovare colui che ha subìto tutto quel male da me, e chiedergli perdono, in ginocchio. 

Anche se ciò non servirebbe ad assolvermi, lo so. 

Vi sto rivelando tutto ciò col rischio che voi possiate ritenermi una mente malata e meschina, e decidere di non rispondermi, tagliando ogni contatto con me.  

Mi andrebbe bene. Perché, in fondo, lo meriterei. 

Cosa ne pensate? 

Se credete che io sia pazza, non mi offenderei. Talvolta me ne convinco io stessa. 

Solo una pazza potrebbe convincersi che quella notte vi sia stato un collettivo scambio di corpi tra persone di sessi differenti.  

Solo una pazza crederebbe che quella notte l’abbia vissuta nei panni di un uomo, e che abbia trattato quel corpo nel peggiore dei modi possibili. 

Solo una pazza crederebbe che colui che ha abitato il mio corpo, si sia vendicato dell’offesa subìta permettendo ad un altro uomo di ingravidarmi.  

Solo una pazza. 

Mi piacerebbe conoscere il vostro parere.  

Così come mi piacerebbe sapere se voi, per caso, ricordate di aver partecipato a questa celebrazione, oramai avvenuta mesi fa. 

Se sì, potete confermare le mie deduzioni? 

Ricordate qualcosa vividamente? 

Vi è stato davvero un devastante rito dello specchio trasformatosi in incantesimo collettivo? 

Anche voi ricordate qualcosa riguardo lo scambio di corpi? Forse, se eravate presente, anche voi avete vissuto la stessa cosa, e vi siete ritrovato nel corpo di una donna. 

Spero, tuttavia, ne siate uscito completamente indenne. 

Nel caso foste stato presente anche voi, parlatemi della vostra esperienza e dei vostri ricordi a riguardo. 

La mia lettera giunge al termine, mio illustre alchimista. 

Concludo dicendovi che, alla fine, ho davvero tenuto la gattina. 

È vivacissima e un po’ aggressiva, ma ha i suoi di dimostrare affetto. 

L’ho chiamata Nellie. 

Scoprirete come mai ho scelto questo nome quando arriverete alla fine del libro. 

Rimango in attesa di una vostra lettera. 

 

Vostra, Judith.” 

 

 

Era un pomeriggio stranamente soleggiato e Imogene camminava lungo la navata della cattedrale del Creatore, con la testa colma di pensieri. 

Quel mattino, sua cugina si era svegliata per la prima volta dentro la sua dimora in mezzo alla palude. Isolata, piccola, rude e priva di tutte le comodità che possedeva nella casa che aveva lasciato e che condivideva con suo marito e i suoi figli. 

Heloisa non aveva osato lamentarsi, ma Imogene aveva notato distintamente la smorfia maltrattenuta sul suo viso, dinnanzi alle condizioni in cui avrebbe vissuto da lì in avanti, sino a data non concordata. 

Sì, è in questo buco dimenticato dagli dèi che ho trascorso la maggior parte della mia vita, cugina avrebbe voluto dirle con fierezza. 

Poi... era arrivata la parte difficile.  

Il ragazzino si era svegliato dall’effetto del sonnifero, che lo aveva fatto dormire come un sasso per l’intera nottata. 

E la reazione, no, non era stata delle migliori, come si erano prospettate. 

Heloisa aveva cercato in tutti i modi di calmarlo, e Imogene stessa gli aveva preparato un infuso di camomilla e melissa, per farlo rilassare. 

Ma il bambino piangeva, piangeva, piangeva. 

Per la morte del padre. Per esser stato strappato via dal fratello. Per essere stato trascinato via di casa, per esser stato portato contro la sua volontà in un luogo estraneo e affatto accogliente. 

Alla fine, il pianto ininterrotto lo aveva stancato talmente tanto, che era ripiombato a dormire. 

Imogene si augurava caldamente che, col tempo, il ragazzino avrebbe cominciato ad accettare quella situazione e ad uniformarvisi, senza lamentele. Magari già da quella sera stessa, quando Imogene sarebbe ritornata lì per portare loro cibo comprato al mercato e altri viveri. 

Di certo non avrebbe costretto Heloisa ad andare a caccia per procurarsi il cibo da sola. 

Sua cugina era sempre stata tutt’altro che selvaggia.  

Con la sua sottanella ben ricamata di stoffa scelta, i suoi voluminosi ricci scuri e perfetti, e il portamento da principessa mancata, Imogene e Drusilla avevano sempre pensato che la loro cuginetta non avrebbe mai potuto vivere in mezzo alla palude. 

Per tale motivo, avevano concordato che Imogene sarebbe andata da loro a controllare la situazione due volte al giorno: all’alba e la notte, per non destare alcun sospetto e non attirare l’attenzione dei monaci. 

Se quei mostriciattoli avessero scoperto dove Heloisa si nascondesse, tutti i loro sforzi sarebbero stati vani. 

E persino la famiglia di sua cugina ci avrebbe rimesso, Ioan e Blake compresi. 

L’impresa più ardua di tutte era tenere tutto nascosto a Judith. 

Non che Imogene non si fidasse di Judith, ma rivelare tutto alla sua compagna avrebbe significato costringerla a rimanere in silenzio ed esporla al pericolo, motivo per cui Imogene avrebbe fatto di tutto per tenerla all’oscuro. 

Tuttavia, non sarebbe stato poi così difficile, dato che la sua amante ultimamente era perennemente distratta, troppo presa dalle sue cose, e persino la notte la lasciava sola in quell’enorme talamo, dato che non riusciva a dormire. 

Era stato solo grazie all’insonnia della ragazza dalla chioma cremisi se Heloisa era riuscita a raggiungere Imogene indisturbata la notte prima, e a spiegarle tutto senza farsi vedere e sentire da nessuno.  

Fortunatamente, le due riuscivano ancora a ritagliarsi degli spazi di tempo solo per loro. 

Ma quel pensiero, quel pensiero martellante turbava la sciamana sin da quando aveva lasciato la sua dimora nella palude in tarda mattinata: 

- Imogene, tu vivi lì. 

- Sì, vivo dentro la cattedrale del Creatore, dunque? 

- Dunque, hai l’opportunità di indagare.  

- Riguardo questo assurdo sospetto della perversione dei monaci?? Cugina, ne abbiamo già discusso mezz’ora fa. Mi stai parlando di questa faccenda da quando tuo figlio si è finalmente acquietato cedendo al sonno, smettendo di urlare in agonia come un corvo morente. 

- È un bambino, Imogene... e gli manca suo fratello. 

- Mi sembra sin troppo disperatamente legato al fratello. 

- Dagli tempo di ambientarsi e sii paziente. Siamo qui solo da stanotte. 

- E se scappasse via? 

- Cosa..? No, non accadrà mai! Ioan non farebbe mai una cosa simile, è sempre stato un bambino obbediente e sa bene che se mettesse piede fuori di qui da solo, non sopravvivrebbe neanche mezza giornata nella palude.  

Ad ogni modo, tornando al punto: non è una fantasia, Imogene, sento che non lo è. 

In passato è successo qualcosa, e i monaci ne sono stati i protagonisti, i carnefici. 

- Sulla base di cosa affermi tutto questo? 

- Istinto. 

Imogene era scoppiata a ridere a crepapelle, facendo comunque attenzione a non svegliare il gracilissimo angelo biondo addormentato.  

- Istinto..?! 

- Cugina, non burlarti di me, te ne prego.  

So che mio marito è morto e il mio dolore è ancora furente dentro di me, perciò potrebbe sembrarti solo un delirio dovuto alla sofferenza.. ma ti giuro, sul mio amore per i miei figli e per Rolland, che sono convinta di ciò che dico. La tua amante è stata stuprata da bambina in una di quelle dannate cattedrali. Ho visto con i miei occhi un bambino venir molestato e toccato in maniera sudicia e torbida da un monaco, lì dentro. Non credi valga la pena saperne di più? Non ho mai indagato a riguardo, perché sono sempre stata una codarda, ma ora voglio smetterla di avere il terrore di qualsiasi cosa e di piangermi addosso, affogando nel rammarico e negli errori commessi.  

Lo farei io stessa se ne avessi l’occasione, se vivessi lì dentro come te. 

Ma, purtroppo, io devo rimanere nascosta qui. 

Ma tu... tu puoi farlo. 

Se non vuoi farlo per me, cugina... fallo per Judith, la tua amata Judith. 

Lei ha subìto tutto ciò e non è mai stata vendicata. 

Non sei curiosa di sapere se anche altri/e prima di lei hanno vissuto lo stesso tremendo trauma?  

Imogene aveva vacillato, dinnanzi a quelle parole. 

- Se davvero credi che troverò qualcosa.. non dovrei cercare, piuttosto, nella cattedrale del Diavolo? Judith ha subìto le violenze quando viveva lì, e tu hai visto quel porco abusare del bambino sempre nella cattedrale del Diavolo. 

- Inizia a cercare dalla cattedrale che preferisci. Sono certa che almeno in una delle due troverai qualcosa. Se ti aggirassi in quella del Creatore non desteresti sospetti, dato che vivi lì, solo per questo ti consiglierei di partire da lì - Heloisa era sollevata che Imogene le stesse dando ascolto e stesse cercando di dare peso alle sue parole. 

- Oramai è una battaglia già persa – disse la sciamana. - Anche se dovessi trovare qualcosa... una prova, qualsiasi cosa... è una battaglia già persa, cugina. Chiunque sia stato abusato, oramai ha già subìto tale inferno. 

- Non è mai una battaglia già persa. 

Mai. 

Così Imogene ora si ritrovava ad aggirarsi per la cattedrale del Creatore, guardandosi cautamente intorno per evitare di essere adocchiata da qualche monaco. 

Guarda tu, cosa mi tocca fare... imprecò mentalmente, frustrata ma decisa a portare a termine la sua ricerca. 

Si domandò se qualcun altro, prima, avesse provato a cercare, ad aggirarsi in quel labirinto pieno di cunicoli e di corridoi nascosti che erano le imponenti e oscure cattedrali di Bliaint. 

Forse Judith avrebbe potuto farlo. 

Oppure, si era sempre limitata a stare al suo posto, in quanto non spinta dalla stessa ossessione da cui era spinta Heloisa al momento. 

Imogene si addentrò dentro il sotterraneo in cui si trovavano le cucine, salutando le cuoche cordialmente, imboccando l’ennesimo cunicolo senza capo né coda. 

Oramai stava cercando da un’ora. 

Un’ora e ancora nulla, né un segno, né un indizio che potesse farle capire qualcosa. 

Decisa a tornare indietro e a lasciar finalmente perdere, la sciamana fece per uscire da uno stretto passaggio in cui si era infilata, ma, improvvisamente, i mattoni particolarmente decrepiti su cui aveva puntato i piedi cedettero, essendo quella una zona affatto ristrutturata dell’edificio, facendola capitombolare malamente e dolorosamente dentro un sotterraneo diverso rispetto alle cucine, molto più profondo, più spazioso e palesemente inutilizzato da tempo. 

Là dentro vi era una nauseante puzza di chiuso e di umido, non essendovi alcuna finestra che desse sul mondo esterno. 

Imogene si rialzò in piedi tossendo polvere e terra, si pulì distrattamente la sottana, afferrò una fiaccola e la accese, iniziando ad osservare quel buco buio e maleodorante dall’aspetto macabro.  

- Ma che diavolo... - sussurrò a se stessa, illuminando l’ambiente circostante, avvicinandosi alle pareti. 

Quando giunse abbastanza vicina alle pareti di quella cripta, la sciamana raggelò e impietrì. 

“Padre Joyjon dice che sono passate ormai tre generazioni dalla divisione del villaggio, e quindi le differenze tra servi del Diavolo e del Creatore sono diventate visibili e palesi.  

Noi siamo la terza generazione. Dice che si vede, perché noi siamo talmente belli da mozzare il fiato. 

Non so che significa ‘servi del Diavolo’ né ‘servi del Creatore’, non so che significa essere belli. 

Per me siamo tutti uguali, noi e i monaci che si curano di noi.” 

Imogene deglutì rumorosamente, continuando a leggere quelle scritte sui muri, illuminando da vicino più porzioni della parete. 

Era una scrittura amatoriale, totalmente priva di varietà lessicale, come quella che aveva lei da bambina, quando Guadalupe le aveva insegnato a scrivere da sole poche settimane. 

Bambini. 

“Padre Joyjon si vuole far chiamare così perché dice che lui porta ‘gioia’. 

Ma non capisco neanche questo. 

Padre Joyjon dice che non capisco mai niente, ma che gli piaccio tanto comunque. 

Gli piaccio talmente tanto che sono il suo preferito tra tutti, e mi vuole sempre con sé. 

Infatti chiama sempre me, mai gli altri.  

E quando gli altri monaci provano a chiamarmi, lui si arrabbia talmente tanto da diventare crudele. 

Ho imparato cosa vuol dire crudele ieri. Quando ho chiesto a padre Joyjon cosa vuol dire ‘servi del Diavolo’, lui ha iniziato a tapparmi la bocca e a spingermi sul letto e a salire sopra di me, urlandomi di non fargli mai più domande del genere, mentre faceva le solite cose che mi fa sempre, ma facendomi male, molto più male stavolta. E allora madre Moreen è entrata in stanza in quel momento, ha iniziato a piangere mentre ci guardava e ha supplicato padre Joyjon di essere meno ‘crudele’ con me. 

Quindi ora so che vuol dire ‘crudele’ e l’ho detto anche a tutti gli altri.  

Sto imparando un sacco di cose, non mi annoio più come prima. 

Comunque, non so neanche se le sto scrivendo bene tutte queste cose. 

Ho imparato a scrivere da poco, perché madre Moreen me lo insegnava, per farmi annoiare meno. 

Ma poi gli altri monaci l’hanno scoperta, l’hanno sgridata e quindi non è più venuta qui ad insegnarmi.  

Quindi sto imparando da solo, copiando le parole dai libri che le monache ci hanno portato di nascosto. 

Ma tanto nessuno legge mai, perché nessuno sa leggere qui. 

Solo io. E non so neanche perché continuo a scrivere.  

Mi fanno sempre tanto male le dita quando scrivo sui muri con il bastoncino.” 

Imogene andò avanti nella lettura, ancora, ancora, e ancora. 

Gli occhi, i suoi occhi che non incontravano le lacrime dal giorno in cui aveva perso la sua bambina, si inumidirono, liberando scie di acqua salata bollente, amara. 

Fece un incantesimo a quelle pareti, copiando con la magia sciamanica tutto ciò che vi era scritto lì, per trasporlo su un taccuino originariamente bianco, il quale iniziò a macchiarsi di inchiostro dal nulla. 

Quella cripta era sepolta come una tomba.  

Sepolta da chissà quanti anni, ma sicuramente non molti. 

L’avevano sepolta... per nascondere il loro peccato.  

Avevi ragione, cugina... 

Avevi ragione su tutto. 

 

 

 

 

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Capitolo 49
*** Apoteosi ***


Apoteosi
 
 
Erano trascorsi quattro giorni. Quattro giorni di lettura ininterrotta di quei “diari”.
I diari dei bambini sciagurati.
Heloisa divorava, beveva quelle parole come fossero continue sorsate di acqua gelida, capace di congelarle la gola e lo stomaco insieme.
Eppure, non riusciva a farne a meno.
Imogene, di giorno in giorno, si intrufolava furtivamente nella cripta segreta e copiava quelle scritte sui muri ricolmi, grazie alla magia, e lei se le ritrovava scritte su quel taccuino.  
Avevano scoperto essercene altre, di cripte.
Anche nella cattedrale del Diavolo ve ne erano, sempre seppellite allo stesso modo, per tenerle nascoste.
Imogene le aveva scovate grazie alla magia sciamanica.
Era come se l’intero villaggio fosse disseminato di cripte…
Solo che, nelle altre, non vi erano tutti i diari e le scritte che vi erano nella prima che Imogene aveva scovato, la quale presentava un immenso tesoro di quelle agghiaccianti e inconsapevoli testimonianze.
Imogene tornò alla casa alla palude, come ogni sera, e trovò sua cugina ancora impegnata a leggere, mentre Ioan dormiva.
- Sembra che il bambino che scriva più spesso si chiami “Dom”. Dunque Dominic, suppongo – esordì Heloisa ancora con il viso totalmente sepolto nelle pagine, non salutando neanche sua cugina.
- Ho preso la cena. Ma vedo che il “fiorellino” è già crollato, mentre tu sembri troppo presa da quelle pagine per avere fame. Vorrà dire che mangerò questo tacchino da sola.
Ad ogni modo, buonasera anche a te, cugina – rispose Imogene, tirando fuori dalla sacca l’animale già spellato e mettendolo a cuocere sul fuoco, immerso nelle spezie.
- Sto leggendo una pagina in cui parla un’altra bambina, senti qui:
“Oggi devo esercitarmi a scrivere perché non sono brava come Dom a farlo.
I più bravi sono Dom e Nadia.
Ma Dom dice che scrivo cose stupide, quindi è meglio che non lo faccio.
Allora vorrà dire che oggi scriverò cose non stupide:
questa notte sono morti altri tre di noi.
Ce lo ha detto padre Hadler stamattina.
Ma noi ce ne eravamo già accorti che erano morti, perché non respiravano più.
Maja è morta perché aveva la febbre da troppo tempo ed era dimagrita troppo.
Yannick è morto di freddo.
Mentre Olga è morta perché padre Ross è stato troppo violento con lei, e sembra che ha perso troppo sangue.
Succede spesso, e non tutti lo sopportano bene.
A me, per esempio, è successo spesso di perdere tanto sangue dopo che padre Ross mi aveva chiamata nella sua stanza, ma io sono resistente.
Madre Moreen dice che solo i più resistenti di noi sopravvivranno.
Solo chi non dimagrisce troppo quando non mangia, solo chi non soffre il freddo, solo chi sopporta bene le malattie e non sente il dolore della violenza.
Siamo rimasti in venti, forse.
Ma se domani ne muoiono altri tre, saremo diciassette.
Oggi so già che non mi chiamerà nessuno.
L’altra volta i monaci si sono arrabbiati con me perché non riuscivo a soddisfarli.
Non mi importa essere una delle loro preferite.
Tanto so già chi sono i loro preferiti, lo sanno tutti, quelli che vengono chiamati sempre:
Per i maschi è Devin, perché Devin è tanto obbediente e servizievole, fa tutto quello che loro gli dicono. In realtà, il loro vero preferito è Dom, perché i monaci dicono che Dom è il più bello. Però, anche se è tanto bello, rimane troppo testardo e impertinente. Dom non fa mai tutto quello che loro gli dicono, perché a lui piace anche fare quello che vuole.
Le preferite di noi femmine sono Sarah e Amelia. Sono le preferite perché sono tanto belle e tanto ruffiane. Sono bravissime a soddisfare i monaci in ogni modo, anche quando fanno le richieste più strane.
Non mi mancheranno Maja, Yannick e Olga.
Così come non mi mancano Grace e Tara” – concluse Heloisa, e non diede il tempo a Imogene di rispondere che riprese immediatamente: - Questo è Dominic, invece:
“Tutti dicono che moriranno altri di noi se le temperature si abbassano ancora e se i monaci continuano ad essere così violenti con noi.
Se le temperature si abbassano ci daranno anche meno cibo da mangiare.
Io penso che, se ne moriranno altri, sarà meglio.
Almeno avremo più cibo e coperte per noi e staremo più caldi.
Tommy dice che non dovrei dire certe cose, e che i monaci potrebbero arrabbiarsi.
Ma io lo so che i monaci non si arrabbiano per queste cose.
Si arrabbiano per molto altro.
Harper ieri ha scritto sul muro e mi ha promesso che non avrebbe scritto cose stupide.
Io ho letto quello che ha scritto. Bugie.
Non è vero che i monaci hanno preferiti.
Siamo tutti preferiti fin quando non si stufano o non li facciamo arrabbiare.
Anche io lo pensavo, prima.
Pensavo che dessero da mangiare di nascosto a Sarah perché lei è tanto brava ad usare la lingua.
Come faceva l’anno scorso padre Joyjon con me.
Ma poi ho capito che nessuno di noi riceve più cibo in più, perché non ne hanno più neanche per loro.
Moriremo tutti di fame e freddo prima del prossimo inverno.
Gli altri mi chiedono come faccio a sapere tutte queste cose, ma io le so e basta.
Oggi è successa una cosa. Cam ha detto che sicuramente i nostri genitori là fuori ci stanno cercando.
Sono rimasti tutti zitti quando l’ha detto.
L’ho scoperta io per primo la cosa dei genitori: un giorno, quando eravamo a letto, padre Joyjon mi ha parlato dei suoi genitori che stavano per morire di vecchiaia. E mi ha spiegato che i genitori sono una mamma e un papà, e che tutti ce li hanno.
Da quel giorno i monaci ci dicono sempre che nessuno di noi bambini ha dei genitori, perché noi siamo speciali.
Però noi non ci crediamo.
E se abbiamo dei genitori, Cam dice che ci stanno cercando, perché non sanno dove siamo.
Ma perché ci cercano se ci hanno dato ai monaci?
O forse sono i monaci che ci hanno portato via di nascosto.
Ma se loro ci stanno davvero cercando… perché non ci trovano mai?”
- Accidenti.. – commentò Imogene, trafficando ancora con il tacchino sul fuoco. – Mi piace lui. Come sai che è Dominic a scrivere?
- Riconosco la calligrafia oramai. E poi.. lo riconosco da quello che scrive, da come lo scrive. Ho letto così tanto i loro “diari”, da darmi l’impressione di conoscerli, a volte.. come se fossero qui davanti a me, lui soprattutto.
Non so quanti anni abbia, però, o che aspetto abbia, nessuno di loro.
Non credo avessero specchi, lì dentro. Magari aveva già sedici anni quando ha scritto questi diari, ma credeva di essere ancora un bambino perché i monaci glielo facevano credere… – disse Heloisa, continuando a leggere silenziosamente. – Devo sapere di più su di loro. Insomma, sulla gerarchia che vi era dentro queste cripte, tra i bambini. Dominic e Harper parlano dei preferiti, parlano di come li trattavano i monaci, del fatto che soffrissero la fame, il freddo e la crudeltà di quei rapporti sessuali abominevoli, ma… voglio di più, mi serve sapere di più.
- Di più? Cosa vuoi sapere più di questo, Heloisa?
- Voglio sapere tutti i nomi dei monaci che hanno compiuto questo scempio.
Voglio scoprire anche i nomi delle monache che li coprivano.
Voglio scoprire chi ha dato inizio a tutto ciò, per quanto tempo è continuato.
Vorrei sapere cosa provassero, nel profondo… come vivessero tutto ciò, quali menzogne raccontavano loro i monaci.
Voglio scoprire se qualcuno di loro ha mai provato a scappare.
Dominic faceva tante domande, certo, ma sembra un bambino intelligente, non credo sia stato tanto sprovveduto e avventato da provare a fuggire.
Però avrebbe potuto tentare… magari, dato che piaceva tanto ai monaci, loro lo avrebbero risparmiato anche se lo avessero scoperto e riacciuffato.
E poi, non dicono dove i monaci mettevano i cadaveri dei bambini che morivano…
Heloisa, avendo già avuto il tempo di metabolizzare tutto ciò, riusciva a parlarne con lucidità.
Ma, all’inizio, non era stato così. Il primo giorno, quello in cui sua cugina le aveva portato il taccuino e le aveva detto di aver scoperto che le sue teorie fossero fondate, non immaginava minimamente la portata di tutto ciò.
Aveva pianto. Aveva pianto per un’intera nottata e un’intera giornata. Alternava lacrime amare per Rolland e per quei bambini, man mano che leggeva le parole di Dominic impresse sulla carta.
Voleva tanto sapere che aspetto avessero.
Avrebbe dato tutto per scoprirlo.
Così da poterli immaginare più reali.
Ioan, dal canto suo, si era quasi rassegnato all’idea di dover rimanere lì, in quel luogo selvaggio, con lei e Imogene, ma talvolta si lamentava e piangeva ancora.
Non capiva appieno come mai sua madre si angustiasse tanto per le parole scritte in quel taccuino, ed Heloisa preferiva non farglielo sapere.
La sola idea che lui potesse venire a conoscenza di tanto male…
Ma Ioan, fortunatamente, non faceva troppe domande.
Anzi, non parlava proprio. Con Imogene non aveva scambiato neanche una parola. La considerava la sua rapitrice, evidentemente.
Si era rinchiuso in un mutismo scandagliato in una routine semplice: dormiva fino a tarda mattinata, mangiava il cibo che aveva portato loro Imogene, giocava con il fagiano, si lavava con l’acqua dolce del piccolo torrente a pochi minuti dalla casa, poi tornava nella dimora e di riaddormentava.
Heloisa, dal canto suo, era troppo impegnata a leggere tutto il giorno.
- Tempo al tempo, cugina.
Dobbiamo informarci di più su tutta questa storia.
So che sei impaziente di avere risposte.
Come lo sei di muovere guerra all’ordine dei monaci, e di far sapere a tutti cosa è stato fatto.
Lo sono anche io.
Tuttavia, dobbiamo andare fino in fondo a questa storia, prima.
- Secondo te come facevano a nascondere la scomparsa di tutti quei bambini?
- Probabilmente li rapivano quando erano ancora in fasce, facendo credere ai genitori fossero morti. Si saranno inventati una sorta di epidemia.
Erano monaci, d’altronde: la gente prendeva per vero e consacrato tutto ciò che fuoriusciva dalle loro fetide bocche.
- Quando tutto questo sarà finito… nessuno di loro potrà più dettar legge. Mai più – affermò Heloisa, risoluta e inviperita.
- Dobbiamo prima scoprire se anche loro hanno mai compiuto atti simili.
Non possiamo accusarli di un peccato che hanno commesso i loro antenati secoli fa.
- Studierò ancora questi diari. Magari ce ne sono alcuni più recenti.
Tu, intanto, cerca di penetrare anche nelle altre cripte.
- Non è così facile con i monaci alle calcagna.
Già sto rischiando tanto venendo qui ogni sera, Heloisa.
Probabilmente è un miracolo divino che Judith non si sia resa conto di nulla.
E, adesso, dobbiamo preoccuparci anche di un paio di occhi invadenti in più… - concluse Imogene servendo il tacchino a sua cugina e a se stessa, accomodandosi di fronte a lei.
- Di chi parli?
- Non te l’ho detto? Il prete straniero che ospitavate in casa vostra.. – disse Imogene addentando una coscia di tacchino. – adesso vive nella cattedrale con noi.
- … cosa?! – domandò Heloisa allibita. – Per quale motivo?? Non è più a casa con Blake e Quaglia?
Imogene negò con la testa. – Da come dice lui.. sembra che il prete e tuo figlio abbiano avuto una brutta discussione.
Ora Heloisa era turbata.
La bionda la scrutò, roteando gli occhi al cielo. – Non è la fine del mondo, che tuo figlio sia rimasto solo con quell’uomo col nome di un pennuto.
- Forse non avrei dovuto portare Ioan con me.. – disse Heloisa, voltandosi a guardare il corpicino di Ioan addormentato tra le pellicce. – Insomma.. lui e Blake sono molto legati. Per di più, Ioan vuole tornare da lui, non gli piace stare qui con me. Ed ora, ora che mi dici che anche che padre Craig se ne è andato…
- Sono certa sappia ben badare a se stesso.
- Cosa diavolo sta facendo da solo in casa…? - la voce sospettosa di Heloisa le fece alzare un sopracciglio.
- Non chiedermi di tenerlo d’occhio. Ho già troppo a cui pensare.
- Non te lo avrei mai chiesto. Quaglia sa come trattarlo, ci penserà lui a tenerlo sotto controllo.
Ad ogni modo, padre Craig non è un problema: lui sa che tu mi stai nascondendo.
- Lo so che lo sa, non è questo il punto: mi lancia occhiate sin troppo strane davanti a Judith. Come se voglia sapere dove ti nascondo, come se pretenda che io gli dia delle informazioni che non ha il diritto di avere – disse infastidita.
- Padre Craig è sempre stato un po’ impiccione. Ma è buono di cuore.
- Finché non dirà nulla a Judith e non mi metterà i bastoni tra le ruote potrà anche ficcare il naso dove vuole – sospirò seccata, facendo una breve pausa. Il suo sguardo andò altrove, concentrandosi in un punto a distanza, sopra il camino. – Toglimi una curiosità, cugina.
- Sì?
- Cosa c’era tra tuo figlio e Judith, prima che lei perdesse la memoria?
Tale domanda spiazzò Heloisa, tanto che quasi si strozzò col boccone di tacchino.
Si pulì elegantemente la bocca e posò gli occhi tristi e turbati sulla figura di sua cugina. - Perché vuoi saperlo…?
- Perché l’ho osservata da lontano prima di conoscerla, ma mi sono resa conto di non averlo fatto abbastanza – ammise la bionda. – Lui mi è sfuggito. Ed è stata una grava mancanza da parte mia.
- Perché dici così?
Imogene si voltò a guardarla. – Perché mi sembra che tuo figlio occupi i suoi pensieri più di quanto sia convenzionalmente possibile. Perché mi ha parlato di lui e ho visto come si guardavano e toccavano al funerale di Rolland.
- Imogene.. – richiamò la sua attenzione su di sè Heloisa, poggiandole una mano sulla sua. – Ora Judith è con te. Di cosa ti preoccupi?
- Mi preoccupa il fatto che sia bastato incontrarlo un paio di volte, pur non ricordandosi di lui, per farla allontanare da me.
- Imogene…
- Perché lui ha deciso di sparire dalla sua vita dopo che lei ha perso la memoria?
Heloisa non rispose. Rimase boccheggiante, non sapendo quali parole usare per confortare sua cugina.
- Imogene, lei non si ricorda di lui, non sa cosa avevano prima.
Per Judith Blake è solo un ragazzo che ha perduto suo padre e che ha qualcosa in comune con lei, null’altro.
- Erano amanti, dunque?
- Erano… promessi.
Imogene ammutolì, stupita.
- Oh... capisco. Immagino avessero già raggiunto una certa intimità fisica, dunque..
- Non te lo so dire con certezza – rispose sinceramente Heloisa. – So solo che.. Blake teneva molto a lei. E lei a lui, lo si poteva osservare a miglia di distanza. Erano molto legati, sì – abbassò lo sguardo, non sapendo più cosa dire.
- Non credi sia assurdo, cugina?
- Che cosa?
- Che tu stia consolando me, che tu sia più dispiaciuta per me che gliel’ho rubata, piuttosto che per tuo figlio che l’ha perduta?
Heloisa accennò un sorriso amaro, trattenendo le lacrime. – Even ha una spessa corazza costruita addosso – spiegò. - L’ha sempre avuta. Affronta le avversità e le disgrazie della vita con un atteggiamento diverso dagli altri. Talvolta sono certa che… anche se sparissero tutti all’improvviso e lui rimanesse l’unico essere umano sulla faccia della terra… vivrebbe bene comunque. Per tale motivo lui può farcela. Può vivere senza Judith. Tu, invece, cugina… non ne sono così sicura.
 
 
“Cara Judith,
perdonatemi se non vi ho risposto tempestivamente, ma sono stati giorni impegnativi per me, e non solo a causa del mio lutto.
Certo, tutti gli impegni connessi alla galleria che ora gravano su di me mi hanno preso del tempo, ma sono altre le questioni che stanno monopolizzando totalmente la mia mente al momento.
Innanzitutto, voglio ringraziarvi per esservi aperta in modo tanto spontaneo e immediato con me, nonostante ci conosciamo da così poco.
Solitamente non mi sento a mio agio quando qualcuno esterna una così genuina e gratuita fiducia nei miei confronti. Mi confonde e mi spaventa.
Ma nel vostro caso non è stato così.
Mi piace la vostra schiettezza.
E no, non vi ritengo né inopportuna né presuntuosa.
Riguardo al libro, avrei più di un paio di cose da dirvi.
Ovviamente ho iniziato a leggerlo, ma non so ancora dirvi quando lo finirò.
Avevate ragione, sono costretto ad ammetterlo: è un racconto davvero intenso e molto, molto particolare.
Talvolta mi sembra di star vivendo io quello che sta accadendo alla protagonista, tanto è dettagliato e catartico.
Non mi era mai capitato prima e, considerando i miei gusti in fatto di libri, potete ritenervi molto soddisfatta di aver ottenuto un tale risultato con me.
Tramite questo racconto state riuscendo, discretamente, a farmi distogliere la mente da certe faccende che mi stanno oscurando i pensieri e talvolta mi tolgono il respiro.
Perciò vi ringrazio, davvero.
A mio avviso, comunque, il racconto nasconde molto di più di quello che mi avete narrato.
Percepisco qualcosa, oltre la superficie, un dramma molto più cupo e macabro di quello che descrive la protagonista.
Ne riparleremo.
Ad ogni modo, cambiando argomento, non voglio che crediate che io non abbia voluto dirvi il mio nome perché avete sbagliato approccio con me, né tanto meno perché non vi ritenessi meritevole di conoscermi. Voi non dovete farvi perdonare niente da me, non dovete riscattarvi, perciò non pensatele mai più certe assurde sciocchezze.
E no, non è stato neanche a causa di un capriccio o di semplice presunzione.
Il motivo per cui non volevo presentarmi ufficialmente a voi, è un altro, molto più criptico di quel che pensate, e riguarda forse più me che voi. Purtroppo, non posso rivelarvelo, perciò non chiedetemi di farlo.
E sì, sono stato accusato dai monaci, è vero, ma come me, molti altri innocenti lo sono stati.
Ed io non mi sento meno innocente degli altri, anzi, tutt’altro.
Talvolta mi sento totalmente in errore.
Altre volte, invece, mi rendo conto che, se mi fermassi, morirei.
Non potrei mai fare a meno di fare quello che faccio, perché è nella mia natura, non sarei io altrimenti.
Capisco sia difficile da comprendere, e probabilmente vi sto solo confondendo e spaesando immotivatamente.
Mi dispiace per il vostro stato di salute, ad ogni modo.
Arrivati ad un certo punto della gravidanza è del tutto normale sentirsi come vi sentite voi, ma di certo non dovrei essere io a dirvelo.
In merito ai vostri ricordi perduti, posso solo dirvi che anche io vorrei li riacquisiste tutti, così come vorrei scoprire chi vi ha fatto ciò.
Non disperate a riguardo. Forse il colpevole verrà scovato. Magari chiunque vi abbia aggredita è la stessa persona che ha assassinato mio padre. Spero lo scopriremo presto.
Anche io sono felice di aver fatto la vostra conoscenza, Judith, dico davvero.
Per quanto concerne la celebrazione di cui parlate… sì, ero presente anche io.
Vi posso riferire alcuni nomi di chi ricordo fosse presente quella notte, ma non so quanto possano esservi d’aiuto: io e la mia famiglia, padre Craig, Virve Beitris e altri nomi che immagino non conoscerete.
Anche io ho ricordi molto confusi di quella notte. Anzi, si potrebbe dire che non ne ho affatto.
Eravamo tutti sotto l’effetto di un potente incantesimo, e non è cosa rara durante le celebrazioni.
Concordo con voi nel riconoscere sia accaduto qualcosa di anomalo quella notte, senza ombra di dubbio. Ma ciò non mi tocca al momento.
A quanto pare a voi sì, invece. Se è vero ciò che dite, fareste bene ad indagare maggiormente.
Tutto ciò che so di quella notte, è di essermi risvegliato, coperto di sangue, con il corpo intrecciato a quello di Beitris. Ella è la giovane strega che ha dato inizio alla rivolta, una mia vecchia amica e amante, e al momento è rinchiusa nelle segrete. La sua esecuzione è stata rimandata a data indefinita, in quanto, ora come ora, i monaci hanno deciso di adottare la soluzione dei riti di purificazione per lei.
Se può esservi d’aiuto, potete chiedere anche a lei.
Detto questo, la mia lettera giunge a conclusione.
Volevo anche domandarvi se padre Craig è venuto a chiedere ospitalità da voi. Suppongo di sì, conoscendo l’affezione che vi lega. In caso affermativo, fatemi solo sapere se sta bene.
Per quanto io nutra ancora del rancore e della rabbia nei suoi confronti, rimane pur sempre un amico, e anche Quaglia vorrebbe sapere come sta.
Ammetto, Judith, che, inizialmente, non volevo rispondere alla vostra lettera.
Non prendetela come una questione personale o un’offesa.
Vi sono delle ragioni specifiche e legittime dietro la mia reticenza, ragioni di cui, nuovamente, non vi posso parlare.
Tuttavia, alla fin fine, ha vinto la mia impulsività, perciò ho accontentato il mio desiderio di rispondervi.
Grazie ancora per la vostra lettera e per il libro, Judith.
Ah, e salutate Nellie da parte mia (ovviamente tornerò a trovarla. Ho l’impressione di aver attirato le sue simpatie e me ne compiaccio, modestamente).
 
Ah, e spero troviate abbastanza comprensibile la mia calligrafia.
Se così non fosse, la prossima volta mi impegnerò maggiormente a renderla quanto più illeggibile possibile. Non ringraziatemi per la premura.
 
 
                                                                                                                                            Vostro, Blake”
Judith terminò di leggere la lettera appena consegnatale dal bambino che si occupava di consegnare pacchi e lettere, e rise di gusto, senza fare nulla per celarlo.
Era indubbiamente lieta che lui le avesse risposto.
Sarebbe stato stupido nasconderlo.
Ripiegò la lettera su se stessa accuratamente, ridendo ancora tra sé, mentre intanto accarezzava Nellie.
La fanciulla rifletté su quando avrebbe trovato il tempo di rispondergli, e la gatta, intanto, si arrampicò sulle sue voluminose ciocche di capelli rossi, sulle quali iniziò a fare il pane con le zampette.
- Oh, perdonatemi! – Judith venne immediatamente riscossa da quella voce familiare: padre Craig era appena entrato in biblioteca e aveva il viso completamente rosso di vergogna mentre la guardava.
- Padre? Cosa c’è?
- Nulla! È che non credevo di trovarvi in … solo con la vestaglia addosso! – esclamò spostando subito lo sguardo sulle mattonelle del pavimento, mentre il viso gli si imporporava ancor di più.
Judith lo osservò alzando un sopracciglio, poi guardò il proprio corpo, elegantemente accomodato su una sedia e coperto solo da quel sottile strato di seta color panna, che le fasciava le forme piene e sensuali, lasciandole scoperte le cosce diafane.
Talvolta la fanciulla si dimenticava che i monaci ormai fossero abituati a vederla andare in giro per le varie stanze della cattedrale vestita in tal modo di prima mattina, e che non si scandalizzassero più, in quanto la consideravano come una figlia.
Padre Craig, invece, non l’aveva mai vista seminuda, giustamente, ed era anche un prete votato alla castità, quindi era naturale che gli facesse un certo effetto osservare il corpo semiscoperto di un’avvenente giovane donna.
- Oh padre, perdonatemi voi! È che devo ancora abituarmi ad avervi qui, sono passati solo quattro giorni dal vostro trasferimento – disse lei sorridendo di gusto, solo lievemente imbarazzata. – Siete venuto qui per dirmi qualcosa? Oh, avanti, non esagerate! La vostra estrema pudicizia mi mette a disagio – lo incoraggiò.
Ma lui rimase imperterrito con gli occhi fissi verso il muro alla sua destra e la faccia rossa. – Ma siete molto poco vestita…
Judith sorrise ancora, intenerita, provando un immenso affetto nei suoi confronti.
- Padre, le zone importanti sono coperte. Vi state scandalizzando in tal modo solo per un po’ di coscia nuda? Avanti, su. Capisco che a casa di Blake eravate abituato a vedere solo figure maschili seminude, ma credo vi sarà capitato, ogni tanto, di scorgere anche la bella moglie di Rolland appena sveglia, con solo una vestaglia addosso, no?
Imporporandosi addirittura ancor più di prima, il prete, tuttavia, si convinse finalmente a posare lo sguardo sulla ragazza.
- Visto? Non è stato così difficile. Allora? Cosa volevate dirmi? – gli domandò lei.
Padre Craig cercò di fare mente locale e di ricordare il motivo per cui aveva cercato Judith dentro la biblioteca appena finito di consumare la sua colazione, mentre osservava la gattina addentare gustosamente una ciocca morbida e rossa con la sua minuscola bocca felina.
Ma mentre pensava, ricordò il bel sorriso di Judith che aveva scorto appena aveva aperto la porta, poco prima di accorgersi di come fosse vestita. – Come mai stavate ridendo appena sono entrato? – le domandò incuriosito, poi posando gli occhi sul quadratino di carta ripiegata che Judith conservava tra le mani. – È per la lettera che avete in mano? – ipotizzò.
Ma non appena glielo domandò, Judith nascose accuratamente la lettera dentro un libro. – Oh, non è nulla, padre – gli rispose in modo vago.
- Beh, ad ogni modo, ero venuto qui per domandarvi se aveste qualche compito per me, oggi.
- Oh, giusto, fatemici pensare – disse lei prendendo la micetta e portandosela sopra le gambe. – Avete già chiesto a Imogene?
- In realtà Imogene sta ancora dormendo. Credo che ieri notte sia rientrata tardi.
- Beh, se avete già fatto colazione e avete voglia di prendere una boccata d’aria, potete accompagnarmi a fare alcuni acquisti questa mattina. Che ne dite?
- Quali acquisti? – le domandò avvicinandosele.
- Devo comprare dei cristalli e delle pietre preziose. Alcuni mi servono per rinnovare l’arredamento, incastonarle nei candelabri e nelle cornici, mentre altre sono per uso personale – disse ella rialzandosi in piedi velocemente. Forse sin troppo velocemente, si rese conto nel momento in cui un dolore lancinante, dal pancione le si diramò in tutto il corpo, paralizzandola.
Padre Craig notò che la ragazza stessa barcollando dinnanzi a sé, perciò l’afferrò prontamente, reggendola. – Judith?? Judith, tutto bene?
- Non allarmatevi, padre … - rispose lei, con voce estremamente calma e gli occhi chiusi. – Imogene mi ha insegnato come far fronte a questi momenti – disse seria e controllata, respirando profondamente.
- Il bambino… il bambino vi sta facendo male?
- Il bambino non può farmi del male, padre – rispose lei, ostentando ancora quella voce ferma e consapevole, riaprendo lentamente le palpebre e puntando i suoi occhi da cerbiatta in quelli allarmati dell’uomo che la stava stringendo. – Va tutto bene, padre. Non crollerò a terra come una torre pericolante. Potete stare sereno. Ora lasciatemi andare.
Solo in quel momento il giovane prete si rese conto che, per l’immensa agitazione che l’aveva colpito nel vederla perdere l’equilibrio, l’aveva stretta con poco garbo, arpionando le dita sulla carne tenera dei fianchi e delle braccia della fanciulla. Allentò la presa, ma non la lasciò. – Ne siete sicura? Posso reggervi io.
- Apprezzo la vostra premura, ma non ce ne è bisogno. Ce la faccio da sola – rispose decisa, prendendo le mani del prete cortesemente e allontanandole da sé.
Ora si sentiva meglio. Il metodo della respirazione e dell’estraniazione dalla realtà funzionava contro quei malori improvvisi.
- Dunque? Verrete con me, padre?
- Certo. Vi accompagnerò.
Lei gli sorrise in risposta. – Bene. Ah, quasi dimenticavo. In questo giorno della settimana, padre Cliamon ha sempre dei forti malori. Malori talmente debilitanti che lo spingono a rinchiudersi nella sua stanza e a non uscirne fino a domani mattina. Motivo per cui oggi dovremo portargli i pasti e lasciarli dinnanzi alla sua porta.
Padre Craig alzò un sopracciglio, sospettoso.
Improvvisamente ricordò la conversazione avuta con Ambrose riguardo padre Cliamon e la tremenda maledizione di cui era vittima il giovane Folker.
- Solo in questo giorno della settimana, tutte le settimane? È un po’ strano… - indagò.
- Difatti. Ne abbiamo parlato con lui, e lui sospetta che qualcuno gli abbia fatto una sorta di maledizione.
- Una maledizione per cui, un giorno alla settimana, soffre di gravi malori? – domandò il prete, sempre meno convinto.
- Già. Ci pensate voi a portargli la colazione per oggi? Così almeno risparmiamo tempo, dato che voi siete già pronto, mentre io devo ancora abbigliarmi per uscire. In realtà è un po’ tardi: solitamente gliela lascio davanti alla stanza quando sta ancora dormendo. Starà morendo di fame, povero padre.
- Gliela devo lasciare davanti alla porta?
- Esatto. Non provate ad entrare, chiude sempre la porta a chiave.
- D’accordo, vado subito.
- Perfetto. Io vado a prepararmi, poi vi aspetto all’uscita.
Padre Craig fece come gli era stato detto: andò nelle cucine, prelevò un vassoio con la ricca colazione per padre Cliamon, poi fece tre piani di scale e tornò nel corridoio che avrebbe condotto alle camere. Camminò fin quando non individuò la porta che ricordò essere quella che Judith gli aveva indicato come la stanza di padre Cliamon.
Ma non appena arrivò a meno di dieci metri dalla porta, sbiancò nel momento in cui notò la figura di Myriam dinnanzi ad essa, intenta a completare chissà quale stregoneria, in religioso silenzio.
Padre Craig si avvicinò quatto quatto a lei, nella speranza di capire cosa stesse facendo, ma ogni tentativo divenne vano nel momento in cui la strega si voltò di scatto verso di lui, e gli lanciò lo sguardò più truce e fulminante che gli avessero mai rivolto. Forse secondo solamente a quelli che gli rivolgeva Blake.
- Voi… cosa Diavolo state facendo qui?
- Dovrei domandarlo io a voi, Myriam! – esclamò il prete senza paura, sempre più convinto della propria tesi, e di quella di Ambrose di conseguenza. – Il fatto di star per diventare monaca e di vivere qui non vi dà il diritto di esercitare la magia nera per imprigionare le persone. Cosa avete fatto??
- Ho semplicemente silenziato la stanza.
I suoi urli erano troppo fastidiosi. Quei malori lo stanno facendo soffrire troppo, se fosse andato avanti così avrebbe svegliato tutta la cattedrale.
Fu in quel momento che padre Craig realizzò pienamente, allibito.
Il vassoio con la colazione gli cadde dalle mani sudate, facendo precipitare a terra tutte le uova in camicia, la zuppa di zucca e le pagnotte calde.
In quella stanza non c’era più padre Cliamon, bensì Folker, intrappolato lì dentro, in quel corpo che non gli apparteneva, ignaro di tutto, isolato, e impossibilitato a chiedere aiuto. Per un’intera giornata.
Si sarebbe disperato. Padre Craig ne era certo e ne era a dir poco agghiacciato.
Doveva fare qualcosa. Doveva necessariamente fare qualcosa.
Si fiondò sulla porta e provò ad aprirla violentemente, ma fu inutile.
“…chiude sempre la porta a chiave”
A quel punto si voltò verso la strega, accanto a lui, puntandole il dito contro. – Voi… avete chiuso a chiave la porta dall’esterno, non è vero??? E fate tutto ciò ogni volta che avviene lo scambio, ogni settimana.. Voi lo rinchiudete lì dentro, facendo credere a tutti che si sia chiuso da solo, e silenziate la stanza per non far udire le sue urla… e gli fate arrivare i pasti all’interno, sempre con la vostra maledetta magia! E padre Cliamon vi regge il gioco quando torna dentro il suo corpo!
- State decisamente delirando, prete.
- Così che egli faccia quel che gli pare e piace dentro il corpo di quel povero ragazzo! Perché?! Per quale motivo lo state facendo??
- Ora mi state davvero irritando.
A ciò, padre Craig iniziò a dare vigorosi pugni sulla porta e ad urlare: - Folker!! Folker, mi sentite?? Resistete, Folker!! Vi prometto che-
Ma non riuscì a terminare la frase, che Myriam, in un sol gesto, gli aveva tolto la capacità di parlare, facendo svanire la sua voce nell’aria.
Padre Craig apriva la bocca ma non usciva nulla, neanche una parola o un verso. Solo il vuoto.
L’uomo sgranò gli occhi nel guardare il sorriso compiaciuto della strega dinnanzi a sé.
- Non provate neanche a pensare di andare a dirlo ad anima viva.
Né tanto meno pensate di correre verso l’abitazione di Folker e di fare qualcosa a quel monaco.
Egli è sotto la mia protezione – gli intimò minacciosa, facendolo tremare.
La voce di padre Craig tornò normale, e lui riprese a respirare.
Rivolse uno sguardo angosciato, deluso e disgustato alla diabolica strega.
- E se non vi ascoltassi… e se lo dicessi a qualcuno… cosa mi farete?
Insomma… non fareste mai e poi mai del male a Blake, né alle persone che sono a lui care. E, si dà il caso, che le stesse persone che sono care a Blake sono care anche a me.
Inoltre, c’è anche Imogene di mezzo…: se provaste a sfiorare Judith o Heloisa, dovreste vedervela con lei.
Se fate del male a me, non mi importa.
Detto ciò… non potete minacciarmi – tentò, sapendo di star commettendo un grave errore nel momento stesso in cui lo disse.
Il sorriso sprezzante di Myriam si estese ancor di più mentre gli si avvicinava, fino ad arrivargli ad un palmo dal viso:
- Oh.. ma io non ho bisogno di minacciare le persone a voi care.
Sono innumerevoli i doni che posso togliervi, padre, per minacciarvi… siete davvero privo di fantasia.
Padre Craig deglutì a vuoto, attendendo che continuasse.
- La voce, ad esempio: ve l’ho tolta per pochi secondi, poco fa, ma posso togliervela definitivamente con un semplice schiocco di dita, sapete? Vorreste che vi strappi via la voce, padre?
Padre Craig negò ampiamente con la testa.
- Oppure… - continuò lei. - ..potrei rendervi vittima della stessa maledizione di Folker. Che ne dite? O benedizione, dipende dai punti di vista... – lo tentò la strega, avvicinandosi ancora. – Potreste risvegliarvi dentro il corpo di Imogene e avere Judith... non sarebbe male, non è vero? Oppure, magari desiderereste trovarvi nel corpo di qualcun altro.. per avere qualcuno che non potreste mai e poi mai avere nel vostro corpo – Myriam sapeva dove andare a parare, dove colpirlo per far vacillare la sua volontà di ferro, la sua morale intoccabile. Era scaltra, e un’attenta osservatrice.
I nomi che i suoi desideri reconditi gli fecero apparire alla mente, come possibili vittime di uno scambio di corpi, gli fecero accaponare la pelle per il disgusto verso se stesso.
No. Lui non bramava uno scambio di corpi per avere colui o colei che amava, con l’inganno.
Non lo avrebbe mai fatto. Mai e poi mai. La sola idea lo repelleva.
Se anche non li avesse mai avuti, nessuno dei due, non importava, non lo avrebbe comunque mai fatto, era insensato, ingiusto, ignobile e ripugnante.
Improvvisamente gli tornarono alla mente le seducenti sensazioni provate in quei vaghi ricordi che aveva di quella notte maledetta, quando il suo corpo era stato scambiato con quello di Beitris.
Erano state sensazioni rigeneranti, sconosciute ed estremamente affascinanti e soddisfacenti, che il suo corpo e i suoi lombi frementi ricordavano ancora.
A diavolo quelle sensazioni.
Al diavolo la lingua biforcuta di quella strega, che credeva di farlo cedere in questo modo.
Se il prezzo per avere Blake fosse stato quello di rubare il corpo ad un’altra persona, di ingannare e di fare del male in tal modo, allora avrebbe rinunciato a Blake, e avrebbe rinunciato anche a Judith, pur di non prestarsi a quell’atto immondo e inumano.
Padre Cliamon, evidentemente, non la pensava allo stesso modo.
Padre Cliamon aveva venduto la sua anima… per cosa?
Padre Craig se lo domandò. Solo ed esclusivamente per essere l’oggetto della bellezza, agli occhi degli altri?
Sì, evidentemente. Padre Cliamon non desiderava conquistare il cuore di qualcuno, come lui, no.
Lui voleva solamente essere adulato da una mandria di persone diverse.
Gli veniva il voltastomaco.
- Non mi convincerete in tal modo.
Ogni vostro tentativo sarà inconcludente – le rispose fermamente.
- Bene. Vorrà dire che domani mattina vi risveglierete dentro il corpo di padre Petrit. E che farò in modo di farvici rimanere a vita.
- No! – esclamò con disperazione. – Non dirò niente – promise, mordendosi la lingua per la rabbia e la frustrazione. – Non dirò niente a nessuno. Lo prometto. Avete la mia parola.
- Bene. Sappiate che, se mi state mentendo, lo verrò a sapere. Io vengo sempre a sapere tutto – gli garantì lei, allontanandosi da lui, già diretta verso le scale. – Continuate a fare ciò che siete sempre stato così bravo a fare, padre: guardare – concluse, lasciandolo solo.
Padre Craig rimase immobile per diversi minuti, senza dire una parola.
Era in trappola. Era impotente. Non poteva fare nulla.
Niente di niente.
Si sarebbe riversato sul letto nella stanza vuota che Judith aveva fatto preparare per lui, restandoci per tutta la giornata, se solo il pensiero di Judith che lo stava aspettando all’entrata della cattedrale non lo avesse riscosso.
Si voltò verso la porta chiusa e silenziata, poggiandovi una mano sopra.
Sperò che Folker fosse vicino ad essa e che riuscisse così a captare la sua voce al di là del legno:
- Mi dispiace, Folker.
Vedrete che si risolverà tutto, in qualche modo.
Ve lo prometto.
Si sistemerà tutto.
Probabilmente, se anche avesse udito quelle parole, la mattina seguente, una volta risvegliato nel proprio corpo, il ragazzo si sarebbe dimenticato ogni cosa.
Padre Craig si ricompose e scese le scale, raggiungendo Judith all’entrata, avvertendo il grave macigno sulle spalle, provocato dalla discussione con Blake, divenire sempre più pesante e insopportabile a causa di ciò che era appena accaduto.
Cercò di non pensarci e di concentrarsi solo sulla ragazza dinnanzi a sé, che si stagliava in tutta la sua bellezza, nel suo elegantissimo vestito di velluto verde foresta e i capelli cremisi ben acconciati in alto.
Era rivolta verso l’esterno, verso la vita pullulante del mercato di prima mattina, che si estendeva dinnanzi a lei, grazie al portone della cattedrale spalancato.
Le poggiò delicatamente una mano sulla spalla per annunciarle la sua presenza, e lei si voltò verso di lui, sorridendogli, rabbuiandosi un po’ subito dopo. – Padre.. tutto bene?
- Sì, tutto bene.
- Siete sicuro? Sembrate turbato. Siete sicuro di voler venire con me a comperare cristalli questa mattina?
- A dir la verità, mia cara, venire con voi a comperare cristalli è l’unica cosa che vorrei fare oggi.
Judith gli sorrise in risposta, poco prima di venire raggiunta da una piccola presenza che si aggrappò al suo abito con i ditini sporchi.
- Signora… vi prego.. ho tanta fame. Potete darmi qualcosa da mangiare? – le domandò una bambina di circa cinque o sei anni, con voce flebile e stanca, tutti i capelli unti e sporchi, il visino scavato e i vestiti rovinati.
Un’orfanella.
- Oh, povera cara, ma certo – le disse Judith sorridendole pazientemente. – Padre, portatela dentro e conducetela nelle cucine. Raccomandatevi con i cuochi di sfamarla a dovere e di non farla andare via fin quando non avrà il pancino sazio.
Padre Craig annuì, prese la bambina per mano e la condusse dentro, come gli era stato detto.
A ciò, nell’attesa, lo sguardo della fanciulla si posò su un gruppo di cani randagi riuniti e impegnati ad annusare qualcosa, qualcosa che si trovava proprio a ridosso della fiancata laterale della cattedrale, quella meno visibile e visitata dalle persone.
Incuriosita, Judith si avvicinò ai cani e li scacciò con garbo, per poi accovacciarsi a terra e scoprire cosa fosse l’oggetto tanto ambito da quei canidi.
Impietrì e sgranò gli occhi scuri d’improvviso nel momento in cui capì di cosa si trattasse:
prese in mano degli stralci strappati e sgualciti di un abito di lino beige, un abito che ricordava perfettamente aver visto indossare a Hinedia. L’abito era completamente macchiato di sangue, oramai asciutto.
Riapparvero chiare nella sua mente le immagini della sua amica, delirante, disperata e completamente nuda, che bussava alla porta della cattedrale come un’ossessa in piena notte, e le immagini del suo stato quasi catatonico la mattina seguente, la stessa mattina in cui era stato ritrovato il cadavere sgozzato e dissanguato di Dun Rolland davanti alla galleria.
Rimase a bocca aperta per diversi minuti, in quella scomodissima posizione, nascosta alla folla.
Poi, dandosi un contegno, fece la prima cosa che l’istinto le suggerì: scavò una piccola buca sul terreno e vi ripose dentro gli abiti insanguinati, seppellendoli.
Poi, tornò davanti alla porta della cattedrale per attendere padre Craig.
 
 
 
Ambrose bussò alla porta della casa di Folker, attendendo che Prudence aprisse.
Ma, stranamente, fu lo stesso Folker ad aprire la porta.
- I tuoi genitori? – gli domandò prima di salutarlo.
- Sono fuori casa. Al mercato – gli comunicò il biondo, facendosi poi da parte per farlo entrare.
Ambrose si diresse subito verso la camera dell’amico, poggiando la sua sacca nel letto che un tempo era stato di Bonnie, affianco a quello di Folker.
Ma il servo del Creatore si accorse subito che qualcosa non andasse nell’espressione del biondo:
non appena egli aveva poggiato le sue cose sul letto della defunta sorella, Folker si era irrigidito, il suo sguardo si era fatto cupo e quasi sulla difensiva.
- Che c’è? – gli domandò preoccupato.
- Non puoi dormire lì. Nessuno dorme più sul letto di Bonnie da…
Dalla sua morte.
A ciò, Ambrose, a disagio, guardò il letto, poi guardò l’amico. – Allora… dove vuoi che mi metta? A dormire, intendo. Se tu dormi sul tuo letto e non vuoi farmi dormire in quello di Bonnie.. dove dormo? Forse potrei… mettere una coperta a terra e dormire per terra, che ne dici?
- No. Tu dormi nel mio letto. E io dormirò in quello di Bonnie. Preferisco dormirci io, a questo punto.. - decretò il biondo.
A ciò, Ambrose deglutì a vuoto e annuì, spostando la sua sacca nel giaciglio dell’amico.
- Sei sicuro che ai tuoi genitori stia bene che io resti a dormire qui, stanotte? – gli domandò poi.
- Lo hai detto a tua madre e a tuo padre?
- Sì. Erano un po’ diffidenti ma… dato che ho sempre parlato bene di te, alla fine hanno accettato - disse il moro soddisfatto.
- Bene. Allora a loro sta bene, sì.
- Folker? Tutto bene? – gli domandò facendo un passo verso di lui.
Il biondo, in risposta, lo guardò con i suoi occhi limpidi, liquidi e distrutti. – Un uomo è venuto a cercarmi. Alla Taverna.
- Un uomo? Chi?
- Un servo del Diavolo con cui, a quanto pare… - il ragazzo si bloccò. La sua voce si era spezzata, il suo sguardo aveva virato verso la finestra, i suoi occhi erano diventati lucidi.
Ambrose capì al volo e sbiancò. – No…
- Sì. E io, ovviamente, ero ignaro di tutto, fin quando una delle locandiere non mi ha detto che mi stava cercando.
- Io lo uccido. Ti giuro sul Creatore e sul Diavolo che ammazzerò quel monaco con le mie mani.
- Ci penserò già io a farlo – disse il biondo con la voce intrisa di rabbia, serrando la mascella.
- Cosa voleva ancora quell’uomo da te?
- Non lo so. Probabilmente voleva ripetere l’esperienza.
- Alla Taverna c’è anche quella donna che si sta svendendo e sta guadagnando molti soldi.
Sai se… anche lui si è fatto pagare?
- No, sembra di no, grazie al Diavolo.
Ambrose tirò un sospiro di sollievo, almeno per quello.
Poi, Folker gli andò incontro, tirando fuori dalla cintola un pugnale affilato.
- Cos’è quello..? – gli domandò Ambrose basito.
Folker glielo porse in mano, continuando a guardarlo negli occhi, con sguardo perso e rassegnato. - Non posso sopportare che faccia di nuovo una cosa del genere.
Questo corpo è mio.
Ma non lo sento più mio da quando quel mostro ne sta prendendo possesso.
Sono stanco, Ambrose.
Sono stanco dei riti di purificazione e sono stanco di questa maledizione.
Non ce la faccio più.
- Folker… cosa stai cercando di dirmi??
- Quando ti accorgerai che dentro di me c’è lui… voglio che lo uccidi.
- Cosa…?? No, mai! Ucciderei anche il tuo corpo in tal modo!! – esclamò lasciando cadere il pugnale a terra.
- Ambrose, è l’unico modo. Non riusciremo mai ad avvicinarci abbastanza a lui da ucciderlo.
E se lo faremo verremo arsi al rogo.
È questo che vuoi?
Io lo voglio morto. Ad ogni costo.
Anche a costo di perdere il mio corpo per sempre.
- Folker, no. Non lo farò – disse fermamente Ambrose, imponendosi su di lui, nonostante la sua voce stesse tremando.
La fermezza e la determinazione nello sguardo di Folker lo stavano spaventando.
- Perché no? – chiese il biondo, mantenendo la calma.   
- Perché non voglio uccidere nulla di te, di tuo.
Non voglio ucciderti. Anche se si tratta solo del tuo corpo. Non voglio.
- Io sarei comunque vivo in un altro corpo.
- Ma non è giusto. Questo corpo è il tuo! Devi combattere per riaverlo! Non puoi arrenderti in questo modo! Troveremo un modo. Troveremo un modo per ucciderlo, te lo prometto!
- Il tuo amore arriva a tanto?? – lo schernì il biondo, iracondo. – Arriva a tanto da non voler uccidere niente che mi appartenga?? Anche se questo fosse l’unico modo per liberarci di quel mostro??
- Sì, esatto!
- Oh, per favore! Tu non vuoi uccidere questo corpo solo perché non fa altro che alimentare i tuoi desideri e i tuoi sogni bagnati!
- Non è affatto così.
- Ah no??
- Folker, il corpo di quel monaco è anziano. Lo hai visto anche tu? Anziano e pieno di acciacchi. Se restassi lì dentro… Vorresti davvero morire tra qualche anno dentro quel corpo, pur avendo ancora tutta la vita da vivere?
Non vuoi provare a riavere questo tuo corpo, giovane e in salute… e tuo di diritto?
E poi non sappiamo quali siano le implicazioni di questo incantesimo. È troppo rischioso.
- Uccidendo questo corpo… mi libererei anche di qualcos’altro.
Fu in quel momento che Ambrose comprese, finalmente. – Tu vuoi liberarti della strige. O meglio, vuoi liberarti del “volto della strige”. Per questo vuoi uccidere questo corpo. E così facendo, uccideresti anche quel monaco.
Il biondo non disse nulla, stringendo i pugni e chiudendo gli occhi, cercando di calmarsi.
- Folker, lotta, ti prego.
Non arrenderti.
Lotteremo per avere giustizia su quel monaco.
Lotteremo per far capire alle persone che tu non sei una str-
- Io ho paura della strige!
La sento, la sento dentro di me, Ambrose, non lo capisci??
Mi sta divorando dall’interno! – esclamò abbracciandosi da solo e sedendosi sul letto, ansimando come in preda ad un attacco d’ansia.
Dinnanzi a quella visione, ad Ambrose si strinse il cuore.
Come avevano potuto ridurlo così?
Il suo amico, la sua belva feroce.
Ora sembrava più un cucciolo smarrito, e la voglia di proteggerlo da tutti e da qualsiasi cosa crebbe esponenzialmente nel servo del Creatore.
Si avvicinò a lui, senza paura, sapendo che l’avrebbe accolto, perché si fidava, si fidava ciecamente di lui.
Difatti, Folker alzò il volto e si lasciò toccare le spalle, dalle mani capienti, gentili e calde di Ambrose.
- La strige esiste solo nella tua testa, Folker.
E il tuo corpo tornerà tuo. Tuo come lo era all’inizio. Vedrai – gli disse rassicurante, rivolgendogli un sorriso determinato e adorante. Poi, senza dire altro, lo abbracciò, inglobandolo contro di sé.
Dopo un attimo di resistenza, Folker si sciolse tra le sue braccia, il suo respiro arrivava dritto nell’orecchio del moro.
- Come posso fare per riprendermi il mio corpo? Per sentirlo di nuovo mio? – gli sussurrò nel timpano, facendolo rabbrividire visibilmente.
Sentire Folker così vicino, la sua pelle nivea, il suo profumo, i suoi capelli chiari a solleticargli il viso, il suo respiro caldo addosso… Ambrose ritenne fosse il momento di staccarsi da lui, ma quando provò ad allontanarsi, inaspettatamente, il biondo rinforzò la presa e lo tenne ancorato a sé.
- Folker? Che stai facendo…?  - gli domandò fremendo, cercando di calmarsi e di calmare la voce.
A ciò, il ragazzo, come un bellissimo serpente, strisciò con la faccia sulla sua guancia, facendogli percepire la consistenza delle sue labbra umide sulla pelle, per poi porsi con il viso di fronte al suo, i nasi in contatto.
Lo guardò negli occhi con i suoi diamanti di topazio liquidi, inchiodandolo sul posto e stregandolo.
Gli si strusciò addosso con tutto il corpo, facendogli sentire il proprio calore e la propria intimità risvegliata e nascosta dai pantaloni leggeri.
Fu a quel punto che Ambrose gemette rumorosamente, non riuscendo a farne a meno, completamente esposto e debilitato da quegli attacchi inaspettati, irresistibilmente provocanti e diabolici.
Fu in quel momento che Folker approfittò della bocca aperta dell’amico per infilargli la lingua in bocca, e al contempo far sgattaiolare una mano dentro i suoi pantaloni, oramai tesi completamente dentro la costrizione del tessuto. Tastò la sua intimità tesa e ben proporzionata alla sua stazza importante, sorridendo nel bacio.
Il povero servo del Creatore era completamente alla sua mercè, mentre il biondo lo baciava a piena bocca, e gli massaggiava sapientemente l’erezione dentro i pantaloni.
Ambrose gemette ancora e ancora, tremando e riscaldandosi come se avesse la febbre, totalmente in estasi, in trance, come se non avesse più il controllo del proprio corpo.
Fermati   si ripetè  Fermati. Non te lo perdonerà mai se non ti fermi.
Questo qui non è lui.
Non è lui… non è lui..
Quel solo pensiero bastò a farlo tornare in sé, a ignorare tutto quel ben di Dio offertogli e a sua completa disposizione, a ignorare la mano affusolata che massaggiava la sua intimità come se non avesse fatto altro per tutta la vita, ignorò il suo profumo intossicante, ignorò il suo corpo snello, intagliato e longilineo premuto meravigliosamente addosso, ignorò le sue esperte labbra carnose, rosse e tumide dal sapore buonissimo, ignorò i suoi occhi liquidi di lussuria e il suo sorriso infernale.
Gli afferrò con rabbia i polsi e lo sbatté sul letto, placcandolo e salendogli sopra, facendo però attenzione a non schiacciarlo.
Vederlo e sentirlo sotto di lui, con i polsi stretti e bloccati sopra la testa, dopo quello che avevano appena fatto, gli fece venire un groppo alla gola di eccitazione insoddisfatta.
Gli sembrava di essere tornati ai tempi delle lotte con la congrega, alle sere in cui lo sfidava e Folker finiva in quella stessa posizione, sotto di lui, sbattuto a terra.
Ma ora, ora era cambiato tutto.
Senza contare che il vero Folker, a quei tempi, avrebbe impiegato tutte le sue invidiabili doti combattive per liberarsi da lui e avere la meglio, usando, ad esempio, una delle sue lunghe e forti gambe per colpirlo sui testicoli, facendogli vedere le stelle e capitombolare a terra invaso dalle lacrime di dolore.
Ma quello sotto di lui non era Folker.
Difatti, per liberarsi, si limitava a muovere il busto e la testa come un ossesso in preda a violenti spasmi, cercando inutilmente di liberare le mani dalla presa di ferro del moro.
Urlò, quel dannato monaco con le sembianze di Folker, ebbe il coraggio di urlargli in faccia con tutto il fiato che aveva, e poi di ricadere con la testa sul cuscino e ridere come un pazzo, in un tripudio di capelli biondissimi sparsi ovunque.
- Tutta questa sceneggiata, tutte quelle paure, tutta quella drammaticità… era tutta una finzione per riuscire a sedurre anche me?? – gli domandò sempre più adirato, dovendo trattenersi dallo stingergli ancor più forte i polsi, fino a perforarglieli con le unghie.
No, non avrebbe fatto del male al corpo di Folker.
Quegli stessi segni se li sarebbe ritrovati la mattina dopo, li avrebbe sofferti la mattina dopo. Non poteva permetterlo.
Il monaco sotto di lui rise ancora. – Ovviamente. Sapevo saresti stato un osso duro, Ambrose… sapevo lui ti avesse già rifiutato, ovviamente, e sapevo anche che ti avesse messo in guardia su di me, facendoti promettere che non avresti ceduto ai miei tentativi di sedurti.
- Non mi ha costretto a prometterlo. Sono io che ho voluto prometterglielo! Non toccherei mai e poi mai qualcuno come voi, monaco. Mi ripugnate. Mi disgustate in un modo inspiegabile.
- Oh, non essere ridicolo! Hai ancora un’erezione dura come il marmo che mi sta spingendo sulla coscia!
Ambrose premette ancor di più le unghie nei suoi polsi, fino a fargli male.
- Non riesco a controllare le reazioni del mio corpo! Sono umano, dannazione! Però posso controllare le azioni del mio corpo, come vedi!
- Ne sei sicuro? Prima non sembrava, considerando che per almeno cinque minuti abbondanti ti sei lasciato toccare e vezzeggiare dalle mie mani, hai persino ricambiato il mio bacio.
- Chiudi quella bocca!
- Ammettilo!
Ammetti che averlo così inerme qui sotto, te lo fa diventare duro almeno quanto baciarlo o fartelo toccare da lui!
Oh, chissà come reagirebbe Folker se solo lo scoprisse!
Se scoprisse che cosa hai fatto poco fa!
O meglio, cosa gli stavi per fare!
- Mi sono fermato!
Mi sono fermato subito, come pattuito!! – gli urlò in faccia, rinforzando la presa e schiacciandolo ancor di più sul letto. – Mi sono fermato non appena ho realizzato pienamente non fosse lui! È lui che voglio, non il suo corpo!
- Sei davvero patetico, ragazzino.
Menti a te stesso come facciamo tutti noi servi del Creatore, quando proviamo inutilmente a ragionare su che utilità concreta abbiano i servi del Diavolo all’interno del nostro villaggio, un’utilità che non sia quella di farci voltare a guardarli in mezzo alla strada, o di farci fantasticare su di loro durante la notte! Nessuna, appunto!
- Taci!
- Il ragazzo che ti piace tanto è un violento, sadico, con problemi di gestione della rabbia e incapace di pensare ad altri che non siano se stesso!
Non ami lui, ami il suo corpo e null’altro!
- Io amo lui!
Lo amo così com’è, nonostante sia una persona tremenda per alcuni! – riaffermò con convinzione.
- Sii onesto con te stesso: ti sei fermato, poco fa, solo per la paura della sua reazione, quando avrebbe scoperto che hai abusato del suo corpo come tutti quelli che io ho sedotto!
Quando avrebbe scoperto che non sei diverso dagli altri ti avrebbe cacciato via a calci, urlandoti di non cercarlo mai più.
Per questo ti sei fermato, non perché hai realizzato che dentro il suo corpo ci fossi io e non lui.
Se non avessi avuto paura della sua reazione l’indomani, mi avresti preso e sodomizzato qui su questo letto in maniera animalesca, sfogando tutta la tensione sessuale che stai reprimendo da mesi, incurante del fatto che ci fossi io dentro di lui.
Dillo!
Arrivò improvviso e doloroso lo schiaffo con cui Ambrose lo colpì in pieno volto.
Un rivolo di sangue colò dalle labbra del biondo, macchiandogli il mento, facendo sentire ancora più in colpa il moro.
Tuttavia, per quanto stesse provando un intenso dolore, fisico e mentale, nel vedere il corpo del suo amico posseduto in tal modo da quel verme perverso, Ambrose si impose di andare fino in fondo.
Era l’unica occasione che aveva per farlo. Se se la fosse lasciata sfuggire, forse non l’avrebbe più riacciuffato.
Lo fece alzare dal letto e continuò a tenerlo stretto per i polsi, assicurandosi che la presa fosse abbastanza forte da non farlo scappare via. Gli sarebbero rimasti i lividi sui polsi per giorni, ma non importava, avrebbe compreso non appena Ambrose gli avrebbe spiegato tutto.
Lo fece sedere su una sedia e gli legò strettamente le braccia dietro lo schienale con una corda.
I suoi capelli erano sfuggiti alla costrizione del nastro che li legava ed ora erano tutti scarmigliati e spettinati, il rivolo di sangue oramai secco imperava su quella pelle con il suo rosso borgogna.
Il monaco sorrise ancora, guardandolo dal basso. – Dunque, ragazzo? Cos’è che vuoi fare ora? Non puoi farmi del male, non lo faresti mai, lo hai detto tu stesso: non nuoceresti mai al prezioso corpo di Folker.
- Come sei diventato così?
Sei un monaco, dovresti avere a cuore il bene del popolo, anche dei servi del Diavolo.
Per quale motivo ti sei macchiato di tale ignobile peccato? – la sua voce era dura, infuriata, molto più adulta dell’età che aveva.
- Non sono affari che ti riguardano – lo liquidò il monaco. - All’inizio non avrebbe dovuto essere così.
- Ah no?? E come sarebbe dovuto essere?
- Un gioco, un dono innocuo. Il tuo amico dimentica tutto nel momento in cui torna nel suo corpo: discreto e indolore.
Ambrose avrebbe voluto sputargli addosso in risposta, ma si trattenne e gli pose un’altra domanda:
- Cosa speravi di ottenere? Qual è lo scopo? Perché proprio lui?
- Mi ha colpito la sua bellezza – rispose semplicemente.
- Dunque lo scopo … riguarda solamente il desiderio di essere bello??
- Per te potrebbe anche essere poco, Ambrose, ma per me è tutto – rispose il monaco con solenne serietà.
- E allora perché proprio io?? Potresti avere tutti i servi e le serve del Diavolo del villaggio con il suo corpo a disposizione! Perché ci tieni tanto a sedurre un semplice e grottesco servo del Creatore come me?
- Per il modo in cui lo guardi.
Per l’adorazione che nutri nei suoi confronti.
Non lo desideri solamente, tu gli sei dedito e fedele.
È come se avessi offerto il suo cuore a lui e fossi incurante di ciò che Folker possa farne.
Ambrose ammutolì e continuò a guardarlo.
- A chi ti sei rivolto per avere tutto questo?
Voglio il nome della strega.
- Non puoi torturarmi per estorcere questa informazione da me.
- No, non torcerò un capello a Folker, ma posso fare qualcos’altro: posso pur sempre spargere il verbo e far sapere all’intero villaggio che cosa hai fatto, prima dell’alba.
Il monaco raggelò, sbiancando.
- Allora? Cosa ne dici?
Mi rivelerai il suo nome?
Dopo qualche minuto di esitazione, Cliamon confessò:
- È colei che sta diventando monaca del Diavolo, Myriam.
Ambrose la conosceva solo di vista, ma ciò era già abbastanza.
Uscì dalla casa di Folker e corse, corse, cercandola ovunque.
Solo dopo tre ore di ricerche ininterrotte la trovò, sul ciglio del fiume vuoto, in procinto di farsi un bagno.
- Voi! – la richiamò col fiatone.
Non avrebbe mai picchiato una donna, né l’avrebbe strattonata, a meno che non si trovasse ad uno degli incontri della congrega.
Myriam si voltò verso di lui, squadrandolo.
- Che cosa volete?
Ambrose si avvicinò a lei. – Parlare con voi.
- E di cosa potremmo mai parlare, io e voi, giovane uomo?
- Del perché avete maledetto il mio amico, permettendo ad un maniaco dall’anima corrotta di abitare il suo corpo – affermò deciso, riuscendo a sorprenderla.
- Dunque ha confessato tutto, quell’infame dal cuore marcio… – dedusse lei.
- Perché??
- Abbiamo un patto, io e lui.
- C’è un modo per far finire tutto questo?
- Non mi basta. Non mi basta far finire tutto questo. Gli provocherebbe un grande dolore, certo, ma voglio farlo soffrire ancor di più.
Voglio condurlo al punto di fargli desiderare di porre fine alla sua esistenza.
Ambrose temette gli occhi della donna, trovandovi dentro tutto l’odio che non aveva mai visto in vita sua.
Lo sguardo della strega era qualcosa di estremamente risoluto e pericoloso.
A ciò, decise di sfruttare la cosa a suo favore: 
- Proprio per tal motivo tutto questo deve giungere al termine.
La persona che sta soffrendo di più, in questa situazione, non è il monaco, bensì un ragazzo innocente, che sta letteralmente impazzendo.
Per condurre al suicidio il monaco quanto vi ci vorrà?
Non sarà mai, mai abbastanza per voi.
Vi scongiuro, sono disposto a fare tutto ciò che mi chiederete, per farvi porre fine a questo supplizio, per farvi liberare il mio amico.
Tutto ciò che volete!
Lui può essere libero e voi potrete comunque avere la vostra vendetta! – esclamò inginocchiandosi umilmente a terra, prostrandosi a lei, nonostante lei rappresentasse il nemico.
Nonostante non fosse la sua dea, né sua madre o la sua signora.
Myriam rimase sinceramente colpita da una tale dimostrazione d’amore nei confronti di Folker, tanto da provare compassione e rispetto per quel goffo ragazzone prostrato ai suoi piedi.
- Alzatevi, Ambrose – lo incoraggiò, vedendolo storcere il naso nell’accorgersi che lei conoscesse già il suo nome. – Uno come voi non può dare niente ad una come me – gli rispose sinceramente. - Tuttavia, c’è un modo per far finire tutto questo, per farvi riavere il vostro amico.
Seguitemi. Vi spiegherò tutto.
 
 
 

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Capitolo 50
*** Gli déi siamo noi ***


Gli déi siamo noi
 
 
La bambina gironzolò per la fucina, ora totalmente ristrutturata.
Sistemata in quel modo, con tutti gli oggetti e le cianfrusaglie tolte, l’ambiente era molto più arieggiato e respirabile. Sembrava persino vi fosse più luce.
Bonnie curiosò un po’ in giro, sorridendo. – Potrei addirittura dormire qui, per quanto mi piace!
- Tu non puoi dormire – le rispose quella voce secca.
A ciò, la bambina si voltò verso di lui, trovandolo di spalle, con il volto rivolto verso la fornace spenta.
Bonnie mise il broncio e gli si avvicinò da dietro.
- Prima che tu facessi lo sbruffone stavo per complimentarmi con te, per come l’hai sistemata bene, in soli pochi giorni. Deve essere stato sfiancante, considerando tutti gli impegni che hai alla galleria.
Il ragazzo continuava a non guardarla, così lei gli si avvicinò ancor di più, fino a far scontrare il fiato con la bassa schiena di lui. – Blaaaaaake – lo richiamò allungando le vocali in mezzo al nome, in modo infantile. – Perché non ti giri a guardarmi?
- Perché non esisti, esattamente come il Mostro Dietro di Te, come la strige, gli Incubus e come tutte le altre stupide leggende che ci raccontavano.
- Quindi speri che, esattamente come il Mostro con cui ti spaventavano da piccolo, io esista solo perché rimango dietro di te?? – domandò lei ridendo. – Ma è ridicolo! Parli più con me che con qualsiasi persona che conosci. È un po’ preoccupante, non credi?
- Lo è, ma me ne sono fatto una ragione oramai.
- Posso farti una domanda?
- Io non ho potere decisionale quando io e te comunichiamo.
- Non credi che, se il conte Agloveil riuscisse ad arrivare qui e a prendersi Bliaint, vi considererebbe feccia proprio perché quasi nessuno qui sa leggere e scrivere?
Nel mondo là fuori è una cosa scontata, saper leggere e scrivere.
Chi non sa farlo è giudicato un bruto, una persona da tenere alla larga o da trattare in maniera inferiore.
Lo sai?
- Certo che lo so.
- Beh, tu non saresti trattato in maniera inferiore… dato che sai leggere, scrivere, e addirittura fare calcoli! Sei più intelligente di loro e sai un sacco di cose che persino la gente del mondo là fuori non sa… e per cui ti ammirerebbe.
- Dove vuoi arrivare? – le domandò con un cipiglio snervato, voltandosi finalmente verso di lei.
- Eccoti qui! – esclamò la bambina allargandosi in un grande sorriso. – Stavo solo ipotizzando che… magari, potresti scappare via di qui prima che il conte ti raggiunga – disse casualmente, guardando altrove mentre gongolava a destra e a sinistra, spostando il peso da un piede all’altro come amavano tanto fare i bambini.
- Cosa…?
- Pensaci, Blake: puoi fare come Selma e Sybil e metterti in viaggio per cercare qualsiasi cosa tu stia cercando, altrove, lontano di qui. Insomma, tanto avresti comunque voluto andare via da Bliaint, no?
- Oramai mi sono battezzato, ho il marchio di Bliaint. Se scappassi via non potrei tornare mai più.
- Ed è una cosa negativa?? Insomma, il conte verrebbe qui e non ti troverebbe. Renderebbe tutti schiavi, e Bliaint non esisterebbe più comunque.
Ma tu saresti salvo, a differenza di tutti gli altri.
- Sono colpito, Bonnie. Sentiamo: quale sarebbe il tuo “brillante” piano? – le domandò affilando lo sguardo, incuriosito.
- Innanzitutto, potresti prendere tutto il denaro che hai qui, e ne è davvero molto, considerando l’attività che hai ereditato da tuo padre.
Porteresti il denaro con te e ti compreresti una barca, o una nave magari!
Poi viaggeresti e andresti in terre lontane, a studiare l’alchimia, a cercare l’elisir, e a diffondere il tuo sapere sulla polvere nera.
Potresti fare così tante cose se solo uscissi di qui! Insegnare agli altri, farti degli amici in ogni continente, essere ammirato e stimato da tutti, trovarti una donna esotica, quella che preferisci, e costruirti una famiglia con lei, ovunque tu voglia.
L’unica cosa che dovresti necessariamente fare per avere tutto questo, è nascondere le tue origini. Nessuno dovrà mai sapere che sei un servo del Diavolo di Bliaint. Mai. 
Non dovrebbe essere difficile, no?
Tu sai fingere bene.
- Non potrei mai fare una cosa simile.
- Perché no? Cosa ti frena?? Non hai nulla che ti lega davvero qui. Le persone che ami… quelle le dimenticherai.
- Ci sono delle persone che non si possono dimenticare, Bonnie. Tu dovresti saperlo bene – le disse, paziente, per la prima volta parlandole come avrebbe parlato ad una qualsiasi bambina, ancora incosciente, infantile, ingenua e non in grado di comprendere tutto sul mondo circostante.
Lei assunse uno sguardo incredulo, poi lievemente contrariato.
- Ci sono delle persone che non potrai dimenticare, Bonnie. Non è vero?
La bambina abbassò lo sguardo, sconfitta. – Mia madre. E mio fratello.
- Devono mancarti molto. Perché non fai visita a loro invece di fare visita a me?
- Perché loro non sono pazzi, Blake.  Tu sì, grazie al mercurio.
- Non è solo il mercurio – rispose lui. – Mio padre ha detto che altri membri della nostra famiglia hanno perso la testa a causa della galleria. A quanto pare non sono l’unico.
- Ma sei l’unico che ha aspirazioni e ambizioni così grandi e surreali. Quindi è per la galleria che non vuoi andartene via?
- Non solo – ammise.
- Oh… avevo dimenticato.
L’unico motivo per cui dici sempre di essere ancora qui...: Ioan.
Beh, puoi portarlo con te, no? Viaggereste insieme come due fratelli.
Potresti portarti dietro persino il prete e Quaglia! Loro sarebbero felici di venire con te.
- Non è solo per questo.
A ciò, Bonnie si rabbuiò, quasi un velo di innocente gelosia le aleggiasse sul bellissimo visino macchiato di terra. – Quella ragazza. Che cos’ha di tanto speciale, da spingerti a non volerla lasciare?
Blake non rispose, serrò le labbra e restò a guardarla.
- Lei ha perso la memoria, non si ricorda più di te! Che cosa speri??
- Nulla. Ma se la lasciassi qui, in balìa di tutto il male che pullula e sfrigola sotto e sopra il suolo di questo dannato villaggio, non me lo perdonerei.
- Portala con te – sputò lei, offesa.
- No, non posso. Non posso andarmene, Bonnie.
- Allora resta qui e marcisci qui.
Spreca tutto il tuo potenziale, spreca tutto ciò che sei e che hai… per rimanere qui!
Prima o poi finirai sepolto in quella dannata galleria, esattamente come me, lo sai?
Oppure finirai bruciato. È molto più probabile che finirai bruciato, sì.
L’odore delle tue carni arse dalle fiamme salirà fino al cielo, compiacendo il Creatore che tu tanto miscredi.
Lo sai che non lasceranno mai che quel conte ti prenda con sé, vero?
Pensano che il Creatore e il Diavolo ci proteggeranno nel momento del bisogno… ma se tu hai già sdegnato e disonorato sia il Creatore che il Diavolo… allora non meriti la loro protezione.
E piuttosto che lasciarti ad uno straniero… preferirebbero farti divorare dalle fiamme.
“Ogni anima di Bliaint è sacra. Nessun abitante di Bliaint legittimamente battezzato può finire nelle mani del nemico” – recitò lei fintamente solenne.
Blake non rispose. Di contro, voltò il viso verso la finestrella, da cui entrava più luce di quanto si aspettasse.
- Blake?
Stavolta la sua voce era dolce, quasi timida.
Il ragazzo si voltò di nuovo verso di lei.
- Cosa farai quando avrai imparato tutti i segreti per maneggiare la polvere nera? Ora che Judith non ricorda più niente non può ricordarsi neanche del vostro patto.
- Lo porterò a termine io.
- Pensi che i monaci ti daranno ascolto?
- Probabilmente no. Però potrebbero ascoltare lei. Potrei parlargliene, fingendo sia stata solo una mia idea, e lei mi aiuterebbe sicuramente. È quello che vuole, d’altronde. Anche se si è dimenticata di volerlo.
- E se nessuno vi ascoltasse? E se i monaci non ci fossero più?
- Userò la polvere nera in altro modo.
- Ma prima devi scoprire se l’oro-
- No – la interruppe, categorico. – Niente oro. Non voglio più scoprire nulla che riguardi l’oro, il piombo e la trasmutazione. Non mi interessa più.
Bonnie lo osservò, sorridendo sorniona.
- Blake?
- Che cosa vuoi ancora?
- Mi fai vedere quel trucchetto che mi piaceva tanto? Quello del sasso.
Blake sgranò gli occhi a tale richiesta.
- Non me lo hai più chiesto. Non me lo hai mai chiesto da quando-
- Ti prego – lo supplicò con uno sguardo tristemente lacerante, uno sguardo sin troppo adulto per appartenere ad una bambina.
Blake annuì e si accovacciò. - Hai trovato un sasso appuntito per me, Bonnie? – le domandò, come faceva sempre un tempo, quando la scorgeva da sola, ad attendere che il suo papà uscisse da quel buco senza fondo.
Bonnie annuì e infilò la manina nella tasca ma, come accadeva sempre, non lo trovò. – Dov’è finito? -chiese. - Ricordo di averlo messo proprio qui…
- So io dov’è – le rispose Blake infilando la mano nella sua di tasca, e tirando fuori il sasso di Bonnie.
- Come hai fatto?
Di rito, il ragazzo chiuse la mano destra a pugno con il sasso dentro, poi avvicinò l’altra mano all’orecchio di Bonnie, la mosse come per afferrare qualcosa, e vi tirò fuori lo stesso sasso, il quale era miracolosamente scomparso dall’interno della mano destra.
Bonnie batté le manine entusiasta. – Mi piace questo nuovo trucchetto.
- Bene. Dopodomani … te ne mostrerò un altro.
Un magone intenso e deflorante lo colpì, mentre la guardava in quegli occhi tanto familiari e tanto infantili, rivedendoci di nuovo, per la prima volta, la stessa bambina che era morta quel giorno, sepolta da chili e chili di terra scura, e non il suo fantasma ossessivo e perseguitante.
- “Lei si sta per svegliare...
Lei si è svegliata...” – iniziò ad intonare la piccola.
Ora. Ora la riconosceva. Riconosceva quello stesso fantasma tormentante.
- “Ha cercato tutti i suoi pezzi e li ha rimessi per bene insieme.
Hanno iniziato a muoversi da soli
Hai visto il mio sudario, madre?
È tutto bagnato dalle lacrime.
Ti prego, smetti di piangere, mamma
Altrimenti non riesco ad addormentarmi nel mio lettino sottoterra” – concluse, prendendogli poi una mano, visibilmente più grande e lunga delle sue, stringendola. – Resterò con te – gli promise tra le lacrime, e il ragazzo non capì inizialmente. – Resterò con te anche quando sarai su quel soppalco e il fuoco consumerà ogni parte di te, reclamandoti.
Goditi il sole, Blake.
Cerca di osservarlo il più a lungo possibile.
Il sole ti illuminerà quando brucerai e tu, tu, quel giorno, dovrai essere in grado di guardarlo.
E con quella profezia nelle orecchie, Blake aprì gli occhi, incontrando la luce del sole che lo colpiva, dalla finestra alla sua destra.
Era un sogno. Uno dei tanti, uno dei migliori, forse.
Si ritrovò semisdraiato sul divano di pellicce accanto all’entrata, di fronte al camino spento, i piedi a terra e la schiena comodamente poggiata sullo schienale.
Si voltò verso il sole che entrava dalla finestra, come richiamato dalle parole di Bonnie.
Stava arrivando la primavera, e con essa il caldo.
Il sole si stava intensificando ed ora entrava in ogni spiraglio libero della casa.
Si godette quel piacevole calore, fermo e in silenzio, le palpebre ancora semichiuse, fin quando Quaglia non proruppe nel suo campo visivo.
L’uomo gli rivolse un sorriso quasi paterno e si sporse verso di lui, afferrandogli una ciocca di capelli castani e tastandola, per capire quanti granelli di terra vi fossero imprigionati. Quando lasciò andare la ciocca dalla consistenza farinosa si ritrovò le dita piene di quei granelli.
- Buongiorno – gli disse.
- Che ore sono…? – domandò Blake con un fil di voce.
- Come vedi il sole è già alto in cielo e ti sta illuminando da qualche oretta, suppongo, incoraggiandoti a sorgere e a splendere. È tarda mattinata.
Ti sei addormentato qui, in soggiorno. Esattamente come ieri e come il giorno prima.
Sei stato tutto il pomeriggio, la sera e mezza nottata alla galleria, a scavare con gli scavatori, con la testa sepolta sottoterra dove ti piace tanto stare; poi, sfinito, sei tornato a casa e ti sei abbandonato qui, addormentandoti. Qualche vago ricordo al riguardo?
- Qualcuno, sì.
- E mentre tu ti ustionavi qui al sole nell’incoscienza, sai cosa ho fatto io, invece?? – domandò con una certa fierezza.
Blake non disse niente, lo guardò dal basso in attesa, sempre con gli occhi semichiusi dal sonno, e un vago sguardo interrogativo.
- Ho terminato di ristrutturare la fucina! Insomma, il grosso lo abbiamo fatto insieme negli ultimi giorni, certo, ed era già un ottimo lavoro, però mi sono preso questa mattinata per rifinire i dettagli rimanenti, ed ora è davvero perfetta. Vuoi venire a vederla?
- Ho bisogno di un bagno, prima – rispose il ragazzo stiracchiandosi e aderendo ancor di più alle pellicce su cui era abbandonato, voltando il viso dalla parte opposta al sole.
- Sarebbe il nono bagno in cinque giorni.
- Quaglia. Lo hai constatato anche tu: ho terra conficcata in ogni piega del corpo, anche dentro i calzoni. Azzarderei a dire che ne ho bisogno.
- D’accordo, ma stavolta al rifornimento di acqua ci pensi tu.
- C’è stata una sola volta in cui non ci abbia pensato io…?
- Ah, e un’altra cosa – disse l’uomo accostando ancora il volto verso di lui e affilando lo sguardo. - Dovresti evitare di addormentarti di nuovo sotto al sole: il tuo naso si sta spellando. D’altronde, hai il naso come quello dei gatti, non è strano che sia la prima zona a spellarsi.
- Che cosa…?
- Il naso come quello dei gatti. Che tende all’insù. Verso il sole. Come altro posso dirlo?
- Quaglia..
- Che c’è? Guarda che è molto amato e invidiato il tuo tipo di naso, le donne ne vanno pazze.
- Quaglia…
- Comunque non lo sapevi? Che restare troppo sotto il sole fa male a chi non vi è abituato?
- Quaglia, è troppo chiedere di darmi tregua, per cortesia? – la voce del ragazzo era pericolosamente vicina al truce, nonostante la sua postura fosse rilassata e la testa adagiata indietro.
L’uomo sorrise divertito, lasciandosi cadere seduto accanto a lui.
- Ad ogni modo, ho preparato anche la colazione. Immagino avrai una fame da lupi.
Blake accennò un impercettibile sorriso. – Ho un buco nello stomaco grande quanto la tua inappropriatezza. Mangerei persino quella stomachevole poltiglia che preparava mio padre e che spacciava per zuppa d’avena.
Quaglia si voltò a guardarlo, spostando lo sguardo verso l’opale appeso al suo collo.
- Senti la sua mancanza?
Blake, il quale si aspettava una domanda simile, restò con gli occhi fissi sul camino spento. – Qualsiasi cosa io risponda sarebbe la risposta sbagliata. Lo sarebbe per te, lo sarebbe per me, o lo sarebbe per gli altri. E no, ora non cominciare ad introdurre un discorso sul rapporto difficile tra te e tuo padre, di cui hai ricordi frammentati, perché non sono in grado di reggerlo.
Quaglia accennò un sorriso in risposta. – Quando mi sono svegliato e mi sono ritrovato dinnanzi alla tua faccia, e a quella di Ephram, mi sentivo vuoto, perso, spaesato.
Letteralmente “nessuno”.
Ma mi è bastata una giornata con voi e con Selma per comprendere che mi aspettasse molto da vivere, che il futuro aveva qualcosa per me, nonostante non ricordassi chi ero.
Siete stati il mio baluardo di speranza, un po’ come lo sono dei genitori per i neonati.
Non dirò mai una parola di tutto ciò ad Ephram, o il suo ego si gonfierà ancor di più – disse, sorridendo tra sé.
- Non dovresti dirlo neanche a me – rispose Blake. – Ephram è una persona migliore di quanto non creda.
- Strano vederti in vena di complimenti – constatò l’uomo, facendo abbassare il volto del ragazzo, che si delineò in un amaro sorriso.
- Sto riflettendo su un paio di cose.
- Hai uno sguardo strano. Colpa di uno dei soliti incubi?
- Non sono solo incubi – rispose serio. – Dobbiamo accettare il fatto che siano allucinazioni e che io sia più folle di quanto la gente creda. Dovresti accettarlo anche tu.
- Io l’ho accettato.
- Non credo proprio – gli rispose di getto, voltandosi a guardarlo.
- Per quanto possa sembrare conveniente da dire, Blake, nel corso della mia vita passata ho conosciuto uomini, alchimisti, molto più folli di te. Non basta essere tormentati da spiriti e allucinazioni per perdere il senno. Mio nonno era un pazzo, la cui ossessione è arrivata a rischiare di decimare un intero villaggio. Non esercitava l’alchimia per fare del bene.
- Non lo faccio neanche io.
- Ah no?
Hai passato la tua intera, seppur breve, vita ad annullarti per dare qualsiasi tipo di cura a tuo fratello, a provare letteralmente di tutto per guarirlo.
Poi, quando sei riuscito a farlo stare meglio, ti sei messo alla ricerca della polvere nera per un nobile fine, di cui ancora quasi nessuno è a conoscenza.
Per quanto tu possa essere un mascalzone, algido, cinico e indisponente.. tutto ciò che vedo nelle tue azioni è bene.
- La trasmutazione non ha nulla di nobile.
- La trasmutazione dell’anima sì.
- Ma non è quello che sto cercando.
Neanche ciò che ho fatto al Giudice ha nulla di “buono”.
Il fine dell’alchimia dovrebbe essere positivo, mirato a raggiungere la luce.
Io non sento di star percorrendo quella strada.
- Qualunque strada tu stia percorrendo, Blake, è la strada che ti sei scelto.
Non credi in Dio, ma hai una morale. È questo l’importante.
Sai cosa è giusto e cosa è sbagliato, conosci qual è il limite da non superare – dicendo ciò, si voltò a guardarlo, di nuovo. Solitamente Blake appariva sempre più grande, più maturo dell’età che aveva. Quella fu la prima volta in cui, in lui, vide il ragazzo di soli diciassette anni che era in realtà, con quel viso giovanissimo e delicato rivolto verso il basso, gli occhi grandi e persi chissà dove.
Ma qual era il vero fine dell’alchimia, alla fin fine?
Forse padre Craig avrebbe saputo cosa dire in quel momento.
Loro tre erano riusciti a stabilire una bella connessione reciproca.
Il pensiero del giovane prete cacciato di casa gli invase la mente, e fu come se Blake lo percepì distintamente, in quanto gli diede improvvisamente un’informazione che non aveva chiesto:
- Sta bene. Padre Craig ha chiesto ospitalità a Judith e lei gliel’ha data. Sta vivendo alla cattedrale del Creatore.
- Chi te lo ha detto?
- Judith.
Quaglia non fece ulteriori domande.
Sapeva non fossero affari suoi, e la speranza di poter un giorno anche lui ritagliarsi uno spazio dentro il cuore di Judith era stata soppiantata da altri ideali ben più importanti e urgenti al momento.
Nonostante tutto…
- So che hai tentato di approcciarla – disse improvvisamente Blake, senza alcun tono di accusa.
Quaglia si voltò a guardarlo, studiandolo ancora. – La cosa ti disturba?
- Come non provo gelosia verso Imogene, non la provo verso di te, né la proverò verso nessun altro che l’avrà in futuro. Ho rinunciato a lei settimane fa.
- Ma lei non ha rinunciato a te – affermò quella verità oggettiva, con calma e tranquillità.
Blake sembrò non capire.
- Vi ho visti. Alla cerimonia funebre. Lei… non appena ti ha visto, era come se avesse visto qualcosa di raro, intenso e prezioso.
- Crede di non conoscermi, Quaglia. È normale che mi guardi come si guarda qualcosa di nuovo e inesplorato, uno sconosciuto interessante, specialmente se tal sconosciuto è in lutto.
- Credeva di non conoscere nemmeno me e padre Craig. Eppure, non ha mai guardato nessuno dei due così.
Nemmeno Imogene.
Credo non abbia mai guardato nessuno come guarda te.
Ti guarda come si guardano le cose importanti. Davvero importanti.
Blake si voltò verso di lui, con lo sguardo di qualcuno che non crede ad una sola parola che gli è stata detta, ma che permette comunque allo speranzoso seme del dubbio di insinuarsi in lui.
- Tutto quello che avevamo non c’è più – confermò ugualmente.
- E se il suo sentimento rinascesse, daccapo, esattamente come prima? Come reagiresti? – lo mise alla prova. Voleva sentirgli dire che la voleva, che la desiderava, per una volta.
Non perché volesse soffrirne, ma perché voleva vederlo, voleva sentirlo desiderare qualcosa che non fosse lo scavalcare la natura o il sostituirsi a dio, per una volta.
Qualcosa che non fosse la galleria, che non fosse la polvere nera, che non fosse la trasmutazione o una cura per una malattia incurabile.
Qualcosa di essenzialmente umano, come umano era l’amore.
L’amore che era convinto Blake provasse verso il rarissimo fiore scarlatto che era Judith.
Ma non accadde. Non ammise nulla davanti a lui.
Eppure, quando quel sentimento fosse nato di nuovo in lei, esattamente come era prima.. era certo che Blake avrebbe colto l’occasione stavolta, rimediando all’errore di non averla colta in passato, quando avrebbe dovuto.
Ed era giusto così.
In tale equazione, lui e padre Craig ne uscivano inevitabilmente sconfitti.
Ma ciò non sarebbe importato.
Eppure, la preoccupazione per padre Craig non poté evitare di farsi strada in lui.
Quaglia, così come Philippus, teneva ai suoi amici, aveva sempre tenuto a loro.
Craig, quell’uomo sin troppo candido e buono per il mondo in cui si era ritrovato a vivere, ne sarebbe uscito distrutto, molto probabilmente.
Era un’eventualità che Quaglia voleva evitare, o almeno tentare di evitare.
Ma qualsiasi cosa avesse fatto, avrebbe potuto peggiorare la già delicata situazione dei due, perciò doveva essere cauto e maneggiare quel filo spinato con cura e dovizia.
- Ti sei interessato di padre Craig – disse, riprendendo il discorso di prima. – Hai chiesto a Judith se fosse con lei per sapere come stesse. Dunque tieni a lui – tentò, guardandolo di sottecchi.
Blake non ebbe particolari reazioni, ma fece ricadere ancora la testa all’indietro, sopra lo schienale morbido, volgendo il volto verso il cielo.
- Perché ne sembri tanto sorpreso? Ovvio che io tenga a lui.
Quaglia alzò le spalle in risposta. – Il tuo atteggiamento nei suoi confronti è criptico, talvolta. Sembra quasi che da lui tu pretenda più che dagli altri. Cosa deve farsi perdonare da te, Blake?
Il ragazzo vi pensò su. – È ancora qui. Dopo tutto quello che è successo, è ancora qui, a Bliaint.
Quaglia aggrottò le sopracciglia, cercando di non dire una parola di troppo. – E per quale motivo credi lui sia ancora qui?
- Non vuole staccarsi da me. Da me e da Judith.
L’uomo sgranò gli occhi. Forse, al contrario di quello che pensava, Blake sapeva… forse lo aveva già capito da tempo.
- La sua è una vera e propria dipendenza – continuò il ragazzo. – Non capisco cosa voglia dimostrarmi con questo. Non lo capisco. E lui non capisce me.
Oppure no. Non lo aveva capito, invece, perché per lui era inconcepibile.
Persone come Ephram o Beitris dimostravano subito, in maniera diretta e palese, cosa volessero da qualcuno. Blake era avvezzo a questo tipo di atteggiamento, quello di persone affatto discrete nel mostrare un interesse carnale, che non avevano paura di guardare troppo, di parlare con lo sguardo.
In parte anche con Judith era stato così, anche se il processo era stato più graduale.
Padre Craig, invece, era tutta un’altra storia.
Era un uomo davvero particolare e interessante, padre Craig.
Padre Craig aveva paura del proprio sguardo. Ne era terrorizzato.
Padre Craig non conosceva il proprio corpo, non sapeva di cosa fosse capace, doveva ancora imparare ad accettare i propri sentimenti, le proprie emozioni viste e sentite come dannose e peccaminose.
Padre Craig aveva paura di se stesso e di quello che era in grado di provare.
Quel giovane uomo possedeva tutto l’amore del mondo dentro di sé, e lo avrebbe donato tutto, senza remore, ad una sola persona. O meglio, a due.
Ma quella persona, la persona che gli aveva rubato il cuore dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lui, non voleva amore.
Non lo voleva, faceva fatica a non rigettarlo persino da colei che aveva l’onore di essere ricambiata da lui, e ciò rendeva il tutto ancor più complicato e straziante.
Non era un rifiuto, non vi era mai stato un vero e proprio rifiuto, altrimenti sarebbe stato tutto più semplice, e quel giovane prete dal cuore grande avrebbe potuto farsene una ragione. Sicuramente ci sarebbe voluto del tempo, molto tempo, ma forse, andandosene via da Bliaint e non tornando più, avrebbe potuto seppellire quell’amore impossibile e velenoso da qualche, sostituendolo con altro.
Oppure, nella peggiore delle ipotesi, si sarebbe lasciato deperire e morire lentamente.
Ma dato che un rifiuto non c’era mai stato, così come non vi era mai stata un’esplicitazione dei suoi sentimenti, la speranza continuava a piantare radici insidiose e solide in lui, aggrappandosi a letteralmente qualsiasi cosa, pur di sopravvivere.
Un circolo vizioso terribile e scandalosamente intrigante insieme: padre Craig continuava ad amarlo follemente di nascosto, e Blake continuava a non accorgersi di essere guardato e desiderato in tal modo, poiché, fin quando la realtà dei fatti non gli fosse stata sbattuta in faccia con violenza, non l’avrebbe notata neanche vagamente.
Il suo non desiderare alcun tipo di attenzione, portava a questo.
Ma padre Craig non riusciva a non dargli attenzioni, neanche con una grande dose di impegno.
Eccolo, il fulcro della loro eterna discordia.
Se solo Blake lo avesse saputo… avrebbe posto fine alle sue sofferenze, rifiutando tutto il suo amore forse con più garbo di quanto credeva fosse capace, e sarebbe finita.
Probabilmente Judith lo aveva già fatto, considerando quanto la fanciulla fosse sensibile e perspicace sotto tal punto di vista.
Non vi era alcuna possibilità che il ragazzo ricambiasse. Nessuna.
Quella situazione andava avanti da mesi. Quaglia non riusciva neanche ad immaginare quanto dovesse essere sfiancante per padre Craig tutto ciò.
- Non dovresti essere così duro con una persona che pende dalle tue labbra – lo disse senza pensare, spinto dalla frustrazione e dalla tristezza nei confronti di quel sentimento devastante che stava consumando quello che oramai considerava un amico.
In ogni caso, Blake non avrebbe interpretato quella frase nel modo giusto.
- Sono duro con lui proprio perché pende dalle mie labbra – rispose il ragazzo voltandosi a guardarlo.
- Per quale motivo?
- Non ho bisogno della devozione di nessuno.
- Dunque, lo stai punendo per la sua devozione? Perché gli importa tanto di te da donarti delle attenzioni che non dà ad altri?
- Oh Quaglia, non lo tratto diversamente da come tratto te e qualsiasi altro.
- Ma lui si merita di più da te.
- Cosa si merita da me?
Quella domanda lo fece ammutolire.
Era in una strada di non ritorno.
- Non fraintendermi. Lo so che qui a Bliaint nessuno fa nulla senza interessi. Ogni azione ha sempre la finalità di ottenere qualcosa in cambio. Ma non è quello che volevo dire.
Lui non vuole nulla in cambio, da te. Nulla – affermò con convinzione, come per convincerlo, ma scoprì subito che non ve ne fosse bisogno:
- Lo so – gli rispose Blake accennandogli un sorriso. – Lo so bene. Il giorno in cui lui arrivò a Bliaint da Armelle, lo accolsi con molta diffidenza. I miei genitori mi diedero il compito di fargli da guida, e io avrei preferito fare letteralmente qualsiasi altra cosa, pur di non trascorrere la giornata a fare da balia ad uno straniero.
Lui aveva un atteggiamento buffo ed estremamente impacciato, e nonostante avessi percepito che fosse un uomo buono, non riuscivo a fidarmi di lui.
Però mi divertiva stuzzicarlo giocosamente, qualcosa che ho sempre amato fare con le personalità come la sua.
Padre Craig non mi tratta diversamente da come mi ha trattato quel primo giorno, in cui ci siamo conosciuti.
Io ero volutamente irritante, ma lui mi ha sempre trattato con bontà, una bontà traboccante di attenta premura, celata dietro quell’aria impacciata, fintamente accigliata e sostenuta.
Piano piano, con infinita pazienza e grazia, è riuscito a guadagnarsi la mia fiducia.
Per questo so che non vuole nulla in cambio.
Non l’ha mai voluto.
Ma ciò non toglie il fatto che non capisco cosa voglia dimostrarmi.
Quaglia aveva la bocca schiusa per la sorpresa e gli occhi sgranati, a tale influsso di informazioni.
L’ha sempre amato.
L’ha amato nonostante il suo atteggiamento scontroso e provocatorio.
L’ha amato senza rendersene conto, nonostante qualsiasi altra persona avrebbe recepito i segnali e gli sarebbe stata alla larga.
Forse lo ha amato proprio per questo.
Ha perseverato sempre e lo ha amato dal primo attimo.
Motivo per cui lo avrebbe amato fino all’ultimo.
Tale pensiero lo fece immergere nuovamente in una fitta tristezza, persino più angosciosa di prima.
Per quanto Quaglia tenesse a Blake, lo rispettasse infinitamente, lo ammirasse, nutrisse un immenso amore fraterno nei suoi confronti, non poté fare a meno di pensare che Blake non se lo meritava un amore così.
Si voltò a guardare il suo profilo, di nuovo, riconfermando la sua ipotesi: Blake era strano quel giorno.
Perso in luoghi dove Quaglia non poteva accedere e ciò, inevitabilmente, lo allarmava.
Chissà se la ragione del suo stato erano Ioan ed Heloisa, lontani da lui.
- Questi giorni ho pensato spesso a tua madre. Alla sua situazione, e a come possa stare Ioan soprattutto. Credi si stia ribellando o che si sia adattato a stare con lei? Pensi… che stiano bene? Non vorresti chiedere qualcosa a Imogene a riguardo?
Blake strinse i pugni tra loro, involontariamente. – È troppo rischioso. Non voglio mettere mio fratello in pericolo, in alcun modo – rispose. Razionale e pratico, come sempre. – Mi manca – ammise, sottolineando qualcosa che sì, era ovvio, ma che era molto difficile sentirgli dire.
- Vedrai che presto-
- No, non dirlo. Non dire menzogne tali a cuor leggero. Sai che non è così – lo bloccò il ragazzo. – I monaci la stanno già cercando. La cercheranno ovunque. Questa faccenda non si risolverà in poco tempo. Non sappiamo quanto dovranno restare nascosti – concluse, atono e apparentemente rassegnato.
A ciò, Quaglia stava per rialzarsi in piedi e incoraggiarlo a fare altrettanto per fare colazione insieme, ma Blake parlò di nuovo:
- Quaglia?
- Sì?
- Cosa credi avrebbero fatto le genti del tuo villaggio se un servo del Diavolo di Bliaint fosse approdato lì, con l’intenzione di restarci?
Tale quesito improvviso lo destabilizzò un poco. – Intendi chiedermi se si sarebbero comportati come si sono comportati a… Carbrey, con te?
Blake non rispose, dandogli una muta conferma.
- Beh.. non so dirtelo con certezza.
Sarebbe bello poter dire non si sarebbero comportati in maniera tanto bestiale e brutale.
Ma, a dir la verità, non lo so. Il mio villaggio non era un villaggio particolarmente religioso, quindi, forse…
- Ho capito – lo bloccò Blake. – Ti manca Philippus?
- Che cosa…?
- Ti ho chiesto se, talvolta, ti manca Philippus – ripeté il ragazzo, voltandosi a guardarlo.
Il mio vecchio me?
Mai.
- Forse.
I due vennero interrotti dal bussare della porta.
Blake si accigliò. – Aspettavi qualcuno?
- A dir la verità sì – rispose Quaglia, dandosi dell’idiota per essersi dimenticato a chi avesse dato appuntamento a casa quella mattina.
Scattò in piedi e andò ad aprire la porta, trovandosi davanti la figura scura di Hinedia.
La ragazza se ne stava a debita distanza, almeno a tre metri dalla porta, come se la sola idea di avvicinarsi a quella casa la impaurisse e tentasse insieme.
- Buongiorno – la salutò cordiale, vedendola alzare gli occhi su di lui e ricambiare con un debole sorriso.
- Buongiorno a voi.
- Non volete entrare?
- Preferisco rimanere qua fuori – disse lei, a disagio. – Vi aspetto qui.
Quaglia annuì. – Allora entro dentro e prendo l’occorrente. Possiamo spostarci nel retro della casa, così non saremo disturbati dai passanti – detto ciò, osservò i vestiti larghi, modesti e affatto agevoli che indossava la fanciulla. – Non potete combattere con quegli abiti – le disse senza filtri, vedendola sgranare gli occhi scuri.
Ella si diede un’occhiata da sé, poi rialzò lo sguardo imbarazzato sull’uomo. – Cosa… cosa dovrei indossare?
- Ora entro e vi prendo degli abiti giusti. Non vi vergognate ad indossare abiti maschili, vero? Se non volete entrare, potete cambiarvi nel retro della casa. Non passa mai nessuno di lì – detto ciò, senza attendere la risposta di Hinedia, rientrò in casa e prese tutto il necessario.
Dopo circa venti minuti, erano entrambi nel retro della casa, con la giumenta che li osservava annoiata, un bastone lungo e resistente stretto nelle mani di ognuno, e un’Hinedia quasi irriconoscibile: con dei pantaloni lunghi e non eccessivamente larghi, le forme morbidamente fasciate, una maglia leggera che le lasciava le braccia scoperte, Quaglia dovette ammettere che, nonostante il viso lasciasse indubbiamente a desiderare, la ragazza possedeva delle forme corporee niente male.
Non era eccessivamente bassa, e aveva la carne disposta nei punti giusti.
Era stata una bella trovata farle indossare alcuni dei propri abiti, e non solo perché in tal modo sarebbe stata più comoda e facilitata, ma anche per farle acquistare un po’ più di fiducia in se stessa.
Era la loro prima lezione e non era più nella pelle all’idea di insegnarle a combattere: per quanto non fosse la sua attività preferita, era una vita che non lo faceva.
- Prima regola da sapere nel combattimento: guardate sempre il vostro avversario, mai distogliere lo sguardo da lui – si raccomandò, mettendosi in posizione, e lei lo imitò, annuendo.
Andarono avanti per un po’, egli le insegno le tecniche base, fecero alcuni affondi, la fece esercitare con calma nell’attacco e nella difesa.
Hinedia era volenterosa, attenta e sorridente. In appena un’ora, l’espressione sul suo volto si era alleggerita e distesa totalmente. Si stava divertendo, e Quaglia non poté che esserne fiero.
Forse era anche merito del sole che li stava illuminando dall’alto.
Dopo l’ennesimo affondo da parte della ragazza, si aggiunse una figura a loro, la quale si affacciò dallo spigolo esterno della parete. Blake appoggiò la spalla al muro, rimanendo in disparte e a braccia conserte.
Non appena Hinedia lo vide, una serie di emozioni diverse si alternarono nel suo volto, Quaglia le riconobbe distintamente: imbarazzo, vergogna, senso di colpa, felicità, trepidazione.
- Buongiorno – lo salutò lei, distraendosi dal combattimento.
- Buongiorno a te – ricambiò il ragazzo.
- Come stai? – non poté fare a meno di domandargli la fanciulla.
- Non c’è male – rispose lui, sapendo bene che gli occhi stanchi e i vestiti sporchi di terra lo tradissero.
Se Quaglia voleva riacquisire pienamente l’attenzione di Hinedia su di sé per continuare la lezione, sapeva che avrebbe dovuto mettercisi d’impegno. L’alternativa sarebbe stata esortare Blake a rientrare in casa, ma non voleva farlo.
Per quanto Hinedia fosse di certo in soggezione davanti allo sguardo e alla presenza di Blake, si trattava di una soggezione positiva, che la spronava a fare di più, a fare meglio, per sorprenderlo.
- Stai distraendo la mia sfidante – gli disse giocosamente, continuando a guardare Hinedia, la quale emise un fugace sorriso imbarazzato, poco prima di parare un colpo di Quaglia.
Blake alzò le spalle in risposta, continuando ad osservarli incuriosito. – Non sapevo sapessi combattere.
- Beh, che te ne pare?? – gli domandò Quaglia, continuando a parare colpi.
- Discreto.
- “Discreto”?! – esclamò l’uomo fintamente offeso da quell’aggettivo provocatorio. – Come vedi, la mia allieva, a differenza tua, apprezza i miei insegnamenti – disse fiero, poi abbassando il bastone e voltandosi verso di lui. – Vuoi provare tu? – gli domandò in tono di sfida, porgendoglielo. – Dovresti provare.
Ma Blake, con un sorriso di superiorità, negò con la testa. – Non ne ho bisogno.
- Oh certo, giusto: scavare tutto il giorno e sbattere un martello su un’incudine ti insegnano già tutto quello che ti serve sapere per difenderti da un attacco armato – disse pungente, tornando su Hinedia, la quale sorrise di nuovo e riprese a parare i colpi.
Blake sorrise a sua volta in risposta, un sorriso che Quaglia non poté vedere, in quanto gli dava le spalle, un sorriso illuminato dal sole che lo colpiva, donandogli un calore lenito dal venticello che gli muoveva i capelli.
Si sentì spensierato per un attimo, solo uno, mentre guardava quella coppia improbabile andare inspiegabilmente d’accordo, e sfidarsi a colpi di bastoni in maniera scattante e intrattenente.
Chiuse gli occhi, godendosi quel vento e quel sole rigeneranti, mentre ascoltava i colpi di bastoni in sottofondo, il rumore dolce degli stivali che pestavano l’erba e lo sbruffare di Aliya.
Hinedia si distraeva a guardarlo ogni tanto, perdendo lievemente la concentrazione, ma non tanto da farsi atterrare dai colpi del suo maestro.
Vederlo così in pace, etereo nel suo stato di dolce trance apparente, solo lievemente infastidito dal sole a causa dei suoi occhi chiari, ma non turbato da ciò… la fece sentire bene.
Come se potesse essere perdonata.
- Signore! – esclamò la voce di un bambino piombato all’improvviso lì, rompendo quel piccolo idillio.
Il piccolo si stava rivolgendo a Blake.
- Cosa c’è? – gli domandò il ragazzo.
- Siete voi Even Blake?
- Sì.
- Ho una lettera per voi.
Blake ringraziò, prese la lettera e rientrò in casa.
Hinedia lo osservò andarsene, ignara che vi fosse anche un’altra presenza a poca distanza da loro, la quale li stava fissando da diversi minuti: Van Naren, nascosto nel retro di un’altra abitazione, scrutò ogni dettaglio di quella scena, per poi infilarsi le mani in tasca e andarsene nel momento stesso in cui il ragazzo era rientrato in casa.
 
I sensi di colpa per non aver detto nulla a nessuno lo stavano divorando vivo.
Il solo pensiero che per colpa sua a quel ragazzo potesse venir fatto del male…
Padre Craig non era riuscito a dormire a causa di ciò, a causa del proprio egoismo.
Avrebbe potuto dirlo comunque a qualcuno, a padre Thomas, ad esempio, per non mettere in pericolo Judith direttamente. Oppure parlarne proprio con padre Cliamon, per capire cosa lo avesse spinto a prestarsi ad un incantesimo tanto crudele e peccaminoso.
Tuttavia, se lo avesse fatto, Myriam avrebbe sicuramente fatto avverare la sua minaccia, e lo avrebbe fatto risvegliare la mattina seguente nel corpo di un’altra persona. Facendolo restare lì.
Poteva essere chiunque: un bambino orfano, una locandiera della Taverna, un vecchio sul letto di morte… a quel punto, nessuno gli avrebbe più creduto e la sua vita sarebbe finita.
Scese le scale e raggiunse una delle stanze più inesplorate della cattedrale ora semivuota.
 
Imogene terminò di scrivere la lettera e la imbustò.
Guardò tutto il denaro guadagnato in quei giorni ben insacchettato.
Era arrivato il momento. Sperava che le due pesti si sarebbero fatte leggere la lettera da qualcuno, o che avessero imparato a leggere nel corso di quei mesi.
Presto avrebbe compiuto l’incantesimo che avrebbe fatto arrivare ai suoi nipoti tutto il denaro di cui avessero bisogno, sperando che ciò potesse aiutarli.
Glielo doveva. Lo doveva a Drusilla in particolar modo.
L’unica famiglia rimastale ora, era sua cugina Heloisa.
Per quanto potesse amare Judith (oramai aveva imparato ad ammettere di amarla), la famiglia rimaneva sempre la famiglia. Nemmeno il rischio di mettere in pericolo Judith avrebbe potuto impedirle di aiutare la sua famiglia.
Rifletté sul perché fosse lì, su quando fosse iniziato tutto.
Il desiderio di crescere i gemelli di Judith come fossero i suoi si era trasformato in un amore puro e genuino nei confronti della ragazza.
Nei suoi sogni più proibiti, lei e Judith crescevano quei bambini insieme.
Ma Judith non li voleva i suoi bambini.
Voleva continuare a vivere la sua vita autonomamente, indipendente da tutto e da tutti, a raggiungere i suoi obiettivi senza nessuno ad intralciarla.
Pazza. Ingrata. Ma la amava proprio per questo.
Non aveva conosciuto nessuna donna tanto coraggiosa, decisa e ostinata.
Tuttavia, quei gemelli, nascendo, l’avrebbero uccisa.
E lei ne era consapevole. Eppure, non riusciva ad ucciderli.
Poteva esistere rapporto più tossico e morboso di quello?
Ripensò ai suoi, di bambini.
Al primo, il maschio, la sua perdita più grande, morto in grembo.
Alla seconda, la femmina, il suo rimpianto più grande, morta per mano sua.
Poi ripensò ad altri bambini.
Ai bambini sciagurati. I bambini prigionieri ai quali era stato rubato tutto, una vita intera.
Se i suoi figli non fossero morti e fossero vissuti al villaggio, avrebbero incontrato un destino simile a quello di quelle povere creature immacolate, bramate e massacrate dai monaci?
Le sarebbero stati strappati in culla?
Anche a quelli di Judith sarebbe toccato un destino simile?
No, i bambini di Judith rischiavano molto di più.
I bambini di Judith erano un abominio: figli del frutto di un servo del Creatore e di una serva del Diavolo, qualcosa che non accadeva da centinaia di anni.
Judith avrebbe dovuto ringraziare i due signori e qualsiasi altro dio del cielo esistente, per il fatto che i gemelli somigliassero molto più a lei che al loro padre.
Imogene aveva potuto vederli in visione, li vedeva ogni volta che entrava in contatto con loro, toccando il ventre gonfio della sua amata.
Sarebbero stati belli e forti.
E avrebbero potuto sviare ogni sospetto dei monaci e del villaggio, somigliando tanto alla madre.
Il suo pensiero ritornò ai bambini sciagurati, abusati nel corso dei secoli.
Oramai lei e Heloisa erano arrivate troppo lontane per poter tornare indietro.
Aveva svelato troppo. L’unica cosa da fare, ora, era scoprire, scoprire sempre di più, scavare più a fondo per non poter più tornare indietro.
E solo gli dèi potevano sapere quali altre abominevoli atrocità avrebbero scoperto, andando avanti in quella proibita ricerca nelle cripte.
Imogene aveva il terrore che avrebbero svelato qualcosa che avrebbero preferito non sapere, e che le avrebbe perseguitate per il resto della vita.
Esisteva un villaggio più turbe e mostruoso di Bliaint?
Un luogo in cui le perversioni e nefandezze sessuali fossero più disumane?
E lei, lei che portava il nome di Imogene, era davvero meglio di quei monaci che per secoli avevano perseguito tale strage?
Lei, che aveva ucciso la sua bambina nella culla, strappandole via una vita che le spettava di diritto dopo tanta fatica per ottenerla, era meglio di quelle bestie con la tunica monacale?
Ad ogni modo, non vi era scampo: i servi del Diavolo erano da sempre stati in pericolo tra le grinfie dei monaci.
Che fosse per il loro aspetto desiderabile, che fosse per la libertà di praticare la magia nera, che fosse per le invidie che suscitavano nei servi del Creatore, loro sarebbero stati sempre in pericolo.
Non vi era via di fuga che non fosse andarsene via di lì, il più lontano possibile.
Maroine e Maringlen, alla fin fine, avevano preso la decisione più giusta.
Ephram e Myriam l’avevano pregata di aiutarli a fare l’incantesimo di protezione per il villaggio, per difendere Bliaint dagli attacchi degli stranieri.
Non capivano che gli unici nemici da cui dovessero essere difesi, non erano gli stranieri, bensì gli abitanti di Bliaint stessi.
Erano tutti in pericolo, allo stesso modo.
Il disgusto verso se stessa e verso il mondo intorno a sé la invase, fin quando il rumore di nocche che bussavano alla sua porta non la riscosse dalle sue elucubrazioni.
Si voltò verso la porta aperta dello stanzino di scrittura, mettendo a fuoco la figura del prete straniero che Judith stava ospitando alla cattedrale.
Lo scrutò e, per una volta, si concentrò su di lui nel dettaglio invece di guardarlo con sufficienza e disinteresse: quell’uomo, fuori da Bliaint, sarebbe potuto essere considerato discretamente di bell’aspetto, ne era certa.
Gli standard fuori di lì non erano molto alti, e padre Craig era anche troppo gradevole alla vista per una donna straniera comune.
Non era particolarmente basso, non aveva pochi capelli né troppi, i suoi lineamenti non erano fini, ma neppure troppo duri e marcati.
Il suo corpo era coperto da una semplice maglia di tela e dei pantaloni di stoffa scura che, tutto sommato, non gli stavano male.
Non indossava mai la tunica monacale e nessuno gli domandava mai il perché, nemmeno Judith. Semplicemente, accettavano la cosa.
- A cosa devo l’onore? – gli domandò, risultando meno sarcastica di quanto avrebbe voluto.
Padre Craig forse notò il turbamento e la stanchezza mentale nel suo sguardo, in quanto la sua espressione inizialmente scontrosa mutò in una lievemente incerta e attenta.
Che animo premuroso…
O forse era solo l’aver scorto la potente e algida Imogene in un rarissimo momento di debolezza ad avergli fatto quell’effetto.
- Avete udito che i monaci hanno dato inizio alle ricerche di vostra cugina?
Sono convinti sia stata lei, oramai. Non ne hanno alcun dubbio e sono decisi a trovarla – le disse, come se si aspettasse qualcosa da lei.
Imogene si voltò maggiormente verso di lui, girando il busto fino allo schienale della sedia, e lo guardò affilando lo sguardo. – Dunque? Avanti, ditemi ciò che volete dirmi da una settimana, vi ascolto. D’altronde è questo il motivo per cui Blake vi ha cacciato di casa, no? Non condividete la loro decisione, ed ora smaniate di sapere se Heloisa e Ioan sono al sicuro. Potevate anche abbassare la testa e accettare il tutto senza fiatare, e sareste rimasto in casa con loro; e invece no, avete sentito l’esigenza di farvi cacciare di casa e di venire qui a ronzare intorno a Judith come una mosca fastidiosa.
Non voleva essere tanto dura con quell’uomo, in realtà.
Tuttavia, lui sembrò non battere ciglio. – Ditemi dove li avete nascosti. Voglio solo sapere se stanno bene. Non lo dirò a nessuno, ovviamente. So bene che, in una situazione tanto delicata, dirlo a qualcuno, anche ad una persona fidata, li metterebbe in serio pericolo. Non lo dirò neanche a Blake.
Imogene rise a quell’ultima frase. – Blake non vi rivolge la parola.
- Me la rivolgerebbe se sapessi dirgli dove sono suo fratello e sua madre, e se stanno bene. Ma, come ho detto, non lo dirò a nessuno, nemmeno a lui. Voglio solo essere sicuro che state avendo cura di loro.
- Diffidate di me, prete?
- Sarei un pazzo se non diffidassi di voi.
- Questa famiglia… la famiglia di Rolland, vi sta molto a cuore, vero?
- Ovviamente – ammise. – Sono diventati anche la mia famiglia, in parte.
- Sono anche la mia famiglia. Heloisa è mia cugina, ve ne siete dimenticato? Credete davvero che io possa far del male a mia cugina?
- Siete una sciamana e siete sbucata fuori dal nulla quando Judith ha perso la memoria. Non so quali siano i vostri veri scopi. È legittimo da parte mia diffidare di una donna come voi – le disse senza filtri.
- Non ne dubito – gli rispose. – Ma non posso dirvi dove sono, mi rincresce: se i monaci, per qualche motivo, dovessero interrogarvi e decidere di torturarvi, anche l’animo più nobile cederebbe. Meglio non rischiare.
- Ioan è malato – disse improvvisamente padre Craig. – Non so se vostra cugina ve lo ha già detto… oramai sta bene da mesi, ma non sottovaluterei il suo malanno. Il modo in cui è stato guarito non è affatto convenzionale, perciò la sua situazione è imprevedibile – la avvertì.
- Lo stiamo tenendo sotto controllo, non temete. È tutto?
- C’è un’altra cosa: vi ho sentito parlare di un incantesimo qualche giorno fa. Vi ho sentito nominare anche i nomi di Ephram e Myriam. Cosa state tramando?
Imogene rise ancora. – Accidenti, non vi sfugge nulla! Questa sfacciataggine da dove arriva? Come potete pensare che io possa darvi tali informazioni solo perché le avete chieste?
- Ho imparato a mie spese che a Bliaint se non si è sfacciati, non si ottiene nulla.
Vi ho fatto una domanda, so bene che, se non voleste, non mi rispondereste.
Imogene lo scrutò ancora.
- Lo sapete che il vostro amato padrone di casa che vi ha cacciato ha attirato l’attenzione di persone molto potenti, vero?
Padre Craig deglutì a vuoto, ma il suo sguardo rimase deciso. – Sì, ne sono a conoscenza. Cosa c’entra ora?
- Il conte che lo sta cercando potrebbe sbarcare nelle coste del nostro continente da un momento all’altro, e a quel punto non sarebbe difficile per le sue truppe trovare la collocazione di Bliaint e venirselo a prendere, per poi decimare e saccheggiare l’intero villaggio a suo piacimento.
Io, Myriam e Ephram abbiamo fatto in modo di evitarlo.
L’uomo sgranò gli occhi per la sorpresa. – In che modo…?
- Con un potente incantesimo di protezione, quello di cui mi avete appena chiesto. L’incantesimo richiedeva la forza unita di tutti e tre per essere portato a termine.
- Dunque, in questo modo, non siamo più minacciati dal conte Agloveil, né da qualsiasi altro invasore straniero? – domandò speranzoso.
- Non è così semplice, prete – disse la sciamana alzandosi in piedi. – Tale incantesimo perdura solamente fin quando tutti e tre gli stregoni che l’hanno messo in atto rimangono in vita.
Se uno di noi tre dovesse morire o dovesse perdere il suo potere… sarà come se non avessimo fatto nulla, e saremo nuovamente esposti agli attacchi esterni – terminò dandogli le spalle. – Ora andate, prete. Non abbiamo più nulla da dirci.
Padre Craig fece per andarsene e lasciarla sola, ma prima che lo facesse, la donna parlò ancora:
- Ditemi una cosa.
- Vi ascolto.
- Nel vostro villaggio di provenienza vi sono mai stati episodi di abuso di bambini da parte dei preti? – gli domandò a bruciapelo, facendolo impietrire dall’orrore.
- Intendete dire quello che è accaduto a Judith da bambina…?
- Esatto, molestie e violenze sessuali.
Attese, attese che il prete rispondesse.
- Non che io sappia – disse infine l’uomo, con un fil di voce.
- Bene – detto ciò, la donna uscì dallo stanzino, diretta verso un luogo in particolare.
Siamo noi ad essere sudici fino al midollo, dunque.
Siamo solo noi.
Ed io, io che ho ucciso la mia bambina in fasce, sono meglio di loro?
Camminò spedita, controllando, come di consueto, di non essere vista né seguita.
Giunse alla solita cripta, alla solita “tomba dei bambini”.
Illuminò l’ennesima porzione di muro, una delle tante non ancora lette, nella quale le parole incise con cura si estendevano sempre più precise e marcate.
Poteva seguire la loro crescita in tal modo, la crescita di Dominic in particolare, quel bambino che non faceva altro che scrivere e scrivere, rivelando le atrocità a cui venivano sottoposti e che, inevitabilmente, assorbivano come spugne.
Dominic aveva spirito di sopravvivenza. Lo spirito di sopravvivenza e i soprusi subìti lo avevano trasformato in un bambino intelligente e crudele. Una crudeltà ingenua e inconsapevole, la più pericolosa di tutte.
A questo lo avevano costretto.
A questo erano stati ridotti, tutti loro.
A lottare con le unghie e con i denti per sopravvivere, pensando solo a se stessi.
Non c’era nessuno a proteggerli. Non c’era nessuno a vegliare su di loro. Non c’era nessuno a rassicurarli e a spiegare loro cosa fosse la morale, la giustizia, la bontà e la cattiveria.
Non c’era nessuno.
Solo bestie che li usavano e li gettavano come bambole di pezza.
Non sapevano di essere umani perché non conoscevano la differenza tra umanità e bestialità.
Tutto ciò che avevano erano loro stessi e la necessità di continuare respirare.
Non conoscevano altro e non desideravano altro.
Ma io che ho ucciso mia figlia… sono meglio degli aguzzini dei bambini sciagurati?
Qual è la mia giustificazione?
Quali sono le mie scuse?
Iniziò a leggere, illuminando sempre più estesamente quelle macabre scritte:
“I monaci oggi ci hanno detto che se vogliamo mangiare dobbiamo procurarci il cibo da soli.
Ma come possiamo farlo se non possiamo uscire di qui?
Sono sempre stanca ultimamente, e anche solo scrivere sui muri mi provoca dolore.
È dallo scorso inverno che non scrivo, quando il dono di madre Moreen è stato l’unico a salvarci dal freddo e dalla fame.
I monaci continuano a portare altri neonati ma noi non sappiamo come sfamarli.
Non possiamo sfamare noi stessi, come potremmo sfamare loro?
Li odio.
Odio i monaci e odio i neonati.
Abbiamo deciso con madre Suzan che, dato che siamo diventati tanti a scrivere, dobbiamo firmarci ogni volta che finiamo di scrivere.
Che altro? Oggi Tommy mi ha toccata là sotto per farmi dispetto, ma io non ho sentito niente.
                                                                                                                                      Sarah”
Imogene passò oltre:
“Cantiamo le canzoni che ci sono nei libri ma non sappiamo cosa vogliano dire.
Ogni giorno che passa abbiamo sempre più domande a cui nessuno ci risponde.
Oggi ci stiamo chiedendo tutti quanti anni abbiamo.
Gli anni si misurano in 365 giorni, c’è scritto nei libri.
365 è un numero altissimo, quindi credo che non dobbiamo avere tanti anni, nessuno di noi.
O forse sì, dato che da quando sono qui me ne sembrano passati diecimila di giorni.
Non sarei mai capace di contare fino a diecimila, non so nemmeno che numero viene dopo ‘1000’.
Lilian sicuramente lo sa, lei è bravissima con i numeri, sta sempre a contare, tanto da darmi urto.
Con i neonati in più stiamo iniziando di nuovo a stare stretti.
Quanti anni ho?
365 più 365 più 365… forse dieci. Oppure di più.
                                                                                                                                 Cameron”
La sciamana proseguì ancora:
“Credo di avere otto anni e di chiamarmi come mi chiamo perché sono stati i bambini più grandi a scegliere il nome per me.
Ma i bambini più grandi sono tutti morti, quindi non lo scoprirò mai.
I bambini più grandi erano poco più grandi di noi e sono morti per i motivi per cui potremmo morire noi.
Non so se ho paura della morte. Se non so cosa succede quando chiudi gli occhi per sempre allora non posso averne paura, no?
Ad ogni modo, Harper dice che ho un nome terribile, ma io penso che il suo sia più brutto.
Madre Moreen dice che tra qualche anno potrebbe arrivarmi il sangue perché sono molto procace e quindi diventerò donna prima delle altre.
Che significa diventare donna?
Significa avere il seno come madre Moreen e le altre monache?
Io non voglio averlo il seno.
A padre Derk piaccio così come sono, me lo dice sempre.
Che l’avessero solo le altre, il seno.
Io voglio rimanere così. Per sempre.
                                                                                                                      Nadia”
 
“Quando un bambino cresce diventa uomo e quando diventa uomo si trova una moglie e fa dei figli.
Figli come noi.
Ce lo ha detto madre Faye, un giorno.
Ma noi siamo ancora bambini o uomini?
I monaci dicono che siamo bambini.
Ma quando saremo uomini avremo dei figli?
Non so cosa implica essere o avere dei figli, è strano pensarlo.
Tutti si fanno domande qui, ma sono in pochi quelli che vogliono davvero trovare le risposte.
Vorrei rassegnarmi alla morte, sarebbe più facile, perché i monaci dicono che tanto, prima o poi tutti moriamo.
Si nasce, si cresce e si muore.
Che senso ha la vita, allora?
Qual è lo scopo?
Non so perché scrivo ancora su questi muri. Forse perché lo fanno tutti ultimamente.
                                                                                                                                      Devin”
Imogene aveva già le lacrime agli occhi ma proseguì comunque, quasi ne avesse bisogno, quasi fosse una necessità:
“Mi odiano tutti.
Mi odiano tutti qui perché so quello che va fatto e dico cosa penso.
Mi odiano ma a me non importa.
Mi chiedo come mai non mi importi mai, forse dovrebbe importarmi.
Ieri è successa una cosa. Una cosa che non era mai accaduta prima.
Necessaria, per sopravvivere. Ma nessuno, nessuno lo capisce, e nessuno vuole raccontarla.
Se porti una preda nella tana delle bestie affamate, non puoi aspettarti che queste si cuciano la bocca e la accudiscano.
Questo l’ho appreso dai libri.
Ieri due dei neonati sono morti di fame.
Una volta morti, ce li siamo mangiati.
Tutto, anche gli organi, tanto avevamo fame.
Ma non ci è bastato. I neonati erano pelle ossa e noi eravamo tanto affamati.
Fortunatamente, dopo, è morta anche Margaret, così ci siamo mangiati anche lei.
Lei ci ha saziato.
Le monache dicono che non dovevamo farlo, i monaci ci hanno guardato con disgusto.
Avrei voluto dire loro che se ci hanno portato questi neonati per sfamarci hanno fatto bene, altrimenti, se ce li hanno portati perché realmente speravano di farli crescere e diventare come noi, senza cibo né acqua, sono stati stupidi e hanno sbagliato tutto.
Ma non ho potuto dire loro nulla, perché Nadia mi ha tappato la bocca e mi ha supplicato di stare zitto, altrimenti mi avrebbero picchiato e avrebbero fatto quella cosa che amano tanto fare quando li facciamo adirare: mi avrebbero preso tutti, a turno, uno dopo l’altro.
A me non sarebbe comunque importato. Sono abituato a di peggio.
Stamattina, tutto è tornato come prima.
I monaci sembrano essersi dimenticati di quello che abbiamo fatto, e ci richiamano a scaldare loro il letto, come sempre.
È un bel termine. ‘Scaldare il letto’.
Mi sembra di avere un’utilità migliore, di essere usato meglio, se dico così.
Non capisco perché tutti quanti si sentono strani e sbagliati dopo quello che abbiamo fatto ieri, comunque.
Margaret avrebbe fatto lo stesso con noi, e ugualmente quei neonati, se solo fossero vissuti qualche anno in più e avessero provato la fame che abbiamo noi.
Non è questione di affezione, ma di praticità, di sopravvivenza.
Non li abbiamo mica uccisi noi, non abbiamo fatto loro del male.
Loro erano comunque morti, le loro anime non erano più dentro di loro.
Quello che succede al loro corpo dopo la morte, non è più affar loro.
Prima di ieri tutto ciò che riuscivo a pensare era fame, fame, fame, fame, fame.
Adesso invece, riesco a pensare anche ad altro, ed è solo merito loro.
Ci abitueremo anche a questo, a mangiare i morti per sopravvivere, così come ci siamo abituati al buio e alla puzza che c’è qua dentro.
Mi sono accorto di quanto puzzasse la cripta e di quanta poca luce ci fosse solamente quando i monaci mi hanno richiamato per la prima volta nelle loro stanze, anni fa, e ho notato la differenza.
Ci si può abituare a tutto.
Vorrei che anche i monaci fossero rinchiusi qui dentro, così si abituerebbero anche loro a vivere come viviamo noi.
No, non ce l’ho con loro.
Non ce l’ho con loro perché il mondo là fuori è peggio di qui, l’ho visto dai libri.
Loro ci hanno salvati e ci hanno anche condannati, perché non ci lasciano andare e non ci lasciano scegliere.
Ci vogliono e ci pretendono, come si fa con le cose, e questo l’ho capito tanto tempo fa.
È da troppo tempo che sono qui. Da settimane, mesi, anni. Perché è così che si divide il tempo fuori di qui.
In settimane, mesi, anni.
Oggi madre Moreen mi ha detto una cosa che non ho mai saputo.
Lei si ricorda quanti anni ho e dato che volevo saperlo, me lo ha detto: sembra che ho dieci anni.
Stamattina sono stato con padre Joyjon, e lui era di buonumore.
Così abbiamo parlato di Dio, delle divinità in generale.
Mi ha finalmente spiegato che ci sono i figli del Creatore e i figli dei Diavolo.
Il Creatore e il Diavolo sono due signori, due dèi, onnipotenti e onniscienti, che regnano su di noi e che vanno pregati e adorati.
Ognuno è figlio di qualcuno, di un dio.
Allora gli ho chiesto di chi siamo figli noi, che viviamo dentro la cripta, se del Creatore o del Diavolo.
Mi ha guardato e si è messo a ridere.
‘Non ti ho fatto ancora tagliare la lingua e cucire la bocca solo perché sei troppo bello da guardare, Dom’. Queste sono state le sue parole.
Poi mi ha detto qualcos’altro.
Mi ha detto che noi non siamo figli di nessuno.
Di nessuno.
Beh, se non siamo figli di nessun dio, allora ciò vuol dire solo una cosa: gli dèi siamo noi.
                                                                                                                                           Dominic”
Imogene crollò in ginocchio e pianse, pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, fin quando il sole non tramontò.
Ma quando fece ritorno alla casa nella palude, quella sera, una notizia ben più terribile la attendeva.
Non appena rientrò in casa, trovò Heloisa accasciata a terra, in lacrime.
Non comprese cosa fosse accaduto.
- Cugina? Cugina, che succede…?
Heloisa alzò il bel volto stravolto dalle lacrime su di lei. - È finita. Ora è davvero finita.
 
Judith attese la sua “ospite” in una delle stanze inoccupate della cattedrale.
Aveva fatto portare del cibo in abbondanza, decisa a farla sentire in un ambiente più confortevole possibile.
Padre Petrit bussò alla porta e lei le diede il permesso di entrare.
L’uomo reggeva strettamente il braccio di una ragazza bellissima, dai lunghissimi capelli corvini e gli occhi di giada. Nonostante ella fosse pelle ossa, praticamente uno scheletro oramai, puzzasse del sudiciume che regnava nelle segrete, e fosse sporca dalla testa ai piedi, restava comunque tanto bella da far impallidire.
Judith le sorrise cordiale non appena il monaco le lasciò sole nella stanza.
- Venite accanto a me, sedetevi.
Siete Virve Beitris, giusto?
La ragazza prigioniera non rispose, né si avvicinò a lei.
La guardava con uno sguardo indefinibile, orgoglioso e che nascondeva abilmente tutta la sofferenza che provava.
- Ti ho quasi uccisa durante la rivolta che ho istigato – le disse, dandole finalmente modo di udire la sua voce.
Dunque la conosceva, prima di perdere i ricordi, come sospettava.
- Ti ho quasi uccisa, ma, nonostante tutto, tu non hai mai nutrito risentimento nei miei confronti, neanche quando possedevi ancora i tuoi ricordi – continuò la prigioniera con freddezza, restando in piedi dov’era.
Judith le sorrise. – Sedetevi, vi prego – ripeté.
Questa volta, la prigioniera obbedì, prendendo posto accanto a lei.
- Questo tavolo è stato imbandito per voi. Immagino abbiate fame.
- No, grazie – rifiutò la strega, sorprendendola.
- Non vi ricapiterà più l’occasione di fare un pasto completo come questo.
Siete condannata, Beitris.
Dovreste approfittarne.
- Ho imparato bene a sopportare la fame e molte altre cose, da quando sono rinchiusa là sotto – le rispose con ferma determinazione, penetrandola con i suoi occhi magnetici e chiarissimi.
- Come preferite.
Ho saputo che la vostra sentenza di morte è stata rimandata, in quanto i monaci ora vi sottopongono giornalmente a dei riti di purificazione, per guarire la vostra anima dal peccato.
Beitris accennò un sorriso di scherno in risposta. – La parte più dura sono le frustate, devo ammetterlo. Ma oramai vi sono abituata. D’altronde, se un ragazzino di appena quindici anni prende il quintuplo delle frustate giornaliere che prendo io, come potrei non sopportarlo?
- Sembrate una donna forte.
- Dovrei sentirmi lusingata?
- Niente affatto. Non è questo il mio scopo, oggi.
- Bene. Qual è, dunque, il vostro scopo?
- Vorrei farvi delle domande in merito alla notte di festeggiamenti in cui, presumibilmente, vi è stato un collettivo scambio di corpi, che ha portato il mio corpo ad essere ingravidato senza il mio consenso - le disse diretta.
Gli occhi attenti di Beitris si spostarono sul ventre di Judith. – Quanto manca?
- Pochi mesi.
- Spero per voi che la somiglianza con il padre non sia visibile.
Judith sgranò gli occhi. – Dunque, voi lo sapete?
- L’ho compreso quel giorno in cui ho minacciato la vostra vita, durante la rivolta: quel servo del Creatore vi avrebbe fatto scudo col proprio corpo se avesse potuto. Era a dir poco palese, ma tutti erano sin troppo spaventati per prestare attenzione ad una cosa come quella.
Il fatto di non ricordare nulla dell’accaduto turbava la fanciulla dai capelli cremisi in maniera indicibile.
- Voi rimembrate qualcosa di cosa sia accaduto quella notte?
- Chi vi ha detto che fossi presente anche io? La mia domanda è legittima, dato che, da come mi hanno detto, non dovreste ricordare nulla di ciò che è accaduto negli ultimi mesi.
Judith ammutolì per un attimo.
Non voleva rivelargli il nome di colui che l’aveva informata a riguardo.
- Rispondete alla domanda, se la cosa non vi destabilizza troppo, Beitris – insistette.
A ciò, Beitris sorrise. – Tutto ciò che posso dirvi, è a chi appartenesse il corpo che ho abitato quella notte, e chi abbia abitato il mio. Ciò potrebbe esservi utile?
- Ogni informazione potrebbe essermi d’aiuto – confermò.
- Un prete straniero. Se non sbaglio, era vostro amico.
Judith raggelò ma non si scompose. - È ancora mio amico.
- Io e padre Craig ci siamo scambiati di corpo e abbiamo giaciuto l’uno con l’altra, come se stessimo giacendo con noi stessi, davanti ad uno specchio.
Perversamente macabro, non trovate?
Judith non si lasciò prendere dalla sorpresa e rimase compostamente seria.
Doveva essere stato un trauma indicibile per padre Craig venirlo a sapere, e non sapeva neppure se lui ne fosse a conoscenza o no. Quella notte nessuno di loro era in sé, e nessuno ricordava.
Tranne qualche eccezione, come la donna dinnanzi a sé.
- Ricordate qualcun altro quella notte?
- Pian piano, i ricordi hanno iniziato a diventare più chiari nella mia mente.
Ne ricordo solo alcuni.
- Ditemi tutto quello che ricordate – l’urgenza nella sua voce dovette apparire palese alla strega.
- Credo stiate interrogando la persona sbagliata, Arley Judith.
Per i motivi sbagliati.
Eravamo tutti fuori di noi quella notte.
Ognuno ha compiuto obbrobri inesplicabili: madri hanno giaciuto con figli, padri con figlie, fratelli con sorelle, uomini con uomini, donne con donne. E tutto ciò, solo perché possedevamo corpi diversi, corpi nuovi, da usare a nostro piacimento; e perché avevamo qualsiasi senso annebbiato, i freni inibitori completamente svaniti. Vi suona strano? Non lo è. Accadono costantemente cose come questa.
- Voglio sapere chi abitava il mio corpo quella notte.
- Un ragazzo o un uomo, di certo. Probabilmente lo stesso di cui il corpo avete preso possesso voi. Quella notte erano presenti decine e decine di servi del Diavolo. Come credete di riuscire a scoprire chi ha preso possesso del vostro corpo?
Solo scavando nei vostri ricordi riuscireste a venirne fuori.
- Ricordo solo sensazioni, null’altro.
A ciò, Beitris affilò lo sguardo. – E com’è stato? Abitare il corpo di un uomo. Per me è stato divino. Sensazioni diverse, forme tutte nuove, stimoli e pulsioni estranee alle mie e molto gradite.
- A qualcuno è stato fatto del male quella notte – disse Judith.
- Come è naturale che sia.
Incantesimi del genere provocano sempre delle vittime.
C’è chi ne gode e c’è chi ne soffre, e c’è chi prova entrambe.
- Parlate come se un trauma non valga nulla per voi.
- A Bliaint non possiamo permetterci di risentire dei traumi subìti.
Lo sapete bene anche voi.
Io so solo che quella notte ho provato un piacere inaudito.
Perché tale faccenda vi tormenta in tal modo?
- Perché se non fosse stato per quella notte, ora non porterei in grembo dei bambini che non desidero.
- Il seme piantato nel vostro ventre è di un uomo e di un uomo soltanto, che conoscete bene.
Dovreste chiedere a lui, dato che era l’unico cosciente, l’unico nel proprio corpo e l’unico non sotto l’effetto di alcun incantesimo.
Forse avrebbe dovuto. Mettere da parte l’orgoglio e parlare con Naren.
Eppure Judith, nel vederla, era come se ricordasse la consistenza del corpo della ragazza dinnanzi a sé.
Ricordava com’era stringerla a sé, avere le sue cosce strette al bacino, in quel corpo che le era estraneo, e ciò era davvero anomalo.
Se quella notte aveva giaciuto anche con Beitris, in un corpo diverso dal suo, ciò significava che aveva giaciuto anche con padre Craig, inconsapevolmente, e che quest’ultimo non sapeva vi fosse lei dentro quel corpo, ovviamente.
Era tutto sin troppo complicato.
 
“Caro Blake,
Ho parlato con la vostra amica e un tempo amante, ma, purtroppo, non sono riuscita ad ottenere le risposte che desideravo.
Forse mi sto concentrando troppo su qualcosa che dovrei mettere da parte.
Ciò che è stato, è stato, d’altronde, e nulla si può fare, per cambiare l’avvenuto.
D’altro canto, ci tengo ad informarvi che il vostro nome non è uscito fuori davanti a Beitris.
Volevo preservare la vostra riservatezza, perciò non vi ha affatto nominato, e lo stesso non ha fatto lei.
È una donna schietta, forte, intrepida, l’ho notato subito. Capisco perché abbia attirato la vostra attenzione. Sono anche curiosa di sapere come mai le vostre strade si sono divise, ma forse, credo di averne un’idea.
A proposito, oramai ci stiamo scrivendo ogni giorno, e io ancora non so se questa nostra affiatata corrispondenza epistolare possa infastidire qualcuno che vi è molto vicino. Come una promessa sposa, ad esempio. Non me lo avete mai detto e io non ve l’ho mai chiesto, perciò lo faccio ora.
Se le continue lettere che vi mando dovessero turbare un’eventuale vostra promessa, le limiterò, oppure potrei persino cessare di scrivervi. Questo dovreste deciderlo voi.
Nella scorsa lettera mi avete accennato che vostro fratello è sempre stato molto malato, e che la sua guarigione è solo temporanea.
Immagino avrete vagliato i tomi di tutte e due le biblioteche per trovare una cura al suo malanno.
Tuttavia, forse in questo potrei esservi utile anche io. Magari vi è sfuggito qualcosa e, cercando meglio, potrei trovare la soluzione che cercate.
Vorrei davvero aiutarvi a guarire vostro fratello.
Ad ogni modo, come vi avevo già detto, padre Craig mi è molto utile qui. Si adopera sempre per aiutarmi in ogni modo possibile, è sempre attivo e in moto.
Egli è un uomo premuroso e un buon amico, sono sicura ne siete pienamente cosciente anche voi.
Mi chiedo, dunque, cosa vi abbia spinto ad averlo allontanato in tal modo da voi e dalla vostra casa che l’ha ospitato per mesi.
Sicuramente deve esserci una grave motivazione alla base, ma lui non vuole parlarne, e forse non vorreste neanche voi.
Tuttavia, ciò che posso dirvi con assoluta certezza, è che gli mancate.
Gli mancate più di quanto dia a vedere.
Deve essersi legato molto a voi dopo tutto questo tempo trascorso nella stessa abitazione, a stretto contatto.
Sono brava ad osservare, e posso vederlo ogni giorno che passa, quanto gli mancate.
Forse c’è modo, per voi, di riconciliarvi?
In ogni caso, mi dispiace anche per il fatto che vostra madre sia stata accusata dell’assassinio di vostro padre. Non so se volete parlarne, ma sono certa che ella sia innocente, e, comunque sia, avete tutta la mia comprensione e il mio conforto. Non deve essere facile per voi.
Il fatto che lei sia sparita insieme a vostro fratello poi, deve essere ancora più arduo da sopportare.
Non so se la stiate nascondendo voi, e se anche così fosse, vi capirei.
Io avrei fatto lo stesso.
Sapete, a volte mi sento egoista.
Mi sento come se, dopo l’infanzia tremenda che ho vissuto, io abbia il diritto di pensare solamente a me stessa.
Mi riferisco ad Imogene in particolare, ora.
Sento che la sua è più di un’attrazione nei miei confronti.
Dai suoi atteggiamenti, dai suoi sguardi e dalle sue premure.. sospetto che lei si sia innamorata di me.
Non posso negare che anche io tenga a lei e ne sia attratta.
Tuttavia… sento che non è la persona giusta per me. Forse lo sarebbe, in altre circostanze, in un’altra vita, magari.
Non erano questi i piani iniziali tra noi, non avevamo messo in conto di provare qualcosa l’una per l’altra, ma, talvolta, l’amore accade per caso e noi non possiamo fare nulla per impedirlo.
Io non condivido la sua stessa dedizione, e mai la condividerò.
Vorrei essere chiara con lei, vorrei dirle di allontanarsi da me, perché starmi vicina le farà solo del male.
Non ho bisogno di una compagna ora come ora.
Ho bisogno di pensare a me e a me soltanto.
Spero capiate cosa intendo. Sento di poterlo dire a voi, perché sento che voi condividete questo stato d’animo.
Non è questione di desiderare di più, di volere di meglio, non è superbia né vanità.
È la necessità di voler bene a noi stessi più che agli altri, è consapevolezza di non potersi e volersi donare a qualcuno.
Per quale motivo sento che in questo siamo così affini, Blake?
A voi è mai capitato di non poter corrispondere i sentimenti di qualcuno? Di fuggire l’amore?
Non è facile sapere di non poter ricambiare l’amore che una persona vuole donarci.
Non credete?”
 
 

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Capitolo 51
*** Liberazione ***


Liberazione
 
 
- Charles, ci saranno locande qui nei dintorni?
L’uomo smise di affilare la sua arma con un sasso e si voltò verso il suo compagno d’arme. – Stai sempre a pensare alle puttane, tu?
L’altro rise di gusto. – Oh andiamo! L’ultima volta che ci siamo fermati in una locanda è stato tre giorni fa! L’esercito ha fame, Charles.
- Beh, rimarrà affamato. Dobbiamo rimetterci in viaggio e questa volta senza deviazioni o tappe intermedie. La nostra meta è vicina e non ho intenzione di passare un’altra notte a dormire all’aperto, in mezzo ai lupi.
- Come si chiama il villaggio? Carby? Cabry?
- Carbrey – lo corresse il cavaliere.
- Carbrey, giusto. In questo dannato continente fa freddo e ci sono pochissime locande.
Cos’è, le donne qui sono tutte pie e votate a Gesù Cristo? – si lamentò l’altro, lasciandosi cadere seduto sul tronco accanto al compagno, mentre tutti gli altri affilavano le armi o si adoperavano a raccogliere le loro cose da terra, per rimettersi in marcia. – Perché non ci dirigiamo direttamente verso Bliaint e la facciamo finita? Nostra signoria il conte vuole solo quel ragazzo, ci basterà trovarlo e portarlo via.
Charles smise di affilare l’arma e si voltò verso di lui. – E come pensi di trovare un ragazzo di cui non conosci né l’aspetto né il nome in un villaggio di più di cento abitanti? – lo schernì l’altro. – Talvolta sei talmente stupido che dovrebbero inventarti, Gregory. Ad ogni modo… li vedi i nostri compagni? – gli domandò indicandogli tutti gli uomini delle truppe scelte che avevano viaggiato con loro attraverso il mare.
- Cos’hanno che non va?
- Se avessi prestato attenzione, avresti notato che la maggior parte di loro si sono fatti il segno della croce almeno una ventina di volte al giorno da quando siamo sbarcati in questo continente. Da quando ci stiamo avvicinando a quel  villaggio.
Gli uomini, Gregory… sono terrorizzati da Bliaint.
Le leggende sui suoi abitanti si sprecano sin troppo in dettagli macabri e terrificanti.
Corre voce che là dentro si pratichi ogni sorta di peccato e dissolutezza, e non solo in senso sessuale.
Là dentro… vi sono i figli di Satana il Demonio, Gregory.
Hai idea di cosa ciò voglia dire?
Praticanti delle più aberranti arti della magia nera, streghe e stregoni senza alcuno scrupolo, più razionali dei selvaggi pagani, molto più crudelmente consapevoli e coscienti delle loro armi e del loro potere, ma ugualmente folli.
Uomini e donne votate anima e corpo al Diavolo, Gregory.
Alcuni narrano che ci abbiano anche giaciuto insieme, con Lucifero.
Ti sorprenderebbe?
Si dice vi abitino anche creature non umane, indefinibili, né morte né vive, che succhiano il sangue dei viventi, prosciugandoli; mostri sotterranei che abitino le loro gallerie; demoni di aspetto androgino che stuprano donne e uomini nel sonno…
Dal canto suo, Gregory deglutì rumorosamente. – Mi sta andando a fuoco il cavallo dei pantaloni, Charles.
- Tu sei uno dei pochi a non essere terrorizzato da loro.
- E tu? Tu hai paura di loro, Charles?
Insomma, avanti! Se avessero avuto davvero tutto questo potere, allora quei cosiddetti “figli del Diavolo” avrebbero maledetto Nostra signoria il conte Agloveil molto prima che giungessimo qui!
Il conte è riuscito a riacciuffare la puttana che porta in grembo il figlio di uno di loro. La tiene come moglie e ostaggio. Per quale motivo non lo hanno ancora maledetto dopo aver saputo una cosa simile?? Oramai deve essere loro giunta anche la voce che uno straniero sta cercando un loro conterraneo.
- Non ne sarei così sicuro.
Bliaint è isolato dagli altri villaggi, le informazioni su ciò che accade nel mondo di fuori non entrano, né escono.
Se siamo fortunati… quando arriveremo lì sarà totalmente una sorpresa per loro.
Non sapendo nulla del nostro arrivo, suppongo e spero, che per loro sarà più difficile difendersi, anche avendo il Diavolo con i suoi tremendi sortilegi dalla loro parte.
- Non dispongono di un esercito per combattere gli invasori?
- Per nostra fortuna no.
- E se la vecchia puttana che è scappata dal conte, la zia della sua novella sposa, fosse riuscita a giungere qui e ad informarli del nostro arrivo?
Charles guardò l’amico, sgranando gli occhi. – Non ci avevo pensato. Allora non sei così stupido, Gregory. Beh, se così fosse, ti darei ragione: se non ci hanno ancora maledetto e incenerito tutti a distanza, allora vuol dire che non sono così potenti e pericolosi come temiamo – gli rispose.
Gregory rise. – Se davvero la bellezza di questi abitanti di Bliaint è così incomparabile come dicono, nessuno ci impedirà di portarci via anche qualche bella fanciulla, insieme al ragazzo.
Non si dice anche che queste serve del Diavolo siano più sfacciate, perverse e impudiche della miglior meretrice esistente nel nostro continente?
- Nostra signoria ci ha detto di non sfidare la sorte: dobbiamo portare via solo il ragazzo.
- Oh, Charles, andiamo! Che vuoi che sia qualche ragazzina popolana di un villaggio sperduto! Mica dobbiamo rapire una principessa – si lamentò.
- La tua ingordigia ed eccitazione non conosce limite, Gregory.
Rischieresti di essere maledetto da un intero villaggio di figli del Diavolo pur di portarti via qualche bellezza straniera.
- Tu no??
Avanti, devi ammettere che il pensiero tenta anche te. Ho sentito dire che lì hanno anche donne nere e mezzosangue. Sono trattate al pari di quelle bianche, per giunta!
Davvero un altro mondo!
Ce ne è per tutti i gusti!
- Il ragazzo è più importante.
Con lui, Nostra signoria diventerebbe l’uomo più ricco del mondo, e noi con lui.
Potremmo permetterci tutte le puttane che vogliamo se riusciamo nell’impresa di prendere lui.
- Ma non potremmo mai sapere cosa si prova a possedere una puttana del Demonio!
Charles sospirò, sconsolato.
- D’accordo, d’accordo, ho capito: niente donne di Bliaint – si arrese Gregory sbuffando. – Ma almeno sappiamo quanti anni ha questo fantomatico ragazzo…?
Mi risulta ancora impossibile credere che un moccioso sia riuscito nell’impresa in cui hanno fallito, e continuano a fallire, centinaia di uomini navigati nel campo dell’alchimia. Quanto c’è di vero nelle voci che ci sono giunte su di lui? A mio parere, abbiamo fatto questo viaggio per niente.
- Non sappiamo quanto ci sia di vero, ma sappiamo che esiste e che è un figlio del Diavolo di Bliaint.
Il testimone che l’ha visto dal vivo trasformare il piombo in oro, si trova proprio a Carbrey, dove ci stiamo dirigendo per interrogarlo.
Si dice che il ragazzo in questione lo abbia accecato, mutilato e gli abbia bruciato la lingua, per evitare che dicesse a qualcuno ciò che aveva visto. Raccapricciante, non trovi?
Gregory tremò di sgomento al solo pensiero. – Siamo sicuri non siano assassini addestrati questi dannati servi del Diavolo…? Come può un ragazzino essere capace di fare una cosa simile..?
A ciò, Charles si alzò in piedi, guardandolo dall’alto e offrendogli la mano. – Non faresti lo stesso anche tu, per avere salva la vita?
 
L’esercito si rimise in marcia, e dopo un ulteriore giorno di cammino giunse finalmente a Carbrey.
Gli abitanti del villaggio si ritrassero nelle loro case impauriti alla vista di quegli imponenti uomini in armatura.
Giunti all’abitazione di colui conosciuto come “Il Giudice”, bussarono alla porta.
Fu un uomo dall’abito sacerdotale ad accoglierli, facendoli entrare adagio, come se si aspettasse il loro arrivo.
Fecero il loro ingresso solamente dieci cavalieri, i restanti restarono ad attendere fuori.
Tuttavia, l’uomo aveva sia occhi, che mani, che bocca funzionante, perciò dedussero non si trattasse del Giudice.
- Siamo le truppe scelte dal conte Agloveil.
Immagino sappiate per quale motivo siamo qui, prete o monaco… come dovrei chiamarvi? – domandò Charles in tono schernente. – D’altronde, almeno in questo villaggio le voci oltreoceano arrivano.
- Posso offrirvi qualcosa, signori? Dovrete essere stanchi e affamati per il viaggio – disse con calma il sacerdote.
- Passeremo ai convenevoli e alla parte in cui ci darete un pasto caldo, ci ospiterete per dormire la notte e ci donerete delle donne con cui scaldare i letti solamente dopo. Prima passiamo alle cose importanti: dov’è il Giudice? Ci hanno segnalato che questa è la sua dimora. Ma tutto ciò che vedo dinnanzi a me è un vecchio che è benissimo in grado di parlare, di vedere e di scrivere. Dunque, dov’è?
- Il Giudice è molto malato, signori.
- Credi che ce ne importi qualcosa, vecchio? Non abbiamo affrontato questo immenso viaggio per sentirci dire che l’unico uomo in grado di fornirci informazioni certe è malato e non può riceverci!
Portateci immediatamente da lui, se non volete vedere il vostro villaggio ridotto a ferro e fuoco! – lo minaccio un altro cavaliere, spazientito.
- Come vedete, io sono il più paziente tra i miei uomini, prete.
Dunque, fate come dice – intervenne nuovamente Charles, con un ghigno a deformargli i lineamenti.
Il sacerdote si inchinò lievemente a loro e li condusse nella camera in cui riposava il Giudice.
I soldati buttarono quasi giù la porta nell’entrare, facendo trasalire l’uomo, o meglio il corpo orribilmente sfigurato, che riposava sul talamo in mezzo alla stanza.
Charles dovette distogliere lo sguardo, tremendamente disgustato dalla visione che gli si parava dinnanzi agli occhi: magro ai limiti dell’umano, il Giudice era una maschera di sofferenza, con due profondissime conche deturpate e nere al posto degli occhi, una bocca perennemente aperta e secca, come se non fosse più in grado di chiuderla, e degli orripilanti moncherini al posto delle mani.
Si lamentava a mugolii, più flebili di quelli di un animale di piccole dimensioni, non capendo cosa stesse succedendo intorno a sé.
Per un attimo, Charles ebbe pietà di lui.
- Gesù Cristo… - imprecò Gregory, fissando quella sagoma con estremo e nauseante ribrezzo.
- Non preoccupatevi, Giudice, questi uomini non vi faranno del male - cercò di rassicurarlo il sacerdote accostandoglisi e aiutandolo delicatamente a sedersi sul letto.
- Il Giudice è estremamente fragile dall’“incidente”… Non riesce a mangiare e a respirare bene, in quanto ciò che è rimasto della sua lingua liquefatta, si è gonfiato, fino ad invadergli la bocca – spiegò accarezzandogli i capelli scuri, come si farebbe ad un bambino.
Il Giudice, dal canto suo, si rilassò sotto quel tocco familiare, mugolando a bocca aperta e accoccolandosi al palmo del sacerdote.
- Che esistenza oltraggiosa… - commentò Charles.
- Vi prego – si impose il sacerdote. – Il Giudice non è in grado di parlare, ma le sue orecchie sono ancora funzionanti. Abbiate pietà per una povera anima stroncata e deturpata in tal modo.
- “Povera anima”… - commentò Charles dandosi un’occhiata intorno, soffermando gli occhi su tutti i soprammobili adornati di pietre preziose che vi erano in quella stanza. – Se le voci che ci sono giunte su di lui sono corrette… il vostro disgraziato Giudice, prima di venire sfigurato e mutilato, era un uomo avaro e avido almeno quanto il conte che noi serviamo e che ci ha mandati qui.
Sbaglio, forse?
Ci è giunta voce che quest’uomo che difendete con tanta premura, abbia tenuto prigioniero il ragazzo proveniente da Bliaint, con lo scopo di fargli tramutare chili di piombo in oro.
Sorprendentemente… a detta del Giudice, il ragazzo è riuscito nell’impresa.
Ma poi è scappato via, assicurandosi che il suo aguzzino non potesse parlare e rivelare a nessuno ciò che aveva visto.
Vedete.. il nostro signore vuole la stessa, identica cosa.
Vuole il ragazzo.
E dato che, miracolosamente, il nostro amato Giudice è riuscito a rivelare ciò che il giovane alchimista ha compiuto… siamo certi che egli sia in grado di dirci anche qualcosina in più su di lui. Come, ad esempio, quale sia il suo nome, quanti anni abbia e una sua accurata descrizione fisica.
Non ci serve altro, per trovarlo.
Dunque?? Farete questo per noi, Giudice? – domandò infine Charles avvicinandosi all’infermo e abbassandosi sul suo viso raccapricciante, assicurandosi che udisse bene le sue parole.
- Il Giudice è riuscito a rivelare ciò che il ragazzo ha compiuto quando ancora la sua salute non era peggiorata così tanto…
Aveva ideato un metodo con cui tracciare le lettere di una parola o di una frase con solo l’ausilio e la forza delle braccia.
Ma ora è diventato troppo debole. Ve lo ripeto: il Giudice non può rivelarvi null’altro.
È molto debole, fragile e malato ora.
Non crediamo resisterà un altro mese in vita – disse mestamente il sacerdote.
- Bene. Se è così, siamo costretti ad uccidervi entrambi – disse Gregory sfoderando la sua spada e puntandola sulla gola del sacerdote, il quale raggelò e iniziò a tremare.
- Aspettate! – esclamò il pover’uomo.
Charles sorrise di gusto. – Ora iniziamo a ragionare, prete.
- L’intero villaggio l’ha visto in faccia durante la sua falsa esecuzione!
In molti saprebbero descriverlo!
In particolar modo… ho saputo che il ragazzo ha ricevuto ospitalità da una famiglia.
Loro potranno sicuramente dirvi tutto quello che volete sapere su di lui! – pronunciò velocemente il sacerdote, deglutendo visibilmente e sudando freddo.
 Charles si scambiò una veloce occhiata con i suoi uomini.
- Fateci portare da questa famiglia.
 
Quel pomeriggio Gerda si stava preparando per portare i funghi a sciacquare al ruscello.
Bussarono alla porta inaspettatamente mentre la bambina era impegnata a togliersi il grembiule.
- Gerda, cara, va’ ad aprire! – esclamò sua madre dall’altra stanza.
La piccola obbedì, non potendo minimamente immaginare chi si sarebbe trovata dinnanzi una volta aperto.
- Buongiorno, signorina – la salutò un soldato ponendo un piede tra la porta e lo stipite, sorridendole a trentadue denti. – Non ci fate entrare, bambolina?
A ciò, la piccola abbassò lo sguardo e fece entrare la dozzina di soldati che attendevano dietro l’uscio, non potendo fare altro.
Un brutto presentimento le formò un groppo in gola.
- Gerda, chi- Selen si bloccò, facendo cadere a terra le tegole che aveva tra le mani non appena giunse in soggiorno e posò gli occhi su quelle nuove, estranee e sgradite presenze.
Stranieri. Tronfi, arroganti, impertinenti, abituati ad avere tutto e subito.
Selen riuscì a leggere tutto ciò dai loro occhi.
Posò lo sguardo su sua figlia, e sulla mano grande che uno dei soldati aveva posato sulla sua minuta spalla.
Il sangue le ribollì nelle vene ma si impose di restare calma.
- Ci rincresce disturbarvi senza preavviso, ma si tratta di un’emergenza, Selen. Vi chiamate così, non è vero? – le domandò Charles avvicinandosele. – Il sacerdote nella casa del Giudice ci ha detto di rivolgerci a voi per una questione di fondamentale importanza.
Selen deglutì e posò un altro veloce sguardo su sua figlia, per poi tornare a guardare l’uomo. – Che cosa desiderate da un’umile madre di famiglia come me? – domandò loro.
- Qualche mese fa, avete dato ospitalità ad un giovane straniero.
Selen pietrificò e vide il volto di Gerda alzarsi improvvisamente verso l’alto, per fissare il soldato.
- Sì – confermò.
- Avremmo bisogno di sapere qualcosa su di lui – disse Charles accomodandosi su una sedia, accavallando le gambe e prendendo a mordere una mela che trovò nel cesto di frutta sopra il tavolo.
- Per quale motivo? – ebbe il coraggio di domandare la donna.
- Non avete bisogno di saperlo.
- Cosa volete sapere su di lui?
- Innanzitutto il suo nome.
Gerda supplicò sua madre a distanza con lo sguardo, di non dire una parola a quegli uomini.
Austen sarebbe tornato a breve dalla caccia, perciò sarebbe potuto andare loro in soccorso.
Tuttavia, la mano di quel soldato non accennava ad allontanarsi dalla spalla della bambina.
- Dunque? Non abbiamo tutto il giorno – insistette Charles.
- Mia madre non vi dirà nulla! – si impose la piccola, la quale venne immediatamente braccata dalle braccia di un soldato, il quale la strinse a sé, ma senza sfoderare la spada. – Combattiva, la piccola contadinella! Mi piace! Quanti anni hai, bambolina? – le domandò, volutamente provocante, Gregory. - Se tua mamma non ci fornisce le informazioni che ci servono, potremmo anche pensare di tenerti con noi, passerotto. Che ne dici? Ti andrebbe di-
- Blake! – esclamò Selen guardando supplicante il soldato che teneva stretta sua figlia. – Il suo nome era Blake!! Vi prego, lasciatela andare!
Gerda si dimenò, sconfitta, mentre Charles sorrise trionfante. – Bene. Abbiamo un nome, compagni.
- Vi ho detto quel che volevate sapere, ora lasciate andare mia figlia, in nome di Dio!
Ma il soldato continuava a tenere stretta la piccola.
- Non ci basta, Selen. Non sappiamo quanti altri giovani uomini portino il nome di “Blake” a Bliaint. Vogliamo sapere altro.
- Vi assicuro che è un nome poco comune da queste parti! Lasciatela andare, vi prego…
- Abbiamo bisogno di una descrizione fisica, cara Selen. Avanti, non può essere così difficile per voi. Cosa vi lega a questo sconosciuto?
- Madre, non dire niente! Non dire niente, te ne prego! – urlò disperata Gerda, scalpitando tra le braccia del soldato, che se la rideva di gusto.
- Promettete che la lascerete andare?
- Ovviamente. Avanti, parlate.
- Era alto, aitante.
- Continuate.
Selen abbassò lo sguardo, udendo la voce di sua figlia implorarla di rimanere in silenzio, poco prima di continuare: - Aveva un aspetto distinto, inconsueto. Ma immagino che tutti, nel villaggio da cui proviene, abbiano un aspetto che a noi sembra inconsueto e incantatore.
Era un ragazzo di massimo diciassette o diciotto anni, un giovane a dir poco bellissimo.
Gregory ghignò platealmente in direzione della donna. – Non siamo venuti qui per sapere quante volte avreste desiderato infilarvi nel suo letto a gambe aperte – le disse, facendola imporporare di rabbia e vergogna.
- Sappiamo già che i famosi figli del Diavolo di Bliaint sono tutti straordinariamente belli – intervenne Charles, con più delicatezza. – Ciò che ci serve è una descrizione fisica, quanto più accurata possibile.
- Grandi occhi blu, zigomi alti, lineamenti intagliati, sofisticati, e tanti, tantissimi capelli castani – disse la donna, tutto d’un fiato. – Ora avete la vostra descrizione. Posso riavere mia figlia?
Charles sorrise. – Sapete, ora che abbiamo ottenuto ciò che vogliamo, possiamo rilassarci e prenderci del tempo da trascorrere qui. Non ci corre dietro nessuno. Inoltre, ci meritiamo di certo un po’ di riposo e divertimento dopo le estenuanti settimane di viaggio compiute.
Selen raggelò, specialmente quando Gregory accarezzò una guancia di Gerda, la quale, dal canto suo, iniziò ad urlare adirata. – Che cosa volete da lui?! Che cosa volete fargli?? Che cosa??
- Oh, povera piccola.. qualcuno sembra essersi affezionata a quel ragazzo.
Gerda pianse, prendendo a pugni le gambe del cavaliere. – Lui è sempre stato buono con me! È sempre stato buono… cosa volete da lui??
- Non preoccuparti, bambolina, non gli faremo nulla di male – le rispose lui carezzandole una guancia.
Selen iniziò a piangere. – Vi prego… vi scongiuro, in nome di Dio… Gerda è solo una bambina… ci sono tante giovani donne più mature in questo villaggio… vi prego, lasciatela andare…
- Infatti, abbiamo intenzione di andare a prendere anche tutte le altre – le disse Charles allargandosi in un ghignante sorriso. – Per vostra fortuna… le bambine non ci piacciono. Le preferiamo un po’ più grandi – e non appena pronunciò quelle parole, il cavaliere lasciò andare Gerda.
- Come voi, ad esempio, Selen – aggiunse poi Charles artigliando il bacino della donna e trascinandola a sé, non lasciandole neanche il tempo di esultare per aver liberato sua figlia.
Selen sbiancò, puntando le mani sul petto dell’uomo. – Sono sposata… - bisbigliò terrorizzata.
- Ora non più.
Uomini! Fatevi un giro per questo grazioso villaggio, saccheggiate tutto ciò che potete e prendete con voi tutte le donne che trovate!
Saranno lunghe giornate rigeneranti, quelle che ci aspettano a Carbrey!


 
Era quasi mezzogiorno quando Lilibeth bussò alla porta dell’abitazione situata nella palude, con animo tutt’altro che rilassato: quell’“invito” improvviso l’aveva resa inquieta. Sapeva dove si trovasse la dimora di Imogene, ma non vi si era mai recata di persona.
Dopo qualche secondo, la sciamana bionda aprì la porta, facendola entrare.
- Allora? A cosa devo la richiesta di venire qui, questa mattina? – domandò la giovane strega, guardandosi intorno.
Ai suoi occhi apparve immediatamente la sagoma di una donna, serva del Diavolo anch’essa, inginocchiata a terra, intenta a pregare convulsamente e a farsi il segno della croce al contrario a ripetizione, totalmente piegata sul corpicino di un bambino dai capelli chiari come sabbia bianca, disteso su una pelliccia.
- Che diavolo succede qui?? – domandò confusa, posando poi lo sguardo su Imogene.
- Lei è mia cugina: Alma Heloisa.
- Non credevo avessi parenti ancora in vita. Cosa ci fa qui e cosa sta facendo? Chi è il bambino?
- Ephram non ti ha detto nulla di ciò che sta accadendo al villaggio? So che vivi confinata nel bosco, nella dimora di voi stregoni eremiti, ma pensavo che almeno lui vi aggiornasse su ciò che accade.
- Sì, mi ha detto che una donna è stata accusata di assassinio, perpetrato sul marito. Non ci ha detto altro e io, personalmente, non ho fatto domande. Dunque, è lei?
Imogene annuì. – La sto nascondendo io. Ma tu, tu dovrai giurarmi sulle antiche streghe e sul Diavolo che non ne farai parola con Ephram! Se scoprirò che glielo hai detto, farò in modo che sarà l’ultima cosa che avrai fatto – si raccomandò.
- Non c’è bisogno di alcuna minaccia, Imogene. Vediamo Ephram una volta ogni cinque giorni, se tutto va bene. Passa più tempo al villaggio che alla nostra dimora – la tranquillizzò. – Allora? Vuoi dirmi perché tua cugina piange e chi è il bambino che sembra morto ai suoi piedi?
- Non è morto!!! – si elevò l’urlo sordo di Heloisa, la quale fece scattare lo sguardo adirato e distrutto dalle lacrime sulla nuova arrivata, a distanza. – Non è morto!! Non è morto… non osate dirlo mai più!
- Cugina, lei è qui per aiutarci – la riprese Imogene avvicinandosi a lei, restando in piedi.
- Aiutarci…? E come potrebbe mai aiutarci…?! – rispose devastata la mora, coprendosi il viso con le mani e riprendendo a disperarsi. – È finita… ora è davvero finita…
- Volete spiegarmi cosa sta succedendo, nel nome del Diavolo? – si lamentò Lilibeth avvicinandosi a sua volta, sul punto di spazientirsi.
- Quello che giace a terra svenuto, preda di un tremendo malanno che lo fa soffrire terribilmente, è il figlio di Heloisa – spiegò mestamente Imogene.
- Cos’ha?
- Ha sempre sofferto di una grave malattia che l’ha reso fragile come il gambo di un fiore… - spiegò con voce grave Heloisa, restando a fissare il suo bambino, stringendogli la piccola mano bianca tra le sue. – Non vi è mai stata una cura. Pensavamo di aver sconfitto il malanno, da quando l’altro mio figlio gli ha fatto dono del ciondolo che porta al collo… - continuò, sfiorando il ciondolo di mandragora che Ioan indossava ancora. – Da quel giorno… ha iniziato a stare meglio, a migliorare a vista d’occhio. Pensavamo di esserci riusciti, di aver sconfitto la malattia… e invece… proprio l’altra sera, il mio Ioan ha iniziato a stare male, è stato colpito da una violenta febbre … ora presenta gli stessi sintomi che ha sempre manifestato fin da piccolo, ma dieci volte peggiori… non sappiamo cosa fare…
- Per questo ti ho chiamata – aggiunse Imogene, guadagnandosi lo sguardo allibito di Lilibeth.
- Mi avete preso per una strega guaritrice per caso?! La sciamana sei tu, Imogene. Non dovresti essere tu quella a sapere come guarirlo?
- Ci ho provato. Ho passato molto tempo qui negli ultimi giorni, ho cercato di aiutarlo .. – ammise la bionda. – Ho tentato sortilegi e incantesimi guaritori, ma non funziona nulla… Se fosse stato un malanno normale, avrebbero funzionato. Il suo stato, molto più grave rispetto a prima, è anomalo. Neanche la mia magia riesce a lenirlo.
- Il ciondolo che l’ha fatto migliorare… cosa c’è dentro? – domandò Lilibeth.
- Ho il sospetto che suo fratello abbia usato la mandragora per guarirlo… - pronunciò Imogene, facendo sbiancare Lilibeth, la quale non credette alle sue orecchie.
- Mandragora… parli sul serio?! Quella mandragora??
L’ultima volta che ho visto una mandragora è stato quando Beitris si è dovuta recare molto lontano da qui, per trovarla, per Myriam.
Ma nel caso di Myriam non ha funzionato, è stato tutto inutile, e ha provocato gravi danni irreparabili.
Quella pianta è immensamente pericolosa… come diavolo ha fatto a procurarsene una??? Non è possibile che ve ne siano qui a Bliaint!
- E se fosse riuscito a recuperare la stessa mandragora che avete usato voi? – ipotizzò Imogene. – L’avete seppellita da qualche parte dopo l’utilizzo fallimentare, giusto?
- Sì, ma-
- Allora deve averla disseppellita e utilizzata a sua volta! Ora si spiega tutto. Ecco perché Ioan sta peggio di prima: le mandragore morte sono persino più pericolose di quelle vive, funzionano diversamente, sono in grado di darti tutto, e di toglierti ancor di più. Le mandragore morte prosciugano le energie vitali e se ne nutrono. Possono compiere miracoli fin quando le tieni vicine e permetti loro di nutrirsi di te, come farebbero dei parassiti… ma quando non hanno più nulla da rubarti… - si bloccò Imogene, sposando lo sguardo atterrito sul piccolo Ioan. – … non ti lasciano più niente. 
Heloisa pianse ancor di più.
- Come diavolo ha fatto vostro figlio a servirsi di una mandragora morta e a utilizzarla come una qualsiasi medicina…? – domandò sconcertata Lilibeth.
A ciò, Heloisa scoppiò in una nervosa e disperata risata, prima di rispondere a pieni polmoni. – Oh, voi non avete neanche idea di cosa sia capace quel demonio di mio figlio!
- Usandola per creare quel ciondolo ha corso un immenso rischio lui stesso. Possibile che non abbia preso in considerazione le conseguenze delle sue azioni? – le domandò la sciamana.
- Imogene, è di Blake che stiamo parlando! Con lui tutto è possibile! Ha sempre desiderato con ogni fibra del suo essere trovare una cura per guarire suo fratello! E non appena l’ha trovata, l’ha usata immediatamente senza pensare a nulla!
Lilibeth sgranò gli occhi. – Voi siete la madre di Blake…?
- Chissà perché, non sono sorpresa che lo conosciate… è sempre stato invischiato in faccende insidiose e oscure da cui mi ha sempre lasciato fuori – commentò Heloisa, sfinita.
- Se le condizioni di Ioan erano così gravi già da prima… se Blake non avesse fatto ciò che ha fatto per tentare di salvare suo fratello… ora vostro figlio sarebbe già morto, suppongo.
Quindi smettete di lamentarvi di ciò che ha fatto – disse seccamente Lilibeth.
- Non permettetevi di dirmi come dovrei reagire dinnanzi alla sofferenza di uno dei miei figli, e dell’incoscienza dell’altro.
- Ad ogni modo, non so che genere di aiuto potrei darvi.
Potrei provare a dare un’occhiata ad alcuni scritti che abbiamo alla dimora, ma se nemmeno la magia di Imogene è riuscita a farlo stare meglio…
Forse, l’unico modo per evitargli una morte certa è usare un’altra mandragora. Viva, questa volta.
O magari Blake potrebbe sapere come fare. L’ha già guarito una volta, potrebbe farlo di nuovo, potrebbe avere in mente qualcosa!
Per quale motivo non vi siete già rivolte a lui?
- No! – esclamò concitatamente Heloisa.
Imogene sospirò pesantemente. – Ho provato anche io a suggerire questa soluzione. È stata la prima che ho suggerito, in realtà, ma non c’è verso: Heloisa non vuole fargli sapere nulla.
- Per quale motivo…?
- Sono certa che Blake mi voglia già morta per averglielo portato via… per averlo rapito senza il suo consenso. Avete una minima idea di come reagirebbe se dovesse scoprire che, mentre era sotto la mia responsabilità, Ioan si è riammalato di nuovo??
Mi ucciderebbe. Blake non deve saperlo.
Lilibeth le rivolse un sorriso di scherno, disgustato. – Sareste disposta a veder morire il vostro figlio minore… pur di non far adirare o deludere il maggiore…?
Che razza di madre siete?
Non dovrebbe essere più importante la salvezza di Ioan, piuttosto che la paura di venire odiata e disprezzata da Blake?
Heloisa smise di piangere e abbassò il volto. Carezzò ancora il braccio nudo di Ioan, emettendo un flebile e sfinito sorriso. – Avete ragione. Non merito di essere chiamata “madre”. Eppure, nessuna donna nasce madre. La mia non lo è nata. Io, invece, ho fatto di tutto per esserlo, nel modo giusto.
Non mi importa non essere compresa, venire giudicata aspramente da voi.
Voglio riuscirci da sola, con le mie forze, senza Blake.
Imogene fissò sua cugina in silenzio, poco prima di parlare:
- È proprio vero ciò che gli antichi dicono: una madre non amerà mai il figlio che la ama di più, quanto amerà quello che la disprezza e la rinnega.
 
Myriam era nella sua stanza, impegnata a scrivere l’epitaffio funebre.
Improvvisamente, la lama affilata di una preziosa daga si posò sulla sua gola, premendo pericolosamente la carne soffice.
La strega non fece una piega, non emise una smorfia, né fece un movimento, imponendosi di rimanere calma.
Riconosceva vagamente il profumo e il tocco della fanciulla alle sue spalle, che le stava puntando quella lama alla gola.
- Azzardatevi a fare uno dei vostri trucchetti magici, e avrete la gola recisa da parte a parte in meno di un secondo – pronunciò la voce fredda e addolorata di Judith. – Non ho paura di farlo, dopo tutto ciò che ho vissuto da questa mattina – sputò gelida. – Ora mi direte tutto ciò che voglio sapere su questa faccenda. TUTTO. Per filo e per segno. Mi avete udita? – domandò premendo dolorosamente la daga sulla giugulare della donna, la quale emise una lieve smorfia di dolore.
- Come sapete che io c’entri qualcosa? – ebbe il coraggio di domandarle la strega.
Era in trappola, lo sapeva.
Judith era intuitiva e intelligente.
Non poteva neanche sperare in un intervento tempestivo di Imogene a salvarla dall’ira della rossa, in quanto la sciamana sembrava essere quasi scomparsa dalla circolazione da qualche giorno.
Dunque era sola. Sola con una ragazza infuriata, addolorata e senza scrupoli.
Doveva dirle tutto ciò che voleva sapere. Non aveva altra scelta.
Sapeva che Judith non ne avrebbe fatto parola con nessuno, se l’avesse persuasa con le giuste motivazioni.
Gli eventi di quella mattinata erano stati troppo frenetici e assurdi da poter passare inosservati agli occhi del villaggio, specialmente ad una persona tanto coinvolta e legata emotivamente alla vittima della tragedia.
- Non prendetemi per una ragazzina sprovveduta e sciocca, strega – rispose Judith. – È stato da quando mi sono risvegliata dall’amnesia e ho scoperto che padre Cliamon soffrisse di una misteriosa “malattia” che lo faceva soffrire terribilmente solo un giorno a settimana, casualmente  sempre lo stesso; mentre voi eravate sempre inspiegabilmente vicino alla porta della sua stanza quando accadeva.
Dunque, Myriam, ora fareste meglio a dirmi tutto ciò che sapete su questa storia, prima che io perda la pazienza.
Ho già versato abbastanza lacrime qualche ora fa, quando, appena alzata dal letto, ho intravisto un uomo entrare dentro la stanza di padre Cliamon e ucciderlo a sangue freddo, senza che io potessi fare nulla per impedirlo.
E quando sono corsa dietro all’uomo e ho tentato di fermarlo, questi si è bloccato, mi ha guardata come se stesse guardando un fantasma, poi ha notato la sua immagine riflessa su uno specchio, ha urlato terribilmente, ha iniziato a piangere ed è scappato via.
- Sarà una storia lunga, Judith – la avvertì. – Siete certa di volerla ascoltare?
- Ho appena perso l’uomo che mi ha cresciuta e che mi ha amata come una figlia per diciassette anni – pronunciò con voce vuota, devastata, continuando a premere la lama sulla sua gola. – Scoprire chi, cosa lo abbia ucciso e perché, è il minimo.
- Da cosa volete che parta?
- Da questa – disse, gettando una lettera stropicciata sopra il tavolino dinnanzi cui era seduta Myriam. Questa la prese in mano, stando attenta a non compiere troppi movimenti che potessero far sospingere quella lama più in profondità nella propria gola, e iniziò a leggerla.
Era la calligrafia di padre Cliamon:
“Carissima bambina,
non vi sono parole per descriverti quanto ti ho amata in questi lunghi, ma sempre sin troppo brevi, anni.
Sei stata un dono, una luce, un sole inestinguibile nella mia vita.
Ti ho voluto bene e ti ho amata infinitamente, al pari di quanto abbia amato i piccoli Maroine e Maringlen di cui, purtroppo, non hai più memoria, e chi mi mancano molto.
Per tale motivo ho voluto scriverti un’ultima volta, per confessarti i peccati che ho commesso, in una vita non degna di essere vissuta.
La mia anima è indegna.
Il mio spirito macchiato.
Per tale motivo, ti avverto della mia imminente morte.
Se stai leggendo questa lettera, è perché sono già stato ucciso.
Domani mattina qualcuno verrà ad assassinarmi nella mia stanza, e, dopo che ciò sarà avvenuto, tu troverai la mia lettera sopra il tavolo della mia stanza. E troverai anche il mio corpo.
Non voglio che tu stia troppo male per me, piccola cara.
Non potresti comunque fare nulla per impedire ciò che avverrà.
Non è colpa tua, né di nessun altro, solo mia.
Io sono il nemico di me stesso.
L’unica cosa che rimpiango… è di non poter vivere abbastanza per veder nascere la splendida creatura che porti in grembo.
Abbi cura di te e del tuo bambino, mia luminosa Judith.
Meriti tutto il bene del mondo.
Vivi la tua vita e non soffrire per me, figlia mia.
Trova la tua pace.
                                                                                                           Con immenso amore, Cliamon”
Myriam terminò di leggere la lettera e affilò lo sguardo.
- Dunque?? – arrivò pretenziosa e puntuale la voce lapidaria di Judith, dietro di lei.
- Ci credereste, se vi dicessi che padre Cliamon non è davvero morto, e che questa è una falsa lettera di addio, scritta esclusivamente per rassegnarsi all’idea di non vedervi più? – le domandò improvvisamente, sconcertandola.
- Fareste meglio a spiegarvi. Ora.
- Ciò che è accaduto a Cliamon è connesso a me, avete ragione.
Ma non sono io la causa del suo male diretto.
Egli ha ragione: è lui stesso ad essere giunto a questo punto.
Quello di padre Cliamon è stato un suicidio, simulato in un assassinio.
- Dove volete arrivare…?
- Io lo odio.
Lo odio da quando ho scoperto che è stato lui il monaco che ha dato l’ordine di uccidere mia madre, molti anni fa.
Da quel giorno, non ho fatto altro che desiderare di farlo soffrire, terribilmente ed eternamente, di una sofferenza peggiore della morte stessa.
All’inizio ho provato a togliergli la cosa più importante che aveva, minacciando la vita dei due gemellini, Maroine e Maringlen.
Poi, la mia coscienza ha avuto la meglio per una volta, e ho deciso di risparmiare la vita di quei ragazzini, perché, nonostante non voglia ammetterlo, li ho cresciuti.
Allora ho deciso di optare per qualcos’altro.
Un giorno ho scoperto il punto debole di padre Cliamon e tutto ciò che ho fatto da allora, è stato sfruttarlo a mio vantaggio, per condurlo alla rovina: la vanità.
Gli ho proposto un patto: io gli avrei fatto passare un giorno ogni sette dentro il corpo di un servo del Diavolo a sua scelta, tramite un incantesimo di scambio-corpi, e lui, in cambio, avrebbe fatto del male o ucciso due persone che odio visceralmente.
Il motivo per cui siamo riusciti a portare avanti tutto ciò per tutto questo tempo, risiede nel fatto che il ragazzo a cui è stato rubato il corpo, il giorno dopo non ha mai ricordato nulla di quello che è avvenuto il giorno precedente. Cancellazione dei ricordi. Dovreste ben sapere cosa si prova. A non ricordarsi qualcosa di fondamentale importanza, nell’avvertire una tale mancanza dentro di voi, un vuoto incolmabile… come se qualcun altro abbia vissuto una vita destinata a voi, vostra di diritto, relegandovi dentro una cella buia nell’attesa.
Per tale motivo dovevo rinchiudere padre Cliamon dentro la sua stanza, ogni volta che accadeva: perché quello che rinchiudevo non era padre Cliamon, bensì il servo del Diavolo di cui egli abitava il bel corpo abusivamente.
Intanto, il vostro padre acquisito viveva la sua bella vita nel corpo del ragazzo-strige, godendo delle sue sembianze, facendo letteralmente tutto ciò che desiderava dentro di lui.
Egoismo, apatia, vanità allo stato puro, animale.
Questo è ciò che è sempre stato quel monaco: un lupo travestito da agnello.
In merito a ciò che è accaduto questa mattina, invece… da dove cominciare?
Nessuno era a conoscenza di tutto quello che vi sto dicendo, ma, inevitabilmente, il ragazzo-strige, Folker, si è accorto di soffrire di buchi di memoria e ha iniziato a porsi delle domande, parlandone a qualcuno.
Qualcuno che, a quanto pare, avrebbe fatto davvero di tutto per aiutarlo.
Ambrose, un servo del Creatore molto affezionato a Folker, e innamorato di lui, ha scoperto tutto ed è venuto a rivolgersi a me direttamente.
Il suo ardore mi ha colpito.
Ho deciso di aiutarlo, così abbiamo ideato un piano insieme.
Io ero cosciente di quale sarebbe stata la prossima mossa di Cliamon non appena si fosse riappropriato del corpo di Folker: uccidere il suo corpo reale, con Folker dentro, in modo da sbarazzarsi per sempre delle sue fattezze mostruose, e del ragazzo contemporaneamente, così da passare il resto della sua vita nei panni del giovane servo del Diavolo. Sono stata io stessa a dirgli che fosse possibile fare una cosa simile.
Il suo egoismo e la sua smania si sono spinte sino a tal punto… da rubare il corpo e la vita di qualcun altro, da uccidere a sangue freddo un ragazzo innocente, da rinnegare per sempre il proprio corpo.
Il corpo del Creatore. Un atto persino blasfemo, sotto questo punto di vista.
Ho deciso di evitare che accadesse, che Cliamon l’avesse vinta.
Avrei potuto semplicemente smettere di farlo risvegliare nel corpo di Folker, e farla finita; ma in tal modo sarebbe semplicemente tornato alla vita di prima, ad essere amato e rispettato da tutti, e non era ciò che volevo.
Volevo fargliela pagare amaramente, farlo soffrire e disperare per il resto dei suoi giorni. Così ho aiutato Ambrose ad ingannarlo.
Questa mattina, il giorno settimanale dello scambio, ho fatto risvegliare padre Cliamon in un corpo diverso da quello di Folker, senza avvertirlo. Un corpo che, furbescamente, mi sono assicurata fosse all’aperto, in un prato incolto.
Ma per padre Cliamon non è stato strano, in quanto è capitato altre volte che Folker passasse la notte all’esterno, o in luoghi che non erano casa sua.
Senza farsi domande, né disturbarsi a trovare uno specchio per specchiarsi, si è subito diretto verso la sua meta, proprio come aveva progettato: d’altronde aveva persino scritto questa lettera per voi ieri sera, l’unico legame rimastogli col suo vecchio corpo, poiché sapeva cosa avrebbe compiuto l’indomani mattina.
Lo progettava da settimane. E io lo sapevo.
Dunque, col suo corpo nuovo, che credeva essere quello di Folker, si è recato qui, all’alba, e ha assassinato il suo corpo d’appartenenza.
Ciò che non aveva messo in conto, era che voi foste già sveglia e osservaste tutta la scena, ovviamente.
Sperava di risparmiarvi tale dolore.
Ad ogni modo, avete detto di aver visto un servo del Creatore uccidere padre Cliamon questa mattina, giusto?
- Esatto.
- Bene. Questo è il fulcro dell’inganno ideato da me e Ambrose: ho scambiato il suo corpo con quello di un servo del Creatore, malato e ubriacone.
Lui, non potendo minimamente sospettare dell’inganno, ha creduto di essere nel corpo di Folker, senza notare dettagli come l’assenza di forze o di riflessi, o altre piccole cose che avrebbero potuto suggerirgli di trovarsi in un corpo malaticcio e che ha passato la giovinezza.
Senza pensare, è giunto qui e ha compiuto il misfatto, senza guardare in faccia nessuno.
E solo dopo aver ucciso il se stesso corporeo… gli siete apparsa voi, come una furia, a cercare di fermarlo, e in quel momento si è guardato allo specchio…
E ha scoperto che la sua immagine riflessa non fosse quella bellissima di Folker, bensì una persino più deprecabile, disprezzabile e orrenda del suo corpo di nascita.
Ora Cliamon è destinato a vivere tutta la vita dentro un altro servo del Creatore, gravemente malato e prossimo alla vecchiaia, emarginato dalla società e povero fino al midollo; rimpiangendo per tutta la vita il suo misfatto, i suoi peccati e le gioie provate nel corpo del ragazzo-strige.
Vivrà il resto dei suoi giorni nel risentimento, nel rimorso, nel raccapriccio.
E non avrà neanche più voi.
Proprio ciò che desideravo fin dal principio.
Ed ora, anche il ragazzo-strige è libero, libero di riavere il suo corpo, sempre, e di servirsene come vuole.
L’unica pecca in tutto ciò… è che i monaci non si arrenderanno e saranno decisi a trovare il colpevole dell’assassinio di Cliamon, il quale verrà ricordato sempre come un santo, un uomo onorevole.
Deve essere ricordato così. Nessun altro deve scoprire tutto quello che vi ho narrato.
Se si scoprisse… pensate allo sgomento del popolo, alle rivolte che ne verrebbero fuori, alla sfiducia ulteriore che alimenterebbe nei popolani, nei confronti del clero?
Dovranno continuare tutti a credere che si tratti di un omicidio misterioso e inspiegabile.
In tal modo, i monaci si arrenderanno nella ricerca del colpevole, e se ne faranno una ragione.
Il colpevole non deve essere trovato.
Se padre Cliamon, nei panni del suo stesso assassino, venisse trovato e giustiziato, tutto ciò non sarebbe servito a niente: lui deve continuare a vivere e a soffrire.
Non vi preoccupate riguardo quello che potrebbe fare ora. Riconosco che gli uomini invasi dalla sofferenza e senza più un briciolo di coscienza come lui, potrebbero arrivare a compiere delle indicibili stragi. Ma lo terrò d’occhio io ed eviterò che faccia qualsiasi cosa. Il suo stato di salute di certo non lo aiuta, ad ogni modo.
Terminato il racconto, Myriam attese che Judith facesse o dicesse qualsiasi cosa.
Ma non arrivò alcuna reazione.
La ragazza rimase ferma, immobile, con la lama ancora premuta sulla sua gola.
Dopo dieci minuti interi di silenzio e immobilità, Myriam riprese la parola.
- Judith?
- Avete ucciso un uomo innocente – disse improvvisamente la rossa, con voce fredda e giudicante. – Non importa che sia stato un ubriacone e buono a nulla, avete comunque ucciso un uomo senza scrupoli, pur di ottenere la vostra perversa, torbida e becera vendetta.
- Cosa volete fare, in merito? Uccidermi? Non vi conviene. Oramai manca poco: tra qualche giorno, verrò riconosciuta ufficiosamente come monaca. La prima monaca del Diavolo dopo la ribellione – tentò, non del tutto certa che ciò potesse convincere Judith a mettere via quella lama, che le stava facendo scendere piccoli rivoletti di sangue dalla gola, i quali le bagnarono la tunica.
Judith sospirò pesantemente dietro di lei.
Le aveva detto tutto.
Tutto ciò che voleva sapere.
E, giustamente, la ragazza doveva essere a dir poco sconvolta. Sempre che credesse alle sue parole.
Ripose l’arma nel fodero e permise a Myriam di voltarsi verso di lei.
Il bel volto della rossa era una maschera di sale.
- Ditemi dove abita l’uomo di cui il corpo è posseduto da Cliamon – disse semplicemente.
 
Il ragazzo era seduto sul davanzale della finestra, immerso nei pensieri.
Era stanco, spossato, dolorante per tutte le sessioni di purificazione a cui i monaci lo stavano sottoponendo quotidianamente.
Da cinque erano diventate dieci al giorno.
Centinaia di frustate a schiena nuda, dieci tentativi di affogamento.
Il suo corpo era svilito, nell’anima e nella carne.
Fece ricadere la testa sullo stipite dietro di sé, osservando con occhi vuoti il freddo paesaggio scuro davanti ai suoi occhi.
In quel momento, Bridgette si stava sposando. Lontano da lui. Con qualcuno che non era lui.
Il pensiero gli fece più male di quanto si aspettasse e il cuore iniziò a dolergli.
Era rimasto solo. Solo al mondo.
Per qualche motivo, la presenza di Ambrose al suo fianco non riusciva a confortarlo.
Il suo amico era una roccia salda per lui, ma nemmeno lui avrebbe potuto evitare che il villaggio lo rigettasse e lo trattasse come un rifiuto umano, come un mostro.
Ed ora, non solo era visto come un’abominevole creatura succhia-sangue, ma anche come una puttana, per colpa di quel monaco che gli stava rubando a poco a poco pezzi di sé.
Suo padre non gli rivolgeva più la parola. Sua madre lo guardava sempre con sguardo afflitto e angosciato.
Mai desiderò tanto come in quel momento, di trovarsi sotto la Taverna, a combattere nella Congrega.
L’unico modo in cui sarebbe riuscito a sfogarsi, a ritrovare il suo equilibrio, la sua calma interiore: picchiare.
Colpire, picchiare, difendersi.
Chiuse gli occhi, e ripensò all’unica persona che, un tempo, era in grado di farlo sorridere genuinamente:
Volteggiava con il suo vestitino perennemente sporco di qualcosa, che fosse di erba, di terra, di concime o di cibo.
Volteggiava e saltava, come un ibrido tra un grillo e una farfalla.
Aveva lunghi capelli ondulati, che finivano sempre da tutte le parti.
- Cantami qualcosa… - gli sussurrava Bonnie. – Prendi la lira e cantami qualcosa, Dietrich.
E allora lui obbediva e iniziava a suonare. E a cantare. Solo per lei.
E la bambina ballava e volteggiava, ballava e volteggiava, ballava e volteggiava.
E rideva, guardandolo.
- Cantami qualcosa anche per addormentarmi, in modo che io faccia bei sogni…
Il suo dolce flusso di ricordi venne interrotto dal bussare alla porta.
Scese dal davanzale della sua camera e andò ad aprire, trovandosi davanti l’imponente figura dell’amico dinnanzi alla porta, con un sorriso enorme ad illuminargli il viso.
- Ambrose – lo accolse, non riuscendo a risultare minimamente più gioviale, facendolo entrare in stanza.
Ambrose sembrò non farci caso ed entrò.
- Ho una gloriosa notizia da darti – esordì.
- Che notizia?
- Nessuno ruberà più il tuo corpo, Folker!
Ce ne siamo liberati.
- Che cosa vuoi dire…?
- Ho trovato la strega con cui il monaco aveva fatto un patto.
L’ho convinta ad aiutarci e… avrai sentito la notizia, che questa mattina un monaco è stato assassinato nella sua stanza da un uomo misterioso.
- Sì, ho sentito.
- La strega l’ha fatto risvegliare nel corpo di un servo del Creatore, lui ha creduto di trovarsi nel tuo e per disfarsi per sempre del proprio corpo… è andato alla cattedrale e si è ucciso.
Cioè, l’ha ucciso, volevo dire.
Ora sarà costretto per sempre a vivere dentro il corpo di un altro servo del Creatore e non avrai mai più a che fare con lui.
Lo sguardo di Folker divenne affilato, deluso, ad un tratto. – Quindi… non è morto? – domandò.
Ambrose ammutolì, non aspettandosi una simile domanda. – No, non è morto, ma il corpo in cui si trova ora è malato e debole.
- Però è ancora vivo.
È questo che mi stai dicendo.
Di rinunciare al mio obiettivo di ucciderlo perché “ora non mi darà più fastidio”.
- Folker, sei libero, accidenti! Ora il tuo corpo è tuo e tuo soltanto! Ciò non conta nulla per te?
A ciò, il biondo si avvicinò a lui, guardandolo dritto negli occhi. – Nulla e nessuno cancellerà quello che lui mi ha fatto  in tutto questo tempo.
Neanche ciò che hai fatto per me lo cancellerà.
Mai dimenticherò.
Io lo voglio morto.
Morto, Ambrose.
Solo allora sarò libero.
- Folker, ragiona: ti conviene macchiarti di un crimine simile e rischiare il rogo nella tua già precaria posizione?
- Nella precaria posizione di strige, vuoi dire? La posizione in cui tu, solo tu, mi hai messo? – gli rinfacciò velenoso, non volendo davvero rispondergli in quel modo, ma non riuscendo a farne a meno.
Se davvero il mondo lo considerava un mostro, allora si sarebbe comportato da tale. D’altronde, gli veniva naturale.
Ambrose sembrò ferito, ferito dal proprio senso di colpa, a tale commento. – Folker, ti ho già detto mille volte che mi dispiace e che non lo avrei mai voluto. Se solo avessi saputo…
Ho tentato di rimediare in tutti i modi per averti messo in tale posizione, ma non ci sono riuscito.
Vuoi punirmi ancora per questo…?
Folker gli rivolse uno sguardo indefinibile. – I monaci non sapranno mai ciò che è davvero accaduto, vero? Non sapranno mai ciò che quell’uomo mi ha fatto.
- Con Myriam abbiamo ritenuto più sicuro e conveniente che non lo sapesse nessun-
- Se i monaci sapessero, sapessero cosa ho passato, forse… forse sarebbero più misericordiosi con me. Forse non mi sottoporrebbero a quelle dannate torture ogni giorno!!
- Folker, non possiamo farlo sapere… sarebbe un rischio – provò a farlo ragionare il moro, avvicinandosi a lui, tentando di poggiargli una mano sulla spalla.
Il biondo la scacciò via. – Non toccarmi! Non provare a toccarmi – disse, ponendo le braccia conserte e prendendo a fissare un punto indefinito, con le mascelle contratte.
- Folker… mi dispiace, davvero.
Voglio ucciderlo almeno quanto te, vorrei svergognarlo dinnanzi a tutti quanto te, ma…
- Come hai scoperto chi fosse la strega in combutta con lui? – gli domandò il biondo, cogliendolo in contropiede.
- Cosa?
- Ci hai parlato? Hai parlato col monaco mentre abitava il mio corpo, non è vero?
- Sì. L’ho scovato e l’ho convinto a dirmi tutto mentre era nel tuo corpo.
Folker si strinse la maglia talmente forte da squarciare il tessuto con le unghie.
- Ha provato a sedurti? – gli domandò con un fil di voce.
Ambrose deglutì. – Sì.
- E tu che cosa hai fatto?
- Ho capito che non eri tu e l’ho rifiutato.
- Se fossi stato io avresti rifiutato comunque?
- No – ammise sincero. – Anche se ti ho promesso che non ti avrei più toccato… se sapessi che tu vuoi la stessa cosa che voglio io, non mi tirerei indietro per niente al mondo – gli rispose serio, guardandolo dritto negli occhi, senza paura.
Folker lo scrutò, col suo sguardo svuotato e disilluso. – Lo hai rifiutato subito?
Ambrose esitò. Voleva essere sincero, ma al contempo nessuno lo avrebbe punito se non lo fosse stato.
Nemmeno il Creatore.
- Sì – mentì.
Folker lo guardò ancora, come indeciso se credergli o no.
Poi si accorse che non gli interessava.
Non gli importava se Ambrose lo avesse toccato senza il suo consenso, facendo di lui il pezzo di carne che era diventato negli ultimi mesi.
Un insieme di carne, sangue, nervi, cicatrici, dolore.
Questo era ciò che era.
Canta qualcosa per me, Dietrich…
- Dove abita l’uomo di cui il corpo è posseduto da Cliamon? – gli domandò serafico.
- Perché vuoi saperlo?
- Dimmelo, Ambrose.
Il moro ci provò a trattenersi, ma era impossibile.
Gli avrebbe detto di tutto, qualsiasi cosa avesse chiesto, il biondo non si sarebbe neanche dovuto impegnare a chiederglielo con la giusta intonazione.
Se era Folker a chiederglielo, gli avrebbe rivelato qualsiasi cosa, persino segreti innominabili.
- Vicino al bestiame della famiglia di Terry.. c’è una casa malridotta, interamente di legno. È là che vive.
- Torna a casa, Ambrose – gli disse infine, soddisfatto di aver ottenuto l’informazione che voleva. - Torna a casa.
- Che cosa vuoi fare…? Folker..
Il ragazzo non fece mistero di cosa stesse andando a fare, afferrando la corda che suo padre usava per andare a caccia e un pugnale con sé.
- Torna a casa. Ci vediamo domani.
Glielo disse con tutta la tenerezza possibile.
Detto ciò, uscì di casa sua e si diresse verso l’abitazione indicatagli, nel buio della sera.
Raggiunse la dimora dell’uomo in appena mezz’ora di cammino.
Aprì la porta di legno senza difficoltà, non vi fu neanche bisogno di forzarla.
Folker si aggirò nel buio della casa con passo felino, non emettendo alcun rumore.
Avanzò fin quando non si ritrovò dinnanzi la sagoma del servo del Creatore che stava abitando padre Cliamon, seduto su una sedia e immerso nel buio, nemmeno una candela accesa in tutta la casa.
Nonostante il buio, la luce della luna proveniente dalla finestrella illuminava parzialmente il volto dell’uomo. Definirlo aberrante sarebbe stato un complimento. La sua faccia tonda, unta, era cosparsa di piaghe, di verruche e di peli grigi, il suo corpo uno scheletro pelle ossa di pelle cadente.
- Sapevo saresti venuto – gli disse l’uomo, la voce roca e rassegnata al suo destino.
Folker non rispose ma restò a guardarlo, rimanendo in piedi.
- Se lo sapete, potete rendermi le cose più facili e avvicinarvi a me, per farvi mettere questa al collo - gli disse gelidamente il ragazzo, allungando il braccio e mostrandogli il cappio che aveva tra le mani, formato da lui durante il cammino.
Cliamon abbassò la testa e tirò fuori un piccolo pugnale dalla tasca. – L’istinto di sopravvivenza, malgrado la degenerante esistenza che mi aspetta… quello non me lo toglierà mai nessuno, Folker.
Difforme, respingente, respinto, intollerabile, un riflesso che romperebbe in mille pezzi qualsiasi specchio…
Non capisci? Non riesci a capire che la punizione peggiore e più crudele per me, è passare il resto dei miei anni in questa putrida e infernale sacca di sangue, dove la strega mi ha confinato? Se mi ucciderei porrai fine alle mie sofferenze e mi libererai del supplizio di vivere in quest’uomo, nel perenne rimorso e rimpianto…
Con una freddezza agghiacciante, Folker gli calciò la mano, facendogli cadere a terra il pugnale che impugnava debolmente.
Il calcio fu talmente forte che il polso dell’uomo si spezzò nel momento in cui entrò in contatto con la suola dello stivale del ragazzo.
Questi si avvicinò all’uomo, mentre egli urlava di dolore, e gli circondò la testa con il cappio stretto, con una naturalezza spaventosa, quasi come fosse un atto che compiva ogni giorno.
Dopo di che, lo trascinò verso il centro della stanzetta, un punto sopra il quale si ergeva una vecchia trave di legno, vecchia ma abbastanza resistente.
Lanciò l’estremità della corda verso l’alto, in modo da farla passare dall’altra parte della trave, poi afferrò l’estremità e si voltò verso Cliamon un’ultima volta, donandogli la visione del suo volto algido e incolore.
- Hai delle ultime parole, monaco? – gli domandò.
Questi lo guardò dritto in quelle due pozze di topazio che aveva tanto bramato e idolatrato, e che erano state sue.
- Non mi pento di niente – disse.
A ciò, senza esternare alcuna reazione, Folker cominciò a tirare, tirare, tirare, tirare.
Tirò con tutta la forza che aveva, fin quando i piedi dell’uomo non si staccarono da terra, rimanendo sospesi, agitandosi convulsamente come rami mossi da una bufera.
Al monaco, appeso per il collo, mancava il respiro. Cercava in tutti i modi di allentare la pressione che la corda ispida e strettissima esercitava sul suo collo, senza successo, portandolo lentamente al soffocamento.
Non fu un’impiccagione veloce e indolore, una di quelle in cui la caduta è talmente improvvisa e rovinosa da spezzare l’osso del collo.
No. L’osso del collo era ancora attaccato alla spina dorsale dell’uomo.
Fu un’impiccagione lenta, dolorosa, per soffocamento.
Folker resistette ancora, tirando la corda più che potesse e attendendo, attendendo che le gambe dell’uomo smettessero di muoversi e lui di combattere.
Cliamon tossì, restando appeso, ebbe conati di vomito, sbavò a grandi quantità e ringhiò, guaì, annaspò, come un animale.
Solo dopo diversi minuti i suoi polmoni cedettero, il suo volto si gonfiò e divenne borgogna e i suoi occhi piccoli e velati diventarono vitrei.
A ciò, ancora con la corda in tensione tra le mani, Folker si guardò intorno, trovò un tavolino ancorato a terra, e si accinse a legare l’estremità della corda ad una gamba del mobile, in modo che il vecchio restasse orribilmente appeso.
Dopo ciò, si spostò davanti a lui, per osservare il suo volto senza vita frontalmente.
Era la prima persona che uccideva.
Alzò gli occhi su quel corpo e provò un’incomparabile soddisfazione, l’infimo e dolce premio che offre la vendetta, talmente avido da durare solo una manciata di istanti: subito dopo, si sentì vuoto, deanimato.
Non bastava. Aveva posto fine alle sue sofferenze, gli aveva dato una morte veloce, e quel verme non aveva affatto pagato per ciò che gli aveva fatto.
Improvvisamente, si sentì ancor più distrutto e insoddisfatto di prima.
Solo dopo diversi minuti in cui fissò il corpo dell’uomo, si accorse di un’altra presenza dietro di sé.
Si voltò di scatto, e trovò la sagoma di Judith, dinnanzi alla porta spalancata della casa.
Non si era neanche disturbato a chiuderla quando era penetrato in quell’abitazione fatiscente, tanta era la fretta di ucciderlo. Tanta era la noncuranza verso il destino che gli sarebbe spettato se qualcuno lo avesse scoperto.
Improvvisamente, per un attimo, fu felice che Judith lo avesse visto, e desiderò che la fanciulla lo denunciasse ai monaci, e che lo giustiziassero.
Avrebbe finito di soffrire anche lui, in tal modo.
Restarono a guardarsi fissi, nel buio della notte, con solo la luna ad illuminarli.
Il volto di Judith era vuoto quanto il suo.
In pochi attimi, chissà come, fu tutto chiaro, ad entrambi.
Era come se fossero in grado di leggersi la mente a vicenda:
So tutto.
So quello che ti ha fatto.
Ti ho visto.
Non lo dirò a nessuno.
Hai già sofferto abbastanza.

Erano gli occhi neri e profondi di Judith a suggerirgli tutto ciò, senza emettere parola.
Eri venuta per dirgli addio?
Sei venuta troppo tardi.
La strega ti ha graziato, rivelandoti tutto?
Vorrei che lo dicessi a tutti.
Vorrei che tutti sappiano che tipo di persona fosse.
Vorrei che chiunque vedesse questo corpo appeso qui.
Furono gli occhi di Folker a rivelarle tutto quello che necessitava di sapere.
Nel guardare il viso della ragazza, a Folker tornò in mente il ricordo di quel bel volto riverso sulla base dell’altare, con la selvaggia chioma di capelli artificialmente bianchi completamente macchiati di sangue, la vestaglia candida a circondarle il corpo sensuale e il ventre gravido, in una posa innaturale.
Quella fanciulla gli aveva salvato la vita molte volte.
Lui aveva salvato la sua una sola volta.
Judith entrò nella casa e si avvicinò lentamente al corpo appeso, come in un solenne rito.
Alzò il volto verso l’alto, per guardarlo.
- Ha sofferto? – gli domandò semplicemente.
- Sì – rispose atono.
- Bene – disse lei. – Nessun altro ti ha visto. Fai ancora in tempo a scappare. Penseranno si tratti di un suicidio: quest’uomo era molto malato. Con Myriam me la vedrò io – gli promise. – Ora va’.
A ciò, il ragazzo obbedì, e come nauseato da quella casa oramai, dal mondo che lo circondava in generale, senza dire né fare altro, uscì di lì, e si diresse nuovamente verso la propria dimora.
Judith, rimasta sola col cadavere impiccato dell’uomo che l’aveva cresciuta e le aveva donato tutto l’amore di cui aveva avuto bisogno, allungò una mano guantata verso l’alto, carezzandogli una guancia ruvida, fredda e bagnata di lacrime e altri fluidi corporei.
- Possa tu marcire all’inferno per l’eternità, padre.
 
Tornato a casa sua, Folker aprì la porta della sua camera, trovandovi al suo interno la figura di Ambrose, il quale non si era mosso di lì.
Lo aveva aspettato per tutto il tempo, con una tremenda ansia a pervaderlo da capo a piedi, la preoccupazione a sfigurargli il volto burbero e buono.
Folker gli gettò un solo sguardo addosso, poi richiuse la porta dietro di sé, e si lasciò ricadere sulla superfice della porta, facendo aderire la schiena ad essa, sfinito.
Non era sorpreso di averlo ritrovato lì.
Sapeva, in cuor suo, che non se ne fosse andato.
Non lo avrebbe mai lasciato solo in un momento come quello.
Nella sua mente si materializzò il ricordo della prima volta che lo aveva visto, e sfidato, alla Congrega.
Il suo viso determinato, i suoi occhi scuri e accaniti, ma il suo sguardo fondamentalmente buono.
Mentre lui, lui gli aveva dimostrato sempre e solo disprezzo.
Disprezzo perché era adirato col mondo e perché Ambrose era un servo del Creatore.
Nessuno dei suoi amici aveva mai preso in considerazione l’idea di scambiare anche solo una parola con un servo del Creatore, e lui tanto meno.
L’odio reciproco che scorreva tra i ragazzi dei due culti era solido e tangibile.
Era in difetto. Era sempre stato in difetto nei suoi confronti, perché era sempre Folker il primo ad attaccare briga, il primo a picchiarlo, il primo ad aizzarlo, il primo ad essere ingiusto verso di lui.
E anche se Ambrose, involontariamente, lo aveva ripagato facendolo odiare dall’intero villaggio e portandolo alla pazzia a causa della questione della strige, ciò non reggeva il confronto con tutta la rabbia e l’odio che Folker aveva versato su di lui ai tempi della Congrega.
Se ne rese conto, lo realizzò mentre lo guardava a qualche metro di distanza, ancora con la schiena poggiata alla porta.
Ambrose, dal canto suo, non osava avvicinarglisi. Restava seduto sul letto, e lo guardava da lì.
La preoccupazione per ciò che l’amico aveva appena fatto, ma soprattutto la paura che qualcuno lo avesse visto, lo stava divorando dall’interno.
Lo fissava afflitto, allarmato, desiderando solo chiedergli come si sentisse, cosa aveva provato.
Cosa avesse provato nell’uccidere un uomo.
Se lo avesse fatto lui, il Creatore non l’avrebbe perdonato.
Invece, il Diavolo probabilmente avrebbe perdonato Folker, e ciò lo tranquillizzava.
Il Creatore non lo avrebbe perdonato neanche per il fatto che gli piacessero i ragazzi. Ma con ciò avrebbe fatto i conti quando sarebbe arrivato il momento di sposarsi con una donna.
Solo due candele illuminavano parzialmente la stanzetta, gettando ombre e chiaroscuri sui volti di entrambi, facendo apparire ancor più bello l’uno, e ancor più grottesco l’altro.
Folker si avvicinò al suo amico con passo lento.
Ambrose non si perse neanche un suo movimento.
- Com’è stato…? Com’è stato ucciderlo?
Folker lo guardò con un’espressione indefinibile. – Perché non sei tornato a casa come ti avevo detto?
- Perché volevo sapere come stessi.
Le parole di Bridgette gli tornarono in mente:
Devi comprendere cosa altro c’è nel tuo cuore e quali sentimenti ti legano a quel ragazzo
Cos’era Ambrose per lui?
Continuò a guardarlo, e nella sua testa apparve la stessa risposta di sempre:
Uno stupido servo del Creatore che, per qualche assurdo motivo, mi è devoto.
No, non un servo del Creatore. Oramai non era più in grado di vederlo solo così.
Era un ragazzo. Solo uno stupido ragazzo.
Uno stupido ragazzo che non meritava.
Uno stolto che meritava molto di meglio.
Uno stupido ragazzo che si sarebbe gettato tra le fiamme per lui.
Folker si sentiva vuoto, vuoto di tutto, e sapeva che la situazione non sarebbe mutata.
Ma se era libero… lo doveva solo ad Ambrose.
Quella sera prese una decisione.
Afferrò la mano grande e inerme dell’amico e se la poggiò sul fianco, sotto i vestiti, a contatto con la pelle nuda e liscia del bacino.
Ambrose pietrificò e si irrigidì. – Che significa…? – gli domandò in un fil di voce.
Folker mantenne quel suo sguardo algido, svuotato e distante, continuando a guardarlo. – Non è una ricompensa – gli disse. – Solo per una notte – aggiunse.
Fu a quel punto che gli occhi scuri dell’amico si spalancarono all’inverosimile, le pupille inghiottirono completamente le iridi.
Puoi avermi. Solo per una notte.
Non gli disse altro. Non fece alcun primo passo. Non ce ne fu bisogno.
Ambrose, come un assetato rimasto per cento giorni nel deserto, come un marito che non aveva visto per decenni la sua sposa, poggiò l’altra mano sul bacino del biondo e lo trascinò a sé.
Gli prese le cosce toniche con forza e al contempo delicatezza e gliele allargò, alzandolo su, per farlo sedere a cavalcioni sopra di sé.
Folker si lasciò fare tutto, guardandolo perso e distante.
Ambrose lo scrutò dal basso e si godette la vista di quel volto che ora aveva così vicino, consensualmente.
Bevve ogni dettaglio di quegli occhi grandi e liquidi, di quelle labbra piene, di quei capelli lunghi, morbidi e chiari.
Non poteva crederci.
Non poteva ancora crederci.
Si convinse che fosse un sogno, solo un bel sogno. La mattina seguente si sarebbe svegliato e si sarebbe accorto che fosse stato solamente uno dei tanti sogni in cui imperava lo stesso soggetto, solo più spinto del solito.
Gli percorse tutta la linea della lunga schiena, vezzeggiandola con dovizia, dal basso verso l’alto, fin quando non arrivò alla nuca cosparsa di capelli, dentro cui infilò le dita, dita troppo grandi e volgari per potersi permettere di toccare tale tesoro prezioso e raffinato.
Fece pressione sulla sua nuca per avvicinarlo a sé e finalmente lo baciò, riassaporandolo con un sospiro estatico.
Il biondo si lasciò baciare, saggiare e toccare, permettendo a quelle mani callose, ferme e gentili, di insinuarsi sotto i vestiti, di idolatrare la sua pelle d’avorio, chiara e calda, marchiata di tanto in tanto dalle ferite delle frustate, ancora in via di rimarginazione.
Oramai era talmente abituato al dolore di quelle lacerazioni, da non avvertire neanche più fastidio quando venivano toccate.
Ambrose le accarezzò, ad una ad una, mentre lo spogliava lentamente, godendosi ogni piccola porzione di pelle che veniva scoperta e che si palesava alla luce della luna e delle candele.
Le accarezzò e le baciò, come se la sua bocca amorevole potesse in qualche modo lenire il dolore.
Tutta quella dolcezza stava nauseando Folker.
Non era avvezzo alla dolcezza, non era avvezzo alla calma, all’amore, alla tranquillità di un dolce tocco.
Anche quando faceva l’amore con Bridgette, i loro tocchi non erano così mielosi e febbricitanti.
Ma dopo i primi minuti di intensa ed esasperante venerazione, Ambrose decise di agire più concretamente, e di dare sfogo alla sua abissale e incommensurabile voglia di averlo e possederlo, con tutto l’amore, la voracità e la passione di cui era capace.
Se quella era davvero la prima e ultima volta, l’avrebbe sfruttata in pieno, fino all’ultimo secondo, fino all’alba.
Fece l’amore con lui in ogni modo possibile, divorando la sua bocca in particolare, ma anche tutto il resto del corpo, e nonostante Folker sembrava essere in un altro mondo, talvolta, in alcuni sprazzi di lucidità, il piacere adombrava il suo viso inevitabilmente, in una maniera che faceva scaldare il cuore e tutte le membra di Ambrose.
Accadeva in particolare quando toccava e stimolava i suoi punti più sensibili, quando si occupava di lui e lo idolatrava con talmente tanta audacia e passionalità, da portarlo all’esasperazione, al limite, ad un punto di non ritorno.
Erano quelli i momenti in cui la sua melodiosa voce usciva fuori dalla sua gola, rotta e maltrattenuta, rendendolo ancora più sensuale di quanto già non fosse, e Ambrose si domandò come fosse possibile.
Il suo corpo e quello del biondo erano incredibilmente reattivi tra loro, in una sintonia unica e incomparabile.
Stavano compiendo un peccato imperdonabile, giudicato punibile con il rogo da chiunque al villaggio.
Ciò rendeva la loro unione carnale proibita ancor più esasperante, intensa e bisognosa.
Ambrose pensò che Folker fosse la creatura più bella e intoccabile esistente sulla faccia della terra.
Lo aveva sempre pensato, e in quel momento, dopo la decima volta in cui aveva fatto l’amore con lui in una sola nottata, stringendolo, baciandolo e sentendolo tutto attorno a sé, in una morsa intossicante e stregonesca, ne ebbe la conferma un milione di volte.
Gli venne da piangere mentre lo guardava, suo come non mai, e ancor più bello di quanto lo fosse mai stato, nell’anima e nel corpo.
La mattina seguente, Folker aprì gli occhi all’alba.
Il corpo nudo, ancora lievemente umido dal sudore e dai baci dell’altro, sdraiato sul letto sfatto e rivolto verso l’alto, con le coperte intrecciate alle gambe e il viso verso il soffitto.
Quella stanza era impregnata del loro odore, dell’odore della loro unione, del loro peccato, dei loro umori, della loro adolescenza e giovinezza perduta.
Gli occhi ancora persi, esattamente come la sera prima, vagarono sul soffitto, immaginando che aspetto avesse il cielo sopra di esso.
Sentì un frusciare di coperte accanto a lui, una mano avvolta al suo addome, che lo stringeva a sé in maniera dolcemente soffocante, nel sonno.
Ambrose si era addormentato così, artigliandolo a sé, circa un’ora prima.
Ma era come se riuscisse a sentirlo anche nel sonno, in una strana connessione spirituale: se Folker era sveglio, allora anche Ambrose sfuggiva alle braccia di Morfeo, per tornare da lui.
Il moro aprì lievemente le palpebre insonnolite e osservò il profilo del biondo.
- Stai bene? – gli domandò in un bisbiglio, continuando a bearsi della sua immagine illuminata dal sole, dei capelli sparsi sul cuscino, delle ciglia chiare, lunghe e umide, del suo profumo.
- Mi è venuta voglia di vedere il cielo – sussurrò Folker, in un fil di voce. Poi, dopo qualche secondo che parve infinito, voltò il viso verso Ambrose, il quale, come immaginava, lo stava fissando, incantato.
- Sei bellissimo – gli disse il moro.
Folker non rispose. Continuò a guardarlo negli occhi, senza sorridere, né mostrare qualsiasi altra emozione.
- Sei bellissimo – ripetè il moro puntando un gomito sul cuscino, e alzando la testa, per guardarlo dall’alto. – Bellissimo … - disse ancora, iniziando a coccolare la sua pelle, a baciargli dolcemente la mandibola, poi il collo candido, poi scendendo giù verso le clavicole sporgenti, verso il petto sinuoso e lievemente delineato nella muscolatura, poi tornando verso l’alto.
Si staccò e notò gli occhi verdi del biondo ancora fissi sul soffitto, liquidi e lucidi; i quali si spostarono su di lui non appena entrò nel suo campo visivo.
Gli accarezzò le ciocche di capelli chiari sparse sul cuscino, poi si abbassò su di lui fino a far sfiorare i loro nasi e raggiunse il punto che avrebbe voluto raggiungere sempre, fin da quando aveva aperto gli occhi.
Le labbra di Folker si schiusero prontamente non appena quelle di Ambrose le sfiorarono, aprendosi per lui, ricambiando il bacio soffice e bagnato, pregno di lingue, di sospiri e di ardore.
- È mattina… - sibilò Folker, tra le labbra di Ambrose, poggiandogli una mano sulla guancia, come avrebbe fatto una madre premurosa; mentre il moro era sempre più perso in lui, nei suoi occhi, le mani seppellite nel suo corpo, che già correvano verso curve, solchi e buchi che promettevano meraviglie, non potendone fare meno.
Sentiva che non avrebbe mai più potuto farne a meno.
Ambrose lo baciò ancora, affondando in profondità nella sua bocca con la lingua possessiva. - Ancora un po’… rimani solo ancora un po’ – gli sussurrò disperato, come in una preghiera.
E Folker glielo concesse. Si lasciò prendere ancora, contro quel letto, contro di lui, in ogni modo possibile, fino a quando il sole non fu alto in cielo.
 
“Cara Judith,
vi prego di perdonarmi.
Ho saputo cosa è accaduto questa mattina a padre Cliamon e ne sono molto dispiaciuto.
Malgrado questo, la nostra corrispondenza epistolare non può continuare.
So che è una scelta improvvisa, in quanto ci siamo scritti molte lettere nel corso di questi giorni.
Mi rendo conto che le mie parole possano sembrarvi strane, ma non è mia intenzione ferirvi.
La mia mente, Judith, non sta bene. Non è stabile, non è sana.
Vivo costantemente nella paura di vedere cose che non vorrei vedere, di udire cose che non dovrei e vorrei udire.
Non riesco più a capire cosa è reale, e cosa non lo è.
L’artificio strutturato dalla mia mente, dai miei traumi, forse, mi sta perseguitando, e non so più come uscirne.
Non… riesco più a vedere niente.
Non nel senso letterale nel termine, ma in quello metafisico.
Non provo, non vedo, non sento, non mi sento più in grado di comunicare.
Solo rinchiudermi nella mia fucina o nella galleria riesce a placarmi.
Mi sento spezzato. In un modo che non riesco ancora a comprendere.
Ciò mi spaventa, in quanto non sono più in me, non sono più io.
Non voglio che vi angustiate per me, non è questa la mia intenzione dicendovi ciò.
Vorrei solo essere sincero con voi, e farvi capire che non è colpa vostra, se non voglio più scrivervi e rispondere alle vostre lettere.
Anzi, tutt’altro: siete stata un faro, per me, in questi giorni.
Sono certo che accoglierete la mia decisione con tranquillità e accettazione.
Presto, quando avrò terminato di leggere il libro, ve lo farò riavere.
Per quanto concerne padre Craig, avete ragione, so che tipo di uomo è e che non farebbe mai nulla per ferire qualcuno.
Padre Craig è una di quelle rare anime che sarebbero disposte a farsi torturare, a varcare le porte dell’Inferno a testa alta, se ciò servisse a salvare una persona a cui tiene.
Per quanto il mio orgoglio mi sia nemico in ciò, devo ammettere che sono io ad aver sbagliato.
Gli ho riversato addosso dell’odio ingiustificato.
Egli non ha fatto nulla per ferirmi.
La colpa del nostro litigio è mia.
Ma credo sia meglio anche per lui, starmi lontano.
Non sarebbe in grado di aiutarmi, come non lo è Quaglia, nessuno ne sarebbe in grado.
Finirei per trascinarlo nel mio vortice con me, se fosse ancora qui.
Starà bene con voi, Judith.
Forse un giorno ci incontreremo ancora, cara Judith.
Lo spero.
E quando accadrà, voglio essere pronto, voglio essere in me.
Per ora, questo è un addio.
                                                                                                         Vostro, Blake”
 
 
 
 
 

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Capitolo 52
*** Beltane ***


Beltane
 
- “Oggi è la ricorrenza della Festa di Beltane. La festa di Primavera.
I monaci ce ne hanno parlato come di una festa meravigliosa, senza eguali, alla quale possono prendere parte solo i servi e le serve del Diavolo nubili o celibi, ossia che non hanno ancora trovato un compagno o una compagna col quale trascorrere il resto della vita, che non sono sposati con nessuno, né promessi.
I monaci non possono partecipare, neanche se sono servi del Diavolo.
Non possono perché i monaci hanno fatto voto di castità e non possono prendere moglie.
Non mi hanno spiegato cosa voglia dire ‘castità’, ma credo di averlo capito.
Credo di aver capito che, giacendo con noi, con me, i monaci stanno infrangendo il loro voto di castità.
Ma la colpa è solo loro.
Saranno loro a vedersela col loro dio quando sarà il momento.
D’altronde, noi non abbiamo un dio, non abbiamo un padre, pronto a giudicarci.
Noi siamo gli dèi e i giudici di noi stessi.
Ad ogni modo, credo che i monaci stiano vivendo male la consapevolezza di non poter prendere parte alla Festa di Beltane.
Da come dicono, è una festa piena di vita, di energia, di calore, ma soprattutto di perdizione e di dissolutezza.
Alla Festa di Beltane ogni uomo e donna giacciono con chiunque incontrino sulla loro via, con chiunque preferiscano.
Giacciono tutti insieme, in gruppo, oppure da soli, in due, tre, in quanti vogliono, donne giacciono con donne e uomini giacciono con uomini, se lo desiderano.
Tutto è concesso.
Ci hanno detto che nell’antichità, quando gli uomini non servivano ancora né il Creatore, né il Diavolo, bensì altri dèi sconosciuti, le persone festeggiavano Beltane spogliandosi nude e ballando senza vestiti intorno al fuoco, sotto l’effetto di sieri, di pozioni, di elisir, che facevano loro perdere tutte le inibizioni e la ragione. Tutto ciò per favorire la fertilità, la fertilità portata dall’arrivo della Primavera.
È più una festa simbolica, in quanto i monaci dicono che, se i servi del Diavolo smettessero di continuare a festeggiare Beltane, il Creatore e il Diavolo non smetterebbero di rendere fertili i raccolti e i ventri delle donne. L’importante è continuare a pregarli e a servirli.
Eppure, i servi del Diavolo continuano a festeggiare Beltane, questa celebrazione che si portano dietro sin dall’epoca dei pagani. Da loro hanno ripreso tutto: l’uso degli elisir, degli incantesimi, gli atti sessuali nella forma più libera e priva di limitazioni. Però, al contrario dei pagani, rimangono vestiti. Almeno all’inizio.
I servi del Diavolo amano questi tipi di celebrazioni che sfociano nella perdizione e non se ne privano mai, da come dicono i monaci.
Per i servi del Creatore è peccato. Per i servi del Diavolo no.
Per coloro che non sono sentimentalmente impegnati è diventato un obbligo, parteciparvi.
Si dice che a Beltane, tre generazioni fa, sia accaduto qualcosa.
Lo si tramanda, ma nessuno vuole parlarne.
È accaduto qualcosa a qualcuno dei Primi tre.
I Primi tre bambini rinchiusi nelle cripte, come noi, da Allister Chaim, il santo e il salvatore.
Tutti i monaci e tutti noi ‘bambini senza dio’ conosciamo i nomi dei Primi tre. Tutti i monaci sanno la loro storia. Ma nessuno sa nel dettaglio che cosa è successo quel giorno, il giorno della Festa di Beltane, più di cento anni fa.
Ma oggi, per chiunque lo voglia e cerchi abbastanza, si dice che durante la festa di Beltane il fantasma della Seconda dei Primi tre, faccia la sua apparizione. E riveli dove trovare delle risposte.” – Heloisa si bloccò, poi passò oltre, voltando pagina:
- “Trecento anni fa, i Primi tre sono stati rinchiusi dentro la prima cripta, dal primo monaco che si è servito dei loro corpi e ha deciso di dare inizio a tutto questo, privandoli di una vita ed esigendo per sé tutto ciò che non avrebbe mai potuto avere: Allister Chaim.
Il nome della Prima era Erin, anche detta Giada.
Il nome della Seconda era Nellie, anche detta Tormalina.
Il nome del Terzo era Noam, anche detto Rubino.
Da come si dice, la testimonianza più preziosa del loro vissuto è un libro scritto da Erin.
Ma nessuno sa più che fine ha fatto quel libro. Se ne è persa traccia. Qualcuno dice che Allister Chaim lo abbia bruciato. D’altronde, si narra che Erin sia sempre stata la sua preferita, e che il dolore per averla persa lo abbia cambiato per sempre.
Tuttavia, si dice che esiste anche un’altra testimonianza, che nessuno ha ancora ritrovato.
Una testimonianza lasciata dalla Seconda, da Nellie.
Loro tre non scrivevano sui muri come noi, però forse abbiamo ancora la possibilità di conoscerli, di sapere come hanno vissuto.
Oggi è la celebrazione della Feste di Beltane.
I monaci non fanno che parlarne da giorni, ogni volta che vengono a trovarci qui o che richiedono la nostra presenza nei loro letti.
I monaci dicono che è accaduto qualcosa alla Festa di Beltane di tre secoli fa, qualcosa a Nellie.
Dai loro racconti tramandati, sembra che Nellie, la più scontrosa e la più ribelle dei tre, quando aveva tre o quattro anni, non volesse in alcun modo farsi toccare, nemmeno farsi sfiorare dai monaci che volevano godere del suo giovanissimo corpo acerbo.
Erin aveva provato a mediare e a farla collaborare, per evitare che le facessero del male se avesse continuato a negarsi, ma non c’era stato nulla da fare.
Nellie aveva perseverato a non concedersi a nessuno, così, durante le celebrazioni della Festa di Beltane di quell’anno, giunti ad un punto di frustrazione e rabbia senza pari a causa di questa situazione, i monaci decisero di compiere un atto di violenza senza eguali.
Sembra che i monaci fecero assumere alla piccola Nellie alcune delle pozioni che usavano i servi del Diavolo per perdere la ragione durante la festa di Beltane, costringendola con la forza.
Poi, le bevvero anche loro e la portarono in una cripta isolata della cattedrale, in un luogo lontano da sua sorella Erin, per non farle sentire ciò che le facevano.
Quando Nellie tornò nella cripta che condivideva con Erin, quella notte, aveva i vestiti sporchi di sangue. Sangue che le usciva dalla sua piccola intimità violata orribilmente e sfregiata per sempre.
Fiumi di sangue continuarono a uscirle da là sotto, senza che Erin, disperata, potesse fare nulla per farla stare meglio o guarirla.
Però, Nellie, miracolosamente sopravvisse.
Ma la violenza che perpetuarono su di lei, per spezzare la sua volontà, una volontà di ferro anche all’età di tre anni, per piegare al loro volere il suo animo mascolino e sovversivo, rimase impresso su di lei, per sempre.
Così, mentre fuori dalla cripta, in mezzo al bosco, i servi del Diavolo festeggiavano spensieratamente la festa di Beltane, totalmente inconsapevoli; al contempo, in un buco nero sotto la cattedrale, una bambina piccola veniva seviziata e tormentata dai monaci.
Qualche anno dopo, quando imparò a scrivere, si dice che Nellie usò il proprio sangue mestruale per scrivere sulle proprie vesti cosa le accadde quel giorno durante la festa di Beltane, cosa ricordava di quel funesto giorno del suo terzo o quarto anno di età.
Ciò che le è accaduto, ciò che ha pensato e ha vissuto, è impresso su quelle vesti a sangue, chissà dove.
Dunque, non ci hanno lasciato solo il racconto di fantasia di Erin.
Ci hanno lasciato anche la testimonianza di Nellie.
Ma, di entrambe le cose, nessuno sa dove siano.
Tuttavia, sono decisa a trovare la veste di Nellie.
I bambini delle generazioni passate dicono che la veste di Nellie è nascosta da qualche parte, sepolta in una delle tante cripte che ci tengono prigionieri, ma che, negli anni, nessuno dei bambini è mai riuscito a trovarla.
L’hanno cercata tutti, ma nessuno sa dove sia.
Tuttavia, vi è la leggenda che, ogni anno, alla ricorrenza della festa di Beltane, in primavera, Nellie appaia in sogno o in forma di spettro a qualcuno, e che dia indicazioni per ritrovare la sua veste, testimonianza della tremenda violenza subìta.
Oggi si terrà la festa du Beltane. Spero che Nellie mi appaia in sogno e mi dica dove posso trovarla.
La sento molto vicina a me e vorrei tanto leggere cosa ha scritto.
Giuro che la troverò. La troverò, fosse l’ultima cosa che faccio. Poi, quando avrò letto cosa ha scritto, la seppellirò di nuovo, come lei avrebbe desiderato.” – Heloisa terminò la lettura, sotto gli occhi criptici di Imogene, la quale sedeva di fronte a lei, sul tappeto di pellicce.
La fioca luce dell’alba penetrava dalla finestra, filtrata dalla vegetazione fitta della palude che circondava la casa.
- Era Dominic? – domandò la sciamana.
- Il primo frammento che ho letto sì, è stato lui a scriverlo.
Il secondo appartiene ad una ragazzina dell’altra cripta che hai scoperto e visitato recentemente.
Sui muri di quest’altra cripta vi sono gli scritti dei ragazzini prigionieri della quinta o sesta generazione, per la maggior parte.
Il frammento che ho appena letto è stato scritto da una ragazzina che si chiamava Bjork. Forse apparteneva ad una delle ultime generazioni di bambini sciagurati – si bloccò, poi spostò gli occhi chiari e malinconici fuori dalla finestra, lasciandosi illuminare da quella fievole luce. - Oggi è la ricorrenza della Festa di Beltane. Le celebrazioni si terranno questa notte. Credi sia un caso che, proprio oggi, io abbia letto questi frammenti di Dominic e Bjork, che riportano la storia e la leggenda di Nellie, connessa alla Festa di Beltane? – domandò Heloisa, voltandosi a guardare sua cugina, il viso bellissimo pregno di una strana e disillusa speranza. – Voglio scoprire anche io qualcosa in più sui Primi tre, cugina. Il racconto di Nellie è andato perduto, ma… forse, forse, oggi c’è una speranza che io scopra dove si trovi la veste di Nellie: potrebbe essere che sia io quella a cui apparirà in sogno, oggi.
Potrebbe essere un segno divino…
Imogene schioccò le labbra, stanca, già sfinita da quella conversazione. – Non convincerti che ogni cosa sia un segno divino, cugina.
Quei bambini parlano della leggenda del fantasma di Nellie alla Festa di Beltane, ma tu non sai se lo spettro di quella ragazza sia mai apparso davvero in sogno a qualcuno.
Potrebbe essere una diceria, una strana speranza che si tramandavano i bambini delle cripte, per alleviare la noia e il dolore – rispose, più cinica di quanto volesse sembrare.
- Io voglio trovare quelle vesti, Imogene..
A ciò, Imogene posò lo sguardo sulla sagoma di suo nipote, che giaceva ancora spirante, in fin di vita, accanto a loro: la sua testolina bionda era poggiata sulle ginocchia di Heloisa, come sempre, la quale vegliava su di lui, ma senza fare davvero nulla per trovare una soluzione al suo male.
La sciamana era frustrata da quella intricata e delicata situazione.
- Abbiamo un problema più grave di ritrovare le vesti di una bambina violentata secoli fa, al momento - commentò posando lo sguardo su Ioan, facendo volgere anche lo sguardo malinconico di Heloisa su di lui. – Come hai intenzione di porre rimedio? Sono giorni che è in quello stato e che non sappiamo più cosa fare per farlo stare meglio. Potrebbe morire da un momento all’altro, lo sai?
Invece di preoccuparti di leggere i diari di Dominic, di Bjork, o di qualsiasi altra mocciosa o moccioso morti da secoli, dovresti cercare di combattere il tuo orgoglio e di autoconvincerti a chiedere aiuto all’altro tuo figlio.
Heloisa, in risposta, accarezzò i capelli sottilissimi di Ioan, accennando un sorriso avvilito. – Hai ragione. Non permetterò che muoia. Mi prenderò le mie responsabilità. Puoi contattare Blake.
Imogene non credette alle sue orecchie. – Dici sul serio..?
- Sì. Ma dovrai stare attenta, Imogene: non permetterò che tu vada a casa sua e che qualcuno ti veda. Facendo ciò, i monaci potrebbero sospettare qualcosa. Tu non avresti alcun motivo di recarti alla sua abitazione, alcun motivo che non riguardi direttamente me: non permetterò che Blake corra il minimo rischio – si raccomandò la donna.
- Se andassi da lui durante la notte e nessuno mi vedesse…
- Ho detto di no.
Imogene vi pensò su, cercando di farsi venire un’idea, per poi accorgersi che la soluzione era esattamente davanti ai suoi occhi. – La Festa di Beltane – disse.
Heloisa la guardò incuriosita.
- Potrei partecipare alla Festa di Beltane e avvicinarmi a lui lì.
Saranno tutti troppo impegnati a fottersi a vicenda, e annebbiati dagli effetti di intrugli magici infervoranti, nessuno mi noterebbe avvicinarlo, e anche se lo notassero, penserebbero che lo sto avvicinando per motivi che non hanno nulla a che vedere con te: d’altronde, è pur sempre la Festa di Beltane.
Heloisa annuì, riflettendovi a sua volta. – Potresti fingere di sedurlo. Lui capirebbe e si presterebbe al tuo gioco, in quanto sa che tu mi stai nascondendo, e che dovete essere cauti se volete riferirvi qualcosa.
- Tuttavia… sei sicura che Blake parteciperà alla Festa di Beltane?
Da quel poco che ho potuto notare non mi sembra un ragazzo che ama trovarsi in mezzo ad una folla, o a cui piace prendere parte a celebrazioni come questa – espresse i suoi dubbi Imogene.
- Deve parteciparvi per forza, che lui lo voglia o no – la rassicurò Heloisa. – Da qualche anno hanno emanato una legge che obbliga tutti coloro che non sono legati sentimentalmente a qualcuno a partecipare alla Festa di Beltane.
- Per quale motivo?
- Per favorire la fertilità. E per far trovare un marito o una moglie più in fretta ai giovani del villaggio che ancora non sono stati promessi a nessuno – spiegò Heloisa.
- Potrebbe anche mentire e affermare che è legato sentimentalmente a qualcuno, se non vuole andarci. Potrebbe farlo qualsiasi persona.
- Non lo farà: in preparazione alla Festa di Beltane, qualche mese fa ho già fatto preparare degli abiti per lui dalla sarta, la quale sa già che dovrà recarsi da lui quest’oggi, per portargli i vestiti e per ricordargli quali sono i suoi doveri, e quanto sia importante che lui partecipi alla Festa, se non vuole attirare le antipatie dei monaci più di quanto abbia già fatto in diciassette anni di vita. È da quando ha quattrodici anni che si presta e sottomette a questo rito, sotto volere mio e di Rolland, e lo farà anche quest’anno. Sa quali sono i suoi doveri – affermò con convinzione Heloisa.
- Ha partecipato alla Festa di Beltane già tre volte e non ha ancora trovato una compagna?
- L’ha trovata: il primo anno è stata Beitris. Il secondo anno e il terzo anno non so cosa sia accaduto, ma so che Beitris non è stata l’unica. Una madre non dovrebbe informarsi su questo genere di cose, a meno che la compagna di una notte non si trasformi in una possibile promessa. Ma Blake non aveva intenzione di impegnarsi con nessuna delle fanciulle con cui ha giaciuto alle Feste di Beltane, nemmeno con Beitris – spiegò Heloisa, scostando lo sguardo da Ioan per tornare a guardare sua cugina. – Promettimi che starai attenta, gli dirai tutto ciò che dovrai dirgli e ti allontanerai da lui.
- Lo prometto.
- Cosa dirai a Judith?
- Judith non deve saperlo.
D’altronde, non andrò a Beltane per tradirla, dunque non c’è motivo che lo sappia – liquidò l’argomento Imogene, rialzandosi in piedi, pronta a tornare al villaggio e ad iniziare la giornata.
- Imogene – la richiamò Heloisa con voce implorante, guardandola dal basso. – Continua a mandarmi gli scritti sulle pareti della nuova cripta, te ne prego, in modo che io possa continuare a leggerli.
- Lo farò. A domani, cugina.
 
Judith si svegliò con il miagolio della gatta a rimbombarle nelle orecchie.
Era cresciuta un po’ nel corso di quelle settimane, ed era sempre più energica e intelligente.
La ragazza fece cessare quel massaggio rasposo della lingua della micetta sulla sua guancia, alzò la testa dal cuscino e scese dal letto per andarle a prendere da mangiare.
Le fitte al ventre stavano diventando sempre più insopportabili, soprattutto di prima mattina.
Avrebbe dovuto chiedere altri filtri per il dolore a Imogene e al medico.
- Buona Festa di Beltane, Nellie – le disse Judith accarezzandole la testolina pelosa, mentre questa si nutriva.
Dopo un’ora, Judith era già lavata e vestita di tutto punto, pronta a recarsi nella sala della colazione.
Non appena mise piede nel luogo, intravide subito la figura di Imogene, impegnata a smangiucchiare qualcosa della tavola imbandita e a preparare il piatto anche per lei.
Judith sorrise, sentendo un groppo di senso di colpa risalirle dallo stomaco, di fronte a tanta premura.
Imogene si accorse di lei e le sorrise a distanza. – Se non fossi scesa entro dieci minuti, ti avrei portato la colazione a letto – le disse.
Solo in quel momento Judith si ricordò che quella era stata l’ennesima notte in cui Imogene non era tornata alla cattedrale e non aveva dormito con lei. Poteva essere stata ovunque e con chiunque.
Tuttavia, scoprì che ciò non le interessava come avrebbe dovuto, perciò non le chiese spiegazioni a riguardo. - Ho dovuto dare da mangiare a Nellie – le rispose semplicemente, avvicinandosi a lei.
Imogene le diede un dolce bacio a fior di labbra e le avvicinò la sedia, per farla sedere. – Buona Festa di Beltane, bambina – le sussurrò poggiandole una mano su una guancia lattea.
- Buona Festa di Beltane anche a te, Imogene – le rispose Judith ricambiando il sorriso e sedendosi.
Stava quasi per chiederle cosa avessero preparato i cuochi per colazione quella mattina, ma padre Craig fece il suo ingresso nella sala a sua volta e attirò la sua attenzione.
- Che cos’è la Festa di Beltane? – domandò il giovane prete, che a quanto pare le aveva sentite, prendendo posto di fronte a Judith e rivolgendole un dolce sorriso.
Judith osservò l’invitante frittata di spezie con cui Imogene le aveva riempito il piatto, accompagnata da un reggimento di verdure arrostite, mentre ascoltava la sua amante rispondere a padre Craig:
- Non ne avete mai sentito parlare, prete? Si tratta di una festa pagana, che noi servi del Diavolo abbiamo assorbito e ripreso dalle popolazioni più antiche.
Imogene si impegnò a fornire a padre Craig una moltitudine di dettagli su cosa si facesse alla Festa di Beltane, e a cosa servisse.
Alla fine di tale spiegazione, padre Craig si ritrovò con le gote rosse di vergogna, e gli occhi fissi sulle uova con patate nel suo piatto, le quali sembravano improvvisamente interessanti.
- È un peccato che voi non possiate parteciparvi, padre – lo stuzzicò Imogene addentando un generoso boccone della sua patata al cartoccio.
- Chi dice che non può? – commentò Judith senza malizia.
- Cosa intendete? – le domandò confuso padre Craig.
- Beh, in verità, in passato alcuni monaci del Creatore, per puro interesse divulgativo e curiosità di apprendere le usanze dei servi del Diavolo, si sono recati alla Festa di Beltane, osservando, ma senza prenderne parte – spiegò Judith, per poi bere un sorso di spremuta.
Imogene rise contrariata, senza dire nulla.
Padre Craig vi pensò su.
Tutto ciò che era accaduto con la morte di padre Cliamon l’aveva scosso profondamente e, inevitabilmente, l’aveva trascinato in un vortice di sensi di colpa.
Da due giorni interi pensava a ciò che era accaduto e si dannava, in quanto avrebbe potuto evitarlo, se solo avesse parlato in tempo.
Judith sembrò leggere i suoi pensieri, e condividerli in parte.
In realtà, colei che soffriva maggiormente per l’accaduto era proprio lei: non solo aveva visto tutta la scena e la morte violenta del “falso Cliamon” dinnanzi ai suoi occhi, ma aveva anche scoperto di essere stata imbrogliata, e che l’uomo che l’aveva cresciuta e amata, non solo era un verme torbido e perverso, ma era persino morto, da un giorno all’altro.
Padre Craig le rivolse uno sguardo di sincera solidarietà e preoccupazione. – Come state oggi, mia cara? – le domandò.
A ciò, Judith lo guardò e gli sorrise rassicurante. – Meglio, padre. Grazie.
Il silenzio tornò nella stanza, e Judith non perse tempo a spezzarlo. – Perché non andate anche voi alla Festa di Beltane questa notte? Per puro interesse divulgativo – disse Judith al giovane prete, facendogli sgranare gli occhi.
- Non credo sia una buona idea, Judith… - commentò questi.
- Non è affatto una buona idea – lo sostenne Imogene, lievemente agitata.
- Perché no? Potrebbe essere interessante. L’importante, è che non assumiate nessuno degli intrugli e delle pozioni che berranno tutti gli altri, in modo che potrete restare vigile e attento, senza perdere il senno – disse Judith con semplicità. – Io e Imogene non andremo, in quanto io e lei siamo sentimentalmente legate l’una all’altra. Tuttavia, potreste andare da solo, e magari incontrare anche qualcuno che conoscete.
Imogene fulminò con lo sguardo il giovane prete, osservando attentamente la sua reazione a tale proposta.
Se quel prete l’avesse intravista alla Festa di Beltane quella notte, lo avrebbe sicuramente detto a Judith il giorno seguente.
Tuttavia, non poteva impedirgli di andarci, se lui avesse voluto.
Semplicemente, avrebbe dovuto essere ancora più cauta, e cercare di non farsi scorgere da lui. Un conto era non farsi notare da uomini e donne totalmente annebbiati e in estasi, un altro conto era sfuggire all’attenzione di un uomo vigile e pienamente nelle sue facoltà razionali.
L’unica alternativa che aveva, era far assumere a padre Craig gli stessi intrugli che avrebbero assunto tutti, per renderlo meno lucido, incapace di riconoscerla.
Vide palesemente il volto di padre Craig cambiare espressione, attraversare un tripudio di emozioni diverse: che volesse andare alla Festa di Beltane per incontrare qualcuno in particolare…?
In Imogene nacque tal dubbio.
Intanto, padre Craig rifletté sul fatto che, se anche avesse scorto Blake alla Festa di Beltane, nonostante sperasse con tutto il cuore di non trovarlo ad una celebrazione simile, non avrebbe saputo minimamente che cosa dirgli.
Trovarlo lì avrebbe significato trovarlo in compagnia di qualcuno.
E se anche, per puro miracolo divino, lo avesse incontrato da solo, e avesse avuto l’opportunità di avvicinarlo, non sapeva minimamente come approcciarlo, cosa dirgli, come comportarsi.
Era Blake che avrebbe dovuto dirgli qualcosa, che avrebbe dovuto fare il primo passo e parlargli del loro litigio, in quanto era stato lui a cacciarlo di casa come fosse un cane.
Seppur padre Craig si fosse comportato male, sapeva di non meritare tale trattamento da lui, specialmente sapeva di non meritarsi di essere cacciato di casa.
Tuttavia, forse era davvero l’occasione giusta, l’occasione che gli avrebbe permesso di parlargli, di confrontarsi con lui sull’accaduto, senza costringerlo a recarsi a casa sua.
Sprecarla, probabilmente, sarebbe stato un gesto da sciocchi.
 
Fu così che, quella sera stessa, si ritrovò nel cuore del bosco, completamente circondato da giovani servi del Diavolo, esattamente come quella notte di mesi prima, alla celebrazione del matrimonio.
Ognuno di loro indossava abiti caratteristici, uomini e donne: si trattava di un tipo di abbigliamento leggero, arioso, che metteva in evidenza le bellissime forme sotto i vestiti, ma non volgare, né troppo elegante.
Come quella sera, si sentì ancora una volta inadeguato, seppur consapevole.
Nessuno di loro lo degnava di uno sguardo: uno straniero come lui non attirava certo l’attenzione di occhi concupiscenti alla Festa di Beltane.
Tuttavia, alcuni sguardi incuriositi e stupiti si posarono su di lui.
Alcuni fanciulli e fanciulle accesero un focolare in mezzo a loro, che divenne grande, sempre più grande, di minuto in minuto.
Dopo di che, alcuni stregoni in mezzo a loro pronunciarono delle parole incantate.
E tutti si diedero alla pazza gioia.
Iniziarono a ballare come presi da un’energia e una vitalità spaventosamente traboccante, felici, ridenti, ma ancora lucidi.
I vestiti leggeri si muovevano sui loro invitanti corpi in una maniera a dir poco assuefacente e stuzzicante.
Alcune meravigliose donne lo invitarono a ballare con loro, ma lui rifiutò gentilmente.
Continuò ad osservarli ballare tutti insieme intorno all’enorme focolare, cantando e ridendo come angeli e diavoli tentatori, come figli delle fiamme stesse, ma non trovò lui.
Lo cercò con lo sguardo, dall’inizio, ma non lo individuò.
Come sospettava, c’era la probabilità che, come faceva pressocché sempre, Blake non avesse seguito le leggi di Bliaint, e avesse deciso di non partecipare a quella celebrazione, seppur celibe e libero sentimentalmente.
Il pensiero lo rincuorò, in parte.
Specialmente nel momento in cui tutti quanti iniziarono a cantare più forte e ad assumere strane sostanze: fumi dai colori strani uscivano dalle loro bocche e dai loro nasi mentre facevano ricadere la testa all’indietro, come in estasi, e schiudevano le labbra, mostrando i denti bianchi; liquidi, miscele dalla consistenza indefinibile entravano dentro di loro, venivano annusate e trangugiate, senza il minimo tentennamento, in una danza sempre più spinta e febbricitante, irrimediabilmente attraente.
Una danza dalla bellezza pericolosa e spaventosa.
Era questo ciò che aveva pensato padre Craig la prima volta che era giunto in quel villaggio fuori dal mondo, e che oramai era diventato il centro pulsante del suo, di mondo.
Non gli era mai capitato di pensare che la bellezza potesse essere spaventosa prima di quel momento, prima di aver posato gli occhi sui servi del Diavolo.
Una bellezza che spingeva a desiderare di non vederne più, che esortava a desiderare di posare gli occhi altrove, in tutto ciò che non fosse l’oggetto che possedeva tale bellezza, in quanto terrorizzava, per quanto inumana, da lasciare senza fiato.
Quei corpi, nella totale inconsapevolezza dei fumi e degli elisir assunti a fiumi, si facevano toccare e spogliare, senza sapere a chi appartenessero tali mani.
Si facevano stringere, assaporare, mordere, possedere, graffiare, divorare.
E lo facevano a loro volta ad altri.
Padre Craig si ritrovò a desiderare di non vederne più, di non vedere più nulla di quel conturbante e seducente spettacolo.
Guardare due persone fare l’amore in quel modo, o meglio, un intero gruppo di persone possedersi e trangugiarsi a vicenda nella maniera più passionale e vorace possibile, era la cosa più immorale e peccaminosa che potesse mai arrivare a fare.
Era ancora lucido, era ancora in sé.
Poteva ancora decidere di andarsene.
Fece per voltarsi e prendere la strada di ritorno al villaggio, ma, all’improvviso, una donna gli si parò davanti e gli soffiò in faccia una polvere, pronunciando una formula in una lingua sconosciuta.
Non riuscì a vedere in volto la donna e non poté far nulla per evitarlo.
Fu allora che i suoi sensi iniziarono a venir meno, o meglio ad intensificarsi all’inverosimile.
Era tutto improvvisamente potenziato: le luci violente del focolare che li illuminava, il profumo intenso della donna, i bellissimi occhi argentei di lei, lo sguardo giudicante della luna sopra di loro.
La donna non gli disse niente. Semplicemente lo guardò, lo osservò lasciva e incuriosita, sapendo di averlo in pugno, cosciente che non avrebbe dovuto fare nulla per sedurlo, poiché era già suo.
Padre Craig la osservò perso e non provò neanche a resisterle.
Lei gli posò una mano sul petto e si sporse verso di lui, lasciandogli un lungo bacio sulle labbra.
Un bacio che, dopo un iniziale tentennamento, ricambiò, abbandonandosi al suo invitante sapore e tocco.
Cosa stava facendo?
Non ebbe neanche il tempo di domandarselo, poiché le mani della donna erano già sotto i suoi vestiti, togliendogli il fiato, mentre le sue erano sui fianchi di lei.
Poi si aggiunsero altre donne. Fu così che divenne tutto oscuro. Un tripudio di sensazioni, di piaceri intensi come mai ne ebbe provati, di estasi, di dolore, di fame, di foga, di voglia, di sospiri, gambe intrecciate, sudore, calore, intrugli dal sapore estraneo, smania di qualsiasi cosa fosse la vita carnale di cui si era privato sino a quel momento.
Blake e Judith restarono impigliati nella sua mente annebbiata come due fantasmi evanescenti.
 
La folla era già in estasi e in preda alle allucinazioni, e Imogene si fece strada in essa con esperta agilità.
Conosceva la Festa di Beltane, vi aveva partecipato molte volte e sapeva come muoversi, cosa aspettarsi, e come resistere alla tentazione di abbandonarsi a quei fumi celestiali e alle gioie che promettevano quei meravigliosi corpi che rilasciavano lussuria da ogni poro.
Non era arduo per una come lei, restare concentrata nel suo obiettivo.
Alcuni fanciulli e fanciulle provarono a trascinarla in mezzo alle loro danze orgiastiche, ma lei se li scrollò di dosso garbatamente.
Doveva trovare il ragazzo, prima che la malattia di Ioan peggiorasse e giungesse ad un punto di non ritorno, portando sua cugina alla pazzia.
In quel momento, Blake, con i suoi metodi proibiti, era la loro unica speranza.
 Sperò che Heloisa avesse ragione e che lo avrebbe trovato lì; ma le sue speranze andarono a vanificarsi dopo quasi un’ora di ricerche del ragazzo, inutili.
Non sembrava esserci traccia di lui. Come temeva, molto probabilmente non era lì.
Tuttavia, fortunatamente, era riuscita ad intravedere almeno padre Craig, senza che lui la scorgesse a sua volta; così aveva fatto in modo che una delle donne presenti gli facesse inspirare gli stessi fumi che avevano assunto tutti, drogandolo.
Aveva optato per una donna e non per un uomo, nonostante non sapesse se padre Craig fosse più attratto dalle donne o dagli uomini; in ogni caso, sapeva per certo avesse un debole per Judith, perciò con le donne sarebbe andata sul sicuro, per lo meno.
Dunque, ora poteva muoversi liberamente, senza temere di essere scorta insieme a Blake da occhi indiscreti, o lucidi abbastanza da porsi delle domande a riguardo.
Continuò a cercare, senza arrendersi, fin quando una mano non si strinse alla sua spalla con decisione, facendola voltare verso la sua proprietaria: Myriam, il suo primo e folle amore, la fissava con degli occhi indefinibili, dolorosi da guardare per quanto intensi.
- Sono ore che stai vagando senza meta qui, senza avvicinare o lasciarti avvicinare da nessuno: chi stai cercando?
Ore? Non credeva di trovarsi lì da ore, bensì da un’ora massimo.
Forse aveva risentito dei fumi anche lei stessa.
Imogene ricambiò lo sguardo con circospezione, studiandola. – Cosa ci fai qui? Sei venuta per godere di corpi molto più giovani di te, nonostante tu abbia partecipato sin troppe volte a Beltane?
Myriam avrebbe potuto farle la stessa domanda, dato che Imogene era persino più matura di lei.
Ma la strega non lo fece, restò ancora in silenzio, guardandola a sua volta, in un gioco di sguardi e di seduzione che fu in grado di disarmarla.
Erano anni che Myriam non la guardava così, anni che non la guardava con occhi non iniettati di odio, rabbia e rancore.
- Te lo domando di nuovo: chi stai cercando con tanta attenzione, Imogene? – le domandò con voce vellutata, avvicinandosele.
Non c’era da fidarsi di Myriam.
Poteva essere fatalmente velenosa quanto accattivante.
- Devi per forza star cercando qualcuno, dato che hai rifiutato i tentativi di approccio di decine di ragazze e ragazzi. Dimmi, tu sai dove si nasconde quell’arpia di Heloisa, non è vero?
Imogene rimase in silenzio, avendo immaginato già in partenza che Myriam volesse arrivare a quell’argomento.
- Sei davvero così disperata e desiderosa di vendetta, Myriam? Così ossessionata da quella donna, da arrivare al punto di supplicare me di dirti dov’è? – la schernì.
- L’unica che può nasconderla sei tu. Spero, almeno, che tu abbia usato un pizzico di furbizia e creatività: so benissimo dove si trova la tua casa nella palude. Ci ho vissuto. Ricordi?
Ci ho vissuto prima che tu stroncassi la vita di tua figlia con le tue stesse mani, perché non sei in grado di stare al mondo, Imogene.
La sciamana completò mentalmente quella frase da sola.
- Se sei così certa che mia cugina si trovi lì… per quale motivo non ci sei già andata? Per quale motivo non ti sei recata lì a porre fine alla sua vita a sangue freddo? – la mise alla prova.
Myriam tentennò, esattamente come si aspettava, come si aspettava ogni volta che toccava il suo punto dolente. Il suo punto debole.
- Non l’hai ancora uccisa… per lui. Se non fosse sua madre le avresti già tagliato la gola.
Ma è proprio perché è sua madre che vuoi tagliarle la gola.
Non lo trovi ironico? – Imogene sapeva di star camminando su un filo spinato, ma non riuscì a trattenersi, e osservare l’espressione spiazzata e fremente di Myriam fu il premio più grande a tanta audacia.
Ma Myriam impiegò pochi secondi a riprendersi. – La tua illustre amante… cosa direbbe se sapesse che ti trovi qui?
Stavolta fu Imogene a impietrire.
No, non avrebbe osato…
- So che la vostra relazione è molto libertina… tuttavia, mi è sembrato di notare che nelle ultime settimane il vostro rapporto si sia intensificato… per lo meno da parte tua. Ti vedo molto presa da lei, Imogene.
- Non osare nominare Judith. Che tu sia dannata, Myriam.
- Il suo cuore non è tuo, Imogene, e mai lo sarà. Dentro di te, sai che è così.
Non ti sembra che, dal funerale di Rolland, lei si sia allontanata sempre di più da te?
Ti sta sfuggendo dalle dita, e tu stai continuando a negarlo a te stessa.
Fa male, non è vero? È la prima volta per te… non essere ricambiata da qualcuno.
Dunque… perché non ti lasci andare?
Ci sono decine e decine di fanciulle pronte a soddisfarti a qualche metro da te.
Puoi avere chi desideri, Imogene.
Judith è desiderata da chiunque, a ragione, certo, ma è rimpiazzabile.
- Non osare parlare così di lei! – esclamò sopraffatta dalla furia, afferrandola per la tunica leggera che indossava e portandosela vicina. – Nominala ancora e ti ritroverai senza lingua, Myriam, o peggio… potresti perdere il favore dei monaci che ti sei guadagnata con tanto sforzo. Non sei una monaca del Diavolo, ora? Non dovresti essere qui, dato che hai già fatto voto di castità. Che cosa accadrebbe se anche solo uno dei presenti qui, fosse abbastanza lucido da riconoscerti e da rivelare ai monaci che madre Myriam ha partecipato alla Festa di Beltane?? Il giochetto segreto che hai fatto con padre Cliamon e con quel ragazzino non ti è bastato? Vuoi mettere a rischio ulteriormente la tua posizione? – la minacciò.
Tuttavia, Myriam non mosse un muscolo e non ebbe alcuna reazione.
Continuò a guardarla da vicinissimo, penetrandole gli occhi di miele con i suoi scurissimi, spavalda e insolente, cosciente di se stessa più di quanto lo fosse Imogene.
Nei suoi occhi vi era dipinta solo un’affermazione:
Hai tolto la vita a tua figlia e non importa quanto tempo passerà, io ti ucciderò per questo.
Tuttavia, entrambe sapevano che nessuna delle due avrebbe alzato un’arma contro l’altra in quel momento.
Non era il luogo né il momento giusto per farsi del male.
Inoltre, Myriam sapeva di non essere potente quanto Imogene, e almeno finché non fosse stata del tutto certa di poter avere la meglio su di lei, non le avrebbe mosso guerra.
Inoltre… di mezzo vi era anche l’incantesimo di protezione del villaggio, che non poteva essere in alcun modo infranto al momento, con la minaccia di un’invasione imminente.
Non era cosa da poco, e Myriam, così come Ephram, ne erano sin troppo coscienti.
Dunque, non potevano toccarsi.
Eppure… l’attrazione immane e insaziabile che vi era sempre stata tra loro, ricordò alle due che vi erano altri modi in cui avrebbero potuto toccarsi, al momento.
Erano trascorsi anni, eppure quello che vi era stato tra loro non era svanito.
Nemmeno l’odio e la furia reciproci avrebbero potuto scalfire o vanificare ciò che avevano vissuto in quella casa nella palude.
Se ne accorsero in quel momento, mentre si trovavano talmente vicine, che i loro respiri avrebbero potuto mischiarsi tra loro.
Imogene non era giunta lì per quello, eppure era totalmente assuefatta dalla presenza di Myriam, così come quest’ultima lo era dalla presenza di Imogene.
Eppure, entrambe erano molto più lucide di tutti coloro che le circondavano.
Fu così che accadde, e si lasciarono andare l’una all’altra, senza poter fare nulla per impedirlo.
Imogene le circondò i fianchi con le braccia, stringendola smaniosamente a sé, mentre Myriam le allacciò le gambe al busto, prendendo ad invaderle la bocca con ardore, come non faceva da troppo tempo.
Sospirarono e gemettero come due ragazzine, l’una tra le braccia dell’altra, come se quello fosse l’unico luogo in cui avrebbero mai potuto raggiungere il massimo grado di realizzazione e di pienezza carnale e spirituale.
Si possedettero decine e decine di volte quella notte, non avendone mai abbastanza, nonostante Judith non abbandonò mai la mente di Imogene.
Ma qualsiasi stralcio di senso di colpa della sciamana venne annebbiato dall’immenso piacere che le fece provare il suo primo amore, e da un invasivo e insinuante pensiero che le stava intossicando la mente: lei non sarà mai davvero mia. Il suo cuore appartiene a qualcun altro.
Dopo ore e ore di piacere ricevuto e donato, al pari di prezioso nettare divino, Imogene aprì gli occhi e trovò una sagoma dinnanzi a sé.
Comprese che non fosse realmente presente lì, materialmente, in quanto passava attraverso i corpi come uno spettro.
Era una fanciulla. I suoi capelli erano scuri e corti, il suo viso tondo e armonioso, dalla bellezza particolare e androgina, gli occhi grandi e scuri.
Indossava un vestito grigio, macchiato di sangue, da capo a piedi.
La ragazza le si avvicinò con la sua essenza eterea e pose le mani sul proprio inguine, da sopra il vestito.
Fu in quel momento che Imogene si accorse che l’abito strappato della fanciulla era macchiato di sangue in particolare all’altezza del suo punto più intimo, tra le gambe.
“Vi è la leggenda che, ogni anno, alla ricorrenza della festa di Beltane, in primavera, Nellie appaia in sogno o in forma di spettro a qualcuno, e che dia indicazioni per ritrovare la sua veste, testimonianza della tremenda violenza subìta”
Tali parole tornarono alla mente della sciamana, la quale osservò lo spettro dinnanzi a sé incantata e sconcertata insieme.
- Nellie… oh Nellie .. - sussurrò labilmente.
La fanciulla le rivolse un lievissimo sorriso e le fece segno di fare silenzio, mentre la mente annebbiata di Imogene partoriva immagini di ogni sorta per lei.
Nellie le sussurrò qualcosa all’orecchio con la sua voce flebile, inumana.
Coordinate, indicazioni.
Imogene immagazzinò quelle informazioni senza rendersene neanche conto, poi la vide svanire nel nulla, così come era apparsa.
Dopo ciò, si riscosse dal torpore e si guardò distrattamente intorno. La concretezza intorno a sé la invase con repentina violenza.
Fu in quel momento che lo vide, improvvisamente, l’oggetto della sua disperata ricerca, e i suoi sensi si acuirono: fece leva sui gomiti e si rialzò in piedi, lasciando Myriam dietro di sé, cercando di raggiungerlo.
- Blake! – provò a chiamarlo. Ma il ragazzo non si voltò verso di lei. Era ancora troppo distante… e i suoi occhi, il suo sguardo.. Imogene venne invasa da un brivido di freddo lungo la spina dorsale quando notò gli occhi del ragazzo. Erano completamente persi, lontano dal mondo, invasi da qualcosa che non era dovuto solamente ai fumi e agli intrugli, non poteva esserlo.
Lo chiamò ancora, cercando di raggiungerlo, e fu in quel momento che Blake si voltò verso di lei.
 
Il ragazzo si ritrovò in un luogo deserto, buio, con solo un albero nel mezzo di una nube oscura.
Davanti a lui si parò una figura alta e incappucciata, i capelli neri come la pece, la pelle bianca come la luna e un cappuccio a coprirgli gli occhi.
Lo scrutò, poco prima di percepire qualcosa di viscido strisciargli intorno alle caviglie.
Guardò in basso e adocchiò il serpente velenoso che si stava arrampicando lungo la propria gamba, senza tuttavia averne paura.
Rialzò lo sguardo e stavolta trovò dinnanzi a sé la figura di una donna.
Minuta, molto più bassa di lui, tuttavia affascinante, gli occhi simili a quelli di un’incantatrice, lunghi capelli ramati, uno sguardo consapevole, in cui sembrava contenuta tutta la conoscenza del mondo.
La donna alzò lo sguardo verso di lui. – Mi aveva promesso la conoscenza. E me l’ha donata.
- Chi? – le domandò Blake.
- Il tuo Signore. Quello che servi – gli rispose lei, osservando la desolazione intorno a loro. – Mi ha fatto tradire il mio, con l’inganno.
A quel punto, Blake comprese. – Non ti ha ingannata. Hai detto che ti ha dato quello che ti ha promesso.
Eva, colei conosciuta come la prima donna, si voltò di nuovo a guardarlo. – Sì. Ma non mi aveva detto quali sarebbero state le conseguenze di tale tradimento. Io non sapevo nulla, al tempo. Nulla.
A causa mia abbiamo iniziato ad invecchiare e a soffrire. La vita eterna ci è stata negata dal Creatore.
Tutto questo è accaduto perché mi sono lasciata tentare dalle promesse di un angelo caduto.
- Non è così – le rispose prontamente Blake, guardandosi intorno a sua volta. – Dove ci troviamo?
- Nel Giardino proibito. Dove si trova l’Albero del bene e del male.
Il luogo in cui il peccato di hybris più grave che potessi mai commettere, ha dato inizio alla storia dell’umanità – rispose lei, riattirando l’attenzione del ragazzo su di te.
Eva lo osservò ancora. – Conosci questo luogo, Blake?
Egli negò con la testa.
- Strano. Eppure, sei l’essere umano che pecca di più di hybris e tracotanza - rispose con naturalezza Eva.
- Per questo mi sei apparsa in sogno?
- Non è un sogno.
- Deve esserlo.
- Quanti sogni lucidi stai facendo ultimamente?
- Sono i fumi di Beltane.
Eva gli rivolse un sorriso quasi compassionevole. – Quante altre allucinazioni hai avuto prima di stanotte? Non ti serve partecipare alla Festa di Beltane per vedere i morti. Le sostanze che hai assunto stanotte hanno solo accentuato il tutto. Oppure, è opera di qualcun altro.
- Non credo a tutto ciò – le disse.
- Essere miscredente è un’altra implicazione di chi pecca tanto di hybris.
Io non sapevo a cosa credere, al tempo.
- Io so bene a cosa credere. Credo solo a quello che vedo.
- Dunque, anche io non esisto? Neanche l’albero del bene e del male è mai esistito?
L’umanità soffre e muore senza motivo?
Qual è lo scopo di tutto ciò? Ti sei mai interrogato su questo?
Vorresti sapere anche tu ciò che ho saputo io?
Vorresti venderti l’anima anche tu per ottenere la conoscenza assoluta, il potere di cambiare le cose? – lo mise all’angolo, insistendo.
Blake fissò gli occhi nei suoi e fece passare un lungo attimo di silenzio prima di risponderle.
- Credo che, se il Creatore di cui parli esiste davvero, non abbia alcun senso che possegga tali manie di onnipotenza, che sia tanto permaloso e rancoroso.
Dio dovrebbe essere perfetto. Lo dicono tutti.
Eppure, ti avrebbe punita solo per aver morso un frutto e per aver voluto sapere di più.
Non si può punire qualcuno per voler uscire dall’ignoranza, per la fame di conoscenza.
Esattamente come un bambino capriccioso, ti avrebbe tolto la vita eterna per un gesto tanto naturale e umano, nonostante il tuo pentimento, nonostante i tuoi discendenti non abbiano fatto niente contro di lui.
Non ha dato modo a nessuno di redimersi, continua a comportarsi crudelmente e a negare a chiunque una vita degna di essere vissuta soltanto a causa del tuo “peccato”.
Se tutto ciò fosse vero… lo troverei tanto assurdo da risultare surreale.
Non mi importa di questo. Io voglio proseguire per la mia strada.
- E qual è la tua strada?
All’improvviso, l’ambientazione cambiò, e i due si ritrovarono in una città abitata: il terreno era secco e costellato di erba di tanto in tanto; degli uomini vestiti in modo strano stavano battendo delle strane incudini su un enorme pezzo di metallo dalla forma insolita, che si dilungava sin oltre l’orizzonte. Metallo, metallo ovunque, che si muoveva ed emetteva vapori, trasportando persone, provocando dei rumori insopportabili per l’udito.
Blake osservò il tutto sconvolto. – Che cos’è…?
- Il futuro.
Lo sai che Lui può assumere l’aspetto che desidera?
Può presentarsi ai tuoi occhi come maschio o come femmina. Può presentarsi a te anche come un oggetto, uno scenario, un luogo.
Potrebbe essere lui ad averti portato qui.
- Chi? Il Diavolo? – domandò scettico e sarcastico Blake.
- Oppure le sue prime seguaci.
- Le prime streghe?
- Vogliono mostrarti un assaggio di ciò che potresti e vorresti conoscere.
Ma sei nato nell’epoca sbagliata, Blake, e né io né loro possiamo aiutarti a scampare il destino che ti spetta – gli disse Eva, osservando l’enorme matassa di metallo mobile con sguardo per nulla sorpreso, bensì serio e imperscrutabile. – Tu sei come me. Ma io so già tutto questo. Io e te siamo gli esseri più simili al Diavolo: anche lui si è ribellato a Dio. E ne ha pagato le amare conseguenze. Se non vuoi fare la nostra stessa fine, sei ancora in tempo per fermarti.
- Fermarmi dal fare cosa?
- Cessa la tua ricerca, rimani al tuo posto, servi il tuo Signore, ringrazialo, rendigli onore e non usufruire della magia senza dare nulla in cambio.
- Io non sto usando la magia. Non ho bisogno di dare nulla in cambio, non sto togliendo niente a nessuno. Il “mio Signore” ha tradito a sua volta il suo dio, dovrebbe comprendere i motivi per cui non voglio assoggettarmi a lui, sempre che esista realmente.
- Taci!
Improvvisamente, un’altra donna si parò ai suoi occhi, molto diversa da Eva: era alta, il suo passo era pesante, non aveva nulla dell’aspetto dell’incantatrice che possedeva Eva; bensì pareva più una dea esiliata.
- Chi è lei? – domandò Blake.
- Sai, nonostante tutti credono io sia la prima donna, tu dovresti sapere che non sono stata la prima.
La prima era lei: Lilith.
La prima strega è stata esiliata dal paradiso terrestre perché non voleva sottomettersi al primo uomo.
Ella non è stata tentata dalle promesse del Diavolo come me. Ella non peccava di hybris come te e me. Ella voleva solamente essere libera. Per questo è migliore di noi, di me, nonostante sia io a venire ricordata e non lei – spiegò Eva. – Sapevo sarebbe venuta. Se le prima streghe si sono manifestate a te, tormentandoti, lei non poteva rimanere indifferente a ciò, specialmente se sono io ad accompagnarti. Tu sei troppo simile a me, Blake.
- Io non credo a ciò a cui credi tu.
- Neanche dopo quello che hai appena visto? La tua spiritualità è totalmente assente, dunque.
Sei un peccatore peggiore di quello che pensavo.
- Non sono un peccatore perché desidero spingermi oltre i miei limiti.
- Tu ti spingi oltre i limiti umani e ciò è profondamente sbagliato – controbatté la donna.
- Chi ha definito quali siano i limiti umani?
- È stato Dio a farlo!
- Un dio che non esiste! E anche se esistesse non mi curerei delle sue proibizioni, né dei suoi comandi! - il cielo tuonò spaventosamente non appena il ragazzo pronunciò tali parole, e la desolazione si irradiò intorno a loro.
Ora erano circondati dal fuoco e dalle fiamme, Lilith era sempre più vicina a loro, con la sua aura mortifera.
- Nessuno potrà impedirmi di non credere, nessuno mi costringerà a “rimanere al mio posto” – affermò con convinzione il ragazzo, senza lasciarsi intimorire. – Io non ho nessun dio, e non mi assoggetterò mai ad alcun signore.
- Non dire una parola di più, Blake.
 - Io so cosa voglio e cosa cerco, e non esistono limiti a ciò che gli esseri umani possono ottenere.
Improvvisamente, Blake si ritrovò sopra un soppalco, legato ad un palo, circondato da paglia.
Lilith dinnanzi a lui, con una fiaccola in mano, pronta a farlo bruciare al rogo.
- Non mi convincerete mai che ciò che penso, che ciò che faccio e che sono, sia sbagliato! – esclamò, poco prima di udire una voce richiamarlo.
Una voce che sembrava sin troppo concreta e reale.
Improvvisamente, si ritrovò alla Festa di Beltane. Ricordava di essere arrivato lì ma non ricordava quanto tempo fosse passato. Non distingueva più cosa fosse reale e cosa non lo fosse.
Nessuno lo aveva avvicinato fino a quel momento, in quanto le allucinazioni avevano preso il sopravvento e il suo sguardo, così come il suo intero corpo, erano altrove, nonostante materialmente fosse presente in quel bosco, dinnanzi a quel focolare immenso.
Era sordo ai richiami, agli sguardi, alle mani che provavano a raggiungerlo.
Ma ora che era “tornato in sè”, alla realtà, acquistò coscienza di ciò che lo circondava: orge che venivano consumate in ogni dove, genti che ballavano nude, prive di inibizioni, drogate fino alla follia, deliri lussuriosi, odori e voci che incarnavano la più sensuale delle perversioni. Esattamente come era sempre stato a Beltane.
La sua testa era una campana rovente pronta a scoppiare, era profondamente spaesato, e ci mise diversi secondi a capire chi lo stesse chiamando, pronunciando il suo nome in maniera persistente e ripetuta. Mise a fuoco la figura di Imogene, a pochi passi da lui.
Per quale motivo lei era lì? Perché lo stava cercando e chiamando? Voleva dirgli qualcosa che riguardava sua madre?
Poi, quando gli fu abbastanza vicino, Imogene venne colpita da un forte dolore al petto, improvviso, che la fece accasciare a terra.
Era come se non potesse e riuscisse ad avvicinarsi a lui.
Myriam osservò la scena da lontano, allibita, rimanendo tuttavia a distanza.
Quando Imogene riuscì a rialzarsi e a raggiungerlo nonostante il dolore fisico che la affliggeva ogni volta che si avvicinava, Blake non vide più lei dinnanzi a sé, ma la figura della sciamana sfumò in quella di Lilith, che aveva ancora la fiaccola alzata, pronta a farlo bruciare.
Il terrore e la furia presero il sopravvento in lui.
Iniziò ad indietreggiare. – Stammi lontano! – esclamò allucinato e furioso. – Allontanati da me!!
Imogene si fermò, non sapendo cosa gli fosse preso.
- Blake…? Mi riconosci? Sono Imogene – provò a riscuoterlo.
- Sta’ lontana da me, ho detto!
A ciò, un’altra presenza si aggiunse alla loro, intervenendo prontamente:
Ephram, anche lui sotto gli effetti dei fumi, era tuttavia abbastanza lucido da percepire che qualcosa non andasse tra i due. Lo stregone circondò i fianchi di Blake e lo avvicinò a sé, trattenendolo.
- Va tutto bene. Quello che vedi non è reale… Blake! – cercò di tenerlo fermo, ancorato a sé, ma il ragazzo continuava a muoversi tra le sue braccia, come se non lo vedesse davvero, come se non riuscisse più a vedere nulla.
- Non brucerò per colpa sua! Deve allontanarsi da me! – ripeté con foga.
A ciò, Ephram si voltò verso Imogene e le parlò con voce decisa, infastidita, quasi rabbiosa: -Allontanati da lui.
- Ephram, non so cos’abbia, ma la colpa non è mia. Hai interpretato male: non voglio niente da lui. Puoi prendertelo, è tutto tuo, per quel che mi riguarda.
Ma devo parlargli.
- Ho detto di allontanarti, Imogene. Ora.
Anche Ephram doveva essere pienamente sotto l’effetto di quegli intrugli, in quanto non era in grado di ragionare razionalmente, si accorse Imogene. La sciamana notò che lo stregone stava stritolando i fianchi di Blake in maniera a dir poco possessiva, come se qualcuno stesse cercando di rubargli il suo pasto preferito da sotto il naso; e lo teneva stretto a sé languidamente, aderendo al suo intero corpo in maniera del tutto innecessaria.
La lussuria aveva preso il sopravvento anche su di lui, Beltane aveva dato i suoi frutti.
Imogene si voltò e si accorse che Myriam era sparita.
Se neanche Myriam si stava preoccupando di ciò, per quale motivo lei avrebbe dovuto assicurarsi dell’incolumità del ragazzo? Certo, era pur sempre il figlio di sua cugina, tuttavia non era compito suo proteggerlo da occhi e mani non gradite. D’altronde, era Beltane, lui era lì consapevolmente e nonostante al momento non fosse in sé, sapeva come funzionasse e cosa succedesse durante quella particolare celebrazione. Se gli fosse successo qualcosa che non desiderava, avrebbe dovuto prendersi da solo le proprie responsabilità.
A ciò, decise che non avrebbe di certo affrontato uno stregone potente quanto Ephram e del tutto incapace di ragionare razionalmente.
Avrebbe trovato un altro modo per parlare a Blake, in un secondo momento.
Dopo l’ennesima occhiata minacciosa da parte di Ephram, Imogene se ne andò, lasciandoli soli.
Intanto, un gruppo formato da giovani uomini e donne iniziò a circondarli.
Ephram strinse ancora Blake a sé, e mentre questo permaneva in quella trance ad occhi aperti, lo stregone gli infilò il naso tra i capelli e inspirò il suo odore, per poi scendere giù con il viso e iniziare a baciargli la pelle liscia della mandibola e del collo estremamente accaldato, con lentezza e dovizia.
Annebbiato, in bilico tra visione e realtà, e con la testa pulsante e invasa da voci perseguitanti, Blake tentò debolmente di allontanarsi da lui, senza successo, lasciandosi toccare dalle sue mani.
Ma fu quando il ragazzo percepì le labbra dello stregone invadere prepotentemente le sue, con un bacio a piena bocca e infilandogli la lingua più in profondità di quanto fosse umanamente possibile, che si ribellò con più decisione, acquistando maggiormente consapevolezza della realtà, nonostante vedesse ancora Lilith dinnanzi a sé, che dava fuoco alla sua pira.
- Smettila… smettila! Lasciami! Lasciami andare… - farneticò, percependo le mani affusolate e capienti dello stregone accarezzarlo e stringerlo ovunque, specialmente sulle cosce e sul fondo schiena, mentre lo teneva ancorato a sé.
- Che tu sia dannato, lasciami andare!! – esclamò, scrollandoselo di dosso in un impeto di furia, dandogli un pugno in faccia talmente violento da farlo sbilanciare indietro.
Ephram si toccò il naso sanguinante a causa del forte colpo ricevuto, e si voltò di nuovo verso Blake, un po’ più cosciente dell’accaduto, questa volta. Un velo di pentimento non troppo marcato apparve sul bel volto dello stregone. – Mi dispiace – gli disse, non essendo in grado di pronunciare altro.
Blake gli rivolse uno sguardo che lo impaurì: perso nel vuoto, stralunato, e al contempo deluso, diffidente, come a metà tra la realtà dei fatti e un vivido sogno.
Quando il ragazzo riuscì a mettere ben a fuoco la figura dell’amico e stregone, gli sputò addosso con astio. - Per chi Diavolo mi hai preso..?! Per uno degli stupidi ragazzini che seduci e che ti infili tra le gambe a forza??
- Assolutamente no.
- Puoi trovartene una mandria, con uno schiocco di dita, qui, stanotte.
Leva gli occhi lontano da me ed esci immediatamente dalla mia vista.
- Blake, ti ho già detto che mi dispiace.
- Stammi lontano – gli ordinò furente, voltandosi e dandogli le spalle, con tutta l’intenzione di allontanarsi di lì.
- Non avresti dovuto partecipare a Beltane nelle tue condizioni! – lo richiamò Ephram.
- Non avevo altra scelta!
Il dovere e le leggi gli ordinavano di farlo.
Ma lui avrebbe dovuto sottrarvisi ugualmente.
Fu ciò che pensò nel momento in cui Lilith gli comparve di nuovo dinnanzi agli occhi, più reale che mai, accompagnata dalle prime streghe.
- “La tua forza si seccherà come erba
Riarsa da un sole spietato
E il vigore della tua mano passerà
E le sabbie della tua vita scorreranno.
Oh, Dio Sovrano, non di salvezza, ma di dolore
La cui gioia è nei lamenti degli uomini,
Chi ti presterà la loro vita, o chi prenderà
Da altri per dartela ancora?
Oh, Dio Sovrano, pieno d’ira e senza lacrime,
Oh, Dio non del giorno ma della notte,
permettici di morire con te” - il coro funesto delle donne si placò, poi riprese, intonando una profezia tremendamente familiare e ridondante:
- L’unica pena per te è il rogo.
La pena è il rogo.
La pena è il rogo.
La pena è il rogo.
Nulla potrai per evitarlo.
L’ora è giunta.
L’ora è giunta.
L’ora è giunta.
Blake si tappò le orecchie con forza, bloccandosi e incurvando la schiena, stringendo gli occhi per sperare di non vederle né sentirle più.
Non possedeva più tregua.
Quel tormento lo faceva vivere in uno stato di dannazione perpetua, ed ora, in quell’istante, il tutto era ancor più orribilmente accentuato.
Ripensò ad Eva e alle sue parole.
Ephram andò in suo aiuto, ignorando l’avvertimento di poco prima non appena lo vide in quello stato.
Lo prese per le spalle e lo voltò verso di lui, accorgendosi che scottasse ancor più di prima, reggendolo in piedi per evitare di farlo precipitare a terra.
La sua pelle era bollente, tanto da sembrare che avesse una terribile febbre.
- Blake! Che Diavolo ti succede??
- Mi bruceranno al rogo prima che gli uomini del conte verranno a prendermi – disse stringendo i polsi dello stregone fino a stritolarli.
- Che stai dicendo??
- Lo faranno. Lo faranno, me lo hanno detto.
- Chi te lo ha detto??
- Mi perseguitano, mi tormentano, ed io non possa fare niente, niente per togliermele dalla testa!
- Dimmi chi te lo ha detto!
- Lo sai che non mi importa di morire! Voglio solo portare a termine quello che ho iniziato.
- Che cosa vuoi portare a termine?? Riguarda ciò che hai fatto alla casa del Giudice?? Blake!
Il ragazzo lo spinse via e si circondò il busto con le proprie braccia.
Ephram non l’aveva mai visto in quelle condizioni e per la prima volta dopo diverso tempo, si allarmò.
- Voglio solo avere la mente libera. Null’altro – sussurrò Blake.
- Posso aiutarti. La mia magia può aiutarti – gli rispose sinceramente, cercando di riavvicinarsi.
- No, non puoi.
Improvvisamente, il cielo tuonò e Blake alzò gli occhi verso quell’immensa distesa buia e tonante, per poi trovare di nuovo Eva dinnanzi a sé, che lo giudicava con occhi funesti.
Non una parola in più…”
Un tremendo acquazzone piombò su di loro, spegnendo l’immenso focolare di Beltane.
Blake riportò lo sguardo su Ephram. Lo stregone si accorse che il suo volto era già mutato, assumendo i contorni di una statua di granito.
- “Liberaci,
Salvaci,
Da tutto ciò che è male,
Da tutto ciò che è torbido,
Da tutto ciò che è vermiglio,
Dall’ira di Dio,
Dall’ira del Demonio,
Di un nemico o una nemica,
Di chiunque voglia farci
Ciò che è maligno.”  - fu la litania di un coro di fanciulli e fanciulle intorno a loro, che pronunciarono tali parole in preda ad una trance inumana.
Dopo di che, caddero tutti svenuti.
 
 

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Capitolo 53
*** L'origine di tutti i mali ***


L’origine di tutti i mali
 
Barclay aveva organizzato una grande festa per celebrare il compimento dei suoi quindici anni, e al contempo festeggiare la sua totale ripresa.
Inoltre, con l’intento pubblico di far pace con i suoi aggressori, con i suoi nemici e con tutti coloro con cui aveva avuto delle questioni lasciate in sospeso, aveva deciso di invitare alla sua festa anche alcuni servi del Creatore suoi coetanei, coloro solitamente presenti agli incontri della Congrega.
Dunque, si ritrovarono nello stesso luogo Barclay, la sua famiglia, i suoi amici, diversi fanciulli servi del Creatore, tra cui Ambrose, e, per finire, persino Folker.
Barclay non aveva voluto sentir ragioni, e lo aveva quasi costretto a partecipare alla sua festa, nonostante tra loro non scorresse affatto buon sangue dopo tutto ciò che era accaduto.
Il suo vecchio migliore amico aveva fatto promettere a tutti di “non muovere guerra l’uno contro l’altro”, e, per un giorno, di trascorrere la sua festa come se fossero un grande gruppo di amici ritrovati.
L’unico motivo per il quale Folker, alla fine, aveva acconsentito a partecipare, era uno e uno soltanto.
La cercò con gli occhi per diversi minuti, seduto su una porzione del prato che si trovava dietro l’abitazione di Barclay, nel quale si stava tenendo la celebrazione.
La cercò ma non la trovò, perciò si arrese e tornò a contemplare il cielo in solitudine, con un’ombra sugli occhi che a nessuno sarebbe passata indifferente.
Stranamente, i festeggiamenti si stavano svolgendo in pace e in armonia, persino servi del Diavolo e servi del Creatore non si stavano accapigliando tra loro.
Tuttavia, ognuno di loro lo guardava con il terrore negli occhi.
Oramai chiunque lo osservava in quel modo. Le immaginarie lettere incise a sangue sulla sua fronte, che ricalcavano solo il nome “strige”, tenevano tutti alla larga da lui, eccettuati Barclay e Ambrose, ovviamente.
Quest’ultimo stava chiacchierando con i suoi vecchi amici, riappacificandosi con loro.
Era un giorno di grande festa e riappacificazione, quello.
Qualcosa di cui lui non avrebbe mai goduto, poiché gli era stato tolto tutto.
Si sarebbe voluto trovare in qualsiasi posto tranne che lì, circondato dalla gente.
L’idea sempre più concreta che gli intossicava la mente da un po’, prese forma più concretamente, proprio quel giorno.
Si alzò dal prato e si diresse verso l’abitazione.
Entrò dentro quella casa che conosceva da sempre, e, fortunatamente, al suo interno sembrava non esservi nessuno.
Si guardò intorno, camminando in giro per le stanze, senza meta.
Quando si ritrovò dentro la familiare stanza di Barclay, udì qualcuno schiarirsi la voce dietro le sue spalle.
- Speravo che mio fratello invitasse anche te. Ma non ne ero sicura.
La persona che aveva cercato con gli occhi da quando era arrivato, ora era dietro di lui, a rassicurarlo con la sua voce, bella e schiva, come era sempre stata.
Accennò un fievole sorriso e si voltò verso di lei.
Bridgette indossava un bellissimo abito color melograno per i festeggiamenti, il quale faceva risaltare meravigliosamente il colorito della sua pelle.
- Gli hai detto tu di invitarmi? – le domandò, guardandola a distanza.
Era da quella volta, a casa sua, da quella conversazione nella quale lei gli aveva confessato che a breve si sarebbe sposata, che non si erano più visti.
La ragazza negò con la testa. – Speravo ti invitasse. Ma non volevo condizionare la sua decisione. Non sarebbe stato giusto nei tuoi confronti. Ha deciso autonomamente di riappacificarsi con te. Tuttavia, credevo non saresti venuto – confessò lei, genuinamente felice di vederlo, iniziando a camminare per la stanza.
Era difficile leggere una persona come Bridgette. Quasi nessuno ne era in grado. Tuttavia, Folker avrebbe affermato con certezza che anche lei lo avesse cercato, da quando i festeggiamenti erano cominciati.
- Dov’è il tuo sposo? – le domandò senza alcuna inclinazione nella voce.
- Fuori. Con gli altri. Te lo farò conoscere, se lo desideri.
- Come ti trovi con lui?
- Bene. È molto gentile e premuroso, nonostante mi conosca a malapena. Il che è un gran bene – disse lei.
- Sono felice per te – le rispose, volgendo poi gli occhi verso la finestra.
La sentì avvicinarsi a lui. – A cosa stai pensando?
Il biondo rimase qualche secondo di troppo in silenzio, prima di risponderle. Ma lei attese, con calma.
- A quanto mi sia mancato parlare con te. A quanto tu.. mi sia mancata – ammise.
A ciò, anche Bridgette si lasciò andare. Gli prese delicatamente il viso tra le mani e lo baciò, lentamente, permettendo anche al ragazzo di godersi ogni singolo istante di contatto con le sue labbra.
Una lacrima solitaria sfuggì al controllo di Folker quando il bacio giunse al termine.
Bridgette la percepì e se ne allarmò lievemente. – Ehi.. che succede? – gli domandò asciugandogli una guancia, rivolgendogli un sorriso triste. – Hai uno sguardo vuoto oggi, amor mio.
- Mi dispiace – le rispose lui stringendole la mano e portandosela alle labbra.
Quelle dimostrazioni d’affetto così intense non erano mai esistite nel loro rapporto.
La distanza aveva giocato a loro favore, cambiando anche il modo di percepirsi a vicenda.
- Mi dispiace – ripeté il biondo, come un mantra.
- Per cosa? – gli domandò lei posandogli una mano sulla guancia.
- Mi sento debole.
- Non lo sei. Sei una delle persone più forti che conosca, Dietrich.
Ti ho già detto che possiamo continuare a vederci… - gli sussurrò a fior di labbra.
Lui la baciò ancora, approfondendo il bacio e stringendola a sé con bisogno.
Quando si staccarono, Folker le sorrise tra le labbra e guardò i suoi occhi splendidi ed espressivi, saziandosene. – Ti amo.
La ragazza ammutolì. Le sue mani erano affondate tra i capelli biondi di lui, i suoi occhi persi nei suoi. Non dissero niente per i successivi cinque minuti, poi Bridgette lo abbracciò e avvicinò le labbra al suo orecchio. – Anche io – sibilò.
Quando si staccarono lei gli sorrise un’ultima volta, poi si allontanò, uscendo dalla casa e ricongiungendosi con gli altri, lasciandolo solo.
Folker restò in contemplazione del sole primaverile che entrava dalla finestra, per diversi minuti.
Dopo di che, sembrò tornare in sé.
Si ricordò che il padre di Barclay amava andare a pesca nel lago che costeggiava il bosco di tanto in tanto, motivo per cui possedeva un’immensa collezione di robuste corde, di ogni tipo.
Aprì il barile che sapeva contenere le corde e ne prese una, la più resistente che trovò.
Dopo di che, come aveva fatto pochi giorni prima per Cliamon, la legò in modo da formare un cappio, compiendo movimenti precisi e decisi, con una lucidità che sorprese persino se stesso.
Legò la corda ad una trave sul soffitto, poi prese una sedia e la posizionò sotto il cappio penzolante.
Salì sulla sedia e si fermò, immobile.
Non stava avendo ripensamenti, no.
Era da molto che voleva farlo.
Da quando le ferite alla schiena avevano iniziato a non rimarginarsi più, facendo sempre più male; da quando le persone alle quali Cliamon aveva svenduto il suo corpo lo guardavano con degli occhi che non gli piacevano quando li incrociava per le strade; da quando aveva perso tutti; da quando il sapore del sangue non se ne andava più e lo sentiva sempre tra le labbra, facendolo autoconvincere di essere davvero il mostro che tutti temevano.
Lo avrebbe fatto, e tutti si sarebbero rallegrati del suo gesto; e anche coloro che non se ne fossero rallegrati, sarebbero comunque andati avanti, con il tempo.
Persino Bridgette, che ora aveva un marito che la trattava come meritava di essere trattata.
Persino Ambrose.
Oh… povero Ambrose.
Si sarebbe disperato. Chissà per quanto tempo.
Ma per quanto il pensiero di fargli così tanto male turbasse Folker, era comunque convinto che Ambrose, presto o tardi, si sarebbe rifatto una vita, magari quando avrebbe finalmente trovato una ragazza in grado di fargli battere il cuore.
Infilò la testa bionda dentro il cappio, lo strinse fino al limite della sopportazione, in modo da rendere la morte più rapida… poi, chiuse gli occhi, e si lasciò andare, calciando via la sedia.
 
Non riuscendo più ad individuare Folker, Ambrose si guardò intorno, sorpreso. – Dov’è finito?
- Chi? – gli domandò Devon.
- Folker. Non lo vedo da un po’.
- L’ho visto io circa venti minuti fa, dentro casa – lo rassicurò Bridgette avvicinandosi.
- Cosa ci faceva dentro casa?
- Non saprei – rispose vagamente la ragazza. – Effettivamente, mi aspettavo sarebbe uscito a breve, non ha motivo di rimanere dentro da solo. Vado a prenderlo e a portarlo fuori – gli disse lei con la sua solita esuberanza.
- Dietrich? – lo richiamò lei rientrando in casa. – Sei ancora qui dentro? Esci fuori con noi, avanti – lo incoraggiò cercandolo per la casa.
Un urlo sordo rimbombò dentro l’abitazione non appena la ragazza posò gli occhi sul terribile spettacolo che imperava dentro la stanza di suo fratello: il cadavere immobile del suo giovanissimo amante era appeso al soffitto, con una delle corde di suo padre legata strettissima al collo candido e deturpato, la testa rivolta innaturalmente verso il basso, con i lunghi capelli biondissimi a penzoloni dinnanzi a lui, il corpo ciondolante, le poche porzioni di pelle lasciate libere dai vestiti erano quasi cerulee nella penombra della stanza.
Cadde pesantemente in ginocchio, senza la voce per piangere, senza la forza di fare nulla, se non di tremare e di continuare a guardarlo incredula, con gli occhi fuori dalle orbite.
Pianse terribilmente, senza fiato e senza voce, strisciando verso di lui, in quanto sentiva che le gambe non sarebbero state in grado di reggerla in piedi. Si aggrappò ai suoi polpacci ciondolanti e li strinse a sé, in un abbraccio disperato, mentre urlava e piangeva.
Poi, dopo pochi istanti che le parvero secoli, trovò il coraggio di staccarsi dal suo giovane e sfortunato amore.
Si alzò in piedi, instabile. Si diresse verso il barile di suo padre, lo aprì e afferrò una corda a sua volta.
 
Oramai Bridgette era andata a cercare e a recuperare Folker in casa da un bel po’ di tempo.
Ambrose aveva provato a non pensarci. Aveva bevuto e aveva ballato con i suoi amici ritrovati, festeggiando, per una volta spensierato e incurante dei drammi avvenuti tra loro.
Aveva deciso di lasciare dello spazio al suo amico, di permettere anche a lui di riappacificarsi con il suo vecchio amico Barclay.
Tuttavia, ora stava iniziando a preoccuparsi.
Non lo vedeva da ore, e a meno che non avesse deciso di confinarsi nella casa del festeggiato, stranamente in compagnia di Bridgette, la sua assenza era davvero strana.
Così, decise di entrare dentro l’abitazione a sua volta, in cerca del biondo.
Terry e Devon lo seguirono.
- Folker? Sei qui dentro?
Quando si trovò dinnanzi lo spettacolo di due corpi orribilmente appesi al soffitto, Ambrose si concentrò solamente su uno di loro, non posando neanche uno sguardo su quello della ragazza.
- No…
Terry e Devon, allo stesso modo, si pietrificarono dinnanzi a tale visione.
- No no no no no no no!! NO!- urlò Ambrose precipitandosi sul corpo del ragazzo che amava, adoperandosi convulsamente a sciogliergli il cappio dal collo.
La sua statura lo avvantaggiava, gli bastava solamente alzarsi sulle punte e allungare le braccia per riuscire nell’intento.
Sciolse il nodo e afferrò al volo il corpo senza vita che gli cadde pesantemente tra le braccia.
Non era ancora rigido, la sua pelle non era ancora dura, seppur fredda tra le sue mani, e ciò gli fece sperare che ci fosse ancora una speranza.
- Ti prego, ti prego, svegliati! No, non può essere vero!! È vivo, è ancora vivo, chiamate aiuto! Chiamate il medico!! So che è vivo…!! – la sua voce era delirante, era totalmente mutata rispetto al solito, i suoi movimenti erano convulsi ed energici.
- Ambrose… - provarono a richiamarlo a distanza, preoccupati, i suoi due amici, ma lui non li udì neppure.
- Rispondimi, Folker… Rispondimi, avanti!! – gli urlò rabbioso, in lacrime, abbracciandolo e reggendogli la testa, la quale, senza il suo sostegno, sarebbe ricaduta mollemente all’indietro, portando con sè la zazzera di capelli: l’osso del collo era visibilmente spezzato. Gli scostò i capelli dal viso e lo osservò, riscuotendolo con vigore e dolcezza al contempo. La dolcezza che aveva sempre usato con lui.
Il meraviglioso viso del ragazzo restava bellissimo nonostante il pallido e gelido alito della morte fosse calato su di lui, reclamandolo a sè. I suoi occhi chiarissimi erano celati dalle palpebre chiuse, la sua pelle era color granito, le sue labbra carnose e serrate avevano assunto una colorazione quasi bluastra.
Quelle labbra dal sapore buonissimo. Quelle labbra che non avrebbe mai più assaporato. Quegli occhi che non avrebbe mai più ammirato e scrutato. Il suo corpo non sarebbe mai più stato caldo. Il sole non lo avrebbe più illuminato, baciandolo, come lui avrebbe voluto fare ogni giorno, appena sveglio.
Appoggiò la fronte sulla sua e continuò a guardarlo, urlando sempre le stesse cose e piangendo, stringendolo a sé.
Glielo avevano tolto.
Glielo avevano portato via, per sempre.
L’amore della sua breve vita. L’unico amore della sua vita.
- FATE QUALCOSA HO DETTO! CHIAMATE QUALCUNO!
Improvvisamente la stanza si riempì di persone, alcune urlanti, altre piangenti.
Barclay abbracciò il corpo di sua sorella nella più totale disperazione.
Qualcuno domandò perché si fossero uccisi entrambi, per quale motivo.
Ad Ambrose non interessava il motivo.
Incurante di chiunque lo circondasse, delle persone e dei rumori intorno a sé, continuò a dondolare e a cullare il corpo morto che stringeva tra le braccia, seduto a terra, con il viso sconvolto dal dolore e dalle lacrime, sepolto nella guancia e nei capelli del biondo.
Nessuno si domandò per quale motivo stesse reagendo in modo tanto esagerato.
Nessuno si domandò cosa legasse il giovane e sfortunato servo del Diavolo, e il disperato servo del Creatore che lo stringeva a sé come una preziosa bambola di porcellana.
- Ambrose… - ritentò uno dei suoi amici, poi lo stesso Barclay, tentando di avvicinarsi al cadavere dell’amico.
- No!!! Non osare!! – si ribellò Ambrose, cacciandolo via, stringendo ancor più strettamente Folker a sé, nascondendolo agli occhi di tutti. – Non osate toccarlo!! Non osate avvicinarvi a lui!! Nessuno di voi!! Non toccatelo... non toccatelo…
È ancora vivo… deve esserlo.
Accarezzò quel corpo sofferente, ora libero da tutti i suoi traumi, i suoi dolori, dalle atrocità che aveva subìto.
Libero e in pace.
A questo lo avevano costretto i monaci.
A doversi togliere la vita per raggiungere la pace e la tranquillità.
Lo baciò tra i capelli, più e più volte, mentre l’odio cresceva e cresceva sempre più in lui.
L’odio, la furia e la vendetta nei confronti della classe dominante del villaggio.
Dei mostri con le tonache nere, che avevano osato portarglielo via.
 
I portoni della sala dei concili si chiusero, dando inizio a quella riunione d’emergenza.
Padre Thomas fu il primo a parlare. – Ci spiace molto per la seconda perdita subìta dai familiari del ragazzo, i quali hanno affrontato il lutto della loro secondogenita solo pochi mesi fa. Ed ora devono subire quella del primogenito – disse con finto tatto. – Ma sappiamo tutti che il ragazzo prima o poi sarebbe dovuto morire. Egli era una strige, il più grande pericolo per il nostro villaggio. I riti di purificazione erano solo una soluzione temporanea.
Una soluzione che lo aveva tenuto in vita giusto il tempo di farlo soffrire di più, di togliergli la voglia di vivere  pensò amaramente Judith, pentendosi dolorosamente di aver mai proposto quella tremenda tortura mascherata da riti di purificazione. Non ricordava il tempo in cui aveva proposto quella “soluzione”, a causa dell’amnesia. Tuttavia, conoscendosi, poteva ben comprenderne i motivi:
Perché l’alternativa sarebbe stata una morte lenta e atroce, indegna per ogni vita umana.
Perché i vostri metodi di esecuzioni sono essenzialmente il ritratto del sadismo, padri.
Inaspettatamente fu Myriam a intervenire per prima, a difesa del ragazzo.
La strega si alzò in piedi, adirata. – Per quale motivo lo avete torturato in tal modo, giorno per giorno, invece di ucciderlo subito, dunque?? Inoltre, quale prova avete ottenuto a sostegno delle parole del suo amico, l’unico che lo ha accusato di essere una strige?? Quel ragazzino non sapeva neanche cosa fossero le strigi! Per quanto ne sappiamo, potrebbero essere una leggenda inventata di sana pianta da Allister Chaim!
- Attento a ciò che dite, madre Myriam.
- Non me ne starò in silenzio dinnanzi ad un ragazzino di quattordici anni morto invano! Cosa speravate di ottenere con quelle dannate torture??
- Folker non stava reagendo bene ai riti di purificazione.
- Motivo per cui lo sottoponevate a cinque o dieci riti al giorno?? Cosa sapevate di lui, esattamente, padri? L’unica cosa che conoscevate di quel ragazzo era il colore che assumeva la sua pelle ad ogni frustata che gli infliggevate e il rumore dei suoi gemiti di dolore.
Vi volete ripulire la coscienza, Myriam? Dopo aver contribuito a far del male a quel ragazzo con il disgustoso patto che avete stretto con padre Cliamon, avendolo portato a vostra volta sull’orlo della disperazione, ora vi sentite in colpa?  Judith la osservò in silenzio, non avendo alcuna pena per lei. Ella era colpevole quanto i monaci, del suicidio di quel povero ragazzo.
- Vorrei sapere chi ha indetto questa riunione di emergenza. Il da farsi è ben chiaro ai miei occhi, non vi è neanche da discuterne: i due “amanti sfortunati” si sono tolti la vita autonomamente, il suicidio è malvisto agli occhi di entrambi i signori, motivo per cui non meritano una celebrazione funeraria, né una degna sepoltura – disse categoricamente padre Petrit.
- Tuttavia, non abbiamo la certezza si siano suicidati entrambi – obiettò il vecchio padre Faust.
- Di che altre conferme abbiamo bisogno?? Supponete siano stati uccisi?? Oh, suvvia, è ben chiaro come si siano svolti i fatti: la ragazza, Bridgette, l’adultera maritata da poco ma ancora innamorata del suo giovane amante Folker, ha trovato il corpo suicida del suo amato appeso al soffitto e, per la disperazione, si è tolta la vita a sua volta, accanto a lui. Qualcuno ha obiezioni? – disse una monaca, madre Sylvia.
- Ciò non spiega come mai un amico del giovane servo del Diavolo, un servo del Creatore di nome Ambrose, sia rimasto attaccato al suo corpo come un parassita e non abbia voluto lasciarlo fin quando non è stato costretto a farlo dall’arrivo dei genitori dello stesso. Che strano rapporto vi era tra i due? - disse sospettosamente padre Thomas.
- Si dia il caso – intervenne Judith alzando la voce in modo dirompente, scattando in piedi e attirando l’attenzione di tutti. – Che la riunione di emergenza sia stata indetta da me medesima. Il motivo per cui l’ho fatto non consiste in spettegoli su chi fosse l’amante di chi, o su che rapporto vi fosse tra chi – li rimproverò sottilmente, guardandoli severamente ad uno ad uno. – Ho indetto questa riunione perché è necessario. Udite il putiferio che vi è là fuori? – domandò la ragazza, indicando la finestra della cattedrale. – I servi del Diavolo, e anche alcuni servi del Creatore, si stanno rivoltando contro di noi, padri. Tutti gli amici e i parenti dei due amanti sfortunati stanno urlando giustizia. Sì, giustizia. Una parola estranea a voi, ultimamente.
- Judith… come ti permet-
- Silenzio – disse lei solennemente. – Le persone che sono là fuori chiedono solo un po’ di compassione da parte nostra. I loro cari, un ragazzo di quattordici anni e una ragazza di diciannove, si sono tolti orribilmente la vita, lasciando un vuoto incolmabile dentro di loro. Tutto ciò che chiedono… è solo una cerimonia funebre necessaria, per processare il loro dolore e metabolizzarlo, terminante in una degna sepoltura. Una richiesta più che lecita, per chiunque.
- Judith, sai benissimo cosa spetta ai suicidi. I libri sacri parlano chiaro: niente sepoltura, niente cerimonia funebre. Hanno peccato orribilmente contro i signori, le loro anime non possono trovare la giusta pace, nemmeno accanto al Diavolo – commentò madre Sylvia.
- I libri sacri sono stati scritti secoli fa, madre. Sono testi arretrati, che necessitano di una riscrittura e revisione!  Come potete non essere d’accordo?? Quelle persone vogliono solo un po’ di pace! Le biasimate per questo?
- Non possiamo transigere, Judith, sai come funziona.
- Siamo costretti a farlo, se non vogliamo ritrovarci l’intero villaggio rivoltato contro di noi!
- Judith, cara .. – tentò padre Petrit. – I tuoi mesi di gravidanza stanno giungendo alla scadenza. Perché non siedi e non riposi? Non dovresti sforzarti in tal-
- Io ho diritto di parlare come tutti voi qui!! – si appellò lei con forza, sorprendendo anche padre Craig e Myriam.
Il giovane prete non aveva pronunciato parola dall’inizio della riunione.
Il suo cuore era spezzato. I sensi di colpa nei confronti di quel povero ragazzo che avrebbe potuto salvare, lo stavano divorando vivo, partendo dalle viscere.
Non faceva altro che pensare ad Ambrose. Chissà come stava Ambrose, in seguito a quella disgrazia. Avrebbe dovuto andare a fargli visita il prima possibile.
Quei monaci. Con quale diritto si proclamavano “uomini di Dio”…?
Con quale coraggio parlavano in tal modo di quel fanciullo e di quella fanciulla, poveri sfortunati e disgraziati, ai quali non era concesso neanche il diritto di riposare in pace, e di ricevere il sacro saluto dei loro cari??
Il dispiacere e la rabbia lo stavano corrodendo.
Fortunatamente Judith si stava facendo valere.
Se fosse dipeso da lui, non sarebbe riuscito a tenere a freno la lingua e avrebbe imprecato contro di loro dentro la casa di Dio, incurante di tutto e di tutti.
- Se negherete a quelle persone il diritto di celebrare il funerale e di seppellire i loro cari, vi sarà una guerra tra il popolo e il clero.
I fedeli sono giunti ad un punto di non ritorno. Per colpa vostra – disse duramente la fanciulla dai capelli cremisi e il temperamento di una regnante.
- Abbiamo cose più importanti a cui pensare al momento, rispetto a due amanti suicidi: di Alma Heloisa non vi sono ancora tracce, nonostante le ricerche.
- Basta parlare di lei! Non lo volete capire che quella donna è innocente?? L’unico motivo per cui si sta nascondendo è per scappare alla vostra ira immotivata! – esclamò frustrata Judith.
- Tutti gli indizi portano a lei, Judith. Per quale motivo la difendi tanto?
Perché so per certo che non è stata lei ad uccidere Dun Rolland.
È stato qualcun altro. Qualcuno che mi sta a cuore.
E finché non scoprirò i motivi per cui ella lo ha fatto, non la lascerò nelle vostre spietate grinfie.
- Perché ho parlato con lei e mi è sembrata sincera – mentì, sapendo che le sue parole non avrebbero avuto effetto su di loro.
- Ad ogni modo, è deciso: i due amanti sfortunati non riceveranno l’onore che ai suicidi come loro è negato. Fine della discussione.
Per di più, il ragazzo, oltre ad essere un mostro succhia-sangue, era anche una persona violenta. Non ha fatto nulla per guadagnarsi il nostro dispiacere. Non capisco per quale motivo ci stiamo angustiando tanto per lui.
Si sarà ucciso perché avrà capito che questo era ciò che il suo Signore desiderava – commentò aspramente padre Petrit, facendo perdere totalmente le staffe a padre Craig.
Il giovane prete scattò in piedi, rivolse a tutti i monaci uno sguardo irato, rabbioso, deluso ai limiti dell’umano, poi si diresse verso il portone e uscì rumorosamente, abbandonando la riunione.
Alla fine dell’incontro, Judith uscì dal salone mentalmente sfinita.
L’angoscia si impossessò di lei, mentre prendeva posto su una delle prime sedie della navata vuota, il viso volto verso l’altare.
Si accarezzò il pancione e riposò le membra, riflettendo.
Come osavano trattarla come una ragazzina o un’inferma solo perché era una donna incinta?
Aveva sempre avuto diritto di parola lì dentro, i monaci avevano sempre preso in considerazione i suoi suggerimenti, decidendo di conseguenza e in accordo con lei, quasi sempre.
Ora invece, a nulla era valsa tutta la sua ostinazione e i suoi tentativi di farli ragionare: alla fine della riunione, la maggioranza aveva deciso che avrebbero comunque vietato alle famiglie dei due giovani defunti, di celebrare il funerale e di seppellirli. In accordo alla tradizione.
Era talmente delusa e schifata da tutto ciò, che non riusciva neanche a covare della rabbia.
Si sentiva solamente svuotata.
- Va tutto bene? – quella voce la sorprese, ma non la spinse comunque a voltarsi verso di lei.
Imogene prese posto accanto alla rossa.
I rimasugli di ricordo della notte di Beltane erano più vividi che mai in lei.
L’idea di confessare tutto a Judith la attraversò più di una volta. Tuttavia… la sua amata aveva sin troppo a cui pensare in quel momento, dopo ciò che era accaduto solo quella mattina.
- Le urla delle persone care ai due suicidi … - sussurrò la sciamana voltando lo sguardo verso il portone chiuso della cattedrale, da cui provenivano tutti i pianti e le grida di ribellione di coloro che volevano solamente dare degna sepoltura ai loro amati.
- I monaci hanno deciso che seguiranno la tradizione. Come hanno sempre fatto – disse laconicamente Judith.
- Immaginavo. Se nessuno interverrà… inizierà una rivoluzione.
- Ben venga, dunque.
- Judith..
- So che sei andata a Beltane.
Imogene si voltò a guardarla. Avrebbe dovuto immaginare che, in un modo o nell’altro, lo avrebbe capito.
- È stato padre Craig a dirtelo?
- Non ce ne è stato bisogno – rispose la rossa, voltandosi finalmente a guardarla a sua volta.
Il suo splendido volto era serio, gelido, distante. – Non sarò una sciamana o una strega, ma non sono stupida e sono dotata di spirito di osservazione. Ultimamente non stiamo più passando la notte insieme, Imogene.
- A quello vi è una motivazione che non posso rivelarti, amor mio.
- Non chiamarmi così – la sua voce non era affatto arrabbiata, quanto più stanca e seccata, e ciò fu in grado di ferire ancor di più Imogene. – Io ti voglio bene, Imogene. Se non te ne volessi… non avrei mai deciso di affidarti i miei figli.
- Ma…? Avanti, parla.
- Credo sia ora di mettere le cose in chiaro e di parlare. Cosa ne pensi?
Il sentimento che ci lega non è l’amore, Imogene.
Ritengo sia chiaro. Lo sapevamo fin dall’inizio, motivo per cui abbiamo iniziato a godere l’una del corpo dell’altra solo a scopo edonistico e intrattenente.
Con il tempo, abbiamo pensato che il nostro rapporto si fosse evoluto in qualcosa di più.
Abbiamo creduto di essere fatte l’una per l’altra, per breve tempo.
Ci siamo sbagliate.
Solamente un grande sentimento di affetto è rimasto a legarci.
- Tu non sai nulla di cosa io provi per te, Judith – rispose Imogene, la voce atona ma il cuore in tempesta. – Non parlare anche per me. Parla solo per te.
Judith si voltò a guardarla. – Credi di amarmi?
Imogene fissò i suoi penetranti occhi a sua volta. – Credi sia così difficile? Innamorarsi di te, Arley Judith?
- Se hai guardato nel tuo cuore e hai trovato un sincero amore… amore totalizzante, nei miei confronti, allora non dubiterò dei tuoi sentimenti. Nonostante tu abbia giaciuto con Myriam.
Tuttavia… non basta una sola persona ad amarne un’altra, per far funzionare una relazione.
- In fondo al mio cuore, sin dall’inizio, ho sempre saputo che non mi avresti mai amata, bambina.
Ma non pensavo sarebbe stato qualcuno di così lontano da noi a farti allontanare per sempre da me.
È per lui, non è vero?
Judith la guardò, confusa. – Di chi stai parlando?
- Sai di chi sto parlando, cara.
Judith comprese e la guardò con uno sguardo indefinibile. – Blake non ha nulla a che fare con noi.
- Lo hai visto al funerale di suo padre. Io ti ho vista con lui e… - si fermò, accennando un sorriso sconfitto mentre fissava l’altare. – …era come se vi conosceste da una vita intera. Non ho mai potuto competere contro questo. Contro ciò che ho visto quel giorno, tra voi.
- Io non lo conosco. Non posso dire di conoscerlo lontanamente rispetto a quanto conosco te.
- Hai iniziato a scrivergli delle lettere. Lo so, Judith. Volevi approfondire la conoscenza, volevi sentirlo vicino. A modo tuo. Se ti chiedessi perché gli hai scritto? Cosa mi risponderesti? – le domandò con calma.
Judith rimase in silenzio, tornando a guardare l’altare. – Hai ragione. Volevo sentirlo vicino. Voglio rivederlo. Ogni giorno sento il desiderio di rivederlo.
Ma anche se lui non fosse esistito, anche se non lo avessi mai incontrato… ciò che provo per te, Imogene, non sarebbe mai evoluto in qualcosa di più.
Non ti avrei amata come desideri, in nessun caso.
Quello che avrebbe dovuto essere il colpo di grazia per Imogene, riuscì, in qualche modo, a toglierle un peso di dosso.
Ora l’illusione non avrebbe più avuto alcun effetto su di lei.
Era libera di amarla, ma senza la speranza che ella ricambiasse i suoi sentimenti.
Non sperava più, ma poteva comunque scegliere di rimanerle accanto.
Il suo amore riusciva ad andare oltre un rifiuto.
- C’è una persona qui per te – le disse infine.
- Chi mi cerca?
- La tua amica serva del Creatore – le disse la sciamana, rialzandosi in piedi.
- Falla venire qui.
- E un’altra cosa – disse Imogene prima di avviarsi verso l’uscita. – La gatta non può più restare qui. I monaci vogliono cacciarla via – la informò facendo trapelare una punta di tristezza nella voce.
Dopo ciò, se ne andò.
Non trascorsero neanche cinque minuti, che Hinedia fece il suo ingresso, avvicinandosi alla figura dell’amica, seduta e assorta nei suoi pensieri.
- Posso? – le domandò da dietro.
- Siedi pure accanto a me, Hinedia – la incoraggiò Judith.
- Mi hai chiesto di rivederci, ieri – le ricordò, sedendosi accanto a lei come le era stato detto.
- Giusto. Con tutto quello che è accaduto oggi… me ne ero dimenticata.
- Mi dispiace – disse spontaneamente la fanciulla.
- Per cosa?
- Per il ragazzo che si è tolto la vita. E per la ragazza che si è uccisa dopo di lui.
Deve essere straziante. Per i genitori. Per tutti i loro amici e conoscenti… - disse tristemente. – Tu lo conoscevi, giusto?
- Ho assistito a qualche suo rito di purificazione. Niente più – rispose sinceramente Judith, accarezzandosi il pancione. – Oggi stanno scalciando più del solito – la informò, facendo una piccola smorfia. – Vuoi sentire?
Hinedia, imbarazzata e curiosa insieme, annuì, rivolgendole un piccolo sorriso.
Allungò una mano, Judith gliela prese e gliela condusse dolcemente sopra il proprio pancione.
Il palmo della serva del Creatore si posò sulla superficie liscia e tondeggiante del ventre rigonfio, coperto dal sottile strato del pregiato abito di velluto che indossava la rossa.
Improvvisamente, un movimento al suo interno la colse di sorpresa, smuovendole le mano poggiata sopra il pancione, facendola sorridere.
- Sono parecchio energici. Quando hai scoperto fossero più di uno?
- Qualche tempo fa – rispose vagamente. Nessuno più avrebbe dovuto scoprire fossero in tre lì dentro.
- Credi che facciamo bene a proibire alle famiglie dei due sfortunati amanti suicidi di celebrare il funerale e di dare loro degna sepoltura? – le domandò improvvisamente Judith, cogliendola di sorpresa.
Hinedia tolse la mano dal pancione e rifletté. – Le leggi parlano chiaro. Il suicidio è un tremendo peccato, il Creatore e persino il Diavolo lo disdegnano. Tuttavia… se fossi stata la madre di uno dei due, o una sorella, una promessa, o semplicemente una cara amica… mi sarei battuta con tutta me stessa per riuscire ad ottenere il permesso di celebrare i funerali e di seppellirli – ammise.
- Già. Anche io.
- Ed è quello che stanno facendo loro.
- Ma i monaci continueranno a non concederglielo.
Calò il silenzio tra le due, fin quando Hinedia non lo spezzò. – Per quale motivo volevi vedermi oggi? Riguarda ciò che ti ho detto ieri riguardo Quaglia?
- Lui sta bene?
- Sì, sta bene.
- Bene. Ma non ti ho voluta vedere per chiederti di Quaglia. O di Blake.
“Sai, a volte vorrei averti come figlia.
Perchè sei bella come l’aria gelida di Novembre,
e sei vera, più vera e tangibile di tutte le cose del mondo.
E che sia giusto
E che sia sbagliato
Non una lacrima per te.
Mai una lacrima verserò per compiangerti” – citò Judith, parola per parola, esattamente come gli era ricomparsa nella memoria.
Hinedia raggelò, percependo la vita lasciare il suo corpo non appena la udì.
Quella notte…
La notte in cui ti ho fatto del male.
Judith si voltò a guardarla. – Il medico mi aveva detto che avrei potuto ricordare sprazzi di frasi molto nitide nella mia mente. Frasi particolari, che hanno lasciato un segno nella mia memoria.
Non ci credevo fino a ieri notte. Nonché fino a quando… non ho ricordato la tua voce, persino l’esatta intonazione che hai usato, pronunciarmi questa frase.
Hinedia abbassò la testa e strinse i pugni fino a ferirsi i palmi con le unghie, mentre lacrime amare uscivano dai suoi occhi. – Cos’altro… cos’altro hai ricordato…? – ebbe il coraggio di chiederle, con voce rotta.
- Solo questo. Non ricordo altro. Né la circostanza in cui me l’hai detto, né cosa è accaduto dopo. Niente di niente – disse, facendola lievemente tranquillizzare.
- Judith, io..
- Dalla tua reazione, deduco sia una frase importante. Una frase connessa ad un ricordo doloroso, per te. Non dobbiamo per forza parlarne, se non vuoi. Speravo solo che, parlandone con te, se mi avessi raccontato in che occasione o contesto mi hai pronunciato queste parole, forse avrei potuto recuperare altri ricordi.
- Judith, io non posso, mi spiace. Vorrei tanto, ma..!
- Non devi scusarti. Non fa niente.
C’è qualcos’altro.
Hinedia non ebbe il tempo di riprendersi, che Judith le rivelò un’altra informazione che fu in grado di agghiacciarla, anche più della prima:
- Ho trovato la tua veste, dietro la cattedrale. La tua veste sporca di sangue.
Suppongo sia la veste di quella notte, la notte in cui è stato assassinato Dun Rolland; dato che quella notte ti sei presentata alla cattedrale delirando nuda.
Hinedia iniziò a tremare e percepì distintamente Layla scalpitare dentro di lei per uscire.
Nonostante gli allenamenti con Quaglia stessero dando i loro frutti per controllare le sue due parti ribelli di sé, quelle notizie erano troppo per lei e per il suo instabile equilibrio mentale.
Judith la osservò. – Sarebbe approssimativo, da parte mia, chiederti perché lo hai fatto e cosa è accaduto nel dettaglio quella notte.
- Uccidimi… uccidimi ora, Judith – sussurrò in un sibilo. – Hai scoperto quanto sia macchiata la mia anima e io non posso fare più nulla per nasconderlo. Rinchiudimi nelle segrete o uccidimi.
- Non ho intenzione di fare nulla di tutto ciò.
- Lo hai già detto ai monaci?
- Hinedia – Judith richiamò la sua attenzione su di sé, costringendola a guardarla negli occhi. – Non ho detto neanche una parola ai monaci. Volevo sentire te, la tua versione dei fatti.
Sono una giustiziera, talvolta spietata, è vero.
Tuttavia… prendimi pure per pazza, ma nonostante io ti conosca da pochissimo tempo… credo di conoscerti comunque abbastanza per poter affermare che non faresti mai, MAI una cosa simile.
Non sei un’assassina, Hinedia, e non lo sto dicendo perché sei mia amica.
So che non lo sei.
Vorrei crederlo, amica mia… vorrei crederlo con la stessa convinzione con cui lo credi tu.
Vorrei che Dio assolvesse i miei peccati con la stessa facilità con cui lo faresti tu.
Dovresti essere tu, Dio. Saresti un dio giusto ed equo.
Hinedia si perse nei suoi occhi e non riuscì a controllare le lacrime che iniziarono a uscirle dagli occhi senza freno.
Judith le strinse la mano tra le sue, sorridendole rassicurante. – Non devi temere, con me. Non dirò nulla. Tuttavia, prima o poi, voglio che mi dici cosa è accaduto quella notte con Dun Rolland.
Hinedia annuì energicamente. – Te lo prometto. Prometto che te lo dirò, a tempo debito.
Non sapeva se sarebbe riuscita a mantenere quella promessa, ma, nel frattempo, era un inizio.
Judith le avrebbe lasciato tutto il tempo di cui aveva bisogno. Non l’avrebbe forzata.
Si scambiarono un ultimo sorriso complice, di intensa comprensione e solidarietà; poi Hinedia si rialzò non appena vide la figura di padre Craig avvicinarsi.
- Padre – lo salutò cordialmente.
- Signorina Hinedia – ricambiò lui, accennando un sorriso forzato, fievole e stanco.
La notizia del suicidio di Folker aveva scosso tutti, in un modo o nell’altro.
Hinedia si congedò da entrambi e raggiunse l’uscita della cattedrale.
Dopo di che, fu padre Craig il terzo “ospite” a prendere posto accanto a Judith.
Un sospiro profondo e spossato da parte dell’uomo ruppe il silenzio tra i due.
- Come vi sentite? – le domandò, dimostrando per l’ennesima volta la sua premura nei confronti della fanciulla, nonostante egli stesso stesse morendo dentro.
- Non domandatelo, padre. C’è chi sta molto peggio di me, al momento.
Dicono che il giovane servo del Creatore che l’ha trovato, il suo amico, stia dando segni di follia, là fuori. È fuori controllo. Quel ragazzo… sapeva ciò che Myriam e padre Cliamon stavano facendo col corpo del suo amico? – gli domandò, dando come per scontato che padre Craig sapesse la risposta a tale domanda.
- Sì. Sì, lo sapeva. Lo ha aiutato e gli è stato accanto… per tutto questo tempo – ammise padre Craig, la voce ridotta ad un sussurro dolorante.
- Quel ragazzo è stato distrutto, deturpato sotto ogni punto di vista, padre, da chiunque in questo villaggio.
Ciò che è accaduto a lui non dovrà mai ripetersi. Mai – disse la ragazza, solennemente.
- Vorrei poter credere che non si ripeterà mai davvero, Judith. Lo vorrei con tutto il cuore – rispose amaramente.
Trascorse qualche attimo di silenzio.
- Non vi ho chiesto come sia andata la Festa di Beltane.
Padre Craig ammutolì. Judith lo notò.
- Sapete, anche Imogene era presente.
Padre Craig la guardò sconvolto. – Dite davvero..? E perché?
- Non lo so e non mi importa, padre.
- Sapete.. sono abbastanza certo che Imogene non gradisca affatto la mia presenza qui.
Judith sorrise con un pizzico di sarcasmo. – Imogene non gradisce la presenza di nessuno che non le sia direttamente utile a qualcosa. O che soddisfi i suoi piaceri, corporei o visivi.
Ad ogni modo, sapete che siete sempre il benvenuto qui, malgrado il pensiero di Imogene. Vi ospiteremo volentieri fin quando lo vorrete.
Tuttavia, se sentite di volervene andare, non ve lo impedirò, certamente – gli disse con naturalezza.
- Non capisco.. mi state implicitamente mandando via?
- Non vi sto mandando via. Vi sto solo dicendo di risolvere le questioni che avete in sospeso.
La vita è sin troppo breve, padre, per permettersi di nutrire inutili rancori e risentimenti.
Un ragazzo di soli quattordici anni e una ragazza di diciannove si sono tolti la vita questa mattina.
Sicuramente neanche la metà delle persone che erano loro accanto avranno avuto modo di confessare loro quanto li amavano, o qualsiasi altra cosa avrebbero voluto dirgli.
Non avranno vissuto lontanamente neppure la metà dei piaceri e dei dolori della vita.
Se ne sono andati all’improvviso, inaspettatamente, dolorosamente, lasciando i loro cari in un oblio di cose non dette, di sentimenti inespressi, di occasioni perdute.
Non commettete lo stesso errore.
Il giovane prete non stava capendo cosa Judith stesse cercando di dirgli, o meglio, si ripeteva di non star capendo.
La ragazza lo guardò, rivolgendogli uno sguardo che lo fece sciogliere per la profondità e per la comprensione che emanava:
- Siete in collera l’uno con l’altro.
Ma da quanto? Ricordate ancora il motivo per cui siete arrabbiato con lui o per cui lui vi ha cacciato via di casa?
Ho intravisto dai vostri occhi il profondo legame che vi lega a Blake.
Dovreste andare da lui e parlargli, una volta per tutte.
So che state attendendo che sia lui a presentarsi a voi, per scusarsi, ma non lo farà.
Forse, in determinati casi, sarebbe bene mettere da parte l’orgoglio e fare il primo passo.
Sono certa che, se andrete da lui, lui vi riaccoglierà in casa.
- Non immaginate neanche quante volte io abbia messo da parte l’orgoglio per lui…
- C’è una cosa che dovete sapere – gli disse, attirando ancor di più la sua attenzione. – Ieri, Hinedia mi ha detto che Quaglia è temporaneamente ospite a casa sua, al momento.
- Quaglia..? A casa di Hinedia?? Per quale motivo? Quaglia è sempre rimasto ospite da Blake – disse confuso.
- Me lo sono chiesta anche io.
Dalle parole di Quaglia, sembra che Blake, preso da uno stato di delirio, gli abbia letteralmente ordinato di non dormire in casa per alcune notti.
Pare voglia a tutti i costi restare da solo in quella casa, e non c’è stato verso per Quaglia di convincerlo del contrario; ci ha provato ma non ha avuto alcun successo, ed è stato costretto a fare come gli è stato detto, ad andarsene via. Per tal ragione ha chiesto momentaneamente ospitalità a casa di Hinedia e dei suoi genitori.
- Uno stato di delirio..? Che significa? – domandò padre Craig iniziando a preoccuparsi.
- Io e Blake ci siamo scambiati delle lettere nel corso delle ultime settimane.
Sentivo che qualcosa non andasse. Nell’ultima lettera che ho ricevuto da lui, mi ha detto che non avremmo potuto continuare a scriverci perché “non era più se stesso” e “non riusciva più a distinguere la realtà dall’allucinazione” – gli confessò. – Tali parole mi hanno allarmata, non ve lo nego. Una persona che pronuncia cose simili deve essere giunta ad un punto di non ritorno, alle soglie dell’irrecuperabile. Io… non posso fare nulla per aiutarlo. Neanche Quaglia può. Ma forse voi potete.
Vi conosce da più tempo, padre. E anche se non credete di significare molto per lui, sono certa vi sbagliate. Siete una persona fidata per chiunque vi stia accanto e io ne sono una prova: mi avete sempre sostenuta e aiutata, da quando ho perso la memoria, in ogni modo possibile. Forse il vostro intervento potrebbe aiutarlo a tornare in sé – terminò la ragazza, posando nuovamente lo sguardo sul giovane prete, il quale teneva gli occhi bassi. Era in evidente stato di confusione e preoccupazione, ma al tempo stesso anche combattuto.
Judith comprese che, se avesse avuto la speranza di poterlo aiutare anche solo minimamente, non si sarebbe mai tirato indietro.
- Suo padre è appena morto, sua madre è scappata, suo fratello è sparito. Oltre a ciò, i monaci gli stanno col fiato sul collo qualsiasi cosa faccia, un potente tiranno straniero lo sta cercando in lungo e in largo, e, come se non bastasse, i traumi passati del suo viaggio fuori da Bliant lo tormentano da quando è tornato. Tutto ciò è troppo persino per lui, lui che vuole far credere a tutti di essere immune e indifferente a qualsiasi cosa. Non lo è. Non lo è affatto – le spiegò padre Craig, realizzando tutto ciò egli stesso. - Andrò da lui – disse con decisione. – Tornerò a casa. Tornerò e ci resterò, anche se lui non dovesse volerlo.
Judith gli sorrise, fiera di lui. – Mi piacete così, padre.
- Tuttavia, sappiate che mi mancherete.
- Anche voi, mi mancherete. Ma ci vedremo comunque, non temete.
- Potete starne certa, mia amata Judith – le garantì, baciandole la mano con dovizia e reverenza. – Vi ringrazio. Per tutto.
- Non ringraziatemi. Spero che riuscirete primariamente ad aiutarlo e a salvarlo da se stesso, poi che vi riappacificherete con lui.
- Lo spero anche io, cara. Lo spero anche io – concluse alzandosi in piedi e dirigendosi verso le sue stanze, per mettere tutte le sue cose dentro una sacca.
Dopo qualche minuto, Judith venne raggiunta da un’ennesima “ospite”.
Il miagolio la raggiunse a metri di distanza, allietandole lo spirito.
Nellie saltò sulle sue gambe senza complimenti, iniziando a farle le fusa senza nemmeno essere accarezzata.
Judith le poggiò delicatamente una mano sul musetto, e la micia rimase in quella posizione, sotto la sua protezione.
- Sembra che dovremmo dividerci, mia piccola, dolce compagna.
Siamo rimaste solo noi due, eh?
 
Quando padre Craig raggiunse la casa che lo aveva ospitato per mesi e in cui aveva vissuto il suo cambiamento in un uomo diverso, non esitò neanche un momento prima di bussare alla porta.
Come immaginava, nessuno gli aprì. A ciò, raggiunse la finestra che dava alla cucina, la aprì ed entrò da lì.
L’abitazione appariva come disabitata.
Alcune ragnatele si annidavano sugli spigoli dei muri, il camino era pieno di cenere, il tavolo e altre superfici coperti da un lieve strato di polvere.
Varcò il soggiorno e si diresse verso il corridoio: sapeva dove trovarlo.
Aprì la porta, fortunatamente non sigillata, che portava alla fucina sotterranea, iniziando a scendere le scale.
Le sue narici vennero immediatamente invase da un odore strano, molto forte, che non aveva mai sentito, nemmeno nella fucina.
Non era metallo, non era acido, non era solo carbone.
Era un particolare odore di bruciato. Bruciato e … qualcos’altro che, per quanto si sforzasse, non riusciva a riconoscere.
Terminò di scendere la scalinata, trovando l’oggetto della sua agognata ricerca in piedi, che gli dava le spalle.
Se ne stava di fronte ad un grosso vaso nero, dal quale proveniva quell’odore insopportabile, con la fornace perennemente accesa che lo illuminava obliquamente.
- Sapevo che vi avrei trovato qui – le sue parole furono in grado di far sussultare il ragazzo, il quale, stranamente, non si era accorto della sua presenza.
Solitamente Blake aveva un udito e una recezione particolari alla vicinanza delle persone. Il fatto che non si fosse accorto che qualcuno fosse entrato indisturbato nella fucina, fece comprendere a padre Craig quanto fosse estraniato e alienato dalla realtà.
Nonostante il lieve sussulto, Blake non si girò verso di lui, continuando a dargli le spalle. - Andatevene via di qui – disse laconico.
Nessun preambolo, nessuna reazione di sorpresa, nessun “cosa ci fate qui?”; bensì una richiesta precisa, un ordine impartito.
- No. Non ho intenzione di andarmene – gli rispose padre Craig, ostentando una decisione e un’autorevolezza che non credeva di avere.
- Questo è più grande di noi due, padre. Più grande di me e più grande di voi. Fareste meglio a fare come dico se volete uscire vivo di qui.
- Trovo difficile che esista qualcosa di più grande di voi e del vostro ego.
Blake non venne toccato da quella piccola offesa, né dal suo tono pungente. - Credete sia un capriccio, un gioco?
- Credo semplicemente che l’unico in grado di farvi davvero del male, siete voi e voi soltanto. Dunque, se c’è davvero qualcosa di pericoloso qui, che dovrei temere per la mia incolumità, quel qualcosa è la vostra spericolatezza e la vostra cieca ambizione.
Blake sorrise, di un sorriso delirante e amaro che il giovane prete poté solo udire. – Credete sia solo questo. Credete sia tutto nella mia testa. Un seme della follia che posseggo solo io e che mi distruggerà, così come distruggerà quelli che mi sono accanto.
- Ora siete in voi, no? Se avete coscienza della realtà in questo momento, potete anche spiegarmi cos’è questo qualcosa che vi sta spingendo ad isolarvi per autoannientarvi – tentò il prete, ora con un tono più accomodante.
- Non so cosa sia. Ora che avete la vostra risposta, andatevene.
- Non volete sapere perché sono qui? Sono giorni che non ci vediamo, da quando voi mi avete cacciato via.
- Vi ho appena detto che quello che sta succedendo qui è più grande di me e di voi, e voi avete l’ardire di chiedermi se voglio sapere perché siete qui? – gli domandò il ragazzo, la rabbia repressa dentro la voce. Si voltò finalmente a guardarlo, donandogli la visione tanto mancata del suo viso.
Disgraziatamente, come ogni volta, padre Craig lo trovò più bello che mai.
Come potesse esserlo così tanto, seppur con il seme del delirio e dell’insania che gli brillava negli occhi, padre Craig non seppe spiegarselo.
Aveva l’aspetto di una divinità in cattività, esiliata, allucinata e perduta, nelle ombre della propria mente corrotta e nella dannazione.
Blake girò intorno all’enorme recipiente che emetteva fumo nero, fin quando questo non fu tra di loro.
- Mi sono raccomandato con Quaglia di non mettere piede qui dentro per almeno tre giorni, per nessun motivo al mondo.
Vi ho cacciato di casa, siete stato lontano per giorni, acquietandovi nella vostra quotidianità con Judith.
Per quale motivo, proprio oggi, il giorno meno adatto, avete deciso di manifestare la vostra presenza qui? – gli domandò inviperito, bucandogli lo sguardo con i suoi occhi.
- Perché voglio parlarvi.
- Vi sembra il momento?
- Se avessi aspettato ancora, non avrei più potuto farlo, considerando ciò che state facendo qui questa notte. Avete intenzione di uccidervi, Blake?
A ciò, il ragazzo fece una mossa che il giovane prete non si sarebbe mai aspettato.
Tirò fuori un elegante pugnale affilato dal bordo dei pantaloni, e lo alzò, puntandoglielo contro, a distanza.
La lunga linea del braccio teso e perpendicolare sembrava un tutt’uno con l’arma che impugnava.
- Andatevene via di qui – gli ripeté.
- Altrimenti cosa farete? – gli domandò il prete, cercando di far risultare la propria voce ferma. – Mi ucciderete? Questo non siete voi.
- Oh, posso garantirvi che sono proprio io, invece – rispose Blake, rinforzando la presa sul pugnale. - Andatevene.
- Perché? Perché devo andarmene?
- Perché, se resterete qui, potreste morire.
- Potreste morire anche voi.
- Di me non mi importa. Di voi sì.
Il cuore del giovane prete si scaldò oltremodo in seguito a quelle parole che uscirono con tanta naturalezza dalle labbra serafiche del ragazzo.
- Per questo avete vietato a Quaglia di mettere piede in casa? Per proteggerlo da quello che avreste fatto stanotte? – dedusse padre Craig. – Cosa state facendo, Blake? Ditemelo. A cosa appartiene questo odore soffocante?
- È la polvere nera – gli rivelò il ragazzo.
- La… la polvere nera…? – balbettò padre Craig, sconcertato. – Ne avete scoperto la formula…? Non posso crederci..
- Credo sappiate già quanto sia catastroficamente pericolosa, e quanto sia rischioso usarla.
Sto affinando le mie tecniche. Sto scoprendo come usarla per fare del bene.
- Blake, è troppo pericoloso. Bisogna essere lucidi per maneggiare armi di tale portata… potrebbe saltare in aria l’intera casa!
- Non osate dire altro.
Sono a conoscenza dei pericoli che corro. Se dovesse disgraziatamente accadere qualche incidente imprevisto, sarei solo io a rimetterci la vita, dentro questa casa vuota.
Sapete già che non vi ascolterò, perciò ve lo domando una volta sola: per quale motivo siete ancora qui?
- Per quale oscura ragione parlate in modo tanto sconsiderato e superficiale della vostra stessa vita??
- Parlate come se non mi conosceste. Ho mai fatto diversamente?
- Rispondete alla domanda.
- Non lo so! Ed ora andate via di qui!
- “Non lo so” non è una risposta! Vi disgusta così tanto continuare a vivere??
- Tanto sono morto ugualmente!
- Cosa…? – chiese spiegazioni padre Craig, incredulo, avvicinandosi di qualche passo nonostante l’odore paralizzante della polvere nera nell’enorme recipiente in mezzo a loro.
- Sono morto in ogni caso! – ripeté il ragazzo, ridendo disilluso, privo di qualsivoglia istinto di sopravvivenza.
- Perché dite così?
- Me lo hanno detto. Tante, innumerevoli volte. Ormai è inciso nella mia mente, so che accadrà, in un modo o nell’altro.
- Non accadrà se mostrerete un minimo di spirito di autoconservazione e permetterete agli altri di aiutarvi! Se vi affidaste minimamente anche al vostro Signore, forse persino lui vi aiuterà! Il Creatore mi ha sempre aiutato nei momenti di difficoltà, sono certo che anche il Diavolo lo farebbe, se confidaste nel suo potere.
- Oh, con che coraggio! – esclamò il ragazzo, ostentando un sorriso astioso e stralunato che agghiacciò il prete. Inclinò il busto in avanti e si aggrappò con le mani ai bordi del recipiente, per farsi leva e sporgersi lievemente. - Il “fedelissimo” servo di Dio, votato a lui, che aiuta i bisognosi e non pecca in nulla. La sua anima è immacolata dinnanzi al Creatore che tanto venera!
Vi ho visto alla Festa di Beltane, sapete?
Per quel poco che sono riuscito a restare in me, mi è parso foste in compagnia di diverse bellissime donne.
Tali parole fecero impietrire il giovane prete, il quale realizzò immediatamente:
C’eravate anche voi alla Festa di Beltane.
Vi ho cercato, e ho creduto che non foste lì.
Invece eravate nello stesso luogo in cui ero io. Ma io, come uno stolto, non vi ho visto.
Quella notte… vi siete lasciato toccare e saggiare dai piaceri della carne come ho fatto io?
Lo avete fatto a distanza ravvicinata da me forse?
Ma io… io come ho fatto a non vedervi?
Io che vi guardo sempre e ovunque, in qualsiasi luogo siate.
- Quello è stato un errore – si giustificò, con voce rotta e incerta.
- Oh, certo, un errore, immagino.
Osate dare lezioni di fede a me, quando voi siete il primo ad avere un rapporto funesto e tormentato con il vostro dio.
Io non ho nulla in cui credere e nessuno a cui rendere conto, a differenza vostra.
Fareste bene a tenerlo a mente sempre, d’ora in avanti, padre.
- Voi cosa avete fatto a Beltane? – quella domanda gli era uscita dalle labbra senza che potesse controllarla, nonostante sapesse di non avere alcun diritto di chiederglielo.
- Volete sapere cosa ho fatto io, quella notte? – ripeté la domanda il ragazzo, facendogli bruciare ancor di più sottopelle l’ardente desiderio di scoprire chi lo avesse toccato, e come. – Le ho viste. Le ho sentite. Mi sono entrate nella mente e non sono più uscite. Ho subìto il tormento di uno stato di irrealtà per l’intera nottata. Non ho fatto, non ho visto, non ho udito quasi niente, se non lievi sprazzi di ciò che era intorno a me – gli rispose il ragazzo, fuori di sé, inquieto e inquietato, agghiacciato al solo ricordo.
- Avete avuto delle visioni anche quella notte…? – domandò padre Craig incredulo. – Blake, ascoltatemi. Siete vittima di un terribile avvelenamento da mercurio. In voi non c’è nulla che non va. Dobbiamo solo trovare un modo per disintossicarvi e guarirete…
- Come fate ad essere così ingenuo? Dopo tutto questo tempo??
- Avete bisogno di aiuto.
- Io non ho bisogno di niente.
- Per quanto strenuamente lo ripeterete, non riuscirete mai ad autoconvincervene, né a convincere me! Avete bisogno dell’affetto di vostro fratello, avete bisogno dell’amore di Judith, avete bisogno della fratellanza di Quaglia, della comprensione di Hinedia. Avete bisogno della mia amicizia.
Avevate bisogno anche della solidarietà di vostro padre, ma non lo ammetterete mai e poi mai – ebbe il coraggio di dirgli. – So quanto vogliate scavare, creare, scoprire ciò che non è lecito scoprire, spingervi oltre i limiti della conoscenza e comprensione umana. Ma quello che state facendo questa notte deve essere fermato.
- Come credete di riuscire a fermarmi, padre? – lo sfidò, diabolico, nonostante le parole di poco prima non lo avessero lasciato del tutto indifferente.
- Dovrò chiamare qualcuno – rispose incerto, provocando le risa del ragazzo.
- E chi vorreste mai chiamare?? Vi ho già detto di andare via di qui. Per quale motivo non volete ascoltarmi??
- Perché i vostri tentativi di ottenere ciò che non potete ottenere sono tutti inutili e dannosi! Vi porteranno alla rovina! Siete un’anima senza pace, Blake! Per quale dannato motivo non volete nemmeno tentare di smettere di fare tutto questo?!
- Non posso smettere e non voglio farlo!! – esclamò, bloccandosi immediatamente e cambiando espressione. A guardarlo dall’esterno, sembrò che qualcosa o qualcuno gli fosse appena entrato nella testa.
Padre Craig lo osservò, allarmato. Si rese conto che Blake non lo vedeva, che non riusciva a vedere più niente di ciò che lo circondava, nonostante avesse gli occhi aperti.
Padre Craig lo richiamò, senza successo.
Blake si infilò le mani tra i capelli e se li strinse, emettendo una smorfia contorta, di dolore misto a orrore.
- Non so come aiutarvi… io non so come aiutarvi! – esclamò il prete in preda al panico e, improvvisamente, gli tornarono alla mente le tremende immagini del suo incubo di qualche settimana prima, immagini in cui Blake veniva legato, esorcizzato e torturato esattamente come era stato fatto a Leah.
Si avvicinò finalmente a lui, annullando i metri di distanza che li dividevano, incurante della reazione del ragazzo: in ogni caso, nello stato in cui era, non poteva né vederlo né udirlo.
Era come fosse in un’altra dimensione, al di là del mondo terreno, impegnato a vedere cose che nessuno riusciva a vedere oltre lui.
Padre Craig gli prese i polsi tra le mani con delicatezza, carezzandoglieli col pollice, come avrebbe fatto con un bambino.
- Per favore… torna da me.
Torna da me – lo pregò, sull’orlo delle lacrime.
- Non puoi farmi questo – continuò, ogni parola che gli usciva dalle labbra era come un macigno in meno da portare sulle spalle. – Io ti amo – lo aveva detto ad alta voce. Per la prima volta in vita sua. Si lasciò andare, liberandosi di quel peso insostenibile, abbassando ogni difesa. – Ti amo. Ti amo e sempre ti amerò. E se tu dovessi sparire dalla faccia di questa terra… io non saprei più come continuare a vivere.
Non mi sente.
Non mi vede.
Non mi sente e non mi vede.
Se solo riuscisse ad udirmi… mi odierebbe, mi rinnegherebbe e mi ordinerebbe di stargli il più lontano possibile.
Ma lui non mi vede e non mi sente.
Si accorse di stargli stringendo i polsi troppo forte e di avere il volto completamente rigato dalle lacrime solo quando una terza voce fece il suo ingresso, ridestandolo con stupore:
- Allontanatevi, padre.
Avete fatto tutto quello che avete potuto.
Il vostro intervento qui non è più richiesto.
Lasciatelo nelle mie mani ora – quella voce conosciuta, così insolitamente premurosa, eppure autoritaria, lo spinse a voltarsi verso di lei, individuando la sua sagoma, dritta e apparentemente impassibile, in piedi accanto alla scalinata.
- Myriam…? Cosa ci fate qui? – le domandò, guardandola come si guarda l’arrivo di un angelo.
Non gli importava minimamente se lei avesse udito la sua dichiarazione d’amore inascoltata. Nulla di tutto ciò importava.
La sua priorità, al momento, era solo l’incolumità di Blake. Sapeva, sentiva che Myriam poteva aiutarlo.
La strega si avvicinò, non smettendo mai di guardare il ragazzo verso cui nutriva un affetto senza pari, immenso quanto era immenso il cielo e il mare, padre Craig glielo lesse negli occhi, profondi, scuri e materni. Il prete si fece da parte, allontanandosi e permettendo a lei di avvicinarglisi al suo posto.
- Blake, mio caro – lo richiamò lei, con estrema calma e gentilezza, ogni sua parola rilasciava amore incontaminato. – Mi hai chiesto di farmi da parte. Di restare fuori da ogni questione ti riguardasse. E io l’ho fatto. Con difficoltà, ma l’ho fatto, rispettando la tua richiesta, non intervenendo né avvicinandomi a te. Ma ora è il momento di infrangere questa tacita promessa: sei giunto sul bordo di un dirupo, caro. Un altro passo falso… sancirà la fine. Non posso restare a guardare, lo comprendi?
Sembrò che la magia di Myriam avesse sortito qualche effetto, in quanto il ragazzo parve udire le parole di lei, e ritirarsi indietro di conseguenza. Indietreggiò, mentre Myriam continuava ad avanzare adagio verso di lui.
- Vattene… - sibilò Blake, sentendola avvicinarsi, ma non vedendola pienamente. Ebbe la lucidità di tirare nuovamente fuori il pugnale e di puntarglielo contro con decisione.
La punta affilatissima dell’arma toccò il petto di Myriam, la quale rimase immobile e non mostrò alcuna esitazione, né alcun segno di paura.
- Hai già attirato sin troppo l’attenzione dei monaci. Ti stanno col fiato sul collo, Blake, da un po’. Se continuerai così la situazione si farà seria, e neanche la mia influenza, né quella di Judith, serviranno a salvarti – lo ammonì con calma e decisione.
- Vattene! – urlò lui, continuando a mantenere il braccio ben teso e l’arma puntata su di lei.
- Mio amato bambino.. cosa ti affligge? Dillo a me, e ti prometto che ogni tua pena svanirà nel nulla così come è apparsa.
- Non c’è nulla che mi affligge – lo disse guardandola negli occhi, la lucidità era tornata in lui, chissà per quanto.
- Io sono uno dei molteplici motivi per cui sei afflitto e adirato. Puoi confessarlo.
- Pensi di contare ancora qualcosa per me? Un tempo, sicuramente. Ora non sento niente nei tuoi confronti.
La freddezza con cui lo disse, scandendo bene ogni parola, fu talmente definitiva e tagliente, che lasciò padre Craig allibito. Provò pena per Myriam.
Ma questa sembrò nascondere bene il modo in cui quelle parole la afflissero. – Perché mi odi? – gli domandò schietta.
- Io non ti odio, Myriam.
Io non voglio niente da te.
Voglio che mi lasci in pace. Voglio che ognuno di voi mi lasci in pace, dimenticandosi di me.
Voglio che i monaci si dimentichino di me, voglio che quel maledetto conte si dimentichi di me.
Vorrei che il Giudice non mi avesse fatto quello che mi ha fatto. E nonostante tutto, vorrei non sentirmi così in colpa per averlo mutilato e ridotto in fin di vita.
Vorrei che Ephram e Selma non si fossero uniti a me.
Vorrei che Judith non mi avesse chiesto di stringere un accordo con lei. Vorrei non averle mentito, fingendomi uno sconosciuto.
Vorrei non aver mai scoperto della polvere nera, vorrei non aver provocato la perdita di memoria di un uomo, strappandolo via alla sua vita.
Vorrei che mio fratello fosse nato sano e in salute, vorrei non essere il figlio di mia madre, vorrei che mio padre… - si bloccò con voce strozzata, un nodo alla gola gli impedì di continuare.
- Vorresti che tuo padre…? – lo incoraggiò Myriam.
- Vorrei che mio padre non fosse uscito di casa quella notte. Vorrei che fosse rimasto accanto alla sua famiglia, per una volta. Vorrei che fosse ancora qui.
E voi… - concluse il ragazzo, voltando lo sguardo verso padre Craig questa volta, a distanza, facendolo paralizzare. – Vorrei riuscire a mostrarvi il rispetto che meritate e desiderate da me. Vorrei essere in grado di non allontanarvi da me ogni volta che vi avvicinate, senza sentire l’esigenza di spingervi a tornare da dove siete venuto. Vorrei credervi capace di vivere in questo inferno. Ma non lo siete. Siete troppo buono per Bliaint. E lo siete anche per me. Vorrei non fuggire da voi, ma non ci riesco.
Padre Craig si ritrovò a bocca aperta, senza parole, né voce, né respiro.
- Alcune di queste cose non si possono cambiare… – intervenne nuovamente Myriam, riportando la sua attenzione su di lei, mentre afferrava la lama puntatale contro e la abbassava adagio, riprendendo ad avvicinarsi. – Altre sì, Blake. O, almeno, puoi provarci.
- Credi non ci abbia già provato...? – la sua voce era dolorosa da sentire. – Io non sento più niente. Non sento niente da quando… - il ragazzo si bloccò ancora, tornando nello stato di trance di poco prima, isolato nella propria mente.
- Padre Craig, andatevene subito di qui – gli ordinò a gran voce Myriam, continuando a tenere gli occhi sul ragazzo.
Il prete, ancora non ripresosi dalle parole udite poco prima, fece fatica a metabolizzare.
- Non capisco… - le rispose.
- Andatevene immediatamente.
Stava facendo esperimenti con la polvere nera, questo posto sta diventando pericoloso! Non voglio avere anche la vostra morte sulla coscienza nel caso accadesse qualcosa!
Blake è vittima di un grave avvelenamento da mercurio e forse anche da qualcos’altro.
Lo guarirò, ma mi serve tutta la forza e la concentrazione che riesco ad ottenere!
Ora uscite subito!
Padre Craig si fidò di lei senza remore e fece subito come gli era stato detto, uscendo dalla fucina e lasciandoli soli.
Blake fece aderire la schiena al muro e ci si addossò, come se volesse diventare un tutt’uno con la parete, pur di non avvicinarsi a lei, nonostante le allucinazioni avessero oramai preso il sopravvento nella sua mente.
Myriam cercò di riportarlo alla realtà con il suo potere, riuscendoci in parte. – Blake, ascoltami. Devi collaborare o sarà immensamente doloroso per entrambi: per me, che ti guarderò soffrire, e per te che attraverserai pene mai attraversate prima – si raccomandò lei afferrandogli le mani con forza, nonostante lui provasse a ribellarsi alla sua presa.
- No! – iniziò a delirare. – No, non farlo!!
- Blake!
- Non usare su di me la tua maledetta magia, strega!  Ti ho già proibito di farlo!
- Non posso fare altrimenti!
- Tu mi farai dimenticare tutto quello che so, mi farai diventare qualcuno che non sono!
- No, non farò niente di tutto questo, te lo prometto! Non ti toglierò nulla dalla testa, rimarrai te stesso!
- No!! Bugiarda!! Sei una bugiarda!! Non infilare le mani nella mia mente! Sta’ lontana da me!!
Oramai era fuori controllo e doveva fare in fretta.
Non immaginava che la situazione fosse tanto grave.
Myriam, con tutta la forza che aveva in corpo, potenziata anche dalla magia, gli afferrò le braccia e lo attirò a sé, nonostante il ragazzo fosse più alto e prestante di lei.
Egli continuò a fare resistenza, ma non poté nulla contro la sua magia.
- Myriam, no!! Ti prego!! Ti prego, non farlo!! – quando iniziò persino a supplicarla, qualcosa che il ragazzo non aveva mai fatto in vita sua con nessuno, Myriam tentennò per un attimo, distrutta mentalmente e fisicamente. Quello che aveva davanti non era lui, eppure lo era in una maniera contorta e sbagliata.
Poi, in un momento di incontrollata furia, il ragazzo urlò qualcosa che la agghiacciò:
- Se lo farai non avrò più niente, non crederò più in niente, non sarò più niente!! Sarò morto anche se non lo sarò! E allora sarai tu a dovermi dire quando il mio respiro si fermerà!!
Doveva agire, e in fretta.
Sapeva sarebbe stato il rito più difficile di tutta la sua vita, tanto che non era affatto certa sarebbe riuscita a portarlo a termine incolume.
Se fosse morta nel tentativo di guarire colui che amava come un figlio, non le sarebbe importato, purché lui fosse salvo.
Si inginocchiò a terra e trascinò anche lui con lei.
Chiese al Signore la forza necessaria per compiere ciò che andava compiuto, poi gli prese la testa tra le mani e iniziò ad esercitare tutta la magia che aveva in corpo, evocando uno dei più potenti incantesimi che aveva appreso negli ultimi tempi.
- NO!!! No, no, no, no, no!!! – gridò lui, completamente fuori di sé, mentre tentava di ribellarsi, di allontanarsi e di sfuggire alle mani della strega, inutilmente.
Iniziò a ribellarsi come un dannato tra le fiamme più profonde dell’inferno, rendendo il compito quasi impossibile a Myriam, la quale pianse lacrime amare, mentre continuava il suo operato.
L’ultima volta che aveva pianto, la strega non la ricordava neanche.
Gli stava entrando nella testa, esattamente come aveva detto, cercando di cacciare via quell’infezione tossica, insieme a tutto il buio e al male che lo stava affliggendo e lo aveva reso delirante come un diavolo inviperito.
Quel veleno si era impigliato ai suoi traumi, alle sue più celate paure, alle sue volontà e ambizioni, alle sue credenze ed emozioni, diventando un tutt’uno con esse.
Ma Myriam iniziò a credere che nulla di ciò che stava facendo avrebbe funzionato, dal momento che il ragazzo soffriva, scalpitava e urlava tra le sue braccia talmente forte che se, disgraziatamente, qualcuno fosse passato nel retro dell’abitazione e lo avesse udito, avrebbe creduto che qualcuno lo stesso torturando nel peggiore dei modi.
E forse era davvero così.
La voce del ragazzo, per quanto resistente, non riuscì a sopportare l’intenso sforzo vocale, tanto che divenne gracchiante e rauca.
Lo vide piangere fiumi di lacrime per il dolore mentre urlava, nell’incoscienza, lui che non piangeva mai esattamente come lei.
Myriam si era quasi dimenticata di quanta energia avesse in corpo quel ragazzo, e ne prese ben consapevolezza nel momento in cui egli riuscì a sfuggirle nonostante la potente magia che gli impediva i movimenti e gli immobilizzava il corpo: Blake scosse la testa con violenza inaudita, le artigliò i polsi e li allontanò dalla propria testa, per poi morderle con forza le dita, facendole emettere un maltrattenuto verso di dolore; poi strisciò via, non riuscendo comunque a rimettersi in piedi a causa del dolore atroce che ancora provava alla testa e che gli pietrificava le membra.  
Cercò di sfuggirle in ogni modo, come avrebbe fatto una qualsiasi belva selvaggia incatenata e maltrattata.
Esercitare una tale violenza, essere costretta ad usare in tal modo la sua potente magia su di lui, forzandolo contro la sua volontà, la stava distruggendo interiormente, fino a lasciarla senza forze.
Ma perseverò, perché doveva, e perché, se non lo avesse fatto, sarebbero morti entrambi lì dentro molto probabilmente.
Raccolse tutte le energie necessarie per tenerlo a bada, chiedendo nuovamente aiuto al suo Signore, invocando anche il potere delle prime e più antiche streghe.
 Lo raggiunse nuovamente nonostante i tentativi di lui di scappare, e tornò in contatto con la sua mente, riprendendo il rituale.
Quando il dolore raggiunse una soglia troppo alta di sopportazione per Blake, questo smise di urlare e di ribellarsi, divenendo un burattino nelle sapienti mani della donna, al pari di un vegetale; tanto che Myriam iniziò a temere di essere andata troppo oltre.
Non era saggio maneggiare la mente di un essere umano.
Era un gioco pericoloso e proibito, in tutti i libri di magia che aveva letto, condannato al pari dei rituali di resurrezione.
Non lo aveva mai fatto prima, ma la sua forza di volontà e la sua abilità nelle arti magiche le permisero di compiere quel miracolo e di maneggiare la mente del ragazzo come fosse creta tra le sue mani, con un solo tocco.
Quando riuscì ad assorbire e a distruggere tutto il buio, il male e il veleno che lo infettava, era notte fonda.
Blake le svenne tra le braccia, come un corpo morto; e lei, come la madre doviziosa e devota che era sempre stata con lui, lo sdraiò e lo resse a sé, nonostante la stanchezza e l’assenza di forze.
Il suo compito era stato portato a termine.
 
Quando il ragazzo riaprì gli occhi, la fornace era spenta e il sole era già alto in cielo, e filtrava dalla finestrella in cima alla fucina.
Si era accorto che non era stato lasciato solo, neanche per un istante, quella notte.
La sua testa doleva terribilmente, reduce dell’atroce rito subìto qualche ora prima, svuotata di qualsiasi cosa. Tuttavia, sentiva di essere ancora se stesso.
Un tocco, una mano dolcissima, gli carezzava la tempia e i capelli ripetutamente, spostando delicatamente le ciocche ingombranti.
Si rese conto di essere sdraiato a terra, la sua testa era adagiata sulle gambe piegate e inginocchiate di Myriam, la quale aveva vegliato su di lui fino al suo risveglio.
Alzò gli occhi verso l’alto, sopra di sé, e notò il bel volto di lei, al contrario, che lo osservava a sua volta, intonando una leggera litania a bocca chiusa.
La morbida pelle scura del volto della strega era rigata di lacrime fresche. Gli occhi scuri erano estremamente stanchi, ma anche sollevati, ricolmi di un amore spaventoso, e profondi come un pozzo senza fine.
- Le tue labbra hanno cominciato a diventare blu – esordì la donna con voce calma, continuando a carezzargli la tempia e la guancia, guardandolo dall’alto. – Non ti muovevi. Sembrava non respirassi neppure. Ho iniziato a credere di…
- Di avermi ucciso? – la voce solitamente calda e limpida del ragazzo, uscì fuori sottoforma di gracchio roco, e la causa non era imputabile solamente al fatto che fosse appena sveglio, lo sapeva bene: non ricordava quasi nulla di quei tremendi momenti di delirio, in cui la strega gli era entrata nella testa, provocandogli una sofferenza continua, implacabile e necessaria; tuttavia, sapeva di aver urlato di dolore, inumanamente, fino a sgolarsi.
- Hai dovuto farlo – continuò Blake, nonostante la poca voce. Lo riconobbe, glielo concesse, ringraziandola implicitamente, e non appena lo disse, vide il volto di Myriam rilassarsi visibilmente.  
- Se senti un forte dolore alla testa è del tutto normale. Passerà in poche ore – lo informò lei. – Non ero sicura sarebbe andato tutto bene. Non lo ero affatto.
- Invece ce l’hai fatta.
- Sì. Ma non ti farò mai più una cosa del genere, Blake. Non mettermi mai più nella condizione di doverti fare una cosa simile. Puoi promettermelo…?
La sua era una supplica, affatto celata.
Il ragazzo annuì, non distogliendo mai gli occhi da quelli di lei.
Percepì tutto l’amore che gli stava trasmettendo, tramite le carezze, tramite i suoi occhi, tramite il suo sguardo e semplicemente il suo tocco.
Si domandò come avesse fatto, a fare a meno di quell’amore, quand’era bambino, e gli era stato strappato via all’improvviso.
- Non ti chiederò più di farti da parte, né ti allontanerò da me – le promise, e lei gli sorrise in risposta, sollevata.
- C’è una cosa che devo sapere, Even: ultimamente, ti è capitato di tossire con frequenza una sostanza nera e densa?
- Sì.
- E non hai detto nulla a nessuno, a riguardo?
- No.
- Anche i tuoi polmoni erano infetti, non solo la tua mente. La magia mi ha permesso di vederlo. Quella sostanza, frutto di tutti gli esperimenti fatti e dell’aria velenosa che hai respirato con costanza, ti avrebbe infestato il respiro fino a lasciartene totalmente privo. Se non me ne fossi accorta io… molto probabilmente, ti avrebbe ucciso in poco tempo.
- Sei riuscita ad assorbire anche quella?
- Sì, per la maggior parte. D’ora in poi, la tosse non dovrebbe più darti fastidio.
Tuttavia… su qualcosa avevi ragione: la magia non è infallibile, devo dartene atto.
Per ciò che riguarda il corpo, i malanni fisici e carnali... la magia non può tutto. Motivo per cui devi mostrare attenzione e devi parlarmene, nel caso in futuro dovessi manifestare qualche strano sintomo; oppure parlarne al medico del villaggio.
Lui annuì, socchiudendo gli occhi e godendosi le gentili carezze che continuavano ad allietarlo e ad illuderlo che il dolore alla testa si stesse alleviando.
- Da bambino mi addormentavi così – sussurrò dopo un po’.
- Lo rimembri?
- Rimembro tutto, Myriam. Amavo quando aspettavi che mi addormentassi, accanto a me.
- Talvolta… nel dormiveglia, mi chiamavi “mamma”, senza renderti conto che fossi io a stringerti e non lei .. – ricordò ella con nostalgia.
- Sapevo benissimo fossi tu – le rivelò lui riaprendo gli occhi all’improvviso, sentendola irrigidirsi per lo stupore.
- Lo sapevi…? – sibilò lei, con voce rotta dall’emozione.
- Certo.
- E mi chiamavi comunque “mamma”?
- Lo sei sempre stata per me. E sempre lo sarai – le garantì, vedendo i suoi occhi divenire lucidi nuovamente.
- Grazie. Per avermelo detto.
- Grazie a te, Myriam. Per tutto.
- Credo che padre Craig sia al piano di sopra, ad aspettarti. Ho la sensazione sia rimasto di sopra tutta la notte ad aspettarti. Dovresti andare da lui.
- Lo farò. E tu dovresti andare a riposare.
- Lo farò.
- C’è un’ultima cosa, Myriam – le disse, mantenendo la calma irreale che avevano assunto le loro voci in quel momento sospeso nel tempo; mentre le poggiava un palmo sulla mano che gli stava ancora carezzando premurosamente il viso, fermandola. – So bene quanto potere tu abbia acquisito ultimamente, da quando hai preso i voti in quanto monaca del Diavolo. So bene quanto tu abbia rischiato per me questa notte. Tuttavia… c’è una richiesta che devo farti.
- Considerala già realizzata.
- Con la tua influenza, devi convincere i monaci che mia madre sia innocente – le disse, vedendola impietrire. – Fallo in qualsiasi modo tu preferisca, non mi importa. So che la odi. So quanto tu la voglia morta. Ma ho bisogno che mia madre e mio fratello tornino a casa, Myriam. Ti chiedo di fare solo questo. Ti chiedo di farlo per me – concluse, stringendole la mano.
Dopo qualche istante di silenzio, Myriam rispose: - Lo farò per te. Non posso e non potrò mai sottrarmi alle tue richieste, lo sai.
A ciò, egli le regalò il primo splendido sorriso, dopo mesi.
- Even – lo richiamò lei dopo alcuni attimi.
- Sì?
- Vuoi davvero che io ti dimentichi? – il suo tono era fermo ma il suo animo tremava. Blake riuscì a sentirlo.
Si odiò per averle detto una cosa simile.
- No. Non lo vorrei mai – le disse, rincuorandola ancora una volta.
Myriam abbassò il volto sul suo e lo salutò come era abituata a fare quando era bambino: poggiò la bocca sulla sua e gli lasciò un bacio a fior di labbra.
Dopo di che, si alzò e uscì dalla fucina.
 
 
 

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Capitolo 54
*** Mi dissolverò come il vento, poichè io ti vedo ma tu non vedi me ***


Mi dissolverò come il vento, poichè io ti vedo ma tu non vedi me
 
 
Strofinò con forza le scodelle e gli altri utensili da cucina sporchi, il morale a terra e la testa infestata di pensieri in quella dimora selvaggia e semivuota.
Improvvisamente, gli occhi le si riempirono di lacrime e le mani iniziarono a tremarle.
Si bloccò e si aggrappò ai bordi della bacinella piena di acqua sporca.
Si lasciò andare e pianse, silenziosamente.
Qualche secondo dopo, la porta si aprì, facendola riscuotere e sussultare.
Heloisa andò incontro a sua cugina, gli occhi spalancati e lo sguardo perso.
La sciamana non le diede il tempo di dire nulla, che lanciò uno straccio per terra.
Heloisa guardò il cencio ai suoi piedi e solo osservandolo più attentamente si accorse che non fosse uno straccio, bensì un abito. Estremamente sgualcito, strappato, vecchio, di un tessuto che non era più comune a Bliaint da secoli. In più, nonostante il terriccio presente sul vecchio cencio, era ben visibile che fosse anche sporco di sangue.
- Avevi ragione – esordì Imogene, gli occhi bassi, lo sguardo estremamente cupo. – Ha scritto tutto quello che le è accaduto, con il sangue, sui suoi vestiti. Poi li ha seppelliti nella cripta in cui era tenuta prigioniera. Ti consiglio di metterti seduta, di pulirti quelle lacrime dal viso, e di prendere un lungo e bel respiro, prima di iniziare a leggere quello che c’è scritto. È stata in grado di turbare persino me.
Quelle parole da parte della cugina implicavano una serie di conseguenze che Heloisa fece fatica a metabolizzare tutte insieme:
Nellie è apparsa a lei, in sogno, il giorno della Festa di Beltane.
Tra tutti, proprio a Imogene. È stata lei la prescelta, per trovare la sua veste.
- Sono passati giorni dalla festa di Beltane… - esalò Heloisa. - Non mi hai più fatto avere notizie, non sei più venuta…
- Ho avuto alcune questioni in sospeso da risolvere.
E poi, dovevo trovare la veste.
Inoltre, avevi cibo a sufficienza per sfamarvi entrambi.
Anche se… per lui non è necessario – commentò Imogene posando lo sguardo sul povero bambino ancora steso tra le pellicce, incosciente, con la cera di un morente.
- Non è questo il punto! Io aspettavo tue notizie…
- Come sta? – le domandò Imogene camminando verso il bambino, incurante di quello che aveva appena detto l’altra.
Anche Heloisa posò lo sguardo angosciato su Ioan. – Come sempre. Nessun miglioramento. Nessun peggioramento. Allora…? Com’è andata alla festa di Beltane? – le pose la domanda che voleva porle da giorni.
Imogene si accovacciò e osservò suo nipote, dandole le spalle. – Sarebbe potuta andare meglio.
- Cosa… cosa intendi? Hai visto Blake? Gli hai detto di suo fratello…? Gli hai detto che ci serve il suo aiuto?? Parlami, Imogene, ti prego…
- Ho visto Blake. Non stava bene.
Heloisa sbiancò di preoccupazione. – Cosa vuoi dire…? In che senso “non stava bene”? Gli è accaduto qualcosa?
- Non lo so, cugina. So solo che non sono riuscita ad avvicinarlo. Non gli ho detto ancora nulla di Ioan - ammise.
- A cosa diavolo è servito tutto ciò, dunque..?! – esclamò accovacciandosi, stringendosi i capelli con le mani. – Mi stai dicendo con tanta leggerezza che mio figlio non stava bene alla festa di Beltane, mentre io sono qui, e non posso fare letteralmente nulla. Non posso aiutare né Ioan, né Blake, nella mia posizione. Che razza di madre sono?
- Ieri si sono tolti la vita due ragazzi – la informò atona, a bruciapelo.
- Tolti la vita…? – domandò sorpresa Heloisa. – Chi erano costoro?
- Non credo tu li conosca. Due servi del Diavolo, due giovani amanti. Il popolo si sta rivoltando poiché vuole ottenere il permesso di celebrarli con un funerale e di seppellirli, ma i monaci sono irremovibili, come sempre – le spiegò con un sorriso stanco. – Presto vi sarà una rivoluzione, Heloisa. Con ciò che solo noi due siamo riuscite a scoprire, sul passato dell’ordine monacale di questo villaggio, potremmo essere molto utili per stabilire le sorti di questa battaglia contro di loro.
Heloisa la fissò, il volto ora più determinato e colmo di risentimento. Si voltò verso dove era rimasta la veste di Nellie lanciata a terra. La raccolse e la portò accanto a sé. – So già abbastanza da scardinare ogni convinzione, fede e credenza nei loro confronti, da parte di tutto Bliaint. Quando avrò la certezza di non venire catturata e giustiziata non appena rimetterò piede nel villaggio, tornerò e dirò tutto. Avremo l’appoggio di tutto il popolo.
- E Ioan? Cosa pensi di fare con lui? – le domandò Imogene, riportando la sua attenzione sulla questione più spinosa.
Heloisa si asciugò le lacrime secche sulla guancia. – Se non sei riuscita a parlare a Blake alla festa di Beltane, allora non hai altra scelta: devi andare a casa sua. Trova un travestimento, qualsiasi cosa, per non farti scoprire da nessuno che non sia lui. Digli di suo fratello, che ci serve il suo aiuto, e trovate insieme una soluzione. E poi … - si bloccò, riflettendo. – Scopri anche se sta bene.
- Da ciò che ho visto, è chiaro che non lo sia. Non posso intervenire né fare nulla a riguardo.
- Puoi venire a riferirmi se devo seriamente preoccuparmi per entrambi i miei figli. Questo puoi farlo - ribatté risoluta.
- Andrò da lui oggi stesso.
Tuttavia, devi prepararti, cugina.
Heloisa la scrutò dal basso, in quanto Imogene si era alzata in piedi e la guardava con la morte negli occhi.
- A che cosa?
- A perdere Ioan.
Se Blake non avesse alcuna soluzione miracolosa… il tuo secondogenito morirà.
Devi prepararti a questo, essere pronta ad affrontare tutto ciò a testa alta.
- Oh, mia cara Imogene… io sono già pronta a vederlo morire. Da più tempo di quanto immagini.
 
 
Padre Craig preparò due tazze del suo infuso rilassante, beandosi del sole mattutino che filtrava dalla finestra.
Era a casa.
Non riusciva ancora a crederci.
Così come non riusciva a credere a tutto ciò che era accaduto la notte prima, che sarebbe rimasto nella sua memoria indelebilmente.
Si avvicinò al tavolo e porse la tazza al ragazzo, il quale era seduto su una sedia, intento a sfogliare un libro.
Il suo volto era totalmente diverso rispetto a come era stato prima di quella notte: nonostante i rimasugli delle occhiaie scure sotto ai grandi occhi, Blake appariva, in un certo qual modo, libero; infinitamente più sereno, come se tutti i mali del mondo fossero stati tolti dalle sue giovani spalle. Era sempre il suo Blake, il ragazzo brillante e irriverente che aveva conosciuto mesi prima, certo, ma ora gli appariva diverso, in un modo che lo stesse prete fece fatica a comprendere. Più maturo, e al contempo più consapevole della sua giovane età, la quale era dipinta nel suo volto perfetto, rendendo i suoi lineamenti più dolci e delicati. Persino i suoi occhi blu risentivano di quella lieta e luminosa luce diversa, in quanto parevano più chiari del solito, meno cupi e più brillanti.
In conclusione, Blake sembrava più docile, meno disposto a usare la sua lingua tagliente e biforcuta contro chiunque osasse troppo con lui; sembrava persino rilassato mentre leggeva il suo libro.
Non avevano ancora avuto modo di parlare molto dopo quello che si erano detti quella notte.
Tutto ciò che padre Craig sapeva al momento, era che tra loro vi fosse finalmente la pace.
Lo percepiva dall’aura che emanava Blake, dalla scioltezza che mostrava quando padre Craig gli era intorno. La sua compagnia, allietava e rassicurava il ragazzo. E ciò non poté far altro che renderlo felice.
Solo in quel momento Blake si rese conto di essere osservato, e posò lo sguardo sulla tazza fumante che padre Craig gli aveva poggiato dinnanzi.
- Grazie – gli disse, prendendo la tazza e sorseggiando un po’.
- Vi aiuterà un po’ con il mal di testa.
- A dir la verità va già meglio rispetto a ieri – lo informò il ragazzo, accennandogli un sorriso sereno.
No, decisamente non era avvezzo a vederlo così.
- Ora che il vostro male sembra essere stato debellato.. potremmo andare da Quaglia, e dire anche a lui che può tornare a casa. Che ne dite? – gli propose, sorseggiando a sua volta l’infuso.
Blake annuì. – Credo sia andato a chiedere ospitalità a Hinedia quando gli ho detto di andarsene per un po’. Ultimamente, i due si sono visti. Lui le sta insegnando alcune tecniche di difesa e combattimento.
- Dite davvero? – domandò padre Craig lieto, fingendosi sorpreso.
- Già. Bizzarro non è vero? Sono contento che si stia aprendo con le genti di questo villaggio.
- Credo che consideri già Bliaint casa sua – commentò padre Craig, senza pensare alle proprie parole.
- Esattamente come voi, non è vero?
Padre Craig quasi si strozzò con il suo infuso nel momento in cui Blake pronunciò quella domanda, che più di una domanda, era un’affermazione inconfutabile.
Blake lo guardava, nessuna traccia di risentimento, né di accusa o delusione nel suo viso.
- Sono mesi che considero Bliaint casa mia, Blake.
“Vorrei riuscire a mostrarvi il rispetto che meritate e desiderate da me. Vorrei essere in grado di non allontanarvi da me ogni volta che vi avvicinate, senza sentire l’esigenza di spingervi a tornare da dove siete venuto. Vorrei credervi capace di vivere in questo inferno. Ma non lo siete. Siete troppo buono per Bliaint. E lo siete anche per me. Vorrei non fuggire da voi, ma non ci riesco.”
Quelle parole di Blake non sarebbero mai e poi mai svanite dalla testa di padre Craig.
Il giovane prete le riviveva e ci pensava costantemente.
- Lo so bene.
- Così come considero questa casa… casa mia – azzardò. L’atteggiamento ammansito di Blake quella mattina lo stava spingendo ad osare di più.
- So anche questo.
- E a voi va bene? Che io consideri questa famiglia, la vostra famiglia… la mia famiglia?
- Certo – rispose il ragazzo, leggermente risentito. – Se in qualche modo vi ho fatto credere il contrario… me ne dispiaccio. Ho commesso degli errori negli ultimi tempi. Ho allontanato molte persone, e voi siete certamente una di queste.
Improvvisamente il giovane prete venne colto dal terrore che Blake potesse ricordare qualcosa della sua confessione d’amore della scorsa notte, nonostante fosse totalmente fuori dalla realtà in quel momento.
- Non avrei dovuto cacciarvi di casa – continuò il ragazzo. – Non avrei dovuto decidere per voi.
No, non ricordava nulla. Non avrebbe potuto.
- Eravate arrabbiato. A ragione – lo giustificò il giovane prete.
Blake accennò un sorriso sardonico. – Smettetela di giustificarmi sempre. Non siete costretto a farlo.
- Non lo faccio per costrizione. Cerco di empatizzare con voi e di capire cosa provate. Anche se… la maggior parte delle volte mi è molto difficile farlo – ammise.
- Avete la mia gratitudine per questo, ma non merito tutto questo riguardo.
- Voi non sapete cosa meritate o no. Avete un giudizio molto distorto in merito – disse di getto, sorprendendolo.
- Un riguardo che non mostrate a tutti, bensì a pochi privilegiati – sottolineò il ragazzo. – Ed ora comprendo il perché. Io sono la vostra famiglia, giusto?
Padre Craig percepì un grosso magone scendergli lungo la gola nel rispondergli. – Sì, lo siete.
- Immagino che anche Judith lo sia.
- Sì… anche lei lo è.
- Nonostante ciò… famiglia o no, non permettete più che io vi ordini di fare qualcosa che non volete fare – gli fece promettere il ragazzo.
Padre Craig annuì, non senza un po’ di titubanza. – Blake – lo richiamò poi. – Ricordate qualcosa della notte scorsa, di ciò che è accaduto durante i vostri momenti di delirio e distacco dalla realtà? - ebbe il coraggio di chiedergli.
- No, non ricordo nulla dei momenti in cui non ero in me. C’è qualcosa che dovrei ricordare? – indagò il ragazzo.
- No, certamente no – si affrettò a rispondere il prete, rincuorato da quella conferma, e al contempo lievemente deluso.
Se avesse scoperto tutto… i miei tormenti sarebbero giunti al termine ora.
Non mi tratterebbe con tanta gentilezza. Riceverei solo il suo disgusto e la sua commiserazione. Nel peggiore dei casi il suo odio.
- Ad ogni modo, sono davvero felice che Myriam, da sola, sia riuscita a guarirvi dal vostro avvelenamento da mercurio. Non avrei sperato in nulla di meglio. Tuttavia.. era solo il mercurio l’origine di tutto?
- Non lo so – rispose sinceramente Blake. – Ho respirato talmente tanti metalli e sostanze velenose, padre… potrebbe essere stato qualsiasi cosa.
Nessuno dei due si azzardò a dare voce a ciò che entrambi pensavano: e se si fosse trattato anche di una causa sovrannaturale? E se la spiegazione non fosse solo, banalmente e prettamente umana?
Le immagini del suo incubo con l’esorcismo di Blake tornarono alla mente al giovane prete, agghiacciandolo. Le scacciò immediatamente, cercando di guardare l’enorme lato positivo dell’intera faccenda: qualsiasi cosa fosse, sovrannaturale o fisica, era svanita. Blake ne era stato liberato.
Tuttavia… ne era davvero stato liberato per sempre? O vi era ancora qualcosa di cui si sarebbero dovuti preoccupare, in lui?  Era davvero tutto finito…?
- Padre – richiamò la sua attenzione il ragazzo, distogliendolo dai suoi turbolenti pensieri. – Il fatto che io sia stato “guarito” dalla mia intossicazione non implica che io sia una persona diversa da quella che ero: continuo comunque a non credere in nessun dio; inoltre… - si bloccò, portando gli occhi combattuti e pensierosi in direzione del corridoio, da cui si affacciava la porta chiusa di quella maledetta fucina. - … vi sono delle cose che devo comunque portare a termine.
Padre Craig seguì la traiettoria del suo sguardo e comprese. – Non ora. Non è ancora il momento. Siete uscito appena stanotte da quella fucina, distrutto nel corpo e nell’anima. Ora dovete solo pensare a riprendervi e a riposare. Poi, le vostre ricerche verranno dopo, a tempo debito. 
- Anche gli scavi alla galleria hanno bisogno del mio intervento – gli ricordò il ragazzo.
- Blake, potrebbe essere pericoloso tornare subito alla galleria. Non dobbiamo escludere l’ipotesi che possa essersi trattato di qualcosa di anomalo che avete assorbito e respirato alla galleria ad avervi infettato e avvelenato in tal modo. Quel luogo… non è sicuro.
- Avete ragione. Ma prima o poi dovrò tornarci, sono pur sempre il proprietario.
Per ora, posso limitarmi a stargli lontano e ad impartire le mie direttive agli scavatori a distanza – lo rassicurò, tornando con gli occhi all’ultima pagina del libro che teneva aperto sopra al tavolo.
Padre Craig scrutò la pagina a sua volta, a distanza. – Che state leggendo?
- Nulla. In realtà, ho terminato di leggere questo bizzarro e interessante racconto che mi ha prestato Judith.
Stavo solo leggendo la dedica che vi è alla fine del libro.
- Che cosa dice la dedica?
- “A Nellie: anima mia, sorella e luce sul mio cammino. A te, dono metà del mio cuore, sperando che ciò possa in qualche modo guarirti da tutto il male che ci hanno fatto.”
Padre Craig provò un inspiegabile brivido lungo la schiena, all’udire tali parole.
Sembrava una dedica davvero intima e sentita.
- E come mai vi ha colpito tanto? – domandò al ragazzo.
- Non lo so neanche io con precisione – rispose lui, sfiorando l’inchiostro sbiadito con le dita. – C’è qualcosa che non mi convince in questo racconto. È solo una mia strana sensazione – concluse.
Padre riprese a sorseggiare il suo infuso, continuando a guardarlo ancora un po’, poi si rialzò in piedi, andando a recuperare il suo mantello. – Allora andrò io da Quaglia, per riferirgli che può tornare a casa. In modo che voi possiate restare a casa e riposare.
- D’accordo – acconsentì il ragazzo.
A ciò, padre Craig fece per dirigersi verso la porta, ma prima di aprirla, si voltò di nuovo verso Blake.
Una frase premeva per uscirgli dalle labbra. – Blake?
- Sì?
- Sono felice che siate sempre voi, nonostante tutto. Non vorrei che cambiaste. Per niente al mondo - ammise, sorprendendolo nuovamente.
- Vi ringrazio, padre – gli rispose il ragazzo.
- Per cosa?
- Per essermi rimasto accanto. Per non avermi abbandonato.
E con il cuore che sprigionava calore e gioia, padre Craig uscì di casa, dirigendosi verso l’abitazione di Hinedia.
Trascorsero pochi minuti dacché padre Craig uscì di casa, che l’opale perennemente appeso al collo del ragazzo iniziò ad illuminarsi.
Blake lo prese in mano e lo osservò, confuso.
Dopo di che, qualcuno bussò alla sua porta.
Quando andò ad aprire, trovò dinnanzi a sè una figura incappucciata, con la testa bassa.
L’unico indizio sulla sua identità era un voluminoso ciuffo biondo miele che le fuoriusciva dal cappuccio.
- Imogene…? – sussurrò Blake riconoscendola vagamente, sgranando gli occhi per la sorpresa.
- Sbrigatevi a farmi entrare, prima che qualcuno passi da queste parti – disse seccamente la sciamana, ancora con la testa abbassata e il cappuccio a coprirla. – Nessuno deve vedermi davanti alla vostra porta – aggiunse, con voce sofferente e frettolosa.
A ciò, il ragazzo si fece da parte, permettendole di entrare e chiudendo la porta dietro di sé.
La donna si avvicinò al tavolo e si tolse cappuccio e mantello. – Se ci aveste impiegato un altro minuto a decidervi a farmi entrare vi avrei spinto dentro con ben poco garbo – esordì seccata. – E dannato quel prete, che ci ha messo ore ad uscire da questa casa.
- Avete aspettato tutto il tempo che padre Craig uscisse di casa? – le domandò lui, spaesato.
- Ve lo ripeto, ragazzo: nessuno deve sapere che sono qui.
- Padre Craig e Quaglia sono dalla nostra parte e sanno tutto, persino che state nascondendo mia madre. E mio fratello – aggiunse con palese risentimento lui, ponendo le braccia conserte, non accorgendosi che il suo opale avesse iniziato a brillare ancor di più.
- Incolpare me vi sarà del tutto inutile: non ho convinto io Heloisa a rapire vostro fratello e a portarlo con sé. Sarebbe stato infinitamente più facile se lo avesse lasciato qui con voi… - rispose Imogene, faticando visibilmente a parlare, iniziando a sudare e a perdere le forze. Si appoggiò al tavolino con le mani, aiutandosi a reggersi in piedi.
Ogni volta che si avvicinava a lui si sentiva sempre allo stesso modo: improvvisamente indebolita, impossibilitata a muoversi e a respirare, appesantita, quasi morente.
Più si avvicinava al ragazzo, più la sensazione aumentava a dismisura.
Non riusciva a capire chi diavolo avesse fatto un incantesimo di protezione sul ragazzo, per tenerlo lontano proprio da lei: che fosse Myriam? Possibile, considerando quanto fosse ossessionata da lui.
- Che cosa vi prende? – le domandò Blake, avvicinandosele, facendo aumentare involontariamente quell’orribile sensazione. – Se vi sentite male, vado a prendervi dell’acqua.
A ciò, Imogene, ancora semi-accasciata sul tavolo, alzò gli occhi su di lui, venendo quasi accecata dalla luminosità di qualcosa che penzolava sul petto del ragazzo. Un opale. Bellissimo e magnetico.
Fu allora che comprese. Non era il ragazzo ad essere soggetto ad un incantesimo. Era l’opale che indossava ad essere incantato.
Fu così che si mosse istantaneamente: si aggrappò all’opale che pendeva al collo di Blake e glielo strappò, gettandolo via, lontano da loro.
Blake la guardò interrogativo, in cerca di spiegazioni, mentre, man mano, la sensazione di debolezza e di morte imminente se ne andava dal corpo della sciamana.
- Chi ve lo ha dato? – gli domandò Imogene ancora con il fiatone, nonostante si stesse velocemente riprendendo.
Blake posò gli occhi sull’opale gettato a terra, che ora non brillava più. – Mio padre. Era l’opale a farvi stare male?
Imogene, stupita, vi rifletté su. – Intendete Rolland..? Quel Dun Rolland? Che è stato ritrovato morto giorni e giorni fa?
- Sì.
- Per quale dannato motivo un uomo che neanche mi conosceva avrebbe dato un amuleto incantato a suo figlio, per proteggerlo da me…?
Blake era sorpreso quanto lei. – Un amuleto incantato…? Mi sono chiesto più volte come mai mi avesse consegnato quel ciondolo quel giorno.. ora lo comprendo, ma non ne capisco le motivazioni. Mio padre non usava mai la magia. Tantomeno per proteggersi o proteggermi da qualcuno.
- A quanto pare, invece, la usava – sottolineò la donna, adocchiando con repulsione quell’oggetto terrificante a metri e metri da lei. – Di tutte le persone da cui avrebbe potuto proteggervi, tra cui i monaci e tutte le streghe di cui pullula questo villaggio… l’amato Rolland ha deciso di proteggervi proprio da una sciamana. State scoprendo inaspettati segreti su vostro padre, dovreste ringraziarmi - concluse in tono sardonico, decidendo di non indagare sull’argomento: in ogni caso Rolland era morto, dunque non avrebbero mai avuto risposta a quel quesito, né avrebbero mai saputo a quale strega o stregone si fosse rivolto per incantare l’opale.
- Perché siete venuta qui? Si tratta di mio fratello? Come stanno lui e mia madre? – iniziò a domandarle famelicamente il ragazzo, come ci si aspettasse.
- Prima di parlare di questo, fareste meglio a mettervi seduto e a prendere un bel respiro – gli consigliò lei, venendo bellamente ignorata: Blake rimase ostinatamente in piedi, in attesa.
A ciò, Imogene sorrise, semi esasperata. - Siete una persona molto difficile da rintracciare, Blake – gli disse guardandolo. – E non a causa del bell’opale che vostro padre si è tanto premurato di donarvi.
- Da quanto mi state cercando?
- Da un po’. Heloisa mi ha vietato di recarmi qui, per non rischiare che qualcuno mi vedesse e credesse che io e voi fossimo in combutta per nasconderla.
A ciò, ho deciso di avvicinarvi e parlarvi alla festa di Beltane. Ma, ahimè, è andata male. Mi avete costretto a venire qui, mettendo a rischio la vostra incolumità.
- Anche voi eravate a Beltane?
La sciamana lo studiò, accigliata. – Ho partecipato a Beltane solo per voi. Non ricordate di avermi vista e di avermi veementemente allontanata come fossi una piaga..?
- No, non lo ricordo. A Beltane non sono stato in me, per la maggior parte del tempo.
- Era chiaro non foste in voi. Eravate sotto l’effetto dei fumi incantatori, come tutti.
- No, non è stata colpa dei fumi incantatori – le rivelò.
A ciò, Imogene si concentrò a guardarlo. In qualche modo, il ragazzo le appariva diverso dall’ultima volta che lo aveva visto a Beltane. Il suo volto era più disteso, rilassato, come libero da qualcosa che gli rabbuiava e oscurava lo sguardo visibilmente prima. Persino i suoi occhi, erano molto diversi da come li ricordava. Dunque, forse era vero: quel ragazzo era stato vittima di qualcosa che avrebbe dovuto allarmare Heloisa, più di quanto fosse già allarmata per Ioan. Ma qualsiasi cosa fosse stata… adesso Blake sembrava stare meglio, in apparenza.
- Dunque, non ricordate nulla. Neanche di essere stato agguantato dalle maniacali attenzioni lussuriose di Ephram?
- Ahimè, quello me lo ricordo.
- Rimembrate per quale motivo mi guardavate come fossi la personificazione di un demonio?
- Negli ultimi giorni, mi è capitato di vedere, scorgere, parlare con entità che non esistono. Era tutto frutto di un avvelenamento da metalli.
- Che tipo di entità? – gli domandò la donna, incuriosita.
- Talvolta personaggi sacri, mai esistiti, leggende. Ma, colei che mi appare più spesso, da settimane, forse mesi, in forma di visione lucida, è una bambina morta qualche tempo fa, alla galleria. Una bambina che conoscevo, rimasta intrappolata inspiegabilmente sotto le macerie, durante un crollo - spiegò.
A ciò, Imogene si fece ancor più seria, nel suo volto un’espressione quasi solenne. – Non confondete delle semplici allucinazioni con delle apparizioni vere e proprie – lo ammonì.
Il ragazzo la guardò con sguardo interrogativo.
- Fantasmi. Fantasmi di esseri umani non più vivi. Non ne avete mai sentito parlare?
I più li ritengono un’invenzione della nostra mente, qualcosa creato da noi stessi, per espiare alcune colpe, per lenire qualche mancanza o per spaventare i bambini – spiegò lei. – Nessuno pensa mai che i fantasmi possano essere reali. Reali, nel vero senso della parola.
- Cosa intendete dire…?
- Gli spettri sono da sempre portatori e rivelatori della verità, negli antichi culti che mi sono stati trasmessi.
Compaiono ai vivi soprattutto coloro morti prima del tempo, in quanto hanno qualcosa in sospeso da portare a termine.
Appaiono per far comprendere che non esiste una sola verità
Il loro percorso non è mai lineare. Se li si segue senza timore, conducono verso nuovi orizzonti; d’altra parte, tendono a restare sui propri passi, incastrati su ciò che è stato e che mai sarà di nuovo.
Blake la guardava con uno sguardo indefinibile, a metà tra l’allibito e il desideroso di sapere di più.
Imogene scrutava i suoi occhi come se potesse leggergli dentro, fin sotto le ossa.
- Lo spettro che vi perseguita è una bambina morta prematuramente, ingiustamente.
Il rancore e il veleno di una bambina. Infondo, lo sapete. Sapete che lei è reale.
A modo vostro, per sin troppo tempo avete cercato di sopprimerla, di sopportare il suo rancore, il suo dolore, che infestano questa casa.
L’avete cacciata, rifiutata, l’avete fatta sentire indesiderata.
Non è una presenza furiosa e distruttiva.
Ella è solo persa. Perduta in un mondo che non le appartiene più, desiderosa di dire, di comunicare qualcosa. Arrabbiata contro una realtà crudele, ma ella non è vendicativa, né realmente pericolosa.
Lei è qui, con voi, perché l’oblio non è contemplato.
Nessuno deve dimenticare. I fantasmi non lo permettono.
Lei reclama uno spazio e una voce  da voi, uno spazio e una voce che voi non siete mai stato disposto a darle.
La voce di qualcuno che è stato soffocato.
Il loro scopo… è da sempre quello di costruire un futuro diverso e migliore, attraverso la ricostruzione del senso del passato, per quanto doloroso.
Lo spettro ci invita a riappacificarci col passato, con le nostre ombre.
Lo spettro ci ricorda la sofferenza che abbiamo causato, e ci mostra da dove ha origine la nostra stessa sofferenza, chiedendoci di accoglierla.
Non sono maligni.
Gli spettri ci chiedono solo di essere visti.
E noi… noi non dovremmo far altro che concederglielo.
In seguito a tali parole, Blake rimase pietrificato.
Per tutto questo tempo…
Per tutto questo tempo ho creduto che tu fossi una mia invenzione.
Non è mai stato così.
Tu sei sempre stata qui, Bonnie.
Ed io… io non ti ho mai vista.
Una lacrima sfuggì al suo controllo e, solo per il lascito di un istante, gli sembrò di rivederla un’ultima volta, in piedi dietro Imogene, con i suoi sporchi capelli biondi e il suo vestitino sgualcito, intenta a ballare e a guardarlo, con il volto piccolo, bellissimo e distrutto.
Stavolta, non gli disse quello che gli diceva sempre, la solita litania, no.
Gli disse qualcos’altro.
Oppure, era ciò che gli aveva sempre detto, ma che lui non aveva mai voluto udire.
Ora la stava udendo.
L’aveva udita e vista, per la prima volta.
E mai, mai si sarebbe dimenticato di lei e delle sue parole.
In quel momento… per la prima volta, il ragazzo desiderò che lei non se ne andasse.
Ma lo spettro svanì. Un sorriso tra le labbra e la sua vocina che ancora viaggiava nell’aria, rarefatta, in grado di pervenire solo a lui e a nessun altro.
Imogene comprese che doveva averla vista un’ultima volta.
- Onorerete la sua memoria? – gli domandò, riscuotendolo.
- Lo farò. Andrò dai suoi genitori, a dire loro ciò che ho udito da lei – affermò con decisione e immensa tristezza.
- Bene – Imogene abbassò lo sguardo, sapendo fosse giunta la parte difficile della conversazione. – Vi ho cercato e ho voluto incontrarvi per dirvi… - si bloccò per un istante. – Si tratta di vostro fratello.
Blake sgranò le sue vivaci iridi blu e le si avvicinò, il volto precipitato nella preoccupazione. – Che cosa gli è accaduto…? Parlate.
- Si è riammalato. È peggiorato, sempre più. Abbiamo provato letteralmente di tutto, ma nulla ha funzionato – gli confessò, senza filtri. – Sappiamo che, se la sua salute è migliorata miracolosamente, è solo grazie a voi e alla vostra mandragora morta. Ma è anche a causa vostra che la malattia ora lo sta consumando più velocemente di prima. Sapevate quali fossero i rischi nell’uso della mandragora morta, non è vero?
Blake indietreggiò, reggendosi al bordo del tavolo per non piombare a terra. – Volevo solo che migliorasse velocemente. Stava sempre peggio. Se non lo avessi fatto, lui-
- Difatti non vi sto giudicando. Sono qui davanti a voi solo per chiedervi aiuto.
- Riesce ancora a parlare almeno…? È ancora cosciente??
- No. Da giorni, tutto ciò che riesce a fare è respirare, dormire e bere un po’ d’acqua. Heloisa è oltremodo addolorata e temeva per la vostra reazione.
- Al diavolo la mia reazione! C’è la vita di mio fratello in ballo! – esclamò lui, cercando di restare lucido e di riflettere razionalmente sul da farsi.
- Voi siete la nostra ultima speranza per salvarlo, Blake. Avete qualcosa in mente? La vostra alchimia, i vostri esperimenti possono aiutarlo in qualche modo? - lo incalzò Imogene. – So che la mia preoccupazione può sembrare inadeguata al momento, ma si tratta pur sempre di mio nipote. Inoltre, so che se anche Ioan dovesse morire, Heloisa non si riprenderebbe mai più da ciò.
- Non ho nessuna cura miracolosa questa volta – le disse secco, sprigionando un’angoscia dolorosa da guardare.
- Che cosa…?
- Ho detto che non ho nessuna cura miracolosa questa volta! Non ho ancora trovato una cura che posso sperimentare su di lui! Tutto quello che ho in testa ora, sono idee confuse e sconclusionate, e non rischierò la vita di mio fratello per un’intuizione!
- Blake, Heloisa mi ha detto che avreste fatto di tutto, letteralmente qualsiasi cosa, per salvare vostro fratello.
- Difatti è così – rispose lui con ferma convinzione. Ad un tratto, la sua espressione cambiò in una di piena realizzazione. – Voi siete una sciamana, possedete il potere di dominare sia la magia nera, che quella delle popolazioni antiche: sicuramente conoscerete un modo per trasferire l’energia vitale da un corpo ad un altro.
- Che cosa state suggerendo esattamente…?
- Trasferite la mia salute e la mia energia vitale a lui – gli disse con determinazione Blake, riavvicinandosi a lei, guardandola negli occhi con la disperazione nel volto. – Vi prego. Sicuramente esisterà un incantesimo che permette di fare una cosa simile… deve esistere. Date a me il suo male fisico e donate a lui la mia vita e la mia buona salute.
- Sei completamente folle… - sussurrò lei, mettendo da parte ogni formalità, sconvolta da tale proposta. - È una follia!
- Non mi importa di morire! Non mi importa se vivrò il resto dei miei giorni da malato o morente! Basta che salviate lui… togliete tutto ciò che c’è di buono in me e datelo a lui! Vi imploro, Imogene – la pregò ancora, fissandola nuovamente dritta negli occhi, trasmettendole tutta la sua implacabile risolutezza.
- Non esiste un incantesimo simile.
- Bugiarda! Mi credi tanto stupido?
- Non ti credo affatto stupido! È proprio questo il punto! – esclamò lei. – Come puoi dire una cosa simile con tanta leggerezza?? Mi credi forse un’assassina a sangue freddo? Tuo fratello è a un passo dalla morte, ragazzo. Mi stai chiedendo di uccidere te per far vivere lui!
- Esatto! Perché esiti tanto? – le domandò incredulo.
- Non lo farò. Se questa è l’unica soluzione, allora Ioan morirà! - decretò categorica, ancora allibita da tale proposta disperata ma lucida, più lucida che mai.
Lo guardò negli occhi, cercando di leggergli dentro ancora una volta, rimanendo pietrificata da tanta irremovibilità. – Dunque è vero. Faresti davvero qualsiasi cosa per salvarlo. Persino sacrificare la tua stessa vita.
Lei aveva mai nutrito un amore tanto grande nei confronti di qualcuno?
Aveva provato le stesse cose nei confronti di Drusilla, quando ella era ancora in vita?
Sarebbe mai stata disposta a tanto?
Non volle darsi una risposta.
Ma un tale incurante coraggio fu in grado di impaurirla e disarmarla.
Tornò in sè, accostando il viso al suo e fulminandolo con le sue iridi dorate, parlando sicura e tagliente come era sempre stata: - Non credere che l’idea non mi tenti, dolcezza – gli sussurrò. - Se tu fossi morto, avrei svariati guai in meno, e non solo io. Tuttavia, non posso accontentarti.
Blake non fece una piega, né emise alcuna espressione. Resse il suo sguardo con dignità, restando in silenzio per lunghi istanti.
- Devo vedere mio fratello – esalò duramente alla fine, spezzando il silenzio. – Al più presto.
- È un tuo sacro diritto. Faremo in modo di trovare una soluzione per farti venire nella dimora in cui sono nascosti, magari camuffando il tuo aspetto con qualche trucco.
- Non ce ne sarà bisogno – la interruppe lui. – Ho convinto Myriam a mediare con i monaci per me: li convincerà che Heloisa è innocente.
Imogene sgranò gli occhi, più che stupita. – Tu… hai convinto Myriam a fare una cosa simile…?
Blake annuì.
- Judith ci ha già provato. Come sai che daranno ascolto a lei, se fino ad ora non hanno ascoltato Judith?
L’espressione del ragazzo mostrò un lieve vacillamento quando Imogene gli diede quell’informazione: evidentemente non sapeva dei tentativi di Judith di difendere Heloisa dinnanzi ai monaci, e la cosa lo aveva sorpreso.
- Myriam sarebbe in grado di persuadere chiunque a fare qualsiasi cosa – le rispose lui. – Li convincerà massimo entro due giorni. Ne sono certo. A quel punto, mia madre e mio fratello potranno tornare a casa.
La sciamana dovette riconoscere che aveva ragione. Se erano in due, tra le presenze fidate al clero, a sostenere la tesi che Heloisa fosse innocente, sicuramente i monaci avrebbero ceduto e avrebbero rivolto la loro attenzione su qualcun altro.
- Myriam sarebbe in grado di persuadere chiunque, è vero.. – commentò la sciamana. – Ma nessuno sarebbe in grado di persuadere lei. A parte te. Hai molti assi nella manica, e sai come giocare le tue carte, devo dartene atto – concluse, rinfilandosi il mantello e il cappuccio.
Per qualche motivo, prima di lasciare la casa, si sentì in dovere di dirgli un’ultima cosa, presa dallo sconforto e dall’angoscia per quello che sarebbe inevitabilmente accaduto:
- Io ti rispetto, Blake. Ma non posso uccidere un figlio di mia cugina per farne vivere un altro. Mi dispiace – detto ciò, aprì la porta e uscì dalla casa.
Rimasto solo, lo sconforto e la disperazione si impossessarono del ragazzo.
Tuttavia, sapeva che non si sarebbe arreso.
Mai si sarebbe arreso, quando si trattava di Ioan.
Avrebbe lottato fino all’ultimo per trovare un modo per salvarlo.
Myriam avrebbe convinto i monaci che sua madre fosse innocente, suo fratello sarebbe tornato a casa presto e lui si sarebbe occupato di lui.
Christopher sarebbe vissuto, in un modo o nell’altro.
E con quel fermo e trascinante proposito in mente, raccolse da terra l’ultimo ricordo che suo padre gli aveva donato e se lo riappese al collo.
Fu in quell’istante che gli tornò alla mente che vi era qualcos’altro che doveva fare al più presto.
Il ricordo dell’ultimo sguardo che gli aveva rivolto Bonnie un attimo prima, gli impattò la mente.
Non sapeva perché forse apparsa proprio a lui, non gli importava.
In quel momento, sapeva di essere solo un messaggero che doveva riferire un messaggio.
Si cambiò d’abiti, si infilò gli stivali e uscì da casa, senza il suo mantello: oramai la temperatura era abbastanza calda da potersi permettere di non indossarlo.
Vagò per le strade, trovandole inaspettatamente vuote.
Inizialmente, Blake si domandò per quale motivo lo fossero, poi rimembrò un’informazione che padre Craig gli aveva accennato vagamente quella mattina: il giorno prima, un ragazzo e una ragazza si erano tolti improvvisamente la vita, insieme. Uno di loro era Folker, il fratello di Bonnie.
Quale tragedia doveva aver colpito la loro famiglia, dopo la morte di ben due figli.
Padre Craig gli aveva anche accennato che stavano avvenendo delle rivolte, per le strade, con l’obiettivo di convincere i monaci a concedere il diritto di celebrare i funerali e di seppellire i due suicidi, malgrado la legge lo vietasse.
Immaginava che Judith si stesse battendo a sua volta per la causa.
Il vento caldo soffiò, ma nessuno parve sentirlo a parte lui.
Solamente quando raggiunse la piazza principale da cui si affacciavano le due cattedrali, il ragazzo comprese dove fossero finiti tutti: vi era una carovana lunghissima di persone, inaspettatamente di entrambi i culti, che si dilungava dalle cattedrali, fino a diramarsi in due direzioni, probabilmente verso le due abitazioni dei due ragazzi morti, dedusse Blake.
Ognuna di quelle persone pregava a bassa voce, con una candela accesa tra le mani, formando una scia luminosa che, nonostante fosse mattina e il sole illuminasse discretamente il cielo plumbeo, brillava a metri e metri di distanza.
Se si fossero trovati in un altro luogo e in un’altra circostanza, Blake avrebbe trovato tutto ciò commovente.
Camminò, stregato da quella scia di luci, da quel borbottare di preghiere diversissime tra loro, di culti diversi, accorgendosi di essere quasi l’unico, in giro per le strade, a non essersi unito alle carovane.
Improvvisamente, una vecchia serva del Diavolo gli andò incontro, distogliendolo dai suoi pensieri e da quella magnetica visione. – Oh, caro! Voi siete colui che ha perso suo padre, giorni fa, non è vero? Il figlio di Dun Rolland.
Blake annuì, a ciò la donna gli porse una candela in mano e gliela accese. – Il Diavolo vi benedica. Ecco. Venite a pregare anche voi.
- Potete darmene un’altra? – le domandò, e la donna si affrettò a fare come gli aveva chiesto, dandogli un’altra candela accesa tra le mani. – Potete anche dirmi quale delle due carovane conduce alla casa di Folker?
La donna gli indicò la carovana che conduceva sin sopra una collinetta.
Blake la ringraziò e si diresse verso la collina, seguendo la fila di persone dirette allo stesso luogo.
Quando raggiunse l’abitazione di Bonnie, di Folker e della loro famiglia, trovò la casa letteralmente circondata da persone di entrambi i culti: la maggior parte erano inginocchiati a pregare, tenendo la loro candela tra le mani. La dimora era letteralmente circondata da altrettante candele accese, poggiate a terra.
Blake si stupì di trovare una così variegata folla, tutta intenta a rendere omaggio ai due sfortunati ragazzi.
Mai prima di allora, i due culti si erano uniti in una tanto sentita e accorata rivolta contro i monaci, con l’unico e fermo scopo di poter celebrare il funerale di due giovani suicidi, oltretutto servi del Diavolo.
Evidentemente, i tempi stavano cambiando.
Il popolo di Bliaint era stanco, almeno quanto lo era lui.
Blake avanzò, riponendo una candela accanto a tutte le altre, riposte sotto quello che presunse essere il capezzale della camera di Folker.
Tuttavia, l’altra candela, la più importante per lui, voleva lasciarla altrove, in un luogo più significativo.
Non conosceva il volto della madre di Bonnie, ma conosceva quello di suo padre, essendo egli uno degli scavatori della galleria.
Lo cercò con lo sguardo ma non lo trovò tra la massa di persone inginocchiate a pregare sul prato, dinnanzi alla casa.
A ciò, decise di entrare dentro, dato che la porta dell’abitazione era aperta.
Una volta all’interno, notò vi fossero altre persone che pregavano, e altre candele poggiate un po’ ovunque, nella cucina, nelle scalinate, nelle varie stanze.
Dei genitori, tuttavia, nessuna traccia.
Blake si diresse verso quella che credeva essere la stanza di Bonnie e forse anche di Folker.
Aprì la porta silenziosamente ed entrò nella stanzetta, notando subito un letto perfettamente ordinato dinnanzi a sé: sopra di esso vi era una lira e una piccola collanina.
Nel comodino accanto al letto, erano adagiati, puliti e ripiegati, degli abitini da bambina, evidentemente inutilizzati da tempo.
Il ragazzo camminò lentamente, accostandosi al letto, sfiorando il cuscino con le dita.
- Cosa ci fate qui?
Quella voce pressocché sconosciuta, dura e gelida, lo riscosse, facendogli capire di non essere da solo dentro quella stanza: nel lato destro della camera, il lato che Blake non aveva guardato minimamente una volta entrato, vi era un secondo letto, sul quale era accasciato un giovane servo del Creatore, di stazza grossa ed imponente, benché la sua voce e il suo viso rivelassero la sua età fanciullesca. Doveva avere due o tre anni meno di lui, pensò Blake osservandolo, chiedendosi se lo avesse già visto.
Egli era inginocchiato a terra, con i gomiti puntati sul materasso ben in ordine, le mani giunte in segno di preghiera e il mento poggiato su di esse; gli occhi chiusi, che non si disturbavano nemmeno ad aprirsi per guardare l’intruso, la presenza disturbante. Blake capì che doveva essersi accorto che fosse entrato qualcuno solamente grazie al suo udito.
Il volto del ragazzo rivelava una sofferenza a dir poco disarmante, che fece sentire Blake in dovere di scusarsi.
A quanto sembrava, quel servo del Creatore doveva amare molto il fratello di Bonnie.
Per un istante, Blake visualizzò se stesso al posto di quel ragazzo, piegato nella stessa posa di disperazione, sopra il letto vuoto di suo fratello.
- Mi spiace. Pensavo non ci fosse nessuno – gli disse garbatamente, riscuotendosi dai suoi stessi tormentati pensieri.
- Lo conoscevate? – gli domandò Ambrose in tono distaccato, mantenendo gli occhi chiusi.
- Conoscevo sua sorella.
- Bonnie…?
- Sì.
- Allora perché siete qui?
- Sto cercando i suoi genitori. Ho qualcosa da dire loro.
- Tutti li cercano, per porre loro le condoglianze, ma sembrate essere l’unico a non sapere dove trovarli: sono davanti alla cattedrale, a vegliare sui loro corpi insieme ai genitori di Bridgette, e a pregare. Li hanno temporaneamente riposti lì, nella speranza che i monaci si convincano a concederci “l’onore” di celebrarli e seppellirli. Dove avete vissuto nelle ultime ventiquattro ore? – gli domandò vagamente irritato.
Non ho vissuto, nelle ultime ventiquattro ore. Così come negli ultimi giorni e mesi.
- Perché non siete a vegliare su di lui anche voi con loro? – gli domandò. – Sembrate molto affezionato a lui.
Solo in quel momento Ambrose aprì gli occhi, fissandoli nel vuoto: erano scuri, vitrei, orribilmente addolorati. – Sono rimasto per un’intera giornata davanti alla cattedrale, ad urlare giustizia, senza chiudere occhio, né smettere di piangere, per un solo istante. Sono stanco… – rivelò, estremamente stremato.
A ciò, Blake preferì non dire altro. Si accostò al comodino del letto di Bonnie, lasciò la candela per lei lì sopra e fece per andarsene, intenzionato a dirigersi verso la cattedrale.
Tuttavia, il suo strano gesto non passò inosservato ad Ambrose:
- Siete un po’ in ritardo per commemorare la scomparsa di sua sorella – gli disse seccato. – Per quale motivo siete qui? – ripeté, ora una lieve sfumatura iraconda emergeva dalla sua voce.
Blake si bloccò sul ciglio della porta, volgendo lo sguardo al servo del Creatore. Si accorse che ora lo stava guardando. Tuttavia, non aveva mosso un muscolo del corpo rispetto a prima.
- Voi siete l’Abnegazione – constatò improvvisamente Ambrose, studiandolo ancora, a distanza. – E siete anche il figlio del defunto proprietario della galleria.
Blake affilò lo sguardo. A quanto pareva il ragazzo si ricordava di lui ma Blake non si ricordava del ragazzo. – Dove ci siamo già incontrati?
- Lo spettacolo teatrale – rispose atono Ambrose. – Interpretavo lo Zelo – gli rinfrescò la memoria.
In quel momento, il volto del servo del Creatore con i capelli tinti di verde tornò distrattamente alla mente di Blake. Sembravano trascorsi secoli da quel giorno, da quella felicità illusoria.
- Posso sapere cosa volete dire ai genitori di Folker? – gli chiese, una punta di disperazione nella voce. - Si tratta di Folker..?
- Non direttamente. In realtà, se Folker fosse stato ancora vivo, lo avrei detto a lui. Credo fosse il più affezionato e attaccato a Bonnie – gli spiegò Blake.
- Allora… se volevate dirlo a Folker, ditelo a me. Io lo custodirò nel mio cuore… per lui - la sua voce ora era tremante, rotta, in preda alle lacrime.
Blake lo guardò a distanza, non sapendo cosa fare. Improvvisamente si rese conto di non aver mostrato un minimo di tatto nei confronti di quel povero ragazzo.
A ciò, richiuse la porta dietro di sé, si avvicinò a lui, prese una sedia e si sedette accanto al letto di Folker. – Mi dispiace per la vostra perdita. Vi porgo le mie condoglianze – gli disse in ritardo.
Ambrose sembrò apprezzare comunque, a modo suo. Inaspettatamente cambiò posizione anche lui, alzandosi in piedi e sedendosi sopra il letto di Folker.
Passò una mano sopra le coperte pulite, che mostravano ancora un accenno dell’odore del ragazzo.
Sorrise nostalgico e distrutto. – Mi fa male pensare di star pregando un dio diverso da quello che lo accoglierà nell’oltretomba – disse improvvisamente.
Blake seguì la traiettoria della sua mano, distratto.
Quante cose erano cambiate.
Ora come ora, era come se fosse normale per un servo del Creatore e un servo del Diavolo essere amici.
Lui stesso ne sapeva qualcosa.
- Cosa volevate dirgli..? Riguardo sua sorella? – riprese il fulcro del discorso Ambrose, alzando gli occhi incredibilmente sofferenti su di lui.  
- Il fantasma di Bonnie mi è apparso, più volte – gli confessò finalmente.
- Il fantasma di Bonnie…? – domandò incredulo il servo del Creatore. – Se quello che dite è vero… per quale motivo Bonnie avrebbe scelto di apparire a voi e non a lui?
- Non ne ho idea – rispose sinceramente, posando gli occhi sul letto della bambina, a distanza. – Ho cercato in tutti i modi di allontanarla, di liberarmene, troppo stupido, troppo ignorante per non nutrirne timore… - esalò, disilluso e deluso da se stesso. -  Credevo fosse frutto della mia mente malata. Poi, oggi una persona mi ha aperto gli occhi e mi ha aiutato a capire che tutto ciò che dovevo fare era… accoglierla ed ascoltarla.
Quindi l’ho ascoltata, per una sola volta, l’ho fatto.
- Che… che cosa vi ha detto? – sibilò Ambrose, allibito.
- “Ho sentito scaturire in me il terrore della morte e dell’ignoto.
Il vento gelido proveniente dalla terra dei morti mi avvolgeva, ma io cercavo di vedere l’invisibile.
Sono inquieta, non sono più in grado di riposare.
Il mondo materiale non mi appartiene più.
Ho cercato tutti i miei pezzi, sepolti chissà dove, a metà tra i due mondi, ma non li ho trovati.
Sono stata cacciata via? Ho incontrato il Signore nel mio cammino? Non mi ha voluta più neanche lui?
Il mio corpo è spezzato e ho il terrore che dovunque io vada, la terra mi inghiottirà ancora, affamata.
Mi dissolverò come il vento, lo so. Gli oggetti non sono a fuoco, il mondo reale è evanescente.
Ti vedo ma tu non vedi me.
Non sogno più, quindi mi infilo nei tuoi, di sogni, per non perdermi.
Fammi dormire ancora, fammi dormire e fammi sentire i battiti del tuo cuore, perché io non sento i miei.
Al sicuro. Con te mi sento al sicuro.
Però ti prego, svegliati, cerca tutti i miei pezzi e rimettili insieme prima che inizino a muoversi da soli. Guarda il mio sudario un’ultima volta e smetti, smetti di piangere, altrimenti non riuscirò mai ad addormentarmi sottoterra.” – concluse, la voce calda pregna di emozione, come avvolta in un sogno terribile e meraviglioso insieme.
Ambrose lo guardava a bocca aperta, lo aveva ascoltato incantato, disperato e terrorizzato insieme.
Copiose lacrime uscirono dal suo volto, esausto, annientato, violentemente funereo e commosso.
Blake si rialzò in piedi, guardando quella figura perduta e distrutta un’ultima volta. – Forse, se lo spettro di Bonnie è apparso a me… lo spettro di Folker apparirà a te, un giorno.
Detto ciò, lo lasciò da solo, in quella stanza vuota.
 
 
Giunto a casa di Hinedia, padre Craig non si sarebbe mai aspettato che, insieme ai genitori della ragazza, di quest’ultima e di Quaglia, avrebbe trovato anche quella carogna di Naren a conversare amabilmente con loro.
Non aveva idea che Hinedia e Naren fossero ancora ufficialmente promessi, e che stessero progettando il giorno delle loro nozze.
Eppure, il prete aveva notato che il volto della ragazza non fosse in pace, né tanto meno felice o a suo agio dinnanzi al suo promesso.
Il viso gioviale di Hinedia aveva subìto un cambiamento grande quanto quello di Blake, da quando la ragazza era stata involontariamente vittima di quella maledizione malauguratamente provocata da Quaglia, il quale se ne stava assumendo tutte le responsabilità, aiutandola in qualsiasi modo conoscesse.
Nonostante Quaglia le stesse insegnando l’arte del combattimento e ciò l’avesse resa più padrona di se stessa e del suo autocontrollo, la giovane serva del Creatore aveva sempre gli occhi puntati nel vuoto, i pensieri turbinosi diretti chissà dove.
- Allora, come sta? – gli domandò Quaglia in pensiero.
I due si erano appartati rispetto agli altri quattro, per affrontare l’argomento.
- Vedrai tu stesso con i tuoi occhi quando tornerai a casa – rispose padre Craig, la voce lieta e gioiosa. - Myriam ha compiuto un vero e proprio miracolo, amico mio: a tratti non sembra neanche lui, eppure è rimasto lo stesso Blake di sempre. Ora è libero, Quaglia, libero dai suoi più profondi tormenti.
Quaglia abbassò lo sguardo, sorridente e al contempo disilluso. – Un uomo non potrà mai essere liberato dai suoi traumi, padre. Sono felice stia meglio, ma non illuderti sia tutto finito. Lo conosci meglio di me: Blake non troverà mai la pace.
Padre Craig si rabbuiò, ma Quaglia si affrettò a riprendere subito in mano la situazione: - Ad ogni modo, non vedo l’ora di tornare a casa e di abbracciarlo fino a snervarlo e a infastidirlo adeguatamente! Inoltre, mi manca infinitamente il divano di casa Rolland. È proprio vero quando si dice che ti rendi conto di quanto sia importante qualcosa solo quando ti viene a mancare: per quanto siano ospitali i genitori di Hinedia, in questa casa non esistono divani o altri poggia-schiena comodi!
Padre Craig si lasciò andare ad un sorriso divertito, riportando lo sguardo sulla serva del Creatore, a distanza.
- Come sta? – domandò all’amico, il quale capì subito a chi si stesse riferendo.
- Sta diventando una combattente con i fiocchi, sai? Credevo non fosse troppo portata inizialmente, invece, quella fanciulla mi ha sorpreso non poco. È molto dotata, attenta, concentrata e determinata. Tuttavia…
- Tuttavia…? Layla è riemersa?
- Fortunatamente no. Ma temo che, se dovesse ripresentarsi, Hinedia non perderà un secondo di tempo e pronuncerà la frase per attivare il veleno della manticora immediatamente. La vedo molto decisa a riguardo.
- Naren sa nulla di tutto ciò?
- Non saprei. Non credo – rispose adocchiandolo a distanza. – Quel ragazzo non mi piace. In tre giorni, questa è la prima volta che viene a trovarla, fortunatamente. Sembra non veda l’ora di sposarla, ma sospetto che non sia per i giusti motivi.
- Cosa intendi dire?
- Come ogni uomo, ha delle esigenze. Hinedia è troppo casta e pia per avergli concesso qualcosa prima del matrimonio. Temo che egli stia fremendo per sposarsi solo per poter consumare.
Oh, amico mio… se solo sapessi cosa è stato in grado di fare quel verme alla donna di cui sei infatuato.. pensò in silenzio il prete, osservando tristemente l’amico, sapendo fosse più saggio non rivelargli nulla più del dovuto.
- Inoltre… ho la netta sensazione che voglia sposarsi con lei per togliersi dalla testa un’altra donna - aggiunse Quaglia.
- Dici davvero? Hai dedotto sia innamorato di un’altra?
- Innamorato o no, mostra i classici atteggiamenti di chi sta cercando di dimenticare qualcuno che non può avere – disse, poi riportando l’attenzione sull’amico, con sguardo lievemente sardonico. – No, non era una frecciatina nei tuoi confronti, padre.  Anche perché, non sia mai, tu non potresti certo adottare la soluzione di un matrimonio combinato per cercare di dimenticar-ahi! – lo zittì padre Craig con un calcio sulla gamba.
Ad ogni modo, se Naren fosse davvero ancora innamorato di Judith.. ciò non sarebbe affatto una buona cosa.
- Ad ogni modo.. neanche Hinedia mi sembra presa da lui – riprese Quaglia.
- No, affatto. Sembra lo stia facendo solo per accontentare i suoi genitori – osservò padre Craig. – Mi chiedo come mai, lei che è giovane e ha totale libertà di scelta, si stia condannando all’infelicità in questo modo.
- Forse crede di meritarselo. Crede di non poter aspirare a nulla di più. Dimmi, padre, chi è che si sposa per amore, in questo villaggio o in qualsiasi altro?
- I servi del Diavolo, talvolta.
- Hinedia non è una serva del Diavolo. Inoltre, il fatto di poter guardare solo gli uomini e le donne appartenenti al proprio credo, di certo non stimola in nessuno la scelta libera del “vero amore”.
Per qualche motivo, in seguito a quelle parole, padre Craig si figurò nella mente il volto disperato e sconvolto dalla sofferenza del giovane Ambrose.
Ambrose si era innamorato di un ragazzo appartenente all’altro culto.
Sicuramente non era stato né il primo, né l’ultimo.
Erano tutti condannati ad una vita di estrema infelicità, coloro che trovavano la loro anima gemella in un uomo o in una donna non appartenenti al loro stesso culto?
Lui stesso poteva dire di servire il Creatore, seppur straniero, e si era inevitabilmente innamorato di un servo e di una serva del Diavolo.
Chissà se anche Hinedia si sarebbe potuta innamorare di un servo del Diavolo, trovando in lui il suo vero e impossibile amore.
I due si riavvicinarono al gruppo e ringraziarono caldamente Hinedia e i suoi genitori per l’ospitalità.
Dopo di che, padre Craig prese da parte la ragazza.
Il prete le strinse le mani e le sorrise. – Mia dolce fanciulla, come state?
Ella accennò un sorriso forzato e gli strinse le dita a sua volta. – Bene, padre.
- Ne siete sicura?
Hinedia abbassò lo sguardo, sorridendo d’amarezza. – Non vi si può nascondere nulla, non è vero?
- Ho saputo che state già fissando la data delle nozze e organizzando i preparativi. Congratulazioni.
- Vi ringrazio.
- Lui vi rende felice? – le domandò.
La ragazza lo scrutò, affilando lo sguardo. – Perché mi state facendo tutte queste domande?
- Non parliamo da un po’ e volevo sapere come steste vivendo gli ultimi giorni di sconvolgimenti. Ho saputo che Quaglia vi ha insegnato a combattere e che ciò vi sta aiutando a dominare le vostre due anime ribelli.
- Già. Gli devo molto. Sono stata felice di ospitarlo – rispose sinceramente la ragazza, posando gli occhi su Quaglia a distanza. Tuttavia, era palese vi fosse una domanda che smaniava di uscire dalla sua bocca.
- Blake sta bene – la anticipò il prete, vedendola trasalire lievemente a tali parole. – Qualsiasi fosse il male che lo imprigionava, ne è stato liberato. Sapete, dovreste venire a trovarlo. Sono certo gli farebbe molto piacere.
- Non ne sono certa – rispose lei, titubante. – Stargli lontano è la scelta migliore per me. Se la sua vicinanza dovesse risvegliare Layla…
- Non la risveglierà. Ci saremo anche io e Quaglia con voi, non temete – la rassicurò. – E poi… sapete, la scorsa notte, in un momento di follia razionale, Blake ha elencato una serie di eventi che vorrebbe non fossero mai accaduti, provocati o causati grossomodo da tutte le persone che gli sono vicine. Eppure… ho notato che in nessuno degli eventi e dei nomi elencati da lui… c’eravate voi.
- Con ciò cosa volete dire?
- Tutti noi, volenti o nolenti, gli abbiamo fatto del male, senza rendercene conto. Tutti, eccetto voi, Hinedia.
- Volete scherzare…? Ho ucciso suo padre…
- Ma non eravate voi, Hinedia. È stata Layla. Voi, in quanto Hinedia, siete da sempre il suo rifugio sicuro da ogni male. Questo ho compreso, e ne sono del tutto certo. Egli si fida di voi, in quanto voi gli donate solo e solamente pace, serenità e tanto bene.
Hinedia rimase meravigliata da tali parole. – Andrò da lui. Quando mi sentirò pronta a vederlo e sarò certa di non fargli del male – affermò, ringraziando con lo sguardo padre Craig.
- Ve lo domando ancora: siete del tutto certa di voler sposare quell’uomo?
Hinedia posò lo sguardo su Naren a distanza, accorgendosi che il ragazzo li stava fissando, con uno sguardo attento e indagatore. – Lui mi apprezza. E mi fa sentire protetta, quando siamo insieme – si limitò a dire, senza alcuna inflessione nella voce. – Oramai siamo promessi, è giunto il momento per me di lasciare la casa dei miei genitori e di costruirmi una famiglia – concluse, atona.
- D’accordo. Se è quello che desiderate, non posso far altro che sostenere la vostra scelta, cara.
Tuttavia, ricordatevi sempre… - disse, riattirando la sua attenzione su di lui. - … la vita ha in serbo ancora molto per voi. Non mollate mai la presa. Abbiate fede, siate forte, avete ancora molto per cui vivere! Vedrete che verrete ricompensata, ve lo garantisco. Perciò… dimenticate la frase che permetterebbe al veleno di uccidervi. Dimenticatela, e vivete la vostra vita.
Si sentì in dovere di dirglielo, per assicurarsene. Dopo ciò che era accaduto la mattina prima, sentiva come se ogni singolo fanciullo e fanciulla di quel villaggio avessero bisogno di sentirselo dire.
Il suicidio di Folker aveva scosso ognuno di loro, in modi differenti.
La ragazza annuì, grata, e abbracciò il giovane prete con calore.
Terminati i saluti, padre Craig e Quaglia tornarono a casa, trovandola inaspettatamente vuota.
- Sarà andato a fare qualche commissione al villaggio – ipotizzò Quaglia. – Intanto risistemo le mie cose.
Padre Craig, intanto, si adoperò a spazzare via un po’ di polvere dagli scaffali e a raggruppare gli ingredienti per preparare il pranzo.
Ad un tratto, qualcuno bussò alla porta.
Il prete andò ad aprire e si trovò dinnanzi un bambino, un giovane servo del Creatore orfano, con un pacco e una lettera tra le mani.
- Cercate qualcuno? – domandò al fanciullino.
- Ho un pacco e una lettera per Even Blake. È in casa?
- No, ma potete lasciarli a me, glieli farò avere non appena tornerà.
Il piccolo annuì e gli lasciò tutto, per poi andarsene.
Padre Craig era cosciente che non avrebbe dovuto ficcare il naso in tali faccende, ma la sua curiosità prese il sopravvento al momento, così decise di aprire il pacco prima, poi di leggere la lettera.
Se avesse riposto la lettera nella busta esattamente come era arrivata, Blake non si sarebbe accorto di niente.
Per quanto riguardava il pacco… tale oggetto, che avrebbe dovuto essere inanimato, stava emettendo un rumore strano e alquanto molesto, che fece storcere il naso all’uomo.
Sembrava addirittura muoversi…
Aprì il pacco, e il suo sguardo da sospettoso mutò in sconcertato: una gatta miagolante e pelosissima uscì dal recipiente e lo guardò diffidente.
Craig provò ad avvicinare la mano per accarezzarla, e, dopo averlo annusato un po’, la micia decise che poteva fidarsi e si lasciò coccolare, prendendo già confidenza con il nuovo ambiente circostante.
Solo dopo qualche riflessione, il prete riconobbe il felino: si trattava di Nellie, la gatta che Judith stava accudendo alla cattedrale.
Per quale assurdo motivo l’aveva donata a Blake?
La domanda gli sorse spontanea, motivo per cui si affrettò a leggere la lettera, per ricevere risposta a tale quesito:
“Caro Blake,
non sto prendendomi gioco di voi e della vostra richiesta di far cessare la nostra corrispondenza epistolare.
Ho compreso i motivi per cui mi avete chiesto di non scrivervi più, e li rispetto.
Tuttavia, vi sono delle informazioni che non posso attendere dal darvi.
Innanzitutto, spero che gradirete il mio dono: i monaci stanno rendendo la permanenza di Nellie alle cattedrali impossibile, e non c’è più nulla che io possa fare per far accettare loro la presenza di un felino all’interno della dimora del Creatore e del Diavolo. L’alternativa sarebbe stata lasciarla per strada e non avrei mai potuto farlo, dopo essermi affezionata a lei.
Ricordo che Nellie si era fidata istantaneamente di voi, così come rimembro il vostro racconto di quando eravate bambino e avreste desiderato possedere un gatto.
Spero che la sua presenza in casa possa lenire, a suo modo, alcune ferite che vi portate dietro da tempo e di cui sono all’oscuro.
Ad ogni modo, vi scrivo in seguito ad una tremenda tragedia avvenuta qualche ora fa.
Sicuramente avrete udito del duplice suicidio per cui quasi l’intero villaggio sta manifestando.
Oggi ho fallito nel perseguire i miei obiettivi, e questo costituisce motivo di grande delusione verso me stessa. Tuttavia, non mollerò. Continuerò a raggiungere i miei propositi, e lo farò con ancor più determinazione di prima.
Spero che per voi sia lo stesso, e che lotterete, contro qualsiasi cosa vi stia rubando la pace e la stabilità mentale al momento, lasciandovi aiutare e supportare da coloro che vi amano.
Me lo auguro con tutto il cuore.
Eppure, c’è una cosa ancora più importante che ci tengo a farvi sapere, dopo attente riflessioni.
Qualche tempo fa mi avete informata sul male che affligge vostro fratello, sin dalla nascita, un male giudicato incurabile da ogni medico del villaggio che lo ha visitato.
Mi avete detto di aver provato e letto di tutto, ma di non esser mai riuscito a trovare una cura permanente.
Ora vostro fratello sembra stare meglio, da mesi, tuttavia è bene non illudersi che la sua salute rimarrà stabile se quel tremendo male è ancora in circolo nel suo corpo.
Ebbene, ho consultato diversi manuali, in entrambe le biblioteche, anche tra quelli proibiti, a cui solo io ho accesso.
Tra uno dei più antichi e sepolti manuali, ho trovato una teoria, descritta da alcuni studiosi di medicina delle terre dell’Est. Questi uomini utilizzavano metodologie molto più avanzate e complesse delle nostre, per la cura dei mali fisici, anche dei più astiosi e sconosciuti.
Secondo i sintomi che mi avete descritto, credo di aver trovato la cura per la tremenda malattia di vostro fratello, Blake.
Tuttavia, temo che mettere in pratica tale metodo potrebbe essere molto pericoloso, in quanto noi non siamo studiosi di medicina e non sappiamo nulla a riguardo, a parte ciò che è scritto su carta.
Ho voluto comunque dirvelo, nel caso voleste tentare ugualmente.
La scelta sta a voi.
Se vorrete tentare, venite da me, con vostro fratello, nelle prime ore del mattino: conosco un luogo, all’interno delle cattedrali, in cui potremmo agire indisturbati.
Preferirei non farci scoprire dai monaci: nonostante non si tratti di utilizzare la magia nera, si tratta comunque di sperimentare una metodologia estranea, sconosciuta, straniera, dunque giudicata automaticamente barbara da loro. Meglio non rischiare.
Perdonatemi per non aver rispettato la vostra richiesta, ma è stata un’eccezione: se non lo vorrete, in seguito a questa lettera non vi scriverò più.
Spero con tutto il cuore che stiate bene.
Vi auguro di guarire e ristabilirvi presto.
 
Ps: Nellie odia le verdure e ama farsi le unghie sui tappeti. Trattatela con riguardo e lei vi ripagherà mille volte tanto.
 
                                                                                                                                           Vostra, Judith”
 
Padre Craig, sconcertato, ripose la lettera dentro la busta e prese il suo mantello in fretta e furia, senza dire nulla, diretto verso la porta.
- Dove diavolo state andando?? – gli domandò Quaglia appena entrato in soggiorno, bloccandolo sull’uscio della porta.
- A cercare Blake.
- Perché tanta fretta? Che sta succedendo…?
- Abbiamo la soluzione, Quaglia! Abbiamo la cura alla malattia di Ioan!
 
 
 
 

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Capitolo 55
*** I peccati dei nostri padri ***


I peccati dei nostri padri
 
 
“Oggi ho fatto una cosa che nessuno mi perdonerà mai.
Nessuno capirà. I monaci tantomeno.
Ma che importa? L’importante è che io l’abbia fatto, finalmente.
Questo pensiero, che in tanti giudicheranno malsano, era in me da molto, forse troppo tempo.
Se qualcuno, in futuro, troverà mai questa cripta, il luogo in cui abbiamo vissuto e sofferto per quindici anni, e leggerà quello che sto scrivendo, sicuramente giudicherà le mie azioni mostruose.
Ma non ho bisogno di giustificarmi con nessuno.
Questa notte, mentre tutti dormivano, ho afferrato un pugnale che ho rubato dalla camera di padre Joyjon, e ho ucciso tutti.
Uno per uno.
Ho tagliato loro la gola, in silenzio, velocemente, e ho tappato loro la bocca mentre spiravano per morire, per non svegliare nessuno.
Volevo che fosse veloce e indolore.
In uno dei libri che ci hanno portato, c’è scritto che, per provocare una morte meno dolorosa e più rapida, bisogna recidere la gola in un certo modo. Ho messo in pratica quello che ho letto, e mi sento soddisfatto del mio operato.
Mi mancheranno i miei fratelli e le mie sorelle con cui ho vissuto questa vita senza dèi? Sì.
Rimpiango di averli assassinati tutti? No, mai.
Quello che ho fatto, l’ho fatto per loro. Per salvare loro la vita e porre fine a questa condanna.
Non mangiamo un pasto completo da mesi. Ci arrivano solo gli scarti dell’invernata.
Non abbiamo acqua, dovevamo combattere tra di noi ogni giorno per dividerci equamente quella poca che ci lasciano.
Metà di noi si sono ammalati e stavano infettando anche gli altri.
Come se non bastasse, i monaci sono sempre più irrequieti. Sono frustrati e turbati per ciò che accade là fuori, di cui noi non siamo a conoscenza, e per tali motivi si sfogano su di noi, pretendendo sempre di più.
Tutte le ragazze che sono rimaste gravide a causa della sconsideratezza dei monaci, hanno dovuto subire una strana tortura per uccidere il bambino che avrebbe messo radici in loro.
Saremmo morti di fame, di sete, di freddo, di malattia, di dolore, di consunzione.
E chi avrebbe resistito per altri anni, avrebbe sofferto fino ad impazzire.
Esattamente come me. Eppure, non mi considero pazzo, perché ho fatto la cosa più sensata che potessi fare, nelle nostre condizioni.
Qualcosa che nessuno degli altri aveva il coraggio di fare, ma che avrebbero voluto.
Non ho arrecato dolore. Ho salvato delle anime.
I monaci dicono che chi si suicida non verrà accolto né dal Creatore, né dal Diavolo.
I miei fratelli e le mie sorelle sono salvi, in quanto non si sono suicidati, sono stato io a togliere loro la vita, quindi ora le loro anime sono in pace.
Solo la mia non troverà mai tregua. Vagherà per l’eternità, nel vuoto.
Non so se sono pronto.
Ma è tardi per pensare a questo e non mi pento di niente.
Quando i monaci si sveglieranno e verranno qui, come ogni mattina, scopriranno ciò che ho fatto.
Se mi trovassero ancora vivo, molto probabilmente si approfitterebbero del mio corpo un’ultima volta, godendone ad uno ad uno, poi mi sottoporrebbero alle peggiori torture.
Non è così che voglio andarmene.
Voglio lasciare questo mondo serenamente, come i miei fratelli e le mie sorelle.
Chiamatemi folle, assassino, sanguinario, voi che venite da un’epoca che non conosco.
Ma non saprete mai cosa si prova a vivere come ho vissuto io, come abbiamo vissuto noi.
E dato che noi sciagurati non abbiamo un dio che ci ha creati, a differenza vostra… sono diventato io il dio che decide del bene e del male.
Ho assunto un ruolo necessario e ho commesso quello che voi giudicate il peggiore dei crimini.
Sono macchiato per voi. Ma, in realtà, sono immacolato, puro, libero.
Non mi sono mai sentito così bene in vita mia.
Ultimamente tutti mi dicevano che ho perso la testa, che sono arrabbiato, arrabbiato con chiunque, che ci avrei fatto uccidere a causa del mio atteggiamento, della mia ira.
Forse è vero. Sono infuriato contro la realtà che mi ha messo al mondo.
Sono infuriato perché mi hanno rubato tutto, e perché, fino a qualche anno fa, neanche me ne rendevo conto.
Non so neppure se il nome che posseggo sia quello vero. Mi hanno rubato anche quello.
Ma non importa più ormai.
Questa è l’ultima volta che scrivo.
Sento già i passi dei monaci che stanno venendo qui, perciò devo recuperare il pugnale e fare in fretta.
D’altronde, qui dentro c’è un fetore lurido. I cadaveri stanno già iniziando a puzzare.
Addio.
                                                                                                                                              Dominic”
 
 
Il sole non era ancora spuntato in cielo quando qualcuno bussò alla porta.
Inizialmente, Blake credette di star sognando.
Poi, quando percepì l’opale poggiato al suo petto iniziare a scaldarsi fino a scottargli quasi la pelle, aprì le palpebre e notò che si era illuminato, esattamente come due giorni prima dinnanzi ad Imogene.
Aprì gli occhi, nel buio della sua stanza, e il rumore di nocche che bussavano ripetutamente alla porta di casa divenne più concreto e tangibile.
Si buttò giù dal letto, uscì dalla sua stanza e si diresse verso l’entrata buia dell’abitazione silenziosa, cercando di fare il meno rumore possibile, per non svegliare anche Quaglia e padre Craig nelle rispettive stanze.
Aprì la porta, e gli occhi, da semichiusi che erano, gli si spalancarono totalmente.
Dinnanzi a lui vi era Imogene, ben incappucciata, che portava sulle spalle un debole corpo abbandonato totalmente a lei.
- Togli subito quel dannato gingillo dal collo .. – gli ordinò lei, già risentendo fisicamente degli effetti della vicinanza dell’opale.
Blake se lo sfilò e lo posizionò lontano da lei, poi le si riavvicinò e prese tra le braccia il corpo incosciente di suo fratello, maneggiandolo delicatamente, come si fosse trattato di una foglia sul punto di sgretolarsi.
Imogene lo lasciò tra le sue braccia e lo osservò sorridere nel buio, rivolgendo sguardi colmi d’amore e di doloroso sollievo al giovane ragazzino.
- Ehi, Chris… sono qui, Chris, sono io, sono qui con te e non ti lascerò più andare.
Non ci separeranno più, mi hai capito? Non permetterò più a nessuno di portarti via da me.
Non permetterò che ti accada nulla di male…  – gli sussurrò sulla tempia, chiudendo gli occhi e stringendolo a sé con forza e delicatezza insieme, mentre lo adagiava sul divano.
Nonostante il buio, a Imogene parve che il bambino, sebbene ancora incosciente, avesse quasi ripreso colore al solo contatto con il fratello maggiore, a lungo negatogli.
Era come se Ioan stesse ricambiando l’abbraccio, pur non facendolo, come se riuscisse a capire di essere ritornato da lui, nell’unico, vero luogo in cui stava bene.
Il legame che vi era tra i due era a dir poco spettacolare, magnetico; tanto che Imogene ne rimase soggiogata per qualche secondo.
- Lo hai portato in braccio fino a qui? – le domandò Blake a distanza, continuando a carezzare i capelli del fratellino.
- Tuo fratello è un peso piuma.
E poi.. non è ancora del tutto sicuro per Heloisa tornare qui.
Ho preferito portare almeno lui da te.. – spiegò ella, guardandosi intorno.
- Domani potrà già tornare: oggi Myriam ha finalmente convinto i monaci della sua innocenza.
Ad ogni modo, grazie, Imogene.
- Cosa farai con lui, ora? Proverai a guarirlo a suon di baci e carezze? – chiese la donna, più sardonica di quanto avrebbe voluto.
Volente o nolente, gli dispiaceva per il crudele destino toccato a quel gracile ragazzino.
- No. Judith ha trovato una cura.
- Judith ha trovato… che cosa?? – domandò sbigottita, non credendo alle sue orecchie. – Come diavolo ha fatto?
Il fatto che lui ne fosse a conoscenza mentre lei no, la diceva lunga sulla deriva che aveva preso il suo rapporto con la rossa. Oltre al fatto che Judith aveva utilizzato il suo tempo prezioso per cercare una cura alla malattia del fratello di Blake, nonostante non sapesse che il ragazzino fosse in condizioni tanto gravi.
Imogene sospirò, a metà tra il sollievo e una blanda rassegnazione. – Spera che funzionerà – gli disse.
- Funzionerà – rispose con decisione lui, continuando a stare accanto a Ioan.
- Me lo auguro, ragazzo. Gli altri dormono? – domandò, esplorando la casa, non curandosi di far scricchiolare il pavimento di legno con i suoi stivali.
- Sì. Se non vuoi ritrovarteli davanti, cerca di fare il meno rumore possibile – si raccomandò lui.
- Beh, dovrò pur trovarmi qualcosa da fare mentre voi due parlate.
Blake le lanciò lo sguardo più confuso e stranito che avesse mai visto. – “Voi due” chi…?
Nel momento in cui lo domandò, Blake vide un’altra figura incappucciata farsi strada dentro la dimora.
Sfortunatamente, lo riconobbe subito tramite le fattezze, ancor prima che si scoprisse il volto.
- Cosa diavolo ci fa lui qui? – domandò ad Imogene, il tono acido e scontroso rispecchiava lo sguardo a dir poco ostile che stava lanciando al nuovo arrivato.
- Mi ha pregato di farlo venire con me… dice che vuole parlarti – il ghigno finto annoiato sul volto della sciamana faceva presumere quanto quella situazione, sotto sotto, la divertisse. – Io rimarrò qui mentre vi… confronterete. Io e lui abbiamo un conto in sospeso, che dobbiamo saldare stanotte. Motivo per cui usciremo da questa casa insieme. Vero, Ephram?
Lo stregone, in risposta, annuì, per poi tornare a guardare Blake.
Sul volto un’espressione determinata e al contempo mortificata, uno sguardo che Blake non avrebbe mai pensato di vedere su di lui.
- Che cosa vuoi? – gli domandò sprezzante, indietreggiando di un passo.
- Mi dispiace per ciò che è accaduto a Beltane. Non so come altro dirtelo. Non avrei dovuto toccarti senza il tuo consenso. Mi sono lasciato dominare dai sensi, ho sbagliato. Ti chiedo scusa, davvero.
- Se non hai altro da dire puoi anche uscire da quella porta.
- Prima di sbattermi addosso il tuo muro d’odio, ascolta quello che ho da dirti, Blake – gli disse avvicinandosi. – Non sei al sicuro qui. Devi andartene da Bliaint il prima possibile.
- Cosa..? Per quale motivo mi stai dicendo questo, ora??
- L’esercito mandato dal conte Agloveil è sbarcato sulle nostre coste. Abbiamo scoperto che si trovano a Carbrey ora. Non sappiamo per quanto si tratterranno lì.
Tale informazione fece ammutolire Blake, il quale rimase a fissarlo senza dire una parola.
- Se loro giungessero qui… lo capisci cosa comporterebbe? È te che vogliono – gli disse con rinnovata fermezza nello sguardo.
- Avete fatto un incantesimo di protezione al villaggio, no? – rispose Blake, con la voce più sicura di quanto in realtà non fosse. – Non c’è pericolo che riescano a raggiungerci.
- Sì, ma l’incantesimo durerà fin quando tutti e tre gli stregoni che l’hanno lanciato rimarranno illesi e dentro i confini di Bliaint. In altre parole: se dovesse accadere qualcosa a me, a Imogene o a Myriam, saresti spacciato anche tu. Così come tutti noi.
- Se nessuno di voi tre ha intenzione di morire in breve periodo, allora posso restare qui.
- Non ti spaventa affatto il fatto che siano così vicini…? – ora lo sguardo dello stregone lasciava trasparire della chiara preoccupazione. – I monaci non permetteranno che ti prendano vivo.
- Con questo cosa vuoi dirmi?
- Che ti bruceranno.
Blake ammutolì di nuovo.
- Qualsiasi scusa sarebbe buona per bruciare un servo del Diavolo. Specie se si tratta di te.
Quando sei venuto da me, chiedendomi di mostrarti il tuo futuro… quel futuro che ho visto si adempierà, Blake, in un modo o nell’altro – gli disse mestamente.
Calò il silenzio tra i due.
Blake spostò gli occhi altrove, in pieno stato confusionale e riflessivo.
- Per questo è meglio che tu te ne vada, per evitare ogni rischio. Il prima possibile.
Era quello che desideravi, no? Girare il mondo, libero di essere chi desideri.
Blake tornò a guardarlo negli occhi. Ogni traccia di scontrosità era svanita in lui. – Sì, è vero.
- Allora fidati di me e fa’ come dico. Scappa da qui, finché sei in tempo.
- Bene. Il tempo è scaduto, il sole sta sorgendo e noi due dobbiamo andarcene. Saluta il tuo ragazzo, te lo sei goduto abbastanza – li interruppe Imogene con poco garbo, avviandosi verso la porta.
Ephram rivolse un ultimo sguardo a Blake, uno sguardo difficile da leggere, poi si tirò su il cappuccio e seguì la sciamana, uscendo di casa.
Circa un’ora dopo, Blake era già pronto per raggiungere la cattedrale, dove Judith gli aveva indicato di trovarsi, con Ioan in spalla e ben coperto.
Padre Craig lo accompagnò, mentre Quaglia decise di rimanere, per badare alla casa e restare di guardia nel caso Heloisa fosse tornata.
Quando raggiunsero la cattedrale del Creatore, era già l’alba.
Padre Craig bussò al portone furtivamente, sperando che Judith fosse già in allerta.
Fortunatamente, fu proprio la ragazza ad aprire le pesanti porte.
- Presto, affrettatevi! – li spronò ella, facendoli entrare e sbrigandosi a richiudere il portone.
Judith e Blake non ebbero neanche il tempo di realizzare concretamente di essersi rincontrati, dopo giorni di soli contatti epistolari. Non vi era tempo per i saluti al momento.
La fanciulla li condusse in una stanza isolata, vuota e fredda.
- Qui saremo al sicuro. Almeno fino a mattinata inoltrata – disse loro.
Blake adagiò il corpo di suo fratello sull’unica branda presente nella stanza, per poi coprirlo con una coperta di lana che gli porse Judith.
- Grazie – le disse di getto. – Grazie per tutto quello che state facendo per noi. Vi state esponendo.
- Non ditelo neanche – gli rispose Judith accostandoglisi, posandogli una mano sul braccio, come per trasmettergli tutto il suo calore.
Padre Craig distolse istintivamente lo sguardo.
– I monaci dovrebbero essere i primi ad appoggiare questo tipo di medicina innovativa – disse con astioso risentimento la ragazza. – Ma, come immaginavo, mi hanno deluso. Molteplici volte. Con la faccenda dei due amanti suicidi lo stiamo vedendo chiaramente: non ci si può fidare di loro e del loro giudizio distorto da una fede pregna di fanatismo – giudicò duramente, poi posando lo sguardo sul corpo incosciente del ragazzino biondo. – Per tutti gli Inferi… avevate detto che stava meglio.. non credevo che la situazione fosse così grave. Povero fanciullo…
- Si è aggravato di recente – le spiegò Blake. – Non ho avuto il tempo di avvertirvi. Ma, fortunatamente, avete trovato la cura. Siete stata più veloce di me – le disse accennandole un sorriso riconoscente.
Ella ricambiò, poi si affrettò a prendere l’antico tomo su cui aveva letto del miracoloso metodo di cura al malanno di Ioan. – Vedete… i sintomi di vostro fratello sono gli stessi che descrivono qui.. – gli indicò la riga della pagina interessata, e Blake vi posò gli occhi a sua volta.
- Come avete fatto a decifrarla..? È una lingua antica – le domandò, facendo difficoltà a leggere.
- Conosco diverse lingue antiche e le loro radici.
Qui le chiamano “le malattie del midollo spinale”.
Sono malanni che coinvolgono in particolare il sangue.
Questi medici stranieri ritenevano che si potessero curare donando il sangue di soggetti sani ai soggetti malati.
- Donare il sangue…? – domandò Blake confuso. – E come riuscivano a farlo?
- Non lo spiegano con certezza…
- Beh, possiamo trovare una soluzione a questo – intervenne padre Craig accostandosi a loro. – Quando ero ad Armelle ho sentito parlare di un ago appuntito e di un tubicino fabbricati da alcune popolazioni straniere… un tubicino che serviva ad assumere sieri e pozioni facendole passare direttamente per il sangue. Lo usavano per tutti coloro che non potevano ingurgitare tali intrugli per bocca, poiché pericolosi da ingerire. Non deve essere difficile crearlo con le giuste materie prime.
- Alla galleria abbiamo tutte le materie prime di cui abbiamo bisogno – risolse il problema il ragazzo. - Tornerò a casa e ne fabbricherò uno.
- Intanto io terrò Ioan qui e mi curerò di lui – disse Judith.
- Tuttavia, basta questo..? Basta scambiarsi il sangue con persone sane per curare queste “malattie del midollo spinale”? – domandò padre Craig.
- Qui dice che delle “trasfusioni” costanti porteranno alla quasi totale guarigione.
- Tuttavia, ho passato mesi a studiare l’alchimia e ho appreso delle informazioni che potrebbero esserci utili – commentò Blake, preso nelle sue riflessioni.
- Parlate.
- Il sangue non è uguale in ognuno di noi. Ce ne sono diverse tipologie e alcune di loro non possono mischiarsi tra loro, altrimenti l’organismo lo rigetterà.
- Dite davvero..? – domandò Judith affranta. – Come faremo a capire chi abbia il tipo di sangue giusto da poter donare a Ioan?
- Credo di poterlo capire. Tramite alcune pratiche alchemiche di distillazione – rispose Blake. – Mi serve solo una goccia di sangue di ognuno di noi.
- Aspettate qui – rispose Judith, precipitandosi fuori dalla stanzetta. Dopo qualche minuto tornò con in mano quattro boccette di vetro vuote e quattro aghi da cucito.
- Ecco qua – porse ad ognuno di loro una boccetta e un ago, lasciandone poi due da parte per Ioan.
Ognuno dei tre si punse un dito con un ago e fece cadere qualche goccia di sangue dentro ciascuna boccetta. Poi fecero lo stesso con Ioan.
- Bene. Ora vado. Spero di riuscire a terminare per il pomeriggio – disse Blake recuperando i materiali e rinfilandosi il mantello.
- Avete bisogno di assistenza? – gli domandò padre Craig alzandosi a sua volta.
- No, ci sarà già Quaglia ad aiutarmi. Voi restate qui con Judith e Ioan – si raccomandò il ragazzo, poi lanciando uno sguardo speranzoso a Judith e andandosene.
Padre Craig si accostò alla ragazza, prendendo a osservare il viso placido e rilassato di Ioan.
- Sembra quasi stia solo dormendo… - sussurrò lei, sorridendo amareggiata.
- Già.
- Vedo che avete chiarito – gli disse lei voltandosi a guardarlo, rivolgendogli un sorriso complice e fiero.
Padre Craig annuì. – In parte è solo grazie a voi… se voi non mi aveste detto..
- Ora non pensateci, padre.
I due non fecero in tempo a dirsi altro che qualcuno aprì pesantemente la porta della stanzetta, facendoli trasalire.
- Che il Signore mi rischiari la via..! Che cosa sta succedendo qua dentro?? – esclamò padre Thomas, entrando nella stanza e osservando i tre. – Quel ragazzino è per caso Christopher Ioan…?? Judith, vuoi spiegarmi cosa sta succedendo qui? – le domandò costernato.
- Ora calmati, padre – gli intimò lei fronteggiandolo. – Ho invitato Ioan qui per curare il suo malanno.
- “Curare il suo malanno”..? Il suo malanno è incurabile!
- A quanto pare no, padre – lo zittì lei, con sguardo eloquente.
A ciò, l’uomo sgranò gli occhi, sconcertato. – Non dirmi che hai consultato i tomi proibiti! Quella non è medicina, è barbara stregoneria, Judith!
- Per voi qualsiasi cosa non provenga direttamente dai libri sacri è stregoneria! La medicina, la magia e la fede in dio sono tre cose ben distinte, padre, fareste meglio a farvelo entrare in testa, tu e gli altri.
- Stai dissacrando la casa di Dio mettendo in pratica tali atti sacrileghi …
- Questa vorrebbe essere una minaccia? – sussurrò lei avvicinandosi a lui, torreggiando sull’uomo con il suo sguardo fulminante e supponente. – Il fatto che mi abbiate cresciuta non implica che io vi sia sottomessa o non sia in grado di pensare con la mia testa. Se mettessimo in pratica l’antica medicina straniera per ogni componente del villaggio, probabilmente eviteremmo tutte le tragedie di cui siamo vittima ogni anno.
- I nostri medici hanno sempre svolto un ottimo lavoro..
- Non abbastanza!
Padre Thomas la guardò esterrefatto. – Sei stata traviata da quel ragazzo..?
Judith lo guardò come se le avesse appena detto di aver visto un drago a tre teste, e persino padre Craig si voltò verso di loro, allibito e stranito dalle parole appena pronunciate dal monaco.
- Cosa diavolo stai dicendo, padre? – gli domandò Judith.
- Se Christopher Ioan è qui, ciò vuol dire che anche Even Blake è stato qui.
Dimmi, per quale motivo stai curando suo fratello…? Ti sei invischiata nelle sue faccende?
Non sai che genere di persona sia quel dannato ragazzo??
- Attento a come parli, padre Thomas – gli intimò Judith, sempre più irritata.
- Judith, tu non capisci!
Blake è una serpe. È l’incarnazione del Diavolo!
Devi stare lontana da lui, ti proibisco di vederlo – le ordinò, afferrandole il braccio con forza.
- Tu e tutti gli altri monaci non potete proibirmi proprio niente!
Come osi?? – controbatté la ragazza, furibonda, strattonando il braccio.
- Innanzitutto, toglietele le mani di dosso – intervenne con rabbia padre Craig nel momento in cui vide il monaco toccare Judith. – Secondariamente... per quale motivo ce l’avete tanto con lui??
- Quel ragazzo è invischiato in magie e pratiche oscure.
Inoltre, ha attirato dei nemici stranieri nella nostra sacra terra!
Dai secoli dei secoli nessuno straniero ha mai osato mettere piede a Bliaint con cattivi intenti.
Ma da quando c’è lui… lui ci ha maledetti, ci ha esposti al pericolo!
E se andrà avanti così ci condurrà alla rovina.
- Non avete accuse concrete contro di lui – lo zittì nuovamente Judith. – Tutto ciò che hai menzionato ha nulla rilevanza per me.
- Non ci serve avere accuse concrete contro di lui – rispose padre Thomas, spaventandoli. – Potremmo imprigionarlo e giustiziarlo quando vogliamo, Judith – le disse, in tono di minaccia, accostando il volto al suo. – Tieniti a distanza da lui, cara figliola, se non vuoi che gli accada nulla di male.
Dopo di che, il monaco lasciò la saletta, lasciando Judith e padre Craig allibiti e con la testa in subbuglio.
 
- È padre Craig – decretò il ragazzo, osservando la reazione del sangue del succitato dentro la boccetta, mischiato al composto. – Tra il mio sangue, il tuo, quello di padre Craig e quello di Judith.. quello di padre Craig è il solo compatibile con il sangue di Ioan.
- Ne sei del tutto sicuro?
- Assolutamente – confermò Blake, iniziando a sistemare i materiali utilizzati nella fucina, pronto per ripartire.
- Dì un po’… gli farà male? – gli domandò Quaglia, aiutandolo a rivestire di stoffa il tubicino che avevano creato, per rendere più agevole il trasporto.
A ciò, Blake lo guardò, rivolgendogli uno sguardo sornione.
- Che c’è? – gli domandò Quaglia. – Perché mi guardi così?
- No, nulla. Il tuo tenero spirito d’amicizia è quasi toccante. Non appena lo raggiungerò, gli dirò che ti sei preoccupato tanto per lui.
- Cosa c’è di goliardico in ciò? È mio amico, è normale che mi preoccupi, dato che dovrà prestarsi ad una pratica sconosciuta e potenzialmente pericolosa… se lo avessi dovuto fare tu, mi sarei angustiato allo stesso modo. Ti preoccuperesti anche tu per lui, se solo non avessi il cuore di ghiaccio – ribatté punzecchiandolo.
Blake fece roteare gli occhi al cielo. – Non c’è nulla di cui preoccuparsi, te lo garantisco. Lo hanno già fatto moltissimi uomini, in paesi lontani da qui. Non gli accadrà niente di male.
A ciò, Quaglia gli rivolse un sorriso semi sollevato, osservandolo. – Sei felice che tuo fratello guarirà, finalmente?
- Che razza di domanda è?
- Potresti smettere di fare il pragmatico per una volta, e darmi la soddisfazione di rispondermi?
A ciò, Blake si rizzò su, caricandosi in spalla il sacco con l’occorrente e guardandolo negli occhi. - Come se un enorme peso che mi ha schiacciato la schiena e le membra per anni… se ne stia finalmente andando – gli rispose, accennando un sorriso sereno, per la prima volta.
Quaglia se ne beò e ricambiò. – È bello vederti quello sguardo sul viso.
Blake distolse gli occhi da lui e li fissò sulla finestrella della fucina. – È pomeriggio inoltrato. Dobbiamo andare.
 
Giunti alla cattedrale, sottoposero padre Craig al trattamento, estraendo il suo sangue dal corpo, per poi farlo confluire nel corpo del ragazzino.
Ma non appena uscirono allo scoperto, trovarono un’immensa folla di persone, intente a protestare, come stavano facendo da giorni oramai, con l’obiettivo di ottenere dai monaci il permesso di commemorare e seppellire i due ragazzi suicidi.
La folla si fece largo tra loro con violenza, intenzionata a penetrare dentro la casa del Creatore, o meglio, la casa dei monaci del Creatore.
Madri, padri, figli, agguerriti come belve mentre spingevano, non avendo riguardo nemmeno per una donna incinta.
Vennero divisi dalla folla scalpitante, Judith venne spinta con noncuranza, e Blake la sostenne a sé.
Poi, all’improvviso, la figura di una donna apparve in cima alla fiancata destra della cattedrale, la più bassa e vicina al popolo riunito lì sotto.
Si era arrampicata fin lì, tenendosi la sottana sgualcita con le mani. L’aspetto sembrava quello di una selvaggia, avente trascorso anni da nomade.
Blake la riconobbe immediatamente, nella follia e nella confusione del momento. – Madre…? – sussurrò ad occhi sbarrati.
Heloisa attirò l’attenzione di tutti con la sua sola presenza in cima a quel tetto spiovente, riducendo la folla al silenzio.
I suoi lunghissimi ricci castani erano mossi dal vento tremendo che soffiava quel pomeriggio, così come i suoi vestiti, che scivolavano sul suo corpo ancora giovane come leggeri petali, induriti e macchiati.
Heloisa sembrò fissare la popolazione del suo villaggio ad uno ad uno, con sguardo serafico e impenetrabile.
- Quella non è la vedova del defunto proprietario della galleria? Colei accusata di aver ucciso suo marito? – si udì qualcuno sussurrare.
Fu solo dopo diversi minuti che Heloisa aprì bocca e iniziò a parlare a gran voce:
- Ascoltatemi, genti che popolano la mia terra.
Non sono qui per parlare di me, nè della tragedia che ha colpito la mia famiglia, né dell’oscena viltà dei monaci nell’incolpare dell’omicidio di un uomo la sua consorte addolorata.
No.
Quest’oggi sono qui per denunciare un misfatto. Il peggior misfatto che possa essere mai consumato su questa terra.
Un peccato che… sono certa, entrambi i nostri signori punirebbero con la dannazione eterna, nella peggiore delle sofferenze – disse, e i suoi occhi erano già lucidi, due diamanti pronti ad esplodere. - Durante il mio costretto autoesilio, attuato per evitarmi una condanna ingiusta… ho avuto modo di venire a conoscenza di tale peccato, molto nello specifico.
Sicuramente, molti di voi sapranno di cosa sono stati vittime alcuni dei nostri ragazzi, dei nostri figli servi del Diavolo, quando erano bambini…
A tali parole, anche gli occhi di Judith divennero lucidi.
- Un monaco, uno schifoso pervertito… adescava i nostri figli per abusarne.
Fortunatamente, quell’uomo è morto da anni. Tuttavia… voglio che sappiate che egli non è stato né l’unico… né il primo.
Ciò che sto per dirvi sconvolgerà la vostra realtà nel più nefasto dei modi, così come ha sconvolto la mia.
Ora anche i monaci erano usciti allo scoperto, per ascoltare le parole della donna che si era innalzata al cielo.
- Tanti secoli fa… precisamente all’epoca di colui che usiamo chiamare il nostro “salvatore”, Allister Chaim… – disse con immenso disprezzo. – ..quest’ultimo ha dato inizio ad un’usanza abietta, ignobile, tremenda, abominevole.
Egli, con l’aiuto di altri monaci, ha iniziato a rapire i neonati servi del Diavolo di questo villaggio, con l’inganno.
Li rubava alle loro famiglie, fingendo che fossero morti, e li prendeva con sé, facendone dei prigionieri.
Tuttavia… ho motivo di credere che, nei secoli seguenti, quando questa esecrabile usanza è stata trasmessa… i genitori abbiano donato spontaneamente i propri figli ai monaci, manipolati dalle parole di questi “messaggeri di dio”… - la voce era roca, rotta dal pianto. Alcune persone, tra la folla, si tapparono la bocca, trattenendo le lacrime a loro volta.
 - I monaci ci hanno imposto il loro volere e hanno dominato le nostre azioni da secoli, compiendo peccati che mai, lontanamente, ci saremmo immaginati.
Le cripte nascoste e sepolte all’interno di entrambe le cattedrali ne sono testimoni: era all’interno di quei tuguri bui, umidi, sporchi e terrificanti, che venivano tenuti prigionieri i bambini sciagurati.
Luoghi che rappresentano la vergogna degli “uomini di dio”… e che sono stati seppelliti nel tempo, per nascondere i loro peccati imperdonabili.
Con l’aiuto di un’amica, sono riuscita a scoprire l’esistenza di tali cripte… e cosa fosse contenuto al loro interno: centinaia, migliaia di iscrizioni sulle pareti, sui pavimenti, ovunque un bastoncino o una lama smussata potesse imprimere un segno… testimonianze dei giovanissimi prigionieri, che hanno vissuto la loro dannazione e il loro calvario lì dentro… anime innocenti e pure… torturate, usate come oggetti, per soddisfare un disgustoso bisogno carnale inestinguibile.
Imogene la guardava dal basso come tutti, con in volto la sua stessa consapevolezza e grevità.
- I primi tre, coloro che per primi sono stati rapiti, seviziati e imprigionati da Allister Chaim… ci hanno lasciato delle testimonianze non solo sui muri.
La prima tra tutti, nonché la preferita del nostro “salvatore”, viene descritta come una ragazza intelligente, sveglia, infinitamente sensibile. Ella ha imparato a leggere e scrivere in giovanissima età, e ci ha lasciato persino un racconto scritto da lei, andato perduto… un racconto in cui, tramite una storia di fantasia, emerge la sua amara condanna. Nessuno sa dove si trovi il racconto di Erin. “Erin”, questo era il suo nome. Un nome impostole da coloro che le hanno rubato tutto. Il solo motivo per cui sappiamo qualcosa di Erin, risiede nella veste di sua “sorella”. Una ragazza altrettanto coraggiosa, e particolarmente combattiva… ella, sulle proprie vesti, ha riportato la sua storia, la loro storia, scrivendo con il proprio sangue le sfortunate vicende che hanno visto protagonisti lei, sua “sorella” e suo “fratello”. Il nome di tale audace fanciulla… era Nellie.
All’udire tale nome, sia Blake che Judith vennero colpiti da un brivido lungo la schiena.
Entrambi si guardarono all’unisono, e Blake tirò fuori dalla sacca che si era portato con sé il vecchio racconto prestatogli da Judith. Lo aveva terminato e lo aveva portato con sé per riconsegnarglielo.
“A Nellie: anima mia, sorella e luce sul mio cammino. A te, dono metà del mio cuore, sperando che ciò possa in qualche modo guarirti da tutto il male che ci hanno fatto.”
Blake alzò al cielo il libro, facendosi notare da sua madre, la quale smise di parlare non appena lo vide.
- Non è andato perduto: è qui – disse a gran voce il ragazzo.
Heloisa lo guardò con le lacrime agli occhi, mentre la folla spostava lo sguardo sul libro che suo figlio teneva in mano, con il braccio teso verso l’alto.
Judith si perse a guardare il libro, quelle pagine quasi sul punto di disintegrarsi, che aveva sfogliato e risfogliato centinaia di volte, rapita.
Per tutto questo tempo… non ho mai saputo.
Per tutto questo tempo… la tua storia era tra quelle righe, ma io non l’ho vista.
Oh, Erin… ecco perché ti ho sempre sentita così vicina.
- Questa è la veste in cui Nellie ha riportato solo alcuni degli episodi di vita quotidiana che coinvolgevano i primi tre, oltre al peggiore e più aberrante supplizio a cui è stata sottoposta, all’età di soli quattro anni… - riprese a gran voce Heloisa, alzando la veste vecchia e insanguinata al cielo, sotto lo sguardo agghiacciato di tutti i presenti.
- “Ricordo che quel giorno non era un bel giorno” – iniziò a leggere, e nessuno dei presenti si domandò per quale motivo sapesse leggere. Non era importante al momento – “Il freddo traspirava dalle pareti, e anche se non abbiamo finestre qui, riusciamo a percepire distintamente se sia freddo o caldo di fuori.
Erin non faceva altro che ripetermi che, presto, sarebbe arrivata la primavera, e con essa il caldo.
Ma io, per qualche motivo, non ci credevo.
Erano giorni che i monaci provavano a toccarmi dove non volevo essere toccata.
Tutti dicevano che era una cosa naturale e che ribellarmi mi avrebbe solo creato guai, specialmente Erin, ma io mi rifiutavo categoricamente, con l’ostinazione tipica di una bambina.
Poi arrivò il buio. Contiamo le ore con le dita, perciò sapevamo fosse sera.
C’era molto movimento fuori dalla porta. Noi non capivamo cosa fosse.
I monaci discutevano, alcuni sembravano contrari a qualcosa che altri avevano proposto.
Ma noi eravamo ignare di tutto.
Ricordo che Erin mi circondò il corpicino con la sua sottana e mi strinse a sé, scaldandomi e sussurrandomi parole di conforto.
Parole di conforto a cui non credeva neanche lei.
Poi qualcuno aprì la porta: era padre Chaim.
Non saprei mai descrivere lo sguardo che aveva quel giorno, quando aprì quella porta.
D’altronde, ero molto piccola, ricordo solo alcuni stralci di quel giorno che mi ha rovinato la vita.
Piccola. Piccola, stupida e testarda.
Se solo avessi ascoltato mia sorella e avessi permesso loro di toccarmi consensualmente, come faceva lei, mi sarei evitata tanta sofferenza. Ora lo capisco.
Erin, che era sempre quella obbediente, quel giorno si oppose a padre Chaim e mi trattenne a sé, per non farmi portare via da loro. Era come se già capisse cosa mi sarebbe accaduto. Erin ha sempre avuto un intuito pauroso.
Mi portarono via nonostante le proteste di mia sorella.
Tutto ciò che ricordo… è che mi sbatterono in una stanza che emanava una puzza terribile.
Era più piccola, più sporca del luogo in cui ci tengono rinchiusi.
Erano in sei. O forse in sette. Non ricordo esattamente i loro visi, perché era buio e non vedevo le mani che mi toccavano. Non li riconobbi tutti. Però, sapevo per certo che padre Chaim era tra loro.
Iniziarono a spogliarmi, strappandomi letteralmente i vestitini di dosso.
I loro fiati puzzavano di qualcosa che non riuscivo a riconoscere.
Iniziai a scalpitare e ad urlare come facevo sempre, ma stavolta non bastò.
Non si fermarono. Infilarono le loro dita dentro di me, dentro ogni fessura che il mio corpo nudo esponeva loro.
Non riuscivo a respirare.
Le mie pareti interne si stavano rompendo, disintegrando.
Non lo ricordo neanche, quel dolore. Non lo ricordo perché era troppo da sopportare e il mio corpo l’ha dimenticato.
Mi toccarono, graffiarono, ferirono, picchiarono ovunque.
I loro non erano baci, ma morsi, intenti a divorarmi, a provocarmi più dolore possibile, violenti, continui, sempre più voraci.
Nella foga del momento mi strapparono alcune ciocche di capelli, lo ricordo bene.
Quel dolore me lo ricordo.
Alla fine, annegavo nel sangue e mi mancava il respiro.
La mia saliva era diventata schiuma, non riuscivo a chiudere la bocca, a parlare, a muovermi, a sentire niente.
Mi avevano uccisa.
Credevo di essere morta. L’ho creduto per tantissimo tempo.
Quando mi riportarono da Erin, lei scoppiò in lacrime non appena mi vide, e mi strinse a sé per un tempo infinito.
Io non sentivo niente.
Mi pulì, mi cambiò vestiti, mi lavò, si prese cura di me.
Io continuavo a non sentire niente” – Heloisa fece una pausa dalla lettura, un’altra lacrima amara e bollente solcò una sua guancia. Il fiato le mancava.
- “Oggi Erin sta scrivendo ancora il suo racconto, ma sembra non finirlo mai.
Ogni volta che i monaci entrano qui dentro e chiedono la compagnia di uno di noi, lei lo nasconde.
Non vuole che nessuno lo veda e lo bruci.
Ai monaci non piace che noi scriviamo.
Per questo la mia veste la seppellisco ogni volta nello stesso punto, quando ho finito di scrivere. Nemmeno Erin e Noam sanno della sua esistenza.
In realtà non dovrei più chiamarli così, perché ci siamo dati dei nuovi nomi, ma non mi abituerò mai.
Giada, Tormalina e Rubino. Sono i nostri veri nomi, lo abbiamo deciso insieme io ed Erin perché ci piacciono i cristalli e le pietre.
Oggi Noam compie sette anni. È la ricorrenza del giorno in cui padre Chaim lo ha portato da noi per la prima volta, quando era solo un neonato.
Gli abbiamo misurato l’altezza e ci siamo accorte che è più alto di quanto lo eravamo noi alla sua età.
I segni delle nostre stature sono ancora impressi sui muri.
Forse è più alto perché è un maschio. È un maschio ed è tanto diverso da noi.
Mi piace la sua diversità, e piace anche a Erin.
Nonostante siano passati sette anni, dobbiamo ancora abituarci ad avere un fratello.
A volte passiamo intere giornate sdraiati, a parlare, parlare, parlare e basta. Poi ci diamo lunghi baci, perché non abbiamo una madre o un padre che ce li danno, quindi ce li diamo tra noi.
Lo spazio della veste sta finendo e se continuo a scrivere non saprò più dove scrivere.
Non so a chi voglio più bene, tra i due.
Non posso descrivere l’amore che provo per loro perché non ne sarei in grado.
Tutto quello che so è che li amo. Loro sono le mie anime e darei qualsiasi cosa per renderli felici.
Forse, però, non ho detto una cosa del tutto vera.
Non è vero che non ho una mamma.
Erin è sempre stata anche la mia mamma. Lei è tutto, per me.
Il mio ultimo pensiero che imprimo su questa veste… lo lascio a te, Erin.” – Heloisa terminò, stringendosi la veste sul petto, tremando.
Il silenzio tombale regnava tra la popolazione di Bliaint, di entrambi i culti.
- Ma non è tutto.
La storia dei primi tre non è la più straziante che ha avuto luogo in quelle cripte maledette…
Vi è addirittura una testimonianza persino più cruda e atroce, di un altro dei bambini sciagurati, vissuto durante la terza generazione dopo Allister Chaim.
Dominic. Dominic è in assoluto colui che ha scritto di più su quelle pareti.
Egli ci ha descritto per filo e per segno cosa accadeva dentro le mura della casa del signore. Di entrambe le case del signore.
Egli… - Heloisa si bloccò di nuovo, trattenendo un’altra ondata di lacrime amare. - … era chiaramente un bambino più intelligente degli altri. Più sveglio, più astuto, più determinato.
E non posso fare a meno di sentirlo un po’ mio. Come un figlio che ho perso secoli fa, e di cui vengo a conoscenza solo ora. Mi sono immedesimata in sua madre… nelle madri di tutti quei bambini.
Dominic è stato spezzato dai suoi aguzzini, così come tutti gli altri, ma in una maniera molto più abissale e raggelante.
Una notte, egli ha sterminato tutti i suoi “fratelli” e “sorelle” che vivevano nella cripta con lui, con un pugnale rubato.
Dopo di che, si è tolto la vita, pienamente lucido e consapevole delle sue azioni.
Un ragazzino di soli quindici anni.
I monaci lo hanno costretto a prendere in mano un’arma… e a macchiarsi del sangue delle persone alle quali voleva più bene al mondo.
I monaci lo hanno reso un sanguinario.
I monaci lo hanno reso un assassino. Un assassino in grado di addossarsi un’immensa colpa, pur di porre fine alle sofferenze di tutti i suoi compagni di sventura. E alla sua. Una sofferenza ineccepibile, per ognuno di noi.
Una sofferenza … che non capiremo mai, per quanto profonda e lacerante.
Non conosciamo i loro aspetti, anche se lo vorremmo.
Conosciamo solo i loro nomi e quello che hanno passato.
Erin, Nellie, Noam, Dominic, Bjork, Harper, Nadia, Sarah, Cameron, Devin, Maja, Yannick, Olga.
Questi sono solo alcuni, degli innumerevoli nomi dei bambini sciagurati, rubati allo loro madri e ai loro padri, e trattati come bestie, abusati in ogni modo possibile.
Non sappiamo quando e se questo circolo infernale abbia avuto fine… non abbiamo prove contro gli attuali monaci che dominano su questo villaggio, ma ne abbiamo abbastanza per condannare per l’eternità i loro predecessori – terminò, catapultando i suoi occhi glaciali sulle figure in tunica monacale che la fissavano esterrefatti e raggelati, dal basso, tra la folla.
Anche tutti gli altri fedeli, chi in lacrime, chi con sconcerto, chi allucinato, si voltarono a guardare le figure più odiate di tutto il villaggio, tra loro.
Judith, allibita, fece altrettanto, fissandoli con occhi di fuoco.
- Vi giuriamo, sul nome di entrambi i nostri signori… che noi non eravamo minimamente a conoscenza di ciò che questa donna ha detto! Né dell’esistenza delle cripte!
Noi non abbiamo mai e poi mai preso parte a questo scempio!
Che le nostre anime siano dannate se le nostre parole non sono vere!
La folla iniziò a scagliarsi su di loro, incurante delle parole appena pronunciate da un disperato padre Petrit.
- Voi ci opprimete da secoli!
Avete rapito e violentato i nostri figli!!
Ci avete bruciati al rogo come fossimo maiali!!
Liberiamoci dal giogo dei monaci!!! – urlò a gran voce Heloisa dall’alto della sua posizione, facendosi portavoce della furia di tutto il villaggio! – Liberiamoci dal giogo dei monaci!!! – li aizzò ancora, e loro la udirono forte e chiaro.
- Liberiamoci dal giogo dei monaci!!! – gridò in coro la folla, imitandola.
Judith era a dir poco sconvolta, Blake accanto a lei era ammutolito.
Quaglia riuscì a raggiungerli nuovamente, di lì a poco. – Ehi, state bene?? – domandò loro, facendosi largo tra la folla agguerrita.
Judith si voltò verso Blake, che era il più alto tra loro. – Riuscite a vedere qualcosa? – gli domandò.
Il ragazzo guardò oltre la folla di gente che li stava spingendo. – I monaci sono riusciti a tornare dentro la cattedrale illesi, quasi tutti. Le persone stanno spingendo per entrare..
- Chi è rimasto fuori??
- Padre Petrit – le rispose Blake affilando lo sguardo per guardare meglio.
Judith venne spinta nuovamente addosso a Blake, e lui la sostenne per non farla cadere a terra.
- Ascoltatemi!! – attirò la loro attenzione padre Petrit, l’unico monaco rimasto ancora tra la folla, prima di venire aggredito. Egli aveva il volto sconvolto dalle lacrime.
- Che diavolo ha intenzione di fare…? – domandò Quaglia stupito.
- Se incolperete degli uomini innocenti, attribuendo loro un gravissimo peccato che non hanno commesso… solo perché lo hanno commesso i loro predecessori… non credete che verrete giudicati altrettanto duramente sia dal Creatore che dal Diavolo?!? Non vi interessa sapere la verità?? O volete scagliare su di noi una rabbia immotivata, con l’unico scopo di trovare un colpevole che non esiste più?!? Noi siamo uomini di dio! E se siamo innocenti… brucerete tutti all’inferno per esservi scagliati su di noi!!
A tali parole, la folla si quietò, permettendo al monaco di rientrare nella cattedrale indisturbato.
- Da che pulpito… - sussurrò velenoso Blake, guardando con disprezzo la figura del monaco sparire da dietro gli imponenti portoni della cattedrale del Creatore.
Judith si stava ancora reggendo a lui e al suo addome. Tutto quello spintonare e il totale sconvolgimento mentale a cui era soggetta, avevano peggiorato i costanti dolori che provava giornalmente al ventre gonfio. I gemelli si erano sicuramente agitati, a causa di tutto quel trambusto, interno ed esterno.
- Non posso crederci… non posso credere a ciò che ho appena udito… - sibilò Judith.
- Siamo tutti a dir poco sconvolti… - commentò Quaglia. – Credete che ciò che ha detto Heloisa sia tutto vero?
- C’è solo un modo per scoprirlo: controllare nelle cripte – rispose Blake, anche lui ancora incapace di metabolizzare tutto ciò che era accaduto e che aveva udito.
- Ora non è il momento… devo prima riposare… i bambini mi stanno facendo impazzire – disse lei.
- Vi accompagno dentro – le propose Blake.
- Vi ringrazio – acconsentì lei. – Prima però, dobbiamo accertarci delle condizioni di padre Craig e di vostro fratello.
 
Padre Craig aprì le palpebre.
Sentiva il suo corpo come intorpidito, come se avesse dormito per una vita intera.
Debole, senza forze e assonnato.
- Padre..?
Udì una voce vellutata e offuscata, e una mano che gli toccava il braccio.
Quando mise a fuoco chi si trovasse accanto a sé, credette di aver raggiunto il Paradiso: Judith sedeva sul lato destro del suo letto, mentre Blake era in piedi alla sua sinistra.
Due angeli che gli sorridevano come avrebbero sorriso ad un bambino piccolo.
Padre Craig sorrise lieto, guardandoli entrambi.
- Come vi sentite? – gli domandò Judith.
- Come se mi avesse calpestato una mandria di buoi… ma ora che vi vedo sto già meglio – disse ad entrambi.
- È normale che vi sentiate così, vi abbiamo tolto molto sangue – gli disse Blake. – Ora dovete solo riprendere le forze: Quaglia vi porterà fuori di qui e vi preparerà un pasto da re. Mangiate tanto e bevete molta acqua – si raccomandò il ragazzo.
- La trasfusione… com’è andata? – gli domandò con apprensione il giovane prete.
Ma lo sguardo sollevato e sereno di Blake parlava per lui. – Sembra bene… dobbiamo solo aspettare che si risvegli per accertarcene - gli rispose, accennandogli un sorriso infinitamente grato e abbassandosi verso di lui. – Non vi ringrazierò mai abbastanza per ciò che avete fatto oggi, per mio fratello… - gli sussurrò, facendo scaldare il cuore e la pelle del giovane prete, tanto da fargli credere di star ancora sognando.
- Bene… - rispose lieto, chiudendo gli occhi. – Ne è valsa la pena…
- Sembra sia in trance. Sicuri che starà bene? – intervenne Quaglia avvicinandosi a sua volta.
- Sì, deve solo riprendersi, ora è molto debole, ragionevolmente. Vi prenderete cura di lui, non è vero? - si raccomandò Judith, guardandolo dal basso e stringendo la mano di padre Craig.
- Ovviamente, mia cara – le rispose lui.
- Quaglia, amico mio… anche tu sei qui – gli disse il giovane padre riaprendo le palpebre.
- Sì, padre.
- Per quanto siate felici… noto comunque delle ombre scure sui vostri volti… è successo qualcosa, per caso? – domandò il prete, con un velo di amarezza nella voce.
I tre si guardarono tra loro, non riuscendo a nascondere l’angoscia che provavano.
- Ti sei perso qualcosa di davvero … enorme, là fuori. Mentre eri incosciente sono accadute delle vicende di cui… meglio che non te ne parliamo ora. Meglio che, prima, tu ti riprenda, amico mio. Non saranno informazioni facili da digerire. Ora alzati, e vieni con me.
 
Judith raggiunse nuovamente la stanza dove si trovava Ioan in fase di ripresa, dopo due ore intere di riposo nella sua camera.
Oramai era sera inoltrata.
Come immaginava, Blake era ancora lì, ad attendere che il fratello riaprisse gli occhi.
Judith era convinta che avrebbe atteso l’intera nottata se fosse stato necessario.
Ioan era sdraiato sul letto, con il gracile braccio fasciato a causa della trasfusione. Il suo colorito si era leggermente animato, il suo viso era rilassato e sembrava stesse solo dormendo beatamente. Blake era seduto accanto a lui e si era addormentato a sua volta, con la testa e le braccia poggiate al letto, le mani a fargli da cuscino.
Judith si avvicinò a lui e lo osservò: con il viso così disteso dal sonno, il profilo del ragazzo le parve un dipinto o una scultura.
Non riusciva a capacitarsi di quanto gli fosse mancato.
Non era normale sentire una così profonda mancanza e nostalgia nei suoi confronti.
Gli si accostò e gli posò una delicata mano sulla spalla, scuotendolo.
Lui aprì gli occhi lentamente, risvegliandosi dal suo torpore e accorgendosi della sua presenza.
- Vi siete addormentato – gli disse la ragazza, rivolgendogli un dolce sorriso.
- Quanto tempo è passato? – le domandò con la voce arrochita dal sonno, tirandosi su.
- Due ore.
- Siete riuscita a chiudere occhio?
- Inaspettatamente sì. E anche voi, da come ho visto, nonostante foste in una posizione molto più scomoda della mia. Io, al contrario vostro, ero su un comodo e spazioso letto – gli disse, poi volgendo lo sguardo al bambino ancora incosciente. – Suppongo sia inutile incoraggiarvi a tornare a casa, Blake, vero? Avete bisogno di riposo, questa giornata è stata sfiancante per tutti.
- Voglio rimanere fin quando non si sveglierà. Grazie per il pensiero.
- Immaginavo avreste risposto così – disse lei, per poi porgergli un piccolo fagotto di stoffa, contenente qualcosa.
Blake lo prese e lo osservò incuriosito. – Che cos’è?
- Le persone stanno cenando al momento. Io ho stuzzicato qualcosa prima di dormire, ma voi avete saltato la cena. Mangiate, avanti.
Blake le accennò un sorriso riconoscente e aprì il fagotto, trovandovi dentro una pagnotta ancora calda di cottura e qualche frutto.
- È alle olive e alla cannella. Vi garantisco che è ottima.
- Vi ringrazio e vi credo eccome. L’odore parla per lei – commentò il ragazzo, beandosi del profumo della pietanza e addentandola con calma. – Sedete con me – la incoraggiò, dopo aver deglutito il primo boccone.
Judith acconsentì in silenzio, prendendo una sedia e ponendola accanto alla sua.
- Riuscite a credere a tutto quello che è accaduto oggi? – gli domandò lui.
- Ancora no. Almeno, la cosa positiva in tutto ciò, è che vostro fratello stia bene.
E che ci siamo rincontrati. Dopo quelli che mi sono parsi secoli, senza vedervi.
- Già – commentò il ragazzo. – I monaci…?
- Sono abbastanza certa siano tutti nelle loro camere, a dormire sonni turbolenti e catastrofici, dopo oggi – commentò lei con sdegno.
- Avete avuto modo di parlare con loro?
- No. Avevo bisogno di riordinare le idee e di riposare. Nei prossimi giorni parlerò con loro. E ci accerteremo che tutto ciò che ha detto vostra madre sia vero – rispose, poi voltandosi a guardarlo nuovamente. – Eravate a conoscenza delle scoperte che ha fatto vostra madre durante il suo autoesilio?
Il ragazzo emise un sorriso pregno di sarcasmo e amarezza. – Non sapevo nemmeno sapesse leggere. L’ho rivista per la prima volta sopra quel tetto, come tutti voi. Se ne è andata di casa rapendo mio fratello senza il suo o il mio consenso; non si è nemmeno degnata di farmi avere notizie sul peggioramento della malattia di Ioan. Se non fosse stato per Imogene, non lo avrei mai scoperto.
- Immaginavo stesse nascondendo qualcosa…
Blake si voltò a sua volta a guardarla, studiandola. – Credevo ve lo avesse detto. Lo davo per scontato.
- Non lo ha fatto, ma già sospettavo da tempo che stesse nascondendo sua cugina. Non me lo ha detto per proteggerla, posso capirlo.
Ad ogni modo, avrete un bel po’ di cui discutere con vostra madre quando tornerete a casa.
- Se ho imparato qualcosa da diciassette anni di convivenza con mia madre… è che non serve a nulla discutere con lei.
- Non posso comprendere, ho perso mia madre da bambina.
Tuttavia, io le credo.
- Anche io le credo. Non mi resta difficile credere che i monaci abbiano potuto fare una cosa simile. È solo che…
- Lo so. È solo che sorpassare un certo limite di decenza umana, arrivare a tale mostruosità… sembra impossibile. Sapete, ultimamente mi sono scontrata con un tipo di disumanità che credevo fosse il massimo della crudeltà e della bestialità. Invece… oggi mi sono dovuta amaramente ricredere.
Blake notò che avesse gli occhi lucidi. – Come state, Judith? – le domandò, con una voce che fu in grado di far trasalire la ragazza.
- Come sto…? Voi avete quasi perso vostro fratello oggi, e avete visto vostra madre accusare la classe dominante del villaggio davanti a tutta Bliaint, dopo giorni di totale assenza. E chiedete a me come sto?? – gli domandò sorpresa.
- Sì, lo chiedo a voi – confermò lui, continuando a guardarla. – Come state?
- Non so come sto. I bambini mi stanno facendo impazzire lì dentro. Dovrebbero mancare ancora almeno due mesi, eppure mi sento scoppiare e squarciare. Talvolta è quasi insopportabile. Ma non so perché lo sto dicendo a voi, dato che non potreste mai capirlo.
- Non mi serve provarlo sul mio corpo per empatizzare con voi.
- E voi, invece?
Come state, Blake?
Vi sentite ancora estraniato dalla realtà? – gli domandò, non riuscendo a nascondere una punta di preoccupazione nella voce.
- Meglio. Mi sento meglio. Mi dispiace di avervi proibito di scrivermi.
- Non dovete scusarvi di nulla. Malgrado mi sia mancato scrivervi… sapevo aveste bisogno di spazio e di solitudine. Spero che il mio “regalo” non sia stato troppo sgradito – lo stuzzicò, vedendolo sorridere.
- Non mi sembra vero ancora. Sono passati solo pochi giorni, e già si è ambientata: odia Quaglia, adora padre Craig e le piace particolarmente rotolarsi e dormire nel mio letto. E miagolare nel pieno della notte – rispose divertito. - Già so che Ioan la adorerà.
- Ne sono felice. Sappiate che verrò a trovarla.
- Quando volete. Sapete dove trovarci.
Un leggero silenzio calò tra loro, ma non un silenzio imbarazzante, bensì uno di quei silenzi piacevoli e complici, colmi di aspettativa.
Perché sto così bene con voi?
Blake tirò fuori un libro dalla sacca abbandonata a terra, e lo porse a Judith.
La ragazza sgranò gli occhi, un tremolio la colpì in pieno.
- Lo avete terminato, dunque – commentò con un fil di voce, prendendolo in mano, gustando in pieno il sapore del tutto diverso che aveva ora quel leggendario racconto, per lei.
- L’ho portato per ridarvelo. Non avrei mai immaginato che sarebbe servito anche ad altro.
Avevo capito ci fosse qualcosa di strano in questo racconto, me lo sentivo.
Forse è il modo in cui è scritto, la passione, l’emotività che emerge, la… sensibilità e l’inadeguatezza di alcuni termini.
Talvolta sembra scritto da una persona che non ha mai vissuto un giorno su questo mondo, altre volte sembra scritto da qualcuno che ha già vissuto milioni di vite – le disse, guardando il racconto con viscerale angoscia. – Era una ragazza prodigiosa… intelligente, molto dolce. Emerge in ogni riga.
Judith se lo strinse al petto con forza, quasi come stesse stringendo l’autrice a sé, mentre lo ascoltava.
- Avrei voluto conoscerla. Tutti loro – disse.
- Tutti lo avremmo voluto.
Calò di nuovo un minuto di silenzio.
- Blake – lo richiamò lei, sentendo fosse il momento di affrontare anche quell’argomento.
- Sì?
- Devo confessarvi qualcosa.
- Che cosa?
- Credo sia chiaro ad entrambi che la nostra corrispondenza epistolare sia stata un po’ insolita, tra due sconosciuti – iniziò lei. – Mi è piaciuto davvero molto scrivervi.
- Anche a me è piaciuto molto.
- E quando vi ho rivisto… non posso più tenere nascosto che volevo rivedervi.
Blake abbassò lo sguardo in risposta, iniziando a torturarsi le mani.
- Vi ho turbato dicendovi ciò..? Sono stata troppo diretta?
- No, no, tutto il contrario – la rassicurò, il volto pervaso da qualcosa che Judith non seppe riconoscere.
- Non so cosa mi succeda. Non so cosa mi sia preso.
Io ho intrapreso una relazione con Imogene. Credevo di potermi infatuare di lei. Lo credevo… fin quando non ho incontrato voi.
Non voglio farvi sentire in colpa per questo.
Ma ho ragionato tanto con me stessa e mi sono resa conto che … non posso più mentire. Né a me, né a lei, né a voi.
Blake la guardò fissa negli occhi, esattamente come stava facendo lei.
- Credo di starmi innamorando di voi.
- Oh, Judith… mia dolce, Judith – rispose lui, stringendosi i capelli con le mani, combattuto. – I sensi di colpa nei confronti di me stesso e nei vostri confronti mi stanno divorando…
- Che sensi di colpa? – gli domandò lei confusa.
- È successo di nuovo … nonostante i vostri ricordi non siano tornati.. nonostante, nella vostra mente, io sia solo un estraneo… l’amore è sbocciato di nuovo in voi… e io non riesco a crederci..
- Che cosa state dicendo…? – domandò lei sconvolta, con un fil di voce.
- Judith… c’è una cosa che devo confessarvi.
Mi sono imposto e ripromesso di non farlo, ho giurato a me stesso…
Ma, giunti a questo punto, non sono più disposto a rispettare questo giuramento.
Sono stato un egoista. E lo sono ancora.
Recentemente, ho realizzato che la vita è troppo breve per permettermi di rinunciare a quello che voglio e a chi amo.
Non so dove sarò domani, non so quanto tempo ancora mi rimarrà da vivere, non so cosa accadrà nell’immediato futuro.
Motivo per cui non posso più permettermi di attendere, temporeggiare, rimandare o privarmi di esprimere quello che sento.
E voi siete sempre stata intrepida, molto più intrepida di me quando si tratta di sentimenti, e io vi ho sempre invidiata per questo.
Riuscite a riconoscere quello che avete nel vostro cuore con una maturità e una facilità spaventosa…
Quello che sto per dirvi, vi turberà. E so già che vi farà arrabbiare, perché vi conosco troppo bene, da troppo tempo, e so che mi odierete, quando scoprirete ciò che ho fatto.
Ma non importa. Preferisco che mi odiate e che io debba combattere per farmi perdonare, piuttosto che continuare a mentirvi.
- Blake…
- Lasciatemi finire, vi prego.
Quando ho scoperto che avevate avuto un incidente e che qualcuno avesse provato ad uccidervi, ho sentito la terra cedermi sotto i piedi.
Mi avevate chiesto se fossi disposto a passare la vita con voi.
Mi avete chiesto se fossi in grado di innamorarmi di voi.
Allora ci ho riflettuto, ci ho pensato tanto, perché la prospettiva di trascorrere la vita con una compagna fidata, di restare qui e costruire una famiglia, non l’ho mai presa neanche in considerazione.
Voi siete riuscita a farmi riflettere su questa possibilità che ho sempre rigettato.
E, alla fine, quando avevo finalmente una risposta da darvi… è accaduta la tragedia. E voi non vi ricordavate più chi fossi.
Quello che sto cercando di dirvi, Judith… è che, prima che perdeste la memoria, noi due eravamo promessi. Ed eravamo infatuati, l’una dell’altro.
Judith ammutolì, sbiancando completamente.
- Ci conosciamo da mesi, ma sembra che ci conosciamo da anni.
Mentirvi per tutto questo tempo … è stata la cosa più difficile che io abbia mai fatto. Starvi lontano, nonostante tutto… credetemi, l’ho fatto solo per permettervi di rifarvi una vita.
Solo per non farvi sentire costretta ad amare un estraneo.
Non c’è stato un solo giorno in cui non abbia desiderato venire da voi e dirvi tutto.
Spero che un giorno… possiate perdonarmi – terminò, non osando guardarla negli occhi.
Un silenzio implacabile e teso calò tra loro.
Judith aveva perduto la voce, la capacità di articolare un discorso.
Quel giorno la stava scuotendo come mai le era accaduto prima d’ora.
Troppe scoperte che erano in grado di cambiarle la vita, troppi pensieri, un cuore che non aveva mai smesso di batterle all’impazzata.
Se non si fosse calmata, era certa che sarebbe svenuta lì, davanti a lui.
Improvvisamente, la fanciulla ricordò due dettagli a cui non aveva dato importanza ultimamente:
- “Spero tu stia facendo bei sogni”… questa frase… ha vorticato nella mia testa per settimane, da quando ho perso la memoria… è stata una delle frasi che ho ricordato per prima e più distintamente – parlò con voce rotta dalla troppa emozione. – Ho cercato disperatamente di ricordare che tono e che colore avesse la voce che aveva pronunciato quella frase… la sentivo sussurrata alle mie orecchie come una dolce ninnananna, ma non sono mai riuscita a capire chi l’avesse pronunciata… ora lo so. Lo sento. Siete stato voi. E poi quel blu… quel blu così spiazzante che non riuscivo in nessun modo a riconoscere in alcuna cosa o persona mi circondasse. Eravate voi, siete sempre stato voi…
Blake pietrificò e sgranò gli occhi, senza dire nulla.
Non sapeva cosa stesse provando Judith in quel momento, non poteva capirlo.
Probabilmente aveva sbagliato a dirle tutto ciò proprio alla fine di quel giorno così sconvolgente e infausto.
- Avete detto… che dovevate darmi una risposta – spezzò il silenzio Judith dopo un’eternità. – Che risposta mi avreste dato…?
Stupito e scosso da tale domanda, Blake la scrutò, non sapendo cosa fare. – Me lo state davvero domandando…? Ora? Perché volete saperlo, ora…?
- Voglio saperlo – rispose con commossa determinazione lei, decisa.
Blake serrò le labbra, poi si decise, facendo uscire fuori ciò che si era tenuto dentro per settimane:
- Io vi amo.
Judith boccheggiò, le lacrime che scalpitavano con violenza per uscirle dagli occhi.
- Voi mi avete mentito… per tutto questo tempo.
Mi avete fatto credere di essere uno sconosciuto per me…
Mi avete fatto sentire strana, inadatta, perché provavo dei sentimenti inadeguati per un ragazzo a me sconosciuto.
Mi avete lasciata sola… - si bloccò. – I bambini… i bambini che porto in grembo sono vostri? Vi prego, ditemi che sono vostri, vi prego…
Blake fece violenza a se stesso nel confessarle anche quell’amara verità: – No. Non sono miei, mi dispiace, Judith. Non ci siamo mai spinti a tanto.
- Oh Signore! – esclamò stringendosi i capelli, lasciando che altre bollenti lacrime le rigassero la pelle nivea. – Se stavamo insieme… per quale motivo sono stata ingravidata da un altro…?
- Voi credevate di amare quell’uomo. È accaduto prima che noi due … non ci conoscevamo neppure, quando lui vi ha-
- Voi c’eravate quella notte?? – gli domandò frenetica, interrompendolo.
- Sì, c’ero anche io.
- Vi ricordate cosa vi è successo?
- No, nulla, non posseggo ricordi. Ricordo solo il nostro primo incontro a quei festeggiamenti, poi che siamo finiti in coppia durante il gioco dello specchio… da lì il vuoto.
- Ci siamo conosciuti quella notte noi due..? – gli domandò Judith, sempre più allibita e smaniosa di sapere.
Blake annuì, accennandole un sorriso distrutto e nostalgico. - Non è stato amore a prima vista. È passato tanto tempo, prima.
- Se voi foste stato il padre di questi bambini… li avrei odiati di meno.
Avrei odiato di meno il fatto che stiano mettendo radici in me… e che io non riesca ad ucciderli.
La sola consapevolezza di aver concepito dei figli con l’uomo che amo, piuttosto che con quel perverso animale…
- Voi non mi amate, Judith! – esclamò lui con decisione. – Non mi conoscete. Prima mi amavate, ma ora non siete più quella persona. Siete un’altra donna, con dei ricordi differenti. Non potete amarmi… io sono un estraneo per voi.
- Tacete. Voi non avete minimamente idea di cosa ci sia nel mio cuore… - disse lei in lacrime, beandosi di ogni lineamento del suo viso. – Non avete idea di quante cose io voglia fare in questo momento… con voi. Di come galoppi il mio cuore al solo guardare i vostri occhi. Di quanto io smani di sentire il vostro odore… di sentirlo su di me. Non ne avete la minima idea!
E voi siete stato tanto stolto da privarmi di questa consapevolezza, di questo ricordo, di questa parte di me, per settimane!
- Judith, mi dispiace…
Farò tutto ciò che sarà necessario per farmi perdonare da voi, se me ne darete la possibilità.
So che le parole non servono, so che, dopo quello che vi ho detto, non vorrete più avere a che fare con me.
So che state lottando per non odiarmi e questo mi distrugge.
Sfogatevi contro di me e ditemi tutto ciò che desiderate dirmi, e io ascolterò in silenzio.
Se non vorrete più vedermi, dopo stasera, lo capirò.
- Vi state prendendo gioco di me?! – esclamò lei, sbigottita.
Blake la guardò confuso, ora. – Cosa intendete?
- Blake, per tutto questo tempo mi avete privato di tutto quello che avevamo.
Per tutto questo tempo, la Judith prima dell’amnesia ha atteso una vostra risposta…
Ed ora che finalmente l’ho avuta… ora che finalmente so tutto… non sono disposta a perdere neanche un istante. Non attenderò un secondo di più per avere quello che voglio – gli disse determinata, beandosi dell’espressione di pura sorpresa dipinta sul volto del ragazzo che amava.
Blake le sorrise spontaneamente, ancora incredulo da tale risposta. – Non siete adirata con me…?
- Lo sono, ma non mi importa nulla.
Io non ricordo niente di cosa provavo prima dell’amnesia… ma so cosa provo ora.
Io vi voglio e voi volete me.
Ricambiamo i reciproci sentimenti, e avremmo già dovuto stare insieme parecchio tempo fa.
Tuttavia… c’è solo una cosa che devo risolvere, prima.
- Che cosa?
- I monaci. Vi odiano. Quando non c’eravate, oggi pomeriggio, mi hanno minacciata di starvi lontana. Se scoprissero che ci siamo riavvicinati… ho paura, per ciò che potrebbero farvi.
Loro vogliono scegliere l’uomo che mi starà accanto in base alle loro preferenze, senza consultarmi, in quanto si ritengono miei padri carnali a tutti gli effetti.
Preferisco chiarire con loro tutto ciò che vi è da chiarire, rabbonirli e assicurarmi che, quando saremo insieme, loro non alzeranno un dito su di voi.
- D’accordo – acconsentì lui.
Fu naturale, per i due, avvicinare i volti, come attratti da una calamita, da una forza insopprimibile.
Ma poco prima che le loro labbra si congiungessero, dopo tanto bramarsi, Blake udì il rumore di alcuni passi fuori dalla stanza.
Il ragazzo si bloccò, le prese il viso con premura e le lasciò un bacio tra i capelli, sussurrandole: - C’è qualcuno qui fuori.
Ella si alzò di scatto, allarmata. – Devo lasciare la stanza o si accorgeranno che siete ancora qui. Chiuderò la porta a chiave quando me ne andrò. Non uscite, per nessun motivo al mondo, fino a quando non verrò a riaprirvi domani all’alba – si raccomandò lei con decisione, e le lacrime che le imperlavano ancora le ciglia.
Egli annuì, sorridendole appagato, e lei ricambiò con ardore.
Dopo di che, uscì dalla stanza e chiuse la porta a chiave, come aveva detto, lasciandolo solo con suo fratello.
Trascorsero altre due ore prima che Ioan si risvegliasse dal suo sonno.
Blake era a metà nel mondo del sonno e a metà nel mondo della veglia, con la schiena poggiata allo schienale della sedia e la testa ciondolante, quando percepì una manina fredda posarsi sul suo polso.
Il ragazzo aprì gli occhi e rivolse a suo fratello il sorriso più bello e felice del suo repertorio.
- Ehi – esalò con un fil di voce Ioan.
- Ehi – gli rispose Blake avvicinandosi di più e stringendo una sua mano tra le sue. – Non posso credere che tu sia sveglio…
- Non posso crederlo neanche io… Mi sembra di aver dormito per anni… - esalò il ragazzino, tossendo un po’.
Blake si premurò di sistemargli il cuscino dietro la testa, per farlo stare più comodo, poi tornarono a guardarsi.
Ioan, in particolare, fissava suo fratello come fosse una qualche sorta di visione mistica.
- Che c’è? – gli domandò Blake, sorridendogli confuso.
- Dovresti dormire anche tu. Sembri stanco…
- Avrò tanto tempo per dormire. Domani. Quando ti avrò portato a casa con me.
- Perché non possiamo già tornare a casa?
- Perché se dovessero insorgere delle complicazioni durante la notte… è meglio che ti trovi qui. Judith ci verrebbe in soccorso con uno dei tomi della biblioteca, avremmo modo di trovare più in fretta una soluzione – gli spiegò.
A ciò, Ioan posò gli occhi sul proprio braccio fasciato. – Come avete fatto a guarirmi?
- Una “trasfusione”. I medici antichi la chiamavano così. Padre Craig ti ha donato il suo sangue, in quanto è compatibile col tuo. Dovrai sottoporti a questo trattamento periodicamente, e starai sempre meglio.
- … davvero? Starò davvero meglio…? Stavolta definitivamente…?
- Sì, Chris – gli rispose caldamente Blake, accostando il viso al suo e prendendo ad accarezzargli i capelli, mentre lo guardava rassicurante. – Presto sarà tutto finito. Ti guariremo. Ti guariremo definitivamente – gli promise, baciandogli la fronte.
- Mi sei mancato così tanto… - gli disse il bambino in un sospiro stanco, stringendogli la mano.
- Anche tu.
- Credevo che la mamma non mi avrebbe più riportato indietro.
- Non ci pensare ora. Anche la mamma è tornata, non la incolperanno dell’assassinio di nostro padre.
- Even, non voglio più che le persone decidano per me. Non voglio più che ci tengano separati.
- Non accadrà – lo rassicurò, poi notando che indossasse ancora il ciondolo di mandragora che aveva creato per lui, e che aveva finito per guarirlo temporaneamente, per poi prosciugargli la vita e lo spirito.
Avevano dimenticato di toglierglielo.
- Quello è meglio toglierlo – gli disse, facendo per allungare la mano e sfilarglielo, ma Ioan lo bloccò, trattenendogli il polso.
- No.
- Perché no?
- Perché è un tuo regalo.
- Chris, stava quasi per ucciderti. È a causa della mandragora morta che ho messo dentro quel ciondolo se sei stato meglio per tutti questi mesi, e poi sei peggiorato improvvisamente, fino a sfiorare la morte.
- Ora che abbiamo trovato una cura, il ciondolo è innocuo – disse deciso il ragazzino. – Voglio tenerlo.
- Per quale motivo?
- Perché è un tuo regalo – ripeté Ioan, come se fosse la più ovvia delle risposte. – È l’unico ricordo che ho di te, per portarti sempre un po’ con me.  Così come tu hai quello… - disse indicando il bellissimo opale che ciondolava sul petto di suo fratello. - … come unico ricordo di papà.
Blake gli sorrise di nuovo, accontentandolo e lasciandoglielo tenere.
Dopo di che, prese un bel respiro e lo guardò negli occhi con determinazione. – Christopher, ora ti dirò una cosa e tu dovrai ascoltarmi bene.
- Ti ascolto, fratello.
- Non appena avrai finito tutte le trasfusioni, non appena starai definitivamente meglio... quando arriverà quel giorno ce ne andremo di qui.
- Che cosa…? – domandò incredulo il ragazzino. – Tu verrai con me…?
- Certo che verrò con te – gli promise. – Scapperemo insieme, lasceremo Bliaint per sempre.
- Perché?
- Perché rimanere qui sta diventando pericoloso. Dobbiamo raggiungere un luogo più sicuro. Andremo al di là del mare.
- E se ci scopriranno…? E se scopriranno che siamo servi del Diavolo…? Cosa faremo?
- Non preoccuparti di questo.
- Ma Even… noi qui abbiamo tutto. Cosa dirò a Gwen…? Lei sta aspettando che io guarisca.
Blake gli rivolse un sorriso amaro, ma al contempo speranzoso. – Ne troverai un’altra. Ne troverai tantissime, di Gwen. Non temere.
- Ho paura, Even.
- Lo so. Ma ci sarò io con te.
E, in ogni caso, siamo ancora lontani da quel giorno.
Allora… sei con me, fratello?
A ciò, il volto di Ioan divenne fiducioso, serio e risoluto. – Sempre – gli rispose senza alcuna esitazione.
- Bene.
 
 
 

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Capitolo 56
*** Il primo amore ***


Il primo amore
 

- Judith, non crederai anche tu che noi siamo lontanamente colpevoli di qualcosa.
- Che siate colpevoli di qualcosa lo so per certo, nonché di ben troppe sciagure, come aver bruciato vivi degli innocenti e la totale assenza di empatia. Ciò che voglio sapere da voi ora… - disse la ragazza in tono di accusa e di glaciale giudizio. - … è se siete colpevoli degli stessi indicibili peccati dei vostri predecessori, e di cui vi accusa Alma Heloisa.
- Judith… noi ti abbiamo cresciuta. Con amore, affetto, attenzione e premura. Credi davvero che saremmo capaci di un’aberrazione simile..? – le domandò padre Petrit  con le lacrime che gli rigavano il volto maturo e vissuto, un volto che solitamente era burbero e torvo.
Non lo aveva mai visto piangere prima di quel momento.
Ma madre Sylvia era la più sconvolta tra tutte: era dal giorno prima, da quando Heloisa era salita sul tetto della cattedrale e aveva traumatizzato tutto il villaggio, urlando e rivelando che il loro Salvatore era il peggiore dei depravati, che la monaca se ne restava seduta, fissa, con lo sguardo completamente svuotato, gli occhi vitrei e il volto simile a quello di uno scheletro in decomposizione.
- Voi cosa avete da dire, madre?? – le domandò astiosa Judith, avvicinandosi a lei.
Tutti i monaci le erano dinnanzi, chiamati in giudizio.
Stavolta era lei, Arley Judith, che li giudicava.
I ruoli si erano invertiti. Per la prima volta.
Nessun altro si trovava all’interno della cattedrale a parte gli accusati peccatori e il loro confessore.
- Non possiamo confessare un peccato che non abbiamo mai commesso… - rispose padre Thomas, al posto di madre Sylvia, la quale non era in grado di farlo. La sua voce era pregna di turbamento e di grevità. – Non abbiamo nascosto noi le cripte. Noi non eravamo minimamente a conoscenza della loro esistenza, altrimenti avremmo preso dei provvedimenti.
- Che tipo di provvedimenti?
- Avremmo fatto sapere al villaggio cosa hanno compiuto i nostri predecessori e quanto fosse deplorevole l’uomo che ha dato inizio a tutto ciò, Allister Chaim – pronunciò padre Petrit, deglutendo rumorosamente.
- Ah sì? – li sfidò Judith.
- Judith, ti prego, prendici sul serio e ascoltaci, cara.
- Non cercate di ingraziarmi, sapete che non servirà a nulla, sapete che posso essere spietata mille volte più di quanto lo siete voi se solo lo volessi.
Sapete che farei liquefare la vostra carne tra le fiamme oggi stesso se solo fossi certa che anche voi avete concorso a compiere degli atti che si avvicinano a ciò che mi ha fatto passare il mostro da cui sono scappata a sei anni.
- Noi ti abbiamo salvato da quel mostro!
- Centinaia di bambini sono morti in sei secoli!
Forse migliaia!
Quei giovanissimi figli dei servi del Diavolo sono stati presi di mira perché sacrificabili, lo stesso motivo per cui continuate a bruciare i membri del mio culto senza degnarli neanche di un equo processo, mentre lasciate correre qualsiasi cosa facciano i servi del Creatore!
- Judith, lo sai bene il motivo per cui sono stati presi di mira proprio i figli dei servi del Diavolo, non c’è bisogno che te lo dica! Questa accusa è ridicola! – controbatté padre Thomas.
- Perché siamo belli?! – esclamò lei ridendo istericamente.
- Esatto!
- Belli, dunque sacrificabili! – scandì bene lei, con rabbia crescente. – I servi del Diavolo servono da sempre un signore sbagliato. Serviamo un traditore, una bestia, un millantatore, un bugiardo e un subdolo seduttore.
- Non bestemmiare contro il tuo Signore, Judith.
- Per questo siamo sacrificabili.
Voi servi del Creatore no, invece. Siete figli di un dio giusto, misericordioso, onnipotente, il nostro Creatore!
Se morissero mille di noi il villaggio sopravvivrebbe lo stesso, mentre se morissero dieci di voi si urlerebbe alla tragedia!
- Judith, ti prego! Non tiriamo fuori discorsi che non concernono la tremenda accusa mossa contro di noi!
- E invece concernono eccome! – la fanciulla lasciò andare tutte le lacrime di furia e di dolore che si stava tenendo dentro.
- Judith, non agitarti. Il bambino potrebbe…
- Voi mi avete cresciuta.
Mi avete dato una casa…
Mi avete dato una famiglia…
Mi avete dato tutto l’amore di cui avevo bisogno…
Tutto ciò che vi chiedo è di rispondermi sinceramente. Ho bisogno di saperlo: anche solo uno di voi era a conoscenza di ciò che è accaduto in quelle cripte, e qualcuno di voi… ne ha preso parte?
Ognuno di loro la guardò dritta in volto, in seguito a tale domanda.
Il silenzio tombale calò per qualche secondo, facendo gelare il sangue alla fanciulla.
- Nessuno di noi ne era a conoscenza, né tantomeno ne ha preso parte.
Per noi è stata la scoperta più sofferta e terribile che potessimo fare, esattamente come per ogni altro in questo villaggio.
Le cripte sono sepolte da anni, nessuno di noi era a conoscenza della loro esistenza.
Speravamo che tu, almeno tu, su tutti, non nutrissi alcun dubbio né sospetto su di noi, Judith.
Ma capiamo che le parole di Heloisa ti abbiano sconvolta in profondità – le garantì madre Sylvia, alzandosi finalmente in piedi e partecipando alla conversazione, fronteggiandola e prendendola maternamente per le spalle, con solchi di lacrime secche scolpite sulle guance spigolose.
Judith la guardò fissa negli occhi e in lei rivide la schietta e trasparente sincerità della “madre” che l’aveva cresciuta.
Abbassò lo sguardo, sollevata e al contempo sconfitta.
Una parte di lei, molto profonda, avrebbe voluto che i monaci che l’avevano cresciuta fossero colpevoli a loro volta, per poter incolpare qualcuno di tanto male ed estirparlo per sempre dalla faccia della terra.
Un’altra parte di lei, quella più umana ed emotiva, non voleva mettere a morte gli unici che erano stati in grado di amarla come una figlia.
Il duro colpo subìto dalla scoperta della vera indole di padre Cliamon le era bastato, e avanzato.
Judith rifletté, ad occhi chiusi, sul da farsi.
- Avete parlato con madre Myriam? – domandò loro atona, dopo un tempo che parve infinito.
- Sì. Ella non sospettava di noi, nonostante fosse alquanto scossa, come tutti.
- Io e Myriam faremo un annuncio al popolo, in qualità di autorità esterne ai fatti e obiettive.
Diremo al villaggio la verità: vi abbiamo interrogato e, dinnanzi ai due Signori, possiamo affermare che voi non vi siete macchiati dei crimini di cui sono sporche le mani dei vostri predecessori; oltre a non esserne a conoscenza.
I monaci la guardarono tutti con le lacrime agli occhi, riconoscenti e al contempo rincuorati.
- Tuttavia… - continuò la ragazza, decisa e distrutta. – Annuncerò anche che disseppelliremo tutte le cripte. Le disseppelliremo per farne delle tombe aperte. Tombe a cui rendere omaggio e per cui pregare. I Bambini sciagurati diventeranno i nostri santi protettori, i nostri martiri: porteremo loro fiori, renderemo loro grazie, creeremo degli epitaffi per loro, celebreremo nottate di veglie per loro. Incideremo i loro nomi su delle lapidi, tutti. Renderemo le loro parole scritte sui muri le nostre sacre litanie, ninnananne e preghiere. Dovremo adorarli, idolatrarli come fossero dèi.
Faremo ciò che i loro genitori naturali non hanno mai potuto fare: onoreremo la loro memoria in ogni modo possibile.
Per questo… ci servirà tutta la manodopera disponibile.
Sono stata chiara?
I monaci ammutolirono tutti e annuirono sommessamente, come avrebbero fatto dei bambini.
- Certamente.
- E dovranno essere cambiate le parole scritte sui libri sacri: il nome di Allister Chaim dovrà essere rimosso da ogni pagina, a lui non si renderà più alcun onore, alcuna grazia, alcuna preghiera, ma solo e solamente vergogna si riverseranno sul suo ricordo.
L’unico suo merito, ad ora… è la divisione. La divisione, che ci ha permesso di sfuggire alle calamità che ci avevano colpiti secoli fa.
E la nostra condanna in quanto figli del Demonio.
I monaci annuirono nuovamente, concordando con lei.
- Se non vi è altro da aggiungere, vorrei congedarmi – concluse freddamente, facendo per voltarsi e andarsene, ma venne fermata da padre Thomas.
- Judith… c’è un altro argomento che dobbiamo affrontare.
La ragazza si voltò nuovamente verso di loro, squadrandoli con sdegno. – Sì, è vero, padre: la mancata concessione di sepoltura dei due amanti suicidi.
Sapete che la questione dei Bambini sciagurati non distoglierà l’attenzione dalla faccenda, non è vero?
Le famiglie e gli amici dei due ragazzi continueranno a ribellarsi e a rivoltarsi contro di voi, fin quando non concederete loro ciò che vogliono e che meritano di diritto.
- Il fatto che abbiamo quasi rischiato di venire ingiustamente condannati a morte per un terribile peccato che non abbiamo commesso, non mina la nostra autorità, Judith – la ragguardò padre Arold. - Rimaniamo pur sempre le maggiori autorità del villaggio, una volta assolti.
- I suicidi non verranno celebrati, né seppelliti: rispetteremo la legge sacra, come abbiamo sempre fatto. Ciò che è accaduto ai Bambini sciagurati non c’entra nulla con questo – confermò categoricamente padre Faust.
- Decisione vostra, ripercussioni vostre. Io vado a riposare.
- Judith, aspetta.
- Cosa volete?
- Dobbiamo parlare di qualcosa che non ti aggraderà, bambina mia, ma è necessario affrontare l’argomento, per il tuo bene.
Il sangue della fanciulla le ribollì nelle vene in seguito a tali parole di padre Petrit, che le fecero già comprendere a chi si riferissero.
- Non voglio parlare con voi di lui.
- Judith, abbiamo preso una decisione di comune accordo, prima che scoppiasse lo scandalo dei Bambini sciagurati, ieri.
- Che tipo di decisione? – domandò ella, già sul piede di guerra.
Padre Petrit la guardò in volto, mortificato e deciso al contempo:
- Even Blake verrà promesso ad una delle tante fanciulle nubili del villaggio, ben presto.
Combineremo un matrimonio con una fedele serva del Diavolo il prima possibile, in modo che la vostra tentazione venga spezzata sul nascere – decretò, facendole crollare il mondo addosso.
- … che cosa avete appena detto…? – sussurrò lei con voce traballante.
- Mi dispiace, Judith. Lui non potrà essere il padre dei tuoi figli. Come ti ho già detto: egli è un soggetto troppo pericoloso e dannoso, e noi vogliamo solo il meglio per te.
Judith si avvicinò a lui, talmente tanto che rimase solo una spanna a dividere i loro volti. – Voi lo sapevate…? Voi monaci sapevate che lui, prima della mia amnesia, fosse il mio promesso…? Sapevate che, prima di perdere i ricordi dell’anno più importante della mia vita, io e lui avessimo un legame inscalfibile…?
- Non eravamo i soli a saperlo. Lo sapevano tutti. È stato Blake stesso a chiederci di non dirti niente. Ora comprendi che genere di uomo sia?
- Egli mi ha già ampiamente spiegato le motivazioni per cui lo ha fatto e mi ha rivelato tutto quanto, mostrandomi sincerità e affrontando a testa alta le conseguenze delle sue azioni.
- Non importa quello che pensi, Judith – intervenne padre Faust con imponenza. – Noi teniamo troppo a te per permetterti di commettere un errore simile. Quel ragazzo è un tozzo di fuoco acceso, pronto ad incendiare chiunque gli sia accanto. Egli è stato benedetto da una strega alla sua nascita. Da una strega, non da un monaco! Non è accetto al vostro signore, non lo è mai stato! Ce ne saremmo dovuti accorgere prima di farvi avvicinare tanto, abbiamo colpe tanto quanto te. A dimostrazione delle nostre parole, egli non ha fatto altro che portare sventura al villaggio e alla sua famiglia, da quando è nato: suo fratello è venuto al mondo con una malattia incurabile, suo padre è morto assassinato, la sua ricerca di quella polvere demoniaca ha attirato l’attenzione degli invasori stranieri, conducendoli nella nostra terra! Credi che tutto ciò sia solo una coincidenza? Se gli rimarrai vicina, diventerai vittima anche tu della maledizione che si porta dietro.
- La vostra superficialità e il vostro fanatismo non conoscono limiti – sputò lei, delusa oltre ogni limite.
- Per quale motivo ti sei riavvicinata a lui nonostante hai perso tutti i tuoi ricordi di lui??
- Perché i sentimenti che mi legano a lui vanno oltre la memoria, vanno oltre qualsiasi superstizione voi codardi possiate nutrire. Ma non perderò tempo a spiegarvelo, sarebbe un inutile spreco di fiato.
- Ad ogni modo, è deciso: a dispetto della tua contrarietà a riguardo, troveremo presto una donna da dargli in moglie. Non sarà affatto difficile: in molte fanciulle sarebbero alquanto felici e impazienti di sistemarsi con lui. In futuro ci ringrazierai per ciò che abbiamo fatto.
- Dunque, seguendo il vostro perverso ragionamento, stareste condannando un’ignara ragazza a condividere la vita con la personificazione del male.
- Meglio qualcun altro che te.
- Siete completamente fuori di testa. Tutti quanti! Non potete farlo!
- La tua ira non ci fermerà dal volere solo il tuo bene, Judith!
- Non potete!! Lui ha il diritto di scegliere con chi trascorrere il resto della sua vita!! Non potete decidere per lui, né per me! – esclamò fuori di sé, avvertendo un dolore lancinante al pancione, che la fece quasi piegare in due.
- Portiamola nelle sue stanze, presto, prima che compia altri sforzi!
- Lasciatemi!!
- Ci penso io – intervenne improvvisamente Imogene, allontanando i monaci dalla sua amante e accostandosi a lei, granitica e composta. – Se permettete, l’accompagno io nelle nostre stanze – disse, poi avvolgendo le spalle di Judith con un braccio e allontanandola dai monaci, diretta verso le scalinate.
Quando furono giunte nella lussuosa stanza che ancora condividevano per dormire, Judith si sedette sul letto e osservò la sciamana, intenta a chiudere la porta dietro di sé.
- Cosa ci fai qui? – le domandò senza pensare.
- Hai dimenticato che vivo qui?
- In realtà, stai vivendo nella tua vecchia dimora nella palude da quando hai iniziato a nascondere tua cugina lì – rispose la rossa in tono pungente.
- Mi dispiace di non averti detto nulla a riguardo, Judith.
Sei abbastanza intelligente per capire che te l’ho nascosto solo per proteggerti e per proteggere mia cugina. Non volevo metterti nella condizione di scegliere di metterti contro i monaci o di tradire me per assecondarli. Ad ogni modo, Heloisa è tornata a casa sua oramai. Non ho più segreti da rivelare.
- Questo non cambia nulla, Imogene.
- E tu? – le domandò la bionda avvicinandosi, senza alcun tono d’accusa. – Ho saputo che ti sei data da fare per trovare una cura per Christopher Ioan, e che, alla fine, l’hai trovata. Se non fosse stato per te… quel ragazzino sarebbe già morto – le disse, sedendosi accanto a lei. – Nonostante io sappia che non l’hai fatto per me … ti ringrazio, per aver salvato la vita di mio nipote.
- La faccenda dei Bambini sciagurati… sei stata tu a scoprire le cripte e tutte le trascrizioni che vi erano al loro interno… per tutto questo tempo, ti sei tenuta tutto dentro – le disse Judith voltandosi verso di lei, il volto sconvolto dalla sofferenza, al pensiero di quei bambini.
Imogene assunse la stessa espressione sofferente. – Abbiamo dovuto aspettare il momento giusto, per confessare tutto ciò che abbiamo scoperto. C’era troppa carne al fuoco. Non è stato facile… - sussurrò prendendo la mano di Judith e stringendola, bisognosa, come fosse un riflesso naturale oramai, cercare un contatto con lei.
- Per tutti questi anni che ho vissuto qui, dentro le cattedrali… non ho mai saputo, scoperto nulla.
Sono stata cieca. Per dieci anni, sono stata cieca. Se solo avessi indagato anche io, come hai fatto tu, se soli mi fossi posta più domande, se solo avessi voluto vedere
Ho persino letto e riletto più volte il racconto scritto da Erin stessa. L’ho avuto tra le mani decine di volte, senza capire che… - la voce di Judith era rotta, tremula, spezzata.
Imogene rinforzò la presa sulla sua mano. – Non potevi saperlo – le disse con calorosa convinzione. – Non attribuirti colpe che non hai. Per dieci anni sei stata impegnata a dimenticare ciò che quell’uomo ti aveva fatto da bambina.
- Proprio per questo avrei dovuto essere io a scoprirlo!
- Judith, smettila. È inutile rivangare su ciò che sarebbe potuto essere o no, ora.
L’importante è che, alla fine, sebbene dopo tanto tempo, lo abbiamo scoperto.
- Quando… quando credi che tutto ciò abbia avuto fine…?
Ho parlato con i monaci, prima che arrivassi tu.
Li ho interrogati, dal primo all’ultimo: loro sono innocenti.
Le cripte erano seppellite da anni. Quanti anni? Da quanti anni è cessato questo abominio…?
Padre Ilian violentava me e altri bambini sì, ma lo faceva quando aveva occasione di essere lasciato solo con loro, non ha mai rapito o imprigionato nessuno.
Quando? Quando è cessata la schiavitù dei Bambini sciagurati?
- Non ne ho idea.
Credo… dalla morte di tua madre.
- Dalla morte di mia madre…?
- Tu sei la prima bambina che i monaci prendono con sé alla luce del sole, poiché rimasta orfana.
I monaci ti hanno accolta come una figlia, piuttosto che lasciarti in strada, lasciare che diventassi una ladra o una locandiera della Taverna, come tutte le altre orfane serve del Diavolo. Non era mai accaduto prima d’ora.
Tu sei l’eccezione, Judith, non te ne rendi conto?
Padre Ilian… credo, a questo punto, sia stato l’ultimo frammento di feccia rimasto della mostruosità perversa che ha dominato tutti i monaci, fino alla scorsa generazione.
I monaci che ti hanno cresciuta sono stati addolciti e plasmati dall’amore per te.
Malgrado tutti i loro errori e il loro cieco fanatismo… ti amano, e non potrebbero mai fare cose simili a dei bambini.
Quel discorso lasciò Judith boccheggiante, senza parole, mentre le lacrime le imperlavano le ciglia lunghe.
Imogene le sorrise, innamorata persa del suo sguardo, non riuscendo a trattenersi dal carezzarle una guancia bianca con adorazione. – La tua anima… è così bella e forte, bambina…
Judith si riscosse, allontanando gentilmente la mano della sciamana. – Imogene, ti prego, no. Non è giusto, nei confronti di nessuno.
- Avanti… credi che anche lui non abbia avuto altre donne, mentre tu non ti ricordavi di lui?
Judith si voltò a guardarla, sconcertata. – Sul serio, Imogene…? Ti stai aggrappando a questo?? Anche fosse, ciò non avrebbe la minima importanza, dato che il suo intento era quello di dimenticarsi di me, come io mi sono dimenticata di lui. E continuerà a non averne… se i monaci adempieranno alle loro minacce.
- Sai che lo faranno, e che non c’è modo di dissuaderli – disse Imogene, riuscendo a nascondere abilmente tutta la soddisfazione che tale idea le provocava.
- Quando scoprirà che i monaci vogliono combinargli un matrimonio con la prima fanciulla di buona famiglia che capiterà loro sottotiro, sarà furioso.
- Mai quanto lo sei tu ora – centrò il punto Imogene, osservando la frustrazione e la rabbia che si stava accumulando nel volto di Judith, e che quest’ultima non faceva nulla per nascondere.
- Non è razionale provare una simile gelosia – ammise la fanciulla, rivolta a se stessa. – La gelosia non è razionale.
- Nessuna emozione lo è. Se volessi ragionare sempre in maniera totalmente lucida, dovresti diventare un marchingegno privo di qualsivoglia capacità di provare emozioni e sensazioni – spiegò Imogene, pensando alla propria, di gelosia, che la faceva parlare senza pensare.
- Guardiamo in faccia la realtà, Judith: non puoi averlo. Per quanto tu lo voglia, tutto, nel vostro destino e nel vostro cammino, è contro di voi.
La rossa la guardò negli occhi, leggendole dentro, come oramai aveva imparato a fare. – Ciò non mi ricondurrà tra le tue braccia, Imogene. Ti piacerebbe che ciò che ti ho detto riguardo al fatto che quello che provo per Blake non ha a che fare con la consapevolezza che non sarò mai in grado di amarti, sia stata solo una frase di circostanza, priva di spessore. Ma è proprio quello che pensavo e che continuo a pensare: non vi è futuro per me e te insieme, perché nel mio cuore non ve ne è, a prescindere da tutto - ripeté, schietta.
Non si trattava di mancanza di tatto, con Imogene non si trattava mai di non lasciarsi impietosire o intimorire.
Si trattava semplicemente di praticità, di liberatoria sincerità.
- Come non c’è futuro per me e per te a causa del tuo cuore… non c’è futuro neanche per te e Blake, in quanto le circostanze vi sono avverse. Per quanto lo vogliate, non potete avervi, nonostante vi apparteniate.
Certo, nessuno vi impedisce di consumare il vostro amore in silenzio, di nascosto, celati al mondo… ma vorresti paragonare il vile adulterio alla possibilità di mostrarvi agli altri senza timore, al far scorrere liberamente, all’aria aperta, senza impedimenti e controversie, il sentimento che vi lega tanto in profondità? Al non poter farlo evolvere, crescere, coltivarlo con premura e senza fretta, senza sensi di colpa, senza quella continua sensazione di star facendo qualcosa di proibito e sbagliato?
Judith dovette ammettere che la sciamana avesse ragione.
Lei e Blake non avrebbero avuto futuro fin quando i monaci avrebbero avuto vita.
E costringere il ragazzo a tradire la sua futura consorte solo per l’egoistico desiderio di averne un po’ anche per sé, non era giusto, né per se stessa, né per lui.
Doveva essere obiettiva e mettere da parte il dolore e i sentimenti: non potevano aversi.
E se il sentimento che li legava era davvero così sincero e forte, e lo era, allora, la cosa migliore da fare, sarebbe stata dimenticarsi l’uno dell’altra, nel minor tempo possibile, per evitare di soffrire.
Esattamente come aveva tentato di fare Blake dopo l’amnesia di Judith.
Eppure, il solo pensiero … la paralizzava.
Mentre era immersa nei suoi pensieri, non si era accorta che Imogene si era avvicinata maggiormente a lei, e che continuava a fissarla.
- Una volta ogni due o tre mesi… le streghe, solo donne, della compagnia degli stregoni eremiti, compiono un Sabba nel bel mezzo del bosco, dinnanzi alla luna piena.
Nessuno ne sa nulla. Io ne sono a conoscenza solo perché Myriam me lo rivelò, anni fa, e mi invitò anche a parteciparvi. Io non vi partecipai.
Judith si voltò a guardarla, cercando di capire dove la sciamana volesse arrivare.
- Il loro numero è diminuito a causa dei frequenti roghi degli ultimi mesi, tuttavia, dovrebbero essere ancora in sei o sette, senza Myriam, Beitris e Selma. Quest’ultima non puoi conoscerla, ha lasciato il villaggio nell’ultimo anno, quindi non puoi ricordarti di lei, a meno che tu non l’abbia incontrata in precedenza.
- Per quale motivo Myriam non vi partecipa?
- Credo non sia più interessata a parteciparvi. Non ne prende parte da quando ha iniziato a vivere qui al villaggio, suppongo.
- Cosa mi stai proponendo, esattamente, Imogene?
- Una possibilità, bambina.
La possibilità di “lavare” via quel ragazzo dal tuo cuore.
Di farlo svanire nel nulla.
Non si tratta semplicemente di un’amnesia. I Sabba agiscono più in profondità, se compiuti nel modo giusto.
Non solo non ti ricorderesti più di lui, ma, se dovessi incontrarlo ancora, come è già successo, il tuo cuore gli rimarrebbe del tutto indifferente, statico. Lo rigetterebbe.
Ciò significa che non soffriresti più. Non soffriresti nel vederlo con un’altra, nel vederlo costruirsi una vita senza di te. E tu stessa, non avresti alcun problema nel costruirti una vita con un’altra persona.
Lui esisterebbe nella realtà, ma non esisterebbe per te.
Judith venne tentata da tale prospettiva.
La sua rassegnazione aveva raggiunto tale livello invalicabile.
Non voleva provare altro dolore, quello che aveva provato nelle ultime infernali settimane le era bastato.
Non voleva vivere in tal modo.
Voleva essere libera. Libera di vivere a modo suo, senza freni di alcun tipo, senza soffrire per un amore che non avrebbe mai visto la luce.
Doveva pensare a se stessa. A sé e a sé soltanto.
E se per ottenere quel risultato sarebbe dovuta ricorrere alla magia nera… allora lo avrebbe fatto. Non aveva alcun problema in merito.
- Sei sicura che possano riuscirci? – le domandò infine, dopo averci riflettuto. – Se lo farò… voglio la certezza che il risultato sarà quello che hai promesso.
- La forza di sei streghe basterà. Hai la mia parola – le garantì Imogene, fiera di aver ottenuto quella piccola, grande vittoria. – Prendi questo – le disse poi, porgendole una boccetta contenente un liquido che Judith conosceva bene.
La rossa lo prese in mano e la guardò interrogativa. – È il rimedio contro i dolori della gravidanza. Perché me lo dai?
- Prendilo.
Il Sabba si terrà questa notte.
Non sarà una passeggiata, ti avverto.
 
“Il sole scendeva su tutti i miei peccati, illuminando la via.
Ho scordato come reagire, dinnanzi a tanta luce” – concluse di leggere quel passaggio Ioan, dopo circa un’ora di esercizio nella lettura. Il bambino rivolse gli occhioni chiari a padre Craig, seduto sul tavolo della cucina di fianco a lui, in aspettativa.
Il prete gli sorrise fiero, facendo sorridere il ragazzino a sua volta.
Il sole primaverile illuminava il tavolo e il libro con cui Ioan si stava esercitando.
- Sei migliorato molto, Ioan – si complimentò padre Craig scompigliandogli i capelli. - Azzarderei a dire che le lezioni di lettura con me siano più proficue di quelle con Blake.
Il succitato sputò tutto il the che stava per ingerire, non appena padre Craig pronunciò quelle parole, intente a punzecchiarlo.
Il ragazzo si trovava in piedi dinnanzi al ripiano soleggiato della cucina, intento a bere l’infuso mentre ascoltava in silenzio padre Craig dare lezioni a suo fratello.
Si voltò verso di loro, alzando un sopracciglio che doveva farlo apparire un minimo contrariato, se non fosse stato per il piccolo ghigno dipinto sulle sue labbra.
- E per quale motivo le mie lezioni sarebbero meno proficue delle vostre, padre?
- Beh, perché, in un solo pomeriggio di lezione con me, Ioan ha migliorato la fluidità della sua lettura di cento volte! – esclamò, stuzzicandolo ancora, mentre Ioan sorrideva beato con loro e si divertiva giocando con la gattina, con la quale, ovviamente, aveva fatto subito amicizia.
C’era un bel clima a casa Rolland, dal giorno prima, da quando Ioan era tornato, in salute, ed Heloisa con lui.
Blake aveva passato tutta la mattinata e metà del pomeriggio con suo fratello, iniziando a recuperare un po’ del tempo perso.
Sarebbe stato tutto perfetto, se solo, nel villaggio, non si respirasse aria di tragedia, da quando era uscita fuori la storia dei Bambini sciagurati, la quale aveva turbato profondamente chiunque, nessuno escluso.
Inoltre… come se non bastasse, quella notte Quaglia era sparito.
Se ne era andato chissà dove, senza alcun preavviso, senza una parola, né un saluto.
L’uomo aveva lasciato solo un biglietto, il quale non era stato molto utile a trovarlo.
Blake e padre Craig in particolare, erano turbati dalla sua sparizione improvvisa, nonostante cercassero di non darlo a vedere dinnanzi a Ioan, il quale si stava vivendo il suo primo giorno di pace e gioia.
- Ahi! – esclamò il ragazzino, in seguito ad un “affettuoso” graffietto di Nellie.
- Sta’ attento quando le fai fare il gioco del dito, perché te lo stacca a morsi – lo ragguardò Blake, prendendo un altro sorso dalla tazza.
L’arrivo di Heloisa portò il silenzio nella stanza.
La donna era apparsa dal corridoio. Nel suo volto vi era la stessa espressione di quando era rincasata la sera prima, dopo giorni e giorni di autoesilio: il volto contratto, addolorato e rabbioso al contempo, inacidito.
- Hai riposato e ripreso le forze, madre? – le domandò Ioan, spensierato.
- Che fine ha fatto Quaglia? – domandò la donna senza rispondere a suo figlio, per poi dirigersi verso la cucina, prendere la tazza dalle mani di Blake come nulla fosse, e berne il contenuto, appropriandosene.
Padre Craig lanciò uno sguardo complice e preoccupato a Blake, il quale gli diede il muto permesso di fare ciò che ritenesse adeguato fare.
- Ioan, caro, vieni con me. Avevi detto che oggi volevi andare a visitare i tuoi amici, i bambini degli otto peccati capitali, per far sapere loro che stai bene, giusto?
- Sì, esatto, padre! Per prima voglio visitare Gwen.
- Ci avrei scommesso. Avanti, vai a metterti le scarpe e il mantello.
- Vado – rispose il bambino, facendo come gli era stato detto.
Quando padre Craig e Ioan furono usciti di casa, madre e figlio rimasero soli.
Blake immaginava che alcune delle energie negative di sua madre fossero dirette a lui, infondo era sempre stato così, e così sarebbe rimasto, specialmente ora che suo padre era morto.
Heloisa era abituata ad attribuire a Blake tutte le colpe di qualsiasi cosa accadesse, in generale.
Era diventato quasi un gioco, il suo sfogo personale, in quanto erano talmente diversi sotto tutti i punti di vista, che era facile, per la donna, usarlo come capro espiatorio per ogni male del mondo.
Incolpare Blake piuttosto che altri, significava mostrare sempre il dovuto rispetto a suo marito e non urtare mai la sensibilità di Ioan, che era un bambino molto fragile.
Blake invece se lo meritava tutto l’odio che gli rigettava addosso, perché lui l’aveva fatta arrabbiare sin troppe volte per non essere un bersaglio sempre perfetto.
E poi, a Blake non importava nulla dei suoi crudi sfoghi su di lui, se li lasciava scivolare addosso come acqua calda.
Il ragazzo pose le braccia conserte e attese che ella parlasse.
Non lo avevano ancora fatto da quando la donna era tornata a casa.
- Avresti preferito che morissi io, piuttosto che tuo padre, vero? – fu l’esordio di Heloisa.
- Accidenti. Hai fatto del tuo meglio: un modo davvero delicato e sereno di iniziare una conversazione - commentò Blake.
- Ho saputo che hai cacciato padre Craig di casa mentre non c’ero – riprese Heloisa, posando la tazza sul tavolo.
Blake accennò un sorriso indefinibile a quelle parole. – Immagino Imogene ti abbia informata su tutto ciò che avveniva in questa casa.
- Imogene non ti ha spiato.
Mi sono chiesta per quale motivo lo avessi cacciato… poi, mi sono ricordata che a te non serve un motivo per ferire i sentimenti di chi tiene a te, specialmente se si tratta di quel prete.
È una cosa che ti piace fare. Sentirti superiore agli altri e trattarli di conseguenza.
A ciò, Blake la guardò a distanza, non lasciando trasparire nulla, così come lei.
- Ho saputo che non sei stato bene. Che ti è successo mentre ero via?
- Da quando sai leggere?
- Rispondi prima alla mia domanda, Blake.
- Nulla che ti riguardi. Ora sto bene. È il tuo turno.
- Me l’hanno insegnato Imogene e Drusilla, quando eravamo bambine, di nascosto dai nostri genitori - rispose con semplicità lei.
- Per tutti questi anni… ti sei sempre infuriata con Myriam e con me, perché lei mi insegnava a leggere, bruciavi tutti i taccuini che usavo per esercitarmi da bambino…
Mi hai sempre rimproverato, ogni volta che leggevo o scrivevo davanti agli altri.
Hai finto, davanti a papà, davanti a tutti, di non saper leggere, di seguire tutte le “sacre leggi” del signore con dovizia e scrupolosità.
- Difatti seguo tutte le sacre leggi del signore con dovizia e scrupolosità – ribatté ella. – Tranne questa. È una vergogna, per me, saper leggere. Da piccola lo consideravo un modo per evadere dalla disciplina soffocante e violenta di tua nonna e tuo nonno… ma poi, ho capito che stavo peccando contro il Signore, e che avevo violato una sacra legge di Bliaint.
Blake rise con sdegno, in risposta. – Sei anche peggio di quanto pensassi – disse serafico.
- Mi sono allontanata. Come tu mi hai suggerito di fare – gli disse avvicinandosi velocemente a lui, con passi decisi e spediti, fin quando non furono faccia a faccia. – Avevi ragione, per una volta: il mio autoesilio mi ha permesso di salvarmi. Ma ora… sembra che i monaci si siano improvvisamente e “miracolosamente” convinti della mia innocenza. Suppongo sia merito tuo.
Dovrei esserti grata, non è vero..?
Dimmi, è perché hai fatto gli occhi dolci alla novizia “madre” Myriam…? O perché ti fotti la loro amata pupilla? – gli domandò velenosa.
A ciò, il ragazzo, impassibile, abbassò il viso, per avvicinarlo maggiormente a quello della donna.
- Attenta, mamma.
Non farmi pentire di non avertela fatta pagare amaramente, per aver rapito Ioan senza il suo consenso, e per averlo quasi lasciato morire, pur di non volermi far sapere che si era ammalato di nuovo – le rispose, irritandola e pervadendola di sensi di colpa al contempo.
- Tu non meriti un figlio come Ioan – aggiunse sprezzante.
- No, piuttosto merito un figlio come te.
La mia condanna è iniziata quando tu sei venuto al mondo.
- Ricominciamo con questa storia.
Mi ripeti questa esatta frase da almeno dieci anni. Non credi sia il momento di variare un po’?
- Ecco, è proprio questo l’atteggiamento che mi mancava! – urlò lei sardonica. – Questa noncuranza verso tutto e tutti, verso qualsiasi cosa ti venga detta! Questo tuo essere una testa calda, ribelle, ma non per attirare l’attenzione come tutti i bambini ribelli, no! Tu lo fai per una sorta di sfida personale!
Una sfida personale che nessuno conosce, che ti rende migliore, diverso dagli altri! Ma tu non sei migliore o diverso dagli altri, faresti meglio a fartelo entrare in testa, Blake!
Tu… - si bloccò la donna, riprendendo fiato.
Il ragazzo la guardava e la ascoltava senza batter ciglio.
- Tu… ti lamenti di ciò che hai, delle tue agiatezze, dei privilegi in cui vivi, senza neanche conoscere l’immensa fortuna che possiedi.
Rigetti la tua fortuna, sputi nel piatto che ti nutre, dai fuoco a tutto ciò che ti viene offerto, puoi permetterti di essere spocchioso, presuntuoso, incurante, ribelle, solo perché ti è stato dato tutto.
Se non avessi nulla… non ti comporteresti così.
Se ti fosse stato tolto tutto, dalla nascita, esattamente come è stato tolto a quei poveri bambini… - spirò lei, avvicinandoglisi e alzando il volto per guardarlo dritto negli occhi. - Quei bambini erano eroi. Eroi che lottavano per una giusta causa, per respirare un briciolo di libertà che gli è stata loro brutalmente negata.
Tu per cosa lotti…?
- Ahimè – commentò lui, con una freddezza nella voce che la fece urtare ancor di più. – Nessuno può scegliersi i genitori e nessuno può scegliersi i figli.
Dovrai imparare a convivere con questo, madre.
Te l’ho sempre detto. Non vi è alcun bisogno che fingiamo: ognuno di noi due può vivere la sua vita indipendentemente dall’altro. Ma tu, continui a non farlo.
Continui a starmi addosso come un’arpia affamata.
Questi giorni che ho vissuto lontano da te mi hanno fatto assaporare una pace senza pari, svanita nel momento in cui sei tornata.
Sei irrimediabilmente attirata dall’idea di discutere e infuriarti con me.
Non puoi farne a meno, è come un bisogno biologico per te.
Se ti sei tanto innamorata di quei bambini di cui hai letto, perché non adotti loro, o meglio i loro fantasmi, e non disconosci i tuoi veri figli? – la sfidò, tagliente.
Heloisa gli rivolse un sorriso malsano, deviato e contorto. – Dimmi, Even-
- Non osare chiamarmi così – la ragguardò nauseato.
Ma ella non si scompose, continuando a rivolgergli quel contorto sorriso, prendendo a carezzargli la guancia. – Dimmi…: quel monaco depravato, quel padre Ilian… ti ha mai toccato, quando eri bambino?
- No. Te l’ho già detto più volte.
- Strano – commentò lei. – Molto strano. Eppure, in molti bambini servi del Diavolo sono stati importunati e traumatizzati da lui, la tua amata in particolar modo.
- Dove vuoi arrivare? Credi ti stia mentendo?
- No. Perché dovresti? Non ne avresti motivo.
Sto solo cercando di capire il perché tu gli sia passato inosservato. Infondo, avevi proprio l’età che piaceva a lui.
Ma, forse, ora capisco il perché. Riuscivi a spaventare persino i monaci da piccolo, Blake.
Sicuramente, quell’uomo era attratto dai bambini passivi e remissivi, per lo meno all’apparenza. Probabilmente, Ioan sarebbe stato uno di loro, se in quel periodo avesse avuto la tua stessa età.
Tu, invece, eri tutto il contrario: tenevi testa a tutti, rispondevi male, non avevi paura delle punizioni, non avevi paura del giudizio del Signore, non temevi la sacra autorità.
Forse, se ti avesse messo le mani addosso, avresti persino trovato il modo di andarlo a dire a qualcuno e di smascherarlo. E lui lo sapeva.
Era questo a renderti pericoloso, ai loro occhi.
Forse è proprio per questo… che quell’uomo non ha mai osato neanche posarti gli occhi addosso.
La tua indole ti ha salvato.
Non comprendi dove voglio arrivare, caro?
Tu lo illustro in maniera più semplice: quello che è accaduto a quei poveri bambini secoli fa, dovrebbe insegnarti ad apprezzare ciò che hai.
Dovrebbe insegnarti a comportarti come si deve, ad essere grato, a fare ciò che ti viene detto, a seguire la retta via.
E invece no. Sei sempre il solito.
Ci sono delle persone che hanno passato l’inferno e sono sopravvissute a tutto ciò che gli è stato fatto senza fiatare.
E poi ci sei tu, un ragazzo viziato che crede di dominare la natura, di sostituirsi a Dio.
Forse… avresti meritato anche tu una bella lezioncina, da parte di quel maniaco di padre Ilian.
Magari, subire un trauma simile ti avrebbe definitivamente fatto abbassare la testa e apprezzare ciò che hai. Ti avrebbe fatto comportare bene.
Quell’ultima frase di Heloisa creò un divario invalicabile tra i due.
Il divario c’era sempre stato.
Ma, prima di quel fatidico momento, vi era sempre stata la possibilità di scavalcarlo in un modo o nell’altro, complice quello scomodo e malsano affetto che indubbiamente legava l’una all’altro.
Ma dopo quello… non c’era più alcun modo per porre rimedio a ciò che era stato.
Blake continuò a guardarla, senza dire nulla, senza lasciar trasparire nessuna emozione.
Solo le sue mani lo tradivano, travolte da tremolii, ma erano nascoste grazie alla posizione delle braccia conserte, mai disciolta.
Heloisa, forse resasi conto dell’orrore della frase appena pronunciata, si discostò da lui, come scottata, indietreggiando e posando gli occhi altrove.
Calò un silenzio disturbante e disagevole, interrotto solamente dai miagolii della gatta.
Fortunatamente, qualcuno bussò inaspettatamente alla porta.
Heloisa stava per chiedergli se aspettasse qualcuno, ma si trattenne dal farlo, ancora troppo sconvolta dalle sue stesse parole.
Blake si allontanò dalla cucina e andò ad aprire la porta, frastornato dalla conversazione appena avvenuta, ma ben in grado di mascherarlo.
Il ragazzo rimase sorpreso nel trovare sull’uscio la persona che aveva dinnanzi.
- Hinedia – disse, sgranando gli occhi lievemente.
- Blake – ricambiò il saluto lei, alzando le iridi su di lui solo per un attimo, giusto il tempo di rivolgergli un piccolo sorriso di circostanza.
Le sembrava di essere tornati ai primissimi tempi, al loro primo o secondo incontro, in cui ella non riusciva neanche a guardarlo in faccia per più di un secondo.
Ma Blake non glielo fece notare, non dicendo nulla in merito, fortunatamente.
Sarebbe stato strano il contrario, dato che, oramai, era calata una sorta di distanza tra i due, che si era andata intensificandosi col passar dei giorni.
Sembravano essere passati secoli dal giorno in cui si erano stretti la mano, in un caloroso gesto di solidarietà, in quella locanda semideserta.
Ma, d’altronde, era questo che voleva Hinedia: stabilire le giuste distanze, per non essere un pericolo per nessuno, per lui soprattutto.
Dopo l’assassinio di suo padre, glielo doveva, gli doveva questo e molto altro.
Tuttavia, aveva deciso di recarsi a casa sua quel pomeriggio, per una questione di profonda importanza: ultimamente, la serva del Creatore aveva instaurato un bel rapporto con Quaglia, sincero, spensierato e amichevole.
L’alchimista straniero le aveva insegnato a combattere, le aveva dato lezioni quasi ogni giorno da quando Heloisa era fuggita, e lei lo aveva persino ospitato a casa propria quando Blake lo aveva bruscamente allontanato dalla sua dimora.
L’aveva aiutata a controllare le due metà del mostro, l’aveva aiutata ad acquistare fiducia in se stessa, e non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza per questo.
Per tale motivo avevano stretto una solida e sincera amicizia.
Ed esattamente per tale ragione Hinedia era inevitabilmente preoccupata al momento, dato che l’uomo era scomparso quasi da un’intera giornata, senza preavviso, e nessuno sembrava avere notizie di lui.
- Spero di non disturbarti – esordì la ragazza, adocchiando di sfuggita la figura di Heloisa dentro la casa.
- No, prego, entra – la accolse Blake, lasciandole lo spazio per entrare.
Quando fu dentro, Hinedia si tolse il mantello, appendendolo accanto al camino, per poi venire assalita dall’affetto aggressivo di Nellie, la quale iniziò a strusciarsi sulla sua gamba senza lasciarle il tempo di realizzare che la micia si trovasse lì.
La serva del Creatore sgranò gli occhi, a metà tra l’intenerita e la sorpresa, abbassandosi a lasciarle qualche carezza. – Cosa ci fa lei qui…? – domandò incuriosita, mentre la gatta le faceva le fusa e riprendeva familiarità con il suo odore.
- Immaginavo ti avesse già incontrata: infondo sei amica di Judith, quindi sarai già stata diverse volte alla cattedrale, quando era ancora Judith a tenerla con sé – commentò Blake, accennando un lieve sorriso dinnanzi all’immediata confidenza che la micia stava prendendo con Hinedia.
- Sì, infatti, ma… come mai ora è qui con te? – gli domandò la ragazza, rialzandosi in piedi.
Intanto, Nellie raggiunse Blake, iniziando ad arrampicarsi sulle sue lunghe gambe.
Il ragazzo la accontentò, prendendola in braccio e posandola sul ripiano della cucina in cui era adagiato il cibo per lei.
- Una lunga storia – rispose lui, mentre il felino addentava alcuni avanzi di ortaggi con gusto.
In quel momento, la presenza molesta di Heloisa si fece notare, interrompendoli. – Vi lascio soli – si limitò a dire la donna, con sguardo schivo come quello di una ladra, mentre recuperava velocemente un mantello e si accingeva a lasciare la casa. Blake non l’aveva neanche guardata, e da quel breve scenario Hinedia ipotizzò che i due avessero avuto una discussione prima del suo arrivo.
Ad ogni modo, ora erano soli.
Una strana e irrazionale agitazione si impossessò della ragazza, facendole formicolare la schiena.
- È passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo visti – ruppe il ghiaccio lui.
- Già. L’ultima volta è stato quando sono venuta a fare il mio ultimo allenamento qui, diversi giorni fa. È trascorso ancor più tempo dall’ultima volta che abbiamo parlato, a dir la verità – aggiunse lei, nascondendo il tono nostalgico dietro uno sguardo distratto e schivo.
- Hai ragione.
- Immagino tu sappia perché sono qui – disse la ragazza, infilando le mani dentro la sua saccoccia e tirando fuori il foglio strappato di un taccuino. Lo porse a lui, riuscendo a guardarlo almeno in quel momento. – Vorrei che me lo leggessi. Per favore. L’ho trovato incastrato sulla porta di casa questa mattina all’alba. Suppongo sia un messaggio lasciatomi da Quaglia, prima di…
- … Sparire – completò la frase per lei Blake, prendendo il messaggio tra le mani e leggendone il contenuto. 
E mentre Blake leggeva silenziosamente, Hinedia si perse ad osservare il magnifico opale che pendeva sul petto del ragazzo, il quale le fece stringere lo stomaco, ricordandole costantemente il tremendo delitto che aveva commesso.
Era venuta a conoscenza del fatto che quel magnetico ciondolo fosse stato un regalo che Rolland aveva fatto a suo figlio, prima di morire.
- C’è scritto:
“Dovremo riprendere i nostri allenamenti quando i tempi saranno opportuni.
Non perdere tempo a cercarmi, non servirebbe a nulla, mia cara.
Vivi la tua vita come ti ho insegnato.
Quando sarò tornato, potresti non aver più bisogno di me.
Ma ti aiuterò comunque. Nel meglio delle mie possibilità.
Intanto, nonostante vada contro la tua etica, voglio darti un consiglio spassionato: vivi impavidamente.
A presto,
Quaglia” – Blake la riscosse, tramite quella lettura.
Fortunatamente, egli non fece domande sul contenuto della lettera.
Quaglia, previdentemente, si era mantenuto vago, sapendo che quel messaggio dovesse esserle letto da qualcuno, e che quel qualcuno potesse essere all’oscuro del loro segreto.
Blake riconsegnò il foglio a Hinedia, la quale lo prese e se lo appoggiò sul petto. – Chissà dove sarà e per quale motivo se ne sarà andato… - sussurrò. – Immagino avrà lasciato un messaggio anche a te, giusto?
Come aveva predetto, Blake infilò una mano dentro una tasca dei pantaloni e tirò fuori un altro foglio strappato, dello stesso taccuino.
- “Non fare mosse avventate senza di me.
Cerca di non ucciderti prima del mio ritorno.
So che potrebbe essere un’impresa ardua per te, ma te lo chiedo come amico.
Dì anche agli altri che tornerò presto.
Non preoccupatevi per me. Non mi cercate. In ogni caso, non mi troverete.
Restate al sicuro, a Bliaint.
Tornerò in men che non si dica.
A presto,
Quaglia” – Blake le lesse anche quello.
Era alquanto scontato che Quaglia avesse lasciato un messaggio anche a Blake, Hinedia aveva supposto bene.
- Immaginavo avesse lasciato una lettera anche a te. Speravo che, almeno in una delle due, vi fosse scritto qualcosa di più utile su dove fosse.
- Non l’ha scritta solo per me, è destinata a tutta la famiglia.
Ho cercato di decifrarla, e di capire se volesse dirmi qualcosa, magari il luogo in cui è diretto, tra le righe, forse perché teme possa finire per errore nelle mani sbagliate.
Non so, le ho pensate tutte.. – le rivelò il ragazzo, sospirando.
- Dunque, siamo al punto di partenza. Non abbiamo alcuna idea su dove sia diretto – concluse, posando gli occhi sul camino spento. – Spero solo che stia bene e che non si sia cacciato nei guai.
- So quanto possa risultare strano detto da me, ma… Quaglia è un uomo adulto e responsabile. Sa badare a se stesso. Io, Ephram e padre Craig gli abbiamo insegnato a farlo. Sono certo che sta bene.
Da quelle parole, Hinedia carpì tutta la preoccupazione che provava Blake, e che nascondeva abilmente. Tuttavia, lei lo conosceva, ed era evidente che stesse cercando di autoconvincersi da solo.
- Una volta… - trovò il coraggio di dire la ragazza. – Quaglia mi ha parlato della “trasmutazione dell’anima” – azzardò, scorgendo gli occhi di Blake sgranarsi. – Mi ha spiegato che… stava facendo degli esperimenti, con te, per ottenere la trasmutazione dei metalli; e che avete letto, in un libro, che esiste anche una trasmutazione dell’anima, che implica una sorta di purificazione dello spirito dall’irrequietezza e dal turbamento, una specie di metodo che aiuta a controllare le emozioni, a dominarle…
Un modo per imprigionare per sempre Layla e Agnes.
- Quaglia ti ha parlato di tutto questo…? A che scopo?
La ragazza capì di essere in un terreno scivoloso, dunque si affrettò a riparare il danno fatto: - Me ne ha parlato solo vagamente. Stavamo solo facendo conversazione, tra una pausa e l’altra dagli allenamenti… - spiegò.
Fu in quel momento che, incerta sulla reazione di Blake, Hinedia alzò finalmente lo sguardo su di lui, notando che il ragazzo avesse ora gli occhi fissi verso il corridoio, da cui si intravedeva l’entrata della fucina.
Blake fissò quella porta blindata, che non apriva da un po’, provando una miriade di sensazioni differenti. Non entrava nella fucina dalla notte in cui il male che si era artigliato a lui era stato dolorosamente rimosso da Myriam.
Aveva promesso, a se stesso e agli altri, che avrebbe aspettato, prima di ritornare là sotto.
Aveva promesso che avrebbe liberato la mente e pensato ad altro, che non si sarebbe rimmerso nelle sue folli ricerche immediatamente, che avrebbe atteso, atteso di essere sicuro di stare meglio.
Ma quella porta… quella porta lo attirava come un tesoro proibito avrebbe attirato un avido marinaio, catalizzando tutta la sua attenzione.
Hinedia si schiarì la voce, per riportare il ragazzo alla realtà, temendo di aver fatto un danno nell’aver tirato fuori l’argomento, pentendosene immediatamente.
Blake aveva passato un periodo molto buio ultimamente, e sembrava ossessionato da quelle ricerche, e lei gliene aveva parlato all’improvviso, come se nulla fosse, senza il minimo riguardo.
- Quaglia crede sia possibile – le disse improvvisamente lui, distogliendo gli occhi dal corridoio e riportandoli su di lei; prima che la ragazza potesse aprire bocca per scusarsi di aver tirato fuori il discorso. – Ottenere la trasmutazione dell’anima. Io non ne sono così sicuro. Le ricerche che stavamo facendo erano più incentrate sulla trasmutazione dei metalli, ma… lui è sempre stato più attirato dalla trasmutazione dell’anima. Perché me ne hai parlato ora?
- La trasmutazione dell’anima… potrebbe aver a che fare con la sua sparizione? Magari… si è allontanato perché spera di trovare, in qualche modo, la soluzione per ottenerla – ipotizzò lei.
Blake vi pensò su. – Ma non ha senso. Dove potrebbe trovarla? È qualcosa di molto antico, centinaia di alchimisti ci hanno provato, ma hanno fallito quasi tutti.
- Il nobile straniero che ti sta cercando… Agloveil è il suo nome, giusto? Egli sta cercando la stessa cosa? Sta cercando un modo per ottenere la trasmutazione, ma crede che tu abbia ciò che cerca.
Ho saputo che gli uomini di quel nobile sono sbarcati nelle nostre coste. Potrebbe essere che… Quaglia stia cercando di mettersi in contatto con gli uomini del conte, per riferirgli qualcosa…? – suppose Hinedia, notando solo in seguito l’espressione di stupore dipinta nel volto del ragazzo a tali parole.
- Dunque… anche tu sei venuta a conoscenza del conte Agloveil.
Speravo che almeno tu restassi fuori da tutto questo… pandemonio senza fine, provocato da me - commentò il ragazzo, con palese rammarico nella voce.
Hinedia rimase lusingata da ciò, spostando gli occhi a terra. – Le voci corrono in fretta. Non angustiarti, per questo. Preferisco saperlo, che non saperlo. In ogni caso, finché sei qui, a Bliaint, sei al sicuro. Gli stranieri non invaderanno la nostra terra – disse con sicurezza la ragazza. – E poi, non è facile rimanere all’oscuro del fatto che, un abitante di Bliaint, tramite le sue gesta, abbia attirato l’attenzione di un potente conte straniero.
- È per questo che non vuoi più guardarmi? – le domandò lui, facendola completamente pietrificare.
La ragazza alzò finalmente gli occhi su di lui, trovando la forza di guardarlo, di guardarlo per più di un secondo, senza sentirsi morire dentro.
Guardò i suoi occhi grandi e luminosi, che le erano tanto mancati, sollevata di poterlo fare, di riuscire a farlo, percependo un peso venirle tolto dalla schiena.
Tale domanda le aveva spezzato il cuore.
- Non è vero che non voglio guardarti… - sussurrò abbastanza forte da farsi sentire, con una sincerità disarmante, quasi infantile. – Di certo non potrei mai detestare guardarti per un motivo tanto assurdo…: non è affatto colpa tua se gli uomini nel mondo sono avidi, avari e crudeli; non è colpa tua se quel conte ti sta cercando. E poi, io voglio guardarti.
- Se non riuscissi a farlo per una motivazione come questa, lo accetterei, lo capirei. Ma mi sembra di essere tornati al punto in cui parlare con te significava parlare da solo, o con un muro, e – si bloccò, palesando lievemente il suo disagio, il disagio di parlare con qualcuno che evita il contatto visivo con terrore e angoscia. Senza volerlo, esattamente come agli inizi, Hinedia faceva emergere il suo stato d’animo inibito ogni volta che guardava un qualsiasi oggetto casuale della casa mentre parlava con lui. Blake le stava cercando di dire, a modo suo, che anche lui non sopportava quella strana distanza che vi era tra loro.
- Ti considero una mia cara amica. Una delle poche amiche sincere che ho – le disse il ragazzo.
Una cara amica… e assassina della tua famiglia  non riuscì a fare a meno di completare mentalmente la frase Hinedia.
- Non vorrei mai che ci fossero screzi tra noi, cose non dette che contribuirebbero ad innalzare un muro – aggiunse lui, rendendola debole e cedevole dinnanzi a tale apertura di sentimenti.
- Hai ragione – ammise lei, affranta a causa del segreto che non avrebbe mai potuto in alcun modo rivelargli, ma cercando di dissimulare l’angoscia tramite un sorriso. Un genuino sorriso che le proveniva dall’anima, dalla consapevolezza di potersi ritenere più che fortunata nel non venire odiata, ma anzi, dall’essere benvoluta dalla persona a cui aveva fatto tanto male.
Poi, gli occhi le rimbalzarono di nuovo su quel dannatissimo opale, facendole ripensare a cosa, a chi, gli aveva strappato via. – Il ciondolo che indossi… è molto bello.
- Grazie.
- Non parliamo da così tanto che ci sarebbero mille domande che vorrei farti. Vorrei chiederti come sta tuo fratello, Judith mi aveva informata fosse peggiorato. Vorrei chiederti di tua madre, della sua mostruosa scoperta sui bambini sciagurati… io non so davvero cosa dire.
- Lo so. Neanche io. Non parliamo di questo, ora – le disse, per poi posare gli occhi fuori dalla finestra e notare che fosse già il tramonto.
- Avevo promesso a Philip che questa sera avrei supervisionato gli scavi alla galleria – la informò, per poi afferrare il suo mantello. – Devo andare, mi spiace. Parleremo un’altra volta, anche riguardo la faccenda di Quaglia. Siamo tutti preoccupati per lui e se c’è un modo di scoprire dov’è, lo troveremo.
- Ti accompagno.
- Non ce n’è bisogno.
- Insisto – disse la ragazza, afferrando il proprio mantello a sua volta e uscendo di casa con lui.
Camminarono insieme fino alla galleria, continuando a conversare, in tranquillità.
Hinedia lo informò anche del suo imminente matrimonio e gli disse che, ovviamente, tutta la sua famiglia (compresa di padre Craig e di Quaglia) e Judith erano invitati alle nozze.
Blake si congratulò con lei.
Hinedia non seppe perché glielo disse. Tuttavia, prima o poi avrebbe dovuto farlo.
Quando giunsero sul luogo, che era anche il luogo in cui Hinedia aveva compiuto il tremendo delitto, all’insaputa del ragazzo, un senso di nausea la avvolse: non riusciva a rimanere lì, neanche volendo.
Salutò il ragazzo e si congedò, diretta verso casa.
Blake, rimasto solo dinnanzi all’imponente luogo che aveva popolato i suoi incubi e i suoi sogni per diverso tempo, supervisionò gli scavi, fin quando l’ultimo scavatore non se ne andò, tornando nella propria dimora, dalla propria famiglia.
Oramai anche padre Craig, Ioan ed Heloisa dovevano essere rientrati.
Ma lui restò lì, da solo, nel buio di un cielo quasi privo di stelle, dinnanzi a quella bocca di terra buia, che sembrava urlargli qualcosa, urlargli di ascoltarla, attirandolo dentro di essa, come aveva sempre fatto.
Non si accorse del tempo che passava. Rimase lì ore, ma non seppe quante, a guardare quell’enorme tunnel isolato dal mondo, in piedi, ad un passo dall’entrata.
Ad un tratto, gli sembrò come se la mandragora lo avesse chiamato di nuovo, come era accaduto mesi prima.
Fece per muovere un passo verso quel buio imperscrutabile, senza una lampada ad olio, né alcuna protezione per le vie respiratorie, irrimediabilmente soggiogato; ma venne bloccato da una voce.
Una voce femminile, vagamente familiare.
Qualcuno lo stava chiamando e stava correndo verso di lui, nel buio.
Era una donna, una ragazza seminuda, con la pelle ricoperta degli stessi segni indelebili neri che possedevano tutti gli stregoni eremiti del villaggio.
- Blake! Devi venire con me! Presto!!
- Lilibeth…?
 
- POCHE ORE PRIMA –
 
Judith raggiunse il bosco, accompagnata da Imogene.
Oramai la sera aveva calato i suoi battenti, e se non fosse stato per il focolare acceso in mezzo a quello spiazzo d’erba privo di alberi, le due non avrebbero visto nulla.
Era tutto pronto per compiere il Sabba.
Imogene aveva dipinto una luna sulla fronte della sua amata, le aveva sciolto i lunghi capelli cremisi, i quali le ricadevano in corpose ciocche sulle spalle e sulla schiena lattea; e, infine, l’aveva fatta vestire solo con una misera vestaglia di seta bianca, la quale metteva ben in evidenza il suo grande e femmineo pancione.
Camminarono a piedi nudi fino al luogo d’incontro, in cui si trovava il focolare acceso dalle streghe, le quali erano state avvertite preventivamente da Imogene.
L’aria della sera sferzava le gambe completamente nude di Judith, la quale iniziò a provare qualche brivido di freddo.
Giunte sul luogo, la fanciulla osservò rapita il cerchio delle sei giovani streghe che circondava il focolare: elle erano tutte bellissime, come era normale che fossero, con dei corpi dai più procaci ai più acerbi, di ogni tipo; quasi completamente nude, se non per qualche strascico di stoffa nera che lasciava intravedere quasi interamente i loro maestosi corpi marchiati con i magnetici segni della magia nera; ognuna di loro con una stella dipinta sulla fronte, i piedi nudi, i capelli sciolti e al vento.
- Benvenuta – l’accolse calorosamente una delle streghe, andandole incontro.
Imogene le sorrise, incoraggiandola ad andare con lei, mentre ella restava in disparte.
Le streghe si atteggiavano come se Imogene non esistesse.
Quella sera, esisteva solo lei, Arley Judith.
- Io mi chiamo Lilibeth – le disse la strega che l’aveva presa con sé e che la stava conducendo verso il cerchio, in cui le stavano attendendo le altre.
- Imogene vi ha già detto il mio nome, immagino.
- Certo che ce lo ha detto, Judith. Sappiamo chi sei – le disse, con voce certa e allegra.
- Loro sono le mie sorelle della compagnia: Muren, Karolaine, Raissa, Texalia e Clove.
Le ragazze la osservarono, sui loro volti un sorriso etereo, quasi immateriale.
- Come funziona? – domandò Judith, voltandosi verso la sua accompagnatrice. – Non l’ho mai fatto prima. Non sono solita nell’uso della magia.
- Lo sappiamo. Eppure, ti stai prestando a questo, figlia del Diavolo – rispose con naturalezza Lilibeth, invitandola ad unirsi al cerchio, nello spazio lasciato vuoto per lei.
Il calore delle lingue di fuoco che scoppiettavano più potenti che mai in mezzo al cerchio la acquietò, riscaldandola dal freddo provocato dalla nudità.
- Se sei pronta, cominciamo – disse Lilibeth, guardandola in aspettativa, rivolgendole uno sguardo incoraggiante.
Judith annuì, senza esitazione, mentre Imogene continuava ad osservarla in disparte, fieramente.
Le sei streghe iniziarono ad intonare una sorta di canto stregato, dal significato oscuro e sconosciuto.
Urlarono in coro, perfettamente in sintonia, come se compissero quel rituale tutte le notti.
Poi, iniziarono a ballare intorno al fuoco.
E Judith danzò a tempo con loro, come mossa da una forza sconosciuta.
Era come se il suo corpo si stesse gradualmente sciogliendo.
Sciogliendo e liberandosi di tutto ciò che aveva di umano.
Non percepiva più nemmeno il peso dei gemelli che gravavano sul suo ventre.
Sette donne nude che danzavano in mezzo al bosco, intorno ad un focolare.
Un Sabba tra i più semplici mai visti, eppure potente quanto un cielo tonante, pensò Imogene, osservandole ipnotizzata.
Ballarono per ore, fino a farsi dolere i piedi, intonando quel canto maledetto, fin quando Judith non manifestò una reazione particolare.
Il suo corpo si alzò da terra di diverse spanne, come tirato su in cielo da una forza sconosciuta.
I suoi piedi si staccarono dall’erba, fluttuando, come tutto il suo corpo.
La rossa rivolse il volto in trance al cielo stellato, fin quando non ripiombò giù, provocando un lieve trasalimento nelle altre.
- Il volere del Signore e delle prime streghe si sta compiendo – decretò una di loro.
- Il volere del Signore e delle prime streghe si sta compiendo – ripeterono in coro.
- Signore, ti ringraziamo per questo potere che ci hai generosamente donato.
- Signore, ti ringraziamo per questo potere che ci hai generosamente donato.
Improvvisamente, Judith iniziò ad urlare a squarciagola, come posseduta dall’animo di una bestia.
Ringhiò e urlò rocamente, come non si addiceva ad una donna, anzi, in maniera talmente animalesca e virile da spaventarle.
Si mise a carponi, inarcò la schiena nonostante il peso del pancione che sembrava non sentire, e iniziò a urlare e a digrignare i denti come una belva affamata.
Imogene iniziò ad allarmarsi lievemente, specialmente perché vedeva le altre streghe guardarla con crescente sconcerto.
Judith non rispondeva ai richiami, né sembrava in grado di parlare.
Poi rotolò sulla schiena e riprese ad urlare, a puntare mani e piedi nudi al terreno, artigliando tutto quello che poteva, lamentandosi e dimenandosi.
- Non ha più percezione di sè… se continua così, potrebbe fare del male ai bambini che porta in grembo! – esclamò la strega che portava il nome di Raissa.
- Che cosa?! Dovete impedirglielo! – intervenne immediatamente Imogene, avvicinandosi alle streghe. - Che cos’è andato storto??
- Nulla è andato storto. Il Signore e le streghe che invochiamo decidono autonomamente come agire, per adempiere la nostra richiesta – spiegò Lilibeth.
- Lo spirito o l’indole di una delle antiche streghe si è impossessata di Judith – spiegò Clove.
- Cosa vuol dire? Che non c’è più lei dentro il suo corpo, ma una delle prime streghe?
- Non si tratta di scambio di corpi, no. Si tratta di unione di spiriti.
È sempre Judith ma in modo diverso: la sua indole ora è priva di inibizioni, libera da tutto, libera di sfogarsi e di esprimersi nel più spontaneo e animale dei modi. I suoi istinti più reconditi stanno prendendo il sopravvento, in quanto è spinta dall’indole di una delle prime streghe, mischiata alla sua.
- E questo cosa comporterà…?
- Dobbiamo accontentarla – le rispose Texalia. – Se non la assecondiamo, si ribellerà, si farà del male, finendo per far involontariamente del male ai gemelli. Il suo spirito primitivo risvegliato deve essere assecondato
- In che modo dobbiamo accontentarla? Perché si strugge in tal modo? Cosa vuole?
Ma Imogene non fece neanche in tempo a terminare di porre le sue domande che Judith si rigirò e si rimise a carponi, raggiungendole con un balzo bestiale. – Portatelo da me – ordinò con quella voce imponente e ferale.
- Feromoni. Sta emettendo feromoni. È più forte di lei e oltre il suo controllo – rispose Lilibeth. – Non è una reazione strana. Gli spiriti delle prime streghe in comunione con i nostri liberano i nostri istinti basici e originari, che richiedono di essere soddisfatti.
- Non era questo lo scopo del Sabba – contestò Imogene, abituata ai ben diversi riti pagani.
- Ora lo scopo del Sabba è diventato un altro – le rispose Lilibeth, con una certa urgenza, in quanto Judith stava rischiando di nuocere seriamente alla salute dei gemelli, inconsapevolmente.
- Vuole accoppiarsi, Imogene. Devo dirtelo in altro modo??
- E cosa succede se non accontentassimo il suo bisogno primitivo?
- Continuerebbe a diventare più aggressiva e incontrollabile, sarebbe sempre peggio.
Dobbiamo lasciare che lo spirito istintuale venga accontentato e che la liberi, donandole di nuovo la sua anima razionale. Solo così farà il suo corso. Nessuna di noi può prevedere l’epilogo di un Sabba - spiegò Muren.
- Non è possibile… - sussurrò Imogene, combattuta.
Judith continuava a diventare più aggressiva, ad urlare inferocita, ad invocare sempre la stessa frase, con una fame e una voracità spaventose: – Portalo da me!!!
- A chi si sta riferendo…? – Imogene conosceva benissimo la temibile risposa, ma lo domandò ugualmente.
- Lo spirito primitivo riconosce cosa alberga nel cuore e nella più radicata intimità di Judith.
Sa chi lei vuole.
Non andrebbe bene uno qualsiasi, deve essere quello che lei desidera ora.
Lo capiremmo se non fosse quello giusto, perché lo spirito lo rifiuterebbe se si trovasse dinnanzi a lei.
- Portalo da me!!!
- Imogene, tu sai a chi si riferisce, non è vero? È chi penso io? – le domandò Lilibeth, impaziente. – Se aspetteremo ancora prima di farla accoppiare, i bambini che porta in grembo potrebbero-
- Sì, ho capito!
- Dobbiamo portarle il compagno con cui lei desidera unirsi.
- E se lui non volesse unirsi a lei? – domandò Imogene.
- Non esiste alcun “se”: Lui deve unirsi a lei. Non può scegliere.
- Oh, per gli Inferi, i vostri maledetti Sabba! – urlò di rabbia Imogene, non riuscendo più a vedere la sua amata in quello stato di disperazione più animalesca che mai, struggersi e urlare di dolore, mentre rilasciava feromoni. Mentre rischiava di mettere in pericolo la vita dei bambini che avrebbe ceduto a lei.
No, non poteva rischiare di fare del male a quei bambini.
- Sì, è colui che pensi. Vallo a chiamare. Se non lo trovi, cercalo, cercalo, ovunque, basta che lo porti qui al più presto. Se gli dirai che Judith è in pericolo acconsentirà a venire qui – ordinò Imogene a Lilibeth, in tono deciso e rassegnato.
La strega non perse tempo e iniziò a correre verso l’uscita del bosco, più veloce che poté.
Quando Lilibeth tornò, dopo circa venti minuti, in compagnia di Blake, le streghe tirarono un sospiro di sollievo.
Fortunatamente il bosco non era lontano dal terreno della galleria.
Era il primo luogo che Lilibeth aveva raggiunto uscita dalla fitta boscaglia, e sarebbe passata di lì per arrivare all’abitazione del ragazzo; ma non ve ne era stato bisogno, in quanto Blake si trovava esattamente alla galleria in quel momento.
Il ragazzo sgranò gli occhi incredulo, dinnanzi allo scenario che gli si presentò dinnanzi: una manciata di streghe nude, un focolare scoppiettante, Imogene in mezzo a loro, ma soprattutto Judith, nuda anch’ella, con i vestiti strappati, il pancione e i seni in bella vista, che si rotolava a terra guaendo disperata, come una bestia in calore.
Ma non gli occorse neanche avvicinarsi a loro, in quanto fu come se Judith avesse appena annusato qualcosa, qualcosa che l’aveva fatta rizzare in piedi in un attimo e l’aveva fatta voltare nella sua direzione.
Corse verso di lui, con lo sguardo appagato di un animale che aveva appena adocchiato la sua preda, facendo per saltargli addosso, ma prima di darsi lo slancio, piombò a terra dinnanzi a lui, colpita da un dolore lancinante, che la fece piegare e portare entrambe le mani al pancione.
- No… no! Sono le doglie! – esclamò Karolaine.
- Non può avere già le doglie! Sono false, false doglie, sicuramente provocate dai movimenti pericolosi che ha fatto e dall’immenso sforzo provato! Non può dover partorire già ora, è troppo presto, mancano ancora due mesi! – esclamò Imogene, allarmata ai limiti dell’umano.
- Che diavolo sta succedendo qui? – si limitò a domandarle Blake, osservando l’agonizzante Judith a metà tra l’esterrefatto e il mortalmente preoccupato.
- Ha deciso di sottoporsi ad un Sabba. Per dimenticarti una volta per tutte – rispose lapidaria Imogene, non riuscendo a non nascondere la furia nella voce, più rivolta a se stessa che a lui. – La colpa è stata mia. Non avevo valutato tutti gli epiloghi che avrebbe potuto avere un Sabba – concluse, voltandosi a guardarlo. – Solo tu puoi aiutarla.
- Io…?
- Se non te ne fossi accorto dal modo in cui stava per agguantarti non appena ha annusato il tuo odore nell’aria, vuole te.
Il suo spirito primitivo, il suo istinto primordiale è stato liberato in lei, da una delle streghe arcaiche, la quale ha unito la sua indole a quella di Judith, privandola della sua parte razionale.
Non tornerà in lei fin quando non sarà soddisfatta. Soddisfatta in ogni modo possibile.
Blake, se possibile, spalancò gli occhi ancora di più, sempre più allibito da tutto ciò che stava udendo e vedendo. – La farò tornare in sé – decretò, guardandola piangere disperata a causa delle false doglie.
- Non puoi farla tornare in sé. Devi accontentarla, Blake, e non fingere che l’idea non ti alletti nemmeno un po’. Parlare è l’ultima cosa che vuole fare con te, al momento.
- Non giacerò con lei in queste condizioni, Imogene; la farò rinsavire.
- Non hai scelta.
- Che significa che non ho scelta?
- Che non tornerà normale se non la soddisfi! Non puoi scegliere di non farlo!
Significa che, come stai ben vedendo, finirà per uccidere inconsapevolmente i bambini che porta in grembo se ti rifiuterai!
Blake, senza lasciarle dire un’altra parola, si accovacciò accanto a Judith, prendendole delicatamente le spalle. – Ehi, Judith, mi senti? Concentrati sulla mia voce. Vieni, allontaniamoci di qui. Avanti, vieni con me – la incoraggiò, tirandola su e lasciando che si appoggiasse a sé.
Inaspettatamente, la ragazza, ancora agonizzante, si lasciò maneggiare docilmente da lui, aggrappandosi alle sue braccia e lasciandosi trascinare lontano dalle streghe e dal focolare, in una zona più inoltrata del bosco.
- Qui nei paraggi c’è un lago, me lo ricordo. Ci ho fatto il bagno diverse volte, non è profondo - cercò di parlarle normalmente, come se lei fosse perfettamente in grado di ascoltarlo e di capirlo.
Doveva credere che lo fosse, per provare a farla rinsavire.
Un bagno freddo e rilassante sarebbe stato un buon metodo, dato che Judith, oltre a essere nuda, era anche completamente sporca di terra e di sangue, in quanto si era provocata delle ferite, che potevano diventare infette.
Fortunatamente, Blake si accorse che non fossero gravi.
Continuò a guidarla, conducendola placidamente verso il lago.
Il ragazzo vi entrò dentro con tutti i vestiti, accompagnando Judit con sé, la quale si lamentava ancora per le false doglie, ma meno disperatamente di prima.
Erano uno di fronte all’altra, con l’acqua che arrivava loro ai fianchi, le mani strette tra loro.
Blake cominciò a lavarle via la terra e il sangue dalla pelle candida e delicata, morbidissima, ma piena di graffi e piccole lesioni.
Le spostò i capelli dalle spalle e lavò via tutto, con dolcezza e premura.
- Dimenticarti di nuovo di me… con un Sabba – commentò, non sapendo se lei potesse comprenderlo oppure no.
Non vi era alcun tono di accusa nella sua voce, mentre continuava a passarle le mani bagnate sulla pelle sporca, solo una profonda tristezza. – Se questo era il tuo proposito… ci sarebbero potuti essere altri modi. Meno incerti e più sicuri.
 Judith fece roteare la testa all’indietro, beandosi di quelle carezze; poi, improvvisamente, tornò a guardarlo, di nuovo con quello sguardo animalesco di poco prima.
Appariva come una dea lupa, antica e selvaggia, con quel luccichio famelico negli occhi nerissimi, i capelli impazziti, che le facevano da manto, da criniera, e il bellissimo corpo nudo e gravido.
- Che cosa ti hanno fatto…? – sussurrò Blake, non riuscendo a riconoscerla.
Non era spaventato, no, ma era sempre meno convinto di riuscire a farle tornare la razionalità.
Le false doglie sembravano essersi acquietate e la sua libido bestiale si era lievemente ridimensionata, forse grazie al bagno e alle parole dolci di lui.
Tuttavia, era ancora potentissima, tanto che l’odore della ragazza sprigionava una fragranza particolare, inconfondibile, specialmente ora che aveva l’oggetto del suo desiderio vicino.
Judith gli poggiò le mani sulla nuca e lo trascinò verso di sé, si alzò sulle punte e iniziò a passargli le labbra carnose sul collo, inspirando il profumo della sua pelle, per poi discendere giù, sulle clavicole, e poi sul petto coperto dalla maglia. Strattonò giù il bordo della stoffa per scoprire più pelle possibile e continuò a percorrere la sua traiettoria con dovizia e appagamento, mugolando. Non ci mise molto prima di sostituire le labbra con la lingua calda e umida.
- Judith, no – la bloccò lui, poggiandole le mani sulle spalle nude, ma la ragazza non lo ascoltò minimamente. – Non così – aggiunse prendendole la testa e allontanandola dal suo petto.
- Se non così, come? – gli rispose lei fissandolo negli occhi con quella scintilla bestiale nello sguardo che lo fece tremare. La sua voce era ancora arrochita, ma sembrava un po’ più padrona di se stessa.
- È davvero così che vuoi farlo? Sei stanca, ferita, e le streghe ci stanno aspettando di là.
- Le streghe sanno bene cosa succederà e se ne andranno, perché sanno che sono con te.
- Non credo che Imogene se ne andrà.
- Lei non conta niente per me. Non provo nulla più che affetto nei suoi confronti.
Guardami negli occhi… e ti accorgerai che non mento.
Sono io, Judith, che ti sto parlando ora. Non riesci a rendertene conto?
- Lo spirito primitivo influisce nella tua indole e ti fa agire in un modo in cui non agiresti se fossi in te.
- Io sono in me, Blake.
Lo spirito primitivo non cambia i miei desideri, ma li enfatizza semplicemente.
Sono sempre io. Solo priva delle inibizioni e delle costruzioni sociali che mi impedirebbero di fare quello che voglio – gli disse, artigliandogli i fianchi stretti con le mani e affondandoci le unghie dentro.
Le sue mani erano calde, bollenti, e il suo fiato febbricitante.
Blake le prese il viso tra le mani e la guardò a lungo, alla fioca luce della luna piena.
La prima volta che si sarebbero amati sarebbe stata al buio, dunque, con una voracità e una foga inumane a plasmare le loro azioni.
Il ragazzo abbassò il viso e le lasciò un bacio sulla fronte dipinta, poi gliene lasciò un altro sulla tempia, altri due sulle guance, giungendo infine sulle sue labbra tanto amate. Le assaporò e le permise di assaporarlo a sua volta. Judith, animata più che mai dai suoi istinti, esplorò la bocca del ragazzo con fame e impazienza, artigliandogli i fianchi ancor più in profondità, tirandolo a sé fino a far premere i loro ventri tra loro. Il suo pancione gonfio stava quasi sfondando l’addome piatto e tonico del ragazzo, tanto erano vicini.
- Così farai del male ai bambini… devi fare attenzione – la ragguardò lui staccandosi improvvisamente dalla sua bocca, sentendola emettere un inappagato ringhio frustrato.
- Non mi importa nulla di questi bambini.
- Non è vero. So che ti importa, nonostante tutto.
- Te lo ha detto la Judith che conoscevi prima della mia amnesia? Quella scomparsa? Quella che ti manca tanto? Per questo mi rifiuti ora?
- Non ti sto affatto rifiutando. Tu non hai idea di quanto io lo voglia.
- E allora che aspetti?
- Dobbiamo fare attenzione ai gemelli. E con la voluttà ferina che ti anima in questo momento, ho paura che tu non sia in grado di mostrare la dovuta attenzione.
- Allora mostrala tu per me – lo sfidò lei persistente, spostando le braccia e ancorandole al suo collo, aggrappandosi a lui. – Mostrala tu per entrambi, Blake… ma non voglio che questo ti freni minimamente o che ti impedisca di concederti a me completamente, corpo e anima.
Devi lasciarmi fare tutto quello che voglio farti… mi hai capito? – ordinò lei con voce bassa e inumanamente seducente, mordendosi le labbra gonfie. – Non opporti. Non opporti mai.
In risposta, lui la baciò di nuovo, permettendole di spogliarlo mentre le loro bocche erano unite.
- Avrei tanto voluto averti prima di rimanere incinta… - sussurrò con il fiatone la ragazza, lo sguardo annebbiato dalla lussuria e la voce rotta dal piacere di averlo così vicino e dal godimento intenso che a breve avrebbe provato.
- Anche io. Anche io lo avrei voluto, Judith.
- La tua presenza e il tuo odore mi stordiscono.
È normale provare una cosa simile nei confronti di qualcuno?
- Neanche io credevo fosse possibile, prima di innamorarmi di te.
- Ripetimelo ancora… non sarò mai stanca di sentirtelo dire.
Blake le rivolse il primo sorriso della nottata, avvicinando la bocca al suo orecchio e iniziando a restituirle un po’ di quei baci di cui lei l’aveva riempito e ampiamento vezzeggiato poco prima.
Ma lei non glielo permise. Un altro e incontrollabile moto di eccitazione nei confronti del ragazzo la invase, facendola tremare da capo a piedi per le attenzioni ricevute.
Lo scostò da sé e gli strappò la tunica di dosso, lasciandolo a torso nudo.
- Sei ancora troppo vestito – decretò rocamente, infilandogli le mani dentro i pantaloni e tastando tutto ciò che poté voracemente, facendogli emettere un sospiro mozzato.
- Fallo ancora. Voglio sentirti ancora… – gli sussurrò lei, impaziente.
L’istinto primitivo di Judith le faceva provare un’inesauribile voglia di dominarlo.
Voleva dominare su di lui da quando lo aveva visto arrivare e aveva inspirato il suo odore a distanza, grazie a quei sensi potenziati che la strega arcaica le aveva donato.
Judith era sempre stata una ragazza molto tattile, ben predisposta verso il contatto fisico, nonostante la sua apparenza solitamente sostenuta e autoritaria suggerisse il contrario, Blake aveva imparato a scoprirlo.
Tutto il contrario suo, invece. Il ragazzo rifuggiva i contatti fisici, non perché ne fosse infastidito (tranne in alcuni casi), bensì perché era fatto così, non era un atto spontaneo, per lui, approcciarsi corporalmente a qualcuno. Difatti, ogni volta che gli era capitato di entrare in intimità con una persona, che fosse con Beitris, con Sibyl, o con qualche altra fanciulla alla Festa di Beltane, manteneva i contatti carnali al minimo indispensabile per goderne pienamente entrambi durante l’atto, ma nulla di più. Niente carezze in più, niente abbracci o baci di troppo.
Alcuni lo avrebbero definito gelido, o privo di passione.
Le altre se lo erano fatto andar bene, senza spingerlo a sorpassare i suoi limiti o a fare nulla che non volesse fare.
Judith, invece, sembrava avere un intenso bisogno fisico di quel tipo di contatto.
Era ella a voler toccare e saggiare tutto ora, come fosse in una frenetica avanscoperta guidata dalla lussuria.
Quando anche le gambe del ragazzo rimasero scoperte, e lui si ritrovò nudo, esattamente come lei, Judith diede voce ai suoi pensieri senza alcun freno, guidata dal suo istinto primitivo lasciato totalmente libero: - Non sono mai stata con un uomo bellissimo prima d’ora – disse guardandolo. - Sono stata solo con un uomo in vita mia, ed egli era un servo del Creatore, dall’aspetto orrendo - confessò, non sapendo se il ragazzo fosse già a conoscenza di quell’informazione o no. Probabilmente la “vecchia Judith” si fidava tanto di lui da averglielo già riferito. Ne ebbe la conferma quando sul viso di Blake non si formò nessuna espressione di sorpresa, nell’udire tali parole. – Eppure, lui per me era bello, perché credevo di amarlo. Non mi importava del suo aspetto, non mi importava di nulla – continuò.
- Ora, invece, ti importa – dedusse lui.
- No – rispose lei riavvicinandosi, tanto da far aderire ancora il pancione contro il ventre di lui. - Provo per te dei sentimenti molto più forti di quelli che provavo per Naren. Ma, per me, saresti bello anche se non lo fossi già così tanto; anche se non lo fossi agli occhi degli altri.
Blake le sorrise e abbassò lievemente il volto su di lei, accarezzandole alcune morbide ciocche umide. - Neanche per me l’aspetto è rilevante. Se la tua anima fosse diversa da quella che è… ora non ci troveremmo qui, Judith.
- Non mi chiami con il mio primo nome. Neanche in un momento di intimità come questo. Perché?
- Perché è solo un nome, non ha importanza per me.
- Per me ce l’ha.
- Vuoi che ti chiami col tuo primo nome?
Judith negò con la testa. - Proprio perchè ce l’ha, preferisco che mi chiami Judith. Il mio primo nome è stato usato solamente da poche persone, che ho amato e poi odiato.
Dunque, posso chiamarti col tuo primo nome, se lo volessi – ora Judith sembrava essere molto più se stessa di quanto lo fosse prima, ma pur sempre mossa e travolta da una libidine e un calore senza pari.
L’istinto primordiale era ancora vivo in lei.
- Se lo desideri – sussurrò lui, con voce calda e accomodante.
Judith infilò una mano sott’acqua e lo toccò, sospirando e continuando a guardarlo negli occhi bramosa, quasi feroce. – Promettimi che sarai mio. Sarai mio, d’ora in poi.
Nonostante ciò che stava accadendo sott’acqua, Blake mantenne uno sguardo sostenuto e la fissò dritta negli occhi, penetrandola col suo sguardo deciso e turbolento. – Lo prometto.
Non c’era più modo e motivo di aspettare.
Avevano atteso anche troppo.
Judith assaltò le sue labbra e Blake rispose con vigore; ella continuò a toccarlo con tale rapidità e avidità da farlo gemere contro la sua bocca, mentre il ragazzo avanzava, facendola indietreggiare verso il bordo frastagliato del piccolo lago.
Quando Judith toccò con la schiena il bordo semi-erboso e semi-roccioso, la ragazza si staccò dalle labbra di lui con insofferenza, voltandosi di spalle, senza che lui le dicesse nulla.
Espose la schiena bianchissima, curvilinea a morbida, tanto delicata all’occhio, da sembrare di porcellana; si aggrappò con le mani al bordo, tendendo le braccia, e voltando il viso verso di lui il tanto che bastava a reclamare ancora un suo bacio, sebbene in quella posizione scomoda.
Eppure era la posizione più immediata, più comoda e veloce per evitare l’ingombro del pancione, al momento.
Blake le strinse i fianchi morbidi e si abbassò per baciarla, facendo aderire il torace duro e tonico alla schiena di lei; mentre Judith gli strinse i capelli folti e scuri con una mano e lo spinse contro di sé, divorandogli la bocca.
Nonostante la lubrificazione dell’acqua avesse facilitato l’atto, quando il ragazzo entrò in lei, Judith emise un urlo roco, di piacere e di stupore, non trattenendo minimamente la voce dai gemiti e dagli ansimi che le facevano tremare tutto il corpo, da capo a piedi.
La fanciulla pretese di essere presa con forza e con ardore animale, mentre navigava nella beatitudine e nell’appagamento più intenso e ardente, al chiaro di luna.
I due amati consumarono il loro febbricitante amore fino a stare male, fino all’alba.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 57
*** Il messaggero da Bliaint ***


Il messaggero da Bliaint
 
 
Dopo giorni di cammino, Quaglia raggiunse il villaggio oltre la vallata, conosciuto come “Carbrey”.
Non era particolarmente famoso da quelle parti; non era famoso neanche un decimo di Bliaint.
Tuttavia, era conosciuto per essere un villaggio di cacciatori, contadini, votati a Dio, pii e molto semplici di mentalità.
Persone facili da sottomettere e colonizzare, sostanzialmente.
Aveva lasciato Bliaint da qualche giorno, portando con sé solo poche provviste, una mappa dei villaggi circostanti e qualche pagnotta.
Raggiunto il luogo, non rimase così sorpreso di vedere una pattuglia di soldati dall’aspetto tronfio e altezzoso sorvegliare l’entrata. D’altronde, sapeva che si trovavano lì, e che si stavano trattenendo più del dovuto, temporeggiando, probabilmente spaventati dalle leggende che circolavano su Bliaint.
Sicuramente avevano voglia di asservire una popolazione al loro volere, specialmente le donne, senza il terrore di subire le conseguenze di una maledizione lanciata su di loro, o del Diavolo stesso.
Per questo stavano temporeggiando.
Una situazione che non faceva altro che giovare ai suoi piani.
Perché era questo il suo eroico piano, il motivo per cui aveva lasciato il fianco di Blake, di padre Craig, di Ephram, tanto repentinamente: prendere tempo, e, possibilmente, convincere quei balordi barbari a tornarsene nella loro patria oltremare.
Si fermò dinnanzi alle guardie e si tolse il cappuccio palesando il suo volto, ornato di uno dei sorrisi più amichevoli del suo repertorio.
- Chi diavolo siete? – gli domandò uno di loro, con aria di superiorità.
- Mi chiamo Philippus. Sono un messaggero proveniente da Bliaint. Sono stato mandato per contrattare con voi.
A tali parole, i due cavalieri sbiancarono e si guardarono tra loro.
- Non temete, miei signori: non ho intenzione di farvi nessuna maledizione. Mi basta che mi lasciate vedere il vostro comandante.
Condotto al cospetto del comandante dell’esercito, il quale aveva saccheggiato e occupato totalmente il villaggio, rendendo ogni donna schiava sessuale, e non lasciandosi mancare nulla, Philippus rivolse un accennato inchino all’uomo.
Questo se ne stava stravaccato su una sedia, dentro una delle abitazioni del villaggio, circondato da donne seminude che gli servivano frutta fresca e carne su vassoi d’argento.
Il cavaliere, vestito in abiti semplici, lo squadrò da capo a piedi con curiosità, così come altri uomini dell’esercito presenti nella casa.
- Voi sareste un servo del Creatore o un servo del Diavolo? – gli domandò un uomo con una fanciulla seduta sopra le sue gambe, alla sua destra.
- Oh, Gregory, non essere scortese: il nostro improvvisato ospite non è una bellezza sconvolgente, tuttavia non è neanche brutto. Direi, piuttosto, “discreto”, banale, come tanti. Motivo per cui faccio fatica a credere che sia davvero un abitante di Bliaint come afferma – rispose a tono Charles.
- La bellezza “celestiale”, da “lasciare senza fiato” descritta da chiunque abbia visto un servo del Diavolo di Bliaint non mi sembra coincidere con questo ciarlatano qui – riprese Gregory. – Allora devo credere che tali voci siano a dir poco esagerate. Sono più bello io di lui.
- Avanti, Gregory, non arrivare a dire simili sciocchezze – lo riprese scherzosamente Charles, alzandosi in piedi e avvicinandosi a Quaglia, per scrutarlo meglio.
- Hai qualcosa da dire, in merito, Selen? – Charles interpellò la donna, la quale era una delle tante presenze vestite succintamente e intente a trasportare cibo ai cavalieri, palpata costantemente dai più famelici.
La suddetta si voltò verso Quaglia, osservandolo con i suoi occhi spenti e rassegnati, a distanza. – Cosa sono chiamata a dire, signore? – domandò con riverenza, ridotta ad una schiava.
- L’hai visto bene il nostro “messaggero da Bliaint”? Io sono un uomo e non me ne intendo di bellezza maschile, quindi potrai darci un parere più esaustivo tu: ti sembra bello quanto dovrebbe esserlo un servo del Diavolo di Bliaint? Bello quanto il ragazzo che hai ospitato mesi addietro e che ci hai descritto con tanta minuzia?
Selen rispose sinceramente: - No, mio signore. Costui è un bell’uomo ma non è neanche lontanamente paragonabile al ragazzo.
- Dunque ci sta ingannando! – esclamò Gregory, fulminando con lo sguardo l’“ospite”.
- Calmiamo i toni, signori miei – ristabilì l’ordine Charles.
- Con tutto il rispetto, comandante… posso parlare? – domandò con calma Quaglia.
- Certo, parlate pure.
- La donna ha conosciuto solo uno dei tanti abitanti di Bliaint.
Posso garantirvi che le voci che corrono sul mio villaggio sono a dir poco esagerate ed estreme: noi servi del Diavolo non possediamo una bellezza tanto sorprendente. Così come i servi del Creatore non sono tanto orrendi da spaventare. Sono solo leggende alimentate dalle lunghe lingue.
- Potreste avere ragione, Philippus… oppure potreste volermi convincere di ciò solo per abbassare la libido dei miei uomini, e tutta la curiosità e la fame che li muove, e che li spingerebbe a rapire e stuprare tutte le figlie del Diavolo di Bliaint, se solo avessero il mio permesso – suppose Charles.
Quaglia dovette ammettere che quell’uomo non era uno sprovveduto, né uno stupido.
- State vedendo me con i vostri occhi, mentre il ragazzo non lo avete mai veduto.
È la mia parola contro quella di una donna abituata ad essere circondata da figure maschili tutt’altro che di bell’aspetto, probabilmente: è naturale che ella trovi incredibilmente avvenente qualsiasi bel ragazzo dagli occhi blu le si presenti sotto il naso.
Posso garantirvi che ogni servo del Diavolo di Bliaint ha un aspetto simile al mio: piacente sì, ma “discreto”, “banale”, come lo definite voi. Difatti, ora che guardo le donne di Carbrey, posso affermare con convinzione che alcune di queste donne sono più attraenti delle nostre figlie del Diavolo – disse con convinzione, sapendo di risultare credibile, almeno il necessario.
- Se le vostre parole sono vere e siete davvero un messaggero di Bliaint… dimostratecelo in qualche modo.
- Posso dimostrarvelo senza problemi, in quanto io conosco Even Blake, il ragazzo che state cercando e che è stato ospitato qui mesi fa.
A tali parole, la piccola Gerda, la quale era intenta a condire il cibo accanto a sua madre, si riscosse, prendendo a fissare Quaglia.
- Oh… dunque lo conoscete. Conoscete l’ambito alchimista che è stato capace di tramutare il piombo in oro sotto gli occhi del Giudice di questo villaggio, e che, dopo aver compiuto il miracolo, ha ridotto il suo aguzzino in fin di vita ed è scappato. Lo stesso ragazzo che casualmente è stato descritto dalla nostra Selen come molto più avvenente di voi, che affermate di provenire dallo stesso villaggio e di appartenere al suo stesso culto.
- Ve l’ho detto e ve lo ripeto: spettacolarizzare, esagerare, alimentare la leggenda sulla nostra bellezza serve a creare aspettativa, a creare storie da raccontare.
- Dunque anche tutte le voci che girano sulla stregoneria e sul vostro contatto col Demonio sono false..? – domandò un altro cavaliere con voce speranzosa, intromettendosi.
- No, quelle sono vere. Decisamente vere. Difatti, alcuni degli stregoni più potenti di Bliaint hanno fatto un incantesimo di protezione al nostro villaggio: nessun oppressore può mettere piede nella nostra terra.
I presenti ammutolirono e rabbrividirono in seguito a tale dichiarazione.
- Allora, se in ogni caso siete protetti, per quale motivo hanno mandato voi a contrattare con noi? – gli domandò Charles diffidente.
- Perché non ci piace avere dei nemici e possibili aggressori ad un passo da noi.
Non ci piace l’ombra della minaccia sulle spalle, nonostante siamo del tutto protetti.
Vogliamo assicurarci che voi lasciate il nostro continente e facciate ritorno nella vostra patria, dal vostro esigente signore.
Charles scoppiò a ridere in seguito a tali parole. – Ma davvero?? E come credete di convincerci a lasciare il vostro ricco continente? Potremmo restare qui fin quando non scopriremo il modo per raggirare il vostro presunto incantesimo di protezione. D’altronde, abbiamo la protezione di Gesù Cristo con noi.
- Innanzitutto, dopo la notizia che vi sto per dare, il vostro viaggio fino a qui perderà totalmente di significato, e già solo questo dovrebbe convincervi a tornare da dove siete venuti, miei signori: Blake è morto. Il ragazzo che state cercando, il motivo per cui siete qui, non esiste più.
A tali parole, Gerda scoppiò istantaneamente in lacrime.
- Morto…? Cosa vuol dire che è morto…? – domandò Gregory deluso.
- Esattamente come lo intendete. Morto. Recentemente.
- Come è morto?
- Volete davvero saperlo? – domandò Quaglia, ostentando una sicurezza che sorprese persino se stesso. – I monaci del nostro villaggio lo hanno fatto bruciare al rogo pur di non rischiare di farlo finire nelle mani degli stranieri, nelle vostre mani. È morto qualche giorno fa, prima della mia partenza, e i monaci mi hanno mandato qui per riferirvelo.
- E come mai hanno mandato voi?? Cos’è, siete una sorta di prete del Diavolo anche voi?? – domandò Gregory sprezzante.
- Provengo da una famiglia facoltosa, inoltre ho una buona facoltà di linguaggio, e sono persino letterato, a differenza di tutti gli altri. Tuttavia, apprendo con piacere che non dovrò dare sfoggio delle mie conoscenze delle lingue straniere, in quanto parlate anche voi la lingua che si parla nel nostro continente. Sebbene in maniera molto più rozza.
- Tu, mascalzone impertinente….! – esclamò Gregory alzandosi dalla sedia e facendo per dargli un pugno in pieno volto; fermato in tempo dalla mano di Charles che gli afferrò il braccio.
- Non è il momento di risse da locanda, Gregory. Siediti.
- Questo diavolo saccente osa burlarsi di noi, Charles…
- Ho detto: siediti.
Gregory obbedì e Charles tornò a rivolgersi a Quaglia.
- Come so che dite la verità e che il ragazzo che stiamo cercando è davvero morto?
- Non posso darvene una prova. Vi avrei portato la sua testa dentro un sacco se avessi potuto, se questa non fosse andata bruciata insieme al resto del corpo.
- Oh, Charles, andiamo! Non crederai alle sue parole! Non sappiamo neanche se quest’uomo sta parlando dello stesso Blake che ha incontrato Selen – si lamentò Gregory. – Magari questi ciarlatani hanno fatto confusione e ne hanno ucciso un altro. Magari questo mascalzone non lo conosce veramente.
- Even Blake, diciassette anni, capelli scuri, occhi blu, alto, slanciato, asciutto, zigomi alti, naso che tende allo zenit, bravo nei calcoli, acculturato, dall’atteggiamento per lo più freddo e schivo nei confronti degli sconosciuti – lo descrisse Quaglia, sperando di aver convinto Selen e Gerda, nonché le uniche in quella stanza che lo avevano visto e osservato da vicino, e che potevano confermare le sue parole. Come sperava, Selen sgranò gli occhi, a tale dettagliata descrizione. Tuttavia, ancora non bastava. Quaglia fece mente locale, in modo da farsi venire in mente qualcos’altro che anche Selen e Gerda avrebbero potuto sicuramente notare in Blake. – Non ama i contatti fisici. Quando soffre particolarmente il freddo arriccia il naso e si posa i palmi delle mani sul collo, per scaldarsele. È una sua abitudine costante.
A ciò, Selen parlò. – Sì… lo avevo notato. Confermo ciò che dice quest’uomo, mio signore.
Gregory sbuffò, adirato. – Siamo venuti qui per niente, dunque..?? Il ragazzo è davvero morto??
- Ecco la nostra proposta – riprese Quaglia. – Voi ve ne andrete di qui, dato che non c’è più nulla che possa interessarvi nel nostro villaggio… e, in cambio, noi vi dispenseremo una generosa parte delle ricchezze che abbiamo alla galleria. Come ben saprete, Bliaint è rinomata anche per le rare e preziosissime gemme che possiede nella famosa galleria.
Un accordo molto generoso, considerando che nessuno ci costringe a cedervi le nostre ricchezze, dato che siamo già protetti dalla nostra magia – fece la sua proposta Quaglia, osservando attentamente il volto del comandante Charles.
Il silenzio calò nella casa.
- O siete un abilissimo attore, mio caro Philippus… - gli sussurrò ad un palmo dal viso Charles. - … o state dicendo la verità. Permetteteci di pensarci su. Intanto, sarete nostro “benvoluto” prigioniero. Uomini! Legategli le mani, accompagnatelo in una stanza e chiudetecelo dentro!
Una volta chiuso e legato in quella stanza semibuia, Quaglia rifletté su tutto ciò che aveva appena fatto, chiedendosi se avesse agito nel modo giusto e se il suo coraggio sarebbe stato premiato.
Se così fosse stato e se il comandante gli avesse creduto… probabilmente quegli uomini sarebbero tornati da dove erano venuti, ad un prezzo più che convenevole: qualche gemma della galleria.
Allora, tutti sarebbero stati salvi. Blake, padre Craig, Ephram, Judith, Hinedia, Ioan, Heloisa. Blake in particolare, che era il loro bersaglio principale.
Non lo avrebbero più cercato, nessuno avrebbe più parlato di lui e di ciò che aveva fatto alla dimora del Giudice.
Tutti i loro problemi avrebbero avuto fine.
Sperò di essere risultato abbastanza convincente, così come sperò che Blake, Hinedia o qualcun altro non lasciasse Bliaint per cercarlo.
Quando si fece sera inoltrata, qualcuno bussò alla porta.
I cavalieri avrebbero aperto quella porta a calci per entrare, dunque doveva per forza trattarsi di qualcun altro.
Di una donna, probabilmente.
- Prego – diede il permesso di entrare a chiunque si trovasse al di là, vedendo intercedere dentro la stanza la donna che aveva ospitato Blake nel suo soggiorno a Carbrey, in compagnia di quella che doveva essere sua figlia.
La bambina aveva tra le mani delle coperte ripiegate, mentre la donna un vassoio con dentro un po’ di cibo.
- Abbiamo pregato il comandante di potervi portare qualcosa da mangiare e delle coperte per la notte – gli spiegò Selen.
- Grazie. “Selen”, giusto?
Ella annuì, sedendosi nel letto di fronte al suo.
- Siete davvero un messaggero proveniente da Bliaint? – non perse tempo a domandargli la ragazzina. - Le guardie qua fuori sono mezze sorde, non vi sentiranno – lo rassicurò, curiosa di sapere.
- Da quanto siete prigioniere di questi uomini…? – domandò loro, senza rispondere.
- Da quando hanno preso possesso del nostro villaggio, imprigionando o uccidendo i nostri mariti, e prendendo noi donne come schiave. Fortunatamente… hanno risparmiato i bambini, i quali vengono trattati con discreto garbo e hanno il permesso di uscire di casa qualche volta – spiegò mestamente Selen, carezzando i capelli di sua figlia. – Non so dove sia mio figlio. Temo lo tengano prigioniero da qualche parte, insieme agli altri uomini.
Erano evidenti gli scopi per cui quei perversi cavalieri tenevano prigioniere le donne, facendole vestire come delle meretrici.
 Quaglia se ne compianse. – Mi dispiace. Vorrei poter fare qualcosa.
- Voi non sembrate provenire da Bliaint – riprese il discorso la piccola e ostinata Gerda.
- Non dire così, Gerda. Ti ricordo che Selma non possedeva una bellezza disarmante, eppure era anche lei una serva del Diavolo come Blake – le spiegò Selen.
- A dir la verità… sia io che Selma siamo degli stranieri, che hanno deciso di stabilirsi a Bliaint – decise di confessare loro Quaglia, certo che non ne avrebbero fatto parola con nessuno.
Le due sgranarono gli occhi per la sorpresa.
- Oh, Philippus, dite sul serio…??
- In verità, il mio nome è Quaglia. Non mi chiamo più Philippus, ormai da tempo.
Ho perduto la memoria, e Blake, Selma e un altro stregone della loro combriccola hanno deciso di prendermi con loro, e di farmi ricominciare una vita nel loro villaggio – spiegò, notando la sorpresa estendersi nei loro occhi. Sorvolarono sulla stranezza del nome “Quaglia”, per la gioia del suddetto.
- E ditemi, Quaglia… è vero? È vero che Blake è morto? – gli domandò Gerda, con dei grossi lacrimoni che minacciavano di rigarle le guance.
Stava rivelando troppo alle due.
E se i cavalieri avessero deciso di torturarle per scoprire se lui avesse rivelato loro qualche informazione…?
Era combattuto se confessare loro la verità anche su quello.
Gli occhi puri e disillusi di quella bambina che stava vivendo un inferno in terra, lo portarono a decidere:
- È vivo. Ma non dovrete far parola di tutto questo con nessuno, per nulla al mondo!
Sto rischiando cara la pelle per salvare coloro che amo.
Gerda sorrise felice, trattenendosi dall’avvicinarsi per abbracciarlo.
Blake doveva essersi legato molto a quella ragazzina.
Anche Selen sorrise sollevata.
- Spero che Charles e gli altri vi credano. E se ne ve vadano per sempre dalla nostra terra – disse la donna.
- Lo spero anche io – detto ciò, Quaglia notò un piccolo cavallino di legno scolpito a mano, adagiato su un comodino.
Quel cavallino gli riportò alla mente ricordi confusi, lontani…
- Cos’è quello? – domandò indicandolo, prendendo a mangiare il cibo che le due gli avevano portato.
- È il mio cavallo, mio padre l’ha scolpito per me quando ero più piccola. Questa era la mia camera, prima che quegli uomini se ne appropriassero e la usassero per rinchiuderci i prigionieri… - rispose Gerda.
Quaglia sorrise, con nostalgica tenerezza. – Gli hai dato un nome? – le domandò.
Gerda sorrise in risposta e annuì, prendendo il cavallino di legno in mano e accarezzandolo. – Si chiama Ruben.
Nell’udire quel nome, la memoria di Quaglia fu come puntellata con un coltello affilato, tanto da fargli provare dolore alla testa.
C’era qualcosa, qualcuno di veramente importante… qualcuno che aveva dimenticato dopo l’amnesia, di quella vita che non gli apparteneva più… qualcuno che non meritava di essere dimenticato.
Quaglia si prese la testa tra le mani e fece un bel respiro, cercando di schiarire quei ricordi, di capire chi fosse quella persona, che viso avesse…
“- Padre, che stai facendo con quel tozzo di legno?
- Ti sto scolpendo una piccola nave. Piccola come te. Ti piacciono le navi, giusto?
Il bambino dagli occhi azzurri, turchesi come i suoi, gli sorrise, e due fossette gli si delinearono sulle guance. – Sì, mi piacciono. Infatti, da grande salirò su una nave.
- Significa che te ne andrai di qui? Lascerai il tuo papà da solo?
- Poi tornerò. Promesso.
- E dove vuoi andare?
Il bambino sorrise ancora, puntellando le manine sulle ginocchia del suo papà. – Chi lo sa!
- Sei un vero avventuriero, Ruben.”
Ruben.
Ruben.
Aveva gli occhi turchesi identici ai suoi, che brillavano nel buio quando dormiva con lui. A parte gli occhi, somigliava tutto a sua madre.
Suo figlio.
Il figlio che aveva dimenticato, come tutto il resto delle cose, riguardanti la sua vecchia vita, la vita di Philippus.
Ogni uomo della sua dinastia di alchimisti, da suo padre, a suo nonno, al suo bisnonno, al suo trisavolo e così via, aveva dato al proprio figlio lo stesso nome: Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus.
Si chiamavano tutti così, i facoltosi uomini della famiglia von Hohenheim.
Solamente lui, il nono Philippus della dinastia, aveva deciso di rompere il cerchio: sua moglie l’aveva pregato di dare al loro figlio un nome differente rispetto a quello di tutti i suoi predecessori e di lui stesso, per non forzarlo a vedere già una strada segnata dinnanzi a sé.
La strada degli alchimisti più famosi del continente.
E così era stato. Philippus aveva deciso di dare a suo figlio un primo nome diverso, pur facendogli tenere tutti i seguenti nomi dei von Hohenheim, da tradizione: Ruben. Ruben Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim.
E così come il suo nome diverso, Ruben era diverso dai suoi antenati.
Egli non sembrava interessato all’alchimia, affatto, e questa era una vera novità per la loro famiglia.
Improvvisamente, tutti i ricordi legati a suo figlio gli tornarono alla mente: i suoi interessi preferiti, le gite nella foresta con lui, i loro allenamenti di combattimento, con la spada e corpo a corpo; i giochi da tavolo che facevano, l’ossessione di suo nonno per quel nipote che non sembrava mostrare i suoi stessi interessi…
Ruben amava l’autunno, aveva tre amici fidati che non si staccavano mai da lui, amava mangiare la ricotta col miele a colazione, sapeva suonare l’arpa e il flauto, correva sempre, amava il colore bianco, aveva i capelli color sabbia e odiava dormire.
E Quaglia iniziò a piangere al solo pensiero di riuscire a ricordarsi così tante cose di lui. Finalmente. Lo ricordava. Quel pezzo mancante e così essenziale, della sua vita passata.
- Non volevo dimenticarmi di te, ragazzo mio…
Non volevo…
Gerda e Selen si avvicinarono maggiormente a lui, preoccupate, mentre l’uomo continuava a dondolarsi, trattenendosi la testa tra le mani e piangendo di sincera gioia.
- Quaglia…? Che vi succede? Va tutto bene?
- Così ci spaventate…? Ho detto qualcosa di male?
- No, Gerda, anzi, tutt’altro… - le rispose prendendole le spalle sottili e sorridendole grato più che mai. - Mi hai fatto ricordare di mio figlio. Il mio ragazzo…
- Non ricordavate più neanche vostro figlio..? – gli domandò Selen afflitta.
- Ora sì… fortunatamente. Si chiama Ruben. Come il cavallo di legno di Gerda.
- Quanti anni ha? – gli domandò Gerda incuriosita.
- Non ricordo con esattezza… dovrebbe averne dodici, se non sbaglio. Vorrei così tanto rivederlo…
- Non potete tornare nel vostro vecchio villaggio per fargli visita, una volta esservene andato di qui? – gli domandò Selen.
Fu a quel punto che Quaglia ricordò un’informazione di fondamentale importanza. – Si è arruolato… si è arruolato nell’esercito del nostro villaggio ed è partito con loro!
- Cosa…? Così giovane?? È assurdo.
- I giovani del nostro villaggio possono unirsi all’esercito anche da bambini e lui è voluto partire con loro, nonostante le proteste mie e di sua madre – ricordò Quaglia. – Voleva viaggiare. E combattere – fece ancora mente locale, fin quando un’idea non gli si palesò alla mente. – Se riuscissi a scrivergli … se riuscissi a scrivere a Ruben e a fargli arrivare la mia lettera… lui potrebbe spronare l’esercito di cui fa parte a combattere per noi, per Bliaint, a contrastare l’esercito del conte Agloveil, nel caso questi ultimi decidessero di ignorare la mia proposta. A quel punto, con un esercito potente quanto il loro a difendere Bliaint, sicuramente eviteremmo la tragedia. Devo scrivergli. Devo assolutamente informarlo e chiedergli aiuto. Sono suo padre, sicuramente mi ascolterà. Così potrò anche rivederlo, finalmente. Spero solo che il suo esercito sia nelle vicinanze.
- Ma… ma come farete a scrivergli per informarlo?? I cavalieri controllano tutto ciò che entra e esce dal villaggio – gli disse Selen, preoccupata.
- Dovremo farci venire in mente un’idea. Al più presto.
Far pervenire a mio figlio questa lettera potrebbe essere la soluzione a tutti i nostri problemi.
 
 
La casa nella palude era fredda e spenta.
Imogene cullava la sua neonata tra le braccia, intonandole una delle ninnenanne che le aveva insegnato Guadalupe.
La piccola le stringeva il dito con la manina minuscola mentre la guardava, con due occhioni color miele.
- “Dormi, dormi,
Striscia dentro, striscia fuori,
Non voltarti a destra, né a sinistra,
O ti mangeranno gli occhietti
O ti mangeranno il nasino
Ti mangeranno persino un cuor che batte” – canticchiò.
“Hai scelto i due nomi per la nostra bambina?” le domandava sempre Myriam.
Certo che li aveva scelti.
Ana Jeane.
- Dormi, dormi, Ana Jeane, mio amore… - sussurrò adorante, baciando la fronte della sua piccola, semiaddormentata.
- Si è appisolata? – una vocina proveniente dalla porta la attirò, portandola a voltarsi.
Il volto di Imogene si aprì in uno splendido sorriso non appena individuò il bellissimo bambino, di massimo due o tre anni, che sostava sulla porta e la guardava a distanza.
- Si è appisolata mia sorella, madre? – domandò nuovamente il bambino, dai riccioli biondi e gli occhi scuri come la notte.
- Sì, mio tesoro. Vieni. Vieni qui dalla tua mamma, Layton.
Il bambino obbedì e le si avvicinò.
Imogene si accovacciò verso di lui e gli accarezzò dolcemente i capelli con la mano libera, baciandogli la fronte.
- Lo sai che tu sarai sempre il primo, vero?
Il mio primo figlio.
Il mio amore più grande.
Il bambino sorrise e sporse le manine, per prendere la sua sorellina in braccio.
Imogene glielo permise, adagiando il fagotto tra le piccole braccia di suo figlio.
Li guardò sognante, fin quando una quarta presenza non fece il suo ingresso nella scena.
- Imogene… - la richiamò Myriam dalla porta, facendola voltare verso di lei. Il suo sguardo era agghiacciato ed addolorato.
- Myriam… che ti prende?
- Imogene… che cosa hai fatto??
Imogene non comprese.
Non comprese fin quando non si voltò di nuovo verso i suoi bambini, trovandoli ora orribilmente morti entrambi:
Ana mostrava i segni dello strangolamento nel collo minuscolo da neonata.
Layton, invece, giaceva inerme in un bagno di sangue.
- No! No!!!! – urlò la sciamana correndo verso di loro, disperata.
Si fiondò per prima su Layton, tirando su il suo corpicino zuppo di quel liquido denso e cremisi, mentre Myriam accorse da Ana.
- Sei stata tu… - sussurrò la strega, con voce feroce, distrutta e gelida insieme.
- No… no, non sono stata io.
- Li hai uccisi tu.
- Non sono stata io! No!
- Perché, Imogene?!
- Sta’ zitta!
I miei bambini stanno bene! Stanno bene!!! – urlò in un pianto disperato.
Poi, la scena mutò.
Imogene si ritrovò in un deserto grigio e nebbioso.
- La chiamano “La malattia delle non-madri” – udì quella voce mai udita prima, limpida, melodiosa, e al contempo algida come la morte.
Imogene si accorse che proveniva da un giovane uomo, seduto su una roccia isolata, poco distante da lei.
Il giovane uomo, che era bello quanto era bello il vento, o il cielo riflesso nel vasto mare, indossava una tunica nera, e un mantello del medesimo colore.
La sua pelle era diafana, bianchissima, i suoi capelli più neri dello stesso mantello, e gli occhi due diamanti quasi trasparenti.
Egli non la guardava, bensì prestava attenzione a qualcuno che gli si stava avvicinando.
Imogene sbiancò non appena individuò la figura del suo amato bambino, apparentemente vivo, ma pallido come un fantasma, il tenero volto privo di qualsiasi espressione.
Layton si avvicinò al ragazzo seduto sulla roccia, portando con sé il fagotto contenente la sorella, anch’ella viva, ma palesemente un’ombra della neonata che la donna teneva poco prima tra le braccia.
- I miei bambini… - sussurrò Imogene, incapace di muoversi e di parlare.
Il giovane uomo allungò una mano nivea verso il piccolo e gli accarezzò la guancia.
Poi, finalmente, si voltò verso di lei, ancorandola sul posto con il suo sguardo, ipnotico e antico quanto erano antiche le stelle che popolavano il cielo.
- “La malattia delle non-madri” – ripeté lui, e fu in quel momento che Imogene realizzò concretamente di star parlando con il suo Signore.
- Che cosa significa…? – gli domandò lei, in un sussurro.
- Una sindrome… che colpisce alcune donne dopo che hanno partorito.
Colpisce quelle che non sono adatte ad essere madri – spiegò il Diavolo, continuando a carezzare con dolcezza i due bambini, i quali non si curavano della madre.
- Il parto non è per tutti.
L’atto di mettere al mondo un essere vivente dalle proprie carni, è doloroso, traumatico, crudele, atroce.
Per questo è stato affidato alle donne, questo dolore.
Solo le donne sono in grado di affrontarlo e di combatterlo.
Ma non tutte.
Alcune donne non sono destinate a partorire.
Alcune sono destinate ad altro.
Avresti dovuto capirlo.
Non è colpa tua, figlia mia.
Non è colpa tua.
Imogene lasciò andare tutte le lacrime che aveva in corpo, continuando a bearsi delle Sue parole come fossero acqua pura di sorgente.
- Mio Signore…
Egli si alzò in piedi e si avvicinò a lei lentamente e in silenzio, come uno spettro.
La superava in altezza di almeno due spanne, e quando le fu abbastanza vicino, Imogene dovette alzare il viso per guardarlo in volto.
- Va’, Donna con un sol nome.
Redimi te stessa.
Loro non possono perdonarti.
Ma io sì.
Imogene si svegliò di soprassalto da quel sogno.
Cercò istintivamente il corpo caldo di Judith accanto a sé, per un po’ conforto, ma non lo trovò.
Era stato un istinto involontario: da quando era tornata a vivere alla cattedrale, Judith non le aveva più permesso di dormire con lei. Imogene sapeva benissimo che Judith non fosse accanto a sé, in quanto si trovava nella stanza accanto alla sua.
Dalla notte del Sabba, avvenuta qualche giorno prima, Judith non le aveva quasi rivolto la parola.
Imogene e le altre streghe erano ben a conoscenza che Judith avesse passato la notte con Blake.
D’altronde, erano state proprio loro a renderlo possibile, senza volerlo.
Imogene si era già rassegnata all’idea da quella notte, combattendo quel mostro chiamato “gelosia” con le unghie e con i denti, mentre guardava Blake e Judith allontanarsi insieme nel cuore del bosco.
Sfortunatamente, non esistevano né intrugli né pozioni per sconfiggere qualcosa di tanto banale come la gelosia.
Quando Judith era tornata, la mattina dopo aver passato la sua prima e vorace notte col ragazzo che amava, era fresca, riposata e soddisfatta come non l’aveva mai vista.
Apparentemente, i gemelli nel suo grembo non avevano subìto alcun danno.
Imogene non le aveva chiesto nulla e Judith non si era disturbata a dirle nulla.
Nessuna delle due ne aveva parlato.
Al contempo, forse per rispetto di Imogene stessa, Judith non aveva visto Blake nei giorni seguenti.
Era come se si stesse autoimponendo un certo contegno nei confronti del ragazzo, da quando avevano fatto ciò che avevano fatto.
Si era dedicata ad altro, in particolare alla questione dei Bambini sciagurati.
Come promesso, aveva annunciato al popolo che i monaci attuali non fossero colpevoli né complici dei tremendi peccati commessi dai loro predecessori, e che, per tale motivo, non potevano venir perseguiti.
Ma, soprattutto, Judith aveva annunciato forte e chiaro di voler disseppellire tutte le cripte, facendone delle tombe aperte, dei luoghi di culto sacri, in cui pregare e portare omaggio alle anime di tutti quei bambini perduti.
Aveva assistito ella stessa agli scavi, entrando in tutte le cripte, trascorrendo molto tempo in quei luoghi oscuri e spettrali.
Imogene non si sarebbe potuta ritenere più fiera di lei.
Ora, tutto sembrava nel posto giusto.
Judith aveva trovato il suo amore, nonostante fosse ancora combattuta in merito, a causa dei monaci. Eppure, lo aveva trovato, avevano consumato il loro desiderio per la prima volta, e Imogene non l’aveva mai vista tanto appagata.
Anche Myriam sembrava stare bene, con la sua nuova vita da monaca del Diavolo. Aveva fatto pace con se stessa e con la storia di padre Cliamon e del ragazzo-strige, apparentemente. Ma, soprattutto, aveva fatto pace con Blake.
L’oscuro segreto dei Bambini sciagurati era stato svelato. La giustizia era venuta a galla.
Persino sua cugina non era più in pericolo, non vi era più nessuna accusa contro di lei; e suo figlio Ioan sembrava riacquistare salute gradualmente, grazie alle costanti trasfusioni.
Le ragioni per cui era venuta al villaggio inizialmente, lasciando la sua dimora solitaria alla palude, erano ormai soddisfatte: aveva mandato il denaro che aveva guadagnato ai suoi nipoti; e Judith…
Il motivo per cui si trovava lì era aiutare Judith con i suoi ricordi e prendere con sé i suoi figli non appena avessero visto la luce del sole, rapendoli e crescendoli con sé.
Sostituendoli ai suoi veri figli.
Non aveva previsto di innamorarsi della madre di quei bambini.
Innamorarsi in un modo tanto puro e generoso, da essere persino capace di provare gioia, oltre alla gelosia, nel vederla felice in compagnia di qualcuno che amava, che amava davvero.
Sapeva di non essere mai stata una vera scelta per quella giovane ragazza piena di vita e di fuoco dentro di sé.
Non la meritava. Non meritava Judith, non meritava i figli che aveva avuto, non meritava Myriam.
Così come non meritava i figli di Judith.
Era da tempo che stava ragionando sul da farsi, su cosa avrebbe fatto, d’ora in avanti.
I suoi obiettivi erano cambiati.
Il sogno di quella notte era stato rivelatorio, alla luce di tutte le riflessioni che aveva avuto modo di fare in quegli ultimi giorni.
Quel sogno… l’aveva finalmente portata a capire cosa avrebbe dovuto fare.
 
Myriam percorse la navata, diretta verso la figura imponente e placida del suo primo amore, che se ne stava seduta in tranquillità ad attenderla.
L’aveva odiata. L’aveva odiata sino a volerla morta.
Eppure, adesso che le sue questioni in sospeso erano state risolte, sentiva di non provare alcun sentimento negativo nei confronti di quella criptica e misteriosa donna.
Myriam si sedette accanto a lei, attendendo che parlasse.
- Abbiamo sbagliato tutto – esordì la bionda.
- Cosa intendi?
Imogene fissò il crocefisso posto al contrario con fare assorto. – Ho fatto un sogno. Ho sognato quella notte. Ma l’ho sognata in modo diverso… Il Diavolo mi è apparso. Lui mi ha spiegato cosa sono, chi sono e mi ha detto che posso essere perdonata.
- Cosa stai farneticando, Imogene?
La sciamana accennò un sorriso malinconico, voltandosi poi a guardare la strega. – Sei rimasta bella esattamente come quel giorno, Myriam.
Myriam non sapeva cosa rispondere. Sapeva solo che, per qualche motivo, aveva voglia di scoppiare in lacrime come un’infante.
- Ana Jeane. Ana Jeane era il nome della nostra bambina, a cui io ho brutalmente tolto la vita quella notte. Le avevo dato i nomi. Ma non te li avevo mai rivelati, perché non la sentivo mia, perché non la sentivo.
Crudele, vero?
Non c’è cosa più crudele al mondo, di rendere una donna madre.
Io non sono fatta per essere madre.
E neanche tu lo sei, Myriam.
So quanto tu lo abbia ardentemente desiderato e abbia fatto di tutto per ottenerlo… senza renderti conto di avere già tutto quello che ti serviva.
Gli occhi della strega divennero meravigliosamente lucidi, mentre la guardava e la ascoltava.
- Sia io, che te, avevamo già tutto ciò di cui avevamo bisogno.
Tu avevi Blake. Io avevo i figli di mia sorella, che avrei potuto amare come fossero miei, esattamente come tu hai fatto con Blake.
Ma non l’ho fatto. Ero cieca. Lo sono stata fino ad ora, e ho disumanamente gettato via l’enorme privilegio che mi era stato concesso, di crescerli.
Li ho ceduti a voi, invece, sbarazzandomene, per ottenere qualcosa che non avrei mai dovuto avere.
Una maternità velenosa, fittizia, sbagliata.
I figli non sono tali grazie al sangue che si condivide con loro.
Il sangue non c’entra nulla.
È questo che non abbiamo mai compreso, noi due.
Solo il rapporto tra fratelli e sorelle è influenzato dal sangue in comune.
Questo ho scoperto e appreso, negli ultimi anni.
Tra fratelli e sorelle c’è qualcosa… un legame sovrumano, che non riesco a decifrare, a comprendere.
Ho avuto modo di vederlo con i miei occhi e di sperimentarlo sulla mia pelle: è sempre stato così tra Maroine e Maringlen, è così tra Blake e Ioan, era così tra me e Drusilla.
E sarà così anche tra i gemelli, figli di Judith.
Ma non sarò qui, per vederlo con i miei occhi.
- Che cosa intendi?
Credevo che il tuo patto con lei consistesse nel prendere i suoi bambini e nel portarli via di qui per crescerli da sola lontano dalla civiltà, quando sarebbero nati – contestò Myriam, con gli occhi ancora pregni di lacrime, e le guance rigate.
- Difatti era così.
Ma, come ti ho detto, il sogno di questa notte è stato rivelatorio.
Mi ha fatto prendere una decisione che già sapevo di dover prendere.
- Che decisione?
Imogene, se Judith partorisse qui bambini e i monaci li tenessero con loro… col tempo potrebbero scoprire che sono figli del peccato, del seme di un servo del Creatore piantato nel ventre di una serva del Diavolo.
So che può sembrare strano detto da me, dopo che ti ho visto fare quello che hai fatto, quella notte… ma quei bambini sarebbero sempre in pericolo se restassero a Bliaint. Portarli via con te li proteggerebbe dal fanatismo dei monaci.
- Sono commossa dalle tue parole, mio vecchio amore.
Ma non posso comunque portarli con me.
Non saranno i sostituti di Layton e Ana.
Non preoccuparti per loro. Nessuno scoprirà o sospetterà mai che sono figli del peccato: ho visto come saranno, come appariranno, e posso garantirti che dal loro padre biologico non prenderanno nulla.
A quanto pare, il seme di Van Naren è debole, molto debole in confronto a quello di Judith.
Saranno bellissimi. Identici a lei, a lei e alla madre di lei – garantì Imogene, con voce sognante, calma e certa.
- E tu…? Tu cosa hai intenzione di fare? – le domandò Myriam, improvvisamente preoccupata.
Imogene emise un sorrisino sornione e nostalgico insieme. – Non desideravi vendicarti? Non desideravi uccidermi, Myriam?
Anche se, se proprio vogliamo essere pignoli, lo hai già fatto: stavi per uccidere i miei nipoti in mia assenza, motivo per cui questo villaggio è stato colpito dall’epidemia.
Dunque, ti sei già vendicata, a tuo modo.
- Imogene, io non ti odio. Quell’odio è svanito in me.
- Perché è stato soppiantato dall’amore. Dall’amore che nutri verso di lui – le disse la sciamana, osservandola con tutto l’affetto del mondo. – Addio, Myriam. Sono felice tu abbia trovato la tua pace. Non perderla mai – detto ciò, le baciò amorevolmente la mano, poi si alzò in piedi e se ne andò, lasciandola sola.
 
Judith stava portando dei manuali da uno scaffale ad un altro, nel silenzio più totale della biblioteca, fin quando dei passi non la riscossero.
La fanciulla scese la scalinata con estrema grazia, facendo attenzione a non calpestare il suo lungo vestito.
- Imogene? Cosa fai qui? – domandò sinceramente sorpresa la ragazza, andando incontro alla sciamana. – Solitamente non entri mai nella biblioteca.
- Ahimè no, e non a caso, è proprio qui che lo hai rincontrato.
Judith ammutolì, sperando che la donna non avesse voglia di litigare proprio in quel momento, dopo giorni di pace e stabilità.
Una stabilità resa traballante solo dalle continue proteste e dal costante malcontento nei confronti della negata sepoltura dei due amanti suicidi.
- Non preoccuparti, non sono qui per provocarti – la rasserenò la bionda, con sguardo calmo e voce placida, prendendole le mani. – Vieni, sediamoci.
Quando entrambe si accomodarono intorno al grande tavolo, Imogene riprese la parola:
- Non abbiamo parlato di quello che è successo al Sabba. Non voglio che tu non ti senta libera di parlarmene, o che ti colpevolizzi.
- Non mi sono affatto colpevolizzata, non ne avrei motivo – rispose prontamente Judith. – Era lo spirito primitivo ad aizzarmi in maniera animalesca, ma era comunque quello che desideravo.
Il mio istinto primordiale lo sapeva bene e ha provveduto a farmelo ottenere.
- Tuttavia…? Immagino ci sia un “tuttavia”, e che non sia dovuto a quanto mi faccia star male l’idea di averti persa definitivamente. Parlami, Judith.
Blake ti ha detto che sarebbe stato meglio non vedervi per un po’ dopo quella notte? È per questo che non vi siete incontrati in questi giorni?
- No, lui non mi ha detto nulla.
Io gli sto lasciando i suoi spazi e lui li sta lasciando a me.
Non rinneghiamo quello che è successo, non potremmo mai… - sussurrò Judith, chiudendo gli occhi, lasciandosi invadere dall’ardente ricordo di ciò che avevano compiuto quella notte, con un sospiro. La perfezione ottenuta dall’unione quasi brutale di due corpi che si appartenevano, e che avevano raggiunto il Paradiso e l’inferno insieme.
Le guance le si imporporarono. – Non ho mai vissuto qualcosa di così bello in vita mia. Non potrei mai e poi mai pentirmi di ciò che è accaduto. Dipendesse da me, lo vivrei e ripeterei tutte le notti.
Tuttavia, resta sempre il problema delle minacce dei monaci, reale e concreto.
Non posso non curarmene.
- Sai che non oserebbero toccarlo, se solo vedessero che sei felice con lui.
- Spero sia così. Ma non è solo questo.
L’idea che lui ricordi una Judith che non esiste, che sia innamorato di quella Judith… mi turba e mi fa sentire inadeguata.
Io non ricordo nulla, mentre lui ricorda tutto.
Tutto ciò è quanto vi è di più ingiusto al mondo.
Darei qualsiasi cosa per riavere tutti i miei ricordi indietro.
- Lui lo sa che ti senti così?
- Non gliene ho parlato. Non c’è stato modo.
Se gli chiedessi di rivederci, acconsentirebbe.
Me lo ha promesso. Ha promesso che sarebbe stato mio, d’ora in avanti.
Tuttavia, è un ragazzo sveglio e intelligente, ha sicuramente compreso che ho bisogno di riflettere, al momento. E di capire come procedere d’ora in avanti.
- So che potrà sembrarti strano sentire queste parole proprio da me, ora… : quando uscirò da questa biblioteca, questa sera, il da farsi ti sarà chiaro come il sole dinnanzi ai tuoi occhi.
Judith la guardò stupita, non capendo.
- Come ti senti? – le domandò improvvisamente la sciamana, dopo una breve pausa.
- Cosa intendi?
- Sai bene cosa intendo.
A ciò, Judith si toccò il pancione, percependo già la più energica dei tre scalciare come una matta. Sentirli dentro di sè, ascoltarli, così forti e vivaci, la fece sorridere. – Credo sia una delle femmine, quella che si muove sempre, spintonando gli altri due – commentò la ragazza. – Ora riesco a sentirli così bene che… quasi mi spaventa, l’idea di saperli dentro di me.
In quel momento, Imogene si domandò se la sua amata fosse a sua volta una non-madre, esattamente come lei, e se avrebbe compiuto i suoi stessi errori.
- Non essere spaventata – le disse. – Loro sono te. Per quanto possa sembrare strano, è un processo naturale della vita e dell’esistenza.
Il parto…
“Il parto non è per tutti.
L’atto di mettere al mondo un essere vivente dalle proprie carni, è doloroso, traumatico, crudele, atroce.
Per questo è stato affidato alle donne, questo dolore.
Solo le donne sono in grado di affrontarlo e di combatterlo.
Ma non tutte.
Alcune donne non sono destinate a partorire.
Alcune sono destinate ad altro.
Avresti dovuto capirlo.
Non è colpa tua, figlia mia.
Non è colpa tua.”
Tali parole le risuonarono nella mente come campane.
- Il parto può essere una benedizione, e una maledizione insieme.
Non lo avresti voluto, lo so, e non posso sapere come ci si sente a non volerlo.
Litigherai ancora con loro e con te stessa, ti verranno altri cento ripensamenti.
Ti sentirai orribile e proverai ancora il desiderio di ucciderli mentre sono ancora dentro.
Ma so per certo che, alla fine, farai ciò che è giusto.
Porterai a termine questa gravidanza senza intoppi.
Questi bambini saranno un dono del cielo.
- Lo hai visto? O è il tuo proposito? – le domandò la rossa, scrutandola. – Spero che diventeranno davvero un dono del cielo, nelle tue sapienti mani.
Imogene la guardò fissa negli occhi, beandosi di quelle iridi d’ossidiana per l’ultima volta, bevendole quasi, tanto era l’ardore e l’amore che la legava a lei.
- Bambina, ascoltami.
Ho deciso cosa farò.
Non prenderò i tuoi bambini.
Judith la guardò allibita, sempre più confusa. – Che cosa hai detto…? Avevamo un patto..
- Lo so. Ci ho riflettuto, tantissimo, credimi.
Il modo in cui tengo a te e a questi gemellini… è davvero inspiegabile, incommensurabile.
Tuttavia, non posso farlo.
Me ne andrò via di qui oggi stesso.
- Te ne andrai via…? E dove te ne andrai? Nella tua casa nella palude…?
- No. Me ne andrò.
E non porterò i tuoi bambini con me.
Questi bambini – disse posando una mano sul suo pancione e fissandola dritta negli occhi. – sono tuoi. Solo tuoi.
- Ma io non li voglio – disse Judith scattando in piedi. – Non li voglio e non posso averli, Imogene, lo sai… le levatrici mi hanno detto tutte la stessa cosa: le violenze che ho subìto da bambina hanno compromesso i miei organi riproduttivi e genitali. Morirò per dare alla luce questi bambini… non potrò esserci per loro! Neanche se lo volessi!
A ciò, Imogene si alzò a sua volta, prendendole il pancione con le mani, ma senza farle male. – Questo non sarà più un problema d’ora in avanti – sibilò.
La sciamana chiuse gli occhi ed emise una formula antica, sentendo le energie magiche scorrere dentro di sé.
Quando riaprì gli occhi, Judith la guardava, ancora più sconvolta di prima. – Che cosa hai fatto…?
- Ti ho guarita, bambina.
Ho guarito il tuo corpo dalle violenze subìte, in modo che, quando partorirai, lo farai come tutte le altre donne, senza rischiare di perdere la vita o di doverla togliere a loro.
- Imogene… - Judith aveva le lacrime agli occhi. – Perché lo hai fatto…?
- C’è davvero bisogno che io te lo dica?
Ti amo.
Ti amo, Judith, e nulla potrà cambiare questo – le disse.
Dopo di che, la sciamana si abbassò, per baciarla sulle labbra un’ultima volta.
Judith, stranamente, la lasciò fare e non si oppose.
Sentì di doverla lasciar fare.
Era un contatto diverso dai soliti, leggero, tenero, pregno di un amore soffice e immenso come le costellazioni.
Un intimo, rassicurante, splendido addio.
- Addio, bambina.
Scegli tu cosa fare di questi bambini.
Ora ti dono ciò che ti avevo promesso, ciò che brami più di ogni altra cosa… - le sussurrò, sfiorando la sua fronte con le labbra e chiudendo gli occhi. – Ti donerò lui. Tutti i ricordi di lui, e di tutti gli altri che hai perduto.
Detto ciò, la figura di Imogene svanì nel nulla.
Judith, stordita, si lasciò cadere sulla sedia, non capendo cosa le stesse succedendo.
Fu in quel momento che un’onda enorme la colpì in pieno, facendole finalmente comprendere.
Imogene le aveva ridonato i suoi ricordi.
Tutti quanti, dal primo all’ultimo.
Ora era una persona diversa, completamente nuova.
Una Judith che non era né quella prima dell’amnesia, né quella dopo l’amnesia.
Una giovane donna consapevole, maturata, forgiata, che era l’unione delle due.
La notte dei festeggiamenti, il suo progetto nascosto, l’epidemia, Maroine e Maringlen, il suo spettacolo con i bambini degli otto peccati capitali, Folker, Hinedia, padre Craig… Blake.
Una gioia e un’esaltazione senza pari la colpirono, spingendola ad uscire dalla cattedrale di corsa, senza neanche prendere un mantello per coprirsi.
Percorse tutta quella strada a piedi, nel buio accennato della sera, con un unico desiderio: rivedere l’uomo che amava, che aveva amato prima, e che aveva amato dopo.
Giunta dinnanzi alla sua abitazione, bussò alla porta, incurante di chi dei numerosi abitanti di quella casa potesse aprirle.
Fortunatamente, i suoi desideri vennero assecondati: ad accoglierla alla porta, si presentò la figura del ragazzo, di colui che stava cercando, a cui avrebbe voluto dire mille e più cose.
Blake sgranò gli occhi assonnati e si strinse addosso l’unica leggera tunica scura che indossava e che gli lasciava parte del petto scoperto, a contatto con l’aria fresca della sera.
Era sorpreso di vederla dinnanzi alla porta di casa sua, e al contempo piacevolmente stupito dell’evidente espressione di commovente gioia ed eccitazione dipinta nel volto della fanciulla.
Ma non gli passò inosservato neanche il fiatone di Judith, e il fatto che fosse una sera primaverile più fredda della norma, e che la ragazza non indossasse nemmeno un mantello per coprirsi.
- Hai fatto tutta la strada dalla cattedrale fino a qui, a quest’ora? – le domandò a bruciapelo.
Lei non riuscì a fare a meno di ridere in risposta, felice più che mai. – Stavi dormendo, per caso? È a malapena ora di cena – gli disse, riferendosi ai suoi occhi insonnoliti.
- Di notte dormo poco, mi riesce quasi più facile dormire di sera – le rispose il ragazzo, con un sorriso tra le labbra. - Hai preso freddo, non indossi nulla sopra l’abito. Vieni, entra – la incoraggiò, e lei non se lo fece ripetere, entrò dentro, riprendendo familiarità con quella casa che aveva visitato sin troppe poche volte.
La ragazza non fece in tempo a dire altro che venne letteralmente assalita dalla sua micetta, la quale iniziò a miagolarle contro con evidente esaltazione.
- Nellie! – esclamò Judith abbracciandola e coccolandola a dovere, inspirando l’odore del suo pelo morbido, che le era tanto mancato al risveglio la mattina. – Quanto mi sei mancata, Nellie. Sei felice qui? Ti trattano tutti bene? Specialmente il demonio qui di fianco?
Blake pose le braccia conserte e sorrise alla battuta provocatoria di Judith.
In qualche modo gli sembrò diversa.
Era come se lo conoscesse meglio, lo conoscesse talmente tanto bene da potersi permettere una confidenza rara con lui, la stessa complicità pungente e confidenza intima che avevano prima che lei perdesse la memoria.
La Judith dopo l’amnesia era ancora tutta da scoprire per lui, così come lui lo era per lei, nonostante ciò che era accaduto qualche notte prima.
Quella nuova Judith non scherzava con lui in maniera così socievole, impertinente e deliziosamente spavalda.
La Judith di un tempo lo faceva.
Fu in quel momento che un piacevole dubbio si insinuò nella mente del ragazzo, ma la sola prospettiva era tanto bella da sembrargli quanto mai utopica, dunque lo scacciò.
- Tutto bene? – le domandò mentre lei continuava a coccolare la gatta e a lanciargli qualche sguardo eloquente ogni tanto.
- Io? Mai stata meglio. E tu?
- Sto bene. Perché sei qui?
- C’è qualcun altro in casa con te? – gli domandò lei lasciando andare Nellie e riavvicinandoglisi, evitando abilmente la domanda.
Egli negò con la testa. – Ioan resterà a dormire da Gwen stanotte. Mia madre è con padre Craig a rendere omaggio ai Bambini sciagurati nelle cripte che tu hai fatto disseppellire.
È stato un bellissimo gesto da parte tua, a proposito. Lascerà sicuramente il segno e cambierà le cose qui - si complimentò.
- Era il minimo che potessi fare.
Quei bambini meritavano molto, molto più di qualche commemorazione e preghiera da parte dei loro discendenti.
E Quaglia, invece? Ho saputo che è scomparso qualche giorno fa.
- Esatto.
Io, Hinedia e padre Craig stiamo cercando di capire dove possa essere andato e perché, ma non sappiamo da dove cominciare.
Lui ci ha chiesto di restarne fuori e di non cercarlo. Di fidarci di lui.
Vorremmo farlo, ma ci resta difficile, dal momento che siamo preoccupati per lui, essendo all’oscuro di tutto – si sfogò un po’, facendo emergere lo sconforto nella voce.
- Mi dispiace, Blake. Sono sicura che starà bene – gli disse lei incoraggiante, avvicinandosi ancora.
Tuttavia, lui sfuggì al suo sguardo non appena sembrò realizzare qualcosa.
Si allontanò giusto l’indispensabile per prendere il proprio mantello appeso accanto alla porta e adagiarlo sulle spalle della ragazza. – Perdona il ritardo, avrei dovuto coprirti appena sei entrata. Quando ti ho aperto la porta avevi il naso arrossato dal freddo.
Lei, nonostante non avesse più freddo, lo accolse e se lo strinse addosso, rivolgendogli un sorriso pieno di significati che lo spiazzò.
Era da quando era entrata che gli sembrava strana, nel senso più positivo che potesse esservi.
- Non mi hai ancora detto perché sei venuta qui – colse la palla al balzo Blake. – Negli ultimi giorni non ci siamo più visti.
- Da quella notte non ci siamo più visti, esatto – confermò lei, senza mai staccare gli occhi dai suoi. - Avevo bisogno di pensare a tutto ciò che è accaduto. E poi… ho avuto paura. Paura dei monaci, e paura che tu fossi legato ad una versione di me che non esiste più.
Blake alzò un sopracciglio. – Judith, questo non deve rappresentare un problema, in nessun modo. Quello che è accaduto quella notte è stato molto importante. Non rimpiango nulla, nonostante non sia accaduto esattamente come mi sarei aspettato.
- Neanche io rimpiango nulla.
- E ti ho già detto che ti amo.
Nonostante tu non sia più la persona che conoscevo, ho imparato ad amare un’altra versione di te, allo stesso modo.
Judith sorrise di gusto, a tali parole, avvicinandoglisi ancora, sempre più impaziente. - Per rispondere alla tua domanda: avevo bisogno di vederti – gli sussurrò lasciva. – E sono lieta che non ci sia nessuno in casa – aggiunse, chiarendo palesemente le sue intenzioni. – Solo che oggi sarà diverso.
- In che modo sarà diverso?
- La scorsa volta ero posseduta dai miei istinti più animaleschi.
Oggi non sono posseduta da alcun istinto primordiale.
Oggi… desidero averti in maniera più approfondita. Con dolcezza, lenta passionalità, dedizione e premura.. voglio che ci prendiamo tutto il tempo che ci serve.
Per esplorarci a dovere.
Per scoprirci.
Per amarci.
Blake le sorrise in risposta, ancora piacevolmente stupito dalla sua improvvisa intraprendenza.
- Condividi con me questo desiderio, mio amore? – gli domandò lei.
- Considero quasi un’offesa il fatto che tu me lo stia chiedendo.
Judith sorrise un’altra volta, poi fece qualcosa che sorprese ulteriormente il ragazzo: gli afferrò un polso e fece poggiare la sua mano sul proprio pancione.
- Sentili, Blake.
Senti come mi sento io.
Condividi con me anche questo.
- Non posso – rispose lui, carezzandole la rotondità della pancia.
- Perché no?
- Perché non so come ci si sente.
Non sono una donna.
Io non sono te.
Judith provò un brivido di piacere e di commozione, a tali parole, incise nella sua memoria a sangue.
- “Io non sono te” – ripeté la ragazza, assaporando quelle parole. – “È impossibile determinare come sarebbero andate le cose” – continuò. – “Io non sarei qui. Non avrei scalato la gerarchia come avete fatto voi, non mi sarei ingraziato il clero come avete fatto voi, non avrei assunto un grado così alto come avete fatto voi, non avrei fatto buon viso a cattivo gioco, non sarei riuscito a reggere qui dentro per più di due anni. Niente di tutto questo, Judith. Ora che sapete ciò, vi sentite rincuorata?” – citò, precisamente, parola per parola, le esatte parole che le aveva pronunciato lui mesi e mesi prima, lasciandolo totalmente a bocca aperta.
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, impietrendo. – Non è possibile…
La sua deduzione era reale…
- Non è possibile… - sussurrò ancora lui, facendola sorridere di più, felice come una bambina.
- Sì, è possibile, Blake. È possibile – confermò lei, prendendogli le mani nelle sue e stringendogliele calorosamente. – Sono io. Sono Judith. La tua Judith. La donna che hai conosciuto quella sera, ai festeggiamenti, con cui hai fatto il rito dello specchio. Sono io. Sono tornata.
- Com’è possibile?? – le domandò lui carezzandole le guance ripetutamente, quasi come si trattasse di una visione, una splendida visione.
- Imogene. È stata lei a ridarmi i miei ricordi… non so come abbia fatto… - sussurrò sull’orlo delle lacrime. – Allora? – gli domandò ridendo e piangendo insieme.
Blake rise con lei, felice e spensierato, dopo tanto tempo. – Allora cosa?
- Mi sposerai, Blake?
Il ragazzo percepì le gambe cedergli.
Era come un sogno. Un sogno surreale.
Aveva fatto l’impossibile per non pensare a lei, per dimenticarla, da quando i ricordi di lui erano svaniti dalla testa della fanciulla.
Ci aveva provato, ma non era stato possibile, perché il caso li portava a rincontrarsi, e a rinnamorarsi.
Era stato vano, tutto vano.
Ed ora, improvvisamente, era come se non fosse successo nulla.
Judith gli strinse i polsi dei palmi posati ancora sulle sue guance, per poi far scorrere le mani giù.
Infilò le dita dentro la tunica semiaperta del ragazzo, venendo a contatto col suo torso caldo, ben definito e liscio, che aveva imparato a conoscere.
Fece vagare le mani curiose in ogni dove, fin quando egli non parlò:
- Sì. Sì, lo farò.
Perdonami per non avertelo detto prima – le sussurrò, non lasciandole il tempo di reagire a quella risposta, in quanto le tappò la bocca con la sua, esplorandola con la lingua fino a farle girare la testa.
I due finirono sul letto del ragazzo, con solo due candele ad illuminare la stanza.
E accadde di nuovo, esattamente nel modo in cui desiderava Judith.
Si toccarono lentamente, si esplorarono con dedizione, si assaporarono a dovere, con minuzia e attenzione, si scoprirono insieme, gemendo, godendo e ridendo, dormendo insieme.
Finalmente, sentivano che tutto si fosse sistemato.
Loro erano nel posto giusto, ogni pezzo si era incastrato adeguatamente, formando un mosaico perfetto e inscalfibile.
Fu tutto ciò che pensò Judith, svegliandosi nel pieno della notte, ritrovandosi dentro il giaciglio del ragazzo, comodamente sdraiata accanto a lui, nudi, talmente vicini da potersi riscaldare a vicenda senza il bisogno delle coperte.
Blake era a pancia in giù, con il viso rivolto verso di lei. Judith osservò quel volto beatamente addormentato, accarezzandogli le ciocche di capelli scuri che gli ricadevano sugli zigomi e che gli sfioravano le labbra e il naso.
Non ricordava di essersi mai sentita così bene in vita sua.
Talmente bene da non riuscire a riprendere sonno.
Eppure, proprio in quell’istante di immacolato idillio, ricordò una frase che gli diceva spesso sua madre da piccola:
“Oh Arley, la felicità, quella vera e tangibile, non dura mai più di un attimo.
La felicità è fatta per non durare, piccola mia.”
Un mosaico perfetto.
Perfetto, ma mai inscalfibile.
 
Era notte fonda, e lo stregone camminò fino al limite più ad est del bosco, raggiungendo i più remoti confini del villaggio.
Allungò una mano verso est, verso la direzione di terre straniere e sconosciute.
Il suo braccio teso non venne attraversato da nessuna energia magica.
Come temeva e sospettava, l’incantesimo di protezione era svanito.
Imprecò mentalmente, mentre avvertiva dei passi dietro di sé raggiungerlo.
- Ora hai preso anche l’abitudine di seguirmi? Conosci la mia posizione, ovunque mi trovi? – chiese alla donna, riconoscendo il suo passo e la sua andatura, senza il bisogno di voltarsi verso di lei.
- Io conosco cose di te che neanche immagini, Ephram, per mia sfortuna – rispose Myriam, confermando la sua presenza e accostandosi a lui, con la stessa gravità dipinta nello sguardo.
La strega posò gli occhi su di lui, osservandolo: ultimamente, l’eccentrico e ambiguo leader della compagnia di stregoni eremiti, aveva assunto un cipiglio greve, teso e angosciato, che si ripercuoteva sull’aura che emanava.
- Allora? – domandò Myriam. – L’incantesimo…?
- Svanito. Annullato – diede voce ai loro timori Ephram, in tono mesto.
- Ciò vuol dire solamente una cosa…
- … Imogene è morta – completò la frase lui. – Solo nel caso in cui uno di noi tre, che abbiamo compiuto l’incantesimo, fosse morto o avesse valicato i confini di Bliaint, l’incantesimo sarebbe stato nullo. Ed è stato proprio quello che lei ha fatto. Rendendo vano ogni nostro tentativo di proteggere la nostra terra – commentò sprezzante.
Myriam non disse niente, per un po’.
- Oggi mi ha detto addio.
Dovevo immaginare che dicesse sul serio – si decise a parlare la strega. – Non credo sia morta. Credo abbia lasciato semplicemente Bliaint, diretta chissà dove.
- Credi che le sue intenzioni siano proprio queste? Di metterci in pericolo e lasciarci senza protezione? A quale scopo, Myriam?
- No, non credo. Credo solo che abbia voluto redimersi dei suoi peccati, per una volta, decidendo di non considerare la situazione critica in cui ci troviamo – spiegò la strega, senza alcuna emozione nella voce.
- Dunque, ora è scomparsa. È finita.
- Possiamo sempre provare a ripristinare l’incantesimo con l’aiuto di altri membri della compagnia.
- Non sono abbastanza forti. Il loro potere ha risentito dell’epidemia, della denutrizione, del clima di terrore in cui viviamo. E poi, sai bene che era un incantesimo da poter compiere una sola volta. Se solo Selma fosse qui… quella dannata saprebbe cosa fare.
- Dobbiamo trovare una soluzione. Al più presto – affermò Myriam, facendo trasparire il suo allarmismo.
- Lo vorrei quanto te, lo sai bene.
Forse, però, c’è una soluzione… l’unica che abbiamo, attualmente.
- Parla – lo spronò Myriam.
- Quaglia.
Quel maledetto sprovveduto è partito per raggiungere Carbrey, dove stanno alloggiando le truppe del conte Agloveil. A quanto pare è giunto a destinazione – disse Ephram, ad occhi chiusi, vedendo qualcosa che Myriam non riusciva a vedere.
- Sei preoccupato per lui?
- No. Sa cosa sta facendo. Non lo uccideranno.
- Cosa può un solo uomo contro delle truppe addestrate ad uccidere e a fare prigionieri? Per lo più, non padroneggia nemmeno la magia.
- Sta facendo un buon lavoro, in realtà – la acquietò Ephram, accennando un sorriso fiero. – A quanto pare, gli ho insegnato bene a giocarsi le sue carte.
- Li rallenterà?
- Sì. Sembra li abbia convinti di essere un servo del Diavolo di Bliaint, un messaggero giunto a proporre loro un accordo di pace.
Inoltre, ha detto loro che Blake è morto.
- E se non gli crederanno? Non saranno così stupidi da fidarsi delle parole di un solo uomo, per quanto convincente e persuasivo sia.
- A quanto pare, c’è una novità.
Il nostro amico ha miracolosamente ricordato di avere un figlio.
- E questo in cosa dovrebbe aiutarci?
- Un figlio… che fa parte di un esercito. Un esercito di guerrieri esperti che potrebbe combattere per noi.
Myriam sgranò gli occhi, basita. – Quanti anni ha il ragazzo? Che grado possiede all’interno della loro gerarchia?
- Ruben. Ruben von Hohenheim.
Ma è solo un moccioso di dodici anni.
Sarà una recluta. Non ha il potere di convincere un comandante o un generale a combattere una battaglia a cui non sono interessati.
- Beh, tu, alla sua età, convincevi senza fatica uomini con il triplo e il quadruplo dei tuoi anni a darti denaro, un letto in cui dormire, cibo e altri beni di necessità, per poi maledirli senza che se ne accorgessero – commentò Myriam. – Quindi, forse anche quel “moccioso”, se abbastanza persuasivo, può convincere un generale a combattere per la nostra causa.
Ephram accennò un sorriso sornione in risposta. – Non devi credere a tutto quello che ti racconto su di me. Ad ogni modo, lui è la nostra unica speranza al momento. Però, prima, il nostro amico Quaglia ha bisogno di un piccolo aiuto magico per far giungere la sua lettera al ragazzino al più presto – disse Ephram, emettendo abilmente una formula magica di estrema potenza, a distanza.
Quando lo stregone riaprì gli occhi, le sue iridi emanavano luce propria come due enormi lucciole.
Myriam già sapeva cosa avesse fatto:
- Hai mandato un corvo incantato da lui. Un corvo che sa esattamente tutto quello che deve fare, per far arrivare la lettera al figlio di Quaglia.
- Esatto. Ora, non ci resta che attendere e tenere sott’occhio la situazione. Contiamo su di te, Ruben.
Detto ciò, lo stregone si voltò verso Myriam e la scrutò. – E se Imogene fosse davvero morta? – le domandò a bruciapelo. – Come ti farebbe sentire?
Myriam lo guardò a sua volta e vi rifletté su.
- L’ho amata tanto. E l’ho odiata altrettanto.
Ma ora non provo più nulla per lei. Né odio, né amore.
Non mi farebbe sentire niente – rispose.
A ciò, Ephram si rinfilò il cappuccio del mantello scuro e fece per andarsene.
- Avrei solo voluto sapere qual è il suo primo nome, prima che se ne andasse. Non me lo ha mai detto - la voce di Myriam lo bloccò, portandolo a voltarsi nuovamente verso di lei.
- Dunque, non sai.
- Che cosa dovrei sapere..? – domandò la donna.
- Imogene non ha un primo nome. Non l’ha mai avuto.
Detto ciò, lo stregone se ne andò, lasciandola sola.
 
 
 
 
 

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Capitolo 58
*** Cuore non duole ***


Cuore non duole
 
 
Judith si rigirò nel letto, sin troppo spazioso per come se lo ricordava la notte appena trascorsa, ma sicuramente meno rispetto al proprio giaciglio alla cattedrale.
Le coperte erano ancora calde, e ogni singolo lenzuolo che copriva quel letto era impregnato del profumo della pelle del ragazzo, dei loro due odori mischiati insieme.
Judith se ne beò, con un sorriso tra le labbra, gli occhi ancora chiusi e lontani dalla realtà.
Ma non appena la sua mano, ben più cosciente della sua mente, tastò il lato destro del letto, trovandolo vuoto, la fanciulla aprì gli occhi, realizzando concretamente di essere sola in quel giaciglio nuovo.
Si tastò il pancione lievemente dolorante, come lo era ogni mattina, e puntellò i gomiti sul cuscino morbido, per alzare la testa e osservare la stanza deserta intorno a sé.
In confronto alla propria, la camera di Blake era più vuota, meno lussuosa, ma di certo non piccola, né povera.
La fanciulla si tirò su, ricordandosi di essere completamente nuda.
Il pensiero di cosa avevano fatto la sera prima, per la seconda volta, la invase in pieno facendola sorridere appagata.
Tuttavia, avrebbe voluto trovarlo ancora lì accanto a sé al suo risveglio.
Nonostante fosse ormai primavera, neanche quella particolare stagione dell’anno si poteva dire propriamente calda a Bliaint, difatti, non appena le coperte le scivolarono via dal corpo, fu invasa dalla frescura di prima mattina, benché i raggi del sole entrassero dalla finestra alla sinistra e la illuminassero placidamente.
Cercò i suoi vestiti con gli occhi, individuandoli sparsi per la stanza: la vestaglia, il ferretto, il corpetto, la gonna, le calze, e infine le scarpe.
Non aveva alcuna voglia di rinfilarsi tutto a quell’ora del mattino, perciò optò per indossare solo la vestaglia bianca e leggera, che la copriva fino a metà coscia.
Solo in quel momento si rese conto che Nellie stava dormendo placidamente sul fondo del letto.
Le sorrise, la accarezzò, poi uscì dalla stanza.
Attraversato il corridoio, giunse nella saletta principale, che ospitava la cucina, il soggiorno, il camino e l’entrata.
Fu in quel momento che gli occhi di Alma Heloisa, l’unica sveglia e presente nella stanza, si catapultarono su di lei, a dir poco sbalorditi.
La donna, seduta al tavolo, boccheggiò, mentre Judith si avvicinava a lei.
- Voi… cosa ci fate qui, signorina Judith?
La fanciulla, in risposta, le sorrise, accomodandosi accanto a lei. – Credo che la mia seminudità stia a dimostrare cosa ci faccio qui, signora Heloisa – rispose priva di vergogna. - Posso chiamarvi solo Heloisa? D’altronde, io e Blake siamo promessi da tempo.
Heloisa strabuzzò gli occhi ancor di più. – Non vi avevo mai vista uscire dalla sua stanza seminuda, prima d’ora. Credevo che voi due, dopo la vostra amnesia, aveste chiuso i-
- Ho riacquisito i miei ricordi, Heloisa – la interruppe Judith. – Io e Blake ci siamo riavvicinati anche in seguito alla mia amnesia, a dir la verità. Ma ora, ora che ho riacquisito i miei ricordi, nulla ci impedirà di unirci davanti al Signore. Nemmeno i monaci.
- Capisco. Beh… che posso dire? Sono felice per voi.
Ad ogni modo, Blake è uscito all’alba questa mattina: doveva presiedere ad alcuni scavi alla galleria. Sicuramente non avrà voluto svegliarvi così presto. Sono certa tornerà a breve.
Judith la scrutò. – E voi come lo sapete? Ve lo ha detto lui?
- No. Ero sveglia quando se ne è andato. L’ho guardato andare via.
La fanciulla affilò lo sguardo nuovamente. - Non siete in buoni rapporti con Blake, ultimamente, non è vero, Heloisa?
La donna sussultò, a tale deduzione. Si alzò in piedi, versò dell’infuso al gelsomino su una tazza e lo porse alla ragazza, riaccomodandosi accanto a lei. – Tenete. Permettetemi di offrirvi qualcosa. Non è ancora ora di colazione, ma almeno quest’infuso vi scalderà dal freddo mattutino.
- Heloisa? Evitate la mia domanda?
La donna abbassò gli occhi, divenuti lucidi. – Non siamo mai stati in buoni rapporti, io e lui. Amo mio figlio. Ma non sono capace di amarlo nel modo giusto.
- Un problema di sin troppe madri, azzarderei a dire. Non dannatevi per questo.
Heloisa alzò lo sguardo, mostrandole i suoi occhi colmi di lacrime. – E dopo la lettera che ho ricevuto questa mattina… mi sento ancora più stupida, in errore, e sola – disse, stringendo la pergamena posata sul tavolo dinnanzi a lei, un oggetto che Judith non aveva notato prima.
- Posso chiedervi chi ve l’ha mandata?
Heloisa osservò la pergamena un’ultima volta, riflettendo.
Dopo poco, gliela porse: - Leggetela. D’altronde, è mia cugina, ma era anche la vostra amante. Era molto vicina ad entrambe, anche se in modo diverso. Immagino abbia detto addio anche a voi.
Da quelle parole, Judith capì da chi provenisse quella lettera, ed ebbe un tremito.
Prese la pergamena e cominciò a leggere, dopo aver ricevuto nuovamente il permesso di Heloisa:
“Carissima e amata cugina,
perdonami di non averti salutato di persona.
Forse me ne pentirò, ma ho ritenuto fosse meglio così.
Sarebbe stato troppo difficile separarmi da te.
Ci siamo riavvicinate molto durante questo ultimo periodo, da quando vi ho nascosto nella mia personale dimora, per settimane.
Una cugina che pensavo di aver perduto per sempre… l’ultimo legame con la mia famiglia… è tornato a me.
Non potevo chiedere di meglio, Heloisa. Per questo non ti ringrazierò mai abbastanza di essere riapparsa nella mia vita.
In questi giorni, sei stata la sorella che non ho avuto per anni.
Sei stata un supporto, un sostegno, persino una compagna.
La tragedia che abbiamo scoperto insieme, ciò che tu e solo tu, con la tua ostinazione, mi hai portato a scoprire, ci ha unite ancora di più.
Purtroppo, cara cugina, non posso restare ancora al villaggio.
Ho voluto saldare tutte le mie questioni in sospeso, ma me ne manca ancora una, la più importante, con cui fare i conti: le mie mani macchiate, del sangue dei miei figli perduti.
Entrambi siamo e siamo state madri, perciò capirai cosa significa tutto ciò per me.
Non ti ho mai narrato tutta la storia, ma non serve che lo faccia.
So che non mi giudicheresti, mai.
Tuttavia, ho delle cose da dirti, prima di andarmene.
Ti chiedo di onorare la mia memoria e il mio ricordo adempiendo alle mie richieste:
So quanto tu e Myriam, un’altra delle persone a me più care, siate in una guerra senza fine. Una guerra che non avete alcuna intenzione di far cessare.
Non posso chiederlo a lei, perché so già quale sarebbe la sua risposta, ma lo chiedo a te.
Stabilite una tregua. Una tregua per amor mio.
Siete entrambi molto importanti per il ragazzo che costituisce il motivo della vostra eterna rivalità.
Non potete combattere per il ruolo di madre. Non è un ruolo che deve spettare solo ad una di voi, può spettare ad entrambe, e sapete che è così, non vi è alcun bisogno che io ve lo dica.
Non vi è motivo di combattervi, non vi è più motivo di odiarvi.
Questo villaggio ha già subìto sin troppo male, dopo ciò che è stato fatto ai Bambini sciagurati.
Non ha bisogno di altre battaglie inutili.
Perdonatevi, o, per lo meno, imparate a convivere tra voi.
Infine, c’è anche qualcos’altro, che ti chiedo, mia amata cugina.
Io ho commesso un errore che mai mi perdonerò.
Ho pensato i miei figli come qualcosa di eterno, che mai se ne sarebbe andato.
Li ho dati per scontati, e facendo questo, ho ucciso loro e me stessa.
Non commettere i miei medesimi imperdonabili errori.
So bene quanto tu ami i tuoi figli.
In questo siamo uguali.
Ho osservato i tuoi occhi, ogni volta che parlavi di loro.
Erano gli occhi di una madre. Colma di tutto l’amore che c’è nel mondo, ma incapace di dimostrarlo come dovrebbe.
C’è tanta rabbia, tanto dolore, tanta frustrazione in te.
Non permettere che tutto questo prenda il sopravvento sul rapporto che hai con i tuoi ragazzi.
Non capita a tutte di avere due figli sani, vivi e vegeti.
Tu hai questa immensa fortuna. Non sprecarla. Non rovinare il legame che ti unisce a loro per orgoglio, o per qualche altra stupida ragione senza consistenza.
Nessuna ragione è una valida ragione per allontanare i propri figli.
Amali con tutta te stessa, ma fallo nel modo giusto, nel modo che meritano.
Il loro padre è morto, Heloisa. Hanno solo te.
Faresti bene a non dimenticarlo.
E faresti anche bene a non dimenticare quanto valgano: nutro molta stima per entrambi i miei nipoti.
Nonostante mi abbia portato via la donna che più ho amato al mondo, nutro molto rispetto per Blake.
Abbi cura di loro, Heloisa.
Ti voglio bene, cugina.
Non dimenticarlo.
Con affetto,
                                                                                                                                        Imogene”
Judith terminò di leggere, reprimendo una lacrima che scalpitava per uscire.
Imogene se ne era andata da solo un giorno, e già la sua influenza si faceva sentire, anche a distanza.
Non avrebbe potuto essere più grata a quella donna, per tutto ciò che aveva fatto per lei.
- Vostra cugina mi ha ridato i ricordi – le rivelò, riconsegnandole la lettera. – E ha benedetto il mio ventre: quando partorirò avrò tante possibilità di sopravvivere, quante ne avrò di morire. Come tutte.
Heloisa la guardò meravigliata, poi accennando un sorriso e facendosi il segno della croce al contrario. - Sia benedetto il Signore, Judith. Sia benedetto il Signore, per il miracolo che ha compiuto Imogene.
Ella vi amava. Vi amava davvero.
- Lo so. La custodirò sempre nel mio cuore.
In quel momento, Heloisa sentì dentro di sé l’ardente desiderio di dire a quella ragazza che ricordava ancora come una signorile bambina dai bellissimi capelli rossi perfettamente acconciati, tutto ciò che avrebbe voluto dirle da mesi:
- Judith…
- Sì?
- Io… c’è una cosa, che voglio dirvi.
- Vi ascolto.
- Vorrei scusarmi con voi.
Dopo aver scoperto tutto ciò che ho scoperto sulle aberrazioni che hanno commesso i monaci anni fa, ho sentito maggiormente l’esigenza di scusarmi con voi.
- Scusarvi per cosa…?
Heloisa abbassò lo sguardo, lasciando andare le lacrime. – Se avessi parlato… se avessi denunciato padre Ilian allora, il giorno in cui l’ho veduto molestare quel bambino… voi non avreste subìto tutto quello che avete dovuto subire da piccola, da quel mostro… mi dispiace, cara… mi dispiace tanto!
A ciò, presa dalla commozione a sua volta, Judith le strinse calorosamente la mano nella sua, guardandola fissa negli occhi.
- Voi non dovete scusarvi di nulla.
- Voi non siete neanche l’unica con cui dovrei scusarmi…
Dopo la lettera di Imogene, mi sento ancora più in colpa per le parole uscite dalla mia bocca – disse Heloisa, e Judith dedusse subito a chi si stesse riferendo.
- Non vi angustiate, Heloisa. Sono certa che, se parlerete con lui, Blake vi perdonerà qualsiasi cosa.
- Voi non capite: gli ho detto che avrei preferito che fosse stato violentato da padre Ilian da bambino, come tanti altri. Gli ho detto che, probabilmente, se avesse subìto un trauma simile, ora camminerebbe a testa bassa e non si azzarderebbe a far sentire la sua voce, a esprimere le sue deviate e blasfeme opinioni senza paura.
Judith sbiancò a tale confessione, non sapendo più cosa dire.
Non riuscendo a reggere quel silenzio opprimente, Heloisa si asciugò gli occhi velocemente e cambiò discorso: - Ho preso degli oli profumati ieri sera, sulla strada di ritorno. Ce ne sono per tutti i gusti: andatevi a fare un bagno caldo, mentre lo aspettate.
Fu in quel momento che la porta di casa si aprì, non dando modo ad Heloisa di aggiungere altro.
Le due catapultarono gli occhi sulla porta, trovando il soggetto del loro discorso precedente, intento a sfilarsi il mantello sporco di terra.
Gli occhi di Blake si posarono subito su Judith, rivolgendole un sorriso sfinito.
- Abbiamo scavato per ore.
Perdonami se non ti ho svegliata, ma era davvero presto.
Judith ricambiò il sorriso e gli andò incontro, alzandosi sulle punte e reclamando un bacio che non tardò ad arrivare dal ragazzo.
Lui le accarezzò i capelli e saggiò le labbra di lei, ma non andò oltre il bacio a stampo.
- Sono tutto sporco di terra – le sussurrò a fior di labbra, ma alla ragazza non sembrava interessare.
- Non mi importa.. – rispose difatti, circondandogli il busto con le mani.
Heloisa distolse lo sguardo da loro, imbarazzata, iniziando a pulire le tazze sporche.
- Devo farmi un bagno, ne ho anche tra i capelli – ribatté lui in un sorriso, allontanandola delicatamente.
- Non hai fame?
- Da morire – rispose lui con un accenno di disperazione nella voce, mentre era già diretto verso il corridoio. – Ma presto porrò rimedio – aggiunse sventolando un piccolo sacco in aria.
- Che cos’è?
- Wanda, dalla locanda, ci ha portato degli strani dolci rotondi, al limone – spiegò il ragazzo, poi rivolgendo uno sguardo eloquente alla fanciulla. – Vuoi venire con me?
Judith non se lo fece ripetere, e lo seguì, fino alla stanza dedicata alla pulizia del corpo.
I due chiusero la porta, riempirono la capiente vasca di legno con l’acqua pulita precedentemente scaldata dal fuoco, poi Judith si accinse ad aggiungervi vari saponi che trovò ben sistemati sugli scaffali.
- Quanti ne metti? – le domandò il ragazzo incuriosito, osservandola occuparsi minuziosamente di quel compito, scegliendo con sin troppa concentrazione la quinta fragranza del sapone da aggiungere dentro la vasca.
- Sono abituata a scegliere le combinazioni in modo ragionato, per abbinare correttamente le varie profumazioni – gli rispose, voltandosi a guardarlo, con un sorriso felice e riposato. – Non essere riluttante, è un’arte anche questa. Un po’ come l’armocromia.
- L’armocromia..? – domandò il ragazzo, iniziando a spogliarsi della maglia sporca di terra, rimanendo a torso nudo. Quando si voltò verso di lei, la ragazza era ad un palmo da lui.
- Sì, esatto. È l’arte di saper abbinare i colori di ciò che indossiamo come ornamento del nostro corpo, alle pigmentazioni naturali delle nostre pelli, dei nostri occhi, dei nostri capelli, in modo che non stonino tra loro, ma anzi, risaltino, accostati – spiegò ella. – Il tuo è un sottotono caldo, ad esempio. I tuoi colori sono quelli dell’autunno, tranne che per gli occhi.
Mentre l’ascoltava, il ragazzo le aveva fatto scivolare giù le spalline sottili della vestaglia, la quale era caduta a terra, lasciando la fanciulla nuda.
Priva di qualsivoglia imbarazzo, Judith continuò a guardarlo negli occhi, spudorata.
- Fammi indovinare: il tuo è un sottotono freddo, giusto? Eccetto per i capelli – disse lui.
- Esatto. Sembri imparare in fretta.
Soddisfatto, Blake aprì il sacchetto di stoffa e tirò fuori uno di quei morbidi dolcetti giallo limone, dalla forma tonda, e lo assaggiò.
- Stai davvero mangiando un dolcetto mentre ti stai spogliando per fare un bagno..?! – domandò lei contrariata e divertita al contempo, dandogli una spinta che non lo smosse neanche.
Dal canto suo, mentre si gustava la pietanza, il ragazzo rivoltò le iridi all’indietro, preso dall’estasi. - Sia benedetta Wanda. Questi dolcetti sono idilliaci! E no, non lo dico solo perché ho talmente fame che mangerei la carcassa marcia di un cervo. Devi assaggiarli – le disse prendendone uno e porgendoglielo.
La ragazza acconsentì, perché infondo aveva fame anche lei e quelle palline al limone avevano davvero un bell’aspetto, gustandone il sapore. – Che il Signore benedica quella donna. Hai ragione! Ma ora dobbiamo entrare nella vasca o l’acqua si raffredderà – lo esortò leccandosi le dita che odoravano di limone, avviandosi già verso il grande recipiente in legno, colmo di schiuma profumata. Judith si immerse dentro fino al collo, chiudendo gli occhi e rilassandosi totalmente.
Dopo aver mangiato almeno altri cinque o sei di quei piccoli dolci, anche Blake finì di spogliarsi ed entrò nella vasca, alle spalle di Judith.
Il ragazzo poggiò la schiena al bordo della vasca di legno, come era solito fare, allungando le gambe lunghe e snelle; mentre Judith poggiò la schiena al petto di lui, tenendo le gambe mollemente piegate verso l’alto, una accavallata all’altra.
Si lavarono placidamente a vicenda, nell’assoluto silenzio, non riuscendo a non pensare che si sarebbero potuti facilmente abituare a quella meravigliosa e insolita quotidianità.
- Quando ti sei svegliata? – spezzò il silenzio Blake, percependo i capelli bagnati della fanciulla strusciarsi morbidamente sul proprio petto, mentre restava ad occhi chiusi. Prese a massaggiarglieli distrattamente.
- Mmm, pochi minuti prima che tornassi. Ho dormito così bene…
- Ah sì? Nonostante io non abbia un letto largo cinque metri, riempito di piume d’oca e ricoperto di seta? – la provocò lui.
- Puoi crederci o no, ma il tuo letto è persino più comodo del mio. O forse, la tua presenza lo rendeva più comodo – suppose lei, affogando un sospiro appagato in una bolla di schiuma.
- Quindi ti senti bene?
- La tua preoccupazione è toccante. Ad ogni modo, sto bene. Non temere: mi ricordo ancora tutto.
- Non mi riferivo a quello – disse il ragazzo, riaprendo gli occhi. – Mi riferivo ai bambini.
- Anche loro stanno bene. Siamo stati delicati, stanotte. Passionali, ma delicati… - disse lei prendendogli una mano e portandosela alla bocca, per baciarla teneramente.
- Ho parlato un po’ con tua madre – aggiunse poi. – Mi ha confessato quello che ti ha detto.
- Non voglio parlarne.
- Lo capisco – acconsentì lei. – Eppure… non abbiamo ancora parlato di come ti senti, in merito alla morte di tuo padre – aggiunse Judith, tastando il terreno di quell’argomento delicato e difficile da aprire. Il pensiero di Hinedia e della sua veste insanguinata le invase la mente, ma lo scacciò via subito: era un’altra gatta da pelare, la faccenda di Hinedia. Se davvero era stata lei ad uccidere Rolland, qualsiasi fossero i motivi che l’avevano spinta a farlo, Blake non le avrebbe mai perdonato di non averglielo detto prima. Ciò li avrebbe inevitabilmente riallontanati. Ma non era il momento di pensarci.
Notando il silenzio del ragazzo dietro di sé, Judith riprese: - Hai rivelato come ti senti ad una Judith che conoscevi a malapena, tramite lettera… ma non l’hai rivelato a me – disse, alzandosi dal suo petto e cambiando posizione: si voltò lentamente verso di lui, per poterlo guardare negli occhi, salendogli a cavalcioni sopra, ma facendo attenzione a non calarsi troppo verso di lui, per non spingere il pancione contro il suo addome. Restò seduta eretta sopra il bacino del ragazzo, osservandolo, in attesa.
Da quella posizione, Judith poteva anche vedere il bellissimo opale che faceva bella mostra di sé sul suo petto imperlato d’acqua.
Egli, nonostante avesse la testa abbandonata all’indietro, ricambiò il suo sguardo. – Sono passate settimane. Sto bene.
- Hai pur sempre perso un genitore.
- Quando ero piccolo ho perduto Myriam. Lei era come un genitore per me. Eppure, sono sopravvissuto. Lo farò anche ora.
Judith annuì, vedendolo rialzare la testa. – Cosa hai intenzione di fare con i monaci, Judith?
Attendeva quella domanda dolente, prima o poi.
- Mi imporrò. Devono comprendere che non possono decidere per me, per noi.
Anche se avessero già trovato una fanciulla da darti in moglie, una promessa… tu hai tutto il diritto di rifiutare.
Abbiamo il sacro diritto di sceglierci, se lo vogliamo.
Io e te ci amiamo. Neanche loro possono opporsi a questo – disse con decisione, aggrappandosi con le mani al bordo della vasca.
La schiuma le solleticava il pancione e le sfiorava i seni.
Un’improvvisa voglia di averlo e di essere sua la invase.
Alcune donne dicevano che era la gravidanza stessa ad accentuare tutte le voglie e i desideri della carne.
Ma quando era con Imogene il suo corpo non aveva mai reagito in tal modo.
Non era tanto reattivo, né voglioso a tal punto.
Inoltre, il viso del ragazzo di certo non aiutava: i suoi occhi semichiusi, liquidi e rilassati, i lunghi capelli bagnati che gli accarezzavano viso e spalle, la pelle umida e invitante.
Judith iniziò a strusciarsi sensualmente su di lui con il bacino, molto lentamente, avanti e indietro, mentre continuava a guardarlo negli occhi.
Blake, in risposta, le accennò un sorrisino che la fece fremere ancor di più.
Poi, improvvisamente e immotivatamente, un’immagine le comparve nella mente: il volto sofferente di padre Craig.
Ora che aveva recuperato i ricordi, ricordava anche i profondi sentimenti che padre Craig nutriva per entrambi.
Ciò la turbò inevitabilmente.
- Cosa diremo a padre Craig...?
Non era riuscita a frenare la lingua.
Si era resa conto troppo tardi che tale domanda sarebbe sembrata del tutto fuori luogo a Blake, dato che egli, presumibilmente, ancora non conosceva i sentimenti del prete.
Difatti, il ragazzo aguzzò lo sguardo, confuso, mentre lasciava ciondolare la testa di lato. – Cosa dovremmo dirgli di diverso da quello che diremo agli altri..? Oh, non dirmi che… - si bloccò lui, studiandola, cercando di carpire una qualche verità negli occhi d’ossidiana dell’amata. - … anche lui è innamorato di te, Judith? – le domandò, come se già sospettasse qualcosa di simile. - Perché Quaglia lo ha detto chiaro e tondo che fosse infatuato di te, mentre padre Craig non riuscirebbe mai a dire una cosa del genere ad alta voce.
- No – decise che negare fosse l’opzione migliore. Non gli avrebbe rivelato nulla fin quando non fosse stato padre Craig stesso a decidere di confessare anche a Blake i sentimenti che nutriva per loro. - Non intendevo questo. Intendevo che è molto legato ad entrambi e sì, sapeva di noi prima della mia amnesia, ma… sai com’è fatto, quando mutano le dinamiche tra le persone a cui tiene, viene scombussolato e si fa un sacco di problemi inutili.
- Puoi dirmelo, Judith: lui ti ha rivelato di essersi innamorato o invaghito di te? – le domandò lui, con tranquillità.
- Tu hai avuto questa impressione?
- Forse.
- Allora è una tua deduzione. Il comportamento di Quaglia è più diretto, mentre quello di padre Craig è più…
- Nebuloso – completò la frase lui al suo posto.
- Hai mai pensato che… padre Craig potrebbe provare per te, quello che tu credi provi per me? - azzardò, notando il volto del ragazzo cambiare completamente espressione.
Non era sconvolto da tale supposizione, piuttosto confuso e divertito insieme.
- Padre Craig…? Invaghito di me…?? – le domandò tirandosi lievemente su. – Quando è arrivato qui era pazzo di mia madre. Padre Craig non ha le stesse inclinazioni di Ephram.
- E tu? – gli domandò a bruciapelo lei, improvvisamente incuriosita.
- Io… cosa?
- Hai le stesse inclinazioni di Ephram?
A ciò, capendo benissimo cosa intendesse, Blake le rivolse uno sguardo a dir poco divertito. – Vuoi sapere se un ragazzo mi ha mai toccato?
- Tu sai che per me è così: sono stata con Imogene, d’altronde. Tuttavia, io non so se anche tu hai mai intrattenuto rapporti carnali con persone del tuo stesso sesso. Sono curiosa, tutto qui.
Blake rise.
- Cosa c’è da ridere?
- Nulla.
- Allora smettila di ridere. Non vuoi accontentarmi? Mi terrai sulle spine, ad immaginarti tra le braccia di un uomo?
Blake rise ancor di più, per poi tornare a rilassarsi e a guardarla negli occhi intimamente. – Ti accontento, non preoccuparti: non è mai successo.
Judith affilò lo sguardo, incerta. – Stai mentendo?
- Devo giurarlo sulla tomba di mio padre?
- Sei mai stato curioso di provare?
- Qualche anno fa, forse. Beitris me lo aveva proposto.
Nonostante avesse solo quattordici anni come me, le piaceva molto sperimentare.
D’altronde, era cresciuta in un ambiente molto libertino, sotto quel punto di vista, aveva esperienze da vendere già a quell’età. Tra i due, ero decisamente io il “novizio”.
Ad ogni modo, le era già capitato di intrattenere rapporti sessuali con più persone insieme, orge in piena regola. Non si vergognava di palesare che le piacesse e la eccitasse guardare due ragazzi, due maschi, fornicare tra loro.
Così, mi chiese di provare.
- E…? – lo incoraggiò a proseguire Judith.
- Vuoi sentire tutta la storia?
- Ovviamente.
Blake scosse la testa rassegnato e si abbandonò maggiormente con la schiena al bordo, rilassando i muscoli. – Io ero restìo all’idea. Avevo solo quattordici anni, lei è stata la mia prima volta, e non avevo intenzione di fare quello che facevo con lei con altri. Tuttavia, Beitris sapeva essere molto persuasiva. Ma soprattutto molto insistente. Alla fine cedetti, in quanto aveva fatto sorgere un pizzico di curiosità in me. Inoltre, lei continuava a ripetermi che il rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso era una cosa comune, molto più comune di quanto pensassi, che almeno una volta nella vita ogni servo o serva del Diavolo lo avevano sperimentato. Era una tappa necessaria della crescita, sostanzialmente, per scoprire cosa davvero ti piacesse.
Un piccolo ghigno si dipinse nel bel volto della fanciulla, a tali parole. – Non aveva tutti i torti. Da come parli, sembra scontato che alla fine sia successo. Mi chiedo cosa ti abbia fatto cambiare idea.
- Lei aveva già chiamato un suo amico, un giovane servo del Diavolo come noi, per partecipare al “grande evento” – continuò il ragazzo. – Ne aveva coinvolto solo uno, per non spaventarmi, ovviamente. Mi disse che lui aveva diciotto anni, che era esperto nel sesso con gli uomini, perciò sarebbe stato molto attento, delicato, accorto, e che mi sarebbe piaciuto; mi rassicurò in ogni modo possibile a riguardo. Quando arrivò il giorno… eravamo nel bosco, in una delle zone più fitte e isolate. Nonostante il ragazzo avesse solo quattro anni più di me, quando lo vidi gelai sul posto, lo ricordo ancora: appariva più grande della sua età, mi sembrò troppo alto e troppo imponente. Mi si avvicinò e nei suoi occhi vidi una scintilla di voglia che mi paralizzò ancora di più. Beitris mi aveva già detto che lui era impaziente all’idea, e in quel momento lo notai concretamente: gli piacevo, molto.
- E a te piaceva lui?
- Era innegabilmente bello, come lo siamo tutti. Ma, in quel momento, era totalmente irrilevante. Avevo paura, mi sentivo a disagio e non volevo che mi toccasse. Odiavo l’idea che mi toccasse. Non mi ero mai sentito tanto piccolo, impotente, incomodo e a disagio come in quel momento. La prospettiva di essere toccato da lui iniziò improvvisamente a disgustarmi, e tutta la curiosità svanì di colpo.
Lo scacciai via, allontanandolo da me, prima che lui riuscisse a posarmi le mani addosso, e me ne andai, senza dire nulla.
Da quel giorno, Beitris non osò più chiedermi una cosa simile, né tantomeno provò ad imporsi a riguardo – terminò lui, continuando a guardarla negli occhi.
- Non temere, non te l’ho domandato perché ho intenzione di proporti una cosa simile – lo rassicurò Judith. – Non è ancora tra le mie recondite brame.
- “Ancora”?
Judith sorrise, tornando poi al tema principale da cui era scaturito il discorso:
- E non hai mai preso in considerazione l’idea che qualcuno possa avere delle “inclinazioni” simili, e che non possa farne a meno, neanche volendo? Non si può scegliere da chi essere attratti, né di chi innamorarsi.
- Stai parlando di nuovo di padre Craig?
La ragazza annuì, vedendolo roteare gli occhi altrove.
- Judith, te l’ho già detto: non esiste che io gli faccia quell’effetto.
- Oh, Blake… mio caro Blake, non si tratta solo di fare un certo “effetto”.
Conosci padre Craig. Egli non bada al desiderio carnale.
O, per lo meno, vi bada poco. Egli è attratto e assuefatto da ben altro… - gli disse lei, allungando una mano oltre la vasca e afferrando uno dei tanti oli profumati che Heloisa le aveva detto di aver comprato.
Lo aprì e ne versò una generosa quantità sul proprio palmo.
Inspirò e si inebriò del suo profumo: menta e salvia.
- Non hai mai pensato che la sua dedizione a te possa essere dovuta ad un sentimento più profondo di quello che credi?
- Non è così. Te lo garantisco – rispose lui, decretando la fine del discorso.
La osservò spalmarsi l’olio sui palmi, per poi avvicinarsi.
- Non ti ho ancora chiesto come sia andata a te: sembra che gli scavi alla galleria stiano procedendo bene da quando sei tu ad occuparti di tutto – sussurrò lei, iniziando a spalmargli l’olio su petto e spalle, con premura.
Ricordava quella volta in cui era stato Blake a massaggiarla, mentre le spalmava la tintura bianca per i capelli, nella vasca della cattedrale. Quel giorno aveva pensato che gli avrebbe volentieri ricambiato il favore al più presto, mentre godeva delle carezze paradisiache delle sue mani, raffinate e virili allo stesso tempo.
- Sì.. - rispose lui in un sospiro, lasciandosi cullare e chiudendo gli occhi. – Stiamo trovando un’innumerevole quantità di gemme preziose, dai molteplici utilizzi.
- Parlamene - lo incoraggiò lei, passando a massaggiargli minuziosamente il collo.
- Pietre curative, soprattutto. Ce ne sono alcune, in particolare, che non avevo mai visto.
Ci stiamo rendendo conto che la galleria è uno scrigno pregno di tesori ancora inesplorati.
Chissà cos’altro nasconde. Dobbiamo analizzarle tutte e comprenderne le funzioni, oltre che il valore.
I miei studi riguardo le collocazioni di alcune gemme, in passato, hanno dato i loro frutti.. – disse, buttando la testa all’indietro, inconsapevole della propria sensualità, mentre lei continuava ad occuparsi del suo collo con massaggi profondi e carezze.
- E ne sei felice..? – gli domandò.
- Sì – rispose lui, percependo la mano unta d’olio della ragazza aprirsi e avanzare, verso le mascelle e il mento.
Blake alzò la testa e riportò il viso dinnanzi a quello di Judith, mentre la mano aperta della fanciulla vagava ancora sulla pelle, fin quando il dito indice non sfiorò il labbro del ragazzo, premendo e facendolo schiudere al suo passaggio.
Gli osservava la bocca, famelica, e lui iniziò a fare altrettanto.
Prendendola alla sprovvista, il ragazzo alzò il viso e la coinvolse in un bacio frenetico, mentre le stringeva i fianchi.
Lei rispose immediatamente, gemendo, stringendogli possessivamente la schiena con una mano, e infilandogli l’altra tra i folti capelli bagnati.
E mentre si baciavano e giocavano con le rispettive bocche e lingue come se ne andasse della loro vita, Blake le sorrise tra le labbra. – Da domani riprenderò in mano il nostro progetto… tornerò alla fucina e farò degli esperimenti con la polvere nera.
- Non dovresti aspettare il ritorno di Quaglia per questo..? – gli domandò preoccupata, prendendogli il viso tra le mani e guardandolo negli occhi. – In due sarebbe più sicuro…
- Non so quando Quaglia tornerà – rispose lui amaramente. – Vorrei credere che tornerà presto, ma non posso esserne sicuro. Devo andare avanti da solo. Fidati di me. So quello che faccio.
Judith annuì, decidendo di fidarsi, mentre rinfilava la lingua nella sua bocca e gli avvolgeva le spalle con le braccia, portandolo ancor più vicino a sé, fin quanto le era possibile.
 
Padre Craig uscì di casa, beandosi del placido sole esterno, un cesto colmo di fiori e ortaggi stretto tra le mani.
Dopo cinque minuti di camminata, udì una voce estremamente familiare richiamarlo:
- Padre! Aspetta, padre!
Il prete si voltò e incontrò la figura di Judith, intenta a camminare velocemente per raggiungerlo.
Era incredibile pensare a quante energie avesse quella ragazza nonostante fosse quasi all’ottavo mese di gravidanza.
Padre Craig aspettò che ella lo raggiungesse e le sorrise.
- Judith. Perché mi avete seguito?
Sapeva benissimo che la ragazza si trovasse nella stessa casa in cui si trovava lui, quella mattina.
Aveva collegato i pezzi ancor prima che Heloisa lo informasse che Judith e Blake stessero facendo un bagno. Insieme.
- Padre, ho recuperato tutti i miei ricordi – lo informò a bruciapelo la ragazza, facendogli strabuzzare gli occhi e cadere a terra il cesto che aveva tra le mani.
Gli occhi dell’uomo si illucidirono e quelli di Judith anche, nell’osservare la toccante reazione del prete, il quale si fiondò su di lei, incurante delle buone maniere e di trovarsi in mezzo alla strada.
La abbracciò forte, stringendola a sé, ma facendo comunque attenzione a non spingere troppo sul pancione.
- Oh, Judith… oh, mia cara Judith… sei tornata… non posso crederci! – sussurrò, scostandosi da lei e prendendole il bel viso tra le mani.
La Judith che amava era tornata.
- Tutto merito di Imogene. Non so come abbia fatto, ma la sua magia, apparentemente, è più potente di quanto mi aspettassi.
- Ora dov’è lei?
- Ha lasciato il villaggio. Nessuno sa dove sia. Se sia ancora viva o no…
“Tale incantesimo perdura solamente fin quando tutti e tre gli stregoni che l’hanno messo in atto rimangono in vita.
Se uno di noi tre dovesse morire o dovesse perdere il suo potere… sarà come se non avessimo fatto nulla…” . Le stesse parole di Imogene tornarono alla mente di padre Craig, a tale informazione.
Chissà se l’incantesimo è compromesso anche se uno di loro lascia questa terra  pensò, sperando che Imogene fosse ancora in vita.
Allontanò l’allarmismo e tornò a concentrarsi solo su Judith.
- Ci tenevo a dirtelo – disse lei, stringendogli le mani calorosamente.
- Sia lodato il cielo! – esclamò il prete, baciandole le mani con riverenza. – Mi sei mancata molto, cara Judith. Nonostante la nuova versione di te fosse altrettanto piacevole da frequentare – le disse, facendola sorridere. – Come ti senti?
- Bene. Davvero bene, a dir la verità.
Volevo parlarti anche di qualcos’altro, padre, se permetti – lo informò, raccogliendo da terra il cestino colmo che era caduto poco prima dalle mani del prete.
- Oh, cara, non dovresti prendere pesi, lascialo a me. Di cosa volevi parlarmi?
- Meglio farlo strada facendo. Io sono diretta verso il luogo in cui hanno seppellito provvisoriamente Folker e Bridgette, a metà tra le abitazioni di entrambi. Vorrei rendere loro omaggio. Vuoi accompagnarmi?
- Che casualità… - commentò il prete. – Anche io sono diretto lì.
- Allora è perfetto. Che cos’è il cesto che hai in mano?
- Dalle mie parti, ad Armelle, si usa regalare un cesto di ortaggi e fiori a coloro che hanno perduto qualcuno di caro, per porgere le proprie condoglianze – spiegò lui. – Ne ho portato uno anche a Blake e ad Heloisa alla morte di Rolland.
- Davvero una bella usanza.
- Pensavo di pregare davanti al luogo di sepoltura dei due, per poi dirigermi verso l’abitazione di Ambrose e lasciargli questo cesto. Ambrose era molto amico di Folker, ora che hai recuperato la memoria dovresti ricordarlo.
- Sì, lo ricordo… - sussurrò lei, mestamente. – Avviamoci, padre.
Judith prese il prete sottobraccio e i due iniziarono a camminare placidamente, tra la gente.
Quando si avvicinarono alla zona delle cattedrali, vi era una “tomba aperta” ogni venti metri: gli scavi per disseppellire le cripte stavano proseguendo spediti.
- Di cosa volevi parlarmi, mia cara?
- Non voglio girarci intorno. Mi piace essere chiara e diretta con te, come lo sono sempre stata: saprai che io Blake ci siamo riavvicinati molto.
Padre Craig deglutì e abbassò lo sguardo, fingendosi spontaneamente felice.
- Sì, ho saputo questa mattina. Non posso dire di non aspettarmelo minimamente. Infondo, prima della tua amnesia eravate intimi.
- So quanto ciò ti faccia soffrire – disse lei, osservandolo dispiaciuta. – Non fingere che non ti importi. Devo ricordarti che ho riavuto la mia memoria, dunque che rimembro i sentimenti che nutri per me e per lui?
- Oh, Judith. Sei sempre troppo premurosa con me.
- Forse perché Blake non lo è abbastanza, dunque devo esserlo per entrambi.
In ogni caso, non si può chiamare “premura”, la mia. Voglio solo sapere come ti senti a riguardo. Se stai bene, se il tuo cuore soffre come penso.
- Posso essere sincero con te, mia cara? – le disse lui fermando il passo e fronteggiandola.
Oramai erano giunti a destinazione.
- Certo – lo incoraggiò la fanciulla.
- Preferirei sapervi l’una tra le braccia dell’altro, pur di non sapervi tra le braccia di qualcun altro – le confessò, sorridendole malinconicamente e sinceramente.
Judith vide tutto il dolore che vorticava tra le iridi dell’uomo, di colui che considerava il suo più caro amico, e le si strinse il cuore.
Padre Craig sfuggì alle sue mani e si avvicinò alla tomba provvisoria di Folker, il rettangolo di terra scuro, asettico, privo di epitaffi, privo di una lapide, in cui era stato seppellito il ragazzo, notando immediatamente che vi fosse già qualcun altro inginocchiato lì, in posizione di preghiera.
Padre Craig sgranò gli occhi, addolorato, osservando il corpo massiccio di Ambrose piegato su se stesso, prostrato, dinnanzi a quell’angolo di terra che conteneva e conservava il giovane cadavere del suo amico, segretamente amato. Accanto a lui vi era anche un suo amico, servo del Creatore anch’egli, che tentava di confortarlo come meglio poteva, carezzandogli le spalle curve, inginocchiato affianco a lui.
Padre Craig si avvicinò ai due, non osando rivolgere la parola alla figura piegata di Ambrose, non ancora.
Piuttosto, si rivolse al suo amico, che aveva un’aria familiare. – Come vi chiamate?
- Devon, padre.
- Potete andare, Devon. Siete un buon amico. Ora ci penso io a lui – lo rassicurò, vedendolo annuire e avviarsi per andare. Quando il ragazzo intravide anche Judith, mentre si allontanava, le rivolse un gesto di galante cortesia, porgendole un rispettoso inchino, per poi andarsene.
Padre Craig si accovacciò accanto ad Ambrose, osservando quel rettangolo di terra che non rendeva affatto giustizia alla memoria del ragazzo, per poi voltarsi a guardare il giovane servo del Creatore prostrato.
- Ambrose… - sussurrò con estrema delicatezza, posandogli una mano sulla spalla tremante.
- Prudence se ne è andata poco fa. È rimasta qui tutta la notte. Io le sto dando il cambio. Per vegliare su di lui – una voce roca si alzò dal corpo del ragazzo, ancora prostrato.
- Ambrose, sono padre Craig.
- Lo so chi siete. Se volete porgere le condoglianze a Prudence, vi ho già informato che se ne è andata poco fa.
- Sono qui per porgere le condoglianze a voi, Ambrose. Vi prego, alzatevi – lo incoraggiò, prendendogli le spalle ampie con dolcezza e facendolo alzare da quella posizione.
Il volto di Ambrose era una maschera inespressiva, vuota.
- Ecco, questo è per voi.. – gli disse il prete, appoggiandogli il cesto dinnanzi.
- Vi ringrazio – rispose atono Ambrose.
A ciò, padre Craig gli prese la mano e gliela strinse calorosamente, lasciando scivolare via una lacrima. - Vi sono vicino, Ambrose. Voglio che sappiate che, di qualsiasi cosa abbiate bisogno, io sono qui. Ci sarò sempre. Tenetelo a mente, ragazzo.
Il giovane annuì, non dicendo nulla.
Fu in quel momento che intervenne Judith.
La ragazza sorpassò padre Craig e si inginocchiò di fronte al ragazzo.
Senza dire nulla, gli circondò il collo con le braccia e lo abbracciò.
Ambrose spalancò gli occhi, come risvegliatosi, a tale contatto intimo inaspettato.
Anche padre Craig sgranò gli occhi.
Non era consuetudine, a Bliaint, coinvolgere in simili contatti fisici un estraneo, soprattutto se si trattava di un membro di un culto differente, tantomeno se ciò avveniva tra uomo e donna.
Ambrose era pietrificato tra le braccia di Judith. Ella gli accarezzò la schiena e trattenne a stento le lacrime, mentre gli sussurrava: - Mi dispiace tanto. Mi dispiace davvero tanto… non avrei dovuto proporre la soluzione dei riti di purificazione. Avrei dovuto prendermi cura di lui. Avrei dovuto ricordarmi di lui… e proteggerlo. Che il Signore lo protegga e lo liberi di tutti i fardelli che ha dovuto portare in vita.
A tali parole e dinnanzi a tanto calore e affetto, Ambrose ricambiò l’abbraccio della fanciulla, circondandole la schiena a sua volta e affondando il viso nella sua spalla, come un bambino avrebbe fatto con sua madre.
Il ragazzo si lasciò andare ad un pianto sentito e liberatorio, mentre la fanciulla lo cullava.
Si permise di piangere accorato, di bagnarle l’abito pregiato di lacrime, di lasciarsi avvolgere dal profumo e dalla morbidezza della giovane donna, sentendosi tra le rasserenanti braccia di un angelo, per un attimo.
Quando si fu ripreso, ebbe il coraggio di farle sentire la sua voce a sua volta. – Signorina Judith, non è buon abito farvi vedere intenta ad abbracciare un servo del Creatore come me.
- Non importa – rispose lei, allontanandosi lievemente dal giovane e accarezzandogli una guancia maternamente.
Nonostante avessero solamente tre anni di differenza, Judith sembrava davvero una madre premurosa al momento, pensò padre Craig mentre la osservava.
Se solo si fosse data una possibilità, sarebbe stata una madre meravigliosa per i suoi gemelli, ne era più che certo.
Judith gli prese le mani e lo fece alzare. – Venite con me, Ambrose. Andiamo a parlare in un posto tranquillo. A quest’ora alla Taverna non dovrebbe esservi troppo afflusso – lo incoraggiò, per poi rivolgersi a padre Craig. – Ovviamente verrai con noi, padre.
I tre si diressero alla Taverna, e, una volta entrati, presero posto.
Come immaginavano, non vi era particolare affluenza, in quanto era quasi mezzodì.
- Non vengo in questo posto da quando… - cominciò Ambrose, con lo sguardo basso e la voce incolore. - Avevamo una congrega. Ci riunivamo qui, nei sotterranei, a prenderci a botte fino allo svenimento, per puro sfogo – confessò, violando il sacro codice della congrega.
Judith e padre Craig non commentarono nulla a riguardo, preferendo lasciarlo sfogare.
- Bridgette era una delle locandiere che ci permetteva di restare qui sotto, a fare quello che volevamo - continuò il ragazzo. – Forse, chi lo sa, già durante quegli incontri è sbocciata la loro attrazione, l’uno per l’altra. Avrei dovuto accorgermene che c’era qualcosa tra loro. Non che mi importi nulla di Bridgette, ma, forse, se me ne fossi accorto e li avessi allontanati, in un moto di gelosia, ora uno dei due sarebbe ancora vivo. Ma non sarebbe lui, molto probabilmente.
Lui si è tolto la vita per ben altro.
- Ora non è necessario rivangare su tutto ciò – lo interruppe padre Craig, addolorato.
Non riuscì ad impedire al senso di colpa di farsi avanti, di nuovo: lui aveva scoperto cosa architettavano Myriam e padre Cliamon. Lo sapeva, eppure era rimasto in silenzio, sotto minaccia.
Aveva permesso che quel contorto abuso di cui era vittima il ragazzo andasse avanti, consumandolo.
La morte di Folker era anche colpa sua.
- Ero innamorato di lui – confessò Ambrose, incurante di averlo detto ad alta voce, in un luogo, seppur non affollato, pur sempre frequentato. - Se vorrete denunciarmi ai monaci per questo, fate pure. Sento di non provare più alcun desiderio per la vita.
- Non dite così – si impose Judith. – E parlate a bassa voce.
- Non mi importa. Che mi sentano. Lo urlerei al mondo, quanto lo amavo.
Penso a lui mattina e sera, sempre. La mia prima preoccupazione la mattina, è di andare a casa sua, di pregare in camera sua, per poi spostarmi in quell’indecente pezzo di terra in cui lo hanno seppellito, per pregare lì, e almeno sperare, illudermi, di essergli un po’ più vicino – disse, guardandoli negli occhi, prima una, poi l’altro. – Non è sano vivere come vivo io. Lo capite? Sento che, se qualcuno mi impedisse di andare da lui, dove è seppellito il suo corpo, smetterei di respirare, soffocherei.
- Oh, Ambrose… ammetto che non immaginavo che la vostra adorazione per lui arrivasse a tal punto - confessò Judith, angosciata.
- Neanche io stesso lo immaginavo.
L’ho realizzato appieno solo quando è morto.
Tuttavia, sapevo di amarlo e di volerlo anche quando era vivo. Era lui a non volermi.
- Gli avete confessato i vostri sentimenti? – gli domandò padre Craig.
- In un certo senso sì.
Proprio per questo credo di avere anche io un ruolo nella sua morte: qualche giorno prima del suo suicidio, lui mi ha concesso di fargli… tutto quello che desideravo fare, con lui. Si è donato a me. Per ringraziarmi, o per … non lo so. Lo ha fatto come atto di altruismo e di amicizia, non certo perché lo desiderasse davvero, o tantomeno ricambiasse i miei sentimenti.
Solo ora mi rendo conto che … è come se io lo avessi costretto a farlo. Contro il suo volere.
Ha dovuto fare qualcosa contro il suo volere, per l’ennesima volta, anche con me. Lo capite? Io ero il suo unico porto sicuro, io e Bridgette lo eravamo.
Ma Bridgette si è sposata, e io l’ho implicitamente costretto a sottomettersi a me, contro il suo volere.
È rimasto solo. Si è sentito solo al mondo.
- Ambrose, non potete saperlo. Non potete sapere che non lo desiderasse anche lui, non potete escludere che stesse resistendo ai sentimenti che provava per voi, a sua volta.
- Lo so e basta, padre.
- Ambrose, posso solo immaginare quanto sia dolorosa la sofferenza che state provando – gli disse Judith. – Ma non dovete gettare via la vostra vita per una perdita. Folker è stato il vostro primo amore. Con lui avete avuto modo di scoprire la vostra sessualità, di capire tante cose di voi. Probabilmente, nessuno sarà in grado di sostituirlo. O forse sì, non sappiamo cosa accadrà tra dieci o vent’anni. Ma ora, il vostro cuore è con lui. Tuttavia, non potete e non dovete buttare la vostra vita, considerarla cosa da nulla. Non potete continuare a vivere nel lutto, nel passato, nel dolore. Folker vorrebbe che voi foste felice. Teneva a voi come amico, su questo avete la totale certezza. Per lui non era affatto facile avere degli amici, specie se servi del Creatore. Teneva a voi, tanto da essersi concesso di sua volontà a voi. Per questo vorrebbe che andaste avanti – le parole di Judith attirarono l’attenzione di entrambi.
- Vi ringrazio – le rispose Ambrose.
- A mio parere, dovete continuare ad esplorare la vostra sessualità.
Avete bisogno di distogliere la mente da Folker, almeno per un po’.
Avete bisogno di pensare ad altro.
Potete ignorare le mie parole e uscire di qui, nessuno ve lo impedisce.
Tuttavia, se ve ne andrete, continuerete a vivere la vostra quotidianità nella disperazione e nel dolore, e questo non servirà a riportarlo indietro, ahimè.
Potete onorare la sua morte anche andando avanti con la vostra vita, sapete?
- Cosa intendete propormi esattamente…? – le domandò il ragazzo, spaesato.
- Vi sto suggerendo di liberare la mente e di esplorare il vostro corpo con qualcuno di diverso da Folker – rispose la ragazza, diretta.
- Judith, cosa…? – padre Craig era esterrefatto e incapace di parlare.
- Avete scoperto cosa vi attrae, cosa vi piace.
Perché non fate un tentativo…? – propose ella, vedendolo strabuzzare gli occhi, sconvolto.
- Cosa vi aspettate…?! Che sostituisca Folker con un altro giovane servo del Diavolo?!
- Vi ho già detto che non sto parlando di sostituire nessuno.
E poi, non vi spingerei nuovamente tra le braccia del peccato: io sono la prima a non approvare la legge che impedisce a uomini e donne di culti differenti di avere relazioni sentimentali e sessuali, tuttavia, non vi suggerirei mai di fare per la seconda volta qualcosa che vi farebbe rischiare il rogo seduta stante – spiegò, per poi volgere lo sguardo verso l’entrata della Taverna. – Ho notato il modo in cui il vostro amico vi confortava, poco fa, alla tomba provvisoria di Folker. Ahimè, per voi servi del Creatore è ancora un argomento ostico e proibito, quello che concerne i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso. Basta pensare al fatto che io, una serva del Diavolo, ho intrattenuto una relazione sentimentale e sessuale con un’altra serva del Diavolo, alla luce del sole, alla cattedrale, sotto gli occhi dei monaci. Se fossi stata una serva del Creatore… di certo non avrei potuto farlo. I monaci del Creatore e i fedeli servi del Creatore in generale, non vedono di buon occhio questa tendenza, a mio parere naturale e per nulla perversa. Proprio per tali motivi, sono certa vi siano molti ragazzi e molte ragazze, servi e serve del Creatore, che vorrebbero sperimentare quel lato di loro ma non possono, poiché spaventati dall’idea di peccare, di mancare di rispetto al Creatore, o terrorizzati di essere scoperti. Ditemi, il vostro amico vi è stato molto vicino dalla morte di Folker?
- Sì… - ammise Ambrose, riflettendovi. – Quasi ogni giorno.
- Ha colto l’occasione di questa tragedia per riavvicinarsi a voi.
Ho notato il modo in cui vi guardava. Si tratta di istinto, certo, non posso esserne del tutto certa, ma credo che il vostro amico, se solo ne avesse la possibilità, esplorerebbe questo lato della sua sessualità con voi, Ambrose.
- Cosa…? Devon?? No, impossibile. Abbiamo sempre scherzato sulle ragazze, quando eravamo molto amici, mesi fa. Non può essere.
- E se così fosse? Se questa fosse un’opportunità per fare ciò che vi ho suggerito, e provare a distaccare la mente, solo per un giorno, dal vostro eterno amore?
- Judith, non credo che una possibilità simile possa aiutarlo – si intromise con veemenza padre Craig.
- Perché lo credi, padre? – gli domandò Judith, voltandosi verso di lui. – Perché credi che provare ad andare avanti, per superare un amore che mai si potrà ottenere, un amore che ci divora da dentro, sia errato? – gli domandò, pungente, facendolo ammutolire.
Padre Craig colse il significato nascosto dietro quelle parole e dietro la stessa proposta che Judith aveva fatto ad Ambrose.
Quel discorso non era solo per il ragazzo. Era anche per lui.
Solo la prudenza di Judith, il non voler coinvolgere anche Ambrose nelle controverse questioni di cuore di padre Craig, le impedì di parlargli chiaro e tondo e di incoraggiarlo a fare la stessa cosa.
Non puoi averci.
Che senso ha continuare a struggersi per noi, padre…?
- Se anche aveste ragione… io non potrei mai pensare a me e a Devon insieme.
Mi sono sempre visto con Folker, ho sempre guardato solo lui.
- Non si tratta di andare a nozze, Ambrose, ve l’ho già spiegato. La vicinanza mentale in questo caso non è rilevante.
- Se la vicinanza mentale non è rilevante e si tratta solo e solamente di liberare la mente per un’ora, allora potrebbe trattarsi di qualsiasi persona, anche di uno sconosciuto.
Basterebbe trovare un qualsiasi servo del Diavolo che acconsenta a sottoporsi a questa tortura con me, ed è fatta.
- Volete proprio finire sul rogo, non è vero?
Cosa vi ripugna dell’idea di farlo con un amico, con qualcuno a cui dareste un po’ di fiducia, piuttosto che con un totale estraneo?
- Il fatto che Devon non è degno di fiducia – rispose duramente il giovane servo del Creatore. – Lui e altri ragazzi che un tempo erano miei amici, hanno perseguitato Folker fino a sfinirlo, credendo che fosse una strige. Ho dovuto salvarlo da loro diverse volte.
- Allora perché gli avete permesso di starvi vicino e di confortarvi dopo la morte di Folker?
- Perché è bello avere una spalla su cui piangere, una spalla amica… - ammise. – Inoltre, si è scusato con me mille volte, dopo che Folker è morto. Ha detto di essersi pentito e di temere che lui si sia tolto la vita anche a causa delle persecuzioni che lui e gli altri gli facevano patire. 
- E voi lo avete perdonato?
- No.
- Però gli date abbastanza fiducia da permettergli di confortarvi in un momento così difficile per voi.
- Dove volete arrivare…?
- Vi informo che Devon è qui, Ambrose.
- Che cosa?? – domandò il ragazzo stupito.
- Credo ci abbia seguiti.
È entrato nella Taverna qualche minuto dopo di noi e si è fermato all’entrata, a conversare con alcuni amici che ha incrociato qui, suppongo – lo informò Judith, posando un altro sguardo casuale verso l’entrata della Taverna. – Sì, è ancora lì. Suppongo che le mie intuizioni sul suo presunto interesse per voi siano fondate. Ve lo ripeto, Ambrose: non state sostituendo nessuno. Esplorare il vostro corpo non significa promettere amore eterno. Probabilmente Devon è spaventato quanto voi, da questo strano desiderio o interesse che sente crescere dentro e a cui non riesce a dare un nome – la voce della ragazza era vellutata, priva di giudizio, priva di qualsivoglia sentimento negativo.
Ambrose la guardò negli occhi, desiderando, desiderando ardentemente riuscire a provare attrazione per le donne.
Se così fosse stato, sarebbe sicuramente stato fisicamente attratto da una fanciulla bellissima, intelligente e amorevole come Judith. Chiunque ne sarebbe stato attratto.
Lui, invece, no, non lo era.
Da ciò comprese che non vi era alcuna speranza per lui.
Era condannato a vivere nella solitudine e nell’infelicità per sempre.
Tanto meglio, dato che l’amore della sua vita gli era stato brutalmente negato.
Eppure, vi era fondatezza nelle parole di Judith.
Provare ad esplorare il proprio corpo per un solo pomeriggio, non avrebbe ucciso nessuno.
Gli sarebbe solo servito per sfuggire per un po’ a quell’intenso dolore che gli attanagliava il petto e gli toglieva il respiro.
Se non fosse riuscito a farlo… nessuno gli avrebbe impedito di portare a termine l’atto pensando di avere Folker tra le braccia, invece che quella bestiaccia di Devon.
E poi, se avesse avuto la certezza che anche Devon fosse come lui, avrebbe potuto condividere il fardello della devianza con qualcuno.
Senza dire nulla, Ambrose si alzò in piedi. Guardò un’ultima volta lo sguardo incoraggiante di Judith e quello sconvolto di padre Craig, e si allontanò da loro, dirigendosi verso l’entrata della Taverna, dove si trovava Devon.
- Avevi organizzato tutto già prima di uscire di casa? – le domandò padre Craig, non sapendo più se essere curioso, meravigliato o allibito.
Non sapeva più cosa pensare.
- È giusto che lui si renda conto che non è sbagliato quello che è
Non esistono gusti sbagliati.
Deve accorgersi di avere ancora un futuro davanti a sé – rispose lei. – Non potevo sapere che il suo amico provasse qualcosa per lui finché non l’ho veduto poco fa, accanto a lui.
- Sei incredibile.
Ora, dunque, vuoi suggerire anche a me di buttarmi tra le braccia di una donna o di un uomo, trovati qui dentro?
- Ti sei già buttato tra le braccia di una donna per puro sfogo, o sbaglio, padre?
Tale constatazione fece sbiancare padre Craig. Fissò Judith, pietrificato. – Come… come fai a …?
- A saperlo? Sono una donna, ciò mi rende molto più intuitiva di te.
Osservo e leggo i segnali. Persino la tua postura è cambiata da quando hai perso la verginità.
Avanti, dimmi chi è – disse con tranquillità la fanciulla, sorseggiando il suo idromele.
Non aveva senso mentire a riguardo.
Dato che oramai erano arrivati a tal punto, tanto valeva vuotare il sacco.
- Beitris – confessò, riuscendo finalmente a stupirla.
- Davvero…? E come…? Sei andato a trovarla nelle segrete..??
Padre Craig annuì, annegando la vergogna nei sorsi della sua bevanda.
- Devo ammettere che sono sorpresa: ero convinta che fosse Heloisa.
- No, è stato Quaglia a usufruire del corpo e delle voglie di Heloisa per dimenticarsi di te. Io ero solamente attratto corporalmente da lei, nei primi tempi della mia permanenza, ma null’altro.
- Eppure, sia Beitris che Heloisa sono entrambe direttamente collegate a Blake. Beitris, addirittura, gli ha preso la verginità. Hai il coraggio di dirmi che sia un caso?
- Basta così – la placò lui, non volendo ascoltare una parola in più riguardo il suo imperdonabile peccato.
- Quello che volevo dire, è che sei già stato con una donna, hai perso la verginità con lei, hai già esplorato quel lato della tua sessualità.
Tuttavia, al contrario di Ambrose, sembra che i tuoi gusti siano molto più variegati, padre: hai giaciuto con una donna, ma non hai mai giaciuto con un uomo; eppure, ami carnalmente sia me, che Blake, quindi deve necessariamente attrarti anche il corpo maschile. Erro?
- Credi davvero che siano meramente i vostri corpi a tenermi sveglio la notte, che mi spingerebbero a fare patti col Demonio pur di vedervi ricambiare i miei sentimenti…?
Sono le vostre anime ad imbrigliarmi e a farmi battere il cuore all’impazzata.
- Indubbiamente; ma se fossero state solamente le nostre anime, stai pur certo che a legarti a Blake vi sarebbe solamente un bellissimo rapporto fraterno e null’altro, e nei miei confronti proveresti solo un potente sentimento di amicizia.
- Qual è il tuo desiderio, Judith? Rivelamelo, in modo che io sappia cosa vuoi dirmi.
- Voglio solo che tu stia bene e non soffra nel vederci insieme, padre.
- Questo non potrà mai accadere.
- Ma io voglio che accada. Sei un prete, ma evidentemente non sei nato per esserlo, ed è il momento che accetti questa verità.
Hai bisogno di trovare l’amore, la tua anima ne ha un bisogno immenso.
Anche nel tuo caso, io e lui siamo i tuoi primi amori. Ma non è detto che dobbiamo essere anche gli ultimi.
Sei giovane e non possiedi un aspetto sgradevole, tutt’altro.
Puoi facilmente trovare una persona con cui costruirti una vita.
E se non vuoi farlo, perché ti rifiuti di aprirti a qualcuno… almeno cerca di scoprirti e di sfogarti carnalmente, come ha deciso di fare Ambrose.
- Immagino tu mi stia suggerendo di giacere con un uomo, per la prima volta, per scoprire anche quel lato di me, il lato che brama Blake.
- Come ho già detto: sei già stato con una donna. Ora è il momento di provare anche qualcos’altro, che potrebbe piacerti e donarti eguale soddisfazione, se non maggiore, chi lo sa.
- Posso farti una domanda, Judith?
- Ovviamente.
- Tu temi che io possa fare qualcosa per dividere te e Blake? Per questo mi stai spingendo a fare ciò?
- Mi ritieni davvero così malfidata, padre?
Cosa non ti convince, quando ti dico che tengo a te immensamente e che non vorrei altro che saperti felice, in grado di sceglierti un compagno o una compagna alla luce del sole, senza soffrirne?
Il tuo cuore è troppo puro per pensare anche solo di fare una cosa simile.
- “Puro”? Stai chiamando puro il cuore di un “uomo di dio” che ha infranto il suo voto di castità giacendo ripetutamente con una strega rivoltosa, dentro una cella.
- Per quale motivo voi tutti reputate ogni gesto o argomento che concerne la dimensione sessuale come perverso, deprecabile, lurido o depravato??
Il sesso è un atto naturale, come lo è mangiare, bere o dormire.
Cosa ha fatto per meritarsi di essere considerato in modo tanto sacrilego?
- Hai mai pensato al fatto… - azzardò il prete, in un momento di spavalderia che sapeva sarebbe durato meno di un istante. - … che, se tu ti concedessi a me solo una volta… io potrei mettermi l’anima in pace e proseguire la mia vita serenamente?
- E in che modo ciò dovrebbe permetterti di andare avanti con la tua vita?
A mio parere, prolungherebbe solamente la tua pena, rendendola insopportabile – replicò lei, senza scandalizzarsi minimamente.
- Ma se avessi la certezza che ciò mi permetterebbe di stare bene e di dimenticarmi di te e lui… lo faresti? – la mise alla prova il giovane prete, osservando ardentemente gli occhi della ragazza.
- No. Se è un complimento quello che vuoi sentirti dire, ti accontento: l’affetto e il rispetto che nutro per te mi renderebbero molto facile giacere con te.
Ma non ricambio i tuoi sentimenti.
Sono innamorata di lui. Esattamente come te, aggiungerei.
E anche se non ne hai fatto menzione, sento di dover aggiungere anche questo: sono certa che, fin quando non giacerai anche con lui, la tua anima non avrà pace.
- Cosa vuoi dire con questo?
Judith affilò lo sguardo, incatenandolo ai suoi occhi.
- Sono certa che non ami entrambi allo stesso modo.
Il tuo amore ha le stesse necessità di un corpo umano: soffre la fame e soffre la sete.
La fame, lo sappiamo tutti, è facilmente raggirabile: come i prolungati digiuni religiosi ci dimostrano, basta concentrarsi su altro, ignorando i morsi allo stomaco, e la si sconfigge con l’abitudine. Il nostro corpo non ha bisogno di mangiare per vivere. Forse per vivere bene e pienamente sì, ma possiamo sopravvivere anche senza, per un lunghissimo periodo di tempo.
Con la sete, invece, è del tutto diverso.
Il nostro corpo è composto per la maggior parte d’acqua, per questo ne abbiamo un disperato, inesauribile, intossicante bisogno.
Già dopo il primo giorno senz’acqua, il nostro corpo risente visibilmente della totale assenza di idratazione.
Dopo il terzo giorno senz’acqua, siamo morti.
Il nostro corpo non sopravvive in assenza di acqua, ma sopravvive in assenza di cibo.
- Dove vuoi arrivare, Judith? – le domandò, confuso, impaurito dalla piega che stava prendendo il discorso.
- Rispondimi sinceramente, padre:
Se Blake non ricambiasse i tuoi sentimenti, mentre io sì, se io li ricambiassi e mi concedessi a te, con la promessa di stare insieme per sempre, tu saresti pienamente soddisfatto…?
Saresti appagato e soddisfatto nel trascorrere una vita intera con me, senza di lui?
Padre Craig ammutolì e boccheggiò.
Le aveva promesso che le avrebbe risposto sinceramente.
Ma la verità in risposta a quella domanda non gli piaceva.
- Judith, io ti amo, non immagini neanche…
- Rispondimi padre – lo interruppe lei. -… saresti soddisfatto con me, e senza di lui?
- No, non completamente.
Judith sorrise, soddisfatta di aver avuto ragione.
- E invece dimmi: se fosse l’opposto, ossia se fosse Blake a ricambiare i tuoi sentimenti, se lui si concedesse a te, anima e corpo, per sempre… saresti felice e completo? Ti sentiresti pienamente soddisfatto e realizzato con lui, ma senza di me?
Padre Craig vi rifletté su, ma non vi era neanche il bisogno di rifletterci troppo.
La risposta era chiara dinnanzi a sé.
- Sì. Lo sarei.
Di nuovo, Judith sorrise, senza ombra di delusione nel bel viso:
- Avevo ragione, dunque: il tuo cuore è come un corpo umano.
Soffre la sete e soffre la fame.
Blake è la sete.
Io sono la fame.
Di uno non puoi e non potrai mai fare a meno, mentre dell’altra sì.
- Judith…
- Non c’è bisogno di aggiungere altro, padre.
Ti sto chiedendo di guardare oltre, per una volta, e di non pensare né alla sete, né alla fame: pensa solo … al tuo appetito.
Ora è il momento di soddisfare l’appetito. Un appetito che potresti esplorare in molti modi, ma che hai sempre avuto paura e timore di approfondire.
Nessuno ti condannerà per questo. Il tuo corpo ne gioverà solamente.
Padre Craig, ancora sconvolto dal discorso appena fatto, deglutì altri sorsi di idromele, percependo la testa rimbombargli. – Io… quando ho giaciuto con Beitris… riuscivo a toccarla e a farla mia solo se pensavo a voi due, a te e a lui.
- Puoi fare la stessa cosa anche ora, se deciderai di giacere con un uomo. Tuttavia, ti suggerisco di provare a concentrarti sulla persona che hai davanti. Solo un tentativo.
Non seppe cosa lo convinse ad acconsentire alla richiesta di Judith.
Forse perché, quel giorno, le parole di Judith avevano uno strano potere incantatore per tutti.
Oppure avevano sempre quel potere. Come una falena che conduce tutti verso la fiamma.
Poi un’altra paura lo sopraffece: e se qualcuno si fosse accorto di quello che stava per fare?
Certo, oramai non indossava più la tunica monacale da un po’, dunque non era neanche identificabile come prete da uno sconosciuto, tuttavia… il terrore dei giudizi lo tormentava.
E se fosse stato proprio Blake a scoprirlo??
Judith era consapevole della cosa, anzi, era stata proprio lei a guidarlo verso quella strada, ma Blake? Cosa avrebbe pensato Blake di lui, se avesse scoperto che aveva intrattenuto un rapporto carnale con un uomo?
Poi si riscosse, riflettendo sul fatto che non sarebbe stato possibile per lui venirlo a sapere: quel giorno Blake era andato a casa della piccola Gwen, per riprendere Ioan, il quale aveva passato la notte dalla sua amica. Avrebbe trascorso il pomeriggio con Ioan, dunque si sarebbe tenuto ben a distanza da luoghi come la Taverna. Inoltre, chi altro avrebbe potuto vederlo e spargere la voce, se avesse fatto tutto in totale segretezza e accortezza?
Eppure, sopraggiunse un altro problema: sarebbe stato meglio rischiare di più pur di abbandonarsi ai piaceri degli occhi, dunque optare per un servo del Diavolo? Oppure impegnarsi nel trovare un servo del Creatore a proprio agio con la propria devianza, ma rinunciando alla libido carnale di giacere con un bel corpo?
Judith, sin troppo intuitiva, venne in suo soccorso: - So a cosa stai pensando: seppur tu sia un servitore del Creatore, non sei originario di Bliaint come Ambrose; dunque, a mio parere, non sei costretto a farlo necessariamente con un servo del Creatore. Sei pur sempre uno straniero. Ciò vuol dire che le leggi di Bliaint non valgono per te. Di conseguenza, non rischieresti il rogo se giacessi con un servo del Diavolo.
- Ne sei certa?
- Sono la pupilla dei monaci, padre. Ho per caso la faccia di una donna che farebbe un’affermazione simile senza esserne certa?
- Io non sono in grado di sedurre, Judith. Non è affar per me, la seduzione… con Beitris non vi è stato bisogno, in quanto lei sembrava già sapere cosa volessi, e si è prestata a ciò, un po’ per pietà, un po’ per sfogo a sua volta, essendo imprigionata e impossibilitata a vedere chiunque.
- Lascia fare a me – lo rassicurò lei, per poi alzarsi in piedi. - Preferenze? – gli domandò casualmente, prima di allontanarsi.
- Che cosa…?
- Preferenze fisiche? – lo stuzzicò lei, vedendolo imbarazzarsi.
- No! Non mi importa.
- Bene. Ci penso io.
Padre Craig la vide avvicinarsi ad alcune locandiere e iniziare a conversare con loro.
Dopo alcuni minuti, che padre Craig trascorse a fissarla assiduamente parlare con quelle donne, temendo che qualcuno lo avrebbe scambiato per un maniaco, Judith sparì nel retro Taverna.
Il giovane prete la attese per una quantità di tempo che gli parve infinita, iniziando a farsi prendere dall’agitazione e dal pentimento per aver deciso di acconsentire.
Cominciò a chiedersi come fosse possibile trovare un ragazzo disposto a fare una cosa simile così, all’improvviso, senza neppure conoscerlo.
Venne invaso dai dubbi, fin quando non vide Judith ricomparire e riaccomodarsi accanto a lui come se niente fosse.
- Allora? – le domandò, avendo già paura della sua risposta.
- Come sai, questo villaggio è colmo di orfani, tanti maschi, quante femmine, in particolare servi e serve del Diavolo: la maggior parte sono figli di coloro bruciati al rogo o imprigionati, altri sono bastardi non riconosciuti.
Molti di loro riescono a costruirsi una vita grossomodo dignitosa, difatti Rolland ne aveva assunti diversi in passato, facendone degli scavatori della galleria. Tuttavia, molti altri cercano di sopravvivere come possono, senza una casa né una famiglia, raccattando ciò che riescono.
Alcuni di loro si sono uniti alla compagnia di stregoni eremiti, altri sono aiutati e sostenuti dalle locandiere: queste danno loro un pasto caldo, viveri e un tetto su cui dormire, ospitandoli saltuariamente nei sotterranei della Taverna.
Talvolta, in cambio di una coperta in più, di acqua calda o una razione di cibo doppia, le locandiere chiedono loro anche… alcuni piccoli favori. Nulla di arduo, poi sta a loro decidere se farlo oppure no.
- Favori di che tipo..?
- Dare qualche lezione a qualche cliente invadente o maleducato, spillare qualche soldo in più a qualche avventore dalla lingua lunga, intrattenersi con qualcuno di loro… per rubare informazioni o oggetti di valore.
- Un piccolo giro criminale sotterraneo, sostanzialmente, perfetto.
- Non fare il moralista ora, padre. Non fanno nulla di estremo o scandaloso, di certo possiamo chiudere un occhio difronte a qualche furto di poco conto; ad ogni modo tali giri si formerebbero in qualsiasi caso, anche se puniti, in quanto il villaggio è pieno di orfani che farebbero letteralmente di tutto pur di avere un letto caldo in cui dormire. Ho tentato più volte di porre rimedio al problema degli orfani in questo villaggio, ma senza il supporto e il sostegno materiale dei monaci è impossibile per me fare qualsiasi cosa per intervenire concretamente. Quei ragazzi e quelle ragazze sono visti come scarti del villaggio dai “messaggeri di dio”.
- Eppure, tu sei un’orfana, e loro ti hanno preso sotto la propria ala.
- Già. Che fortuna, non è vero?
Ad ogni modo, nonostante si prestino a tali favori, anche sessuali, per ottenere qualcosa in cambio, a loro non piace essere definiti “puttane”. Non offrono all’aria aperta i loro servizi come faceva Imogene, è una cosa del tutto diversa. Come te ne sarai accorto, non vengono viste bene le prostitute qui a Bliaint. In questo caso, ho chiesto ad una locandiera che conosco se potesse chiedere ad uno degli orfani che ospita di farci questo “favore”.
Non mi ha garantito che qualcuno di loro avrebbe accettato, ma ha detto che ci avrebbe provato. Ho garantito per te, rassicurandola sul fatto che sei un giovane uomo buono, non violento, discreto e accorto. Con queste premesse, diversi di loro sarebbero disposti ad intrattenerti per una notte, in cambio di cibo a volontà e acqua calda per una settimana.
Difatti, uno di loro ha acconsentito, e si trova già qui: ti aspetta di sotto, nell’area sotterranea.
Mi ha garantito che terrà la bocca chiusa, nel massimo della discrezione.
- Posso sapere qualcosa in più su di lui..? Non riesco ad andare là sotto, a raggiungere qualcuno che non conosco minimamente, a puro scopo sessuale… non ce la faccio.
- Si chiama Hayden. Ha vent’anni, sua madre è morta di parto e suo padre è stato schiacciato dalle macerie della galleria quando aveva cinque anni. Talvolta consegna anche lettere e pacchi. A detta della locandiera, si intrattiene sia con uomini che con donne, in base a come gli va.
- Judith, io non so se voglio ancora farlo…
- La decisione spetta a te, padre.
In ogni caso, il ragazzo ti sta aspettando.
Quell’ultima frase e lo sguardo penetrante di Judith lo spinsero a prendere coraggio e ad alzarsi dalla sedia.
Si diresse verso la botola che lo avrebbe condotto nell’area sotterranea, senza guardarsi indietro.
Scorgendolo e capendo fosse lui, una locandiera lo accompagnò e gli fece strada.
Giunto nel sotterraneo, padre Craig notò vi fossero diverse candele accese ad illuminare l’ambiente.
- Mi hanno detto che siete uno straniero – una voce chiara, giovane e maschile, gli giunse alle spalle, facendolo sussultare.
Si voltò verso di lui e lo vide a pochi passi da sé. Era un ragazzo dai capelli ricci, biondi cenere, gli occhi scuri, dal taglio affilato, e la pelle chiara. Come il prete immaginava, era un giovane bellissimo.
Sembrava un po’ trasandato, ma il suo corpo non puzzava, anzi, profumava di pulito.
Non era neanche eccessivamente alto: superava padre Craig solo di qualche centimetro.
Il ragazzo lo scrutò, girandogli intorno. – Che ci fa uno straniero qui?
Non sapeva se il fatto che molte caratteristiche fisiche di quel giovane fossero l’opposto di Blake, fosse una cosa positiva o negativa al momento.
Aveva la testa in subbuglio e stava sudando freddo.
Ma il ragazzo gli aveva fatto una domanda, e presto o tardi si sarebbe accorto di trovarsi davanti ad un pulcino impaurito.
- Vi chiamate Hayden, giusto? – gli domandò, cercando di non balbettare.
Lui si fermò e annuì. – E voi?
- Craig.
- Ho accettato solo perché ero curioso. Non sono mai stato con uno straniero. Non aspettatevi che dopo oggi ci saranno altre volte.
Padre Craig tremò per il disagio.
- Voglio chiarire una cosa: non sono una puttana – aggiunse il giovane.
- Lo so.
- Non faccio questo ogni giorno, per guadagnarmi da vivere.
- Non l’ho mai pensato – si affrettò a rispondergli.
- E voi?
- Io cosa?
- Per quale motivo volete fare questo con uno sconosciuto? – gli domandò il ragazzo, incuriosito.
- Sto cercando di indagare la mia sessualità.
- Avete scoperto solo recentemente di essere attratto dagli uomini? – gli domandò annoiato, ponendo le braccia conserte.
- In realtà… me ne sono accorto da un po’.
La verità è che mi sono innamorato di una persona. Tale persona è un ragazzo. È stato lui che mi ha fatto sorgere delle domande sulle mie… preferenze.
Questa è la mia prima volta.
A tale confessione, il ragazzo strabuzzò gli occhi scuri, illuminati vagamente dalla luce delle decine di candele accese.
- Non mi era stato detto… E il ragazzo per cui stravedete?
- Lui… non sa nulla. È ignaro di tutto questo, ed è già impegnato.
- Mi dispiace – disse Hayden, non fingendo neanche di essere interessato alla cosa.
- Non fa niente.
- Allora, da cosa volete cominciare?
Siete voi l’ospite “alla ricerca della sua sessualità”. Scegliete voi – disse il ragazzo, allargando le braccia.
Padre Craig, paralizzato, non seppe cosa fare.
- Preferisco facciate voi. Avete carta bianca – gli disse.
- D’accordo, allora, innanzitutto constatiamo se è solo il vostro amato ragazzo inconsapevole ad essere in grado di farvelo diventare duro.
Nessuno gli aveva mai parlato in modo tanto sfacciato e rozzo. Ciò lo imbarazzò e al contempo, ad una piccola parte di lui piacque.
Hayden iniziò a slacciarsi i bottoni della camicia trasandata che indossava, con lentezza e sensualità.
Quando ebbe finito, lasciò ricadere l’indumento giù dalle braccia, scoprendo le spalle e tutto il torso.
Il torace, l’addome, tutto di lui era ben proporzionato, snello, appetibile. La pelle lattea, priva di imperfezioni, che delineava deliziosamente ogni curva e forma di lui, era quanto mai stuzzicante.
Quando la camicia cadde a terra, padre Craig si concesse di osservarlo più di quanto avesse mai osato con altri, ma il suo contegno era ancora stabile.
Ma quando il ragazzo infilò la propria mano dentro i pantaloni morbidi che gli sfioravano i fianchi e le anche, iniziando a toccarsi, il tutto guardandolo dritto negli occhi, i lombi di padre Craig si infiammarono.
Hayden se ne accorse e, dopo un veloce sguardo al cavallo teso dei pantaloni dell’uomo, alzò ancora gli occhi sui suoi e gli sorrise malizioso.
- Non dovete spogliarvi per forza, se non vi sentite a vostro agio – lo rassicurò Hayden, sfilando la mano dai propri pantaloni.
Padre Craig si sentì rincuorato da quella piccola premura da parte del ragazzo.
- Potete avvicinarvi – lo incoraggiò il giovane, con la stessa voce che avrebbe usato con un bambino.
Nonostante l’ingente differenza di età, il bambino sembrava piuttosto il prete, tra i due.
Si trovava dinnanzi ad un ragazzo che aveva esperienza da vendere, nei rapporti sessuali tra uomini, e che sembrava del tutto a suo agio.
Ciò avrebbe dovuto rasserenarlo, ma gli provocò l’effetto contrario.
Tuttavia, fece come il ragazzo gli aveva detto, avvicinandosi a lui e continuando ad osservare il suo corpo mozzafiato.
Hayden gli prese una mano e se la portò sull’addome piatto.
Padre Craig lo accarezzò, abbandonando la paura a poco a poco, azzardando di più.
Fece scorrere la mano verso il basso, seguendo il percorso vertiginoso che lo avrebbe portato al bordo dei pantaloni.
Con l’altra mano gli circondò la schiena e se lo portò più vicino, saggiando la sua carne sotto le dita.
Quando raggiunse la sua meta, la mano gli si strinse attorno al membro del ragazzo.
A tale tocco, Hayden non ebbe reazioni, se non un piccolo ghigno; mentre padre Craig sospirò, come se avesse appena terminato di scalare una montagna.
Non poteva dire che le sue fantasie non si fossero spinte a tanto con Blake.
Purtroppo, non riusciva a controllare la sua mente (a suo giudizio depravata), e poi, dopo la conversazione avuta con Ephram quel giorno… dopo aver saputo che, in qualche modo, poteva permettersi di fantasticare… si era lasciato andare alla creatività. Non sorpassando mai certi limiti che considerava sin troppo torbidi e conturbanti.
Guardò le iridi del ragazzo, sapendo di risultare ai suoi occhi patetico e tremante.
Ma Hayden, invece di deriderlo, gli accarezzò le guance e lo rassicurò:
- Va tutto bene. Va tutto bene… vi sta piacendo?
- Sì… - rispose padre Craig, iniziando a muovere la mano, accarezzando in maniera più decisa il membro del ragazzo. – E a voi…? A voi sta piacendo?
Hayden chiuse gli occhi e annuì, lasciandolo fare.
Per un istante o poco più, padre Craig si illuse che l’idea di Judith stesse davvero dando i suoi sperati frutti: il ragazzo dinnanzi a sé stava provando piacere, padre Craig stesso stava provando piacere e stava godendo del piacere che stava provocando a qualcuno che non fossero i suoi due amori impossibili.
Poi, in un momento, tutto si sgretolò.
Proprio nell'istante in cui i loro movimenti stavano prendendo velocità, divenendo più scattanti e intermittenti; proprio quando la bocca di padre Craig aveva iniziato a succhiare voracemente il collo del ragazzo ansimante, mentre continuava a toccare il suo sesso con veemenza, il giovane prete iniziò involontariamente ad immaginare l’unica persona a cui avrebbe voluto davvero fare quelle cose.
Nonostante provasse a non pensarci, era come una dipendenza: toccare, saggiare, usando mani, lingua e tutto ciò che il suo corpo gli dava a disposizione, portava i suoi sentimenti e le sue voglie a dipingersi nella mente quella persona.
E no, ora stava andando troppo oltre.
Sentiva che se avesse portato a termine quell’atto sessuale, ciò lo avrebbe condotto alla rovina, sia lui, che l’ignaro ragazzo dinnanzi a sé.
Hayden aveva le dita strette alle sue spalle e, in un impeto di desiderio, gli aveva infilato a sua volta la mano dentro i pantaloni, toccandolo.
E di nuovo, dinnanzi al giovane prete non c’era Hayden, bensì un giovane uomo decisamente diverso da lui.
Provò con determinazione a scacciare via l’immagine di Blake e di concentrarsi solo sul ragazzo dinnanzi a sé, fidandosi solamente dei suoi occhi.
Ciò non portò ai risultati sperati: Hayden continuò a muovere la mano sul membro del giovane prete, il quale si era improvvisamente afflosciato.
Il ragazzo non demorse e tentò ancora, facendo diventare l’atto quasi doloroso per il giovane prete.
Tutto ciò era controproducente, e prima se ne fosse accorto, più facile sarebbe stato fermarsi.
- Basta… basta, basta! Smettiamola, per favore! Non ce la faccio! – esclamò sull’orlo delle lacrime.
- Cosa vi è successo? – domandò il ragazzo, fermandosi come gli era stato chiesto.
- Non ce la faccio, mi dispiace. Pensavo fosse più facile… pensavo di farcela…
- Non riuscite a farlo senza pensare a lui? – dedusse Hayden.
Gli occhi di padre Craig e il suo sguardo disperato parlavano per lui.
A ciò, il ragazzo gli fece una proposta: - Allora pensate a lui. Continuate a pensare a lui.
- No, non voglio.
- Siete qui per conoscere meglio il vostro corpo o no?
- Non così… vi sto usando come un oggetto...
Qualcosa che ho fatto anche con Beitris…
- Non mi importa. Non siete né il primo, né l’ultimo.
- Ma almeno gli altri guardavano voi mentre vi usavano a loro piacimento…
Io non ci riesco, come vedete.
- Pensate a lui – insistette il ragazzo, facendo scontrare la schiena dell’uomo con il muro e riprendendo a muovere la mano sul suo membro. Padre Craig tentò labilmente di opporsi, lasciandosi andare quasi subito.
A ciò, non combatté più le sue fantasie, facendole scorrere liberamente.
Chiuse gli occhi e, nel giro di qualche secondo, il suo sesso tornò duro come il marmo.
Nel giro di altrettanti pochi secondi, il suo seme sgorgò fuori, sporcando la mano del ragazzo che aveva continuato a muoverla su di esso.
Hayden si osservò la mano sporca, mentre il giovane prete ansimava, sudato e accaldato, cercando di riprendere fiato.
Le stesse condizioni in cui si ritrovava dopo aver consumato un atto sessuale con Beitris.
- Non è possibile… - sussurrò il ragazzo, attirando l’attenzione del prete, il quale desiderò sotterrarsi seduta stante. – La vostra è una causa persa. Dovete dirglielo. Dovete parlare a quel ragazzo al più presto, se lui riesce a farvi quest’effetto. Non ho mai visto una mera fantasia avere così tanto potere su un uomo.
Detto ciò, Hayden si ripulì la mano, si rinfilò la camicia e uscì dal sotterraneo.
 
Ambrose e Devon si ritrovarono a casa del primo dopo aver chiacchierato un po’ alla Taverna.
Avevano continuato a parlare, per poi incollare le bocche l’una all’altra, senza accennare nulla in merito.
Non sapevano esattamente perché lo stessero facendo.
O forse, le spiegazioni reali a tale atteggiamento erano troppo difficili da accettare:
Devon non aveva ancora una promessa, e aveva un immenso bisogno di sfogare gli impulsi sessuali trattenuti che i suoi quindici anni portavano con sé, motivo per cui andava bene chiunque; mentre Ambrose stava cercando disperatamente e inutilmente di provare meno dolore per la perdita di un amore che lo aveva fatto quasi impazzire.
Essendo più esperto di lui, Ambrose lo guidò nell’atto, incollando il corpo dell’amico al muro, continuando a baciarlo, cercando di non pensare a nulla.
Devon, invece, era parecchio preso da quel bacio nuovo, inaspettato e vorace.
Motivo per cui si accorse subito che Ambrose fosse in un altro mondo, totalmente estraniato, mentre lo baciava e toccava.
Fu in quel momento che si staccò lievemente da lui, col fiatone, spingendolo per le spalle. – A cosa stai pensando? – gli domandò d’istinto, pentendosene subito dopo. Poteva immaginare benissimo a chi  Ambrose stesse pensando.
L’idea gli fece rivoltare i lombi, ma non per i motivi giusti.
- Facevi queste cose anche con lui…? – gli domandò, privo di tatto.
Ambrose si allontanò da lui, guardandolo in cagnesco, come se avesse appena bestemmiato il Creatore. – Non osare nominarlo. Mai, Devon.
- D’accordo, scusa. Non dovevo – si scusò, intristendosi lievemente, per poi farsi venire in mente un’idea. – A casa mia ho un intruglio che io e gli altri ragazzi ci siamo fatti dare da una strega – gli sussurrò, eccitato all’idea.
- Che intruglio…?
- Ricordi quando ti dicevo che in molti servi del Creatore si fanno fare degli intrugli dagli stregoni, che permettono loro di assumere i tratti e i lineamenti di qualcun altro per qualche ora?
L’idea stava già rivoltando lo stomaco ad Ambrose.
- E quindi…?
- Beh, me ne sono fatto fare uno anche io, in previsione di un momento come questo.
Pensavo di farlo con una ragazza, però. Le avrei fatto bere l’intruglio, in modo da avere l’illusione di starlo facendo con una serva del Diavolo.
Ad ogni modo, non importa, possiamo usarlo anche ora.
- Non ce ne è bisogno, Devon.
- Non ti incuriosisce nemmeno un po’? Guarda che non devi berlo tu… lo assumerei io. Così sembrerei più gradevole ai tuoi occhi.
- Devon… non è necessario – sospirò Ambrose già stanco e pentito.
Deluso e offeso da quell’atteggiamento, Devon iniziò a far riemergere una sopita rabbia che nutriva nei confronti del suo vecchio amico.
All’improvviso, il suo sguardo cambiò. – E se ti dicessi… che l’intruglio che mi sono fatto fare ricalca i lineamenti di Folker?
Ambrose strabuzzò gli occhi, avvertendo una furia traboccante mista a una dolorosa e involontaria eccitazione sgorgargli da ogni poro, ma si trattenne.
- Non dire idiozie, Devon.
Quel tipo di intruglio funziona solo se la persona a cui si vuol assomigliare si presta all’atto, e si lascia “rubare” i lineamenti. Serve per forza il suo consenso, motivo per cui è impossibile che tu ti sia fatto fare un intruglio a sua immagine! – esclamò stringendogli il collo con la mano, ma non abbastanza forte da strozzarlo.
- Perché ti agiti tanto? – lo stuzzicò ancora crudelmente il ragazzo. – E se invece stessi dicendo la verità e tu stessi sprecando un’opportunità irripetibile? Potrei somigliare a lui… sarebbe un’esperienza folle.
- Non hai un briciolo di sanità e di raziocinio in quella testa vuota?! Va’ via da casa mia! – esclamò rabbioso, stringendogli il collo più forte.
- Sai, quel giorno, nel boschetto, quando tu sei venuto a salvarlo… lo stavamo per spogliare… l’ho stretto a me per un po’ e.. Dio mi perdoni… - sussurrò in estasi. – Era talmente bello… la sua pelle era così liscia e vellutata che sembrava di star toccando una ragazza… non ho mai provato una sensazione tanto idilliaca… è davvero, davvero un peccato se ne sia andato.
- Sei un maledetto depravato!! – esclamò Ambrose, animato da una ferocia che non aveva mai provato prima. Continuò a stringere le mani intorno al collo di quella bestia, tanto forte da portarlo a tossire e a muoversi spasmodicamente in cerca d’aria.
Lo stava soffocando. Gli sarebbe bastato stringere ancora qualche istante e gli avrebbe tolto la vita con una facilità spaventosa.
Solo la voce di sua sorella fuori dalla porta della sua camera lo distolse da ciò che stava facendo e lo portò a fermarsi.
Liberato dalla presa violenta di Ambrose, Devon cadde a terre e tossì, spaventato.
Non appena ebbe la forza di rialzarsi in piedi, uscì dalla camera e poi dalla casa di Ambrose, correndo a perdifiato.
Ambrose lo lasciò fare.
Restò fermo e immobile, in trance, mentre sua sorella lo raggiungeva, chiedendogli spiegazioni.
Lui non la udiva.
Udiva solo il battito frenetico del suo cuore distrutto e frantumato, desideroso solo di raggiungere una pace che gli era malignamente negata.
 
 
 
 
 

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Capitolo 59
*** Io, che prima ero la mia propria padrona ***


Io, che prima ero la mia propria padrona

 
La puzza di morte imperava e brulicava nel campo di battaglia.
Come tanti piccoli vermi, i sopravvissuti si sparpagliavano qua e là, distrutti, feriti, incuranti di controllare se vi fosse qualcuno di ancora vivo tra quelle cataste di corpi sparsi ovunque, marcenti. Volevano solo tornare a casa. Ma non potevano.
Condannati a restare in quel paese straniero, in cui venivano visti niente più che invasori, sadici, approfittatori avidi e in cerca di gloria.
Forse, non avevano tutti i torti, le genti di quei luoghi appartenenti all’estremo est di un luogo chiamato “Asia”.
Non erano giunti lì con l’intenzione di imparare qualcosa da loro, dei loro usi, della loro cultura, no.
Denaro. Era il denaro che li aveva spinti a viaggiare su una nave per più di un mese, il denaro che serviva loro per comprare altre armi, rifornimenti per le prossime guerre da combattere.
Gli imperatori che popolavano quelle terre, apparentemente, erano pieni d’oro. Possedevano più oro di quello che c’era in tutto il continente occidentale, da cui il ragazzo proveniva.
Lontano, totalmente e dolorosamente diverso.
Il ragazzino si guardò intorno, respirando affaticato, ma eretto, ancora in grado di reggersi in piedi, di reggere una spada tra le mani, di non soccombere al peso dell’armatura appesantita dal sangue di cui era impregnata.
Osservò tutti i corpi sparsi sul terreno arido di quel campo ingrigito. Il cielo sopra di loro era altrettanto grigio.
Riconobbe i volti tumefatti e sfigurati di alcuni suoi compagni d’arme, stesi a terra senza vita, i quali non si aspettavano di certo tanta ferocia e brutalità.
La guerra era spietata, atroce.
Ma lui, lui era ancora in piedi, nonostante fosse tra le reclute più giovani presenti nel suo esercito.
Chissà per quale motivo, Dio lo stava proteggendo. Lo stava proteggendo anche se non credeva più in lui.
Dopo tutto ciò che aveva visto su quei campi di battaglia, anche un ragazzino di dodici anni può smettere di credere in Dio.
La temperatura era più secca, rispetto a casa sua.
Improvvisamente, ai suoi occhi si palesò una vecchia donna.
Era una nativa del luogo, così diversa da lui nei tratti, da sconvolgere, come lo erano tutti.
La donna, la creatura, era ricurva su se stessa. Camminava per il campo di battaglia che odorava già di putrefazione, fermandosi ogniqualvolta incontrava un corpo sul cammino, nonché molto spesso.
Si abbassava su ognuno di quei giovani cadaveri maschili, li spogliava dell’armatura all’altezza del ventre, li sventrava e rubava le loro viscere, strappandole via e infilandosele dentro una saccoccia.
Li sviscerava con la stessa facilità con cui si sviscerava un pesce dopo una lunga giornata di pesca.
Nel suo volto non c’era nulla. Nessun sentimento, nessuna espressione, mentre faceva ciò che faceva.
Accadevano cose strane in quel continente, il ragazzino oramai ne era avvezzo, ma quella che stava vedendo era in assoluto la più strana di tutte.
Ella aveva un abito nero, fatto di stracci, che ricadeva sul suo corpo grosso, avvizzito, ricurvo, appesantito. Sopra i capelli lunghi, neri, ingrigiti, simili a pagliericcio, indossava un velo grigio, somigliante a quelli che si indossavano per i lutti.
Il ragazzino non riuscì a guardarla bene in volto da quella distanza, ma si accorse che aveva gli occhi talmente fini e a mandorla da sembrare invisibili, quasi due fessure vuote in un volto terribile, che rispecchiava l’immagine della morte. Le labbra sottilissime e serrate, la pelle bianca spettrale, gli zigomi alti e grinzosi.
La donna, all’improvviso, si voltò verso di lui mentre stava sviscerando l’ennesimo dei suoi compagni morti in battaglia, accorgendosi di essere osservata.
Il ragazzo trasalì lievemente, rendendosi conto di essere l’unico a guardarla.
La vecchia finì di mettere anche quelle viscere dentro la sua saccoccia, poi si rialzò in piedi e si avvicinò a lui lentamente, portando con sé un vento funereo, putrido, di desolazione.
Egli si accorse che, nonostante fosse solo un ragazzino, era comunque alto quanto lei, specialmente a causa della posizione ricurva del corpo della donna.
- Che hai da guardare, Occhi tondi? – gli domandò lei, con voce rauca e rabbrividente, nella sua lingua ardua, diversissima da quella del ragazzo, incomprensibile. Inoltre, la “Donna che rubava le viscere degli uomini” possedeva una cadenza duramente dialettale.
Il ragazzino non fece una piega, né mostrò alcun segno di paura: aveva visto talmente tanta atrocità e bestialità in quel luogo, da non riuscire a sorprendersi più.
Ebbe l’ardire di guardarla negli occhi, quegli occhi che erano il contrario dei suoi, allungati all’inverosimile, infossati, come quelli di tutti gli orientali.
Per tale ragione gli orientali avevano affibbiato loro quel nomignolo: “Occhi tondi”. Per loro erano questo, gli occidentali: dominatori incoscienti, vanagloriosi dissacranti, dagli occhioni grandi e fintamente ammalianti.
- Nulla – le rispose lui, abbozzando una risposta nella lingua di lei. Erano in oriente oramai da quasi un anno, dunque era naturale che la maggior parte di loro avesse dovuto un minimo interfacciarsi e imparare quella impronunciabile lingua asiatica, almeno l’indispensabile. Niente a che fare con la dolce lingua comune che parlava nella sua terra, in occidente.
Sapeva che la sua pronuncia dovesse apparire alla donna come inascoltabile.
- Sai chi sono? – continuò la vecchia, mostrando la sua bocca colma di denti marci e grigi, ad ogni parola che pronunciava.
- Mio padre mi raccontava delle storie, da piccolo. Su una strega, di nome Erichto, che sviscerava i cadaveri degli uomini caduti in battaglia. Rubava i loro organi e se li mangiava.
La vecchia lo osservò, osservò ogni dettaglio di lui, come cibandosene. O forse pregustando il buon sapore che avrebbero avuto anche le sue, di viscere.
Gli occhi del ragazzo erano due macchie di colore limpide, grandi, turchesi come un cielo che si trovava lontano da lì.
Le uniche due punte di colore in quel grigio spettrale che li circondava.
La sua giovane pelle era escoriata in alcuni punti, una ferita sul labbro secco, un taglio sulla fronte, lividi sparsi sulle mascelle.
I capelli erano chiari. Ma non irradiavano luce propria come gli occhi. Erano spenti, invece, sporchi di sangue non suo, e gli ricadevano sulla fronte, sul viso, in maniera scomposta.
- La tua pronuncia della mia lingua è molto sporca, Occhi tondi. Ma è molto migliore di quella di tutti i tuoi fratelli e compatrioti – commentò la donna. – La strega di cui ti parlava tuo padre… era una strega asiatica?
- Non lo so.
- Quanti anni hai?
- Dodici.
- Non sembri un bambino. Perché combatti, se sei un bambino?
- Volevo combattere.
- Perché vuoi togliere la libertà ad altri?
Stava per rispondere che non avrebbe mai voluto togliere la libertà a nessuno.
Ma era proprio quello che le sue truppe stavano facendo, lì in Asia, in quei villaggi dimenticati da dio.
- Cos’altro diceva tuo padre riguardo la strega a cui piace mangiare gli uomini? – lo incalzò la creatura.
- Che era una creazione del Demonio. Che solo il Demonio può creare un essere simile.
- Qui non esiste nessun “demonio”.
Non esiste il vostro dio.
Il vostro dio non vi aiuterà.
Qui non esistono angeli.
Né diavoli.
Qui abbiamo altre divinità, molto più potenti di quanto crediate.
Fareste meglio a tornarvene da dove siete venuti, Occhi tondi.
Porti una croce appesa al collo?
Il ragazzo negò con la testa in risposta.
- Allora il tuo corpo è ancora incontaminato.
Non c’è motivo che io mi nutra di te così presto.
Il ragazzino la scrutò a sua volta, senza timore, ma al contempo senza spavalderia, né ombra di superiorità.
Aveva una forza dentro, che non passò inosservata alla creatura.
Fu in quel momento che la sua conversazione con quell’essere forse umano o forse no, venne interrotta dalla supponente voce del suo comandante che lo chiamava a sé a distanza:
- Von Hohenheim! Von Hohenheim, dove diavolo sei?? Von Hohenheim, se sei ancora vivo, vieni qui!
Il ragazzo si voltò verso la direzione da cui proveniva la voce, ma non si mosse.
- Ti stanno cercando? – gli domandò la donna asiatica.
- Sì.
- Mi farete vostra schiava?
- No – le disse lui, pensando che fosse quello che voleva sentirsi dire.
- Perché no? Avete fatto prigionieri tutti, nei villaggi circostanti.
Hai paura di me, Occhi tondi?
Non posso perdonarti, se ne hai.
Parlava veloce, raucamente, con quel dialetto stretto che non si sforzava di rendere comprensibile, ma il ragazzo la comprese comunque.
- Von Hohenheim! Ruben von Hohenheim!
- Ruben!! Ruben, dove sei?? Sei vivo?? Ci stiamo ritirando alla base! – la voce dei suoi compagni d’arme si unì a quella del comandante, e si facevano sempre più vicine.
La vecchia sporse i polsi raggrinziti nella sua direzione, offrendosi. – Legami. E portami dai tuoi superiori. Non posso essere dannosa, se legata.
- Non voglio legarti, né portarti con me.
- Legami, ho detto – insistette la donna. – Se mi lascerai libera, troverò il modo di uccidere tutti i tuoi compagni invasori, nel sonno. Non si accorgeranno neanche di non avere più le viscere. Lascerò te per ultimo.
- Perché vuoi che io ti porti con me?
- Perché è il mio destino, Occhioni.
Nessuno decide del destino di un uomo a parte gli spiriti.
- Ruben!! – un ennesimo richiamo li riscosse.
- Lega il mio fato al tuo, Ruben – pronunciò la donna, con voce sempre più imponente e oscura. Si lasciò scivolare il nome di lui sulla lingua, incorretto, sporco, impreciso, cercando di mimarlo per come lo aveva udito dalle voci che stavano richiamando il ragazzo. – Poiché siamo già legati, che tu lo voglia o no.
 
- Comandante – disse Ruben entrando nella tenda, notificando al maggiore la sua presenza, come era solito fare. – Mi avete fatto chiamare? – domandò, mettendosi sull’attenti.
Non aveva neanche avuto il tempo di lavarsi via il sangue di dosso e i vestiti sudici, dopo la battaglia appena avvenuta.
- Oh, eccoti, ragazzo – rispose il comandante, firmando alcune pergamene, seduto dietro un modesto tavolino. – Chi era la donna con cui stavi parlando poco prima che ti trovassimo?
- Una vagabonda che vagava sul campo di battaglia, una donna del luogo.
- E perché l’hai portata con noi senza il mio consenso?
Se avesse dovuto dirgli la verità a riguardo, il comandante non gli avrebbe creduto.
- Una schiava in più è pur sempre manodopera in più.
- Oggi non è giornata di saccheggiamenti, von Hohenheim. Ad ogni modo, oramai è qui nel nostro campo, quindi la terremo con noi. Non so come tu abbia potuto pensare che avrebbe potuto farci comodo, dato che è una vecchia decrepita – commentò scocciato. – Ad ogni modo, sei uno dei più giovani del mio esercito e sei ancora in vita, nonostante tutte le gravose battaglie che abbiamo dovuto affrontare negli ultimi mesi. Questo ti rende una delle risorse migliori che ho. Che fai, non mi ringrazi per tutte queste lusinghe?
- Grazie, comandante – rispose freddamente il ragazzino.
Il comandante si stravaccò sulla sedia e si tirò indietro i capelli, manifestando la sua stanchezza.
- Questa sera vi sarà una cena con il capo del villaggio Koon. È un villaggio molto ricco, il capovillaggio ha già fatto allestire un bel banchetto per noi comandanti che tratteremo faccia a faccia con lui.
- Bene. Non vedo come ciò possa concernere me, io sono ancora una recluta – rispose atono. Voleva solo tornare nella sua tenda. Lavarsi, pulirsi di dosso tutto il marciume che lo ricopriva, e dormire per due giorni interi, fino alla prossima battaglia.
- Il tuo atteggiamento incurante mi sta facendo domandare se ho preso la decisione giusta… - sbuffò l’uomo, e Ruben lo guardò interrogativo. – Tu sarai presente, von Hohenheim. Ci farai da coppiere.
- … coppiere? I capi villaggio asiatici sono pieni di schiavi, perché dovrei fare io il coppiere..?
- Dovresti ringraziarmi, ragazzino. Lo sto facendo solo per te.
- Per me?
- Sì, esatto, per te – sottolineò il comandante.
- Sono certo che il capovillaggio amerebbe di più essere circondato da belle fanciulle che gli servono i pasti, non certo da me.
- E chi te lo ha detto? Come se non fossi a conoscenza dei “curiosi” costumi che hanno, in questa terra dimenticata da Dio! – disse con sdegno. - Gli asiatici hanno un debole anche per i ragazzini, maschi, soprattutto se occidentali.
- Mi volete presente a quel banchetto per allietare gli occhi del capovillaggio? – domandò contrariato il ragazzo.
- Sei impossibile, sai? – rispose l’uomo, rassegnato. - Sei un bravo combattente, un domani potresti essere messo al comando. Secondo te per quale motivo ti voglio presente lì, eh? Se voglio riporre le mie aspettative su di te, voglio addestrarti come posso, già alla tua tenera età. Facendo da coppiere, potrai ascoltare i nostri discorsi e comprendere come funziona la politica e la diplomazia – gli spiegò. - Se avessi avuto la faccia a forma di sorcio come quella di Thomas, avresti potuto snervare quel borioso ricco asiatico anche solo stando fermo, a quel banchetto. Ma, fortunatamente, non ce l’hai. Quindi, il capovillaggio non avrà nulla da dire se sarai tu ad affiancare la servitù femminile nel servirci da bere. Questi asiatici sono una razza inferiore, è del tutto normale che ammirino l’aspetto fisico di noi occidentali; insomma, li hai visti? Saranno sempre attratti da un occidentale, femmina o maschio che sia. Quindi ora togliti quell’armatura, vatti a ripulire, e mettiti qualche cencio pulito e rispettabile addosso: gli orientali sono molto attenti alla pulizia. Hanno case fatte di mattoni, hanno una quantità di oro e ricchezze che sfamerebbe venti dei nostri villaggi, sono maniacalmente attenti all’immagine, però, al contempo… credono che un semplice temporale sia la manifestazione dei loro spiriti che parlano! Non hanno un dio, hanno credenze pagane e primitive, sono selvaggi. Sono una contraddizione vivente!
Uscito dalla tenda del comandante, Ruben voltò gli occhi al cielo e si accorse che stesse tuonando. Lampi e tuoni squarciarono quel velo grigio opaco, e gli schiavi asiatici che si portavano dietro, di accampamento in accampamento, urlavano e piangevano ogni volta che accadeva.
Per loro indicava cattivo presagio.
La sera giunse troppo velocemente, non lasciandogli nemmeno il tempo di riposarsi un po’.
Uno dei suoi compagni d’arme gli offrì, senza farsi scoprire, una di quelle strane stecche da fumare, asiatiche, che riuscivano a far svanire il sonno e a ridonare le forze in men che non si dica.
Grazie a quella poté darsi una parvenza di concentrazione e di serietà, mentre serviva da bere ai comandanti del proprio esercito, e al padrone di casa, nonché il capovillaggio Koon.
Ma mentre gli uomini di potere parlavano, il ragazzino non riuscì a non pensare alla strega che aveva incontrato quel pomeriggio, e che l’aveva costretto a schiavizzarla.
Un tuono potentissimo squarciò il cielo, zittendo le chiacchiere di tutti i presenti al banchetto.
Una ragazza, una delle figlie del capovillaggio, si inginocchiò e iniziò a pregare in una lingua antica, che non era né asiatica, né occidentale.
Un velo rosso trasparente le copriva il bel volto dai tratti fortemente orientali, mentre intonava quelle suppliche, spaventata.
- Alzati in piedi, Meyin – le ordinò duramente il capovillaggio, nella propria lingua.
- Gli spiriti sono adirati, padre! – esclamò lei rialzandosi in piedi.  
- Taci e vattene da questa sala.
- Gli spiriti sono adirati perché una magia sconosciuta è penetrata nella nostra terra!
- Zitta! – la rimproverò il capovillaggio alzandosi in piedi, rivolgendole uno sguardo di fuoco.
A ciò, ella abbassò il volto in segno di sottomissione.
Dopo di che, la ragazza si voltò a guardare Ruben, il quale era rimasto immobile, in piedi, nella sua posizione. Gli si avvicinò quatta e accostò le labbra al suo orecchio. – La colpa è tua.
Ruben si voltò verso di lei, spaesato, chiedendo mutamente spiegazioni che non ricevette.
Di conseguenza, la sua attenzione venne attirata da alcuni rumori provenienti dall’esterno della struttura.
- Tu – lo chiamò il capovillaggio, guardandolo a distanza. – Va’ a controllare cosa succede fuori.
Ruben obbedì, si congedò e uscì all’esterno.
Una pioggia a vento lo colpì, in faccia e sui vestiti, facendo sbattere la porta dietro di sé.
Camminò sul fango, cercando di capire da chi provenissero quei lamenti, fin quando non intravide due dei suoi compagni d’arme, reclute come lui, avventarsi e litigarsi una ragazza del luogo, probabilmente una delle figlie del capovillaggio.
- Bert, Garren – li richiamò avvicinandosi, attirando la loro attenzione.
La povera ragazza che si stavano contendendo strillava e piangeva, con i vestiti strappati e graffi dappertutto.
- Ehi, Ruben, vuoi favorire?? – gli domandò Garren con un sorriso sornione tra le labbra. – Non sono belle come le nostre, ma devi ammettere che questa qua è graziosa!
- Non vi bastano tutte le donne che abbiamo fatto schiave da altri villaggi? Ora volete molestare anche le ragazze libere?
- Sempre a lamentarti tu, von Hohenheim! Dimmi, fai lo schizzinoso perché ti preservi per la tua futura sposa? Cos’è, nel villaggio da cui provieni siete tutti casti? – lo provocò Garren.
- Guarda che non inganni nessuno! Parli così perché non hai mai assaggiato una donna, altrimenti faresti esattamente come noi, idiota – aggiunse Bert, stringendo le braccia della ragazza e strattonandola.
Quei due ragazzi avevano la sua età. Erano solo dei ragazzini.
Eppure, riuscivano senza problemi ad avere la meglio su una ragazza del luogo più grande di loro.
Questo, solo perché le donne asiatiche erano tutte minute, tanto da sembrare delle bambine, talvolta.
Ruben, senza battere ciglio, tirò fuori un pugnale che portava sempre con sé sotto i vestiti, puntandolo alla gola del suo compagno d’arme.
Bert pietrificò, emettendo un piccolo gridolino di spavento. – Non lo faresti…
- Non mi piace come trattate le persone del luogo – rispose semplicemente Ruben, spingendo la lama sulla gola del ragazzo, mentre Garren era paralizzato a sua volta.
- Lasciatela andare.
Se avete voglia di fottervi le femmine libere, allora trovatevi qualche pecora e scopatevi quella – ordinò categorico.
- Sei un pazzo, von Hohenheim…
- Tutto questo per una maledetta orientale… andiamo via, Bert, dai.
I due si allontanarono con la coda tra le gambe, tornando alle loro tende.
- Immagino che se tuo padre ti trovasse qui, seminuda, ti punirebbe molto peggio di quanto avrebbe punito i miei famelici compagni – commentò il ragazzino, rivolto alla fanciulla, la quale giaceva a terra tremante, sconvolta e semisvestita. Aveva utilizzato la lingua asiatica, in modo che lei potesse comprenderlo. – Mi ha chiesto lui di venire a controllare cosa stesse succedendo qua fuori. Potrebbe venire a controllare in prima persona, perciò ti conviene rivestirti al più presto e tornartene in casa - nella sua voce c’era una fredda gentilezza, pragmatica ed essenziale.
- Perché sei venuto in mio soccorso? – gli domandò lei, in un sussurro.
- Non c’è un perché – rispose Ruben, stanco di parlare, accorgendosi che avesse appena smesso di piovere. Lo trovò strano.
Un giramento di testa la colpì in pieno, facendolo barcollare, fino a spingerlo a sedersi a terra, sul fango, per non perdere l’equilibrio.
- Ti senti bene? – gli domandò la fanciulla.
- Sì… - le rispose, cercando di mettere a fuoco l’immagine di lei, che stava divenendo appannata. – Ti ho detto di andare via di qui… se tuo padre ti vedesse, ti punirebbe. È così che funziona qui, no? Quando un uomo dissacra la verginità di una donna, la colpa ricade sempre sulla donna.
- Nella tua terra funziona diversamente?
- Non lo so, non ne sono certo. Sono due anni che non torno nella mia terra.
- Trovi ingiusto che una donna venga punita per un’azione che non ha commesso?
- Sì. Non capisco cosa mi succede… non riesco a vederti, né a sentirti bene.
- Ti manca la tua terra, Ruben?
- Cosa…?
- Ti manca la tua terra?
- Sì… - rispose affaticato, cercando di rialzarsi in piedi, ma senza successo. – Che cosa mi hai fatto…?
- Perché pensi che la colpa sia mia? – domandò la fanciulla, avvicinandosi a lui.
- Appena mi sono avvicinato, ho cominciato a non sentirmi bene. Io ti ho salvata da quei due. Perché mi stai punendo…?
- Mi hai salvata…? Che cosa avete fatto, alla mia terra, voi invasori…? Quante altre donne innocenti hanno violentato e massacrato i tuoi compagni d’arme? Quanti valorosi soldati, fratelli, figli, mariti, padri hai ucciso nel campo di battaglia, Ruben? Quanti, alla tua giovane età??
Quest’isola è mia, è nostra.
Ci venne dagli spiriti dei nostri antenati, e voi ce l’avete presa.
Appena arrivati, ci tenevate buoni, vicino al cuore.
Con le vostre false promesse, ci davate il vostro cibo dolce, acqua e mirtilli.
Ci insegnavate a nominare la luce, nella vostra lingua.
E noi vi amavamo di conseguenza, mostrandovi la nostra fiducia e tutte le qualità di questa isola:
Le sorgenti d’acqua dolce, i fossi d’acqua salata, i luoghi sterili e quelli fertili.
Maledetti noi per averlo fatto!
Che tutti gli incantesimi dell’isola vi cadano addosso!
Perché ora io sono tutti i sudditi che avete.
Io, che prima ero la mia propria padrona.
Ruben sgranò gli occhi, sconcertato e meravigliato insieme, da quelle parole che gli avevano fatto tremare la schiena e il cuore. Poi, un dubbio terribile gli attraversò la mente offuscata. – Sei tu… sei la strega che rubava le viscere agli uomini… - e non appena lo disse, la vista gli ritornò perfettamente funzionante, e la sensazione di offuscamento svanì.
Tentò di rialzarsi in piedi, ma la donna gli fu addosso prima che potesse muovere anche solo un muscolo. Ella era ritornata alla sua forma originale: vecchia, grinzosa, grossa, terrificante.
Lo inchiodò a terra, incastrandogli i piedi nel fango e trattenendogli i polsi sopra la testa, con le dita di una sola mano.
- Non ribellarti, Occhi tondi. Non servirà.
- Cosa vuoi da me?
- Me lo domandi con coraggio. Un coraggio che può facilmente diventare sfrontatezza, in un attimo.
- Hai scelto la persona sbagliata… io non ho potere.
Io non ho il potere di liberare le tue genti, io non decido nulla qui.
Non ho mai desiderato sopprimere una popolazione.
- È un po’ tardi per le scuse, ragazzo.
Oh, se il tuo comandante ti vedesse in queste condizioni… piegato e spezzato da una donna.
Ti sei prestato a questo.
Se davvero vuoi far cessare la strage che state compiendo nella nostra terra… dovrai agire in prima persona.
- Ti ho già detto che non ho potere!
- Allora createlo, il potere!
Sei stato scelto da qualcuno oltreoceano per questo!
Gli spiriti ci riferiscono solo ciò che può andare a nostro vantaggio…
Devi sapere che qualcuno ti sta cercando.
Qualcuno che ha un tremendo bisogno del tuo aiuto – pronunciò la donna, mentre tra le sue mani prendeva consistenza una pergamena arrotolata. – Una magia sconosciuta l’ha fatta arrivare fin qui, tra le mie mani.
Ruben sgranò gli occhi. – È per me?
- Per chi altro dovrebbe essere, Occhi tondi?
- Dammela. Potrebbe avermela mandata mia madre. È da tempo che non scrive. Era malata quando mi sono arruolato…
- È di tuo padre.
- Di… mio padre? – ripeté Ruben stupito.
- La cosa ti sorprende?
- Non ci siamo lasciati in buoni rapporti, io e mio padre.
- A tuo padre serve urgentemente il tuo aiuto.
- Cosa gli è accaduto?
La vecchia lo lasciò andare, ma allontanò la lettera da lui.
- Un passo alla volta, Ruben.
 Nella lettera, tuo padre ti esorta a tornare in occidente.
Ed è esattamente ciò che farai: tu convincerai il tuo comandante e tutto l’esercito di invasori che affliggono questa terra a tornarvene nella vostra patria, a liberarci per sempre.
Li convincerai… altrimenti sarai morto prima di affacciarti ai tuoi tredici anni.
Finirai tra le mie fauci e non vedrai più la luce del sole:
Ho una gran voglia di mangiarti gli occhi.
Quegli occhi grandi, chiari e corposi.
Ma credo che inizierò dai piedi. La parte che amo di meno. Così sarà tutto un crescendo, di succulento piacere olfattivo e gustativo…
Ruben era disgustato dalle parole che uscivano dalla bocca della strega.
- Mi hai sentito bene, Occhi tondi?
Farai esattamente ciò che c’è scritto nella lettera, e te ne andrai dall’Asia, con tutte le tue genti.
Il nostro Fato è legato, Ruben von Hohenheim.
La sorte dei miei consanguinei è nelle tue giovani mani – concluse, ponendogli la pergamena tra le dita, facendo tuonare il cielo.
- Chi sei tu…? – le domandò il ragazzo, allibito, guardandola negli occhi funerei senza paura.
Ella gli rivolse un sorriso tremendo in risposta. – Mi piace il nome che voi Occhi tondi date alle cose. Quando, nel tuo letto, ricorderai qual è il volto della donna che popola i tuoi incubi più tremendi… chiamala pure Erichto.
 
 
- Sta’ fermo così, Ioan… - sussurrò Judith avvicinandosi maggiormente alla fronte del bambino, per tagliargli i capelli bagnati in maniera più precisa.
Ma Ioan, quel giorno, sembrava non riuscire a stare fermo, tanta era l’emozione.
Il bambino fissò lo sguardo concentrato della ragazza, e non poté fare a meno di sorridere, muovendosi.
- Ioan… ti ho detto di stare fermo – lo rimproverò lei con voce severa, cercando di non sorridere a sua volta. Se per colpa sua gli avesse tagliato i capelli male, si sarebbe arrabbiata davvero.
- Lo hai già fatto altre volte? – le domandò il bambino, sistemandosi meglio sullo sgabello.
- Mi sono sempre tagliata i capelli da sola, e li ho sempre tagliati ai monaci e alle monache – lo rassicurò lei. – Tuttavia, loro restavano fermi, a differenza tua.
- Scusa, scusa!
- E a te chi li taglia solitamente?
- Mia madre. A Blake li tagliava nostro padre, invece.
Judith allontanò la forbice dal viso del ragazzino e osservò il risultato. – Sembra che io abbia fatto un buon lavoro. Però il risultato finale verrà sancito solo quando i capelli ti si asciugheranno. Ora lavo la forbice e te li taglio dietro – affermò la ragazza con tranquillità, allontanandosi per andare a sciacquare la forbice dentro la bacinella d’acqua.
Era una placida mattina. Calda ma non troppo.
Il pancione le dava meno dolori del solito, il suo corpo era avvolto da una vestaglia pesante.
Camminava per casa a piedi nudi, come una bambina. Alla cattedrale non lo aveva mai fatto.
Le sembrava di vivere in quella casa da anni, quando, in realtà, era passato solo qualche giorno.
La casa di Blake profumava sempre di pulito, di luogo accogliente, o di qualcosa di cucinato.
Era tanto tempo che non sentiva un simile odore, da quando non cucinava in casa con sua madre e sua nonna.
Judith iniziò a canticchiare una melodia a bocca chiusa, fin quando non le tornò in mente qualcosa:
- Ioan?
- Ti ricordi ancora la prima battuta della tua scena, nel secondo atto, con May?
- Certo che me la ricordo. Ricordo persino le battute di May.
- “Un diamante in un mare di vetro” – recitò Judith.
- “La bellezza non è tutto. La bellezza è l’unica cosa” – proseguì Ioan. Judith era certa che il ragazzino non avesse ancora appreso appieno il significato di quella frase. Come avrebbe potuto? Ognuno di loro non avrebbe potuto. Eppure, era stata lei a scrivere quel copione. Un copione che nessuno avrebbe compreso.
- “Ma non sono sempre stato assuefatto da te, sai?”
- “Io invece sì” – continuò Judith.
- “E non ho mai amato così tanto qualcuno come amo me.
Vorrei uccidermi, per trattenere la mia immagine e la mia anima in un lago, così che tutti possano vederla” – una terza voce, proveniente dalla stanza accanto, completò la battuta, facendo sorridere Ioan e sorprendendo Judith.
- Blake mi aiutava a memorizzare tutte le battute e faceva la parte di May per aiutarmi ad esercitarmi, ogni volta che glielo chiedevo – spiegò il bambino. – Ecco perché se le ricorda tutte anche lui.
Judith sorrise, divertita e meravigliata. – Tu resta qui, torno subito – disse a Ioan, posando le forbici e raggiungendo l’altra stanza.
- Non sapevo che avessi così buona memoria – esordì la ragazza, sorpassando l’uscio della stanza da letto di Ioan, dentro cui si trovava la figura del suo amato, il quale era intento a preparare gli abiti da far indossare a suo fratello per quell’evento speciale, dandole le spalle.
Blake non si voltò a guardarla, ma accennò un lieve sorriso, mentre continuava a lisciare il tessuto della tunica che Heloisa aveva ritirato dalla sarta apposta per l’occasione.
- Il tuo copione non è cosa facile da dimenticare. Specialmente se tuo fratello te lo ripete dieci volte al giorno – le rispose. Dopo qualche secondo, percepì il profumo della ragazza farsi più intenso, e le mani di lei circondargli il busto da dietro.
Judith appoggiò il volto sulla schiena del ragazzo, sorridendo. – Attento. Se ti dimostri un talento come il tuo fratellino, potrei considerare di far recitare anche a te qualcosa – lo minacciò giocosamente.
- Piuttosto la morte – rispose lui, continuando a trafficare con gli abiti.
Lei gli pizzicò i fianchi con forza, facendogli emettere una piccola smorfia di dolore.
A ciò, il ragazzo si voltò verso di lei, fintamente contrariato. – Non stavi tagliando i capelli a mio fratello? – la provocò.
- Torno da lui in un attimo… - sussurrò, poco prima che egli si abbassasse a baciarla, lentamente.
- Tua madre non è ancora tornata – bisbigliò lei, poggiando la guancia sul suo petto.
- No. E neanche padre Craig.
- Sono giorni che Heloisa mi evita. Da quando mi sono “stabilita” qui. Credi che non mi voglia qui?
- Mia madre è felice che tu sia qui – la rassicurò Blake, accarezzandole i capelli.
- Allora perché non fa altro che andarsene di casa da quando dormo qui?
- La domanda è un’altra, Judith – Blake la prese gentilmente per le spalle e le allontanò il viso dal proprio petto, per guardarla negli occhi. – Perché dormi qui da cinque giorni? Non fraintendermi, amo stare con te e mi piace la nostra quotidianità. Ma so anche che hai la tua vita alla cattedrale, alla biblioteca, la tua casa è stata quella per dieci anni. Mi sembra strano che tu te ne sia andata così, e ti sia stabilita qui all’improvviso. Sembra che tu stia evitando di tornare lì. Sembra quasi che tu stia scappando dai monaci – le fece notare. – Prima o poi dovrai parlare con loro. Lo sai, vero?
Colta nel segno, Judith distolse gli occhi da lui e li portò altrove, nonostante non avesse ancora sciolto l’abbraccio.
- Lo so. Ma non è ancora il momento – liquidò l’argomento.
- D’accordo, come vuoi.
- Che vestiti stai preparando per la trottola di là? – gli domandò lei, affacciandosi verso il letto, per guardare il mucchio di abiti che erano sistemati sopra il giaciglio.
- Mia madre gli ha preso almeno cinque abiti diversi dalla sarta, esagerando, come al solito: vorrebbe fargli portare un cambio d’abito per i festeggiamenti, quasi come se fosse lui a sposarsi – si lamentò. - Sto scegliendo quale tra questi cinque fargli indossare.
- Io opterei per quello color zaffiro – suggerì Judith.
- Dici?
- Sicuramente si abbinerebbe meglio ai suoi occhi, anche se sono molto più chiari.
Quello rosso carminio è un gran no.
- Lo penso anche io.
- Allora è deciso: quello color zaffiro.
- Va bene, adesso basta, va’ via – le disse sciogliendo l’abbraccio e allontanandola, per indispettirla. - Sono io quello adibito all’abbigliamento oggi, tu torna a tagliargli i capelli.
- Sei un maledetto anaffettivo – si lamentò lei seccata, ma sempre con un sorriso ad ornarle le labbra piene. – Non sarà il caso di tagliare anche i tuoi?
- Non farti venire in mente strane idee: i miei capelli non si toccano, stanno bene lì dove sono.
- È perché li porti sempre legati in qualche modo, che non si nota quanto siano cresciuti. Sono sicura che, se li sciogliessi, sarebbero più lunghi dei miei – affermò la ragazza. – Non che l’idea mi dispiaccia, effettivamente… – commentò, riflettendoci su.
- Ehi, voi due uccellini d’amore! Io sto ancora aspettando che qualcuno finisca di tagliarmi i capelli – si lamentò il piccolo Ioan, facendo capolino da dietro l’uscio.
- È colpa di Judith, Chris. Le piace sottrarsi ai suoi doveri.
- Lo so che è anche colpa tua, Even – gli rispose il ragazzino tornando nel suo sgabellino, seguito da Judith, che non riusciva a fare a meno di ridere. – Tu la distrai.
- Cos’è, adesso stai dalla sua parte? Dov’è finita la solidarietà fraterna? – replicò Blake fintamente offeso, raggiungendoli nell’altra stanza a sua volta.
Judith terminò di tagliare i capelli del bambino, poi guardò il risultato e sorrise, soddisfatta di se stessa. – Ora stai molto meglio, mio piccolo Superbia.
- Grazie, Judith! – esclamò il bambino felice, abbracciandola. – Sono contento che tu sia qui - aggiunse poi, sorprendendo la ragazza, la quale ricambiò l’abbraccio toccata, e voltò lo sguardo verso Blake. Il ragazzo le sorrise, incoraggiante, mentre osservava la scena. – Tra tutte le fanciulle che avrebbe potuto scegliere mio fratello, non ho mai davvero sperato che potessi essere tu, la mia nuova sorella acquisita – aggiunse il bambino. – Sarebbe stato troppo bello che la mia insegnante di teatro vivesse in casa nostra, e invece… sei qui. Non preoccuparti per nostra madre: anche lei ti vuole bene. Deve solo abituarsi.
- Ioan… da quando sei così saggio e maturo? – gli domandò Judith, meravigliata.
Il ragazzino alzò le spalle, in un gesto di casualità, per poi voltare gli occhi anche verso suo fratello. - Siete proprio sicuri che non volete venire anche voi al matrimonio? Insomma, so che non conoscete direttamente il fratello di Dionne, né la sua consorte, ma Dionne ci ha detto esplicitamente che sono invitate anche tutte le nostre famiglie al matrimonio. Specialmente le nostre insegnanti Judith e Hinedia.
- Oggi ho delle faccende da sbrigare, caro; inoltre, i gemelli mi stanno provocando dei fastidi ultimamente, perciò non mi fa bene partecipare a dei festeggiamenti simili – gli rispose Judith. - Probabilmente anche Hinedia è impegnata oggi, per questo avrà rifiutato l’invito.
- E tu, Blake?
- Non posso, Chris. Oggi devo-
- Andare alla galleria – dissero in coro Judith e Ioan, interrompendolo e anticipandolo.
Il ragazzo sgranò gli occhi, sorpreso. – Sono davvero così prevedibile…?
- Beh, ultimamente passi tutto il tuo tempo lì. O lì o alla fucina – commentò Ioan.
- Non è colpa mia se gli scavi stanno andando incredibilmente bene. E poi, se già lo immaginavi, perché me lo hai chiesto, piccola canaglia?
- Ho fatto un ultimo tentativo per convincerti.
- Beh, devi decisamente perfezionare i tuoi metodi persuasiv-
Judith tappò la bocca di Blake con la mano. – Basta, ora, voi due. O Ioan farà tardi. Tra poco ti passeranno a prendere Gwen e sua sorella, giusto? – domandò la fanciulla a Ioan, rivolgendogli uno sguardo furbo, che fece arrossire il ragazzino.
- Sì… beh, cos’è quell’espressione?
- Nulla. Avevo la tua stessa faccia, da piccola, la prima volta che un ragazzino della tua età fu particolarmente galante con me. Tu e Gwen vi piacete molto, si vede. Mi raccomando, sii carino con lei ed evita di parlarle della Primavera. Lo sai che odia la Primavera.
Ad ogni modo, signorino, non sei ancora vestito. Ti conviene andare subito a vestirti, se vuoi farti trovare pronto, mentre io vado a prepararti uno spuntino da portarti, nel caso le cose andassero troppo per le lunghe. Sicuramente accadrà.
- Va bene, “mamma” – rispose il bambino, beccandosi una spinta bonaria dalla ragazza.
- Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni io? Sono una donna incinta, certo, ma posso ancora camminare, che il Diavolo lo voglia.
- Non preoccuparti, Judith. E poi, dovrebbe essere Blake ad accompagnarmi, dato che è il più atletico qui. A lui non peserebbe – disse pungente il ragazzino.
Il succitato roteò gli occhi al cielo. – Hai finito? Vuoi farmi pesare ancora un po’ il fatto che io sia sempre alla galleria?
Ioan gli fece la linguaccia, mentre Judith se ne andava in cucina, a preparare uno spuntino, come aveva detto.
Rimasti soli, i due fratelli si guardarono allo specchio dinnanzi a loro, sorridendosi a vicenda.
- Judith ha ragione: avanti, vatti a cambiare. Così, non appena sarai vestito come un figurino, potrai specchiarti.
Ma Ioan non si mosse e continuò ad osservare la propria immagine allo specchio, accostata a quella di Blake. In particolar modo, osservò il riflesso di Blake.
Uno sconosciuto non avrebbe mai capito che fossero fratelli, non avrebbe trovato alcuna somiglianza tra loro.
I componenti della loro famiglia, delle generazioni andate, erano sempre stati molto alti.
Alti, slanciati e aitanti. Blake rispecchiava pienamente quelle caratteristiche.
Lui, invece, non era affatto così.
Aveva ancora tempo per crescere, certo. Tuttavia, Ioan sentiva che non sarebbe mai diventato come lui: egli era mingherlino, sin troppo, con la costituzione gracile e minuta, di conseguenza, possedeva una statura bassa, per un ragazzino della sua età.
- Credi che, tra qualche anno, diventerò alto quanto te? – gli domandò a bruciapelo, stupendo Blake.
- Può essere – rispose il ragazzo.
- Non mentirmi, Even. Tu alla mia età non eri così gracile.
Credi che ci somigliamo io e te…? Almeno un po’?
Blake gli sorrise allo specchio, rivolgendogli uno sguardo rassicurante. – Certo che ci somigliamo – gli disse, mettendosi di profilo. – Girati di profilo anche tu.
Ioan obbedì, così Blake riprese: - I nostri nasi. Sono identici, non vedi?
- Hai ragione – rispose Ioan, lievemente rincuorato, come se tale constatazione potesse infondergli forza, e alleggerirgli il cuore di tonnellate.
- Quaglia lo chiama “il naso da gatto”.
- Tuttavia… non lo so cos’è che mi turba, esattamente.
- Chris, non puoi pretendere di avere un corpo robusto e virile all’età di dieci anni.
- Non è quello che intendevo. Non pretendo di essere robusto come lo è George, ad esempio.
Però vorrei…
Insomma, anche tu sei snello, certo, però hai della carne intorno alle ossa.
Io invece no. Per quanto mi sforzi di mangiare, di mangiare più degli altri… sembra che il mio corpo non prenda mai peso. Sembra che io sia destinato a rimanere così.
Non somiglio affatto a nostro padre. Lui sì che aveva un aspetto portentoso.
In una stanza piena di persone, non riuscivi a smettere di guardare lui.
E poi, c’è anche la mamma. Anche lei ha un aspetto rigoglioso, in salute, ed è difficile non notarla, quando è in una stanza con altre donne.
Tu somigli ad entrambi.
Possibile che io, invece, sia un tale fuscello, privo di consistenza?
Blake si posizionò dietro di lui e gli poggiò le mani sulle spalle. – Chris, devi capire che tu sei stato malato per tutta la tua vita, sin dalla tua nascita. Questo, purtroppo, non potremmo mai cancellarlo. È un dato di fatto che dobbiamo accettare. Ora stai iniziando a stare meglio. Ma la ripresa, soprattutto se si parla di una malattia come la tua, non è immediata. Ci vuole tempo. E bisogna anche accettare il fatto che, in tutti questi anni, il tuo corpo non ha potuto crescere a dovere, perché non ha potuto nutrirsi a dovere. Tutto quello che mangiavi, lo rigurgitavi, ricordi? Era la malattia a tenere prigioniero il tuo corpo, fratello. Adesso, sei tu che hai le redini. Vedrai, crescerai, datti il tempo di farlo. E poi, tu non te ne accorgi, ma io sì: sei un po’ più alto rispetto a prima.
- Ah sì…?
- Te lo garantisco.
- Credi che papà sarebbe fiero di noi?
Un’altra domanda a bruciapelo che sorprese il ragazzo. – Certo che lo sarebbe.
Ioan sorrise in risposta. – Lo credo anche io. Ci voleva bene, papà.
- Sì, ci voleva bene.
- Anche se non era perfetto.
Blake lo osservò, cercando di carpire cosa gli passasse per la testa quella mattina. - Sai, a Gwen non credo interessino queste cose – riprese il discorso di poco prima. - Se le interessassero tanto, credo si sarebbe gettata tra le braccia di qualcun altro.
Eppure, stravede per te.
Tuttavia, se vuoi sentirti più virile, per lei… posso insegnarti a raderti – gli propose, per smorzare quell’atmosfera cupa che circondava il ragazzino.
Ioan sgranò gli occhi chiari, per poi sorridere divertito. – Davvero?? Però io non ho niente in faccia, nemmeno un pelo. E non mi sembra che sia mai cresciuta la barba neanche a te.
- Ma come, non lo sai? – gli domandò Blake, affilando lo sguardo.
- Cosa dovrei sapere?
- La stupida leggenda che aleggia sulla nostra dinastia di proprietari della galleria.
- Che leggenda…?
- Papà me la raccontò quando avevo la tua età: sembra che un nostro lontano antenato, il primo proprietario della galleria di Bliaint, un giorno sia rimasto intrappolato in una zona profonda e inesplorata della galleria che, malauguratamente, ha preso fuoco.
- Cosa?? Ma è terribile…
- Lui è riuscito a salvarsi, però le fiamme gli hanno bruciato la faccia, specialmente nella zona che va dal naso fino alle mascelle e al mento. I medici di allora gli hanno applicato degli ungenti che hanno guarito parzialmente la sua pelle dall’esterno, permettendogli di non apparire sfigurato. Eppure, non sono mai riusciti a guarire la sua pelle dall’interno.
- Che significa?
- Che, a quanto si dice, il fuoco gli abbia bruciato tutti i bulbi che avrebbero dovuto fargli crescere la barba. Guarda caso, a nessuno degli uomini della nostra dinastia è mai cresciuta la barba. Neanche a papà è mai cresciuta.
- Hai ragione…
- Bizzarro, vero? Da qui è nata la leggenda: nessun proprietario della galleria ha mai avuto la barba, proprio per quello che è accaduto al nostro antenato.
Ioan rise di gusto, trovandola una storia assurda e inquietante insieme. – Ma… non è strano? Che un incendio sia scoppiato dentro la galleria… - domandò, riflettendovi su.
- Sì, lo è. Sono accaduti molti eventi strani alla galleria, nei secoli andati – liquidò il discorso Blake, mentre le parole di suo padre gli tornavano alla mente:
“Non sei l’unico membro della nostra famiglia ad essere impazzito a causa di quella dannata galleria!”
C’erano ancora molte cose che non sapevano.
- Even? – gli domandò dopo un po’ Ioan, riscuotendolo.
- Sì?
- Hai ancora intenzione di scappare via di qui? Nonostante adesso tu e Judith siate promessi? – gli chiese, parlando piano per farsi sentire solo da lui, sapendo che Judith fosse in cucina.
Blake ammutolì. Il suo viso si svuotò.
Rimase in silenzio per un po’, stringendo lievemente la presa sulle spalle sottili di suo fratello.
- Sì. Scapperemo via di qui, quando sarà il momento.
A Bliaint non siamo al sicuro.
- Perché non le chiedi di venire con noi? Secondo me lo farebbe.
- Non posso.
Mesi fa, Judith mi ha rivelato di voler restare qui, per cambiare le cose dall’interno.
Ella ha molti piani in mente, per rendere la vita degli abitanti migliore.
Altrimenti, se così non fosse stato, se ne sarebbe andata già tanto tempo fa. Sarebbe scappata via, lasciandosi alle spalle le violenze sessuali che ha subìto, senza guardarsi indietro.
Invece è rimasta. È una ragazza coraggiosa e molto determinata.
- Allora… perché non vuoi aspettare, prima di scappare, per dare modo a Judith di portare i cambiamenti che ha in mente?
- Perché demolire una struttura dalle fondamenta è un processo estremamente lungo.
E, purtroppo, non abbiamo tempo.
Le truppe del conte straniero sono vicine, e non sappiamo cosa accadrà.
Ma non voglio costringerti a fare nulla, Christopher.
Se vorrai restare qui… se vorrai restare con Gwen e vivere la tua vita a Bliaint, io non posso impormi su di te.
A ciò, Ioan appoggiò una mano fredda sulla sua e gliela strinse, guardandolo negli occhi dallo specchio, con decisione. - Dove vai tu vado io, fratello. Sempre.
Blake gli accennò un sorriso fiero. - Ora è davvero il momento che tu vada a cambiarti d’abiti, se non vuoi far aspettare la tua bella.
- Even… credi che Quaglia tornerà, prima o poi? Mi mancano i ritratti che mi faceva. Credi che… prima che noi due ce ne andremo da Bliaint… faremo in tempo a salutare anche lui? – gli domandò, palesando i suoi occhi lucidi.
Blake perse un battito.
- Sì. Tornerà. Tornerà, stanne certo. Ora va’.
Quando Blake raggiunse Judith in cucina, la trovò intenta a preparare ancora il delizioso spuntino per Ioan, composto da una focaccia con verdure e una limonata.
Blake bevve un po’ della limonata, beccandosi un calcetto sottobanco da parte della ragazza.
Dopo qualche minuto li raggiunse anche Ioan, pronto e vestito di tutto punto.
- Tesoro, sei elegantissimo.
- Grazie, Judith.  
Qualcuno bussò alla porta.
- Perfettamente in tempo – commentò Blake finendo di masticare un pezzo di focaccia e andando ad aprire.
- Ciao, Blake! – lo salutò allegramente Gwen, stretta nel suo elegante abitino verde oliva.
- Spero che non siamo troppo in anticipo – esordì la sorella della ragazzina, una fanciulla di diciannove anni, similissima a Gwen, nonché la sua versione più grande, bellissima nel suo vestito color caramello, che le evidenziava le curve in maniera discreta e affatto volgare.
Blake l’aveva conosciuta una delle volte in cui si era recato a casa loro a riprendere Ioan.
- Gwen, Mona, prego, entrate – le accolse il ragazzo, lasciandole entrare.
- Gwen, mi piace molto il tuo vestito! – si complimentò subito Ioan, vedendola.
- Ti piace? Beh, anche tu stai benissimo – ricambiò lei, emozionata.
- Buongiorno anche voi, Judith – disse Mona alla rossa, la quale ricambiò il saluto.
Le voci correvano: oramai tutti sapevano della riunione tra Blake e Judith, al villaggio.
Tutti, tranne i monaci.
Judith, dal canto suo, conosceva la sorella di Gwen grazie a tutte le volte in cui la ragazza era andata a prendere la sorellina alla fine delle lezioni teatrali.
- Gwen è emozionatissima: è il primo matrimonio a cui partecipa e non sta più nella pelle - spiegò la ragazza, osservando la sua sorellina, la quale aveva le guance rosse e sorrideva pimpante. - Dunque, ora vivete qui – assunse Mona, rivolgendosi a Judith.
La rossa sapeva che la sorella di Gwen fosse una ragazza diretta, e non mancò di risponderle prontamente. – A dir la verità no. Sono qui solo in via temporanea. Penseremo ad una casa insieme solo dopo esserci sposati. Vogliamo rispettare le tradizioni.
- È giusto. Le tradizioni vanno rispettate – le fece notare la fanciulla, sorridendo. – È un vero peccato che voi due non riusciate a venire oggi. Conosco sia il fratello di Dionne, sia la ragazza con cui si sposerà, sono delle persone squisite e molto devote, che il Diavolo li protegga. Sono certa che gradirebbero anche la vostra presenza, siete due persone molto vicine a Dionne e a tutti gli altri “bambini degli otto peccati capitali”. Inoltre – fece una piccola pausa, palesando un sorrisino divertito. - Talvolta i bambini si incontrano tutti a casa nostra, come ai vecchi tempi. Chiedono sempre di voi, Judith, tutti quanti, mancate molto a ognuno di loro – detto ciò, si rivolse poi a Blake. – Senza contare che Sorie chiede spesso di voi, Blake. Credo si sia presa una piccola cotta.
- Confermo! – dissero in coro i due bambini.
- Sorie sa bene che sono un po’ grande per lei – commentò il ragazzo.
- Di quello non le importa – gli rispose Ioan. – Però sa che sei di Judith, e lo rispetta.
Judith sorrise divertita, in risposta. – Mancano tutti molto anche a me. Dite loro che presto faremo una riunione tutti insieme, come i vecchi tempi, anche con Hinedia.
- Sarebbe molto bello.
- Forse non sarebbe il caso di includere ancora quella pazza – commentò sprezzante Mona. – Ha tentato di uccidere mia sorella, e, in più, è pur sempre una serva del Creatore.
- Mona, ti ho già detto che non era in sé quel giorno… - tentò di farla ragionare Gwen.
- In sé o non in sé, hai comunque rischiato di morire a causa sua.
- Come ha già detto Gwen: Hinedia non era in sè quel giorno. L’abbiamo tutti perdonata per quello che ha fatto – la difese a spada tratta Judith.
- Inoltre… sì, è una serva del Creatore. Ma cosa ci vieta di considerare i servi del Creatore esseri umani, esattamente come noi? – le rispose a tono anche Blake, avvicinandosi. – Vi ricordo che ne ospito uno in casa mia, da mesi. Per giunta, anche straniero. Non dovrebbe esservi discriminazione tra noi. Considerando, poi, che Hinedia ha anche contribuito alle prove dei bambini e alla buona riuscita di tutto lo spettacolo, dovreste solo esserle grata.
Mona ammutolì, non replicando più.
- Ad ogni modo, sapete quando verrà giustiziata Beitris? Voi, Judith, che siete interna al clero, dovreste saperlo.
Tale domanda fece irrigidire Blake.
- Insomma – riprese Mona. – quella maledetta strega ribelle è prigioniera da quanto? Mesi? E non è stata ancora arsa al rogo. Non capisco come mai le viene mostrata tanta compassione: ha sterminato l’ordine monacale del nostro culto del diavolo, ha diviso il nostro villaggio e ha anche fatto adirare i signori, provocando un’epidemia che ci ha decimati. Non esiste piaga peggiore di lei – disse con rabbia.
Judith notò l’agitazione ben celata di Blake accanto a sé, e parlò. – Abbiamo tentato di purificarla tramite i riti di purificazione, per non ucciderla, esattamente come abbiamo fatto con il ragazzo-strige. Ma, come ci ha dimostrato lo sfortunato suicidio di quest’ultimo, i riti di purificazione non funzionano. Dunque, la giustizieremo, sì. A breve – liquidò l’argomento.
- Bene. Non vedo l’ora di vederla bruciare dinnanzi ai miei occhi – disse fieramente Mona. – I nostri monaci sanno cosa è meglio per noi. Tutti questi roghi che si sono susseguiti negli ultimi anni sono stati una benedizione da parte dei due signori. I monaci sono i loro messaggeri e non dovremmo mai opporci a loro. Certo, abbiamo scoperto che Allister Chaim e alcuni suoi successori hanno fatto delle cose orribili ai bambini, per anni. Tuttavia, sappiamo che i monaci della nostra generazione non sono così. Sono migliori. Seguono solo il volere dei signori.
Mona apparteneva a quella fascia del villaggio tanto devota da sembrare accanita.
Per lei, qualsiasi cosa decidesse il clero era una manna dal cielo, ed ogni crimine andava denunciato e punito nel peggiore dei modi, senza distinzioni.
Era una seguace della giustizia o, per lo meno, credeva di esserlo.
Forse, se i monaci avessero giudicato giusto bruciare al rogo la sua sorellina, Mona li avrebbe lasciati fare.
- Mona, dai andiamo! Dionne, Kilian, May e tutti gli altri ci staranno aspettando! – si lamentò Gwen.
- D’accordo, d’accordo, ora andiamo.
Judith diede a Ioan il suo spuntino e lo vide uscire di casa, mentre Blake gli augurava di divertirsi.
Ora, i due amanti erano di nuovo soli in casa.
Judith si voltò verso Blake, accennandogli un sorriso, senza alcun motivo in particolare.
Il ragazzo ricambiò, poi raggiunse il ripiano della cucina, per prepararsi un the.
- Andrò a parlare con i monaci domani – esordì Judith, sedendosi su una delle sedie.
- Una buona cosa.
- Tornerò a dormire alla cattedrale. I paesani potrebbero chiacchierare troppo, se non lo faccio.
- Cosa ti importa delle chiacchiere? – le domandò lui.
- Mi importa, Blake. Già hanno parlato abbastanza. Dicono di te troppe cattiverie perché io possa farmele scivolare addosso. È estenuante. Se iniziassero a parlarci alle spalle anche come coppia, non potrei sopportarlo.
- Ti curi troppo di ciò che dicono – le disse lui, ponendole una tazza di the davanti. – A me non è mai importato. Da sempre, sin da quando ho imparato a leggere nonostante fosse proibito, mi sparlano alle spalle, chiamandomi infedele, ribelle, persino eretico.
- Se tornassi alla cattedrale, Heloisa non avrebbe bisogno di passare venti ore al giorno fuori di casa - disse angosciata, riportando a galla il discorso.
- Judith, te lo ripeto: mia madre approva la tua presenza qui. Ha solo bisogno di spazio. Probabilmente starà trascorrendo tutte le sue giornate a portare fiori e omaggi nelle cripte disseppellite, considerando quanto è attaccata a ciò che è accaduto.
È una donna strana, Heloisa. Non tentare di capirla, non puoi.
- Mai strana quanto suo figlio – lo punzecchiò lei, pizzicandogli ancora un fianco.
Stava diventando una dispettosa abitudine, quella di dargli pizzicotti ovunque, per indispettirlo, specialmente quando si dimostrava anaffettivo.
Il ragazzo si stava ritrovando la pelle coperta di lievi lividi, e Judith non si sentiva affatto in colpa per questo.
Nellie saltò sul tavolo, tentando di leccare l’infuso di Judith, ma, prima di riuscire nell’intento, Blake le diede due carezze, poi la tirò giù dal tavolo.
- Mi preoccupa di più padre Craig, sinceramente – riprese Blake, abbassando lo sguardo verso la propria tazza, un poco turbato. – Non è mai stato lontano da casa così spesso. Non so cosa gli sia preso. Tu lo sai? – le domandò. – Probabilmente lo conosci meglio di me.
Judith non sapeva come rispondergli. Qualsiasi cosa avesse detto, sarebbe stato un segreto da non rivelare, qualcosa da non dire, o si sarebbe mostrata inadeguata.
Eppure, Blake era sinceramente preoccupato, e Judith non poteva ignorare ciò.
- Credo semplicemente che… sai, fa un certo effetto vederti sorridere di più.
Blake non comprese e la guardò confuso. – Mi stai dicendo che non sorrido mai?
- Intendevo, vederti più sereno. In grado di sorridere spensieratamente, gioiosamente. Non sorridi mai così. Non per vantarmi, ma credo di essere l’unica in grado di farti sorridere così. È difficile non accorgersene.
Padre Craig sicuramente se ne è accorto. È un buon osservatore e, in più, non ti perde mai d’occhio.
- Più sereno, eh? – il ragazzo vi rifletté su, effettivamente non l’aveva ancora fatto.
- A cosa stai pensando?
- Solo che… non è paradossale? Il fatto che io sia più sereno, che sia in grado di sorridere più spensieratamente. Insomma, certo, gli scavi alla galleria vanno bene, mio fratello è guarito e finalmente posso amare liberamente la donna che amo.
Tuttavia, non dovrei essere sereno, né spensierato, considerando che: Quaglia è sparito; mio padre è morto da poco e il suo assassino è ancora là fuori; abbiamo appena scoperto le atrocità che hanno subìto i Bambini sciagurati; l’incantesimo di protezione che avevano fatto Myriam, Ephram e Imogene è infranto dopo la sparizione di quest’ultima, e…
… E dovrò andarmene via da Bliaint, lasciandoti sola.
Blake si tacciò, prima di dire quell’ultima frase, nonché la preoccupazione che lo angosciava di più, dinnanzi alla diretta interessata.
Non si accorse che Judith si fosse alzata e ora fosse esattamente davanti a lui, a distanza ravvicinata.
Ella gli infilò le mani dietro la nuca e lo guardò, con i suoi grandi occhi neri da cerbiatta, profondi come l’inchiostro più scuro, lucidi e rassicuranti, quasi materni: - Non dobbiamo sentirci in colpa per aver finalmente trovato, dopo tante vicissitudini, il nostro personale e intimo nido di serenità, Blake.
Blake le sorrise in risposta, mentre ella gli poggiò le mani sui fianchi, la parte di lui che più amava toccare. – Il fatto è che non voglio che se ne vada anche lui. Non intendo nel senso letterale del termine, sono abbastanza certo che non abbia intenzione di tornare ad Armelle, per ora. Tuttavia, già Quaglia se ne è andato, e non averlo più intorno mi turba più di quanto avrei mai immaginato… se si allontanasse anche padre Craig, non la vivrei bene.
Judith fu felice che il ragazzo si sentisse finalmente libero di esprimere i suoi sentimenti. – Quaglia ti manca molto, non è vero?
Blake intuì la gioia interna dell’amata nel vederlo emotivo, per una volta. – Già. Se lo dici a qualcuno sei morta.
Judith sorrise. – E ti manca un po’ anche padre Craig, considerando che non ti sta sempre attorno, come faceva prima che io arrivassi in casa tua.
- Questo non implica che tu debba tornare alla cattedrale se non vuoi. Sei la benvenuta qui, sempre.
- Lo so, caro.
Un’altra questione si palesò nella mente della ragazza mentre si abbracciavano, sentendo semplicemente il calore l’uno dell’altra.
- Hai detto di aver terminato il marchingegno con la polvere nera, ieri – gli disse, guardandolo negli occhi.
- Sì, infatti. Ho fatto tutti gli esperimenti che dovevo negli ultimi giorni: è pronto all’utilizzo.
- Tuttavia… non sarà mai perfezionato e sicuro fin quando non lo proveremo su qualcuno – dedusse la ragazza, deglutendo a vuoto.
- È un marchingegno che serve a uccidere, a giustiziare in maniera più veloce e indolore rispetto al rogo, Judith. Non possiamo provarlo su qualcuno per vedere se funziona.
Dovremmo utilizzarlo così com’è sulla prossima persona che verrà giustiziata, con il benestare dei monaci, e sperare che fili tutto liscio.
- E se quella prossima persona fosse Beitris? – domandò di colpo, facendolo irrigidire.
Blake si allontanò involontariamente da lei, impietrendo.
- Hai sentito Mona, Blake.
Oramai non c’è più ragione di tenere Beitris in vita, perennemente imprigionata. Lo sanno tutti.
Pensa a questo: in ogni caso, quella che sta vivendo in quella cella non è vita, e non verrebbe mai e poi mai liberata, per nessun motivo al mondo.
Avrebbe dovuto essere giustiziata molto tempo fa.
- Ma non possiamo provare il marchingegno proprio su di lei per prima…
Potrebbe non funzionare nel modo corretto la prima volta.
Potrei aver sbagliato qualche calcolo, qualche dose, non possiamo saperlo.
- Sono i tuoi sentimenti che parlano ora.
- Potrebbe soffrire, se il marchingegno non funzionasse subito nel modo giusto..
- Soffrirebbe comunque meno, rispetto ad un’esecuzione al rogo.
- Come puoi esserne certa?
- Avevi detto di non provare più niente per lei.
- Ma le voglio comunque bene, Judith!
Accidenti… - imprecò sfregandosi il viso, nervosamente.
- Sapevi che presto o tardi sarebbe morta, Blake.
Dovremmo provarlo su qualcuno, in ogni caso, prima o poi.
Se vogliamo portare questo cambiamento il prima possibile, ed evitare che tanti altri muoiano con un metodo tanto atroce e inumano… dobbiamo farlo ora.
Se non lo provassimo su di lei e aspettassimo il prossimo o la prossima… verrebbe comunque bruciata al rogo e soffrirebbe come un cane. È questo che vuoi?
Proprio perché tieni a lei, non vuoi provare a farla morire in maniera indolore?
Se il marchingegno non funzionasse… nel peggiore dei casi non morirebbe, e saremmo costretti a bruciarla al rogo, in estremo.
Blake si calmò, riconoscendo la logica del ragionamento della ragazza. – D’accordo. Lo faremo. Ad ogni modo, non sottovalutare la questione del benestare dei monaci: dovrai essere molto persuasiva per convincerli a farci usare il marchingegno su un condannato. Ti ricordo che per loro il rogo è sacro, perché credono che, tramite le fiamme, i peccati del peccatore vengano purificati – le rammentò.
- Lo so. Approveranno. Dovranno farlo.
Dato che è tutto pronto, l’esecuzione potrebbe essere fissata già nei prossimi giorni.
Ti consiglio di andare da lei, a dirle addio, appena puoi – lo incoraggiò Judith.
Il ragazzo annuì, rassegnato, riavvicinandosi. – Un matrimonio e un’esecuzione a distanza di così poco. Sarà un brutto presagio?
- Chi lo sa.
- Judith?
La ragazza alzò di nuovo lo sguardo su di lui, a tal richiamo.
Blake le carezzò una guancia, scrutandola. – Ora che hai recuperato i ricordi… non abbiamo ancora parlato della questione più importante di tutte.
- Qual è?
- Ricordi chi ti ha fatto perdere la memoria, Judith? Chi ti ha aggredita, quella notte?
Fu in quel momento che a Judith tornò in mente quel ricordo traumatico, il più traumatico di tutti: Hinedia, con un viso che non sembrava neanche il suo per quanto rabbioso e oscuro, che la spingeva, tentando di ucciderla.
Judith non sapeva chi l’avesse salvata quella notte.
Non poteva saperlo.
Non poteva sapere che Hinedia non si fosse fermata autonomamente, e che fosse stato piuttosto un ragazzo che oramai era diversi metri sottoterra a convincerla a non finirla.
Tuttavia, quel ricordo non le era riapparso alla mente, fino a quel momento, fino a quando Blake non glielo aveva domandato.
Fu come venire colpita da una secchiata di acqua bollente, scorticante.
Di una sola cosa era certa al momento: esattamente come Hinedia non era in sé il giorno dello spettacolo, quando aveva spinto Gwen e Edith giù dal palco; non doveva essere in sé neanche quando l’aveva aggredita quella notte, e quasi uccisa. E, molto probabilmente, non lo era neanche quando aveva ucciso il padre di Blake.
Avrebbe dovuto venire a capo di quella storia e scoprire cosa le era successo, indagare.
Fu in quel momento che decise che sarebbe andata a casa di Hinedia quel pomeriggio. Per parlarle.
- No, non lo ricordo – mentì la ragazza, in quanto non avrebbe potuto dirgli la verità, non ancora, o Blake avrebbe odiato Hinedia, e forse gliel’avrebbe anche fatta pagare.
Il fatto che il suo nascente rapporto col ragazzo fosse iniziato già con diverse bugie non di poco conto la turbò, facendole venire una strana nausea.
- Peccato. Se quella persona è ancora in circolazione potresti essere in pericolo.
- Non preoccuparti per questo – gli rispose.
La memoria della fanciulla, rifiutandosi di ripensare a ciò, vagò su altri orizzonti, e una strana domanda le piombò alla mente, assolutamente non riguardante il discorso appena fatto.
- Il ragazzo che Beitris aveva chiamato, per farlo giacere con voi, con te… quello del bosco, da cui sei scappato. Ricordi come si chiamava?
Blake alzò un sopracciglio, confuso. – Come ti è venuta in mente una cosa simile, ora?
- Non lo so. È una curiosità.
- No, non lo ricordo.
- Sai che fine ha fatto?
Blake pose le braccia conserte, abbassando lo sguardo.
Da ciò, Judith capì che il ragazzo non dovesse aver fatto una bella fine.
- Un giorno, forse un anno fa, sono andato ad assistere ad un rogo, come sempre.
Su quel palco c’era lui legato. Lo riconobbi dal viso. Fu uno di quelli che urlò di più.
Morto al rogo. Come tanti altri  pensò amaramente la fanciulla. Per questo dovevano agire in fretta e portare il marchingegno alla luce del sole, mostrarlo e proporlo in sostituzione di quel metodo di tortura barbaro e inumano.
Era il suo progetto, da sempre.
Era finalmente il momento di portarlo a termine.
- “Un diamante in un mare di vetro” – la fanciulla venne riscossa dai suoi pensieri dalle parole dell’amato, il quale aveva citato nuovamente tale battuta della Superbia. – Sai che aspetto ha, Judith? Un diamante in un mare di vetro? A cosa pensavi mentre lo scrivevi?
Ella si riavvicinò a lui, baciandolo tra le labbra, con passione e trepidazione. – No, ma ho immaginato che aspetto potesse avere. So che aspetto ha un diamante, però. Mentre il mare… un mare di vetro è l’unico mare che potrò mai sognare di vedere.
 
 
Hinedia si specchiò dinnanzi allo specchio della sua camera.
Indossava il vestito da sposa di sua madre.
Le calzava un po’ largo, ma non le importava.
Non si era mai vista così bella.
Non si era mai vista bella. Prima di quel momento.
Il tessuto era di un color latte condensato, non di un bianco accecante.
Era puro cotone. Il cotone era un tessuto rarissimo a Bliaint, andava importato.
E lei lo stava indossando, maneggiandolo come se fosse il più prezioso dei tesori.
Sorrise, per la prima volta dopo tempo.
Mancavano ancora delle settimane al matrimonio, e l’idea di indossare quel vestito era l’unica cosa buona che riusciva a pensare, in merito a quelle nozze indesiderate.
- Ti sta d’incanto – quella voce la fece sussultare.
Credeva di essere da sola in camera. Era talmente concentrata sul proprio riflesso, da non essersi accorta che fosse entrato qualcun altro.
Judith se ne stava appoggiata all’uscio, con il suo pancione enorme, e la sua solita grazia, eleganza e bellezza innata, che portavano chiunque a desiderare di guardarla per ore, giorni.
- Tua madre mi ha fatta entrare – le spiegò.
La sua voce era calma e placida.
Tuttavia, vi era qualcosa di diverso in lei. Sembrava molto più consapevole, Hinedia se ne accorse.
Aveva udito voci riguardo al fatto che lei e Blake si fossero ritrovati e riuniti, da qualche giorno.
Hinedia le sorrise, a distanza. – Grazie. Era di mia madre.
- Ti sta bene davvero, Hinedia – ripeté la fanciulla, avvicinandosele.
- Speravo che tu potessi prestarmi un paio dei tuoi bellissimi e pregiati guanti, il giorno delle nozze. Sai… per coprire queste – disse in un sorriso malinconico, mostrando alla rossa i suoi polsi sfregiati dallo sfogo che possedeva sin dalla nascita.
- Fa’ vedere – disse Judith prendendo i polsi dell’amica e portandoli nella propria direzione, per osservarglieli.
Hinedia fece un po’ di involontaria resistenza a quel gesto: si vergognava di quello sfogo.
- Lo sfogo sui polsi simboleggia la lotta tra i due signori per avere il predominio sulla tua anima. Non è qualcosa di cui vergognarsi.
- Lo so, ma…
- Allora non vergognartene. Indossali con fierezza, Hinedia – la incoraggiò prontamente, stringendole le mani nelle sue, mentre la guardava negli occhi.
Hinedia percepiva sempre più che vi fosse qualcosa di diverso in lei.
- Ricordo tutto, Hinedia.
Lo sguardo della serva del Creatore si corrucciò. – Cosa…? Non capisco.
- I miei ricordi perduti… li ho riavuti tutti – le spiegò Judith. – Ricordo anche quella notte. La notte in cui hai cercato di uccidermi, in cui mi hai provocato l’amnesia. Quella… cosa, quella persona che ti dominava quella notte… l’hai chiamata “Layla”, come ti avevo suggerito, giusto? – non vi era alcun tono d’accusa nella sua voce, e Hinedia non poteva crederci.
No. No, doveva trattarsi di un sogno.
Anche perché non era possibile che Judith fosse così tranquilla a riguardo, mentre lei tremava dalla testa ai piedi, e aveva solo voglia di piantarsi un paletto sul cuore, morendo dissanguata davanti a lei.
Ma Judith continuava a stringerle le mani con calore, le stesse mani che l’avevano spinta e quasi uccisa.
- Come… com’è possibile…? – esalò la serva del Creatore, con voce eterea e gli occhi lucidi, mentre fissava la rossa.
- Non ce l’ho con te, Hinedia. So che non eri tu. Dimmi chi era. Dimmi chi è quest’entità. Parlamene, amica mia, in modo che io possa aiutarti. È la stessa che ha ucciso Rolland, giusto?
Hinedia tappò la bocca di Judith in un istinto involontario, iniziando a piangere a dirotto.
- Non… non parlare di lei, ti prego… sono settimane che riesco a tenerla a bada, sono settimane che non riappare, grazie a Quaglia. Non nominarla… - sussurrò impaurita, tremando come una foglia.
Judith le carezzò le mani maternamente, rassicurandola. – Sono felice che non sia più riapparsa.
- Io non ti avrei mai fatto del male!
- Lo so, ne sono certa.
- Così come non avrei mai fatto del male a Blake, o a qualcuno dei suoi cari…
- So anche questo.
- Non voglio costringerti a portare per me un segreto e un peccato così grande…
Non meriti un tale peso, Judith. So che sei mia amica, ma è un peso che dovrei portare solo io…
Non voglio gravare su di te… - singhiozzò, continuando a piangere, non sapeva se più per la gioia o per la disperazione.
- Così macchierai il vestito – sibilò Judith, accennando un sorriso rassicurante, sorreggendola. – Se pensi sia un peso troppo grande da portare, ti sbagli. Ma se ciò ti fa sentire male… allora voglio rivelarti anche io un mio segreto, troppo grande da portare. Così saremo pari. Che ne dici? – domandò la rossa, e i suoi occhi lucidi rivelavano che il segreto che le stava per confessare fosse qualcosa di immenso.
Hinedia smise di piangere e la ascoltò, stringendole le mani a sua volta, pronta ad accogliere qualsiasi cosa le avrebbe detto.
- Questi gemelli che porto in grembo… sono figli del peccato peggiore di Bliaint.
Se i monaci lo scoprissero, mi brucerebbero al rogo prima di farli nascere.
I miei figli… sono i figli dell’uomo che stai per sposare, un servo del Creatore. Sono i figli di Van Naren - confessò, con voce tremante, ma determinata.
Hinedia raggelò.
Ora si spiegava tutto.
Ora conosceva anche il suo segreto.
Ora, entrambe conoscevano i reciproci segreti.
Erano legate, eternamente, inseparabili.
Hinedia le strinse le mani con forza, cercando di trasmetterle tutto l’affetto che nutriva per lei.
Era la sua unica amica, la sua più grande amica, la persona più cara che aveva.
Poi, una realizzazione improvvisa le invase la mente, facendola paralizzare e cambiare completamente espressione.
Judith se ne accorse. – Che c’è?
- Mi avevi detto di aver scoperto che Naren avesse violentato qualcuno, una certa notte di festeggiamenti…
Mi avevi detto di aver scoperto, grazie alla tua memoria frammentata e all’aiuto di Imogene… di averlo visto stuprare una donna, quella notte. Eri tu… non è vero?
Quell’uomo ha violentato te… e forse anche qualcun altro.
Questo vuol dire che… Naren ti ha ingravidata, senza il tuo consenso. Ti ha stuprata! - esclamò con orrore, adirata all’inverosimile con l’uomo che avrebbe sposato nel giro di poche settimane.
Quel verme con cui avrebbe passato la sua intera vita… aveva violentato la sua più cara amica. Si era macchiato di uno dei peccati più miserabili e turpi.
Sentiva che Layla si stava risvegliando in sé… la sentiva scalpitare, affamata di vendetta nei confronti di quel putrido violentatore, desiderosa di proteggere e difendere l’onore della sua amica.
Iniziò a tremare violentemente, mentre un tremendo mal di testa la colpiva, mentre cercava di combattere la parte nera della sua anima, che scalpitava per tornare in superficie.
Se fosse tornata… sapeva cosa fare:
Adsum martikhoras
Adsum martikhoras
Adsum martikhoras
Le bastava dire quelle due parole e sarebbe morta. Dinnanzi a Judith.
Era pronta a farlo.
- Che sta succedendo qui?? – quella voce sconvolta, la voce odiata da entrambe, fece il suo ingresso nella camera.
- Naren… cosa ci fai qui?? – esalò Judith, sconcertata di rivederlo.
- Sono venuto a trovare la mia promessa sposa… Judith? Tu cosa fai qui?? – domandò lui, allibito a sua volta. Poi catapultò lo sguardo sulla figura tremante e ansimante di Hinedia, la quale era stata sdraiata sul letto da Judith.
Non era il momento di pensare a loro due.
Ora, l’importante era far star meglio Hinedia.
- Non so cosa le stia accadendo – mentì Judith. Poteva ben immaginare cosa le stesse accadendo: era la stessa reazione che aveva avuto alla fine dello spettacolo teatrale, poco dopo aver spinto giù dal palco Edith e Gwen: probabilmente, Layla si stava risvegliando. Ma questo, quella serpe di Naren non doveva saperlo. – Dobbiamo andare a chiamare qualcuno, un medico o sua madre! – esclamò la rossa. - Ci penso io, vado subito a chiamare qualcuno. Tu resta con lei finché non torno – aggiunse catapultandosi verso la porta della stanza.
Ma non appena superò il corpo del suo vecchio amante, questo la afferrò per un braccio, in un istinto quasi animalesco. Naren la inchiodò con la schiena al muro e si prese il suo tempo per bearsi nuovamente dell’immagine di lei, tanto bramata, che gli aveva suscitato una mancanza morbosa.
Ora che la rivedeva… non riusciva a capire come avesse potuto fare a meno di lei per tutto quel tempo.
Il suo profumo, la sua pelle, i suoi occhi, i suoi capelli, le sue labbra…
Tutto di lei, era intossicante.
- Lasciami andare, Naren – gli intimò Judith, tentando di liberarsi dalla sua presa, inutilmente. Naren la rinforzò, incollandole i polsi alla parete.
- Lasciala andare! Non toccarla! – esclamò Hinedia dal letto, rabbiosa e al contempo impossibilitata persino ad alzarsi, dominata dalle convulsioni. Un primitivo istinto di protezione la spingeva a voler difendere l’amica, tanto da accecarla quasi.
Judith la guardò a distanza, preoccupata. – Così peggiorerai la situazione... lasciami andare, Naren.
- Lasciala!!
- Che cos’ha? – domandò il servo del Creatore, riferendosi alla sua sposa, ma continuando a guardare Judith.
- Ti ho già detto che non lo so. Se mi lasciassi andare, andrei a cercare aiuto.
- Tu l’hai violentata, ignobile maiale!! – quell’urlo di Hinedia fece impietrire Naren.
Egli ascoltava tutti i vaneggiamenti e le grida della sua promessa alle sue spalle, continuando a guardare e a tenere ferma Judith.
- Come fa a saperlo…? – esalò il ragazzo, balbettando. – Glielo hai detto tu, Judith…?
- Lasciami andare, Naren.
- Lo sai che se qualcun altro venisse a saperlo… se i monaci venissero a saperlo… saremmo tutti morti?? Lo sai??
- Lasciami andare!
- Toglile le mani di dosso!!
- Non abbiamo avuto modo di riparlare di ciò che è accaduto quella notte… - riprese il ragazzo, rafforzando la presa sui polsi dell’oggetto dei suoi desideri, la voce incrinata ora. – Quella notte ho commesso i peggiori peccati che un uomo possa commettere. E, la cosa tremenda… è che ricordo tutto. Eppure… per quanto ci provi, non riesco a pentirmene.
- Di cosa stai parlando, Naren? Spiegati! Cos’è accaduto??
- Entrambi, io e te, ci siamo macchiati di un orrendo peccato quella notte, che non riguarda solo il seme che ho piantato in te.
E non solo noi due… anche il tuo ragazzo. Anche Blake è colpevole quanto noi.
- Che cosa intendi?? Cosa c’entra Blake?!
- Ma sposando una donna pura come Hinedia… i miei peccati verranno perdonati dal Creatore.
- Non permetterò che tu faccia del male anche a lei, Naren! – esclamò la rossa divincolandosi finalmente dalla sua presa ferrea.
Di conseguenza, Naren raggiunse il giaciglio della sua promessa, inginocchiandosi di fianco a lei.
- Mia sposa…
- Vattene via, maledetto!! Non voglio più vederti!! Mi ripugni!! – esclamò Hinedia in risposta.
- Hinedia, io voglio sposarti.
Malgrado ciò che ho fatto… malgrado io ami ancora Judith, e probabilmente continuerò ad amarla… io amo anche te. Non possiamo annullare tutto ora. Non possiamo annullare un matrimonio solo per un peccato che ho commesso in passato. Oramai lo sanno tutti, che dobbiamo sposarci, la mia famiglia, la tua, i monaci, tutti. Non possiamo tirarci indietro… ti prego…
- Hinedia, non ascoltarlo! Non devi condannarti in questo modo, tu meriti molto di meglio!! - intervenne Judith, a distanza.
Poi, come per miracolo, le convulsioni cessarono, i dolori e i tremori svanirono dal corpo della serva del Creatore.
Aveva sconfitto Layla. Non per sempre. Tuttavia, l’aveva sconfitta quella volta. Aveva relegato la sua anima nera in qualche meandro remoto della sua mente, chissà dove, per una volta.
Ciò le bastava.
Non avrebbe pronunciato quelle due parole, avrebbe potuto continuare a vivere ancora per un po’. Avrebbe potuto trascorrere altro tempo in compagnia delle persone che amava. E anche di quelle che non amava, disgraziatamente.
Naren le stringeva la mano. La guardava implorante, patetico.
Ora che riusciva a riflettere razionalmente, Hinedia riconosceva la logica del ragionamento dell’uomo che odiava: oramai avevano fissato la data del matrimonio, avevano stabilito i loro voti dinnanzi ai due signori. Tutti sapevano, le loro famiglie, il villaggio, i monaci. Annullare tutto, a distanza di poche settimane dalle nozze, avrebbe significato attirarsi l’odio dei monaci, e forse anche dei due signori. Avrebbe significato scatenare un’apocalisse.
Questa era la sua punizione. La penitenza, per aver fatto del male a Judith, a Gwen, e, soprattutto, per aver ucciso il padre di Blake.
E lei l’avrebbe accettata a testa alta.
Inoltre, sposando lei Naren, avrebbe potuto proteggere molte altre ragazze da lui. In particolar modo Judith, la quale era oggetto delle ossessioni di quell’essere spregevole.
Fu proprio a Judith che andò il suo sguardo, a distanza.
La rossa la fissava dalla parete, con l’espressione per metà allarmata, per metà rincuorata.
Il viso scuro di Hinedia era rigato di lacrime secche, stravolto, bagnato di sudore, eppure colmo di una forza senza pari. - Ti sposerò, Naren – decretò, continuando tuttavia a guardare Judith, la quale era esterrefatta da tale dichiarazione.
Intanto Naren, contento e grato, iniziò a baciarle le mani.
Una furia spaventosa si impadronì di Judith.
Hinedia la notò.
La trovò spaventosa, più spaventosa di Layla, semplicemente per un motivo: quella furia era razionale, lucida.
Non c’era nessuna anima nera che si stava impadronendo illecitamente della volontà di Judith, no.
Era semplicemente Judith.
La furia repressa di una ragazza che aveva perso molto, che aveva sofferto indicibilmente, ma che era riuscita a mantenere sempre un’apparenza contenuta, composta, imperscrutabile.
L’anima bianca e l’anima nera insieme, in perfetto equilibrio, come lo erano in ogni essere umano.
Gli occhi neri come il carbone della serva del Diavolo erano tutti concentrati sulla figura di Naren, l’oggetto detestato da entrambe.
- Tu…
Non puoi costringere una donna a sottomettersi a te a tuo piacimento.
Noi siamo libere di scegliere… noi siamo libere.
E tu… tu sei solo un verme schifoso, che suscita repulsione, disgusto.
Non puoi condannarla a legarsi a te. Non puoi!!! – urlò Judith afferrando una sedia con tutta la forza che aveva, mossa solo dalla furia cieca che la animava, e colpendo Naren in testa, con una violenza aberrante.
Naren cadde a terra, svenuto, con la testa sanguinante.
Hinedia era sconvolta.
In lei non c’è Layla.
In lei non c’è Layla…
Allora, da dove proviene tutta questa ferocia, amica mia…?
Poteva comprendere quanto intensamente lo odiasse. Per averla violentata. Per averle rovinato la vita.
Eppure, una furia del genere non l’aveva mai vista in nessun altro.
Non era neanche sicura che qualcun altro, oltre lei, avesse mai assistito a quel lato di Judith.
Quest’ultima alzò di nuovo la sedia verso l’alto e colpì ancora il corpo inerme di Naren, urlando.
L’idea di lasciarla fare sfiorò appena la mente di Hinedia: se Naren fosse morto, sarebbero state libere. Entrambe. Non avrebbe più dovuto sposarlo.
Eppure, l’affetto che nutriva per Judith andava oltre tutto ciò.
- Judith, ferma – la bloccò, prima che la furia rossa potesse sferrare a Naren il terzo e probabilmente fatale colpo. – Judith! – si alzò in piedi e le prese il braccio, fermandola, attirando la sua attenzione su di sé. – Ferma, ti prego – la supplicò, fissandola in quegli occhi impossibili, iniettati di ira incontrollabile.
Quella ragazza era un uragano in eruzione, una scheggia impazzita.
- Non voglio che tu ne paghi le conseguenze… - le disse sinceramente. – Se lo uccidessi, ti maccheresti le mani di sangue.
- Le mie mani sono già macchiate, Hinedia.
- Ma non di un assassinio. Io so come ci si sente. E non vorrei mai che tu ti sentissi allo stesso modo.
- Invece sì, lo sono. Ho le mani macchiate dell’assassinio di decine e decine di innocenti, che ho contribuito a far bruciare al rogo, sotto le assurde accuse dei monaci – rispose la fanciulla, abbassando la sedia, riacquistando un briciolo di razionalità.
Aveva alzato quella sedia con una tale forza, che una gamba di legno le era rimasta tra le mani. Se ne accorse solo quando si ritrovò un mozzicone di legno, appuntito e spezzato, stretto tra le dita.
- Judith, non voglio che tu venga imprigionata, né uccisa. Non voglio che ti rovini la vita. È l’ultima cosa che vorrei. Piuttosto, preferirei macchiarmi io di un tale crimine. Ma… a cosa servirebbe, a questo punto? Venire giustiziata per la morte di Naren… No, non ne vale la pena. E se deve rimanere in vita, preferisco che sia legato a me, piuttosto che ad altre. È la mia punizione. La mia punizione per portare Layla dentro di me – concluse, sperando di averla convinta a non rovinarsi la vita.
Judith non disse nulla. Continuò a guardarla fissa, fin quando non rispose:
- Se è questo quello che vuoi… lo accetto.
Persino la sua voce non era ancora tornata normale.
Era roca, bassa, stridente.
Judith stessa non sapeva cosa stesse provando, nell’esattezza.
All’improvviso, l’odio che nutriva per Naren si riversò tutto verso il prodotto del suo seme maledetto: le sue iridi saettarono verso il proprio pancione, desiderando solamente strapparselo via.
Uccidere quelle creature nascenti, sangue del suo sangue, ma anche sangue del sangue di quella creatura maligna che giaceva svenuta a terra.
Doveva uccidere qualcuno. O Naren, o i gemelli.
Non voleva più averli dentro di sé.
Non li voleva.
Sono suoi. Sono di lui. Li odio.
Sono suoi. Sono di lui. Li odio.
Sono suoi. Sono di lui. Li odio.
Accecata dall’odio, diresse lo spuntone di legno appuntito che stringeva ancora in mano verso il proprio pancione, come se nulla fosse.
Puntò quel tozzo di legno verso la protuberanza tonda e piena di tre corpicini, come fosse un’arma.
“Litigherai ancora con loro e con te stessa, ti verranno altri cento ripensamenti.
Ti sentirai orribile e proverai il desiderio di ucciderli mentre sono ancora dentro.”
Hinedia non riuscì a credere ai suoi occhi.
L’aveva osservata fare quel gesto, in silenzio, nell’attesa di capire se stesse davvero per fare quello che temeva stesse per fare.
Chiunque le avrebbe dato della pazza.
Ma non lei. Non Hinedia. Hinedia non era nessuno per dare a qualcuno del pazzo.
Quando comprese che Judith lo avrebbe fatto davvero, nuovamente le afferrò il braccio, bloccandola.
Nel momento in cui si rese conto di ciò che stava per compiere, Judith lasciò cadere il tozzo di legno a terra.
Le due si guardarono, senza dire nulla, rivolgendosi semplicemente un caloroso sguardo complice, d’intesa, di solidarietà.
- Ci penso io a lui – le garantì Hinedia, riferendosi al corpo svenuto di Naren disteso a terra.
Dopo essersi assicurate di stare bene a vicenda, Judith si congedò dalla dimora dell’amica, avviandosi verso le cattedrali, carezzando il proprio pancione.
 
 
Blake scese le scale che lo avrebbero portato verso le segrete.
Sembravano secoli che non entrava in quel luogo putrido, maleodorante, ed effettivamente lo erano.
Fortunatamente, non ci era mai entrato da prigioniero.
Tenne alta la fiaccola, per farsi strada nel corridoio, superando le varie celle, la maggior parte vuote,
cercando una figura in particolare.
Già quel luogo era buio di per sé, in più era anche notte, perciò la fiaccola era d'obbligo.
L'idea che qualcuno fosse tenuto a vivere in condizioni tanto aberranti gli fece gelare il sangue.
Lui aveva trascorso solo una notte in una segreta, ed era stata la notte dopo la tortura, a Carbrey, la
notte prima della sua esecuzione.
Fortunatamente, a quella particolare ora della notte nessuno sorvegliava l’entrata delle segrete, perciò sarebbero potuti entrare anche dei semplici popolani, indisturbati.
Evidentemente, la prigioniera aveva sentito i suoi passi già a distanza, in quanto non fece neanche in tempo a trovare la cella, che udì una voce distante e ben riconoscibile, ma molto più arrochita rispetto a come la ricordava:
- Chi va là? Siete voi, padre Petrit?? Ora venite a tormentarmi con le vostre prediche maledette anche di notte?? Lasciatemi sola!
Blake perseguì per la sua strada, raggiungendo finalmente la cella in cui veniva tenuta prigioniera Beitris.
Alzò la fiaccola, in modo che potesse ben illuminare l’interno della cella: una pozza di liquidi corporei ristagnanti copriva quasi l’intera pavimentazione, le mura erano marce, umide, prive di finestre, e in mezzo a quel sudiciume giaceva, seduta a terra, la sua vecchia amante.
Beitris era quasi uno scheletro. Era sempre stata molto magra di costituzione, e in quel luogo poteva solo immaginare quanto fosse denutrita.
I suoi vestiti (se così si potevano chiamare) erano strappati, logori, indossati evidentemente da mesi, senza mai essere tolti o lavati.
Diverse piaghe da decubito coprivano la sua pelle, un tempo diafana.
I suoi bellissimi capelli neri erano diventati un cespuglio informe, un nido per uccelli ingarbugliato e sporco.
Gli dava le spalle, impegnata a far stridere le unghie lunghe sui mattoni.
- Vi ho detto di andarvene! – esclamò furiosa la giovane donna, voltandosi di scatto, restando a dir poco impietrita, sbiancata, alla vista di colui che si trovava al di là della cella.
- Ciao, Beitris – esordì Blake, sorridendole amareggiato e malinconico.
Non credendo ai propri occhi, la ragazza trovò la forza di alzarsi in piedi, a fatica, e si diresse verso le sbarre, avvicinandosi a lui.
Ora che la vedeva più da vicino, Blake riconobbe i suoi occhi inconfondibili: i due smeraldi che portava al posto delle iridi erano gli unici ad essere rimasti sempre gli stessi, in lei.
Quei due smeraldi si riempirono di lacrime mentre lo osservavano, bevendosi ogni dettaglio di lui.
- Non sei mai venuto a trovarmi… - fu la prima cosa che sussurrò la ragazza, aggrappandosi alle sbarre con le dita lunghe e scheletriche. – Ti ho aspettato… ho sperato che venissi…
- Mi dispiace.
- Non importa. Sei qui ora. Ti sto guardando. Dopo tutto questo tempo… - sibilò, allungando una mano oltre le sbarre, ma fermandosi prima di sfiorarlo. – Ma è una tortura non poterti toccare…
Blake le accennò un altro sorriso, questa volta furbo, mostrandole un mazzo di chiavi che teneva tra le mani.
- Come diavolo hai fatto a prenderle…? – le domandò lei meravigliata.
- Judith me le ha fatte avere, raccomandandosi di riportarle prima dell’alba, altrimenti i monaci se ne accorgeranno – le spiegò, infilando la chiave nella toppa. Girò quattro volte, aprì la porta della cella, entrò dentro e se la richiuse alle spalle. Il ragazzo appoggiò la schiena alle sbarre, guardandola. - Potrei farti scappare via di qui, se lo volessi. Ci ho pensato. Più di una volta, mentre venivo qui.
- Se lo facessi, tradiresti la fiducia della tua donna.
- Ma tu saresti libera.
- Anche Ephram si è offerto di liberarmi, un giorno – gli disse lei, continuando a guardarlo.
Era come se non fosse ancora convinta che lui fosse lì davanti a lei.
Le sembrava solamente un sogno, un’allucinazione in cui lei parlava da sola, come molte altre. In quel luogo o parlavi da sola o non parlavi affatto.
- Dove potrei mai andare, ridotta così…? Decrepita, una morta vivente, rinnegata da tutti, anche dal suo Signore. No, oramai mi sono rassegnata – gli disse, avvicinandosi a lui. Allungò una mano e gliela posò sulla guancia. – Dimmi che sei davvero qui, Blake.
- Sono davvero qui: puoi toccarmi, non vedi? – le rispose lui, rassicurante.
- Già. Sei qui.
Dimmi… cosa è accaduto là fuori, qualche giorno fa? Ho sentito tua madre urlare al popolo, ma non sono riuscita a capire bene cosa dicesse.
Poi sono iniziati degli scavi… non so cosa stia accadendo, nessuno mi dice nulla, ma sembra una cosa grossa.
Blake posò la fiaccola dentro una delle rientranze create appositamente. - È complicato da spiegare. Complicato e molto lungo – le rispose, camminando lungo la cella. – Tutto ciò che devi sapere, è che i monaci del passato, a partire da Allister Chaim, erano tutti dei luridi e perversi maniaci, molto peggio di padre Ilian. Hanno imprigionato e torturato i bambini per secoli, strappandoli alle loro famiglie con l’inganno. Li abbiamo chiamati “Bambini sciagurati”. I rumori che hai udito sono gli scavi per disseppellire tutte le cripte in cui erano tenuti prigionieri i bambini, per farne dei luoghi di culto e di preghiera – riassunse il tutto.
Beitris rimase muta per un po’.
Poi parlò, la sua voce era rotta, dalla rabbia e dal pianto: - Ricordi le tre sorelle di mia nonna? Quelle di cui ti avevo parlato?
- Quelle nate morte?
- Sì. Se quello che dici è vero… - continuò lei, gli occhi colmi di lacrime amare. – … non sono nate morte. Vuol dire che anche loro facevano parte dei Bambini sciagurati…! – esclamò, sfogandosi in un liberatorio pianto, che conteneva tutta la rabbia, la tristezza e la frustrazione che una donna potesse portare in sé.
Senza pensarci due volte, Blake la abbracciò, stringendola a sé, e per la ragazza fu come sprofondare dentro un aldilà così bello, rassicurante e intossicante, da assuefarsene completamente. Lo strinse a sé a sua volta, affondando le dita nelle sue scapole e il volto nel suo petto, desiderando solamente restare tra le sue braccia per l’intera nottata.
Dire che le era mancato, sarebbe stato a dir poco riduttivo.
Avevano trascorso talmente tante notti insieme, tre anni prima, abbracciati l’una all’altro, attorcigliati e aggrovigliati tra loro, con i corpi caldi e nudi a contatto, fusi in un tutt’uno, i nasi affondati nei capelli, le bocche e le lingue che si cercavano costantemente, mai sazie, le mani che vagavano senza sosta, ovunque riuscissero ad arrivare, per non perdersi nulla, per non farsi mancare nulla. Era quasi una dipendenza.
Era suo, in una maniera talmente totalizzante, da averla quasi spaventata. E anche lui doveva essersi spaventato dal tipo di rapporto che avevano instaurato. Per tale motivo, a poco a poco, si era allontanato da lei, sfuggendole dalle dita.
Era tutto troppo bello per essere vero, e non andava bene, perché a Bliaint, tutto ciò che era bello durava sempre troppo poco.
Ma sentire il suo odore e la consistenza della sua carne sotto le dita ora, l’aveva riportava a quei momenti idilliaci.
Pianse, pianse ancora, per le sorelle di sua nonna, per tutti quei bambini, per Maroine e Maringlen dispersi chissà dove, per tutto il male che avevano fatto i monaci.
- Mi dispiace … - ripeté il ragazzo stringendola ancora, la voce rotta e instabile a sua volta, ma incapace di piangere, come lo era sempre.
- Morirò anche io… per mano di quei mostri… quanto ancora ci dovranno togliere?? Quanto?! Quando finirà questo regime di oppressione?? Con quella ribellione volevo solo cambiare le cose… volevo solo liberarci… e invece ho fallito. Ho fallito in tutto quanto!
Blake continuò a consolarla e a cullarla.
E tutta quella premura, tutto quel dolore maltrattenuto, tutte quelle emozioni affollate insieme, le fecero venire voglia di confessare tutto quello che poteva confessare, di tirarsi fuori ogni cosa:
- La notte delle celebrazioni, a quel matrimonio, mesi fa… - sussurrò, riprendendosi dal pianto e allontanando il volto dal suo petto, per guardarlo negli occhi. – Quando vi è stato lo scambio di corpi, la ricordi…?
Blake sciolse l’abbraccio e fece mente locale. – Non ricordo nulla di quella notte. Nessuno ricorda nulla – le rispose confuso.
- Io qualcosa lo ricordo…
- Davvero?
- Noi due ci siamo svegliati nudi, uno sopra l’altra, coperti di sangue, ricordi?
- Questo lo ricordo, sì – confermò lui. – Perché me lo stai dicendo, ora?
- Perché è successo qualcosa quella notte, Blake… qualcosa che vorrei poter ricordare distintamente… non è stata un’orgia come tutte le altre, no…
- Che cosa intendi, Beitris?
- Tutto ciò che so… è che mi sono scambiata di corpo con padre Craig quella notte – gli confessò, valutando la sua reazione.
Blake era a dir poco sbigottito da tale informazione. – Non può essere… sei sicura?
- Dico davvero… lui era nel mio corpo. Io nel suo. E non è tutto. Abbiamo giaciuto insieme, l’uno con l’altra, io e il prete. Ed è come se avessimo giaciuto con noi stessi, davanti ad uno specchio, capisci? Qualcosa di strano, torbido… ma non è questo che mi turba. Sia io che padre Craig abbiamo già metabolizzato quello che è avvenuto tra noi.  
- Lui lo sa, quindi…?
- Sì. È venuto da me, molto volte, per scoprire cosa gli fosse accaduto.
- Ecco perché i giorni dopo la celebrazione era così ossessionato da quella storia. Non ne avevo idea… - Blake era ancora stupito, spaesato, da tale confessione. Infondo, padre Craig era molto attaccato al suo credo, alla sua religione, al suo voto di castità. Non doveva esser stato facile per lui, venire a sapere di aver fatto una cosa simile mentre non era in sé, pensò il ragazzo.
- Questa non è la cosa che mi preoccupa, Blake… - insistette la ragazza, agitata, guardandolo.
- Cosa ti preoccupa, allora?
- Ciò che mi preoccupa è cosa abbiate fatto tu e Judith, quella notte.
- Io e Judith…? Ti sbagli, Beitris, quella notte Judith si è ritrovata in una zona del tutto diversa rispetto a dove eravamo noi. Inoltre, io e lei a malapena ci conoscevamo.
- Io so solo che ho ricordi sfocati, troppo confusi, ma che ho un bruttissimo presentimento a riguardo.
- Naren l’ha violentata quella notte, ingravidandola. Io non c’entro niente con questo.
- Siete coinvolti tutti e tre in ciò che vi è accaduto… siete colpevoli e vittime allo stesso modo, tu e Judith. Blake, io so solo che, fin quando non scoprirete ciò che avete fatto quella notte, non vi sarà mai l’armonia tra di voi.
- Virve, mi stai spaventando.
- Non è mia intenzione, ma voglio solo metterti in guardia – gli sussurrò, prendendogli il viso tra le mani e guardandolo dritto negli occhi. – Siamo tutti marci, Blake. Tutti. Dal primo all’ultimo.
Blake restò a guardarla e lasciò che lei facesse tutto ciò che volesse.
D’altronde, era l’ultima notte che avrebbero trascorso insieme.
- Sai… - disse lei. – Tutti quelli che vengono a trovarmi, qui, mi portano sempre qualcosa, per tenermi buona.
Solitamente si tratta di cibo, dato che è ciò che mi manca di più qui dentro.
Ma tu no. Tu sei venuto a mani vuote.
Tu non hai bisogno di tenermi buona, Blake. Non ne hai mai avuto bisogno – gli sussurrò, circondandogli i fianchi con le mani e stringendolo di nuovo a sé. – Non sono stupida, Even. Non sei venuto a trovarmi per mesi… se sei venuto oggi, ci dev’essere un motivo importante, non è vero? Sto per morire…? Dimmi la verità.
Blake si sorprese della tranquillità con cui lo disse.
Si lasciò stringere, accarezzandole la schiena mentre guardava un punto fisso nel vuoto. - Sì. Stai per morire.
- Sei venuto a darmi l’ultimo saluto.
Gentile da parte tua.
- Beitris… io e Judith abbiamo creato un marchingegno con la polvere nera. Un’arma mortale, che vorremmo venisse usata nelle esecuzioni, al posto del rogo.
Dovrebbe essere una morte veloce e indolore.
- “Dovrebbe”? – domandò lei, distaccandosi e guardandolo negli occhi.
- Tu sarai la prima con cui lo useremo.
Non posso garantirti andrà tutto bene, ma lo spero. Con tutto il mio cuore.
- Dunque, è vero… sei qui perché morirò a breve… - realizzò concretamente lei. – Ho trascorso talmente tanto tempo qua dentro, da autoconvincermi che non mi avrebbero mai uccisa… con quei riti di purificazione, pensavo avessero cambiato idea.
Dovrei essere felice di morire, invece di condurre una vita simile.
Tuttavia… ora che mi stai sbattendo la realtà dei fatti davanti agli occhi… ho tanta paura. Ho tanta paura, Blake.
- Non averne – la rassicurò lui, accennandole ancora un sorriso, un sorriso che veicolava tutta la compassione del mondo e che la spinse a piangere ancora.
Le lacrime riiniziarono a rigarle le guance scavate, mentre lo guardava. – Morirò… e non so neanche se il Diavolo mi accoglierà tra le sue braccia…
- Lo farà.
- Ci credi davvero…?
- Beitris, andrà tutto bene. Non morirai al rogo, non morirai tra atroci sofferenze.
- Una magra consolazione.
Mi ricorderai, Blake?
- Certo che ti ricorderò.
Sarai sempre con me.
- Promettimi che sarai presente anche tu all’esecuzione…
Ti prego, Blake, promettimelo. Ne ho bisogno… - lo supplicò tra le lacrime, stringendogli i polsi.
- Te lo premetto.
- Ho bisogno di averti lì…
- Te lo giuro, sarò lì – le garantì, baciandole la fronte e ascoltando il suo pianto.
- Non andare via. Non lasciarmi sola ora…
- Devo andare… sarò lì, hai la mia parola.
- Quando avverrà?
- Tra qualche giorno.
E dopo essersi detti addio, il ragazzo uscì dalla cella, riprendendo la strada di casa con un macigno nel cuore.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 60
*** Flagello di Dio ***


Flagello di Dio
 
 
- Dove state andando? – quella voce familiare lo riscosse. Blake si voltò verso la sua fonte, cessando di riporre dentro il sacco qualche provvista per una colazione improvvisata.
Era appena l’alba.
Padre Craig lo guardava dall’imbocco del corridoio, evidentemente appena svegliatosi, attendendo che il ragazzo rispondesse alla sua domanda.
- Alla galleria – gli rispose lapidariamente Blake, dandogli nuovamente le spalle e continuando a porre dentro la sacca qualche mela matura e un grappolo d’uva.
 - Così presto?
- Ci vado spesso verso quest’ora.
- Judith dorme ancora?
A tale domanda, Blake si voltò verso di lui, scrutandolo a distanza. – Judith se ne è andata. È tornata a vivere alla cattedrale, oramai da giorni.
- Davvero…? Non me ne sono accorto. Aveva iniziato a vivere qui e-
- Certo che non ve ne siete accorto: nell’ultima settimana siete rincasato solamente a tarda ora, trascorrendo tutta la giornata fuori casa, evitandoci in ogni modo – il tono di Blake era meno accusatorio di quanto potesse sembrare, ma per padre Craig equivalse comunque ad una pugnalata allo stomaco. – Non vi siete nemmeno reso conto che Judith non vive più qui – aggiunse il ragazzo, continuando a fare quello che stava facendo, placidamente.
- Come mai è tornata alla cattedrale? Avete discusso?
- Niente affatto. Tutt’altro: doveva parlare con i monaci, doveva affrontarli, riguardo la mia relazione con lei, per non scappare più da loro.
- Dunque è riuscita a confessare ai monaci di voi due? Come l’hanno presa? – padre Craig avanzava sempre di un passo, ad ogni domanda che gli porgeva.
- L’hanno accettato. È riuscita a convincerli a darci la loro approvazione – Blake si limitò a dire solo l’essenziale, come se non vedesse l’ora che quella conversazione giungesse al termine.
- Ne sono felice – rispose il giovane prete, arrivando ad un metro di distanza dal ragazzo.
- Ditemi – disse Blake, voltandosi ancora nella sua direzione. – Come avete passato tutte le vostre giornate, quest’ultima settimana?
Non avrebbe avuto senso mentirgli, pensò padre Craig. Tanto valeva essere sinceri, una volta tanto. - Alle cripte dissotterrate. E alla tomba provvisoria di Folker. A pregare. E a pensare – rispose, scrutando lo sguardo del ragazzo dinnanzi a sé. Blake aveva delle occhiaie scure sotto gli occhi, e attendeva che il prete continuasse a parlare. – Avevo bisogno… di allontanarmi da voi – ammise Craig, abbassando lo sguardo.
Calò un lieve silenzio tra loro.
- Ed è servito? – gli domandò infine Blake. – È servito a qualcosa, starci lontano? – il suo tono era sincero, privo di risentimento.
Anche a quella domanda, rispose sinceramente. - No – disse rialzando lo sguardo su di lui, e fu come se, quell’unica verità, avesse ripagato tutte le bugie che gli aveva detto sino a quel momento.
Blake non disse niente, ricambiando lo sguardo per un po’, poi gli si avvicinò di un passo. – Ho saputo cosa vi è accaduto la notte dei festeggiamenti, mesi fa. Con Beitris.
Padre Craig impietrì.
Blake aveva visto Beitris.
Beitris gli aveva raccontato ciò che era successo.
Come aveva potuto fargli questo, Beitris…?
Ma nel volto statuario del ragazzo non vi era traccia di compatimento, né di disgusto, né tanto meno di sdegno. – Deve essere stata dura, per voi… venire a scoprire una cosa simile, venire a scoprire di aver violato il vostro voto di castità mentre non eravate in voi – disse solamente, con un accenno di tristezza nella voce.
Blake era triste, per lui.
- L’ho accettato – gli rispose, con un accenno di voce. – L’ho accettato da tempo.
Blake annuì in risposta.
- A proposito di Beitris… - riprese il giovane prete. – Ho saputo che l’esecuzione è fissata per oggi pomeriggio.
- Esatto – rispose Blake allungando la mano per prendere il suo sacco con le provviste all’interno.
- Quanto tempo pensate di rimanere là sotto, a scavare? – gli domandò padre Craig. – Le provviste vi basteranno?
- Dovranno bastarmi solo per la mattinata. All’ora di pranzo saremo già fuori, io e gli altri scavatori. Sarò fuori, per essere presente all’esecuzione di Beitris. Io devo essere presente.
- Tuttavia, è previsto un temporale, nel pomeriggio. L’esecuzione al rogo dovrebbe essere rimandata, dato che pioverà – espose i suoi dubbi il giovane prete.
- Non verrà rimandata, in quanto non sarà un’esecuzione al rogo. Il fuoco non toccherà Beitris.
- Non capisco cosa intendete…
- Lo capirete oggi pomeriggio, quando assisterete all’esecuzione – concluse il ragazzo.
- Blake – lo richiamò, prima che si dirigesse verso l’uscita della casa. Una casa ancora silenziosa, macchiata solo delle loro due voci.
- Cosa c’è?
- Non voglio essere in lotta con voi.
- Voi non siete in lotta con me. Non lo siete mai stato.
- Non pensate che io non approvi il vostro rapporto con Judith. Tutt’altro, ne sono felice. Mi sono allontanato da voi solo perché sono accadute sin troppe cose ultimamente, eventi funesti, che hanno messo a dura prova la mia fede. Avevo bisogno di riavvicinarmi a Dio – disse, sapendo di star dicendo la verità solo in parte. – Ho pregato anche per il ritorno di Quaglia.
- Avete fatto bene. Pregate per lui, voi che potete.
Ad ogni modo, non dovete giustificarvi, né scusarvi di nulla. Io non l’ho fatto, quando mi sono rinchiuso dentro la fucina per una settimana, senza lasciare entrare nessuno.
Allontanarsi da qualcuno non è sempre sintomo di distaccamento, bensì anche del desiderio di riflettere, di far del bene, tramite una lontananza emotiva ragionata – lo disse sia al giovane prete, che a se stesso, sapendo di dover essere il primo a capirlo. E, forse, anche per Quaglia era stato così. Egli sapeva quello che stava facendo. E Blake si fidava di lui. – Non sono in lotta con voi – ripeté poi, accennando un lieve sorriso, che contagiò padre Craig.
Ora che lo vedeva vestito con abiti semplici da paesano, lì davanti a sé, gli sembrava un giovane uomo esattamente come lui.
Oramai erano settimane, forse mesi, che non indossava più la tunica monacale. Tuttavia, il suo crocefisso, quello lo indossava sempre, appeso al collo.
Blake si avviò verso la porta, per poi fermarsi davanti l’uscio. – Che cosa vi ha detto il Creatore, quando lo avete pregato? – gli domandò improvvisamente, a distanza, sorprendendo padre Craig, il quale gli fissò la schiena, non sapendo cosa rispondergli.
- Credevo faticaste a credere che un dio possa comunicare con un uomo…
Credevo faticaste a credere in un dio, in generale… - rispose il giovane prete, scorgendo lo sguardo turbolento negli occhi del ragazzo, di profilo.
- Sono io a non crederlo.
Ma voi ci credete – spiegò egli. – Allora? Vi ha dato le risposte che cercavate?
- In parte – gli rispose padre Craig, udendo già il rumore di un tuono squarciare il cielo albeggiante, trasalendo. – Siete sicuro di voler andare alla galleria, con un temporale in arrivo…? Non potrebbe essere pericoloso?
- Non lo sarà, non temete. Ci vediamo oggi pomeriggio all’esecuzione, padre – disse il ragazzo, aprendo la porta di casa e uscendo.
- A oggi pomeriggio, Blake.
 
 
“La memoria è sempre stata un mio chiodo fisso, in questi ultimi mesi.
Di te ricordo il profumo dei tuoi capelli.
Il colore della tua giovane voce.
La consistenza della tua pelle.
La cadenza del tuo respiro regolare, durante il sonno.
Ricordo il tuo aspetto. Il tuo sorriso. Il tuo broncio. I tuoi occhi illuminati dal fuoco e dalle lampade.
È questo che dovrebbe ricordare un padre, di suo figlio, no?
È questo.
Dunque, ricordo già tutto ciò che mi serve.
Anche se vorrei ricordare molto, molto altro, di te.
Non rimembro come ci siamo lasciati prima che tu partissi. Se abbiamo litigato o se ci siamo salutati con un sorriso sulle labbra.
L’unica cosa che so è che, anche se ora sono un uomo diverso rispetto a prima, so per certo che non ho mai voluto che partissi, lontano da me.
Un padre non potrebbe mai volere che un figlio se ne vada.
Lo sto sperimentando solo adesso, man mano che cerco di ricordare sempre più cose, più dettagli di te.
E so per certo, Ruben, che tu sei l’unica cosa che non rimpiango della mia vita passata.
Ma so che ci rivedremo, e quando ci rincontreremo, avremo tutto il tempo del mondo a disposizione, per raccontarci tutto ciò che abbiamo vissuto stando lontani.
Vorrei poter sapere dove sei, dove il tuo esercito ti ha mandato.
Prego che tu sia ancora vivo, anche se non so esattamente chi pregare, dato che io, al contrario di Philippus, non riesco a credere in nessun dio, ancora.
Tutto ciò che voglio dirti ora, Ruben, è che mi serve urgentemente il tuo aiuto, figlio mio.
In questi ultimi mesi, mi sono ricostruito una vita, una nuova vita, in un villaggio chiamato Bliaint.
Si tratta di un villaggio dalla fama particolare, di cui sicuramente avrai sentito parlare, isolato dagli altri.
Al momento, tale villaggio è in grave pericolo.
Rischia di essere raso al suolo da un esercito straniero.
Le truppe di tale esercito sono già vicine a Bliaint, al momento sono loro prigioniero perché sono andato loro incontro, cercando di rallentarli.
Non so se i miei tentativi di dissuaderli serviranno a qualcosa, ma sto cercando di prender tempo come posso.
So che la mia richiesta ti sembrerà strana, Ruben, ma ti chiedo di venire in nostro aiuto.
In quel villaggio vivono delle persone a cui tengo molto, che mi hanno letteralmente salvato la vita.
Persone che desidererei farti conoscere.
Il motivo per cui quel conte straniero, che chiamano Agloveil, vuole invadere Bliaint, è quantomai sciocco e insensato.
Sono certo che i motivi per i quali ti sei voluto unire all’esercito sono nobili. Riesco a ricordarli, soffusamente, ma ci riesco.
Questa è certamente un’impresa nobile, che ti permetterebbe di proteggere un villaggio privo di difese, privo di un esercito proprio, colmo di donne, bambini, ragazzi indifesi.
Se hai anche solo un briciolo di potere, all’interno dei tuoi ranghi… convincili a combattere per noi, figliolo.
Convincili a combattere per Bliaint.
Se ti serve una pietra di scambio da poter presentare ai tuoi generali, per trattare, dì loro che il sottosuolo di Bliaint è colmo di gemme preziose, rarissime, che si trovano solo lì.
Potreste riforgiare i vostri armamenti mille volte, con tale quantità di gemme e pietre preziose.
Dovunque tu sia, ragazzo mio, anima mia… rifletti sulle mie parole.
E prendi la tua decisione.
Se accetterai la mia proposta, ti rivedrò molto presto.
Ed è questo uno dei principali motivi che mi spinge a scriverti: voglio rivederti. Voglio conoscerti, di nuovo, anche se già ti conosco.
Sei una parte di me che non vorrei mai e poi mai lasciare indietro, eliminare dalla mia vita.
Ti rivoglio con me. O, per lo meno, voglio avere la possibilità di rivederti.
Poi, potrai decidere tu cosa fare del tuo futuro, Ruben.
Se vorrai continuare a combattere, lontano da me, non ti fermerò, anzi, ti appoggerò.
Ti appoggerò sempre. Qualsiasi scelta farai. Anche se dovessi decidere di ignorare la mia lettera. Ti amerò comunque, ad ogni costo.
Spero che questo messaggio ti giunga, in qualche modo.
C’è un corvo che mi fissa dalla finestra da giorni. Ho la sensazione sia incantato, e che lo mandi qualcuno da Bliaint. Forse sanno quello che sto cercando di fare. Per questo ho fiducia che questo messaggio ti giungerà.
Spero che tu stia bene, Ruben.
Darei la vita per sapere se stai bene.
                                                                                                                     Con amore,
                                                                                                   Tuo padre, un tempo Philippus”
 
 
Ephram camminò velocemente per il bosco, giungendo al confine, un luogo che stava visitando sempre più spesso, ultimamente.
Oramai conosceva ogni suo passo sull’erba a memoria, ogni fruscio degli alberi, ogni suono dell’acqua del torrente.
Giunse dinnanzi a quella sottile linea invisibile di demarcazione, chiuse gli occhi e si concentrò, per carpire le energie provenienti dall’esterno.
La palla di vetro ai suoi piedi, intanto, si animò, divenendo luminosa.
Myriam era esattamente dietro di lui, e lo osservava in attesa. – Hai qualche notizia?? – gli domandò.
Dopo un tempo che parve infinito, lo stregone riaprì gli occhi, ma non si mosse dalla sua postazione. – C’è riuscito – disse solamente, facendo emergere tutta la propria soddisfazione nella voce.
- Cosa?? Che vuol dire “c’è riuscito”?
- La mia magia ha funzionato, la lettera gli è giunta una settimana fa, non appena il mio corvo l’ha presa dalle mani di Quaglia.
Lui l’ha letta ed è riuscito a convincere il suo comandante a partire, a venire fin qui per aiutarci, con le sue truppe!
Ha impiegato una settimana per convincerlo, ma alla fine ce l’ha fatta!
Sapevo che quel ragazzo ci avrebbe dato soddisfazioni!
- Stai parlando di Ruben, il figlio di Quaglia??
- E di chi sennò?
- Stai parlando sul serio?? Verranno ad aiutarci davvero?? Combatteranno per noi contro l’esercito del conte???
- In cambio di gemme, sì! – confermò Ephram, voltandosi a guardarla, ricambiando il suo sorriso. - Tuttavia, per quanto tutto questo sia sin troppo bello da credere… potrebbero non arrivare in tempo.
- Cosa intendi? – domandò la strega.
- Partiranno oggi. Dall’Asia orientale.
Myriam impietrì. – L’Asia orientale…? È dall’altra parte del mondo!
- Lo so. Erano lì da un anno, in spedizione.
- Come sai tutte queste cose su di lui? Riesci a vederlo?
- No, non riesco a vederlo – le rispose, ponendo nuovamente le braccia in avanti verso il confine, e concentrandosi, per carpire quanta più energia potesse. – Ma posso sentirlo. Riesco a sentire la sua energia, i suoi movimenti. Se riuscissi a concentrarmi completamente, potrei persino capire cosa sta facendo in questo momento. È in gamba – le disse, per poi rivolgere gli occhi al cielo e allargare le braccia. – Mio Signore, Dio degli Inferi, Padre e Padrone di diavoli e arpie, concedimi il potere di proteggerlo a distanza, per far in modo che il suo viaggio proceda spedito e nel migliore dei modi, senza ostacoli; fa’ che egli giunga qui il prima possibile, per fornirci tutto l’aiuto che ci serve, per tenere gli invasori stranieri lontani dalla tua terra sacra e dal tuo popolo, Mio Signore. Egli non è uno dei tuoi figli, tuttavia, possiede il potere di salvarci tutti, dunque, ti prego, anche se egli non crede in nulla, anche se non crede in te, proteggilo sotto la tua ala. Permettimi di pregare per lui, per un fanciullo che non crede in niente – terminò la sua supplica lo stregone, tornando in posizione eretta, sotto lo sguardo scrutante di Myriam.
- Quaglia sta riuscendo nell’impresa di trattenere le truppe del conte, invece? – domandò ella.
- Per ora sì. Non so ancora per quanto. La traversata di Ruben e dell’esercito che porta con sé durerà almeno cinque settimane.
- Cinque settimane. Sono grossomodo le settimane che mancano a Judith per partorire – commentò tra sé Myriam, non rendendosi conto di averlo detto ad alta voce.
- E questo cosa c’entra?
- Sembra quasi un segno.
- Ad ogni modo, ci serve un ulteriore piano, per prendere tempo con i monaci – decretò Ephram.
- Che tipo di piano?
Lo stregone le si avvicinò, fronteggiandola. - Sei cosciente del fatto che, se i monaci dovessero avere la certezza che l’esercito del conte stia giungendo qui da Carbrey, farebbero giustiziare al rogo Blake prima che se lo vengano a prendere, vero?
- Sì, lo so. A quel punto, né la mia mediazione, né quella della loro pupilla sarebbero sufficienti. Cosa suggerisci?
- Un diversivo. Un ribaltamento dei poteri. Una rivoluzione.
- Non si può istigare una rivoluzione dal nulla, Ephram. Beitris ci ha già provato e guarda dov’è finita.
- Beitris non è me.
- Cosa intendi fare…?
- Le basi ci sono tutte, Myriam: un cuore spezzato, decine di anime distrutte dal dolore, malcontento dilagante nei confronti della classe dominante del villaggio, insofferenza nei confronti della tirannia. Pensaci bene. Abbiamo il legno e abbiamo ossigeno in abbondanza: ora dobbiamo solo accendere il fuoco.
Myriam sgranò gli occhi scuri, realizzando. – La tragedia dei due amanti suicidi… la mancata sepoltura… vuoi aizzarli tutti contro di loro.
- Non sarò io ad aizzarli, sono già aizzati. Quello che serve loro è solo una spinta. Ed è esattamente ciò che avranno da me. Stavolta non saranno solo gli stregoni eremiti a rivoltarsi contro i monaci, Myriam. Saranno tutti i servi del Diavolo di Bliaint.
- Il Signore potrà anche non averti graziato con l’umiltà, Ephram, ma di certo ti ha donato audacia e astuzia in abbondanza – si complimentò lei, poco prima che un assordante tuono squarciasse il cielo sopra di loro, interrompendola.
Myriam alzò il volto al cielo, mentre un pensiero le tornava alla mente. – Oggi pomeriggio ci sarà l’esecuzione di Beitris. La nostra Beitris.
- Lo so – le rispose lui, dandole nuovamente le spalle.
- Ci sarai?
- No.
- Non credo alle tue parole. È Beitris, Ephram.
- Ti risulta così strano che io non abbia desiderio di guardarla morire?
- Non si tratta solo di questo. Blake e Judith hanno intenzione di proporre una riforma al sistema di esecuzione dei condannati, quest’oggi. Sperimenteranno questo nuovo sistema proprio su Beitris, per prima – lo informò.
- Di che sistema si tratta?
- C’entra la polvere nera…
- Ora si spiega tutto.
- Selma era categoricamente contraria all’uso della polvere nera, in qualsiasi circostanza. Tuttavia, Blake potrebbe esser riuscito a dominare quell’arma letale, a farne qualcosa di buono, facendone uno strumento di morte indolore – continuò Myriam.
- Se il loro scopo è far cessare i roghi e trovare un metodo più indolore per mettere fine alla vita dei condannati, basterebbe proporre di farli sgozzare o impiccare, come fanno in molti altri villaggi.
Nell’udire tali parole, Myriam volle rimangiarsi il semi-complimento che gli aveva fatto qualche minuto prima. - E tu credi che i monaci lo permetterebbero? – gli rispose a tono. - Per sostituire il rogo, serve un sistema che abbia eguale “efficacia”, dinnanzi al Creatore e al Diavolo, per lo meno dinnanzi agli occhi dei monaci.
Le fiamme del rogo servono a purificare le anime dei peccatori, nel momento della morte.
La polvere nera, anche se in modo diverso, deriva dal fuoco anch’essa.
Viene chiamata “Flagello di Dio” per un motivo: ne parlano tutti come fosse uno strumento ultraterreno, più vicino agli dèi che agli uomini. Dunque, sarebbe una valida sostituta al rogo, in quanto a valore simbolico.
Serve il fuoco per lavare via i peccati? Bene, lo avranno in ogni caso, con la polvere nera, ma, al contempo, i condannati non patiranno le pene dell’inferno nel passaggio all’aldilà.
- Tu cosa credi?
La strega sospirò in risposta. – Voglio sperare che sia davvero così e che andrà tutto bene: non vorrei mai vedere la mia amica, la nostra compagna, strillare come un animale, mentre la sua carne viene consumata dalle fiamme. Preferirei che morisse in qualsiasi altro modo, che non sia il rogo.
Ephram voltò nuovamente il viso verso il cielo grigio e tonante. – Lo spero anch’io.
 
 
Blake diede un’occhiata al cielo sopra di sé, mentre il vento turbolento gli scompigliava i capelli e muoveva i vestiti.
I primi scavatori iniziarono ad uscire dalla galleria, per dare il cambio a quelli dopo, trovandosi invasi da un vento umido e pioggerellante, che aveva iniziato ad imperversare all’esterno. – Da dentro non si sente nulla – affermò uno di loro, raggiungendolo. – La buca è profonda, non c’è pericolo. Abbiamo già affrontato piogge mentre eravamo là sotto, in passato – continuò l’uomo, incoraggiando i più scettici, mentre si sfilava il fazzoletto che gli copriva la bocca.
Gli scavatori pronti per entrare dentro la galleria si voltarono a guardare Blake, tra loro. – Voi cosa ne pensate? Senza un vostro ordine non scendiamo là sotto.
Blake guardò l’uomo che gli aveva posto la domanda, incontrando gli sguardi in aspettativa di tutti gli altri scavatori. – Alaric ha ragione. Avete già affrontato tempeste peggiori di quella che è prevista per il pomeriggio. E, in ogni caso, saremo fuori di lì già in mattinata, perciò non temete – decretò, legandosi il fazzoletto intorno alla bocca, per poi afferrare una delle lampade in mano, e dirigersi verso l’entrata della galleria.
Una volta entrato dentro, il silenzio di quel buco nero lo invase. Un silenzio macchiato solamente dal rumore dei numerosi picconi, il quale, tuttavia, era una litania fissa nelle orecchie del ragazzo.
Si mosse con abilità dentro quel labirinto scuro, illuminato saltuariamente dalla luce delle varie piccole lampade che reggevano in mano le dozzine di scavatori lungo la via.
L’aria era stantia, marcia, velenosa, come lo era sempre.
Proseguì, superando tutti gli altri, fin quando non si trovò dinnanzi ad uno dei più recenti ritrovamenti: un piccolo giacimento di lapislazzuli.
Poi svoltò verso la direzione che ricordava con certezza, quella che percorreva più spesso: in fondo al sesto tunnel sulla destra, un’altra diramazione a destra, in quella zona quasi inesplorata.
“Galena” avevano deciso di chiamare quel minerale, quella pietra che lo attraeva tanto.
Era l’unico su cui quella pietra suscitava un fascino così sinistro e imprescindibile.
Gli altri erano attratti più dai colori sgargianti, fluorescenti o luccicanti, come tutti gli uomini, classicamente ammaliati da tutto ciò che somigliava all’oro.
Blake era l’unico che trovava innatamente affascinante quel minerale scuro, dal colore spiccatamente metallico, grigio-bluastro. Per tale motivo, trovarne un giacimento proprio recentemente, era stata una vera benedizione per lui: avrebbe potuto studiarla più da vicino, ne avrebbe avuta in grandi quantità, per farvi tutte le sperimentazioni che desiderava.
Sfiorò la superficie di quel minerale con la punta delle dita.
- Mio signore, dovreste indossare dei guanti mentre toccate quella pietra, non è stata ancora accertata la sua tossicità – lo riscosse uno degli scavatori, giungendogli alle spalle, sfilandosi i propri guanti e porgendoglieli.
Blake sapeva bene fosse più sicuro indossare dei guanti, d’altronde era stato egli stesso a predisporre di far utilizzare dei guanti a tutti coloro che scendevano in quel buco, dopo la morte di suo padre.
Tuttavia, era pur sempre abituato a saggiare con mano la consistenza di ogni metallo, cristallo o minerale, per riconoscerne le caratteristiche, e percepirne l’essenza, l’energia.
- Tienili tu – rifiutò gentilmente il paio di guanti offertigli e continuò nella sua esplorazione di quell’ipnotico minerale.
Il tempo trascorse velocemente, e più il vento umido soffiava implacabile, più regnava il totale silenzio all’interno.
Benché le pareti di terra fossero ben salde sopra di loro, si verificò una piccola frana, di poco spessore, all’improvviso.
- Che strano, non era mai successo, nelle ultime settimane – commentò Blake, e gli scavatori che erano con lui non poterono che dargli ragione.
- Forse dovremmo uscire di qui. Non è mai un buon segno quando si verificano piccoli crolli, è sempre il preludio a crolli di maggiore entità – propose uno di loro, alzando la lampada.
I suoi uomini si stavano facendo prendere dal panico, considerando come fosse finito l’ultimo crollo interno, avvenuto pochi mesi prima. Blake poteva ben comprenderli e non voleva far correre loro alcun rischio.
Tuttavia, quel piccolo crollo improvviso era stato strano.
Davvero strano.
- D’accordo, andate, uscite di qui. Penseremo domani a rinsaldare la resistenza delle pareti – disse loro, vedendoli acconsentire sollevati, e dirigersi ordinatamente verso l’uscita di quella diramazione.
Erano ancora lontani dall’uscita vera e propria, eppure si stavano verificando altri piccoli crolli, sparsi qua e là, i quali stavano allarmando tutti in poco tempo.
Blake era l’ultimo della carovana, e osservava il panico diradarsi tra tutti gli scavatori dinnanzi a lui.
- Mantenete la calma! – disse a gran voce. – Se vi agiterete in tal modo consumerete solo ossigeno.
Poi, all’improvviso, fu bloccato da una voce distante e soffusa, simile a quella della mandragora, che l’aveva richiamato mesi prima.
“La vita è solo dei viventi”
Si voltò indietro, illuminando l’ambiente circostante, come ipnotizzato da quella voce, seppur lucido.
- Blake, andiamo! Affrettati! – lo richiamò uno degli scavatori, con urgenza.
Era rimasto alcuni passi dietro tutti gli altri, così l’uomo stava tornando indietro per riscuoterlo, prenderlo con sé e farlo uscire di lì.
- Sto arrivando – gli rispose distrattamente, ancora attirato da quella voce, dalla fonte sconosciuta.
- Blake!
- Sto arrivando…
Un’improvvisa frana gli piombò dietro la schiena, prima che riuscisse a rendersene conto, coprendo totalmente la voce dell’uomo reale che stava cercando di raggiungerlo.
Il ragazzo si voltò e ritornò alla realtà, scontrandosi con l’amara concretezza della sua tremenda situazione: era intrappolato. Intrappolato lì dentro, al buio, con poca aria, il pericolo di venire sepolto vivo da un’altra frana e nessuna possibilità d’uscita.
 
 
Era pomeriggio.
Beitris fu condotta fuori dalla sua cella dai monaci, alla luce del sole. O meglio, alla “luce” del cielo scuro, in balìa di tuoni e lampi.
Judith non era giunta da lei il giorno prima della condanna, per leggerle le parole del libro sacro e confortare la sua anima, come faceva con ogni prigioniero.
Per qualche motivo, non vi era riuscita.
Judith non vedeva Blake dal giorno prima, ma era certa che si sarebbe presentato lì, a breve.
Lo avrebbero fatto insieme, si sarebbero dati coraggio a vicenda.
Tutta la folla era già radunata dinnanzi al soppalco, pronta ad assistere ad un rogo che non avrebbe avuto luogo.
Era il primo rogo, dopo mesi.
Per questo la folla era molto più numerosa di quanto lo fosse solitamente, quasi tutto il villaggio era presente in quella piazza troppo piccola per contenerli tutti.
Tra i loro volti in aspettazione, Judith individuò padre Craig, Ambrose, Hinedia, e persino Naren.
All’appello mancavano i volti di Myriam e di Ephram, che Judith era convinta di vedere, in mezzo alla folla.
Probabilmente, avevano convenuto fosse meglio non assistere all’esecuzione della loro compagna e sorella.
Neanche Heloisa e Ioan erano presenti: entrambi avevano contratto una febbre di poca gravità, a detta del medico del villaggio, ma sarebbero dovuti rimanere a letto, specialmente con la minaccia di una tempesta imperversante.
Padre Craig le lanciava sguardi incoraggianti, come anche Hinedia.
Nessuno dei due sapeva realmente cosa si sarebbero dovuti aspettare.
Le mani di Judith tremavano, dietro l’imponente abito di velluto nero.
Beitris aveva la testa bassa, ed era stata trasportata sopra il soppalco, pronta per la “cerimonia” di esecuzione.
Judith deglutì rumorosamente, non riuscendo a credere al fatto che fosse finalmente giunto il giorno.
Il giorno di portare un cambiamento sostanziale alle leggi sadiche e retrograde del suo villaggio.
Aprì il palmo della mano, osservando attentamente la piccola sfera di ceramica che vi riposava sopra, a contatto col tessuto del guanto, colma di quella miscela mortale, calda come lava.
Era assurdo pensare che il famoso “marchingegno mortale” che aveva progettato con Blake, riuscisse a stare dentro il palmo della propria mano, per quanto piccolo.
Quell’oggetto sferico, grande quanto una grossa oliva, era lo strumento più pericoloso del mondo.
Tale consapevolezza, mista all’assenza di Blake, le fece attorcigliare lo stomaco.
Dove diavolo era Blake…? Avrebbero dovuto vedersi un’ora prima dell’esecuzione, invece del suo ragazzo ancora non vi era alcuna traccia.
E non sembrava l’unica a cercarlo con lo sguardo: Beitris si guardava intorno come un gatto spaurito, scandagliando le figure di tutti i presenti, in cerca dell’unico viso che pretendeva di vedere.
Ad ogni modo, in caso di un suo improbabile ritardo, Blake le aveva brevemente spiegato come fare.
Un ritardo impossibile, perché lui doveva esserci, era l’ideatore di tale strumento, l’unico che avrebbe dovuto farlo funzionare nel modo giusto.
E il solo fatto che fosse la prima volta che lo usavano, per togliere una vita umana, rendeva la presenza del suo creatore ancora più necessaria, al momento.
Perché Judith era la mente, la forma: la facciata formale che avrebbe permesso loro di annunciare quel cambiamento, con il benestare dei monaci e di tutto il villaggio.
Blake, invece, era il braccio, il corpo, la materia: senza le sue conoscenze e le sue competenze in campo alchimistico, quell’arma rimaneva solamente un’idea astratta, un sogno irrealizzabile.
Judith chiuse gli occhi, prendendo un bel respiro, e ripensando alle parole del ragazzo, pronunciatele la sera prima:
- Ne esiste una variante, usata ad Est, che chiamano “fuoco greco”, ma di cui non so molto – le aveva detto il ragazzo, strusciando via dalle coperte, rialzandosi in piedi e avvicinandosi alla sfera di ceramica che aveva poggiato sopra il tavolo. Judith lo guardava dal letto. Guardava il suo corpo e ascoltava la sua voce. – So solo che lo usano sia in battaglie navali che in assedi, e che lo lanciano con delle catapulte – continuò Blake, passandosi l’arma mortale da una mano all’altra. - Le catapulte lanciano anfore contenenti la miscela. Oppure, con i lanciafiamme.
- Cos’è un “lanciafiamme”? – gli aveva domandato lei. Non se ne intendeva di guerra, non aveva mai letto molto sull’argomento.
- Uno strumento che riesce a lanciare fuoco accompagnato da un forte suono e da una spessa nube di fumo – le rispose lui, riavvicinandosi al letto. - Equipaggiati con elaborati lanciafiamme, foderati in pelle di bovino, il liquido simile a lava fuoriesce sotto forma di un getto di fuoco, che dicono raggiunga metri e metri di distanza. La fiamma dura pochi secondi ma, se manovrata bene, è in grado di incendiare una nave intera. Forse ho capito come ci riescono: riscaldano il composto con un braciere, poi lo pressurizzano e lo lanciano sotto forma di getto infiammato attraverso una bocchetta.
- Affascinante. In tutto ciò, non mi hai ancora spiegato come si usa il nostro, di marchingegno – disse lei, alzando la testa dal cuscino, coprendosi le nudità con la coperta bianca, mentre lui le si riavvicinava e le poneva in mano la sfera di ceramica.
- Ah..! – si lamentò lei, presa alla sprovvista. – Brucia…
- Deve bruciare, per come l’ho pensata io. Se indosserai i tuoi abituali guanti, ti brucerà di meno – la rassicurò. – Non ti ustionerà, non preoccuparti, la ceramica non lo permetterà. Ad ogni modo, ci sarò io a farlo, con te, perciò non temere.
- Lo so, Blake. Ma se dovesse accadere qualcosa… qualsiasi cosa… voglio sapere come si usa.
- Allora te lo dirò. Però, prima, devi sapere che c’è un metodo, per capire se funzionerà, o se c’è qualcosa che non va – la ammonì in un sussurro. – Se la superficie della ceramica non scotta… allora è più saggio non utilizzarlo; significa che bisogna ripreparare la miscela. Finché scotta, come ora, ci saranno maggiori probabilità che funzioni.
- E com’è… che funziona?
- Una volta ingoiata, le sembrerà di aver ingerito semplicemente un the bollente, che le provocherà bruciore a tutti gli organi interni. Ma il dolore durerà solo un secondo. Il calore del corpo permetterà alla miscela di polvere calda come la lava di un vulcano, di sprigionarsi all’esterno, in un “botto” che finirà per ucciderla, nell’immediato. L’ho progettata per fare effetto ad una velocità tale, che la sua mente non si accorgerà neanche di cosa sta succedendo. Sarà morta in un battito di ciglia, senza spargimenti di sangue, né pezzi di carne ustionati e strappati dalle ossa. La quantità che ci ho messo dentro, e la composizione… la renderanno quasi indolore.
Judith ascoltò tutto con estrema attenzione, fissando poi quella sfera ardente tra le sue mani, turbata. - Com’è possibile? Che Dio abbia creato un’arma tanto formidabile e fuori controllo…?
- Non è stato Dio a crearla.
Sono stati gli uomini, Judith.
Judith riaprì gli occhi, come risvegliandosi da un sogno.
Osservò padre Thomas salire sul soppalco e alzare la fiaccola al cielo, prepararsi per appiccare il rogo, nonostante la minaccia della pioggia. Intanto, padre Petrit si accingeva a legare la condannata al palo.
In quegli ultimi giorni, aveva provato a convincerli in ogni modo.
Ma a nulla erano valse le sue parole.
Aveva provato a convincere i monaci con parole vellutate, e in seguito con urla e ordini.
Non li aveva convinti. Per quanto la morte tramite polvere nera potesse essere simile alla “purificazione” che offriva il contatto della fiamma sulla pelle viva, non bastava.
E Judith cominciò a pensare che loro ci godessero, ci godessero davvero a vedere bruciare al rogo i servi del Diavolo, a vederli strillare come demoni mentre gli si consumava la carne dalle ossa.
Forse la compagnia degli stregoni eremiti aveva ragione. Forse tutti avevano ragione.
Poi scacciò quelle malevoli insinuazioni e decise di dare loro un’ultima possibilità, il giorno stesso dell’esecuzione.
Non si era arresa. Li avrebbe convinti in quel momento stesso, dinnanzi a tutta la folla e, stavolta, avrebbe fatto di tutto, letteralmente di tutto, per convincerli a permetterle di uccidere Beitris con la polvere nera, rinunciando al rogo.
Per questo, a Blake aveva detto di aver già convinto i monaci, giorni prima.
Non vi era bisogno che egli sapesse, dato che, in ogni caso, Judith avrebbe forzato i monaci a lasciar far loro ciò che volevano, in un modo o nell’altro, quel pomeriggio stesso.
Non era tanto solo la pietà che nutriva per quelle anime condannate a spingerla in quell’impresa mastodontica, no. Era il desiderio di agire, di cambiare le cose e, in parte, anche di farsi valere, di lasciare un segno all’interno di quel villaggio.
Tremava. Tremava ancora, perché Beitris stava già venendo legata, Blake ancora non c’era e lei era sola, senza alcun sostegno. Avrebbe dovuto alzare la voce e fermare le mani di padre Petrit che stavano legando il corpo sfinito e martoriato di Beitris al maledetto palo, mentre il cielo tuonava e si lamentava.
Improvvisamente, la pioggia decise di palesarsi, tempestandoli violentemente di acqua dolce e salata.
Motivo per cui, i monaci si fermarono.
Non avrebbero potuto appiccare il fuoco, con la consapevolezza che la pioggia lo avrebbe spento un minuto dopo, ne era cosciente.
Quello era il suo momento.
Era come se il cielo le stesse mandando un segno, nonostante Blake ancora non ci fosse.
Poi, Judith notò del fermento tra la folla: due uomini, vestiti da scavatori, completamente imbrattati di terra dalla testa ai piedi, si stavano facendo spazio tra la gente, i volti allarmati e stravolti.
Solo vedendoli, Judith capì che vi fosse qualcosa che non andava.
Gli uomini si avvicinarono a padre Craig e gli parlarono concitatamente. Hinedia, che era vicino a lui, ascoltò tutto.
Judith vide palesemente il volto di padre Craig sbiancare, diventando ceruleo, nonostante la pioggia le limitasse la vista a distanza.
Il cuore le si fermò dentro il petto.
Blake.
È accaduto qualcosa a Blake.
Quella maledetta galleria non si smentiva mai.
Ma no, non le avrebbe permesso di portarglielo via.
La fanciulla venne riscossa dai suoi pensieri dalle braccia di padre Craig, il quale le si era avvicinato insieme ad Hinedia, e le stringeva le spalle coperte dal tessuto zuppo di pioggia.
- Judith… hanno detto che Blake è rimasto bloccato dentro la galleria, da una frana improvvisa.
È rimasto intrappolato solo lui, gli altri sono riusciti a scappare in tempo…
Stanno cercando di tirarlo fuori, ma non ce la fanno, il muro di terra sembra invalicabile.
È bloccato là sotto, Judith.
Le parole del prete le scivolarono nelle orecchie come se non potesse udirle davvero.
Immateriali, inconsistenti, inafferrabili.
Era rimasta immobile, sotto la sua presa, inerme, a fissare le sue labbra bianche e tremanti riferirle una notizia che non avrebbe mai, mai voluto udire.
- Judith…? Judith… ti prego, dì qualcosa…! – la riscosse il giovane prete, in assenza di reazioni della fanciulla.
- Da quanto…? – domandò solamente lei, sentendo la propria voce come estranea.
Hinedia la guardava preoccupata, più di padre Craig, e non si capiva se fosse più preoccupata per Blake bloccato là sotto, o per lo stato di Judith in quel momento.
- Che cosa…? – le domandò il giovane prete.
- Da quanto è rimasto bloccato là sotto…?
- Dicono da stamattina.
- Lui è bloccato là sotto da stamattina… ed io lo vengo a sapere solo adesso?! Per quale dannato motivo ce lo stanno riferendo solo ora…??? – domandò furente, tirando fuori una voce tremenda e agghiacciante, che riusciva persino a sovrastare il rumore della tempesta che sembrava voler squarciare la carne.
- Ti rendi conto che potrebbe essere già- si bloccò, non volendo neanche pronunciare quella atroce parola, non volendo nemmeno pensare a quella orrenda possibilità.
- No! – esclamò padre Craig, allontanandosi da lei come scottato. – Non osare dirlo! È vivo, Judith, e lo tireremo fuori! Costi quel che costi!
- Lo stiamo cercando da ore, padre… - intervenne lo scavatore che lo aveva informato. – Stiamo cercando di buttare giù la frana che ci separa da lui, da ore, e siamo in ventidue…
- È impossibile… è impossibile! – esclamò Hinedia, adirata a sua volta. – Perché non siamo stati avvertiti prima??
- Volevamo cercare di tirarlo fuori senza destare scalpore, né allarmare nessuno… ma, constatando che non riusciamo a trovarlo… abbiamo capito fosse meglio che lo sapeste.
I tre ammutolirono, fissando quell’uomo come se volessero scuoiarlo vivo.
Ma colei che aveva lo sguardo più spaventoso in assoluto, era la fanciulla dalla chioma cremisi.
- Vado a cercarlo io, Judith. Lo troverò, vedrai. Lo troverò! – padre Craig era certo delle proprie parole, e Judith lo era a sua volta, dato che, se non lo fosse stato, probabilmente si sarebbe tagliato la gola da solo, seduta stante. – Andrò alla galleria e lo cercherò ovunque!!
- Trovalo, padre. Conto su di te – gli disse, cercando di non agitarsi ulteriormente, percependo già i gemelli scalpitarle dentro come montoni.
Il prete le lasciò le spalle e raggiunse gli scavatori, affrettandosi a dirigersi in direzione della galleria, mentre la pioggia continuava a scagliarsi su di loro con rabbia.
- Cos’è stato tutto questo fermento…? – domandò padre Thomas, contrariato da tutto lo scompenso che l’arrivo di quegli scavatori trafelati aveva provocato tra la folla: genti che borbottavano tra loro, angustiati, non sapendo cosa stesse accadendo, domandandosi chi, questa volta, fosse rimasto bloccato in quel buco oscuro infernale. – Che cosa sta succedendo…?? – continuò padre Thomas, confuso da tutta quell’agitazione.
Judith tremò ancora. L’assenza di Blake non comportava solo una lacerante preoccupazione per lui, bensì anche qualcos’altro…: avrebbe dovuto farlo da sola.
L’idea di rimandare tutto e di recarsi a sua volta a cercare Blake, fornendo supporto morale agli scavatori, le attraversò la mente, martellandola costantemente, in quei minuti decisivi.
Probabilmente era sbagliato essere così affrettati.
Vi erano tutti gli elementi per rimandare quella dannata esecuzione: la tempesta, Blake bloccato dentro la galleria, Judith che non riusciva a ragionare lucidamente…
Era come se i Signori le stessero parlando, dicendole di non farlo, di rimandare.
Infondo, non le sarebbe costato nulla rimandare tutto: Beitris sarebbe vissuta un giorno in più, e Blake sarebbe stato ritrovato vivo, e avrebbe potuto essere presente anche lui all’esecuzione, come era giusto che fosse.
Tuttavia… doveva farlo. Doveva farlo quel giorno. Non poteva aspettare oltre.
Sentiva che, se avesse atteso… non l’avrebbe più fatto.
Perché quella polvere nera, nonostante fosse stata una sua propria idea, la spaventava comunque, come spaventava esattamente tutto il resto del mondo, che la chiamava “Flagello di Dio”, a ragione.
Non poteva lasciarsi prendere dalla paura.
Se non avesse mostrato coraggio lei, allora non avrebbe potuto mostrarlo nessuno.
Quando avrebbero ritrovato Blake… sicuramente lui non l’avrebbe perdonata a cuor leggero, per aver agito senza di lui, per aver rischiato in tal modo e averlo escluso in un giorno tanto importante.
Sarebbe stato difficile fargli capire i motivi che la stavano spingendo a fare comunque quello che si era proposta di fare, anche senza di lui.
Perdonami, mio amore.
Perdonami.
- Judith… - la voce di Hinedia la riscosse. La ragazza le stava stringendo i polsi, cercando di farla tornare alla realtà. – Judith, stai bene…?
- No – le rispose. – E tu?
Hinedia la guardò in silenzio, sapendo non ci fosse bisogno di parole.
Era ovvio che entrambe non si sarebbero date pace, fin quando Blake non fosse stato tirato fuori dalla galleria sano e salvo.
Lo sguardo complice che si scambiarono era un ennesimo segno del loro legame inscalfibile, e fu la spinta giusta che diede l’audacia a Judith di compiere quel gesto folle.
- Rimarrai al mio fianco, Hinedia? Mi sosterrai? – le domandò, guardandola negli occhi attraverso la pioggia, stringendole i polsi a sua volta con forza inumana.
- Sempre, amica mia. Ti sosterrò sempre.
- Bene. Perché mi servirà il tuo supporto ora…
- Dimmi cosa devo fare.
Judith le rivolse un sorriso storto, macchiato, doloroso, che fu in grado di far pietrificare la serva del Creatore. – Vai nelle cucine della cattedrale… e prendimi un coltello da cucina.
- Cosa…? – Hinedia aveva il terrore di chiederle a cosa le servisse, ma le aveva promesso che l’avrebbe sostenuta, perciò sapeva che non importava cosa Judith avesse in mente, l’avrebbe appoggiata, sempre.
- Affrettati, Hinedia, presto – rispose semplicemente Judith, vedendola fare come le era stato chiesto, e dirigersi verso la cattedrale dei Creatore.
 
 
 
Subito dopo esser rimasto intrappolato lì dentro, in un istinto irrazionale, Blake aveva cercato di superare quell’enorme ammasso di terra che lo divideva dall’uscita, scavando con le mani. Si era arreso dopo qualche minuto, con un lamento di disappunto, per poi iniziare a riordinare le idee e capire come muoversi.
La lampada ad olio sembrava avere ossigeno a sufficienza per restare accesa.
Bene, quello era l’importante: la lampada era la sua unica possibilità di vedere qualcosa lì dentro, di trovare una via di fuga.
Eppure, chi avrebbe voluto prendere in giro?
Non c’erano vie d’uscita lì dentro.
Era rimasto sepolto vivo, dentro quel labirinto asfissiante e claustrofobico.
Iniziò a vagare per le varie diramazioni dei tunnel, sperando di trovare qualcosa di utile.
Ovviamente, trovò diversi picconi, abbandonati lì dai suoi uomini che erano accorsi verso l’uscita immediatamente.
Forse gli sarebbero ritornati utili sì, ma non di certo per scavare una buca verso l’alto e sbucare fuori così. Per un’operazione simile, avrebbe impiegato giorni, e gli ci sarebbe voluta la forza di dieci uomini. Era troppo in profondità.
Eppure… una volta c’era quasi riuscito, quando aveva trovato quella maledetta mandragora.
Tuttavia, quel giorno di mesi prima, era come guidato da una forza esterna, non sua.
Vagò ancora per i vari tunnel, illuminando l’ambiente circostante e i vari piccoli giacimenti.
Ciò che era accaduto quel giorno era alquanto anomalo.
Non poteva essere colpa della tempesta. La pioggia rendeva la terra più morbida e pastosa sì, ma solo in superficie. A quella profondità, la pioggia non aveva alcuna rilevanza. Inoltre, non stava ancora piovendo quando era rimasto bloccato lì.
Allora, perché vi era stata quella frana improvvisa?
A cosa era dovuta?
Improvvisamente, quella voce tornò:
“La vita non è dei viventi”
E come lo aveva guidato in precedenza, lo guidò ancora.
Si accorse che proveniva dal fondo di una delle diramazioni. Proveniva dalla terra. Una zona di quel luogo ancora totalmente inesplorata.
Iniziò a scavare con i picconi, con veemenza e impeto, cercando di raggiungere quella dannata voce, sperando che almeno quella potesse dargli indizi, indicazioni, su come uscire illeso da una situazione simile.
La fatica gli stava facendo consumare moltissimo ossigeno, e il fazzoletto che gli comprimeva naso e bocca, per limitargli l’assorbimento di quante più sostanze tossiche possibili, gli faceva mancare l’aria, sempre più, fino a provocargli delle violente vertigini.
Tuttavia, continuò a scavare, a scavare e a scavare, mentre la Voce continuava a vezzeggiargli le orecchie.
- Dove sei… - sibilò il ragazzo, oramai allo stremo delle forze, dando un ultimo colpo di piccone che gli diede accesso ad una zona della galleria sepolta nel tempo, totalmente sconosciuta agli uomini della sua epoca: sbucò su una discesa di terra morbida, viva, talmente stretta, da risultare impossibile da attraversare per qualsiasi corpo adulto.
Blake ci si infilò dentro comunque, rimanendo inevitabilmente incastrato.
Fece passare un braccio, poi l’altro, poi entrambe le spalle, esattamente come faceva con la stretta finestrella della fucina, urlando di dolore nel momento in cui la terra gli si strinse talmente forte attorno al corpo, da bloccargli il respiro.
Oramai era sul punto di perdere i sensi.
Tuttavia, non si arrese. La sua volontà prevalse, dunque continuò a strisciare lì dentro, facendo passare attraverso quel buco strettissimo anche il busto, il bacino e le gambe.
Strisciò in quel passaggio per qualche minuto, verso il basso, fin quando non si ritrovò in un ambiente ben più spazioso.
Ma non fece in tempo a dare un’occhiata a quella “stanza” vasta, situata nella zona più profonda della terra, che svenne a terra, cadendo nell’incoscienza.
 
 
Padre Craig camminò speditamente sopra il vastissimo terreno tanto scuro da sembrare nero.
La terra era bagnata, densa, ma non appiccicosa. Un’ansia paralizzante, che non aveva mai provato in vita sua, lo pervadeva.
- Dovremmo avvertire sua madre e suo fratello, padre? – gli domandò improvvisamente uno degli scavatori, affiancandolo.
- No – gli rispose senza pensarci. – Meglio che Heloisa e Ioan non lo sappiano fin quando non lo avremmo ritrovato. Conoscendoli, vorranno venire qui anche loro per cercarlo, e non possono permettersi di prendere la pioggia, con la febbre che hanno – rispose.
Se … riusciremo a ritrovarlo.
Il giovane prete si legò il fazzoletto intorno alla bocca ed entrò nella galleria con i vestiti che aveva. Era entrato una sola volta lì dentro, mesi prima, con Blake, appena giunto a Bliaint. Quel luogo… era sempre stato in grado di suscitargli dei brividi che mai nulla era stato in grado di provocargli.
Era come se vi fosse qualcosa là sotto… qualcosa di oscuro, di sconosciuto, di estraneo al mondo dei viventi.
Qualcosa che attirava Blake come una falena con la fiamma… e che ora lo teneva intrappolato, risucchiato dentro di sé.
Eppure, nonostante la puzza di terra umida, nonostante il freddo, nonostante la sensazione di soffocare, non se ne curò, non si curò di nulla.
Procedette, seguendo lo scavatore che gli stava facendo strada in quel buco nero, con la lampada in mano.
Giunto in profondità, in uno dei principali tunnel, individuò almeno dieci uomini tentare di penetrare il muro di terra franato, che li divideva dal ragazzo.
- È inutile continuare! – esclamò uno degli scavatori, allo stremo delle forze. – Oramai sarà spacciato!
Spacciato…
Sembrava che i picconi, per quanto numerosi e appuntiti, non riuscissero in nessun modo a penetrare quel muro mastodontico di terra nera.
Fu a quel punto, che padre Craig provò un terrore tale da farlo vacillare, fino a fargli quasi perdere i sensi.
Il terrore materializzatosi, di una ricerca che sarebbe durata giorni e giorni… terminata con il ritrovamento di un cadavere divorato dai vermi.
 
 
Quando lentamente riaprì gli occhi, risvegliandosi dall’incoscienza in cui era piombato, Blake ci mise un po’ a focalizzare l’ambiente intorno a sé.
Aveva sperato si trattasse solo di un incubo, invece era tutto reale: si trovava ancora intrappolato nella galleria, in quella zona profondissima, nascosta e sepolta da decenni.
Lo spazio in cui si trovava, dove era giunto tramite quel passaggio strettissimo che gli aveva provocato diverse escoriazioni sulla pelle, era ampio, apparentemente “a misura d’uomo”.
Dunque, la Voce voleva davvero condurlo da qualche parte. Non era tutto solo frutto della sua mente.
Cercò la sua lampada ad olio a tentoni, mentre era ancora sdraiato, trovandola a pochi centimetri da lui.
Si alzò a fatica, illuminando l’ambiente circostante, e quasi urlò nel momento in cui scorse qualcosa, qualcosa di imponente e sicuramente appariscente, in fondo a quello spazio ampio.
Prima di avvicinarsi a quello che gli sembrò una sorta di altare, si accorse che, per arrivarci, a ridosso delle pareti di terra, erano posizionate, a distanza di un metro l’una dall’altra, delle alte fiaccole verticali, al momento spente.
Tutto faceva sembrare quel luogo anticamente popolato.
Blake si avvicinò ad ogni fiaccola spenta, provando ad accenderle tramite la fiammella della sua lampada ad olio. L’umidità di quel luogo era talmente elevata, da rendergli immensamente difficile il compito. Tuttavia, alla fine vi riuscì, accendendo ogni fiaccola disseminata lungo il cammino, che illuminò tutto l’ambiente notevolmente.
Ora che c’era luce, poteva vedere distintamente dinnanzi a sé: un imponente altare, composto di una moltitudine di statue d’oro.
Ogni statua aveva le sembianze di un uomo/bestia, con la testa da capra, nonché l’immagine del Diavolo come veniva raffigurato da molti dipinti e rappresentazioni cristiane.
Quelle statue con la testa da capra sembravano fissarlo con un’intensità tale da rubargli l’anima.
- Ma che diavolo… - sussurrò a se stesso, non capendo, non capendo nulla di ciò che stava vedendo con i propri occhi. I suoi antenati e proprietari della galleria avevano costruito quell’altare dedicato al Diavolo? Perché avevano ritenuto necessario farlo, proprio lì sotto? Forse a causa delle leggende che circolavano sul fatto che, sottoterra, in particolare sotto la galleria, si trovasse il passaggio che conduceva direttamente agli Inferi, dal loro Signore?
Cosa facevano dinnanzi a quell’altare? Perché la Voce l’aveva condotto lì? Chi era che l’aveva condotto lì? La galleria l’aveva fatto impazzire quanto i suoi antenati, esattamente come aveva predetto suo padre?
- Dinnanzi ad un altare, ci si dovrebbe inginocchiare – ora la Voce era reale. Non più soffusa.
Era lei. La stessa voce della mandragora. La stessa voce che lo richiamava, quando si avvicinava alla galleria.
Blake si voltò di scatto, trovandosi dinnanzi la sagoma di una donna, in carne ed ossa.
Era una giovane donna con dei lunghi boccoli neri, la pelle diafana, gli occhi grandi, chiari come la luna, contornati dal trucco nero. Il suo corpo era quello di una serva del Diavolo, alto, formoso e magro, con degli abiti di pelli di animali che la ricoprivano, unghie nere, labbra carnose e bianche, cadaveriche.
- Chi siete? – le domandò immediatamente Blake, facendo un passo indietro, guardandola con fredda diffidenza.
- Chiamami come preferisci: Krampus, Strige, Mostro Dietro di Te, Succubus, Arpia. Hai vasta scelta - rispose lei, in totale calma. - Sei il primo, in decenni, che raggiunge questo luogo che i tuoi antenati hanno eretto qui sotto, accanto a Lucifero.
- Tu deliri – le rispose lui, avvertendo un altro potente giramento di testa provocato dalla mancanza d’aria. Era stato un errore accendere tutte quelle fiaccole.
Ella sembrò leggergli nella mente, in quanto si avvicinò e gli rispose: - Quest’aria non è pura, certo, ma ce ne è in abbondanza, almeno per qualche ora: non morirai soffocato. Sei solo stanco… e affaticato - gli disse, allungando una mano verso di lui, infilando un dito gelido nel fazzoletto che gli copriva naso e bocca, e tirandoglielo giù, scoprendogli il viso e le vie respiratorie.
Egli la lasciò fare, osservandola torvo. – Perché mi hai condotto qui? Chi ha nascosto questo posto?
- Queste sono le prime domande che ti vengono in mente, figlio del Diavolo?
- Sei figlia del Diavolo quanto me.
- Ti stai davvero illudendo che io sia umana? – gli domandò fronteggiandolo, alzando la voce in modo quasi animalesco, facendolo rabbrividire.
Ella si avvicinò all’altare, sfiorando le statue che raffiguravano il Diavolo, con le dita.
- Mi stai dicendo che è tutto frutto della mia mente?
- No, Blake. Tuttavia, dovresti sapere cosa ha facilitato il nostro incontro di oggi – spiegò lei, aprendo le braccia bianche, indicando diversi minerali dall’aspetto familiare che sbucavano dalla terra, minuscoli giacimenti sparsi in tutto l’ambiente circostante: quel luogo era letteralmente cosparso di Galena. Un tesoro inestimabile composto da quella pietra oscura e potente.
- È composta di piombo e argento – illustrò la giovane donna, estraendo una di quelle pietre a mani nude. – Tossica. Come lo è sempre stato il piombo. Ma tu non hai paura del veleno, giusto? Oramai ci sei avvezzo – disse porgendogliela, e Blake la prese in mano, osservandola un’ennesima volta. – Le informazioni che ti darò ti risparmieranno mesi di studi: è chiamata “pietra della trasmutazione”. È l’unica pietra che permette di compiere la tanto ambita purificazione, dal piombo in oro. Un argomento che sembra concernerti particolarmente, giusto? Capirai, quindi, che è una pietra saturnia: segue i movimenti e le energie di Saturno. La Galena porta pace e armonia, amplifica l’influenza di altri cristalli, ma, soprattutto, è capace di radicare l’uomo alla Terra. Nonché, di fargli trovare la propria stabilità, la presenza fisica e spirituale necessaria per affrontare la vita. Una pietra utile a chi non trova mai la propria pace. Si tratta anche di una pietra di protezione psichica ed elettromagnetica, utile nei viaggi spirituali, nelle pratiche magiche, e nell’entrare in contatto con energie sconosciute – concluse, poi guardandolo negli occhi, reclamando la sua attenzione. – È grazie a lei se ci siamo incontrati oggi.
- È grazie a lei, dunque, se sono rimasto bloccato qui dentro? Se una frana improvvisa ha bloccato solo a me il passaggio verso l’uscita?
- Sei un ragazzo pratico e concreto.
Pretendi risposte, tutte e subito.
Ma questo non è il momento di pensare a come uscire di qui.
- Devo essere fuori di qui entro il pomeriggio. C’è una cosa importante che devo fare, un evento a cui devo assistere.
- Nulla è più importante di questo! – esclamò lei, costringendolo ad indietreggiare ancora. I suoi occhi erano iniettati di sangue e le sue mani si erano tese, come fossero artigli.
- Cosa vuoi da me? – le domandò lui, senza lasciarsi intimorire da quella figura a tratti divina, a tratti bestiale.
- Che ti inchini all’altare. Che ti inchini al tuo Signore. Come hanno fatto tutti i tuoi antenati, che hanno eretto e adorato questo idolo.
- Poi mi lascerai andare? Riuscirai a portarmi fuori di qui, dal nulla?
- I miei poteri vanno oltre ciò che immagini, Blake.
Hai la mia parola. Mi basterebbe desiderarlo, per tirarti fuori di qui.
I tuoi uomini stanno tentando di penetrare oltre la frana, per tirarti fuori, ma non ce la faranno. È il mio potere a tenerli lontani da te, a non permettere loro di raggiungerti.
Morirai qui. Solo. Senza aria, né luce. A meno che tu non riconosca che esistano entità molto più grandi e potenti di te, che meritano la tua adorazione e la tua totale devozione.
A meno che non mostrerai il tuo totale assoggettamento.
- Non mi lascerai in pace fin quando non lo farò, non è vero…?
Continuerai a richiamarmi, a tentare di tenermi imprigionato qui.
Perché vuoi me?
- Perché sei un miscredente. Un uomo che non crede in niente.
Tali uomini non meritano il respiro vitale.
La tua vita appartiene alla terra.
Polvere eri, e polvere ritornerai.
Prima o poi ti ritroverai qua sotto, e dovrai fare i conti con gli dèi che hai rinnegato.
Sei solo un uomo. Un uomo piccolo, impotente, che si crede grande, ma non lo è.
Blake la guardò per diversi istanti, non lasciando trapelare nulla dal proprio sguardo.
L’avrebbe fatto uscire di lì se si fosse prostrato all’altare. Era stata la sua parola.
Eppure no, ciò non bastava.
- No – le rispose, facendola sbiancare.
- Che cosa hai detto…?
- Ho detto: no. Uccidimi se vuoi, ma non mi inchinerò.
 
 
Non appena Hinedia le portò il coltello da cucina, Judith se lo infilò sotto la veste, per poi avvicinarsi al soppalco.
- Questa donna è una traditrice della sua gente! – iniziò padre Petrit, urlando alla folla, mentre guardava Beitris. – Ha tradito la sua gente e il suo Signore, uccidendo a sangue freddo più di venti monaci del suo culto, dando inizio ad una rivoluzione!! Le sue azioni sono state talmente sgradite ai due signori, che questi, per manifestare la loro ira nei suoi confronti, hanno mandato su di noi una tremenda epidemia, di cui ancora portiamo i segni addosso!! Virve Beitris merita la morte più di qualsiasi altro!! – concluse facendosi il segno della croce. – Sia fatta la tua volontà, oh Signore Misericordioso.
- Tuttavia… - riprese, con l’imperversare del vento e della pioggia. – Con questa tempesta ci è impossibile erigere il rogo. Dobbiamo necessariamente rimandare l’esecuzione a domani.
- No! – si impose Judith, salendo le scalinate che l’avrebbero portata al soppalco, il marchingegno ancora stretto in mano.
- No…? – le domandò padre Petrit, guardandola confuso. – L’acqua spegnerà le fiamm-
- Questa donna – urlò verso la folla. – non morirà al rogo!
Tutte le genti presenti esalarono esclamazioni di stupore nell’udire ciò.
- Judith… che stai dicendo..? – le sussurrò padre Thomas, avvicinandosele.
- Dov’è Blake? – venne riscossa da quella domanda, pronunciata da una voce femminile tremante e spaventata.
Judith si voltò verso Beitris e la trovò impaurita, con le lacrime agli occhi, come una bambina. – Dov’è Blake, Judith?? – le domandò la strega, più insistentemente. – Mi aveva promesso che ci sarebbe stato…
- Blake non è qui, Beitris – le rispose, impietosita.
- No… no, non può essere! Mi aveva promesso che ci sarebbe stato! Non posso! Non posso morire se non c’è lui! Judith, ti prego… aspettiamolo. Aspettiamo almeno che arrivi lui… – la supplicò, con le lacrime che si mischiavano alla pioggia.
- Blake non ci sarà oggi pomeriggio, Beitris. Mi dispiace.
- Allora rimandiamo l’esecuzione a domani, come dicono i monaci… ti prego, ti prego!
- Beitris… sono desolata.
- Me lo aveva promesso! Me lo aveva promesso! Ti prego, Judith! Ho bisogno che sia presente, almeno lui…
- Che differenza farebbe? – le domandò la rossa, accarezzandole una guancia, compassionevole.
Beitris, nonostante la pioggia, spalancò gli occhi all’inverosimile, guardandola stralunata. – Tu non hai un briciolo di pietà… tu pensi solo e solamente a te stessa!
Non mi ucciderai oggi! Non mi ucciderai!
- Non morirai con il rogo. Te ne andrai dolcemente, te lo garantisco.
- Invece morirà esattamente col rogo, domani, come abbiamo stabilito – insistette padre Petrit, accanto a loro. – Qualsiasi altro metodo d’esecuzione è considerato impuro e barbaro agli occhi dei due signori, Judith. Ne abbiamo già parlato. Ora scendi dal soppalco e fa’ come dico. Rientra dentro, non è sicuro prendere tutta questa pioggia nelle tue condizioni.
Judith si voltò verso di lui e lo fulminò, con occhi glaciali.
Padre Petrit cercò di non farsi spaventare da quello sguardo, ma fallì.
Che cosa vuoi fare, Judith..?  si domandò Hinedia, guardandola dal basso, a distanza.
Judith aprì il palmo della mano e osservò la sfera di ceramica.
La sua determinazione era più ferma che mai.
Tuttavia, una sensazione strana la colpì: attraverso il guanto, la temperatura molto calda della sfera diventava tiepida, usualmente.
Ora, invece, non sentiva niente. Le appariva solo fredda.
Si convinse che fosse colpa della pioggia, perciò si tolse il guanto per appurare definitivamente se la sua sensazione fosse giusta: a contatto con la pelle, la sfera avrebbe dovuto scottarle.
“Se la superficie della ceramica non scotta… allora è più saggio non utilizzarlo; significa che bisogna ripreparare la miscela. Finché scotta, come ora, ci saranno maggiori probabilità che funzioni…”  queste erano state le parole di Blake.
Ma, nonostante la stesse tenendo a mano nuda, la sfera non scottava più.
Non scottava.
Judith deglutì, tremendamente in conflitto con se stessa.
Non funzionerà. Sarà meglio aspettare. Sarà meglio aspettare la fine della pioggia. Sarà meglio aspettare Blake.
- Judith, ti prego… - la supplicò ancora Beitris, alle sue spalle. La condannata si guardò intorno, osservò la folla che era giunta ad assistere alla sua morte, e non trovò nessun volto amico tra loro.
Né Ephram, né Myriam, né nessun altro.
- Judith, ti imploro…! Non voglio morire così! Blake mi aveva promesso che non mi avrebbe lasciata sola oggi! Deve essergli successo qualcosa. Ti prego, aspettiamolo!
- Blake non c’è!! – esclamò Judith voltandosi verso di lei, aggredendola con il suo sguardo agghiacciante, facendo ammutolire lei e la folla che la guardava dal basso.
La pioggia iniziò a placarsi. – Tu morirai oggi, Beitris. Morirai tramite il marchingegno che abbiamo ideato io e Blake – annunciò, alzando la mano al cielo e mostrando la piccola sfera a tutti. – Quello che ho in mano è un fuoco diverso da quello che siete avvezzi a conoscere. Un fuoco tremendo, ma ugualmente in grado di purificare l’anima dei peccatori, e infinitamente più misericordioso del rogo. Questa sfera contiene la polvere nera.
A tale annuncio, tutta la folla quasi urlò, iniziando a farsi il segno della croce, chi per il verso giusto, chi al contrario.
Avevano paura. Paura come non l’avevano mai avuta, di quello strumento sconosciuto.
- Sei completamente impazzita!? Smettila e scendi immediatamente, Judith! Prima che l’ira dei due signori si scagli su di te!! – esclamò un altro dei monaci presenti.
- Questa è eresia!
- Portatela via!
Ma proprio mentre due dei monaci stavano intervenendo, per prenderla di peso e portarla via dal soppalco, Judith tirò fuori il grosso coltello che le aveva portato Hinedia e se lo puntò sulla propria pancia gonfia.
Tutti i presenti pietrificarono, compresi i monaci che si stavano avvicinando a lei.
- Fate un altro passo… e li uccido. Ucciderò le creature che mi crescono dentro.
Lo giuro sul ricordo di mia madre… lo farò.
D’altronde, non li ho mai voluti e mai li vorrò – li minacciò tutti, con una decisione aberrante.
Nessuno riuscì a credere ai propri occhi, a tutto ciò che stava vedendo.
- Questa donna non morirà al rogo.
Metterò fine alla sua vita misericordiosamente. Con una morte dolce, veloce, indolore.
Come dovrebbe essere per tutti. Nessuno merita di soffrire tra le fiamme.
Nessuno merita di andarsene così. Nessuno.
Lei morirà con la polvere nera. E così tutti quelli che verranno dopo di lei.
Bliaint diventerà un luogo giusto, paritario.
Ed io ne sarò l’artefice.
Ora allontanatevi immediatamente da me e assistete – terminò Judith. Il coltello ancora puntato dritto sulla propria pancia e la sua voce imponente e serafica, avevano spaventato i monaci fino a farli sudare freddo.
Per niente al mondo avrebbero permesso che qualcuno facesse del male ai bambini della loro figlia acquisita, o a Judith stessa. Neanche se fosse stata proprio quest’ultima a minacciare la sua stessa vita.
Judith lo sapeva, lo sapeva bene, per questo aveva giocato tutto sul loro unico punto debole: l’amore che nutrivano per lei e per le creature che portava in grembo.
A ciò, la fanciulla si voltò verso Beitris, la quale tremava e parlava da sola, come impazzita:
- Ti prego… ti prego… aspettiamo…
Judith la slegò doviziosamente e la fece mettere in ginocchio dinnanzi a sé, sotto gli sguardi ansiosi ed esagitati di tutti i presenti.
- Ingoiala – ordinò semplicemente, porgendo in mano alla condannata la sfera di ceramica, ora totalmente gelida.
Beitris la prese in mano, la osservò un po’, poi posò di nuovo i suoi occhi di smeraldo su Judith.
Le iridi le si spensero, lasciando che la più cieca rassegnazione prendesse il sopravvento.
Sarebbe morta sola.
Non ci sarebbe stato nessuno lì, per lei. 
Beitris si poggiò la pallina di ceramica sulla lingua. Poi la ingoiò, chiudendo gli occhi.
Da quel momento in poi, nessuno seppe dire con certezza cosa accadde.
Judith stessa non avrebbe saputo raccontarlo.
Invece che una morte veloce e indolore, fu uno spettacolo orrido, atroce e traumatizzante quasi quanto il rogo stesso. Dopo qualche minuto, Beitris aveva iniziato a tossire. Ma non era una tosse normale, no. Aveva iniziato a tossire una sostanza nera, densa e marcia. Poi, alla tosse si era sostituito il vomito. Vomitò fiumi di sangue, alternando urla a imprecazioni, accasciandosi a terra, nella sua stessa pozza di sangue. Tra tutto il sangue che aveva rigettato, Judith notò che vi fossero anche pezzi di qualcosa. Non volle sapere cosa fossero, in quanto, la sola idea che Beitris stesse vomitando pezzi dei propri organi le fece provare l’innaturale desiderio di partorire seduta stante, e di togliersi da dentro tutto quello che il proprio corpo conteneva. In seguito a minuti eterni e lunghissimi di sofferenza e urla, Beitris ebbe un violento spasmo. Il suo corpo piombò a terra, immobile, a pancia in su, e la sua testa ciondolante sporse dal bordo del soppalco.
Le persone che erano proprio sotto al soppalco e che la videro in faccia per primi, urlarono di orrore, facendosi il segno della croce più volte: gli occhi vitrei della ragazza, erano rivoltati innaturalmente in due direzioni differenti.
Judith si lasciò cadere in ginocchio, sconvolta.
Il marchingegno non aveva funzionato.
“Se la superficie della ceramica non scotta… significa che bisogna ripreparare la miscela. Finché scotta, ci saranno maggiori probabilità che funzioni…”  
Il cielo, intanto, aveva smesso di piangere. 
 
 
Il ragazzo si rannicchiò contro una delle pareti di terra umidiccia, il mento poggiato alle ginocchia e le braccia strette attorno alle gambe.
Era sempre stato bravo a sopportare il dolore fisico, la tortura dei massi e dell’acqua subìta a Carbrey ne era una prova.
Tuttavia, erano trascorse nove ore da che era rimasto chiuso lì sotto. La fame, l’assenza di aria, ma soprattutto il freddo, iniziarono a farsi sentire. Le fiaccole non riuscivano a scaldare quel luogo umido e affatto ospitale alla vita, ma senza quelle accese, probabilmente sarebbe stato ancora più freddo.
Anche se avrebbe avuto più aria, per più tempo.
I suoi denti battevano tra loro impercettibilmente e le sue labbra avevano assunto una colorazione bluastra, mentre continuava a guardare il vuoto, in attesa del nulla.
Ma nascondeva quel dolore e quell’insofferenza alla donna seduta di fianco a sé, quell’essere inumano che non percepiva né la fame, né la sete, né il freddo. Non voleva darle alcuna soddisfazione.
Ella si voltò a guardarlo, scrutandolo. – Oramai ti sarai perso l’esecuzione: è pomeriggio inoltrato. La tempesta, in superficie, si è placata, ma ha lasciato dietro di sé un freddo terrificante, che durerà almeno fino a domani. Ma tu non arriverai a domani, Blake. Hai freddo, non è vero?
Egli non le rispose.
- E fame. Immagino tu sia digiuno da stamani.
Ingerire del cibo lo avrebbe aiutato a riacquisire un po’ di forze e a patire meno il freddo, pensò il ragazzo. Tuttavia, quel poco che si era portato dietro, era rimasto in superficie, da qualche parte.
- Ho affrontato molto peggio di freddo e fame.
- Il tuo orgoglio è davvero così importante?
- Non si tratta di orgoglio.
Dell’orgoglio, mi importa ben poco – rispose lui, non degnandosi nemmeno di voltarsi a guardarla. - Se avessi la certezza che, una volta compiuto questo gesto simbolico ed essermi prostrato all’altare, io possa continuare a vivere come ho sempre vissuto, senza divenire schiavo di nessuno, lo farei, per uscire di qui. Ma so bene che non posso ingannarti così. Né te, né le energie che dominano questo luogo.
- E chi credi alimenti un tale potere in me?
- Non mi convincerai a mostrare la mia devozione al Diavolo.
Potrà anche esistere, ma non è il mio dio, così come non lo è nessun altro. Non voglio il suo potere. È così difficile da accettare, per voi? Che qualcuno decida di rinunciare alle credenze comuni, che un uomo scelga di essere il padrone di se stesso?
- Sì, lo è. A lui dobbiamo tutto.
- Perché?
- Perché ci ha dato la vita.
- La vita me l’ha data mia madre, eppure non sono devoto nemmeno a lei.
Che senso ha vivere, se devo diventare schiavo di qualcuno? Che sia di un credo, di un’ideologia, o di un altro uomo?
- Tu reclami qualcosa che non ti appartiene.
- La mia vita mi appartiene.
- La vita non appartiene a nessuno. La vita non è dei viventi.
- Lo ripeti costantemente… sembra che tu non riesca a dire altro.
Dimmi, hai attirato anche altri prima di me, più recentemente?
Sei apparsa anche a mio padre?
- Perché mi poni domande stupide, di cui sai già la risposta?
Da secoli, gli uomini mi hanno trasformata solo in una loro fobia, null’altro.
Un desiderio o una fobia.
Risiedo nelle paure dei bambini, nei terrori e nelle voglie degli uomini, ma non sono altro che una favola da raccontare.
No, non appaio più a nessuno, da almeno un secolo. Solo chi riesce a giungere qui, in questo posto, dinnanzi a questo altare, riesce ad incontrarmi, a vedermi.
- Grazie alla Galena.
- Grazie alla Galena, esatto.
- Eppure, sei stata tu a richiamarmi qui. Senza la tua voce, non sarei mai riuscito a trovare questo posto. Perché?
- Te l’ho già spiegato.
Il Demonio richiede la tua devozione, perché la tua anima gli è negata.
Degli altri non mi importa. Tuo padre era già un uomo devoto.
- Mi sono battezzato al Diavolo. La mia anima sarà sua, quando morirò. Questo dovrebbe bastare.
- Ma non basta. Sì, con il battesimo gli hai donato la tua anima, è vero.
Ma finché non morirai, continuerai a sfuggire al suo controllo.
Il nostro Signore pretende che tu sia suo anche ora, da vivo - gli disse seccata, per poi posare lo sguardo sulla fonte di flebile luce lunare che riposava nascosta, sul petto del ragazzo.
- Te l’ha dato tuo padre, quello? – gli chiese. – Riconosco l’energia dell’opale.
Blake non rispose, continuando a sopportare il freddo, guardando fisso dinnanzi a te.
- Oramai avranno perso ogni speranza di trovarti. O per lo meno, di ritrovarti vivo.
Nessuno resiste una notte qui sotto. Entro altre quattro ore, sarai cibo per i vermi.
Dinnanzi a questa “allettante” prospettiva, perché non ti pieghi?
- Te l’ho già detto.
Mi stai proponendo un patto col Diavolo e io ho rifiutato.
Preferisco morire, piuttosto.
- Il Diavolo non ti ha promesso nulla in cambio della tua devozione.
Ma, se lo desideri… potrebbe farlo – incalzò lei, in tono mellifluo. – La salute perpetua per tuo fratello, la felicità per tutti coloro che ami, un parto sano e senza complicazioni per la tua donna, la riuscita del vostro piccolo progetto eretico, la tua fuga da qui… oppure, è riuscire a compiere la trasmutazione quello che desideri davvero, Blake? A me puoi dirlo.
Blake strinse le mani attorno alle proprie gambe. Cercò di ricavare un po’ di calore dalla frizione del viso gelido con le ginocchia ancora calde, al di là del tessuto.
- Nel poco tempo che ti resta da vivere, risponderò a tutte le tue domande.
Almeno questo te lo devo – concesse lei.
A ciò, il ragazzo si voltò finalmente a guardarla. I suoi occhi erano due biglie blu svuotate e socchiuse, il colorito insano, in balìa del freddo, le labbra quasi della stessa tonalità degli occhi, i capelli folti e sconvolti macchiati di terra. – Perché i miei antenati hanno eretto un altare al Diavolo?
- Perché era il loro Dio. Così come è il tuo.
- Non mi basta.
- Perché è questo che fa, la galleria: ti fa sentire vicino al tuo Signore, che risiede nelle viscere più profonde della Terra.
Lucifero ha scelto Bliaint come rifugio, l’unica terra in cui viene servito e adorato esattamente come il suo creatore.
La terra in cui risiedono i suoi figli. Per questo il suo potere è così forte qui dentro.
Per questo ogni creatura infernale risiede qui.
I tuoi antenati erano ispirati dalla loro accecante devozione.
Ma tu, tu sei diverso da loro.
- Dov’è Bonnie? È stato il tuo richiamo ad ucciderla?
- Non il mio.
Bonnie ha udito il richiamo di Lucifero stesso.
Il suo fantasma è qui da qualche parte, ma non puoi evocarlo.
- Bugiarda. Sei stata tu ad attirarla qui dentro. Sei stata tu ad ucciderla. Perché…? – le domandò furente.
- Non c’è un perché.
Il Signore l’ha richiamata a sé.
A lui piace reclamare a sé le anime pure, prima del tempo.
Stai andando in ipotermia, per caso? Non credevo fossi così freddoloso. Il tuo corpo non fa che tremare - osservò sardonica, godendo delle sue stesse parole.
Blake non aveva la minima idea di come uscire di lì.
Era nella trappola tesa direttamente da quella creatura e da ogni energia maligna che regnava in quel luogo.
No, non sarebbe impazzito. Lui non era pazzo, né avrebbe accettato di morire lì sotto.
Le sue forze erano allo stremo e il suo corpo sembrava non sprigionare più calore, la sua gola era arida, secca, bramante di aria pulita.
Avrebbe dovuto trovare il modo di ribellarsi alla creatura, di ribellarsi a quel Padre che non aveva mai riconosciuto, né servito.
Solo una cosa avrebbe potuto salvarlo da quella dannazione che gli si prospettava dinnanzi agli occhi.
La propria volontà. Era l’unica cosa su cui poteva contare al momento, l’unica di cui poteva fidarsi.
Nelle sue vene scorrevano sangue e volontà, lo sapeva, sin dalla nascita.
L’opale che gli aveva donato suo padre non l’avrebbe protetto dal Diavolo stesso, né da quell’Arpia.
Tuttavia, se lo strinse fortemente al petto:
Speranza, purezza, equilibrio, protezione contro le energie negative.
Le proprietà dell’opale.
Era certo gli sarebbe stato molto d’aiuto nel compiere ciò che stava per compiere.
Doveva agire ora, o non l’avrebbero mai più ritrovato.
Il suo corpo stava appassendo sepolto, ma il suo spirito era ancora più vivo che mai.
Raccolse in sé tutta la forza fisica che ancora gli era rimasta e si rialzò in piedi, facendo fronte al freddo e alla debolezza.
- Che stai facendo? – gli domandò ella, osservandolo incuriosita.
Blake non si fermò, procedette, fin quando non afferrò una delle alte fiaccole che illuminavano la strada verso l’altare.
Si fermò dinnanzi a quest’ultimo, osservando le numerose statue d’oro edificate. Dopo di che, prese il contenitore con la fiammella in mano, staccandolo dal fusto, e agì: lo sbatté con tutta la forza che possedeva contro l’altare, appiccando un incendio.
Poi prese altre fiaccole e fece lo stesso, fin quando il fuoco non divenne divampante, nonostante la già esigua presenza d’ossigeno.
Iniziò a mancargli l’aria, sempre di più, ma non se ne curò.
Era la volontà che lo teneva ancora in piedi.
La creatura, dal canto suo, era sconcertata dall’orrore e si strappava i capelli, osservando quel sacrilegio imperdonabile. – TU VERRAI PUNITO! Nessuno può sfidare un dio!!! Nessuno!!! La pagherai cara!!! Mi hai sentito?!? LA PAGHERAI CARA! VERRAI PUNITO E LA TUA ANIMA NON TROVERÀ MAI PACE!!! – strillò disperata.
Il suo urlo erano mille lame sottili che penetravano nell’anima. La sua voce non aveva nulla di umano. Nulla di lei aveva qualcosa di umano.
Blake si convinse che fosse grazie all’opale che ella non riuscisse a raggiungerlo.
- Lui non è il mio dio – rispose semplicemente, afferrando velocemente la lampada ad olio con la quale era arrivato lì, e accorrendo verso lo stretto tunnel che gli aveva permesso di giungere in quel luogo.
Ancora un altro respiro, ancora un altro… il fumo inspirato gli stava annebbiando i sensi.
Si rinfilò dentro quello strettissimo spazio, stavolta non percependo minimamente il dolore alle membra lacerate, tanto era annebbiato, e strisciò verso l’alto, raggiungendo nuovamente il punto in cui era caduto, più in superficie.
Risalito, corse per tutta la lunghezza della diramazione, poi fino al tunnel principale dedicato agli scavi, dove la frana lo aveva intrappolato. Riafferrò in mano uno dei picconi e iniziò a scavare verso l’alto, disperatamente. – Sono qui!!! – urlò, sperando che qualcuno potesse sentirlo da lì sotto, qualcuno che stava varcando la superficie di quel vastissimo campo. Gridò di nuovo, sentendo i sensi abbandonarlo, ma il corpo continuare a muoversi comunque.
Muoviti.
Continua a muoverti.
Se ti fermi, morirai.
Se lo ripeté in testa, come una litania.
Continuò a scavare e a scavare, sia con i picconi, sia con le mani, arrampicandosi verso l’alto, fin quando…
Una luce… uno spiraglio minuscolo che rivelava un cielo annuvolato, gli illuminò gli occhi.
A ciò, vi infilò la mano dentro.
Muoviti… Non fermarti…
Se ti fermi, morirai.
 
 
Era quasi il tramonto.
Non appena il sole fosse calato, le ricerche sarebbero cessate, padre Craig lo sapeva bene.
Gli scavatori sarebbero tornati a casa dalle loro famiglie, a cenare.
E le speranze di ritrovare Blake vivo si sarebbero ridotte a nulle.
Non riusciva più a sentirli.
Erano quasi due ore che quegli uomini stavano dicendo che fosse inutile continuare a cercarlo.
Le loro parole erano ben chiare: nonostante Blake fosse molto bravo in ciò che faceva, la consapevolezza che fosse accaduto quel fatto così anomalo quella mattina (tra l’altro all’inizio della sua carica in quanto proprietario della galleria) era indice del fatto che i due signori non approvavano il suo operato; dunque, il Diavolo aveva fatto in modo di riprenderselo con sé.
Avrebbe voluto cacciarli via tutti, o tagliargli la lingua, ad uno ad uno.
La pioggia era cessata, il cielo era ancora plumbeo, un freddo quasi invernale era piombato su Bliaint, facendo tremare le membra di tutti.
Se qua fuori è così freddo… chissà quanto lo sarà là sotto.
Si strinse in una delle casacche sporche di terra che indossava sopra la sua maglia, prestategli dagli scavatori, cercando di ripararsi dall’aria gelida; mentre continuava a camminare sopra quel terreno deserto, scuro e bagnato.
I piedi gli affondavano nel terriccio, quasi quest’ultimo volesse risucchiarlo, ma, nonostante ciò, continuava. Era la tredicesima volta che percorreva tutta l’area di quel terreno immenso a piedi, in tre ore, comportandosi come se Blake potesse sbucare fuori da un momento all’altro, da un punto imprecisato.
I piedi gli dolevano, per il gelo e per la fatica.
Poi, all’improvviso… fu come se riuscisse ad udire una voce, o meglio, l’eco di una voce, lontanissima.
Si fermò, cercando di individuare il punto da cui provenisse quell’urlo distante.
Camminò confusamente di qua e di là, come un folle.
- L’ho trovato! Credo di averlo trovato! – urlò, non credendo alle sue stesse parole, ma gli scavatori erano troppo lontani e non lo udirono.
Continuò ad inseguire quella voce lontanissima, che forse era solo frutto della sua immaginazione.
Ma la seguì.
La seguì fin quando non avvertì la terra scuotersi lievemente sotto i suoi propri piedi.
Ti ho trovato.
Senza una sicurezza, né un senso logico, iniziò a scavare con un piccone che gli era stato dato appena arrivato, e che reggeva in mano come un tesoro.
Scavò, scavò, scavò, scavò, in quell’esatto punto, iniziando seriamente a chiedersi se stesse facendo la cosa giusta, o se si stesse solo illudendo inutilmente.
Ma scavò ancora, senza fermarsi.
Non fermarti…
Non fermarti…
Se ti fermi, morirai.
Improvvisamente, un foro. Un foro che permetteva ad uno spiraglio di luce di entrare dentro, e di illuminare cosa vi fosse lì sotto.
Padre Craig non riuscì a vedere bene, o meglio, non riuscì a vedere nulla, inizialmente, tanto era scura la terra sotto di sé.
Poi, però, come un morto che esce fuori dalla terra, un braccio sbucò fuori da quel piccolo foro, allargandolo.
Un braccio vivo, che si muoveva.
Poi un altro braccio, due braccia che padre Craig riconobbe benissimo.
Le mani in cima a quelle braccia erano un disastro di sangue doloroso da guardare: le unghie spezzate, piene di terra mista a sangue, e le gocce di quest’ultimo colavano lungo tutti i palmi e i polsi, indice che avesse scavato anche a mani nude.
Padre Craig afferrò quelle braccia con tutta la forza che poté, facendo leva sui piedi puntati al terreno per tirarlo su.
Sorrideva, felice come non lo era mai stato, mentre si aggrappava a quelle braccia come fossero le corde che tenevano insieme la sua vita, e le tirava su, con una potenza che non aveva mai avuto prima.
Man mano, il foro si allargò sempre più, nel mentre emergeva da esso una testa, delle spalle, metà busto.
Padre Craig cadde all’indietro, sbattendo il fondoschiena a terra, tanta era stata la forza con cui l’aveva tirato su. Vide Blake aggrapparsi con le mani insanguinate alla terra e fare leva da solo, per far uscire il resto del corpo da quel buco infernale, che sembrava davvero volerlo risucchiare di nuovo dentro.
Padre Craig si catapultò di nuovo su di lui, proprio nel momento in cui il ragazzo riuscì a tirarsi fuori completamente da quell’inferno terroso, con le sue proprie forze.
Blake si lasciò cadere a terra, a faccia in su, le braccia divaricate, le gambe scomposte, i vestiti strappati e sgualciti, la maglia che gli lasciava scoperta più pelle di quanto dovesse, una pelle ferita e dal colorito insano, livido di freddo; l’opale che sembrava brillare quasi, abbandonato scompostamente tra le clavicole, sul petto che si alzava e si abbassava al ritmo velocissimo del respiro ansimante; il viso assurdamente bianco ma macchiato di fumo grigio, con gli occhi semichiusi e le labbra cadaveriche, allargate in uno strano sorriso di vittoria. Un sorriso vuoto e trionfante.
Padre Craig gli lasciò a malapena il tempo di tirarsi su con i gomiti, che gli fu addosso, e si prese una libertà che non si era mai preso prima d’ora: lo abbracciò, forte, stringendolo a sé con tutto il corpo, affondando le mani tra i suoi capelli e la sua schiena.
Strinse il suo corpo, gelido e debole tra le sue braccia, ridendo e piangendo contemporaneamente, mentre gli altri scavatori li raggiungevano, allibiti, meravigliati e sollevati insieme.
Lo strinse come fosse l’ultimo fiore rimasto al mondo, e al contempo come fosse un figlio ritrovato, o un amante a lungo desiderato e amato.
Blake ricambiò flebilmente l’abbraccio, sfinito, privo di forze e inerme, lasciandosi accarezzare e abbracciare, abbandonandosi tra quelle braccia amiche e confortevoli che riuscirono a scaldarlo in poco tempo, cullandolo verso l’oblio.
- Blake? Blake, come vi sentite…?
Non rispose. Svenne tra quelle braccia, a peso morto.
 
Un paio di labbra, soffici, umide e carnose, esplorarono le sue, in un bacio casto, mellifluo e dolce.
Restò ad occhi chiusi, godendosi quella sensazione, senza dire nulla.
Era come aver smesso di sentire. Come se stesse ricominciando a sentire solo ora, dopo secoli di vuoto.
Blake sbatté lentamente le palpebre, percependo il tepore del fuoco del camino accanto a sé: era nell’atrio di casa sua, sdraiato su un giaciglio, avvolto da un’infinità di coperte, accanto al fuoco che scoppiettava.
Erano settimane che non accendevano quel camino, dato l’arrivo della primavera.
La figura, bellissima e profumata, che invase immediatamente il suo campo visivo, seduta sul letto accanto a lui e intenta a guardarlo in aspettazione, gli sorrise adorante, avvicinandosi maggiormente.
Blake le accennò un sorriso, più addormentato che sveglio, avvertendo la pelle del viso, screpolata per il freddo, tirargli.
- Ci hai fatto preoccupare tutti da morire… - fu la prima cosa che sussurrò Judith, con la sua voce melodiosa e dolce come il miele d’inverno, prendendo una mano del ragazzo e avvicinandosela al volto.
Baciò le sue dita, ben fasciate dalle bende, ad una ad una. Blake emise una piccola smorfia di dolore, a tale contatto: il solo sfiorarle gli provocava delle fitte atroci.
Man mano che prendeva contatto con la realtà, Blake aprì completamente gli occhi, osservandola, con un dolce sorriso. – Ciao.
- Ciao – gli rispose lei, accarezzandogli i capelli con premura e accortezza, ammirandolo da vicino, rivolgendogli un sorriso apprensivo che non passò inosservato al ragazzo. – Ho temuto di perderti, oggi…
- Non mi perderai. Resterò al tuo fianco, promesso.
- Ora come ti senti?
- Sto bene.. – la rassicurò Blake guardandola negli occhi, allungando una mano fasciata e accarezzandole una guancia, sopportando il dolore.
- Cos’è successo là sotto? – gli domandò lei, cercando di ricacciare indietro la preoccupazione. - Eri sporco di fumo… come se fossi stato in mezzo ad un incendio. Ma, oltre alle mani distrutte e ad alcuni profondi graffi qua e là provocati dalla terra, non presenti ferite gravi o ustioni di nessun tipo.
- Non è successo nulla – rispose lui, liquidando il discorso. – L’esecuzione… - esalò poi, facendola irrigidire. – L’avete rimandata… vero?
Judith posò lo sguardo sul fuoco, sfuggendogli.
Da tale reazione, Blake comprese. Si tirò su lentamente, poggiando la schiena al cuscino, mentre cercava di nuovo contatto con gli occhi della ragazza. – Judith…? Guardami.
Ma Judith continuava ad evitare gli occhi del suo amato, colpevole, in preda ad un rimorso che non aveva mai provato prima.
- Judith… avete rimandato l’esecuzione?
- No – rispose di getto, togliendosi quel peso insopportabile.
Blake impietrì, continuando a guardare il suo profilo rivolto verso il fuoco.
Un profilo sfuggente, addolorato, ma al contempo serafico.
- Che significa “no”…? Judith, le avevo promesso che sarei stato presente. Glielo avevo giurato…!
- Non potevamo aspettare oltre, Blake – gli disse, trovando finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi, sentendosi morire dentro. – Dovevo farlo. Tu non c’eri. Ho dovuto farlo senza di te.
Blake sembrò mandare giù quel colpo duro. Non disse altro. Restò semplicemente a guardarla con uno sguardo illeggibile, irrigidito, distante.
- E.. com’è andata? Ha funzionato? Ci sono state complicazioni…? – le domandò dopo un po’, non riuscendo a nascondere il timore e l’aspettativa nella voce.
Eccola, la domanda che la fanciulla temeva più di ogni altra, fuoriuscita dalle labbra dell’unica persona alla quale avrebbe voluto nascondere tutto ciò.
Ma non poteva più nascondersi, oramai.
Il danno era compiuto.
Lei era l’unica colpevole.
Blake era innocente, nel pieno senso della parola.
Judith provò con tutta se stessa a dirglielo, ma le parole le rimasero bloccate in gola.
- Judith? Rispondimi, per favore. Com’è andata? – insistette lui, con voce calda e ferma, una voce che avrebbe smosso anche le montagne.
Alla fine, si arrese.
- Mi dispiace, Blake.
Il ragazzo sgranò gli occhi, confuso e sconcertato. – Che significa…?
- Non è andata bene.
- Non è andata bene…?
- Non ha funzionato.
- Spiegati.
- Beitris è morta, soffrendo orribilmente. È stato uno spettacolo… devastante.
- Che cosa stai dicendo…? È impossibile… è impossibile.
- Mi dispiace. Tantissimo – ripeté lei, stringendogli un polso, che egli allontanò immediatamente, fissandola sconvolto.
- Ti avevo spiegato come funzionasse… ero stato maniacalmente meticoloso con le dosi. Avevo fatto tutto alla perfezione. Cos’è accaduto, Judith?
- L’ha uccisa lentamente. Ha iniziato a tossire, e a vomitar-
- Ti sei accertata che il marchingegno fosse caldo abbastanza? – la interruppe lui. – Ti avevo detto che sarebbe potuto capitare, che la miscela si raffreddasse. Ti avevo detto che, nel caso fosse accaduto, non si sarebbe potuta usare, perché non avrebbe funzionato nel modo giusto.
Ti sei accertata che la superficie della ceramica scottasse ancora, Judith?
La fanciulla ammutolì, guardandolo inequivocabilmente.
Nel silenzio, il volto di lui mutò da sconcertato a furente e addolorato insieme.
- Blake, ascolta quello che ho da dirti…
- Tu… l’hai fatta morire tra atroci sofferenze… nonostante sapessi benissimo che quel marchingegno non avrebbe funzionato! Ti avevo detto che andava ripreparato, ti avevo messa in guardia, sapevi cosa fare!
Dovevi solo aspettarmi, Judith! Rimandare l’esecuzione e aspettare che io ripreparassi la miscela e fossi presente, assistendoti!
E invece… glielo hai fatto ingoiare comunque, l’hai ammazzata così… e per cosa, Judith?? Per cosa??? - le forze non gli erano ancora tornate, la sua testa era ancora annebbiata, eppure la voce gli uscì dai polmoni più dolorosa e accusatoria che mai.
Judith abbassò lo sguardo e cercò di calmarsi a sua volta.
Due lacrime le rigarono le guance, ma erano talmente fredde che non se ne accorse neanche.
- Dovevo farlo. Sentivo di doverlo fare e l’ho fatto – gli rispose.
- Per quale motivo?
- Perché è la mia battaglia!
- Che razza di battaglia è, se non la combatti nel modo giusto?? Facendo così hai già perso in partenza, Judith! Ti sei tagliata le gambe da sola, non lo capisci?!
- Lo so.
Ma dovevo farlo.
Se non avessi sentito una tale necessità stringente di farlo oggi… non sarei arrivata al punto di minacciare i monaci, puntandomi un coltello da cucina sulla pancia, pur di convincerli a lasciarmi fare…
Blake la guardò contrariato, a dir poco esterrefatto. – Tu sei pazza…
- Lo so bene.
Ma bisogna esserlo, per riuscire a sopravvivere qui.
 
 
 
 
 

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Capitolo 61
*** Anche questo passerà ***


Anche questo passerà
 
 
Padre Thomas afferrò il vassoio pieno di cibo fumante, appena cotto, e si diresse verso la camera da letto della sua pupilla.
Tirò fuori la chiave e la aprì, entrandovi dentro, trovando Judith sempre nella stessa posizione: inginocchiata accanto alla finestra, immobile, lo sguardo perso.
I monaci avevano concordato tutti sul tenere la ragazza sottochiave, nella sua stanza, dopo quello che era accaduto quel funesto giorno, con il marchingegno demoniaco e la morte di Beitris.
La loro amata figliola era diventata un pericolo per se stessa.
Aveva minacciato di accoltellare le creature che portava in grembo senza pietà, ammettendo di non averle mai volute.
I monaci non potevano permettere che si verificasse di nuovo una situazione tanto pericolosa ed estrema. La loro pupilla andava protetta e salvaguardata, e così i suoi figli.
Isolata dal mondo, fino al giorno del parto, in una stanza luminosa, grande, bellissima, lussuosa, piena di ogni agio, e priva di qualsiasi oggetto potesse essere usato come arma.
Persino le tende erano state tolte.
Judith non aveva obiettato. Per la prima volta nella sua vita, non aveva fatto sentire la sua voce, non aveva espresso il suo dissenso, la sua sacra opinione, riguardo quel trattamento.
Vi si era semplicemente conformata, in silenzio.
Ed ogni giorno lo trascorreva così, in silenziosa contemplazione del cielo chiaro primaverile.
Nonostante i monaci avessero accettato la sua relazione con Blake, riconoscendolo come il padre ufficiale dei bambini, nessuno aveva il permesso di vedere Judith, nemmeno lui.
Ad ogni modo, non c’era pericolo che ciò accadesse: il ragazzo non si era mai presentato alla cattedrale, chiedendo di vederla.
Erano trascorsi diversi giorni dall’esecuzione di Beitris, da quando egli era rimasto sepolto vivo dentro la galleria.
Tra i due doveva esser sicuramente accaduto qualcosa, dedusse padre Thomas.
I soli che si erano presentati al loro cospetto, chiedendo di poter vedere Judith, erano stati Hinedia e padre Craig.
Hinedia era giunta un paio di volte.
Il prete straniero, invece, bussava al portone quasi ogni giorno, chiedendo di lasciargli vedere la ragazza.
Ovviamente, i monaci si erano mostrati intransigenti, anche dinnanzi a lui.
Tuttavia, la persona che si era presentata quella mattina, pretendendo  di vedere la fanciulla, era diversa da tutte le altre.
Padre Thomas osservò l’avvenente figura della ragazza inginocchiata a terra: la lunga cascata ondulata di capelli cremisi le scendeva giù ovunque, coprendole spalle, braccia, schiena; la veste leggera le accarezzava dolcemente il corpo diafano, morbido e curvilineo, più femmineo di qualsiasi altro, colmo di ben tre vite umane.
Tre gemelli. Il numero maledetto.
L’uomo le si avvicinò con il vassoio fumante in mano. – Ti ho portato la colazione, cara: patate dolci, purea di frutta fresca e pagnotte al miele, come piacciono a te.
Judith non reagì in alcun modo: restò con il volto verso l’altro, a guardare il cielo, come un felino in cattività, tuttavia quieto, rassegnato del proprio destino.
A padre Thomas fece male vederla così.
Per questo aveva preso la decisione di spezzare quella routine durata sei giorni, e di permetterle di vedere quell’insolita persona che aveva domandato di vederla, un’ora prima.
La ragazza alzò una mano, piccola e bianca come il latte, priva di guanti, di anelli, e di qualsiasi altro abituale ornamento, e la posò sul proprio pancione, come se potesse sentire il respiro dei bambini al suo interno.
Padre Thomas avrebbe tanto voluto chiederle come fosse possibile, che lei non desiderasse e amasse quelle creature, sangue del suo sangue, carne della sua carne.
Avrebbe dovuto essere naturale, per ogni donna, amarle e volerle proteggere.
Judith era anormale? Cosa aveva che non andava? Perché il Diavolo l’aveva resa così gelida nei confronti del frutto del proprio ventre?
Ogni madre amava.
Era una legge umana che a padre Thomas era stata insegnata fin dalla nascita, così come a chiunque altro.
Le madri che non amavano, erano donne che non meritavano di essere donne, che non meritavano né pietà, né comprensione, né di continuare a vivere.
Erano madri snaturate.
Tuttavia, con Judith era diverso. Non avrebbero mai e poi mai potuto ucciderla.
Judith era la loro figlioccia.
- Padre? – esalò la fanciulla, con la sua voce stranamente soave e leggera come un battito d’ali di farfalla.
- Sì, mia cara? – si riscosse subito l’uomo, accovacciandosi accanto a lei e guardandola in aspettativa. - Ti senti male…? I bambini ti recano dolore?
- Padre, ti ricordi che aspetto avesse mia madre? – gli domandò a bruciapelo, con una tranquillità ultraterrena, facendolo impallidire.
Se ricordava Bernadette Livian?
- Vagamente, cara.
- E com’era? – domandò lei, portando finalmente i suoi occhi grandi e neri come il carbone sui suoi. – Io non riesco più a ricordarla.
- Era… bellissima.
Era deprimente, non sapere cos’altro dire di lei.
Era vero, la ricordava vagamente, quella ragazza che pregava tremante, ai piedi dell’altare, consapevole del proprio destino.
Quella giovane fanciulla con lo sguardo dolce, privo di qualsivoglia malizia o malvagità.
Quella ragazza così diversa da Judith.
Ricordava che aveva degli occhi meravigliosi, superati in bellezza solo da quelli di Judith stessa.
D’altronde, era così, no? Ogni figlio superava il suo progenitore. In tutto.
Era il destino di tutti loro.
E per i figli del Diavolo, tale legge naturale, sembrava essere più totalizzante che mai.
La nuova generazione di servi del Diavolo (quella a cui apparteneva anche Judith), non a caso, era in assoluto la più bella, ribelle ed intelligente che si fosse mai vista a Bliaint.
E padre Thomas, con la sua veneranda età, poteva certo ben dirlo.
Alcuni di loro erano scolpiti nella mente di padre Thomas, più di altri:
C’era Cedric, il figlio del macellaio, il più grande di sette fratelli, che aiutava la sua famiglia in ogni modo e portava avanti l’attività quasi autonomamente, non lamentandosi mai; e che durante l’epidemia si era prodigato più di tutti gli altri per assistere i malati e fare la sua parte, rischiando di ammalarsi a sua volta.
C’era Mary Claire, che era una locandiera della Taverna, e faceva di tutto per aiutare in ogni modo i bambini orfani di Bliaint, indipendentemente dal culto, dando loro cibo, un letto caldo, un posto dove stare, nonostante non avesse posto per tutti, e talvolta non aveva il pane neanche per se stessa e per i suoi genitori.
C’era Ephram, che si era autoproclamato leader della compagnia di stregoni eremiti, facendosene portavoce, combattendo per la causa che riuniva ogni praticante di magia nera emarginato ed escluso; un giovane uomo che li aveva messi in difficoltà in ogni modo possibile, un combattente nato.
C’era stata Beitris, che aveva portato avanti, da sola, una delle rivoluzioni più distruttive che aveva conosciuto Bliaint, prendendosene le responsabilità, pur di far valere i suoi diritti e di salvare Maroine e Maringlen.
C’era stato Folker. Folker, che aveva accettato senza lamentarsi una punizione troppo dura per lui, troppo dura per chiunque; sopportando mesi di torture giornaliere sulla propria pelle e sulla propria mente, venendo emarginato a causa dell’accusa di essere una creatura mitologica e pericolosa, un’accusa che nessuno aveva mai confermato in alcun modo.
E poi c’erano loro… Blake e Judith.
Blake che, fin da quando era venuto al mondo, aveva come unico obiettivo quello di sfasciare ogni convinzione universalmente riconosciuta e accettata, di demolire ogni credo comune, rischiando grosso e mettendosi in pericolo incurantemente; ribelle, intelligente e spavaldo, quel ragazzo poteva diventare un’arma, così come poteva costituire la rovina di Bliaint.
Per finire, c’era Judith.
Judith era la giovane donna più ambiziosa, decisa, ostinata, furba e controversa che padre Thomas avesse mai visto e conosciuto. Judith, come Blake, sembrava non temere nulla, quando si trattava di raggiungere i suoi obiettivi. Se si metteva in testa di raggiungere qualcosa, presto o tardi lo avrebbe fatto. Non provava vergogna, non provava alcuna forma di insicurezza, sapeva quanto valesse, ma soprattutto, sapeva cosa volesse, e cosa avrebbe dovuto fare per ottenerlo.
Forse era proprio per questo suo forte spirito di indipendenza e per la controversia interna che la animava, che non voleva dei figli.
Ad ogni modo, per quanto padre Thomas, segretamente, ammirasse ognuno di loro, alcuni di quei ragazzi erano sin troppo dannosi per il sistema di cose e di valori che avevano con tanta fatica eretto a Bliaint.
Se il loro villaggio era diverso da tutti gli altri, un porto sicuro e protetto da ben due Signori onnipotenti, era solo grazie all’immenso lavoro che avevano fatto per conquistarsi la benevolenza dei due.
Non potevano permettere a dei fanciulli di rovinare tutto il lavoro che avevano portato a termine faticosamente, in secoli e secoli.
Alcuni di loro erano già stati eliminati.
Altri… lo sarebbero stati, in futuro. Tempo al tempo.
- C’è una persona che vuole vederti, cara – le disse di getto, riscuotendosi autonomamente da tali elucubrazioni.
Judith sembrò non dare importanza a quell’informazione.
- Non vuoi sapere chi sia? – incalzò il monaco, portandole una morbida ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio.
- Non voglio vedere nessuno.
- Tuttavia, la persona che si è presentata al nostro cospetto oggi… dice che nutre dei desideri suicidi. E che solo vederti potrebbe fargli cambiare idea.
Judith alzò un sopracciglio, scettica. – Mi sembra un po’ drastico.
- È un giovane servo del Creatore.
L’improvviso timore si trattasse del suo persecutore e stupratore fece vibrare di ansia e angoscia le membra della giovane donna.
- Ti sembra così strano che un giovane servo del Creatore sia così smanioso di poter vedere una serva del Diavolo? – aggiunse padre Thomas, cercando di sdrammatizzare, di fare dell’ironia.
- E non sarebbe dunque vostro compito allontanare servi del Creatore e del Diavolo dal peccato? – gli rispose per le rime Judith, affatto in vena di scherzare.
- Ad ogni modo, mi ha assicurato che la tua empatia era stata in grado di consolarlo, in passato. Ha da poco perso una persona cara.
- Qual è il suo nome?
- Kåre Ambrose. Potrebbe farti bene prendere un po’ di aria fresca…
E se ti comporterai bene, cara, convincerò gli altri a lasciarti uscire, di tanto in tanto – la rassicurò dolcemente, come avrebbe fatto un padre con la propria figlia, chiusa in gabbia.
- Digli che mi vesto e scendo.
 
Dopo più di un’ora d’attesa, Ambrose intravide la figura di Judith avvicinarsi a lui.
La fanciulla era vestita in maniera molto più semplice del solito, ma sempre curata; sembrava più giovane, e nonostante le scure occhiaie e lo sguardo distaccato e stanco, era ancor più bella di quanto già lo fosse solitamente.
- Venite, usciamo di qui – fu la prima cosa che gli disse lei, facendogli strada verso l’uscita della cattedrale.
Una volta fuori, i due presero a passeggiare, diretti verso il prato.
- Sono felice stiate bene. Vi tengono chiusa lì dentro senza farvi uscire? – le domandò d’improvviso il ragazzo.
- Perché avete chiesto di vedermi, Ambrose? – gli rispose invece lei, andando diretta al punto, ma mantenendosi serena e pacata.
- Ho assistito anche io a quello che avete fatto durante l’esecuzione di Beitris – le disse. – Ciò che ho visto mi ha provocato incubi ogni notte.
- Mi fa piacere sentirmelo dire…
- No, non sono qui per incolparvi o farvi sentire peggio di quanto già vi sentite – la bloccò lui, arrestando il passo e guardandola. – Potete anche aver ucciso orribilmente una donna, a causa di un errore di composizione, tuttavia, avete dato una lezione ai monaci, facendoci capire che, se volessimo, potremmo abolire il rogo, e adottare altri metodi di esecuzione.
- Non è un traguardo che raggiungeremo a breve, dopo quello che è accaduto.
Ho buttato all’aria ogni possibilità di ottenere un cambiamento concreto.
- Non è vero.
Avete avuto coraggio.
Judith gli rivolse un sorriso accennato, amaro. – Siete l’unico a pensarla così. Ma vi ringrazio. Ad ogni modo, non dite più a padre Thomas un’affermazione tanto estrema quando chiedete di vedermi: ha creduto, per un attimo, che foste infatuato di me.
- L’ho detto perché pensavo fosse l’unico modo che li avrebbe convinti a farvi uscire… - ammise lui, abbassando lo sguardo e riflettendo.
Judith lo osservò. – E voi? Come state?
Ambrose rialzò lo sguardo su di lei, guardandola a sua volta. – Sarebbe tutto più semplice, vero…?
- Che cosa? – domandò Judith, confusa.
- Essere innamorato di voi, invece che di … - la voce gli si soffocò in gola, facendolo bloccare, a pugni stretti, con quel familiarissimo senso di vuoto e magone di sofferenza che gli si annidava sullo stomaco, estendendosi ovunque.
- Ambrose, che state dicendo?
- Sarebbe più semplice. Riuscire ad innamorarmi di una donna. Di una donna come voi.
- Non sarebbe comunque più semplice, né meno dannoso: ci sono stati uomini, servi del Creatore, che si sono innamorati di me, e vi posso garantire che non è stato affatto facile per loro – chiarì, andando a sedersi sopra la superficie di uno spazioso masso, sentendo già la schiena affaticata per il peso dei tre gemelli.
Ambrose la raggiunse. – Sì, avete ragione. Tuttavia, sarebbe più semplice, da accettare, per un servo del Creatore, innamorarsi di una serva del Diavolo, piuttosto che di un ragazzo. Di qualsiasi culto esso sia.
Judith dovette convenire che avesse ragione: per i servi del Creatore la situazione era più complessa.
I servi del Creatore non permettevano in alcun modo i rapporti tra persone dello stesso sesso, al contrario dei servi del Diavolo.
- E, per complicarmi la vita oltre ciò che è accettabile… io non solo mi sono innamorato di un ragazzo… ma anche di un ragazzo servo del Diavolo – spirò con voce rotta, sotto la quale era nascosta una rabbia e una frustrazione palpabili, che fuoriuscivano da lui quasi in forma aerea.
Una nuvola nera pronta a scagliarsi su chiunque.
- Quello che sono è sbagliato.
Quello che provavo e provo per lui è sbagliato.
Per questo sono venuto a cercarvi, oggi: voglio usare il marchingegno che avete usato su Beitris, su di me, per togliermi la vita.
A tale dichiarazione, Judith sgranò gli occhi, catapultandoli immediatamente sul ragazzo accanto a lei, che la guardava con una decisione d’acciaio negli occhi.
- Siete fuori di voi…?
- Se vi state chiedendo come mai non mi sono già appeso una corda al collo come ha fatto Folker, per mettere fine a tutto questo dolore in maniera molto più veloce e umana, vi rispondo subito: voglio morire purificato  dal fuoco della polvere nera.
Siete stata voi a dire che un fuoco vale l’altro, durante l’esecuzione di Beitris: il fuoco purifica, dunque anche il fuoco scaturito dalla polvere nera purifica.
Beh, io voglio essere purificato.
Sono impuro, so di esserlo, come ho detto.
Proprio per questo vorrei che i miei desideri e i miei atti impuri vengano purificati col fuoco, mentre pongo fine alle mie sofferenze.
Ho pregato il Creatore e ho capito che è questa la via.
Certo, potrei pur sempre autodenunciarmi ai monaci, dicendo loro ciò che ho fatto con Folker, facendomi così bruciare al rogo.
Tuttavia… se lo facessi, rovinerei anche quel poco di buon ricordo che il popolo ha di Folker, ed è l’ultima cosa che vorrei. Inoltre… per quanto sia stato atroce vedere Beitris morire in quel modo… lo preferisco mille e più volte, rispetto alla morte al rogo – concluse il ragazzo, attendendo la risposta della serva del Diavolo.
Judith lo osservava sconcertata, nonostante quel velo di stanchezza che le aveva visto poco prima imperasse ancora sul suo bel viso.
- So che può sembrare strana, la mia richiesta…
Ma mettetevi nei miei panni, Judith…
Io non ce la faccio più. Non riesco più a vivere senza di lui, sapendo di avergli fatto del male…
Credetemi, è meglio così. Nessuno saprà che mi avrete dato il marchingegno. Se vorrete nascondere le prove, potete bruciare il mio corpo non appena sarò morto, e nessuno saprà nulla. La mia famiglia se ne farà una ragione, con il tempo.
Vi prego, datemi il marchingegno…
Judith gli prese il viso tra le mani, facendogli sentire la consistenza delle proprie mani fredde e morbide sulle guance dure.
La ragazza aveva due biglie nere e lucide, al posto degli occhi, profonde come gli anfratti dell’inferno:
- In te
Non c’è nulla
Di sbagliato – scandì bene ogni parola, con la voce tremante e rotta dal pianto, sperando che quel concetto gli entrasse bene in testa.
Ambrose iniziò a piangere a sua volta, poggiando le proprie mani grandi e calde su quelle di lei. – Non dite così… non ditelo…
- Non c’è nulla di sbagliato nell’amare un uomo.
Non c’è nulla di sbagliato nell’amare una donna.
Non c’è nulla di sbagliato nell’innamorarsi di una persona dello stesso sesso.
Sono stata chiara, Ambrose…?
Non sei sbagliato.
Non lo sei!
Altre corpose lacrime bagnarono le guance del ragazzo, il quale si lasciò andare ad un pianto liberatorio.
- Se non sei in grado di amare le donne, va bene lo stesso.
Va bene, Ambrose – persistette lei. – Riuscirai ad accettare questo lato di te, presto o tardi. Lo farai. Riuscirai a superare la morte del tuo disperato e folle amore.
Ce la farai.
Ma io non ti darò mai il marchingegno.
Tu non morirai così.
Tu non morirai.
Mi hai sentito bene?
Ambrose la guardò negli occhi, annebbiati completamente dalle lacrime, e pensò che, se mai il Creatore avesse creato degli angeli custodi per i suoi sudditi, questi dovevano avere sicuramente l’aspetto di Judith.
Sfinito, Ambrose annuì, continuando a far fuoriuscire tutte le lacrime che si erano accumulate dentro i suoi occhi: se suo padre lo avesse visto in quello stato, a singhiozzare come una bambinetta, lo avrebbe preso a calci nel didietro e lo avrebbe mandato a dormire con le pecore.
Invece Judith lo consolò e lo rincuorò, ancora una volta, a modo suo.
- E poi.. – disse ad un tratto la ragazza, rivolgendogli un sorriso minuscolo e dall’aria vagamente divertita. – Hai sbagliato in principio a venire da me: il marchingegno lo ha creato Blake. È lui ad averne altri, nella fucina, non io – lo informò, facendolo sorridere lievemente a sua volta.
- Dunque, sarei dovuto andare da lui.
- Esatto.
- Credi me lo avrebbe dato?
Judith portò lo sguardo altrove. – Il marchingegno avrebbe dovuto funzionare in maniera diversa, Ambrose. Lo abbiamo creato per recare una morte indolore. Non certo come quella che hai visto qualche giorno fa. Sono stata io che ho sbagliato ad usarlo.
Blake sarebbe in grado di utilizzarlo nella maniera corretta, puoi starne certo.
Ma, giunti a questo punto… è comunque tutto inutile.
Se ti avrebbe accontentato? Se avessi saputo convincerlo con le parole giuste, sì.
È stata una fortuna che, invece, tu sia venuto qui da me.
- Ho saputo che è rimasto sepolto per quasi un giorno intero sotto la galleria, e che è vivo per miracolo. Come sta?
- Non lo so, Ambrose.
Non ne ho la minima idea.
 
 
Quaglia corse, corse più veloce che poteva.
I suoi vestiti erano sudici, la testa gli doleva, le gambe non se le sentiva neanche più.
Il respiro corto gli mancò e credette di star per svenire, ma rinsavì nel momento in cui adocchiò, a distanza, i contorni di Bliaint.
Sorrise sfinito e riprese a correre e a correre, con il cuore, l’anima e il corpo pesanti.
Quando, finalmente, si ritrovò dinnanzi all’abitazione di suo interesse, alla casa che tanto gli era mancata nel corso di quelle lunghe settimane, dovette fare uno sforzò sovrumano per non crollare lì, davanti l’uscio.
Si trascinò fino alla porta e bussò violentemente, persistentemente, sperando che le gambe gli reggessero.
Poi un dolore cieco lo colpì alla testa e indietreggiò, ansimando.
Le gambe gli tremarono talmente tanto che cadde inginocchiato a terra.
Eppure… le sue speranze si animarono quando udì il rumore della porta di casa aprirsi.
Da quella posizione, riusciva a scorgere solamente gli stivali neri e familiari di colui che aveva aperto, e ora se ne stava lì, probabilmente a guardarlo a distanza.
Probabilmente deluso da lui, ipotizzò Quaglia.
Deluso perché li aveva abbandonati, senza una spiegazione, assentandosi per settimane.
L’uomo continuò a fissare quegli stivali con il respiro ansante, e con le ultime forze rimastegli, esalò le prime parole dopo giorni:
- Lo so…
Lo so… Mi dispiace…
Probabilmente non vorrai più vedermi…
Sono stato uno stupido, ma dovevo farlo…! Dovevo provarci!
Io dovevo- le parole gli morirono in gola nel momento in cui quegli stivali scattarono in avanti, e Quaglia si ritrovò inaspettatamente invaso da un abbraccio caldo e strettissimo.
L’abbraccio più sorprendente, curativo e sentito che avesse mai ricevuto in vita sua.
Un abbraccio così bello, che lo portò alle lacrime.
Blake, inginocchiato dinnanzi a lui, lo strinse a sé come se lo stesse salutando prima di andare al patibolo, con forza, infinito affetto e dolcezza.
Quaglia pianse, pianse di gioia e, nonostante l’assenza di forze, ricambiò l’abbraccio a tentoni, stringendolo a sé a sua volta, sollevato, rincuorato, felice.
- Mi sei mancato… - gli sussurrò il ragazzo all’orecchio, con voce spezzata, accarezzandogli i capelli come avrebbe fatto ad un fratello.
Quaglia affondò il naso sulla sua spalla, singhiozzando. I vestiti che indossava Blake erano quelli che usava solitamente per lavorare alla fucina, e odoravano di carbone. Quaglia inspirò quell’odore a pieni polmoni, beandosene, convincendosi di essere finalmente tornato a casa.
- Avevi detto niente abbracci, né dimostrazioni d’affetto… - sussurrò sorridendo, placando lievemente il suo pianto, mentre lo stringeva ancora, bisognoso di quel calore che non si aspettava di ricevere.
- Sta’ zitto – rispose per le rime il ragazzo, facendolo ridere.
Blake si staccò da lui e gli prese il viso tra le mani, per osservarlo bene, ancora totalmente sconvolto e felice di trovarselo lì davanti a sé. – Non riesco a credere tu sia tornato…
- Sono stato via solo qualche settimana… - rispose Quaglia, sorridendo ancora amaramente, mentre stringeva le spalle di Blake e lo osservava a sua volta, carpendone ogni cambiamento. I suoi capelli sembravano un po’ più chiari rispetto all’ultima volta che li aveva visti.
- Che ti è successo? Sei più magro e sembra tu stia per morire.. – constatò Blake.
- Ho solo bisogno di riposo, di calore e di un pasto caldo. Anche i tuoi abbracci non sono male, come inizio.
Blake gli donò un altro meraviglioso sorriso in risposta, di quelli rari, che non si riuscivano mai a vedere sul suo viso.
- Vieni dentro – lo incoraggiò, aiutandolo ad alzarsi in piedi. - Aspetta che padre Craig ti veda e piangerà più di quanto abbia fatto tu ora.
Quaglia si lasciò condurre dentro casa, chiedendo a Blake se anche Heloisa e Ioan fossero in casa.
Egli gli rispose che Heloisa era fuori, mentre Ioan dormiva.
Quando padre Craig raggiunse l’atrio a sua volta, non credette ai suoi occhi.
Come aveva predetto Blake, pianse, abbracciandolo fino a togliergli il fiato, sotto gli occhi gioiosi di Blake.
Poi, inaspettatamente, anche qualcun altro si unì a loro:
Un frenetico bussare alla porta li spinse ad aprire, rivelando la figura di Ephram davanti l’uscio.
Sembrava che lo stregone avesse appena percorso tutto il continente a piedi per raggiungerli nel minor tempo possibile.
Gli occhi di Quaglia si inumidirono di nuovo spontaneamente, non appena vide anche lui.
Ephram lo guardava sconcertato, quanto lo era stato Blake poco prima.
Non vi fu bisogno di chiedergli come facesse a sapere che fosse tornato.
- Ho sentito  che stavi tornando… la magia me lo ha rivelato – disse lo stregone, evitando di aggiungere che avesse seguito i suoi passi sin dal momento in cui aveva lasciato Bliaint, sapendo dove si trovasse: Blake e tutti gli altri avevano fatto di tutto per scoprire dove Quaglia potesse essere andato. Se avessero scoperto che lo stregone ne era a conoscenza, e avesse comunque scelto di non informarli, non avrebbero reagito bene, Blake in particolar modo.
E l’ultima cosa che gli serviva, era un’ulteriore lite con Blake.
Ephram e Quaglia si mossero in contemporanea, incontrandosi a metà strada e abbracciandosi caldamente.
- Sono felice che tu stia bene, amico mio – gli disse Ephram, stringendolo, venendo subito ricambiato.
- Anche tu, mascalzone – rispose Quaglia in un sorriso, per poi staccarsi da lui, ancora sofferente.
Lo sguardo che Ephram rivolse a Blake in quel momento, Quaglia non seppe decifrarlo. Capì che doveva esser accaduto qualcosa tra i due.
- Io ho assoluto bisogno di riposo, di cibo e di cambiarmi di vestiti – disse loro Quaglia, abbandonandosi sulla poltrona. – Blake, potresti prestarmi alcuni dei tuoi vestiti, temporaneamente? Il sacco con le mie cose è andato perduto lungo la strada…
- Vado a prenderli. Ad ogni modo, ti lasceremo dormire un po’ ora, hai bisogno di riprenderti.
Poi, una volta sveglio, usciremo e andremo alla locanda, così potrai mangiare a sazietà. E ci racconterai tutto.
Le parole di Blake avevano un sottotesto ben chiaro: Heloisa sarebbe potuta tornare da un momento all’altro, ed era meglio che meno persone possibili ascoltassero ciò che Quaglia avesse da dire, qualsiasi cosa fosse.
Blake era sempre stato prudente, e Quaglia non avrebbe potuto essere più d’accordo con lui.
Fecero come il ragazzo aveva detto.
Quaglia dormì qualche ora, riposandosi e riacquisendo le forze.
Quando si svegliò, Ioan lo salutò a dovere a sua volta, poi partirono tutti e quattro in direzione della locanda sopra la galleria; ma non prima di aver accompagnato Ioan a casa di uno degli otto bambini dei vizi capitali.
Una volta dentro, Quaglia ordinò da mangiare otto porzioni di cibo, talmente tanto, che il proprietario della locanda temette che gli avrebbe fatto terminare le scorte: patate arrostite, zuppa di fagioli, pagnotte al burro, stufato di capra, sformato di verdure, uova, ceci al rosmarino e ricotta dolce.
E mentre attendevano l’arrivo del cibo, Quaglia cominciò a raccontare tutto.
Gli raccontò della sua decisione, del motivo per cui aveva voluto provare a convincere i comandanti delle truppe del conte a fare marcia indietro, tornandosene da dove erano venuti.
Era andato da solo, sperando di passare per un messaggero di Bliaint, non pensando di dover fare i conti con delle persone che non erano affatto delle sprovvedute, e che dubitavano delle sue parole sulla base del fatto che non lo credevano abbastanza attraente per essere un servo del Diavolo di Bliaint.
Gli raccontò di Gerda e di Selen, così come del comandante Charles, un uomo deprecabile e infido, sotto ogni punto di vista.
Narrò loro cosa aveva detto per convincerli, e del fatto che, inizialmente, sembravano fidarsi di lui, sembravano quasi credere alle sue parole.
Non a caso, lo tenevano rinchiuso in una stanza, sì, ma non lo trattavano come un vero e proprio prigioniero: gli davano cibo e gli permettevano di lavarsi.
Eppure… col passar dei giorni, Charles iniziò a rifiutare internamente l’idea che l’unico motivo per cui erano giunti lì, fosse morto al rogo, come quel messaggero diceva. L’idea di accontentarsi delle gemme non gli andava più bene. Il conte voleva Blake. E se anche Blake fosse stato davvero morto… allora avrebbero trovato un altro ragazzo da portargli, in sostituzione, fingendo che fosse lui. Non importava se avrebbero dovuto affrontare maledizioni lanciate su di loro e incantesimi di magia nera scagliati sulle loro truppe, dagli abitanti di Bliaint. Non gli importò più nulla.
Fu così che iniziò il declino del loro “accordo”, che pareva quasi concluso.
Charles voleva la verità. Voleva la verità, e sentiva di non starla ricevendo da Quaglia.
Fu per tale motivo che decise di giocare sporco.
- È iniziato tutto qualche giorno fa, di mattina – cominciò a raccontare il ricordo tremendo che l’aveva fortemente segnato, che avrebbe portato sempre con sé, e che l’aveva fatto tornare a Bliaint. – Sentivo ci fosse qualcosa che non andava, qualcosa di diverso: Gerda non era venuta a portarmi la colazione come ogni mattina. Fortunatamente, la piccola era stata chiusa in una stanza, così le è stato risparmiato l’atroce spettacolo a cui ho dovuto assistere io – la sua voce era diventata più scura, traballante, il suo sguardo fisso nel vuoto, spento. – I soldati mi hanno portato dentro un’altra abitazione, apparentemente abbandonata. Lì dentro, c’erano Charles, che mi attendeva in piedi, e la povera Selen, stesa su una tavola di legno, con caviglie e polsi legati stretti a delle corde.
Il suo volto era mortalmente spaventato. Ogni volta che mi addormento… rivedo i suoi occhi, le sue labbra tremanti, i suoi denti battenti.
Mi tennero fermo, mentre le quattro corde legate agli arti della donna si tendevano sempre più, tirate da altrettanti uomini. I suoi arti si tesero all’inverosimile e lei iniziò ad urlare.
Non avevo mai visto nessuno venire torturato, prima d’ora. E anche se lo avessi visto… non potrei ricordarlo, lo sapete.
Charles la torturò, cercando di farmi parlare, continuando a farmi le stesse domande che lo tormentavano:
Il ragazzo che cerchiamo è morto davvero?
Tu sei realmente un servo del Diavolo di Bliaint, o solo un impostore?
Gli stregoni di Bliaint hanno davvero lanciato una maledizione su di noi?
Fino a che punto può arrivare la loro magia?
Io non risposi, mai.
In alcuni momenti… quando le urla di Selen raggiungevano picchi che le mie orecchie non erano più in grado di sostenere… avrei voluto cedere, cedere e rivelargli tutto, per poi farmi ammazzare lì, a mia volta.
Ma non potevo. Non potevo farlo. Non potevi tradirti… - disse con voce rotta, posando gli occhi su Blake, del quale il volto era una livida maschera agghiacciata.
- Io dovevo proteggervi, tutti voi – continuò Quaglia. – Ed è quello che ho fatto. Ho resistito, fino all’ultimo… facendo ammazzare quella donna davanti ai miei occhi, in maniera disumana: quando le corde tirarono troppo, le braccia le si staccarono dal corpo, poi fu il turno delle gambe, in un tripudio di sangue denso.
Ancora non so dire se sia morta dissanguata o per l’immenso dolore provato.
Sta di fatto che, dopo qualche secondo, le sue urla sono cessate di colpo, la sua bocca è rimasta spalancata, immobile.
“Questo è colpa tua” mi sussurrò Charles, ordinando poi di farmi riportare nella mia stanza, sorvegliato.
Quella notte stessa, mentre ero sul mio letto, con gli occhi spalancati per l’orrore di ciò che avevo vissuto… la porta della stanza si aprì, rivelando la figura della piccola Gerda.
Il suo volto giovane era tumefatto dal dolore, dal pianto, dalla perdita di ogni speranza.
Avrei voluto solo abbracciarla e stringerla a me, ma mi sentivo troppo in colpa per farlo…
Lei si avvicinò a me. Credevo fosse infuriata con me, invece mi tese la mano.
Mi disse che oramai non aveva più nulla per cui vivere.
Tuttavia… se io avevo ancora qualcuno per cui vivere… lei mi avrebbe aiutato.
Così, con i poteri che solo una bambina possiede, aprì la finestra sigillata con una chiave che era riuscita a rubare alle guardie armate, e mi aiutò a scappare.
L’ho pregata di venire con me, ma le mie parole non sono servite a nulla: il suo sguardo era quanto di più vuoto e incolore avessi mai visto.
L’ho lasciata lì e sono scappato via, riuscendo miracolosamente a non farmi vedere dalle guardie che sorvegliavano l’entrata del villaggio.
Poi, dopo giorni di corsa … sono arrivato qui – concluse.
Nessuno commentò nulla, né emise un singolo fiato, per diversi minuti.
Solo il rumore delle posate degli altri clienti della locanda colmò l’impenetrabile silenzio.
Gli occhi di Quaglia ebbero il coraggio di posarsi su quelli di Blake: il volto del ragazzo rivelava il nulla. Era algido, distante, perso nel vuoto, le mani strettissime intorno alle braccia conserte.
- Mi dispiace, Blake…
So quanto fossi legato a loro.
- Non le è rimasto nulla – fece udire la sua voce Blake, gli occhi di tutti gli altri puntati su di lui. – Non le è rimasto più niente – si riferiva ovviamente a Gerda, la sua apprensione era rivolta a lei. Non sarebbe mai e poi mai riuscito ad immaginare come si sentisse, quella dolce e intelligente piccola donna, che era stata dalla sua parte sempre, dall’inizio alla fine.
Le sue iridi sfuggirono al vuoto e si posarono su Quaglia, seduto accanto a lui, in quel piccolo tavolo tondo che li ospitava tutti e quattro. – Non merito tutto ciò che hai cercato di fare per me – gli disse solamente. – Non avresti dovuto.
- Dovevo provarci – insistette l’uomo, posandogli una mano sul ginocchio e stringendoglielo calorosamente. – Dovevo, Blake. Ho fallito…
- Non hai fallito – intervenne Ephram. – Sei stato coraggioso, scaltro, leale… solo per questo, non hai fallito. Inoltre, ora hanno ancora più paura di noi e della nostra magia. Se il Diavolo ci assisterà, quegli uomini potrebbero rinsavire e decidere anche domani di lasciare la nostra terra. Non è stato tutto inutile, Quaglia – lo rassicurò, a modo suo.
- Ti ringrazio, amico mio. Ma avrei dovuto tener conto di più fattori, per compiere un’impresa simile.
- Tu non hai negato nulla della tua versione iniziale – disse la sua anche padre Craig, non appena si riprese emotivamente dall’impatto devastante che aveva avuto su di lui la descrizione della tortura della donna. – Quindi, nell’effettivo, non sei un bugiardo. Tu potresti aver detto la verità, nella loro concezione, dato che non hai negato nulla, nonostante la tortura.
- Vorrei fosse così semplice.
Hai ragione sì, ma rimane il fatto che Charles non mi crede.
E poi… loro vogliono comunque un bottino da portare al loro conte.
Agloveil vuole un ragazzo che riesca a praticare con successo la trasmutazione dei metalli, ed è quello che avrà, anche se Blake dovesse morire nel frattempo, o fosse già morto.
E poi… non aspettatevi che si limiteranno a lui.
La vostra fama vi precede, e quegli uomini sono famelici: non riusciranno a trattenersi dal saccheggiare il vostro villaggio e dal fare quanti più schiavi possibili, non appena giungeranno qui.
- Questo era piuttosto scontato – commentò Ephram in un sospiro.
- Ad ogni modo, non è tutto. Potremmo ancora avere una possibilità – annunciò Quaglia, ed Ephram non aspettava altro che introdusse l’argomento.
- Che possibilità? – gli domandò padre Craig, spaesato.
Un piccolo sorriso ornò il volto dimagrito di Quaglia.
Un sorriso speranzoso e colmo di tenerezza, che non passò inosservato a Blake.
- Devo rivelarvi qualcosa, amici miei … mentre ero a Carbrey, io… mi sono ricordato di avere un figlio.
Padre Craig e Blake ebbero reazioni piuttosto simili a tal notizia, sgranarono gli occhi meravigliati e stupiti, mentre Ephram si finse sorpreso.
- Un figlio…? – gli domandò padre Craig, sorridendo per lui. – Quaglia, è meraviglioso! Com’è successo??
- Non lo so… stimoli visivi e uditivi che hanno colpito qualche parte della mia memoria, probabilmente… - rispose Quaglia, non riuscendo a non nascondere la felicità, voltandosi poi a guardare Blake.
Il ragazzo, in silenzio, sorrideva nella sua direzione; il volto che, nonostante tutto ciò che aveva appena udito, riusciva ancora a manifestare, seppur discretamente, della gioia sincera.
- E com’è? – gli domandò curioso, donando a Quaglia un altro bel sorriso.
- Lui è… - chiuse gli occhi, ripensando al fatto che fosse davvero incredibile e bellissimo riuscire a ricordarlo così bene. – Ruben è audace, deciso e sveglio. Ma, al tempo stesso, ha un animo sensibile, sin troppo profondo, per un ragazzino della sua età. Somiglia incredibilmente a sua madre.
- Quanti anni ha? – domandò padre Craig.
- Dodici.
- Ma è un ragazzino. Quaglia, dovrebbe vivere ancora con te. Che fine ha fatto? – indagò il giovane prete.
- Si è arruolato nell’esercito qualche anno fa.
- Parli sul serio..? – domandò Blake, confuso.
- Nell’esercito del tuo villaggio accettano bambini?? – aggiunse padre Craig, costernato.
- Già… ricordo vagamente che non fossi d’accordo con la sua decisione, e di aver provato a convincerlo a restare, ad aspettare qualche anno.
Ma non ricordo altro.
- E come ti senti, a riguardo? – intervenne anche Ephram.
- Come mi sento?
Come si sente un padre, dopo aver appena ritrovato un figlio?
Un padre che scopre di essere un padre.
Sento che mi manca infinitamente, e che ora non vorrei altro che averlo qui con me e stringerlo, rivederlo.
Darei qualsiasi cosa per rivederlo. E per farvelo conoscere, ovviamente. Sono certo che vi piacerebbe!
- Ne sono sicuro. Dovrai farlo venire, non appena potrà – confermò Blake, rivolgendogli un altro sorriso lieto. – Ma perché hai detto che potrebbe esserci ancora una possibilità, poco fa?
- Gli ho scritto una lettera, mentre ero a Carbrey.
Ho pensato al fatto che, se Ruben è nell’esercito, potrebbe venire in nostro soccorso e convincere le truppe di cui fa parte a combattere per noi, per difenderci.
Credo che la mia lettera gli sia giunta.
Blake lo guardò, confuso oltre ogni immaginazione. – Sai dov’è?
- No.
- Allora come hai fatto ad inviargli una lettera? Con le truppe del conte a sorvegliare Carbrey, per lo più?
- Non lo so, ma… sento come se qualche forza magica, da qui, sia venuta in mio soccorso per far giungere la mia lettera a Ruben in breve tempo – disse. – Non chiedetemi come, ma sono certo che è così.
Ephram non commentò nulla a riguardo, limitandosi ad osservare la reazione di Blake.
Come immaginava, il ragazzo doveva aver fatto già due più due, in quanto fece saettare gli occhi su di lui, non dicendo nulla.
- Sì, ma… spiegami meglio: hai scritto una lettera a tuo figlio, che immagino sia una recluta, data la giovanissima età, chiedendogli di convincere i suoi superiori a venire in nostro soccorso… non sapendo neppure dove si trovi al momento, e se farà davvero come gli hai chiesto. E anche nel caso fosse come dici tu, e la lettera gli fosse arrivata, e lui desiderasse aiutarci… c’è la grande probabilità che non riesca a convincere i suoi generali a combattere, da un giorno all’altro, per un villaggio straniero con cui non hanno alcun legame – osservò giustamente padre Craig.
Sempre dando per scontato che tuo figlio sia vivo e vegeto e che stia bene, il Signore lo voglia…  pensò anche il giovane prete, ma se lo tenne per sé.
- Ci è riuscito – intervenne improvvisamente Ephram, dando a Blake e a Quaglia la conferma alle loro supposizioni. – Ruben è già riuscito a convincere i suoi generali, garantendo per noi e promettendo ai suoi superiori pietre preziose e gemme della nostra galleria, in cambio. L’ho visto.
A tali parole, anche padre Craig sembrò capire. - Beh, allora… se è così, siamo salvi. Di cosa ci preoccupiamo, dunque?
- Il nostro problema è essenzialmente uno soltanto: le truppe di cui fa parte Ruben sono salpate qualche giorno fa dalle coste dell’Asia orientale.
- Asia orientale…?
- Impossibile..
- Impiegherà settimane per arrivare..! – esclamò Quaglia infine. Neanch’egli aveva idea che Ruben fosse stato mandato tanto lontano. – Cosa diavolo ci facevano in Asia orientale…?
- Le tempistiche non sono a nostro favore, ma.. – li riscosse Ephram, riprendendo in mano il discorso. - ..se incontreranno sempre un mare calmo e venti favorevoli… dovrebbero approdare nel nostro continente in un mese circa.
- Probabilmente non abbiamo un mese… non lo abbiamo – concluse Quaglia, turbato.
Fu in quel momento che a Blake tornò in mente la voce della creatura che lo aveva tenuto prigioniero dentro la galleria pochi giorni prima:
“…è chiamata ‘pietra della trasmutazione’. È l’unica pietra che permette di compiere la tanto ambita purificazione, dal piombo in oro”
La Galena. Era la Galena che al conte Agloveil serviva davvero, non lui.
Se avesse scoperto come usarla, e se poi avesse trovato il modo di fargli avere quella pietra, e di spiegargli come utilizzarla…
Eppure, se un uomo tanto influente come il conte Agloveil fosse davvero entrato in possesso di uno strumento potente come la Galena, probabilmente avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. La sua influenza sarebbe stata illimitata, avrebbe letteralmente potuto avere il mondo in mano.
E se lo avessero scoperto anche in molti altri? Cosa ne sarebbe stato dell’equilibrio presente attualmente nel mondo, se mai ce ne fosse stato uno?
Tali domande affollarono la mente del ragazzo, il quale si isolò dalle conversazioni degli altri tre.
La cosa non passò inosservata a lungo.
- Blake? Ehi, Blake? Cosa ti passa per la testa? Parlacene – lo incoraggiò Quaglia, attirando la sua attenzione.
- Nulla. Stavo solo riflettendo su tutta questa faccenda. La colpa, comunque la vogliamo mettere, è mia, e mia rimane. Sono stato io ad essere andato spontaneamente in cerca della polvere nera, sono io che ho fatto tappa a Carbrey e ho coinvolto tutte le persone attualmente coinvolte in questa catastrofica vicenda. E alcune di loro… ne hanno già pagato amaramente le conseguenze. Se non fossi andato a Carbrey, se non avessi incontrato il Giudice… nulla di tutto questo sarebbe accaduto, e voi sareste salvi, tutti salvi. Non voglio che qualcun altro paghi le conseguenze degli errori che io ho commesso, non potrei mai permettere che ad alcuno venga torto un capello, a Bliaint.
- Blake… voi non avevate la minima idea di cosa sarebbe scaturito dalle vostre azioni – gli disse padre Craig. – Non potevate saperlo. Non potete attribuirvi colpe che non avete.
- Colpa o non colpa, siamo tutti in grosso pericolo – commentò Ephram. – Dobbiamo fare i conti con questo, e pensare a come prendere altro tempo, finché le truppe di Ruben non sbarcheranno in occidente. 
- E se… - riprese Blake, per poi abbassare notevolmente il tono di voce: la locanda era un luogo discreto e poco frequentato, tuttavia vi erano comunque diverse persone al suo interno. - … scoprissi come fare la trasmutazione…?
Non appena disse ciò, le orecchie di tutti e tre si aguzzarono all’inverosimile, i loro sensi si acuirono.
- Puoi farlo??
- Avevi detto di non saperlo fare…
- Blake, ne siete capace…?
- Lasciatemi finire – li ammonì lui, poi riprendendo. – Se riuscissi a far arrivare al conte il mezzo  tramite il quale riuscirebbe ad ottenere la trasmutazione… credete che ci lascerebbe in pace?
I volti degli altri tre erano colmi di domande, mentre lo guardavano, tutti con sguardi diversi.
- Se vuoi una risposta netta…
- Sì, è quello che voglio – rispose Blake ad Ephram.
- Io credo che, arrivati a questo punto, tu sia solo una scusa per venire qui a Bliaint. Una scusa che fornirebbe loro il pretesto per saccheggiare il villaggio più famoso e leggendario del continente, e rendere schiavi gli abitanti “mitologici” che vi abitano. Per colonizzare l’incolonizzabile  e sconfiggere il demonio. Noi siamo il demonio. Un demonio molto appetibile e stuzzicante.
Dunque, se tu riuscissi, in qualche modo, a fornire loro il mezzo per compiere tale miracolo… loro giungerebbero qui ugualmente, per conquistare tutto quello che riuscirebbero a conquistare.
L’esperienza di Quaglia ne è un esempio – gli fornì la sua risposta lo stregone, guardandolo dritto negli occhi, dall’altra parte del tavolino. I suoi gomiti erano puntati sulla superficie di legno, le mani dalle dita colme di anelli intrecciate tra loro.
- Già. Non rischiamo di fornire un possibile mezzo di potere illimitato ad un tiranno deplorevole che possiede letteralmente metà continente – espresse la sua opinione anche Quaglia.
Blake si voltò verso padre Craig, l’unico che non si era ancora pronunciato a riguardo.
- E voi? Cosa ne pensate?
Il giovane prete lo guardò negli occhi per un po’, prima di rispondergli. – Forse potrebbe essere una soluzione. Ma non sapremo mai se lo sarebbe davvero – decretò.
Blake vi rifletté su a sua volta, convenendo che tutti e tre avessero ragione.
Quando il vecchio proprietario della locanda li raggiunse di nuovo, per portare via tutti i piatti sporchi delle pietanze consumate da Quaglia, Blake ne approfittò per “sciogliere” quel piccolo concilio che avevano indetto quel pomeriggio. – Se non ti sbrighi ad andare a salutare anche Hinedia, penso che ci rimarrà molto male – disse, rivolto verso Quaglia. – Anche lei è stata molto in pensiero per te. Poi, cerca di tornare a casa prima che faccia buio: hai ancora molto sonno ed energie da recuperare.
- Mi sbrigo ad andare, allora – rispose nell’immediato Quaglia. – Sicuramente lei mi è mancata più di quanto mi siate mancati voi tutti – aggiunse sarcasticamente, beccandosi una spinta e un calcio sotto al tavolo da Blake e da Ephram, mentre padre Craig si lasciò andare ad un sorriso divertito. – E poi, vorrei riprendere a breve i miei allenamenti di combattimento con lei, per vedere se è migliorata o peggiorata in mia assenza.
- Ti accompagno, anche a me farebbe piacere salutare Hinedia – gli disse padre Craig, alzandosi a sua volta dalla sedia e accostandosi a lui.
I due si congedarono da Blake ed Ephram, uscendo dalla locanda e lasciandoli soli.
Ma ciò non durò, dato che Blake si alzò a sua volta, deciso ad andarsene.
- Torno a casa – si limitò a dire allo stregone, attraversando il tavolo per dirigersi verso la porta, poco prima di venire bloccato dalla mano dell’altro: non appena gli passò vicino, Ephram gli afferrò il polso strettamente, ma senza fargli male. Nonostante tutto, una smorfia di dolore si dipinse ugualmente sul volto di Blake: benché fossero passati sei giorni, le profonde ferite alle sue mani non si erano ancora del tutto rimarginate, motivo per cui i contatti improvvisi come quello gli provocavano un dolore fitto.
Lo stregone alzò il viso verso di lui, per guardarlo. – Perché hai permesso che la uccidesse in tal modo? - gli domandò a bruciapelo, la voce seria e impenetrabile.
Blake non si ribellò al contatto, ma non ricambiò neanche lo sguardo, restando invece con il volto alto, rivolto verso la porta. – Devo ricordarti che quel giorno ero imprigionato sottoterra senza vie di fuga?
- Non dovevi lasciare un’arma tanto potente nelle mani di quella donna.
- Quella donna … è colei che cambierà le cose a Bliaint, grazie alla sua influenza – gli rispose a tono, calcando volutamente quelle due parole iniziali.
- Ci credi ancora? Nutri così tanta fiducia in lei?
Blake, finalmente, si decise ad abbassare lo sguardo, per guardarlo a sua volta.
- Andrebbe punita per quello che ha fatto – continuò lo stregone, più serio che mai. – Chi era presente… ha detto di non aver mai visto uno spettacolo tanto orrido e terrificante. Ti rendi conto di cosa avete fatto?
- Me ne rendo conto benissimo.
- Beitris era importante anche per te. Avresti dovuto avere un minimo di riguardo per lei.
- Beitris sarebbe morta comunque, Ephram.
Salvarla non è mai stato in mio potere.
- E cosa è in tuo potere, Blake? – quella voce pungente, quel tono di sfida non stavano piacendo al ragazzo. Tuttavia, sapeva anche che Ephram fosse perfettamente cosciente di trovarsi in un campo colmo di trappole con lui: una sola mossa sbagliata e sarebbe tutto finito. Era un terreno pericoloso, quello che lo stregone non riusciva a fare a meno di varcare, quando era con lui.
- È la tua donna, ma andrebbe punita. Lo sai anche tu.
- La sola cosa che so, è che voglio sparire dalla tua vista.
Vuoi giocare, Ephram? Non ho tempo per questo.
Non ho tempo né per esortarti a commemorare la morte di Beitris, piuttosto che prendertela con chi ha eseguito la sentenza; né per chiederti spiegazioni sul perché tu mi abbia tenuto all’oscuro di tutto ciò che stava accadendo a Quaglia.
Perciò, invece che cercare di infangare miseramente l’opinione che ho di Judith, ti suggerisco di lasciarmi andare – concluse granitico.
Nonostante si fosse instaurata una tensione abissale tra lui e Judith dopo ciò che era successo, Blake non avrebbe permesso ad anima viva di parlare così di lei.
Ephram, in risposta, si alzò in piedi a sua volta, sfruttando quei quattro centimetri di altezza che possedeva in più di lui per guardarlo dall’alto, a distanza ravvicinatissima.
Blake non si sottrasse e lo fronteggiò.
- Sai cosa succederà se i monaci scoprissero che le truppe del conte sono già dirette qui, da Carbrey?
- Ancora non lo sono.
- Ma sai che succederebbe se lo fossero, e se i monaci dovessero disgraziatamente venire a saperlo?
- Mi ucciderebbero per non rischiare che mi prendano con loro.
- Perché non sei scappato come ti ho suggerito di fare?
- Cosa vuoi da me, Ephram?
- Nessuno potrebbe più proteggerti, se accadesse. Né Myriam, né Judith. A quel punto, che cosa faresti?
- Me ne andrò – gli rivelò Blake, arrendendosi. – A tempo debito.
- Adesso è tempo debito. Cosa stai aspettando? Che arrivino a casa tua con i forconi?
- Secondo gli scritti antichi che ha trovato Judith, a Ioan deve essere donato il sangue almeno altre cinque volte, per guarire dalla malattia, per essere sicuri non abbia altre ricadute. Padre Craig ha il suo stesso sangue, e glielo ha già donato tre volte. Quando avremo raggiunto le otto volte, ce ne andremo, io e lui.
Ephram sospirò, alzando gli occhi al cielo, dandosi dello stupido. 
- Ogni volta che credo di riuscire vagamente a capire come funziona la tua testa, poi mi ricordo che c’è sempre una cosa che dimentico, che cambia tutto e che filtra ogni tua azione, dalla prima all’ultima: tuo fratello.
Ti rendi conto che, quando arriverete all’ottava volta, sarà già trascorso un mese?
- Sì, lo so. Ma non posso fare altrimenti. Se i monaci verranno a prendermi prima, per bruciarmi al rogo, mi toglierò la vita da solo, prima che possano legarmi sopra quel soppalco. Lo accetterò.
Ephram rise di scherno in risposta. – Come puoi dire una cosa simile…? Dunque, era a questo che sarebbe dovuto servire il marchingegno? Ad evitare il rogo, legalmente, ad ognuno di noi?
- Se le cose fossero andate diversamente sei giorni fa, sì. Ma gli eventi hanno preso una direzione diversa – rispose Blake.
Ephram lo fissò negli occhi più intensamente, tenendolo ancora incollato a sé. – Dimmi che cos’è la cosa che hai, che ti permetterebbe di fare la trasmutazione.
- Non ti dirò niente, Ephram. E tu, da me, non puoi pretendere niente.
Ti ringrazio di ciò che hai fatto e che stai continuando a fare. Ma ora me la vedo da solo – concluse Blake, staccandosi da lui, superandolo, e uscendo dalla locanda.
Dopo poco, anche lo stregone se ne uscì da quelle quattro mura lievemente traballanti, e che odoravano di cibi caldi e di legno vecchio, dirigendosi verso una meta ben precisa.

 
- Perché non mi appari? – domandò Ambrose, accovacciato sulla riva del ruscello che costeggiava casa sua.
Era quasi buio. Aveva finito di sistemare le pecore, perciò ora se ne stava seduto lì, a rimuginare sulla mattinata trascorsa con Judith, sulle parole che lei gli aveva detto e, come sempre, a pensare al giovane ragazzo che gli aveva rubato cuore e anima.
L’acqua si muoveva velocemente, emettendo piccoli schiocchi regolari.
- Perché non mi appari…? – ripeté, rivolto verso il vuoto.
- Tua sorella è apparsa a Blake.
Vuol dire che anche tu, se volessi… potresti apparire a me. Giusto?
Allora apparimi… davanti ai miei occhi.
Una sola volta.
Solo una e mi basterà, lo giuro.
Mi accontenterò, e poi ti lascerò andare… - pronunciò, il tono soffuso, leggero, eppure così doloroso da udire, persino per se stesso.
- Era un ragazzo davvero promettente – una voce sconosciuta, adulta e maschile, scosse completamente il giovane servo del Creatore, facendogli assumere una posa sul chi va là. Si voltò verso la fonte di quella voce, scorgendo la figura di un servo del Diavolo avvicinarsi a distanza, lentamente.
Man mano che si avvicinava, poté carpire più dettagli di lui: era giovane, ma più grande di lui di sicuro; i disegni neri incisi su alcune zone della sua pelle lasciavano presagire fosse uno stregone; era molto alto e slanciato, come quasi tutti loro; alla penombra della sera i suoi occhi apparivano gialli, mentre i suoi capelli erano ramati e appuntati indietro; in aggiunta al tutto, come se non bastasse, emanava una prorompente, quasi prepotente, aura di forte sicurezza e fierezza.
Il suo viso gli sembrò vagamente familiare, ma non riuscì ad associarlo a nulla e a nessuno.
Cosa ci faceva uno stregone in quella zona della vallata, pubblicamente conosciuta come una zona abitata quasi solo da servi del Creatore?
Ambrose cominciò a domandarselo, mentre continuava a studiarlo a distanza, e mentre questo si avvicinava, con lo sguardo rivolto tutto al ruscelletto.
Si sedette anch’egli, allungando le lunghe gambe fasciate dal tessuto nero sull’erba, verso la sponda del ruscello. Inaspettatamente, si tolse gli stivali, restando a piedi nudi, e infilò questi ultimi dentro l’acqua limpida e fredda. Ambrose notò che persino sui suoi piedi vi erano anelli a circondare le dita, e bracciali a circondare le caviglie, rendendoli ancora più belli ed eleganti alla vista.
Ogni parte del corpo dei servi del Diavolo, anche la più insolita o inosservata, sembrava dipinta, scolpita o disegnata a regola d’arte.
E Folker ne era l’esempio più lampante.
- Un ragazzo sorprendente. Una pietra rara, non credete? – riprese lo stregone, rilassandosi.
- Chi siete voi?
- Potete avvicinarvi, non mordo: si dà il caso che io non sia una strige – lo disse apposta, Ambrose ne fu certo, e percepì il sangue ribollirgli di rabbia dentro le vene nell’udire tali parole. Di contro, sapendo bene l’effetto che aveva provocato nel ragazzo, Ephram si voltò verso di lui, sorridendogli saccente.
- Non è facile perdere un amante. Io ne so qualcosa: ne ho perduti molti, di amanti. Ci decimano da anni tramite il rogo.
Ambrose schiuse la bocca per la sorpresa, non sapendo minimamente cosa dire. – Come fate a saperlo…? In quanti altri lo sanno?
- Che lo amavate o che avete giaciuto con lui?
La prima, penso se ne siano accorti tutti, solo un cieco non se ne accorgerebbe.
Per la seconda, non temete, lo sanno solo poche persone fidate.
- Ci osservavate…?
- Osservarvi? No, assolutamente.
Ma ho osservato voi, dopo la morte di lui.
Il vostro giovane cuore forte trabocca d’ira e di ferocia, oltre che di dolore.
Ambrose fece qualche passo verso lo stregone. – Voi siete il leader degli stregoni eremiti, non è vero? Perché siete venuto qui?
- Per esortarvi a fare ciò che è giusto.
Ahimè, sono ben cosciente che tutto il mio spirito persuasivo si rivela inutile dinnanzi ad una persona colma di tanto dolore e sofferenza come voi.
Tuttavia… - disse rialzandosi in piedi, camminando sull’erba a piedi nudi nell’avvicinarsi al ragazzo. - Folker potrà non esservi apparso come fantasma, e forse non vi apparirà mai, ma sono certo che lui lo vorrebbe più di tutti.
- Vorrebbe che cosa…?
- Vendetta.
- Vendetta…?
Mi state chiedendo di vendicarmi sui monaci?
- Di chi è la colpa di tutto questo?
Chi lo ha spinto al suicidio, torturandolo con decine di frustate ogni giorno, godendo della sua sofferenza?
Chi gli ha negato persino una degna sepoltura, e una dovuta celebrazione funeraria?
Chi lo ha seppellito su un pezzo di terra ignoto, come un cane?
Ambrose lo ascoltò osservando i suoi occhi, percependo una nuova ira incontrollata montargli da dentro e animarlo tutto, fomentato da quelle parole, più vere che mai.
- Sono stati loro – rispose, nonostante la risposta fosse scontata. La sua voce uscì rauca e turbolenta; lo pronunciò ad alta voce, riempendo di soddisfazione Ephram.
- Non siete solo, in questo.
Folker e Bridgette avevano molti amici, oltre che i familiari.
Persino i servi del Creatore come voi si sono ribellati all’intransigenza dei monaci nel non farli seppellire adeguatamente – gli fece presente Ephram.
- Cosa devo fare?
- Radunate tutti quelli che potete.
Gli amici di Folker, le locandiere che lavoravano con Bridgette, le intere famiglie dei due, chiunque li conoscesse e nutrisse anche solo un minimo di rispetto e stima per loro.
Chiunque.
Radunatevi nei sotterranei della Taverna, in segreto, e create una strategia d’offesa.
Non agite troppo presto, dovete prima essere preparati e tutti d’accordo.
I monaci sono tanti e la loro influenza è grande tra gli abitanti del villaggio: in molti potrebbero schierarsi dalla parte dei monaci. Dovrete essere pronti a combattere anche contro di loro.
Lo schieramento deve essere netto e impenetrabile.
Quando avrete ottenuto questo… insorgete.
- Intendete dire… ripuliremo questo villaggio da ogni singolo monaco che vi abita?
- Tranne Myriam, l’unica monaca del Diavolo.
Lei è intoccabile, e non ha concorso nell’ingiustizia riservata a Folker e a Bridgette.
- D’accordo.
Sarà quello che farò – confermò il giovane servo del Creatore, la voce determinata, scura e animata.
Ephram sorrise. – Non pensavo ci sarebbe voluto così poco per convincervi. Evidentemente… la sete di sangue riposava già sopita dentro di voi – gli disse, poggiandogli una mano sul petto, sentendo la sua energia vitale.
- Non è sete di sangue.
È amore.
Fame d’amore, che mi è stato strappato via.
Un amore che mi sta conducendo alla follia.
 
 
Judith sedeva sull’erba fresca, bagnata dalla brezza serale, nel bosco.
Era l’esatto punto nel bosco, in cui erano avvenuti i famosi festeggiamenti, mesi prima.
Tornando lì, forse, le sarebbe tornato alla mente qualcosa.
Era la bugia che si raccontava, per giustificare la sua presenza lì, ma sapeva che, in realtà, aveva deciso di raggiungere il bosco solo per trovare un po’ di pace, per allontanarsi dalla cattedrale.
I monaci avevano finalmente concordato di lasciarla libera per metà giornata, eppure, si sentiva ancora prigioniera là dentro.
I gemelli scalciavano da tutto il giorno, ininterrottamente.
Volevano uscire fuori di lì.
Judith li capiva. Non doveva essere facile trascorrere nove mesi dentro quella prigione di liquidi corporei, ancorati e incastrati ad altri due piccoli esseri umani.
Chiuse gli occhi e accarezzò la superficie della sua pancia, ascoltando il vento che faceva frusciare i rami degli alberi intorno a lei.
Per la prima volta dopo giorni, non si sentiva in colpa.
Si sentiva in pace, cullata da una serenità assopente.
L’unica cosa che le mancava, in quella meraviglia di sensi, era Blake.
Il pensiero di lui, ancora adirato con lei per ciò che aveva fatto, era l’unico elemento in grado di turbarla e agitarla, in un momento come quello.
Per tale ragione avrebbe dovuto estraniarsi da quel pensiero.
Ma poi… il rumore di passi lenti, dietro di lei, attirò la sua attenzione.
La suola di un paio di scarpe che schiacciavano le foglie e l’erba produceva sempre lo stesso rumore, chiunque lo avesse emesso.
Ma Judith lo riconobbe subito.
D’altronde, sua nonna, da bambina, le ripeteva sempre: “Se pensi al Diavolo, te lo ritroverai dietro lo spalle”.
I passi cessarono. Poi ripresero, girandole intorno, e prendendo posto dinnanzi a lei.
Judith riaprì gli occhi e si ritrovò il ragazzo che occupava i suoi pensieri accovacciato di fronte a lei.
- Richiudili – le sussurrò lui, la prima parola pronunciata dopo giorni di silenzio. – Richiudi gli occhi.
- Perché dovrei?
Blake assunse lo sguardo di un padre paziente e arrendevole, nei confronti di un bambino che non voleva ascoltare. – Chiudili – insistette.
- No. Voglio guardarti.
- Smielata.
Judith accennò un piccolo sorriso in risposta, prendendo la mano del ragazzo e portandosela sopra la pancia, senza dire nulla.
La mano di Blake era attraversata da lunghe ferite, in via di rimarginazione, che sarebbero presto diventate molteplici sottili cicatrici longilinee. Tante piccole radici, o tanti piccoli fiumiciattoli rossi, che si ramificavano ovunque riuscissero ad arrivare, solcando quella mano magra ma non scheletrica, piena di spigoli, affusolata e ben proporzionata, pigmentata di un colore chiaro e caldo. Tracciavano percorsi irregolari, come a voler indicare una via nascosta.
Per quanto fosse tetro il pensiero, quelle ferite erano belle e ipnotiche da guardare, su una mano tanto raffinata.
- Ascolta – lo incoraggiò Judith, distogliendo lo sguardo dalla mano di lui e tornando alla realtà. - Ascoltali, Blake. Riesci a sentirli?
- Sì. Si muovono.
- Cosa provi per loro?
- Perché vuoi sapere cosa provi io?
- Perché quello che provi tu mi è sempre importato. Da molto prima di quanto immagini.
- Non so cosa provare per loro. Non sono miei.
- Ma se lo fossero? Se fossero tuoi, cosa proveresti per loro? Fingi che lo siano e dimmi cosa provi.
- Potrei amarli anche con la piena consapevolezza che non sono miei. Così come potrei odiarli, anche se fossero miei. Il sangue non è mai stato rilevante, per me.
- Allora perché non sai cosa provare per loro?
- Perché tu non li vuoi, ecco perché – le rispose sinceramente, vedendola sussultare.
- E sei io… li volessi?
- Allora imparerei ad amarli.
- Ho passato gli ultimi mesi a sognare… a sognare che fossero tuoi. Per amarli come dovrei. E quando li immagino tuoi li amo. Ma poi torno alla realtà e…
- Loro non hanno colpe per quello che è successo, Judith.
Non hanno spinto loro Naren a violentarti.
Non hanno mai avuto potere di scelta.
- Ma il solo pensarli accostati a lui… mi dà ribrezzo.
- Non devi pensarli accostati a lui.
Lui ha fornito solo il suo seme.
Sono delle entità a parte, i tuoi figli. Entità a parte rispetto a te e rispetto a lui.
- Allora cosa dovrei fare?
- Prova ad amarli, se puoi.
Oramai non puoi più ucciderli senza sentirti un’assassina, è passato troppo tempo.
Se non riuscirai ad amarli… loro andranno per la loro strada e tu per la tua – le rispose semplicemente, facendo vagare il palmo sul pancione. – Hai già pensato a dei nomi?
- No.
- Imogene è riuscita a vedere se saranno maschi o femmine?
- Un maschio e due femmine.
Un pizzico di sorpresa si dipinse sul volto di Blake, il quale prese a pensarvi su.
- Maren è un bel nome – si lasciò sfuggire il ragazzo, facendo sorridere Judith, di un sorriso genuinamente emozionato.
- Maren… – lo assaporò anche lei tra le labbra. – Hai ragione. Direi che una è fatta. Avrà un nome solo una di loro – scherzò su, facendo sorridere lievemente anche Blake.
- Ora chiudi gli occhi.
Stavolta la fanciulla obbedì.
Blake accostò il viso al suo e la osservò da vicino, ancora in conflitto con se stesso:
- Ti amo.
E se penso che potrebbe rimanerci poco tempo da vivere insieme, qualsiasi offesa, qualsiasi torto arrecato, svanisce.
Non ti ho perdonata, non ancora. Ma lo farò, col tempo.
Intanto, ti voglio accanto a me.
Tali parole portarono Judith alle lacrime, mentre si beava del fiato caldo del ragazzo sul viso, del suo profumo, e della sua mano che le carezzava i capelli.
Alzò una mano a sua volta, un gesto che ancora non aveva fatto, e la portò sulla guancia di lui, riaprendo gli occhi colmi di lacrime.
Non riuscendo ad attendere oltre, si gettò sulle sue labbra, bisognosa.
Le divorò come se fosse l’ultima volta che lo facesse, sapendo bene, tuttavia, che se ne sarebbe saziata anche in futuro, molte, troppe volte.
Ma non bastava mai.
Mentre lo baciava famelica, gli infilò una mano fredda sotto i vestiti e la poggiò sul suo ventre piatto.
- Immagina che sia tu ad averli… - gli sussurrò ansimante. – Solo per questa notte, portali tu per me, dentro di te.
 
 
 
 

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Capitolo 62
*** Verità ***


Verità
 
 
La ragazza si ritrovò in una distesa deserta, plumbea e nebbiosa.
Camminò in avanti, sentendosi leggera come il vento.
D’un tratto, si ritrovò a fianco ad un uomo.
Lo guardò intimorita, ma al contempo, stranamente rilassata.
Era certa che egli fosse il Diavolo. Lucifero in persona.
E non ne era certa solo perché fosse l’uomo più bello che avesse mai visto.
Ne era certa perché, accanto a lui, sembrava di essere il nulla.
Lui guardava avanti a sé, senza prestarle attenzione.
Fu così che Hinedia parlò per prima:
- È vero che avete combattuto per me? Voi e il Creatore? Per avere la mia anima? – gli porse la domanda che avrebbe sempre voluto porgergli, toccandosi istintivamente il tremendo sfogo che ornava i propri polsi.
- Così ti hanno detto e così vuoi convincerti che sia.
Perché vuoi essere anche mia, se ti hanno sempre detto che non lo sei, figlia del Creatore?
Hinedia impietrì, non sapendo cosa rispondere.
Guardò il suo profilo, come se questo potesse rivelarle la giusta risposta.
- È perché vuoi essere bella?
- No. Non ho mai desiderato ardentemente la bellezza fisica – disse il vero.
- È perché vuoi unirti ad un uomo che desideri, ma che non puoi avere?
Hinedia ammutolì, senza rispondere.
Solo dopo diversi minuti, riuscì a parlare di nuovo:
- Neanche per quello…
- Allora non hai ragione di volerlo.
- Non potrei voler semplicemente servire Voi, senza doppi fini?
Il Diavolo, dopo infiniti istanti, si voltò a guardarla, accecandola con i suoi occhi troppo chiari e vuoti.
- Se servirai anche me… nessuno ti punirà.
- Sarei considerata un’eretica.
- Tu ti considereresti tale?
- No. Sarebbero gli altri a ritenermi tale.
- E perché ciò che pensano gli altri è così importante?
Invece di rispondergli, Hinedia gli porse un’altra domanda: - E se servirò anche Voi… quando morirò, la mia anima sarà Sua o Vostra?
Quella domanda si disperse in aria, in quanto l’attenzione dei due venne attirata da un uomo ignaro, come incosciente, che vagava per la strada deserta, poco lontano da loro.
Se si fosse voltato, avrebbe potuto vederli. Avrebbe potuto vedere il Diavolo.
Ma l’uomo continuò a proseguire e ad incespicare sui propri passi, sotto lo sguardo attento di Lucifero.
Ad un tratto, l’uomo venne attratto da una pietra. Una roccia strana, molto diversa da tutte le altre.
Una roccia luminosa. L’uomo si avvicinò ad essa.
- Che cos’è? – domandò Hinedia al Diavolo. – Cos’è quella strana roccia?
- Un frammento di verità – le rispose Lui.
- Ma… Voi siete il Diavolo, non dovreste permettere che un uomo comune, magari con cattive intenzioni, scopra qualcosa di tanto prezioso e di valore! – esclamò lei, continuando a fissare l’uomo, il quale era intento ad alzare la roccia, per osservare cosa si celasse sotto di essa.
Egli sgranò gli occhi, cadendo in ginocchio, dinnanzi a ciò che vi trovò.
- Lascia che lo scopra – le rispose con semplicità il Diavolo. – Lascia che lo scopra e che ne faccia una religione.
- Dunque… la verità che noi crediamo di conoscere non è mai la verità assoluta, bensì sempre e solo una porzione di verità, qualcosa che non è mai del tutto vero e giusto…? È questo che state cercando di dirmi, Mio Signore?
Lucifero sorrise, continuando a guardare l’uomo a distanza. – Finché tutti quei pezzi non saranno uniti insieme, formando un universo intero di opinioni e credenze differenti… non vi sarà mai la verità.
Hinedia aveva capito la lezione, ma al contempo non riusciva a darsi pace. Averlo lì le permetteva di porgli tutte le domande che le tormentavano la testa da tempo immemore.
- Come posso fare per scontare il mio peccato imperdonabile?
Ho versato sangue umano, sangue di un Vostro servitore, nella Vostra terra. La terra dove riposate.
Come posso rimediare? Come posso salvare la mia anima dalla dannazione?
Devo versare il mio sangue, per ripagare tale sacrilegio compiuto, non è vero?
Ditemi di sì, e tagliarmi la gola sopra la galleria sarà la prima cosa che farò non appena mi sveglierò da questo sogno.
- Sangue versato in cambio di altro sangue.
Non è così che funziona.
Il sangue versato sulla terra che mi appartiene mi è gradito. Hai strappato la vita ad un’anima che è tornata a me, poiché mia è sempre stata. Non mi hai arrecato nessun sacrilegio.
Anzi, ora, io sono in debito con te.
- In debito…? Che cosa intendete?
- Hai versato sangue sacro sulla mia terra – ripeté il Demonio, granitico. – Ed ora, puoi chiedermi ciò che vuoi, ed io lo esaudirò. Pensa bene a ciò che desideri, figlia del Creatore.
Pensa bene.
- Il male che risiede in me…
Il demone, la mia gemella demoniaca, che sta infettando la mia anima… come posso sconfiggerla? Vi prego, rivelatemelo.
- Non c’è nulla di demoniaco in te, Hinedia – le rispose lui, confondendola sempre più.
Il Diavolo si voltò a guardarla una seconda volta. – Non c’è nulla che ha origine da me, in te. La tua gemella è la tua anima. Non puoi uccidere la tua stessa anima.
Hinedia si svegliò di soprassalto da quello strano sogno.
Ansimò, tutta sudata, avvolta dal lenzuolo leggero.
Si calmò gradualmente e posò lo sguardo sullo splendido vestito da sposa appeso allo specchio, illuminato dalla luce che filtrava dalla finestra.
Era arrivato il giorno.
Il giorno che avrebbe dovuto essere il più importante della sua vita.
Quel giorno, si sarebbe unita in matrimonio a Van Naren.
 
 
Heloisa pregava dinnanzi alla cripta dissotterrata, la cripta in cui erano incisi tutti gli scritti di Dominic e dei suoi sfortunati compagni di prigionia.
Pregava, inginocchiata, benedicendo le loro anime, e quelle dei suoi figli.
Improvvisamente, una presenza che riuscì a riconoscere persino a distanza, le si accostò.
Era come se vi fosse un filo spinato che le teneva unite.
Era stato così fin da quando si erano conosciute, fin da quando quella ragazzina le aveva tirato fuori dal grembo Blake, benedicendolo al posto dei monaci, portando sventura nella loro famiglia.
Un filo spinato che lei stessa aveva provato a recidere anni prima, pensando di aver avuto successo.
E invece, quel filo si era rivelato più resistente di quanto credesse.
Aveva sperato che morisse. Si era ritrovata a sognare, quasi ogni notte, che quella donna che l’aveva fatta partorire e che aveva salvato lei e suo figlio da morte certa quella sera, morisse nel peggiore dei modi.
Lo desiderava perché era sempre stata convinta, e lo era ancora, che lei le avesse tolto tutto.
Le aveva tolto l’adorazione di suo marito.
Le aveva tolto l’amore di suo figlio.
Era riuscita a toglierle persino la dedizione di sua cugina.
“Fate la pace” l’aveva supplicata Imogene, sulla lettera che le aveva lasciato prima di sparire.
Ed Heloisa si era ritrovata più volte a chiedersi se fosse davvero stata capace di mettere da parte tutto l’odio che nutriva per quella donna, per amore di Imogene.
Myriam le si inginocchiò accanto, osservando le migliaia di iscrizioni incise su quelle pareti.
Sembrava tranquilla. Non sembrava emanare un’aurea negativa o astiosa.
Forse si era arresa al volere di Imogene.
Oppure era semplicemente stanca… come lo era lei, pensò Heloisa. Stanca di lottare, stanca di arrabbiarsi, stanca di non dormire più.
- Perché è così importante per te questo sepolcro? – esordì Myriam, facendole riascoltare la sua voce androgina per la prima volta, dopo anni. – Mi è stato detto che trascorri quasi intere giornate qui. Solo in questa cripta.
- Qui riposa uno dei bambini della terza generazione dopo Allister Chaim.
Colui che ha ucciso tutti i suoi compagni, pur di salvarli dal supplizio che erano costretti a vivere dalla nascita – spiegò Heloisa, con calma, senza voltarsi a guardarla. – Il suo nome era Dominic.
- Dominic, il dio sanguinario – lo soprannominò Myriam, senza ombra di scherno nella voce, bensì più seria di quanto lo fosse mai stata. – Non sono diventati déi, per noi, tutti coloro che hanno perso la vita dentro queste cripte? Dimenticati dalla storia, rinnegati e seppelliti insieme ai peccati commessi dai loro carnefici.
- Tutti i martiri diventano santi o déi. Quindi, suppongo tu abbia ragione – rispose Heloisa.
- Trascorri tutti i giorni a pregare un dio sanguinario, dunque.
Il più coraggioso, e al contempo il più spietato di tutti, a causa del dolore che ha patito.
Non hai timore di lui?
- Lo vedo come un figlio – rispose Heloisa. – Come potrei avere paura di un figlio?
- Non hai mai avuto paura di Blake?
Un brivido di freddo le scosse la schiena al solo udire il nome di suo figlio pronunciato dalle labbra di quella donna.
La verità era che aveva sempre avuto paura per Blake, ma non aveva mai avuto paura di lui.
Temeva che la sua condotta lo avrebbe portato alla dannazione.
- So che hai sempre pensato che io non fossi una buona madre – le disse, giungendo al succo del discorso, senza scomporsi. – Ed è proprio da qui che nasce la radice del mio odio. Nonostante tu mi abbia salvato la vita, e abbia salvato la sua, la notte del mio parto, io non potevo fare a meno di odiarti, e sai il perché. Mi è sempre stato detto cosa dovevo fare. Sono sempre stata definita una buona a nulla da mia madre, la quale ha sempre misurato il mio valore in base alla mia obbedienza e devozione al Diavolo. L’unica cosa che ho sempre avuto la libertà, il potere e il diritto di poter fare… l’unica cosa che mi sono conquistata… è stato essere madre. Quello era il mio regno, il mio territorio. Me lo ero conquistato con fatica, me lo ero guadagnato, ed era mio, solo mio, nessuno poteva dettarmi legge lì.
Poi sei arrivata tu e hai rovinato tutto. Mi hai portato via prima Blake, poi Rolland.
Tu pensavi che io non amassi abbastanza mio figlio… soltanto perché non comprendevi il mio atteggiamento.
Ma sappi che, tutto ciò che ho fatto sino ad ora… è stato solo e solamente per cercare di proteggerlo. Compreso l’allontanarlo da te.
Se poi ho errato, in quello che ho fatto, me ne assumo le mie colpe.
- Ammetti di aver errato? – le domandò Myriam, senza alcun tono d’accusa nella voce, bensì serena e paziente.
- Tu volevi un bambino tuo, ma quel bambino era mio, Myriam.
Puoi biasimare la mia gelosia nei confronti di ciò che è mio?
Sì, lo ammetto. So che hai protetto Blake, più volte, negli ultimi mesi, in mia assenza.
L’hai salvato, di nuovo, quando nessuno avrebbe potuto salvarlo.
Se non fossi una buona madre… non ti riconoscerei neanche questo.
Invece, sono disposta ad ammettere di aver sbagliato, dal momento in cui riconosco che tu sei stata solo un bene per mio figlio.
Eppure, lascia che ti ponga una domanda: se vegli sempre su di lui, per quale motivo quel giorno di tre settimane fa, quando è rimasto bloccato dentro la galleria e ha rischiato di morire là sotto, tu non sei andata in suo soccorso?
Myriam abbassò lo sguardo a terra. – Quel giorno è stato anche il giorno dell’esecuzione di Beitris. Il mio potere, così come quello di Ephram, era tutto concentrato su di lei, per infonderle la nostra forza e il nostro coraggio a distanza. Per questo non ho sentito il grido d’aiuto di Blake… è stata la prima volta. Ma, in ogni caso, anche se lo avessi udito, non avrei potuto fare nulla per lui: per quanto possa essere potente, in quanto strega, non posso nulla contro il Diavolo. È da lui che traiamo la nostra forza. Non possiamo andare contro di lui. Neanche volendo. La galleria è intoccabile e innominabile, per noi.
- Cosa vuoi dire…? È stato il nostro Signore stesso ad imprigionarlo là sotto? – tale quesito di Heloisa rimase irrisolto.
- È a dir poco un miracolo che Blake sia riuscito ad uscire fuori di lì, da solo – disse sinceramente Myriam.
- Com’è strano il mondo.
Ora siamo qui a parlare pacificamente, come due vecchie amiche, mentre, fino a qualche giorno fa, non avrei esitato nello strangolarti nel più doloroso dei modi non appena ti avessi rivista.
Inoltre… fino a qualche mese fa, ero la donna più devota di Bliaint.
Ora, invece… mi sembra di non credere più in niente. In niente che non siano gli spiriti di questi bambini sciagurati – ammise Heloisa.
- Anche a te Imogene ha chiesto di appianare i nostri conflitti e di instaurare la pace? – le domandò la strega.
Heloisa accennò un sorriso in risposta, abbassando il viso a sua volta. – Mia cugina è sempre stata un’inguaribile ottimista.
- Un’inguaribile ottimista che ci ha lasciate sole, creando un vuoto incolmabile.
- Già.
Myriam fu la prima ad alzarsi in piedi. Guardò la vecchia nemica e rivale dall’alto, e le porse la mano, in segno di pace.
Heloisa osservò la sua mano per un po’, dal basso, poi la afferrò e si tirò in piedi a sua volta.
Era sempre stata più alta di lei, più alta e più formosa, eppure con lo sguardo di un cerbiatto impaurito.
Myriam, dal canto suo invece, era sempre stata più bassa, minuta e senza forme, eppure il suo sguardo emanava una possenza e una sicurezza da intimorire chiunque.
Le loro mani, dalla carnagione molto diversa, erano ancora strette tra loro, i loro occhi incollati l’una all’altra. – Hai fatto pace con tuo figlio, Heloisa? – le domandò sorprendentemente Myriam.
- No, non ancora. Dopo aver lasciato questa cripta, andrò da lui, mi scuserò e gli dirò che lo amo.
- Bene – le rispose Myriam, rivolgendole un sorriso sorpreso in risposta. – Peccato tu non lo abbia fatto prima…
- Che cosa intendi..?
Heloisa non ebbe il tempo di dire altro, che la strega la pugnalò a tradimento, infilandole una daga dritta nell’addome, con violenza inaudita.
La terra della cripta si ricoprì di fiotti di sangue denso.
Myriam la sorresse a sé, mentre vedeva il suo sguardo passare dall’addolorato, al costernato, al senza vita, nel giro di pochi secondi. Le accarezzò gli splendidi ricci scuri, macchiati di sangue a loro volta. - Così bella e così ingenua, Heloisa… avresti dovuto temere il tuo amato Dominic, invece. Perché è a lui che stiamo donando il tuo sangue – concluse estraendo con veemenza la lama e lasciando ricadere il corpo rantolante a terra, guardandolo morire lentamente.
Ephram le si affiancò, sbucando da sopra.
- Hai guardato tutta la scena? – gli domandò Myriam.
- Facciamo presto – la spronò lui, incurante del corpo, passando subito al pratico. – Porta via il corpo e seppelliscilo dove nessuno potrà mai trovarlo.
- È appena l’alba: nessuno giungerà in questa cripta così presto per pregare.
- Non importa, portalo via ora, è sempre meglio non rischiare.
- Credi che il suo sangue basterà per farci ascoltare da lui? – gli domandò la strega, coprendo il corpo morto della donna con un telo di iuta, sprezzante, disgustata.
- Hai sentito anche tu, no? Dominic ha ucciso tutti i suoi compagni per salvarli dalla degradante prigionia: lui è un diventato un dio sanguinario, dunque è il sangue che vuole. Il sangue che gli abbiamo donato, qui, in questa cripta che è la sua casa e il suo tempio, servirà a farci ascoltare da lui - stabilì, convinto.
- Spero vivamente tu abbia ragione.
Spero tu non ti stia rivolgendo solamente al fantasma di un bambino ferito… – disse lei. – Blake la cercherà – aggiunse amaramente.
- Blake ha sin troppe cosa a cui pensare ora come ora.
Cercare sua madre sarà la sua ultima preoccupazione.
- Ma la cercherà comunque, lo sai.
- La cercherà e non la troverà, d’accordo?
Per questo faresti meglio ad affrettarti a seppellirla lontano da qui.
Myriam obbedì e portò il cadavere via con sé, furtivamente.
Fortunatamente, le strade erano ancora deserte, e il cielo ancora quasi buio.
Ephram si inginocchiò sul sangue di Heloisa, sporcandosi le vesti e alzando il volto al cielo:
- Ho già pregato il mio Signore.
Ma ora rivolgo le mie preghiere a Te, Dio Sanguinario.
Qui hai ucciso i tuoi fratelli e sorelle, e qui ti sei tolto la vita.
Qui hai compiuto il gesto che ha permesso alle persone che amavi di raggiungere la libertà, Dominic.
Dunque ora ascoltami, ascolta le parole di un uomo che ti rende omaggio e ti invoca: ho versato questo sangue per te come sacrificio.
Ho bisogno che tu, tu e i tuoi compagni, malediciate questa Terra.
La malediciate, contro tutti gli invasori stranieri che vi metteranno piede.
Da qui, fino all’eternità.
Ascolta le mie parole, Dominic!
Ascoltate le mie parole, Bambini Sciagurati!
Questa è anche la vostra terra!
Una terra che vi ha masticati e poi vi ha sputati e rigettati.
Eppure, è pur sempre la terra che vi ha messo al mondo.
Se non volete proteggerci… allora maledite anche noi abitanti di Bliaint!
Malediteci tutti, ma vi imploro, maleditela anche contro i nostri invasori, in modo che nessuno di noi soffra mai a causa loro!
Accetta questo sangue come dono, Dominic, e ascolta, ascolta le mie parole.
 
 
Il matrimonio di Hinedia e di Naren non era stato inclusivo solo nei confronti di Blake e Judith, in quanto loro non erano gli unici servi del Diavolo presenti, in mezzo a decine e decine di servi del Creatore.
I due sposi avevano fatto qualcosa che non si era mai visto prima d’ora a Bliaint: essendo tutti i bambini degli otto peccati capitali molto legati ad Hinedia, la ragazza aveva deciso di invitare al proprio matrimonio anche tutte le loro famiglie per intero.
Ciò voleva dire che vi erano decine e decine di servi del Diavolo presenti ad un matrimonio di servi del Creatore: padri e madri, sorelle e fratelli dei bambini con i/le loro rispettivi/e consorti, e poi i bambini stessi.
Naren non era del tutto d’accordo con quella pericolosa scelta, così come non lo erano i genitori di Naren stesso, né quelli di Hinedia, ma la ragazza non aveva voluto sentir ragioni, era stata categorica: le famiglie dei bambini erano tutte invitate, così come chiunque altro servo del Diavolo avesse voluto partecipare ai festeggiamenti.
I festeggiamenti dei matrimoni dei servi del Creatore non avevano nulla di particolare, in ogni caso.
Non erano esuberanti, stravaganti e occulti come quelli dei servi del Diavolo.
Una volta celebrata la cerimonia dentro la cattedrale del Creatore (a cui i servi del Diavolo non potevano prendere parte), tutti gli invitati di entrambi i culti si erano diretti verso il bosco, avevano acceso un focolare e avevano iniziato a consumare montagne di cibo, e vino in quantità ridotta, in completa tranquillità. Sempre se tranquillità si poteva chiamare gli sguardi torvi e diffidenti che si lanciavano servi del Creatore e servi del Diavolo tra loro.
I servi del Creatore ce l’avevano con loro per non aver rifiutato l’invito al matrimonio, mentre i servi del Diavolo si stavano risentendo per il fatto di venir trattati come degli intrusi, ad un matrimonio a cui erano stati invitati dalla sposa stessa.
Hinedia sembrava non curarsi di tale atmosfera tesa, essendo decisa a divertirsi e a non pensare a nulla, almeno per un giorno, almeno il giorno del proprio matrimonio.
Il suo vestito era stupendo, e tutti le avevano fatto i complimenti per l’eleganza, nonostante alcuni membri del suo stesso culto le avevano rimproverato di aver “azzardato” troppo in vanità, con quell’abito.
Lei aveva risposto loro che, se aveva azzardato lei in vanità, allora doveva aver azzardato a sua volta anche sua madre, dato che il vestito era il suo; dunque, se rivolgevano quell’accusa a lei, la stavano rivolgendo automaticamente anche a sua madre. Dopo averli zittiti tutti con raffinatezza, era tornata a ballare sotto le note della lira suonata da sua cugina, che era sempre stata una brava musicista sin da bambina.
Anche Blake e Judith stavano provando a non far caso alle occhiatacce che lanciavano loro più o meno tutti i servi del Creatore presenti; ma, soprattutto, ad ignorare lo sguardo fisso di Naren puntato su di loro. 
Ioan e tutti gli altri bambini degli otto peccati, invece, ballavano, giocavano e ridevano come non ci fosse un domani, incuranti di qualsiasi cosa:
Ioan trascinava sempre Gwen a ballare intorno al fuoco, e May si univa spesso a loro.
Poi c’era Kilian, che cercava di far smettere Edith di mangiare in continuazione, e poi veniva trascinato a ballare a sua volta da Jogger. E ancora, c’erano Sorie e Dionne, che ridevano a crepapelle e facevano scherzi innocenti a tutti gli altri.
Loro sembravano gli unici immuni a quel clima di inimicizia.
Un’inimicizia dettata dal fatto che nessuno poteva cambiare le tradizioni sacre, nemmeno la sposa stessa: servi del Creatore e servi del Diavolo non potevano mischiarsi in tali festeggiamenti, o partecipare alle celebrazioni dei rispettivi matrimoni.
In un contesto diverso, sicuramente avrebbero interagito pacificamente tra loro, ma non in quel caso.
Hinedia non ne sembrava del tutto consapevole, ma Naren sì.
Padre Craig e Quaglia erano altri due invitati che sembravano completamente incuranti del clima che si respirava a quei festeggiamenti, e che si divertivano genuinamente con Hinedia e con i bambini.
Judith sperava in cuor suo che, arrivata la data del matrimonio di Hinedia, avesse già partorito.
E invece no, il Diavolo aveva deciso di burlarsi di nuovo di lei, e di punirla con una gravidanza puntuale e regolare.
Se avesse partorito prima sarebbe stata prematura, certo, tuttavia, almeno, avrebbe potuto godersi il matrimonio della sua più cara amica in serenità e tranquillità, senza avere male alle caviglie, senza i continui dolori al pancione e il mal di testa.
Era un giorno importante anche per lei, nonostante non approvasse minimamente quel matrimonio, e conoscesse anche i motivi distorti per cui l’amica avesse deciso di celebrarlo.
Dunque, era una tortura, essere al nono mese di gravidanza, e festeggiare in mezzo alle persone.
Dopo essersi saziata, e dopo l’ennesimo ballo con May, Kilian e Quaglia, Hinedia si staccò da loro, ancora con il sorriso ad ornarle le labbra, e il fiatone a toglierle il respiro.
Individuò Blake a distanza, il quale si stava versando da bere.
Judith, intanto, si stava intrattenendo in una conversazione con padre Craig e la sorella di Gwen, poco distante.
Decise di raggiungerlo, dato che era parecchio tempo che non avevano occasione di parlare insieme.
Si resse l’orlo del lungo abito con le mani e camminò sull’erba, verso di lui, ancora con il sottofondo musicale della lira e dei tamburi.
- Ehi – attirò la sua attenzione, sbucando alle spalle del ragazzo.
Egli si voltò verso di lei e le sorrise. – Non sono ancora riuscito a farti le mie congratulazioni, oggi sei giustamente circondata da chiunque: ti faccio i miei migliori auguri per queste nozze, Hinedia.
La ragazza ricambiò il sorriso e abbassò lo sguardo per un attimo, non riuscendo a farne a meno, in quanto era un’abitudine che aveva sempre avuto con lui, e che non era mai riuscita del tutto a togliersi, pur essendo migliorata molto. – Ti ringrazio molto. Come mai sei qui da solo?
- Ho parlato con decine di persone nel giro di poche ore, avevo bisogno di distaccarmi un attimo dalla folla – ammise lui, sorseggiando dal suo bicchiere. – È stata una scelta coraggiosa, quella di invitare anche noi, e tutte le famiglie dei bambini degli otto peccati, al tuo matrimonio.
- Credi sia stato un gesto troppo avventato? – domandò lei, guardando preoccupata gli sguardi poco rassicuranti che si rivolgevano alcuni gruppi di servi del Creatore, con altri di servi del Diavolo.
- Credo che ti renda onore – le disse lui. – Non si possono cambiare le cose in un giorno. Però, tu li hai portati a fare un gran bel passo avanti – aggiunse.
- Oggi mi lusinghi. Non esagerare o potrei farci l’abitudine – scherzò lei.
- E non ho ancora finito: stai molto bene con questo vestito.
- Anche tu stai molto bene – rispose Hinedia, non riuscendo a frenare la lingua, e non volendo neanche farlo. Blake, in abiti eleganti e da cerimonia, era una visione celestiale: la tunica a collo alto e in stile corsetto che indossava, gli calzava a pennello, come se gli fosse stata cucita addosso, mettendogli in evidenza tutte le forme da capogiro, specialmente la sinuosità dell’addome lungo e stretto; la stoffa era di un bel colore nero caldo, e le rifiniture sopra di esso, di un verde acquamarina, gli donavano molto colore e dinamicità; i pantaloni erano della stessa tipologia, neri, con le rifiniture verdi-azzurre, ma non eccessivamente stretti.
Judith, poco lontano da loro, non era da meno: nonostante il pancione ingombrante, la fanciulla indossava un vestito di seta rosso scarlatto e lucido, che su di lei era a dir poco un incanto, e che si abbinava alla sua cascata di capelli folti e acconciati meravigliosamente con fiori rossi, petali e nastrini. I suoi splendidi seni, sodi, alti e corposi, erano stretti dal tessuto morbido, che li accarezzava in maniera raffinata e non volgare.
- Grazie – gli rispose lui, poi volgendo lo sguardo ai bambini che ballavano intorno al fuoco. Sorrise.
- Presto sarò io a partecipare al tuo matrimonio con Judith – disse lei, riattirando la sua attenzione.
- Sì – rispose il ragazzo, rabbuiandosi lievemente.
- Che c’è? Qualcosa ti preoccupa?
- La situazione in cui ci troviamo non è delle migliori, lo sai anche tu. Immagino che Quaglia ti avrà raccontato.
- Sì, ma… sono fiduciosa che le cose andranno bene.
I nostri due Signori ci aiuteranno.
- Vorrei possedere il tuo ottimismo e la tua fiducia – disse lui, disilluso. – Ma non voglio annoiarti il giorno del tuo matrimonio. È il tuo giorno: va’ e divertiti, ci sono almeno sette persone che stanno aspettando che tu smetta di parlare con me, per avvicinartisi.
- Lascia che aspettino – rispose lei. – Blake, posso farti una domanda? Una domanda che mi preme da settimane?
- Certo.
- Prometti che risponderai sinceramente? D’altronde, è il mio giorno, lo hai detto tu stesso: risponderai a tutto quello che ti chiederò?
- Così sei sleale – commentò lui, sorseggiando un altro sorso, e accennando un sorriso cedevole. - D’accordo. Chiedimi tutto quello che vuoi, novella sposa.
- Cosa è accaduto là sotto, il giorno in cui sei rimasto rinchiuso sotto la galleria?
Blake sgranò gli occhi per un attimo.
Hinedia lo guardava in attesa, impaziente.
Il ragazzo sospirò.
- Mi hai dato la tua parola…
- Te lo dirò, te lo dirò, ma ti prego di non farne parola con nessuno. Non l’ho detto neanche a Judith.
- Te lo prometto.
- I miei antenati, proprietari della galleria e scavatori, hanno eretto un altare per idolatrare il Diavolo, nella parte più bassa mai raggiunta dagli scavi dell’uomo.
Era un luogo sepolto da anni, di cui nessuno sa l’esistenza al momento, tranne io.
Sono arrivato lì guidato da una Voce…
A quanto pare, il Diavolo mi voleva lì. Voleva imprigionarmi lì, per ottenere da me la mia anima.
- Non ti seguo…
- Il Diavolo sa che non credo in nulla, Hinedia.
Dalle parole della creatura che mi ha condotto là sotto… il Diavolo voleva un segno di devozione totale da parte mia. Voleva che mi inchinassi davanti all’altare d’oro, eretto dai miei avi, per consacrare la mia vita e la mia anima a lui. Io mi sono rifiutato… e ho dato fuoco all’altare.
Ho bruciato tutto. Non so come abbia fatto ad uscire vivo di lì, sinceramente. Se non ci fosse stato padre Craig, ad aspettarmi lì sopra, probabilmente sarei morto.
Non so quanti altri scavatori siano morti, intrappolati là sotto, corpo ed anima.
Probabilmente più di quanti vogliano farci credere.
Bonnie, sicuramente, è morta per volere del Diavolo, così come tutti gli altri.
La Galleria è un luogo maledetto.
- Ma tu hai sventato la maledizione, no?
- Non l’ho sventata, Hinedia, ho solo sfidato il Diavolo.
- Credi… credi che esista davvero? Credi che il Diavolo abiti davvero la parte più remota e profonda della galleria? – gli domandò Hinedia, deglutendo il groppo che aveva in gola, memore anche dello strano sogno che aveva fatto quella notte.
- Non lo so.
Non so più niente.
Ma non credo in lui e non voglio asservirmi a lui.
- Credi che il Diavolo voglia qualcos’altro da te?
Tale domanda non venne quasi udita dal ragazzo, in quanto vennero immediatamente interrotti dallo sposo.
Naren si infilò tra loro e avvolse le spalle della sua sposa con un braccio. – Di cosa parlate qui?
Hinedia cercò di celare il proprio disappunto, a causa di quell’interruzione. – Di sciocchezze, caro. Blake mi stava dicendo quanto gradisse il cibo e la musica della lira.
Naren, dal canto suo, osservò il ragazzo, facendo vagare gli occhi su tutto il suo corpo, un gesto che Hinedia non riuscì a decifrare: non comprese se lo stesse guardando con invidia malcelata, con ammirazione, o con qualcos’altro.
Poi abbassò gli occhi, spostando l’attenzione su altro, non incrociando mai gli occhi del ragazzo.
Blake assottigliò lo sguardo, accorgendosi che non fosse la prima volta che Naren si atteggiasse in tal modo dinnanzi a lui. Ma non gli diede peso.
I tre vennero raggiunti anche da Judith, da padre Craig e da Quaglia.
Quest’ultimo con il fiatone, dopo l’ennesimo ballo con i bambini.
- Gwen ed Edith sono due uragani quando ballano! Si sono persino strappate i vestiti! – esclamò sfinito, prendendo un bicchiere di vino a sua volta.
- Non sarai troppo vecchio per questi tipi di attività, amico mio? – lo prese in giro padre Craig, sorridendo.
- Non un’altra parola – sorrise a sua volta Quaglia, seguito da Judith, la quale si accostò a Blake, poggiandogli una mano sul ventre piatto fasciato dal pregiato tessuto.
- Ehi – gli disse, guardandolo dal basso con un sorriso appagato, mentre lui le avvolse la spalla con un braccio.
- Ehi – le rispose il ragazzo, ricambiando il sorriso, lasciandole un fugace bacio a fior di labbra.
Erano rimasti divisi solamente qualche minuto, ma quelle piccole effusioni erano un’abitudine tra loro, non solo quando dovevano salutarsi.
Quando i suoi occhi lasciarono il viso di Blake, la ragazza poggiò la testa sulla spalla di lui e posò lo sguardo su Hinedia e su Naren, davanti a loro. Si accorse che quest’ultimo li fissava quasi come volesse incenerirli con lo sguardo, e al contempo infilarsi lì in mezzo, per farli separare.
Provò solo disgusto verso di lui, e verso il modo in cui era avvinghiato ad Hinedia, quasi a rimarcarne il possesso, mentre la ragazza era chiaramente infastidita dal contatto con lui.
Non sarebbe stato affatto un matrimonio facile, il loro.
Perché lo hai fatto, Hinedia? Perché ti sei condannata in questo modo?
Dal canto suo, Blake si accorse che una donna sui quarant’anni, una serva del Creatore, probabilmente un’amica di famiglia di Hinedia o di Naren, li stesse fissando con costanza, mentre beveva vino.
Il suo sguardo era strano, inquietante: i suoi occhi erano lucidi e stralunati, i movimenti talvolta tremanti, talvolta scattanti. E non fissava solo loro così, bensì anche altri servi del Diavolo che chiacchieravano tra loro.
Judith cominciò a carezzargli distrattamente la pancia con movimenti circolari delle dita, e gli altri iniziarono a parlare, ma lui non se ne accorse neanche, troppo concentrato ad osservare il comportamento molesto di quella bizzarra donna.
- Cos’ha quella donna? – domandò improvvisamente, continuando a guardarla, interrompendo inconsapevolmente i loro discorsi.
Hinedia si volto verso di lei e alzò un sopracciglio, confusa a sua volta, mentre Naren quasi raggelò.
- Non saprei… potrebbe aver bevuto troppo? È una delle sorelle di tua madre, vero, Naren? Non dovresti andare da lei e controllare se sta bene? – propose la sposa.
Anche Judith, padre Craig e Quaglia spostarono lo sguardo su di lei.
Si resero conto che quella donna non fosse l’unica che lanciasse tali sguardi destabilizzanti e indecifrabili ai servi del Diavolo, quasi tutti inconsapevoli di essere oggetto di tali equivoche attenzioni.
- Avranno sicuramente bevuto troppo – liquidò la questione Quaglia, bevendo altro vino a sua volta.
Per distrarre l’attenzione da quel dettaglio disturbante, Judith prese la parola: - Allora, Quaglia, raccontaci ancora di tuo figlio. Non ci hai detto abbastanza di lui.
- Già! – le diede man forte Hinedia, curiosa. – Riesci a ricordare ogni singolo dettaglio di lui?
- Qualsiasi cosa! – confermò l’uomo, allegro. – Lo vedrete con i vostri occhi: ho fatto un suo ritratto negli ultimi giorni, per come lo ricordo.
- Dici davvero? Allora hai un ricordo ben nitido di lui, ne sono felice! – esclamò padre Craig.
Continuarono a parlare di Ruben, e a scherzare un po’, mentre Naren restò per lo più concentrato sul fermento che si stava agitando tra i servi del Creatore, il quale non era dovuto solo al fastidio che provavano per la presenza dei servi del Diavolo ai festeggiamenti.
Blake, a sua volta, non era sereno, ma cercò di non darlo a vedere, e di ascoltare le loro chiacchiere.
Judith, che aveva una mano poggiata sullo stomaco del ragazzo, e l’altra stretta al suo bacino, percepì quanto fosse teso sotto i vestiti, e alzò di nuovo lo sguardo su di lui.
- Tutto bene? – gli domandò in un sussurro, per non farsi sentire dagli altri.
- Sì – rispose lui, non riuscendo a convincerla.
- Vieni, allontaniamoci un po’ – lo incoraggiò lei prendendolo per mano, per poi rivolgersi agli altri: - Noi andiamo a prendere altro cibo, la gravidanza mi rende ingorda, lo sapete – si giustificò, trascinandolo con sé.
Avendo messo qualche metro di distanza tra loro e tutti gli altri, Judith si fermò e lo guardò, studiandolo. – Ti preoccupa l’atteggiamento di quella donna?
- Non è solo lei. C’è qualcosa che non va, Judith. Non so cosa sia.
- Si tratta del fatto che nessuno di noi servi del Diavolo è gradito qui?
- No, non è quello – le disse lui. – Ho una sensazione strana. Forse non saremmo dovuti venire qui.
- E perderci il matrimonio di una delle nostre più care amiche??
Blake, lo so, non è facile essere circondati da così tante persone bigotte, che non fanno altro che guardarci con sdegno, facendo finta che vada tutto bene, neanche per me è facile. Però dobbiamo resistere fino a fine giornata, poi torneremo a casa, faremo un bel bagno caldo per toglierci l’appiccicume del vino e del sudore, e ci addormenteremo abbracciati.
Blake le accennò un sorriso in risposta, guardandola lievemente allarmato nel momento in cui lei si poggiò una mano sul pancione e si lamentò, chiudendo gli occhi.
- Tu stai bene…? Hai bisogno di riposarti o di sederti?
- Apprezzo la tua apprensione ma no, sto bene – rispose, prendendo un bel respiro, mentre lui la reggeva per i fianchi, sostenendola. – Mi fanno solo male i piedi… me li taglierei, se potessi. Questi gemelli pesano più di un branco di montoni. Mi chiedo come farò a farli uscire di lì, grandi come sono.
Blake le lasciò un dolce bacio tra i capelli in risposta. – Se ti fanno male, ti farò un massaggio ai piedi quando torneremo a casa – le sussurrò, facendola rianimare subito.
- Dici davvero?? Un massaggio ai piedi è la cosa che più desidero al mondo in questo momento – gemette lei, sorridendo e aggrappandosi maggiormente al ragazzo che amava. – Mi sdebiterò, promesso…
- Non devi sdebitarti.
- Oh, ma io voglio sdebitarmi – gli sussurrò dritto nell’orecchio, alzandosi sulle punte.
Nonostante indossasse i suoi abituali tacchi, era ancora ben lontana dal raggiungere la sua altezza.
Blake sorrise di sottecchi, sentendo la tensione allentarsi un po’.
- Ti sei calmato un po’? – gli domandò la ragazza.
- Sì. Grazie – le rispose, lasciandosi baciare. – Però, massimo un’ora e andiamo via di qui. Torniamo a casa e ti faccio tutti i massaggi ai piedi che vuoi.
- Scherzi? Io volevo sgattaiolarmene via tra meno di un’ora.
E portarti via da tutti questi sguardi femminili inopportuni – rispose facendolo ridere, ridendo a sua volta, mentre tornavano insieme agli altri.
- Blake – lo bloccò lei tirandogli la mano, poco prima di raggiungere gli altri.
- Che c’è?
- Ti amo – gli disse all’improvviso. Glielo aveva già detto molte volte, ma, per qualche motivo, sentì l’esigenza di ribadirlo. – Non dimenticarlo mai.
Il ragazzo le sorrise in risposta, confuso. – Ti amo anch’io.
Dopo ciò, tornarono definitivamente tra gli altri.
Ma la situazione aveva preso una piega ancor più conturbante, nel poco tempo che erano stati lontani: i servi del Creatore sembravano stessero discutendo tra loro, Naren era sempre più agitato; mentre padre Craig, Quaglia e Hinedia non capivano cosa stesse accadendo.
Oramai anche i servi del Diavolo stessi si erano accorti che qualcosa non andasse, e si stavano domandando cosa stesse prendendo ai servi dell’altro culto.
Solo i bambini continuarono a ballare intorno al focolare.
- Che succede qui? – domandò Judith avvicinandosi ad Hinedia, prendendola sottobraccio.
- Non ne ho idea… - rispose la sposa.
La donna dell’inizio, colei che aveva dato inizio a quel gioco di sguardi, e che sembrava non riuscire più a tenersi dentro un segreto inconfessabile, si avvicinò a Naren, tremando e guardandolo con le lacrime agli occhi.
Lacrime di senso di colpa.
Era questo il sentimento che stavano provando la maggior parte dei servi del Creatore presenti a quel matrimonio…?
Senso di colpa?
E per cosa?  si domandò Judith.
- Ti prego, Miranda… - disse un altro servo del Creatore, la voce tremante a sua volta, avvicinandosi alla donna. – Non roviniamo questo bel matrimonio proprio ora… non c’è alcun bisogno di dirlo. Non c’è alcun bisogno che loro lo sappiano… - la supplicò, quasi con disperazione.
- Sapere cosa…? – domandò padre Craig, sempre più confuso.
- Jonah, ti rendi conto che la maggior parte dei servi del Diavolo che sono qui oggi, erano presenti quella notte, ai festeggiamenti di mesi fa…?!? – rispose ella stralunata, sempre più nervosa e decisa a parlare.
Naren stesso le strinse le spalle e la pregò di non dire nulla: – Zia Miranda, vi prego… è passato tanto tempo ormai… - il ragazzo singhiozzava quasi, e Hinedia e Judith erano sempre più sconvolte nel vederlo così.
- Io non riesco più a tenermelo dentro! È un peccato che mi tormenta giorno e notte! – esclamò lei, tappandosi la bocca, disperata, guardando tutti i servi del Diavolo presenti negli occhi, i quali la osservavano come fosse impazzita.
- Eravamo presenti anche noi servi del Creatore, quella notte, quando avete perduto la memoria tutti quanti, al festeggiamento di due dei membri del vostro culto… - confessò lei. – Parecchi di noi.
- Che state dicendo…? – cominciò a chiedere qualche servo del Diavolo.
- Quali festeggiamenti? Quale matrimonio?
- Lasciatemi parlare – riprese la donna. – Esattamente nove mesi fa.
A tali parole, Judith raggelò.
- Alla fine del vostro rito dello specchio – continuò la serva del Creatore. – Un servo del Creatore ha avuto l’idea di drogarvi tutti quanti, più di quanto già non foste, con delle erbe molto potenti.
Per questo non ricordate nulla.
Mentre noi servi del Creatore… ricordiamo tutto quanto.
Ci ha chiamati, proponendoci di unirci ai vostri festeggiamenti… in ogni caso, voi non vi sareste ricordati niente la mattina dopo, quindi non avremmo rischiato nulla.
Noi non eravamo mai stati ai vostri festeggiamenti, ed eravamo alquanto curiosi…
All’inizio era solo curiosità, lo giuro sul Creatore… giusto??? – domandò lei, rivolta verso tutti gli altri membri del suo stesso culto, i quali sarebbero voluti sprofondare sottoterra o scappare via dalla vergogna, mentre Miranda vuotava il sacco, confessando i loro peccati inconfessabili.
Gli unici tra i servi del Creatore che sembravano non capire cosa stesse succedendo, erano i genitori degli sposi, e i parenti più anziani.
I servi del Diavolo, dal loro canto, erano tutti a dir poco sconvolti, e confusi.
Alcuni di loro, temendo dove il discorso stesse giungendo, erano già pronti a tappare le orecchie ai loro bambini o a trascinarli via di lì.
- Non posso rimanere in silenzio…
Non dopo che tale peccato mi perseguita da nove mesi, ma soprattutto trovandomi davanti la maggior parte delle persone di cui abbiamo abusato quella notte!
Un silenzio spettrale invase la folla, in seguito a quell’affermazione.
Judith e padre Craig capirono che, quel giorno, avrebbero ricevuto finalmente le risposte che cercavano da nove mesi.
- Come dicevo… all’inizio era solo curiosità.
Volevamo vedere voi servi del Diavolo perdere la testa, copulare tra voi, divertirvi come a noi è sempre stato negato, privi di senno…
Poi, il tutto è degenerato.
- Naren, che significa…? – domandò Hinedia al succitato. – Erano presenti anche altri servi del Creatore oltre te, quella notte…?
La donna sembrò cercare con lo sguardo un viso in particolare, e quando lo trovò si avvicinò a lui, ponendoglisi davanti, con le lacrime agli occhi.
Il ragazzo in questione era il fratello di Dionne, un giovane di diciannove anni, da poco sposato, accanto alla sua consorte.
- Abbiamo pensato che foste abituati a tali tipi di abusi, dato che vi dilettavate anche in orge, talvolta – gli disse la donna, tremando di vergogna. – Abbiamo bevuto vino e abbiamo inspirato anche noi alcuni fumi annebbianti… abbiamo perso le inibizioni, ma eravamo tutti perfettamente lucidi, a differenza vostra.
- Cosa state cercando di dirmi? – le domandò il ragazzo, sempre più impaurito.
- Ho giaciuto con te, quella notte. Contro la tua volontà.
Ho il doppio della tua età, sono una serva del Creatore e non conosco nemmeno il tuo nome, ma hai attirato la mia attenzione e non ho resistito: mi sono infilata sotto di te, e ho … fatto ciò che volevo con te.
E come me… molti altri qui presenti.
Ammettete le vostre colpe, fratelli e sorelle! – li esortò Miranda, in lacrime. – Queste persone meritano di sapere la verità!
Il ragazzo era a dir poco sconvolto da tale rivelazione e a fatica riusciva a respirare.
Ora erano dinnanzi alla verità.
E la verità appariva addirittura peggiore di quanto si aspettassero.
Il terrore di scoprire di più, di scoprire da chi fossero stati abusati, invase tutti i servi del Diavolo presenti.
Perché ormai la domanda non verteva più sul se, bensì sul da chi.
Ed era tremendo.
Un concetto che i servi del Creatore, nella loro ristrettezza di pensiero, non erano mai riusciti a comprendere, era che prendere parte ad un’orgia consapevolmente e consensualmente, non corrispondeva al venire abusati o violentati.
Non era la stessa cosa.
E sembravano comprenderlo solo ora.
Probabilmente, la paura del rogo era stata la loro unica preoccupazione in quei nove mesi, e il pensiero di aver fatto del male a persone inconsapevoli e tutt’altro che consenzienti, non li aveva sfiorati nemmeno, fino a quel momento.
Quaglia ringraziò mentalmente tutti gli dèi in cui non credeva di essere l’unico (insieme ai bambini, agli anziani e a pochi altri) a non essere stato presente quella sera di nove mesi prima, a quei maledetti festeggiamenti.
La violenza sessuale era cosa da nulla forse, se pensata accostata ai servi del Diavolo.
Ma, in realtà, non era affatto cosa da nulla.
E tutti i servi del Creatore presenti, per lo più stupratori inconsapevoli, se ne stavano rendendo conto solo ora, guardando le facce sbiancate e mortuarie dei servi del Diavolo a cui avevano fatto del male.
Perché, benché fossero trascorsi nove mesi, e le ferite fisiche fossero oramai guarite, le ferite interne invece non sarebbero guarite.
Judith poteva essere l’unica a portare visibili sul proprio corpo gli effetti catastrofici degli abusi subìti quella notte, ma non era l’unica a soffrirne.
Hinedia preannunciava già una strage irrecuperabile in arrivo.
Il tutto, solo perché aveva invitato sia servi del Creatore che servi del Diavolo al suo matrimonio.
Ma era stato giusto così. Se quei luridi approfittatori avevano abusato dei servi del Diavolo… loro avevano tutto il diritto di saperlo. Dal primo all’ultimo.
La verità sarebbe fuoriuscita come lava ardente.
“La verità che noi crediamo di conoscere non è mai la verità assoluta, bensì sempre e solo una porzione di verità, qualcosa che non è mai del tutto vero e giusto”
- Se loro non hanno il coraggio di dirvelo, sarò io a farlo per loro! – esclamò Miranda, oramai portavoce della giustizia.
- Miranda, no! – esclamarono alcuni servi del Creatore, contrariati.
- Lui! – disse indicando un ragazzo, un servo del Creatore che si nascondeva dietro ad un albero. - Lui, il suo nome è Felix ed è mio genero: così potrete dare anche dei nomi a coloro che vi hanno usato per il proprio piacere personale, come oggetti inanimati. Lui ha stuprato quella fanciulla laggiù! – confessò per lui, puntando il dito su Mona, la quale inorridì. – E anche altre! Anche lei, lei, e lei laggiù! E persino un ragazzo, che al momento non vedo presente, tuttavia.
La folla di servi del Diavolo lanciò grida di sgomento e rabbia.
- Nessuno è scampato! – continuò Miranda. – Quella donna laggiù ha seviziato quei due ragazzi, e anche una donna!
Mio marito ha giaciuto con tre fanciulle, tre sorelle!
Mio cugino ha violentato due fanciulli e una donna!
Miranda continuò così, con molti di loro, fin quando, terrorizzato, sapendo che a breve sarebbe toccato anche a lui, Naren la fermò, prendendola per le spalle e strattonandola:
- Zia Miranda, fermati, basta! Stai facendo solo del male! Questo è il mio matrimonio!
- Ed è anche il mio matrimonio! – si impose con decisione Hinedia, tirandogli il braccio. – Ed io dico che loro devono sapere cosa avete fatto!
Naren se la scrollò di dosso, ma venne immediatamente raggiunto anche da Judith. – Tu! Tappati la bocca e lasciala parlare!! – esclamò fuori di sé la rossa. – Tutti loro, per lo meno, hanno mostrato il minimo buon senso nel non provocare danni irreparabili mentre commettevano i loro sudici soprusi! Nessuno di loro ha ingravidato una serva del Diavolo!! Tutti tranne te, lurido maiale irresponsabile e incosciente!! Tra l’altro, la tua parente che ci sta amabilmente informando riguardo tutto ciò, ha dimenticato di aggiungere un piccolo particolare: ognuno di noi si era scambiato di corpo con il proprio vicino alla fine del rito dello specchio. Probabilmente non ve ne siete neanche accorti, ma era così. Quando voi ci avete drogati e avete abusato di noi… eravamo doppiamente debilitati, confusi, incapaci di usare quel corpo nuovo nel modo giusto! – esclamò la ragazza.
- Per questo abbiamo potuto approfittarci di voi tanto facilmente – riconobbe Miranda. – Non solo eravate drogati e incoscienti, ma eravate anche disorientati dall’abitare un corpo estraneo.
- Avete trasformato il rito dello specchio, un’usanza sacra tra noi servi del Diavolo… in un incubo - disse Judith, tremendamente disgustata.
Blake, intanto, prese Ioan e fece per andarsene di lì, ma venne prontamente bloccato da padre Craig. - Cosa fate?
- Me ne vado.
- Ma non volete sapere anche voi…?
- No, non voglio saperlo. Preferisco non saperlo – annunciò categorico.
- Meritate di saperlo...
- Ma non voglio.
Ma quando Blake adocchiò Naren avvicinarsi con ira a Judith, iniziarono a pizzicargli le mani di rabbia, e il sangue gli si avvelenò: non avrebbe mai lasciato Judith tra le grinfie di quella carogna, motivo per cui decise di restare e di ascoltare ancora.
Una decisione di cui si sarebbe amaramente pentito poco dopo.
- Sta’ zitta, Judith, non ti conviene aprire questo discorso! – le intimò Naren.
- Di cosa hai paura, Naren…? Avanti, dimmi quello che mi avresti voluto dire mesi fa – lo sfidò lei sprezzante, ad un palmo dal suo viso. – Dimmelo e lava la tua coscienza, cane. Dimmi, Naren, per quale motivo ti sei unito a questo branco di porci eccitati e famelici, quando avevi già il mio totale amore?
- Sei stata tu a sedurmi!! Sei stata tu a costringermi!! – gridò lui.
- Come ho fatto a sedurti se mi trovavo dentro il corpo di un ragazzo in quel momento?!? E per quale motivo non sei riuscito a trattenerti dall’ingravidarmi come il più infantile dei poppanti?!
- Non ho resistito… non ce l’ho fatta! È tutta colpa sua!
- Di chi??
- Non glielo hai ancora detto…? – gli domandò Miranda, intervenendo, guardando suo nipote sorpresa.
- Dirmi cosa…? – domandò Judith tremante, iniziando a desiderare inconsapevolmente che non le venisse detto più nulla a riguardo. Cominciò a desiderare di non sapere.
Miranda sembrò rendersi conto solo in quel momento di non aver ancora rivelato i nomi delle vittime di suo nipote: - Naren ha violentato il tuo ragazzo fino a lasciarlo in fin di vita – disse, posando gli occhi su Blake, a distanza, il quale si paralizzò sul posto. – Non ho mai visto una foga tale in vita mia - ammise Miranda. - Pensavamo che lo avesse ucciso.
Anche Judith si voltò verso di lui, sbiancata.
- Tu e Blake vi siete scambiati di corpo, Judith… tu eri nel suo corpo, e lui nel tuo – rivelò finalmente Naren, in lacrime, la testa bassa e le mani strette intorno al corpo. A vederlo così, non sembrava capace di far del male a nessuno.
Quanto si sbagliavano.
- Ero venuto a cercarti… inizialmente non conoscevo l’intento di tutti loro.
Non sapevo che vi avessero drogati pesantemente, e che… me ne sono accorto dopo.
Io ero venuto a cercarti perché ero geloso di chiunque potesse toccarti, Judith.
C’erano così tanti giovani uomini bellissimi a quei festeggiamenti… io sono sempre stato un mostro, in confronto. Avevo paura potessi cedere alla tentazione e tradirmi – cominciò a raccontare, rivelando a tutti i presenti la loro relazione segreta. – Non capivo cosa stesse succedendo, non ti vedevo… poi, ho visto avvicinarsi a me un ragazzo, un servo del Diavolo che non avevo mai visto prima… era Blake. Al tempo non lo conoscevo. Lui mi guardava in modo strano. Si è accostato a me, e mi ha detto… che eri tu. Mi hai confessato di essere tu, Judith, nel suo corpo. Mi hai detto che tutti quanti vi eravate scambiati di corpo e che ti sentivi strana, molto strana, che non capivi più niente… ma che ti piaceva. Mi dicevi che ti piaceva molto trovarti in un corpo diverso dal tuo, in un corpo maschile.
La trovai una cosa estremamente perversa, inizialmente.
Poi, i fumi annebbianti che loro sparsero in aria iniziarono a farmi effetto, e le mie inibizioni sparirono, anche se sono rimasto notevolmente più lucido di te.
Capivo ci fosse qualcosa che non andasse… e che non fossi davvero tu. Che… probabilmente avessi qualche strana droga dentro di te. Ma mi piaceva… mi piaceva vederti così libera, intraprendente, lasciva… all’inizio non ti credevo del tutto, ma quando iniziasti a parlarmi come solo tu mi parlavi, e a dirmi cose di noi che solo tu potevi conoscere, mi convinsi che fossi davvero tu, dentro quel corpo maschile. Dentro quel bellissimo corpo maschile. Un corpo che ti stava piacendo tanto esplorare, e che stava iniziando a piacere anche a me. Iniziasti a sussurrarmi cose strane all’orecchio… non avevo mai creduto, prima di quel momento, che anche un ragazzo potesse farmi quel tipo di effetto. Ma quella notte fu diversa per tutti: vidi miei amici e parenti giacere a tradimento sia con uomini che con donne, indistintamente, tutti quanti, come se capissero che, in quello scambio di corpi generale, era giusto e dovuto provare tutto, viversi tutto, perché l’occasione non si sarebbe mai più ripetuta. E quella notte capimmo anche che la bellezza e il piacere sessuale non hanno genere – mentre diceva ciò, Naren non aveva il coraggio di guardare negli occhi Judith, ma, soprattutto, non aveva il coraggio di guardare negli occhi Blake, che lo ascoltava a qualche metro di distanza. Solo un piccolo gruppetto di persone stava ascoltando le sue parole, oltre i due diretti interessati: Ioan, Quaglia, padre Craig e Hinedia. Tutti gli altri stavano confessando rispettivamente i loro soprusi alle vittime stesse, prendendo esempio da Miranda e da Naren, in un vociferare generale, intervallato da urla e da ben giustificati scatti d’ira.
- Riuscisti a sedurmi anche in un corpo maschile. O forse, proprio perché abitavi un corpo maschile, qualcosa di nuovo e inesplorato, il mio corpo ha reagito di conseguenza e ti ho assecondato fin da subito, Judith, senza pensarci troppo - ammise. Si fece coraggio, e in quel momento alzò gli occhi, puntandoli su quelli di Blake, rivolgendosi ora a lui: – Per me eri solo un corpo in quel momento – gli disse. – Un meraviglioso contenitore abitato dalla donna che amavo. Un oggetto da maneggiare a mio e a suo piacimento. Ti ho fatto del male… me ne rendevo conto, mentre ti sovrastavo e non riuscivo a fermarmi. Ho provato un piacere tale… lo ricordo ancora, per quanto intenso. Non riuscivo, non riuscivo a porre fine a quel piacere, ero come posseduto… e Judith continuava ad insistere e ad insistere, perché piaceva molto anche a lei subire quel supplizio, le piaceva soffrire e provare piacere al contempo… poi anche lei si è accorta che qualcosa non andasse ed ha iniziato a ordinarmi di smettere, a ribellarsi, a urlarmi che le stavo facendo male, troppo male… ma io non riuscivo a placarmi. Tutto ciò che volevo era raggiungere il mio piacere, tramite il tuo corpo stretto, caldo, sodo e così piacevole da stringere e maneggiare, così diverso da quello di Judith… ma ugualmente invitante e appetibile - terminò il racconto, continuando a guardare il diretto interessato negli occhi, sentendosi morire dentro.
- Tu mi hai sedotto e spinto a farlo, Judith – riprese poi, spostando lo sguardo nuovamente sull’amata. - La colpa è stata di entrambi: tua, per aver pensato solo al tuo proprio piacere e non esserti curata della volontà del corpo che abitavi, e mia per aver ceduto alla tentazione e per non essere riuscito a fermarmi.
- Poi…? – ebbe il coraggio di sussurrare Judith. – Poi cos’è accaduto…?
- Dopo aver consumato quel terribile quanto appagante atto, sono stato invaso dai sensi di colpa… il corpo di Blake riusciva a malapena a reggersi in piedi. Tu che abitavi quel corpo, Judith, ti sei infuriata con me… seppur fuori di senno, eri adirata, giustamente, perché sanguinavi e avevi fitte di dolore ovunque… dicevi che mi sarei dovuto fermare, ed io ero rannicchiato lontano da te, disperato, a crogiolarmi nei miei sensi di colpa. Poi, all’improvviso… sei sbucata fuori tu. Il corpo era il tuo… ed ero confuso, molto confuso. Capii poco dopo, facendo due più due, che dentro il tuo corpo femminile doveva esserci il ragazzo a cui apparteneva il corpo che avevo… - si bloccò, deglutendo. - Dentro il tuo corpo c’era Blake. Lui aveva visto tutto, o almeno il necessario. C’era una ferocia e una furia tale nei suoi occhi che… per me fu agghiacciante vedere tale furia in quelli che riconoscevo come i tuoi occhi, Judith. Era una furia virile e selvaggia. Capii che dentro il tuo corpo doveva trovarsi il ragazzo più vendicativo che avessi mai visto, nel momento in cui Blake, con tutta la diabolicità di cui dispone, ha detto chiaro e tondo che te l’avrebbe fatta pagare. Non ha neanche provato a sedurmi, perché non era capace di sedurre come una donna sa fare, no. Non sarebbe stato necessario, in ogni caso. Camminò verso di me, mi rivolse uno sguardo colmo di odio e sdegno, si alzò sù il vestito, mostrandomi la tua intimità, Judith… e bastò quello. Si sedette sul mio grembo, e io non fui letteralmente in grado di oppormi, né di fare nulla. Si mosse su e giù, gelido, senza sentimento, senza passione, solo automaticamente, non facendo trapelare nulla dai suoi occhi. Ma tutto ciò che io riuscivo a vedere in quel momento, Judith… eri tu. Tu che ti calavi su di me, con quel corpo morbido, curvilineo e stupendo, che amavo e che desideravo da mesi! Non sono resistito neanche una manciata di minuti. È stato tutto estremamente veloce, tanto che non riuscii a rendermene conto. Era stata quella la sua crudele vendetta su di te, Judith: aver provocato un danno irreparabile, una gravidanza indesiderata. Era come se lui sapesse benissimo che non avrei resistito e non mi sarei trattenuto.
Tu urlasti, nel vederlo fare una cosa simile… ma eri troppo debole dal dolore fisico che ti avevo arrecato poco prima, per riuscire ad intervenire.
Però trovasti la forza di lottare contro di lui, nonché contro te stessa, dopo l’accaduto.
Seppur in un corpo da donna, lui era molto più energico di te, in quanto il corpo che abitava non era stato massacrato come quello che abitavi tu, perciò riuscì a spingerti in un fosso.
Cadesti in un cespuglio di rose, credo. Quando risalisti, il corpo che abitavi, nonché di Blake, sanguinava ancor di più, era pieno di ferite che sembravano inflitte da un sacco di spine di rose: svenni, crollando a terra, dentro quel corpo martoriato, e io ti guardai cadere a terra.
Intanto Blake, dentro al tuo corpo, era sparito.
Scappai via, come un ladro, senza fornire alcun soccorso, senza preoccuparmi di accertarmi che quel corpo che abitavi, e che avevo distrutto, respirasse ancora.
Nel momento in cui Naren terminò il suo racconto, un urlo addolorato, più forte degli altri, si levò dalla folla:
Un padre, un servo del Diavolo, stava piangendo di dolore, dopo aver scoperto che le sue figlie e i suoi figli erano stati abusati più volte dai servi del Creatore, quella notte.
- Perché avete fatto questo?! Perché??? Lo sapete che la pena per ciò che avete fatto è il rogo?! Avete condannato al rogo voi stessi, e anche noi!! Per quale motivo?? Da dove viene tutta questa crudeltà??
- Non si tratta di crudeltà – rispose una serva del Creatore. – Noi vogliamo quello che avete voi! Da sempre! Non c’è stata crudeltà nelle nostre azioni…
- Invece c’è stata!! Come si può trattare un corpo umano come un mero oggetto di piacere inanimato?!
- Volevamo sperimentare la libertà che avete voi, per una notte!
Volevamo sperimentare la bellezza! L’ardore! La lussuria!
Abbiamo sbagliato, lo ammettiamo, e ce ne pentiamo amaramente.
Ma possiamo giurarvi che quella è stata l’unica occasione in cui abbiamo fatto una cosa simile!
Siamo riusciti ad avere la meglio su di voi solo grazie alle erbe che vi abbiamo fatto assumere.
Sappiamo bene che le nostre scuse non bastano…
- No, non bastano e mai basteranno. Siete degli animali!
- Ci avete rubato la nostra dignità, strappandocela via, senza ritegno, senza onore, senza umanità! – fu l’esclamazione di una delle numerose serve del Diavolo presenti, la quale si gettò addosso alla serva del Creatore che aveva parlato poc’anzi, iniziando ad azzuffarsi con lei.
Diversi altri servi del Diavolo presero esempio e iniziarono a scagliarsi contro i servi del Creatore, adirati, dando inizio ad un enorme rissa generale.
- Smettetela!!! – urlò Miranda, invano. – Questo tremendo segreto, se dovesse uscire allo scoperto, ci condannerebbe tutti quanti al rogo!!! Dobbiamo tenerlo nascosto!!! Dobbiamo continuare a tenerlo tutti nascosto!!! Vi prego, servi del Diavolo, abbiate pietà e facciamo la pace tra noi!! Sosteniamoci!!
Intanto, Blake era una maschera di cera.
I suoi occhi erano persi, svuotati e lucidi, la bocca schiusa, il viso sbiancato e granitico.
Judith si coprì la bocca con una mano, a dir poco incredula, esterrefatta, nel suo viso si alternavano il senso di colpa e una profonda rabbia.
Hinedia si lasciò cadere seduta a terra, stravolta, le gambe incapaci di reggerla ancora, Layla che scalpitava per uscire fuori, ma tenuta ben a bada dalla ragazza.
Quaglia, per non realizzare tutto ciò che aveva udito, continuava a bere e a bere, come se non ci fosse un domani.
Padre Craig, invece, era furioso. Quell’uomo non solo aveva stuprato e ingravidato Judith, ma aveva anche violentato orribilmente Blake.
Non ci vide più dalla rabbia e sferrò un pugno dritto in faccia di Naren, facendolo cadere a terra.
Poi si premette la mano con l’altra, per attutire il dolore alle nocche.
- Non pensate di essere esente dal peccato! – esclamò Miranda, avvicinandosi al giovane prete, non appena notò che avesse colpito suo nipote in faccia. – Ho visto cosa avete fatto! Avete violentato una giovane serva del Diavolo, dai capelli corvini e gli occhi verdi. Vi ho visto!
- Non l’ho violentata – ammise il giovane prete, confessandosi a sua volta. – Il suo nome era Beitris, è stata giustiziata tre settimane fa. Io mi sono scambiato di corpo con lei, io ero nel suo e lei nel mio. Abbiamo giaciuto insieme quella notte, consensualmente – le disse.
- Allora… - rispose la donna, come realizzando qualcosa, tra sé e sé.
- Che cosa?? – le domandò padre Craig terrorizzato e impaziente insieme. Forse quella donna avrebbe potuto dare anche a lui le risposte che cercava. – Ho fatto qualcos’altro…??
- Voi siete un prete…
- Sì, esatto…
- Come può un prete macchiarsi di sodomia? È perché eravate drogato anche voi, ma… mi risulta comunque impossibile che un uomo di dio possa fare tutto ciò.
- Ditemi cosa mi avete visto fare!
- Ho visto il corpo di quella donna, di quella Beitris… giacere prima con lei – disse indicando Judith. – Poi con lui – aggiunse, indicando poi anche Blake. – Questo è accaduto, prima che loro incontrassero mio nipote Naren.
No, no, non è possibile.
Non riusciva a credere alle sue orecchie, le quali avevano iniziato a fischiare.
Credeva che aver giaciuto con se stesso fosse la cosa peggiore che avesse fatto quella notte.
E invece no.
Aveva anche giaciuto sia con Judith, sia con Blake, rispettivamente l’una nel corpo dell’altro. E forse, aveva anche abusato di loro mentre non era in sé. Chi poteva saperlo.
La mattina dopo Beitris si era svegliata in una pozza di sangue, accanto a Blake.
Ora si spiegava tutto: quel sangue era tutto di Blake. Forse, nell’inconsapevolezza della notte prima, padre Craig aveva trovato il corpo di Blake steso a terra, apparentemente in fin di vita, e preoccupatosi, si era steso accanto a lui, cedendo poi al sonno che aveva posto fine a quella nottata da dimenticare.
Si strinse i capelli, non sapendo come reagire a tutto ciò.
Intanto, Blake, come risvegliatosi parzialmente dal suo stato catatonico, fece qualche passo avanti, avvicinandosi a Naren, sotto lo sguardo incredulo degli altri:
- Ho portato addosso le cicatrici di quella notte per mesi, sul mio corpo.
Alcune… ce le ho ancora addosso.
Ho sentito male ovunque, internamente ed esternamente, per settimane, non riuscendo a capire il perché… così sono rimasto in silenzio, senza farne parola con nessuno – pronunciò quelle parole con voce rotta, infliggendole come fossero lame, mentre lo guardava dall’alto. – Ora so il perché. Ora so chi mi ha fatto questo.
Detto ciò, posò gli occhi in quelli di Judith, leggendovi dentro esattamente ciò che stava pensando lui in quel momento:
Non riuscirò mai più a guardarti in volto, dopo questo.
Prese Ioan per mano e si avviò velocemente verso il sentiero che li avrebbe fatti uscire dal bosco.
In un impeto di senso di colpa, che durò il tempo di un attimo, Judith lo seguì, gridando il suo nome:
- Blake, aspetta!
Il ragazzo arrestò il suo passo, voltandosi verso di lei, a distanza. – Cosa vuoi?
- La colpa è mia quanto tua.
Abbiamo fatto entrambi qualcosa di riprovevole, l’una contro l’altro.
Non puoi non riconoscerlo.
- Lo riconosco – ammise lui.
- Tu… mi hai rovinato la vita con questa gravidanza.
- Eppure io non ti ho arrecato alcun male fisico quella notte.
Io non ho pensato al mio proprio piacere, io non ho usato il corpo che abitavo come contenitore per soddisfarmi, o se l’ho fatto, non l’ho fatto consapevolmente.
- Credi che io lo abbia fatto consapevolmente …??
Blake assottigliò lo sguardo. – Guardami negli occhi e ammetti di non ricordare neanche un briciolo dell’“immenso” piacere che hai provato, mentre spronavi quel cane a fare quanta più violenza possibile su un corpo che non era il tuo.
Tutto quello che so, Judith, è che io mi sono svegliato la mattina dopo, credendo che qualcuno mi avesse strappato via tutti gli organi dal corpo. Avevo ematomi ed escoriazioni ovunque, credevo che qualcuno avesse provato ad uccidermi. Tu, invece, la mattina dopo avevi giusto uno o due graffi.
Tutto ciò che ho fatto contro di te, è stato vendicarmi, Judith, per un torto subìto, e l’ho fatto senza farti fisicamente del male.
- La tua vendetta la porto ancora dentro di me.
- Avresti potuto liberartene quando eri ancora in tempo.
- Come puoi dirmi una cosa simile dopo tutto quello che ho passato…?
È vero, ricordo ancora quel piacere, mi scorre ancora addosso senza che io lo voglia… ma ricordo ancora anche il dolore che ho provato mentre lui mi… Ho provato a dirgli di smettere, credimi!
Non era mia intenzione spingerlo a tanto! È solo che… non so cosa mi sia preso.
Credo che ci sia qualcosa di animalesco in me, Blake… qualcosa che è fuoriuscito quella notte, in tutta la sua bestialità. Qualcosa che sfugge al mio controllo.
Non ero in me! Non avrei mai potuto fare una cosa simile se avessi avuto il controllo di me stessa!
Cos’altro vuoi che ti dica oltre a “mi dispiace”?!
Entrambi abbiamo errato, entrambi dovremmo scusarci.
- Se sono le mie scuse quelle che vuoi, posso dartele.
Ma il punto non è questo – e nell’udire tali parole del ragazzo, dette con voce spezzata, Judith si sentì morire dentro.
- E qual è il punto allora…? Non riesci a perdonarmi?
- Nessuno di noi due ci riuscirebbe, Judith, lo sai.
Anche dopo avermi posto le tue scuse… so già che non riuscirei a passare sopra a quello che hai fatto. Lo rivedrei, ogni singola volta che ti guardo negli occhi.
Non riuscirò più a guardarti negli occhi, dopo questo.
E lo stesso accadrebbe a te.
Perciò, smettiamola di autoconvincerci che c’è un modo per cancellare quello che è successo.
Siamo stati in grado di farci del male a vicenda addirittura prima di conoscerci.
Le lacrime invasero il volto della ragazza, la quale ascoltava tali parole, sapendo che egli avesse ragione. 
- Questo è un addio, dunque – disse, cercando di rendere la sua voce quanto più stabile possibile, fallendo.
- Sì, lo è – decretò lui, voltandosi e dandole le spalle, riprendendo ad allontanarsi insieme a Ioan.
 
 
In seguito a tale funesta rivelazione, Hinedia aveva lasciato il bosco a sua volta.
Ognuno dei presenti si era disperso a suo modo.
Tutti devastati e distrutti, alcuni molto più di altri.
La sposa, ancora di bianco vestita, si inginocchiò sul terreno scuro e morbido della galleria, decisa, forse più decisa di quanto lo fosse mai stata:
- Avete detto che, se pregassi anche Voi, andrebbe bene – esordì stringendo la terra sotto le dita, rivolta al Diavolo.
- Non verrei punita.
Mi avete detto che siete in debito con me, per il sangue che ho versato sulla Vostra terra e dimora.
Ebbene, ci ho pensato, e ho qualcosa da chiedervi, sì.
La Galleria, il luogo che avete fatto Vostro, è un posto oscuro, imprevedibile, un buco mangia-uomini.
Avete inghiottito probabilmente centinaia di uomini innocenti, che hanno provato ad addentrarvisi.
Decidete Voi chi risparmiare e chi salvare.
Ma chiunque scende là sotto… è in balìa del Vostro volere, e anche dei Vostri capricci.
Dunque, questa è la mia richiesta, in nome del sangue e del sacrificio di Dun Rolland, che ho fatto inconsapevolmente: permettete alla Galleria e a tutte le anime dannate che hanno perso la vita lì dentro, di rivoltarsi, di aiutarci, di proteggerci dall’invasione straniera.
Oggi ho avuto la conferma che siamo perfettamente in grado di sterminarci da soli, tra noi.
Se dovessimo subire anche il giogo straniero… non ne usciremmo mai vivi.
Questa è la mia umile richiesta.
La richiesta di una figlia che non Avete voluto.
O forse, che Avete voluto sin troppo.
 
 
- Per giorni ho cercato di spronarvi a scoprire cosa fosse successo quella notte – padre Craig aveva avuto giusto la pazienza di attendere che Ioan si addormentasse in camera sua, e che la casa fosse a loro completa disposizione, per parlare a Blake.
Il senso di colpa sfrigolava sotto la pelle del giovane prete, quella verità a lungo agognata e solo ora scoperta, lo stava corrodendo dall’interno, per una moltitudine di motivazioni diverse.
- Sentivo… io percepivo che fosse successo qualcosa di grave! – esclamò, sbattendo un pugno sopra il tavolo.
Blake, in piedi e rivolto verso una delle finestre, era completamente nel suo mondo, invece, probabilmente non lo ascoltava neanche.
Padre Craig non poteva biasimarlo ma, in quale momento, pretendeva che lo ascoltasse.
- Un sedicenne che si risveglia in una pozza del proprio sangue e stenta a tenersi in piedi, senza ricordare nulla della notte appena trascorsa, non può essere una cosa da nulla!
Se stavate male, perché avete tenuto tutto nascosto?? Perché avete sofferto in silenzio, senza dire nulla? Perché non vi siete adoperato con me, per scoprire cosa fosse accaduto??
- Dimenticate che io non sono stato l’unico a subire un simile trattamento quella notte.
Avete sentito anche voi, no? È stato uno stupro di massa.
Ci sono state persone che sono state abusate da sei o sette individui diversi.
A me è anche andata bene, in fin dei conti.
Le parole di Blake facevano più male di una corda legata intorno al collo.
Padre Craig tutto poteva immaginare, tranne che Blake stesse adottando tale strategia di autodifesa: la strategia del minimizzare il tutto.
Oppure era solo una delle sue tecniche per farlo scoppiare, per allontanarlo e farsi lasciare in pace.
Perché era fuori questione che quel ragazzo intendesse realmente ciò che stava dicendo.
Eppure, infondo, era davvero così strano che lo facesse…? Che tentasse di autoconvincersi, di mascherare, di mentire a se stesso, in maniera tanto palese e insensata?
Se lo domandò, avendo paura della risposta.
Quando si perde la propria dignità in tal modo, il proprio “onore”, se così lo si può definire, non è come sentirsi spezzarsi, dentro, intimamente, sapendo di non potersi più ricomporre, sapendo di non poter mai più tornare come prima?
- “A voi è anche andata bene”..? – lo citò, avvicinandoglisi. – A cosa vi riferite? Al fatto che, se Naren non vi avesse sequestrato per tutta la notte, anche qualcun altro avrebbe potuto approfittare di voi, giusto per darvi il colpo di grazia? O al fatto che vi sarebbe potuto capitare qualcuno addirittura peggio di lui? – lo mise alla prova.
A tali parole, Blake si voltò finalmente verso di lui.
E padre Craig rabbrividì, esattamente come la prima volta che aveva posato lo sguardo su di lui, mesi prima.
- Oh, padre, ci conosciamo da quasi un anno. Non credi di essere ridicolo nel rivolgerti ancora a me formalmente? – esordì il ragazzo, lasciandolo a dir poco sgomento. – Tu… tu che inneggi tanto alla mia presunta “purezza” ora… forse hai dimenticato la reazione esageratamente grottesca, moralista e bigotta che hai avuto il giorno dopo il matrimonio.
Non ricordi? Non ricordi di avermi accusato di essere un meschino manipolatore e bugiardo, che ti aveva subdolamente condotto sulla cattiva strada?
Altro che fanciullo immacolato… quel giorno mi hai dipinto come il più corrotto, dissoluto e vizioso dei diavoli tentatori.
Qualcun altro, al mio posto, forse si sarebbe sentito persino lusingato.
Ma a me facesti venire solo voglia di infilarti la testa dentro il camino acceso, pur di non sentirti più.
Ti spiegai già allora che, secondo le nostre usanze, prendere parte a riti sessuali o celebrazioni che terminano in orge non è così strano.
Beltane ne è una dimostrazione.
Ciò non vuol dire che tali usanze siano gradite a tutti, né che qualsiasi servo del Diavolo sia automaticamente entusiasta nel prenderne parte.
Eppure, è vista come una cosa normale, nulla di esecrabile, nulla di proibito o degenerante.
Per questo era perfettamente naturale per me, e per molti altri, non ricordare ciò che avevo vissuto quella notte.
Neanche dopo Beltane ricordavo mai del tutto come avevo passato la nottata.
Fa parte degli effetti dei fumi e degli intrugli.
L’unica differenza, era che dopo Beltane, o dopo altre celebrazioni di altri matrimoni, non mi sono mai ritrovato il corpo massacrato.
- Dunque è così per te…? Se non lo ricordi, allora non è mai accaduto?
Lo stato in cui versava il tuo corpo non era un valido motivo per indagare…?
Perché tratti te stesso sempre in modo tanto sconsiderato?? Come se non avessi valore??
Blake strinse le mani intorno alle proprie braccia, fino a conficcarsi le unghie nella pelle.
- “Un valido motivo per indagare”…? – ripeté le parole del giovane prete. – Per scoprire che quella notte ho perso l’unico dono che possedevo in quanto essere umano…? Per scoprire che io e molti altri, abbiamo perduto la nostra facoltà di scelta? Nonché la sola cosa di valore che un uomo detiene?
Avrei voluto non scoprirlo mai.
- La tua mente non ricorda, ma il tuo corpo sì.
Il nostro corpo ricorda.
- Il corpo ricorda solo se vuole ricordare.
- Non comportarti come se non fosse successo nulla, Blake. Ti prego, non farlo.
Il ragazzo rimase immobile, continuando a dargli le spalle, negandogli il suo volto.
I suoi occhi, che mai si riempivano di lacrime, ora sembravano un oceano sul punto di straripare. Ma questo, il giovane prete non poteva vederlo.  
- Per quale motivo non dici niente riguardo al fatto che io sia la causa per la quale Judith è incinta? – sussurrò in un fil di voce Blake, in tono indefinibile.
- Perché fino ad oggi ho creduto che lei fosse l’unica ad essere stata abusata.
Invece, poco fa ho scoperto che siete stati violentati tutti e due.
Perché hai agito per pura e semplice vendetta.
Perché, se non fossi stato drogato, probabilmente non ti saresti vendicato in tal modo.
Judith, invece… ha fatto qualcosa di estremamente torbido… ed egoista, e non era nemmeno mossa dalla vendetta. Neanche la sua perdita di razionalità può giustificare ciò che ti ha fatto.
Io sono sempre pronto a prendere le sue difese, ma, questa volta… ella è indifendibile – ammise angustamente il giovane prete, sedendosi e infilandosi le mani tra i capelli, tirandoli, come se provocarsi dolore in quel modo fosse in grado di distoglierlo dalla sensazione di sporcizia che si sentiva impregnata addosso, in ogni piega di pelle e sottopelle.
Tutto era andato in malora.
Oramai che importanza aveva cosa provava…?
Che peso ricoprivano i suoi sentimenti…?
Nessun peso. Nessuna importanza.
Quello che era accaduto quella notte aveva cambiato tutto:
Craig non era più (e non era mai stato) un uomo di dio.
Judith non era più una santa.
E Blake… non era più intoccato, né intoccabile.
Ma proprio per tale motivo, la prospettiva di amarli, di continuare ad amarli in silenzio, faceva ancora più male, e sembrava sempre più sbagliata.
- Blake – lo richiamò. – Guardami – la sua voce era supplicante.
A ciò, il ragazzo si voltò lentamente verso di lui, restando in piedi.
Padre Craig lo fissò negli occhi.
No, non gli avrebbe mai confessato il suo amore.
Tuttavia, poteva confessargli qualcos’altro.
Qualcosa di cui si sarebbe già dovuto accorgere da solo.
Il senso di colpa divorante che portava nel cuore, dopo aver scoperto con chi aveva passato quella dannata nottata, non gli permetteva di rimanere in silenzio.
- Quando sono giunto qui… - cominciò, cercando di stabilizzare la voce. – Non era così. Le cose sono cambiate con il tempo. Con il tempo… io ho iniziato a guardarti con occhi diversi – confessò. E già solo in quelle poche frasi, vi era contenuta una menzogna:
Non è vero che le cose sono cambiate col tempo.
Io ti ho guardato sempre, con questi stessi occhi, fin dal primo istante in cui ti ho visto.
Ma ero troppo impaurito e stupido per rendermene conto.
Ed ora sono troppo codardo per ammetterlo.
Mentirgli era quasi un’esigenza, più forte di lui.
- Ho iniziato a guardarti … - continuò, e già solo dirgli ad alta voce quel poco che era disposto a confessare, equivaleva a patire le pene dell’inferno. - … con desiderio.
“Desiderio”.
Che parola insulsa, sbagliata, terribile, inutile, banale e tremendamente riduttiva per definire l’immensa totalità e meravigliosa potenza dell’amore che provava per lui.
Quando padre Craig ebbe il coraggio di osservare la reazione di Blake, si accorse troppo tardi che quello non era affatto il momento più giusto per confessargli una cosa simile, al contrario di quel che credeva. Per il puro e semplice fatto che il ragazzo di fronte a sé, nel giro di mezza giornata, aveva scoperto di essere stato toccato e usato come un pezzo di carne, nella più barbara e carnale delle violenze; e di essere oggetto del desiderio  di un prete, di cui si era sempre fidato.
Qualsiasi altra persona, al suo posto, ne sarebbe uscita spezzata, sotto ogni punto di vista.
Dunque era a dir poco naturale che fosse estremamente destabilizzato.
Le labbra di Blake si schiusero, e quella fu la più eloquente dimostrazione di stupore che gli diede.
I suoi occhi erano un tripudio di emozioni differenti, di difficile comprensione. Padre Craig non ci provò neanche a decifrarli.
Dopo un tempo che parve infinito ad entrambi, il ragazzo parlò:
- Tutti provano desiderio per i servi del Diavolo.
L’occhio vuole sempre la sua parte, no?
- Non ridurre tutto ad una mera questione di gradevolezza all’occhio.
- Ma è così, no?
Blake cercava una conferma che non sarebbe arrivata.
- Blake, io sono un uomo di Dio.
O, per lo meno, lo ero, prima di fare tutto quello che ho fatto in questo dannato villaggio… - non avrebbe voluto parlare così di Bliaint, ma le parole gli uscirono di bocca senza che potesse controllarle. - Capisci quanto sia sbagliato, per me, guardarti e provare desiderio…? Ne hai almeno una vaga idea?
- Non mi sono scandalizzato quando provavi lo stesso desiderio per mia madre, non mi scandalizzerò neanche ora.
- Non è la stessa cosa! – esclamò, sbattendo una mano sul tavolo.
Ti amo
Ti amo
Ti amo
Ti amo
Ti amo
Ti amo
Perché non riesco a dirlo…?
- Provo tale desiderio sia per te, che per Judith.
Un desiderio che non ho mai provato prima…
Non bastano un bel paio d’occhi e un corpo voluttuoso per farmi sentire così, lo capisci??
Altrimenti lo proverei per qualsiasi singolo servo del Diavolo di Bliaint!
Tutto ciò che sentivo per Heloisa era dato dal fatto che somigliasse a te, che mi ricordasse te, dannazione!
Ed ora… solo ora vengo a scoprire che, quella notte… ho giaciuto anche con voi due mentre ero nel corpo di Beitris… ho usato i vostri corpi per il mio piacere, mentre non ero in me… potrò anche non aver commesso violenza, ma non sono migliore degli altri che lo hanno fatto.
A quanto pare, le parole che aveva appena pronunciato erano state in grado di far infuriare Blake, per qualche motivo.
- “Non sei migliore di loro”…?
Ti ascolti, quando parli?
Allóra mi incolpasti di averti traviato, accusandomi di essere il peggiore dei dissoluti.
Ora mi stai dicendo che è stato Bliaint stesso a rovinarti la vita.
Il desiderio che senti per me e per lei ti divora dall’interno perché ti credi ancora un “uomo di Dio”? È così che stanno le cose? Bene, allora per quale motivo non te ne torni da dove sei venuto?
Il tuo viaggio a scopi commerciali sarebbe dovuto durare qualche settimana al massimo. Invece, dopo quasi un anno, sei ancora qui. A piangerti addosso, a disperarti, senza tuttavia fare un passo per migliorare la tua situazione.
Io non ti ho mai capito. E mai riuscirò a capirti.
Oggi hai scoperto di aver giaciuto con me e con Judith, nonostante nessuno di noi ricordi nulla di ciò che è accaduto.
Non dovresti esserne contento, dunque??
Non dovresti essere felice di aver soddisfatto i tuoi istinti per una notte?
Quell’ultima frase di Blake fu in grado di distruggerlo, di martoriarlo dall’interno.
Avrebbe dovuto esserne felice…?
Come avrebbe potuto?
Come avrebbe potuto, sapendo che non vi fosse ricordo, consapevolezza, consenso, né razionalità nell’atto?
Come avrebbe potuto continuare a vivere, sapendo di averli stretti a sé una volta, e che non avrebbe più potuto farlo?
Come poteva provare gioia, se il corpo morto di Beitris era sempre stato l’unico a ricordare le sensazioni provate, mentre a lui non era rimasto nulla?
Né un odore, né un sapore, né una sensazione tattile. Né un’immagine.
Nulla.
Un pugno di polvere, e un cannibalico senso di colpa per averli sfiorati senza amore e senza un vero consenso.
Non gli era rimasto niente.
 
 
 

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Capitolo 63
*** Un diamante in un mare di vetro ***


Un diamante in un mare di vetro
 
 
Il prato in cui si trovava era estesissimo.
Sembrava quasi di essere nel leggendario Eden.
Ma no, non era l’Eden.
Quello non era un Paradiso, non vi erano angeli, non vi erano dèi, o i progenitori dell’umanità.
Era un luogo umano, tangibile, reale, pieno di esseri umani imperfetti, come lei.
Judith sorrise, poggiando i palmi sull’erba morbida e tirandosi su con la testa, guardandosi intorno.
Il suo pancione era sparito.
Si tastò il ventre piatto e morbido, avvertendo uno strano senso di nostalgia.
Non la ricordava quasi più, la sensazione di non sentirsi niente dentro.
- Dove siete, bambini? – cominciò a chiedere, nonostante nessuno potesse udirla.
“Sono morta?” si ritrovò a pensare.
Improvvisamente, le si avvicinò un giovane, dai capelli folti e tanto chiari da somigliare al colore della luna.
Lo riconobbe e sgranò gli occhi. – Folker…? – gli domandò, confusa. – Allora sono morta davvero?
Il ragazzo le si accovacciò dinnanzi, poggiando gli avambracci alle ginocchia, e il mento sulle braccia.
Le sorrise e, nel farlo, illuminò tutto quanto.
Judith si rese conto che non avevano avuto modo di dirsi addio, loro due: quando lui si era tolto la vita, Judith non aveva ancora riacquisito i suoi ricordi. Era pressocché uno sconosciuto per lei.
Ora, invece, ricordava.
Ricordava di averlo convinto a confessare qualcosa che non doveva confessare, qualcosa che non era.
Ricordava di averlo costretto a fidarsi di lei.
E lui lo aveva fatto.
Pagandone amaramente le conseguenze.
Un intenso senso di colpa le risalì lungo la gola, mentre lo guardava. – Mi dispiace – gli disse. – Mi dispiace tanto.
Folker, di contro, alzò le spalle, come incurante. – Non fa niente – poi spostò gli occhi di giada altrove. - Guarda com’è bello qui… - sussurrò, con voce leggera come il vento.
Judith seguì la traiettoria di quegli occhi e osservò il prato esteso a sua volta. – Dove siamo?
- Tu dove vorresti essere? – le domandò lui.
- In un luogo lontano da Bliaint.
Ma dove sono i miei bambini?
- E i tuoi progetti?
- Non mi importa più dei miei progetti.
Voglio solo andarmene.
Non mi hai detto dove sono i miei gemelli.
Folker si sedette accanto a lei. – Ero una brutta persona. Me lo dicevano spesso, quando ero ancora tra i vivi – riprese il ragazzo. – Dicevano che ero tanto bello fuori, quanto brutto dentro. Irascibile, aggressivo, egoista, maleducato. Ho avuto quello che mi meritavo, alla fine.
Judith guardò il suo profilo, provando un’intensa esigenza di portarlo su un luogo ancora più bello di quello, un luogo bello quanto erano belli il cielo, e il famoso mare che non aveva mai visto.
E che mai avrebbe visto.
Le venne voglia di vedere il mare, improvvisamente.
- Non viviamo perché meritiamo di vivere – gli rispose. – Viviamo perché siamo nati. Siamo nati e basta. Ciò che decidiamo di fare con la nostra vita sta a noi.
- Si piange la morte di chi merita di vivere. Non si piange quella di chi non meritava niente.
- Si piange la morte di chiunque si ami, indistintamente – replicò la ragazza. – E tu eri amato. Sei amato. Nonostante tu abbia creduto di non esserlo, nonostante abbiano provato a farti credere di non esserlo… tu sei amato.
Folker si voltò verso di lei, a guardarla. – Non bisogna guadagnarsi la vita, dunque?
- Che tu sia una brutta persona o una bella persona, non importa.
La vita non va guadagnata. Nessuno riesce a comprendere questo, nemmeno io.
Lo dico, lo credo… ma non lo comprendo mai.
Però posso comprendere che non si può scegliere chi amare.
- Nessuno giudica, nessuno merita. Così dovrebbe essere – rispose lui.
- Te ne sei andato troppo presto. Quattordici anni sono pochi, Folker.
- Per quale motivo sarei dovuto rimanere?
Per guardare la rovina del nostro villaggio?
O peggio: per rimanere nel nostro villaggio e continuare a viverci dentro, come è sempre stato?
- Hai ragione.
Ammiro il tuo coraggio.
Non è da tutti scegliere di sfidare le norme dei due signori, di rischiare di finire nell’aldilà ed essere odiato da entrambi perché si è commesso un tale atto di disprezzo nei confronti della vita.
Egli sorrise ancora, genuinamente. – Quattordici anni non sono pochi, Judith. Ho capito tutto quello che dovevo capire in quattordici anni.
- Se non fossimo nati a Bliaint le cose non sarebbero andate in questo modo – disse lei, chiudendo gli occhi.
“Blake aveva ragione…
Ha sempre avuto ragione…
Me ne sarei dovuta andare quando ero in tempo per farlo.
Sarei dovuta fuggire. Con lui.”
E mentre pensava tutto ciò, lo scenario mutò: quando riaprì gli occhi, si ritrovò in quel maledetto bosco fitto, al chiaro di luna.
Blake la guardava a distanza, gli occhi di un dio caduto. – Che cos’hai fatto…? – le domandò in un fil di voce. – Che cos’hai fatto, Judith?
“Ho sbagliato” avrebbe voluto dirgli.
“Ho sbagliato, in tutto.
Ho sbagliato persino quando, a sei anni, dopo aver ammazzato quel porco, ho trovato rifugio tra le braccia di bestie crudeli quanto lui, mascherate da padri, madri e benefattori.
Ho rovinato il nostro progetto.
Ho rovinato te.
Se ho davvero una strana bestia dentro… non c’è dubbio che Bliaint l’abbia scatenata.
Forse, se avessimo vissuto lontani da qui…”
Judith gli si avvicinò, mentre si ripeteva mentalmente tutto ciò.
E mentre avanzava verso di lui, lo scenario mutava ancora, mutava sempre.
Eppure Blake era ancora lì.  A guardarla a distanza, con un’espressione diversa ora.
Judith avrebbe voluto dirgli che poteva piangere, che doveva piangere.
Ma non gli disse nulla. Gli si avvicinò, e quando gli fu dinnanzi gli prese le mani e alzò la testa per guardarlo. – Ho deciso che voglio venire con te. Voglio scappare via.
- E dove vuoi andare? – le domandò lui, con sguardo calmo, sereno, la voce calda e rassicurante che usava quando sussurrava alle sue orecchie di prima mattina, svegliandola nel migliore dei modi. Amava la sua voce.
- Lontano. Voglio solcare l’oceano. Visitare luoghi che non ho mai visto, completamente diversi da Bliaint.
Voglio andare dove nessuno sa chi siamo.
Voglio andare dove non siamo servi del Diavolo.
Voglio andare dove i miei bambini potranno vivere bene, anche senza di me.
Voglio andare dove tu vuoi andare.
Blake le sorrise, con quel suo sorrisino a metà, che possedeva l’eco di un dolce ghigno. - Smielata.
Judith sorrise in risposta, e poi rise, ad alta voce, tanto era felice.
- E quali saranno i nostri nuovi nomi? – le domandò il suo amore.
- Saranno i nostri primi nomi.
Even e Arley.
- Bene. Allora andiamo.
- Andiamo via ora?
- Sì, andiamo via ora – le disse lui, abbassandosi su di lei e sfiorandole le labbra carnose con il suo fiato caldo. – Dimentichiamo tutto.
Judith si sporse e le fece proprie, quelle labbra belle e morbide, che avrebbe divorato di morsi fino all’indomani mattina.
Fu un bacio che aveva davvero il sapore dell’ultimo.
Un bacio che le fece tremare il cuore per un miliardo di ragioni diverse.
Senza l’impedimento del pancione, ora poteva finalmente sentirselo tutto addosso, come se non sapesse più dove finisse lei e dove iniziasse lui.
Fece un salto e gli salì in braccio, circondando i suoi fianchi con le gambe.
Blake la abbracciò e la tenne ancorata a sé, stringendole la schiena; e lei fece altrettanto, gli circondò le spalle, gli strinse i capelli e approfondì il bacio, non stancandosi mai, mai di assaporare il suo sapore, il suo calore, la sua essenza.
Tutto era familiare.
Qualsiasi cosa di lui.
Persino la velocità con cui batteva il suo cuore. Un cuore che ora batteva anche sul petto di Judith, sovrapponendosi al suo, tanto erano vicini.
Non importava quanto fosse anaffettivo, Blake riusciva sempre a dimostrarle quanto lei fosse importante, quanto fosse felice nell’averla accanto e addosso.
Blake si staccò dalle sue labbra con un lungo sospiro, poi fece qualcosa di inaspettato: le diede un lento bacio sulla guancia morbida, poi sull’altra, come avrebbe fatto con una bambina.
Ciò non fece altro che animare ancor di più il fuoco che ella aveva dentro.
Ricambiò, dandogli due baci sulle palpebre chiuse.
- Sei pronta per andare? – le domandò lui.
- L’amore che provo per te è troppo grande – rispose lei. – Non posso perdonarmi quello che ti ho fatto.
- Non esiste un amore grande e un amore piccolo – replicò il ragazzo, guardandola con occhi pieni di dolcezza e di devozione. – Esiste solo l’amore. Se è piccolo non è amore. Non puoi amarmi troppo.
- Sei tu… - realizzò improvvisamente Judith, carezzandogli i capelli, piena di lui, e al contempo mai sazia.
Blake la guardò spaesato. – Che cosa?
- Il diamante in un mare di vetro.
Sei tu.
Non appena disse ciò, lo scenario cambiò ancora e Blake le svanì via dalle braccia.
Si ritrovò di nuovo in quel meraviglioso giardino, in mezzo ad una radura.
Stavolta, però, non era con Folker: a qualche metro da lei, si trovavano tre bambini, alti uguali, voltati di spalle, intenti ad osservare l’oceano. L’immenso mare, che Judith non avrebbe mai veduto.
Il vento salino scompigliava i loro capelli, ugualmente lunghi: ai lati, le due bambine avevano i capelli rossi come le fiamme; in mezzo a loro, un bambino con i capelli neri corvini.
“- Sono due femmine e un maschio.
- Vi avevo detto che non volevo saperlo!
- Non volete tenervene neanche uno?
- Che senso avrebbe?
- Per una madre avrebbe senso.
- Io non sono una madre. Non voglio nessuno dei tre. Cosa vorreste incoraggiarmi a fare? A prendere con me l’unico maschio?
- No! Non il maschio. Quello lo voglio io.
- Avevate detto di non amare la compagnia degli uomini.
- Difatti è così. Eccezion fatta per gli uomini che posso crescere interamente io.
- Dunque abbiamo un accordo?”

Judith camminò verso di loro, sentendo il proprio ventre vuoto reclamare la loro presenza.
“Non dovrebbero essere già fuori…
Dovrebbero essere ancora dentro.
Dovrei partorirli, prima.”
Era come se il proprio ventre se li volesse rinfilare dentro.
Come se il suo corpo la stesse spingendo a mangiarseli, per ingoiarli e rimetterseli dentro, dove avrebbero dovuto essere.
“Lo siete anche voi.
Anche voi siete diamanti… in un mare di vetro”
Si fermò, prima di raggiungerli.
Non li richiamò.
Non sapeva come chiamarli.
Non aveva pensato ai nomi, eccetto che per…
- Maren! – chiamò l’unico nome che conosceva, l’unico nome che aveva pensato Blake, al suo posto.
All’udire tal nome, si voltarono tutti e tre.
Ma prima che potesse vedere i loro volti… Judith si svegliò da quel lucido sogno.
Si trovava dentro la sua stanza, priva di forze, il corpo stremato da una serie di falsi travagli che l’avevano colpita negli ultimi giorni, costringendola a letto.
Quasi cinque giorni, trascorsi immersa nel proprio sudore, lavata, servita e riverita, immobile a letto.
Sette giorni dal matrimonio di Hinedia e Naren.
Un matrimonio che si era guadagnato a pieni voti il titolo di “maledetto”, surclassando il famoso matrimonio di nove mesi prima.
Judith fece ricadere la testa colma di capelli scarmigliati sul cuscino bianco, ansimando lievemente.
Il pancione enorme era di nuovo al suo posto ora, più presente e ingombrante che mai.
Qualcuno bussò alla porta.
- Judith, cara – la voce carezzevole di padre Petrit la raggiunse dalla soglia. – C’è padre Craig qui per te. Vuole vederti.
- Fallo entrare… - gli diede il permesso la ragazza, ancora col fiatone.
- Tutto bene, cara? Vuoi che ti porti qualcosa? – le domandò preoccupato il monaco.
- Sto bene – lo zittì bruscamente lei, attendendo che il suo più caro amico, nonché l’uomo più buono e fedele che conoscesse, facesse la sua comparsa dalla porta.
A padre Craig erano cresciuti i capelli, in quei nove mesi, si rese conto Judith in ritardo: ora li portava legati in un codino basso. In più, in quella settimana si era lasciato crescere lievemente anche la barba, che era più che altro peluria rossiccia sul mento, sulle mascelle e sulle guance.
Sembrava stranamente più giovane, grazie a questi piccoli particolari.
Più giovane, nonostante l’espressione sul suo viso suggerisse che avesse vissuto cento anni, racchiusi in un anno.
L’uomo, che oramai aveva abbandonato completamente la tonaca, entrò nella stanza e si richiuse la porta dietro di sé.
Si avvicinò con una sedia al letto della ragazza, e si accomodò.
Il modo in cui esordì, dopo una settimana di silenzio, Judith non se lo sarebbe mai aspettato:
- Secondo le predizioni di Ephram, Ruben arriverà qui con le truppe entro una settimana massimo.
Tu entro una settimana partorirai… avrai i gemelli, e al contempo la salvezza garantita per Bliaint. È il massimo a cui avremmo mai potuto sperare. Non credi? – concluse quel pensiero alzando lo sguardo su di lei, rivolgendole un sorriso dolce, innamorato, e al contempo impietosito. – Come ti senti?
- Sento che i bambini vogliono uscire… - esordì lei, invece. – Che non ce la fanno più a lottare per il poco spazio che c’è a disposizione lì dentro. Sono grossi, ingombranti, il che è un bene perché sono in salute – disse poggiandosi una mano sul pancione enorme, coperto dalla vestaglia larga e bianca.
Padre Craig poggiò una mano sul suo pancione a sua volta, e li avvertì subito scalciare.
Sorrise lievemente, senza ritirare la mano. – Vorrei tanto vederli…
- Li vedrai. Presto. Se si decideranno ad uscire, senza ammazzarmi prima.
- No, non li vedrò, purtroppo – le rispose, confondendola non poco.
- Che cosa intendi?
Padre Craig abbassò lo sguardo. Fece passare diversi minuti, senza dire niente, respirando solo l’aria stantia che c’era in quella stanza. Poi, le prese la mano e la strinse nella sua. – Me ne vado.
Quelle tre parole furono in grado di stordire Judith più del sogno da cui si era appena risvegliata.
Come se le colonne portanti dell’universo stessero improvvisamente tremando, fossero divenute pericolanti.
- Che cosa vuol dire che te ne vai…? Te ne vai a fare una passeggiata di qualche giorno, fuori di qui, per farti una gita fuoriporta?
Padre Craig sorrise amaro, con una tristezza talmente evidente e ingombrante, da paralizzarla al solo guardarlo. – No. Me ne vado per sempre. Da Bliaint. Ho deciso di tornare nel mio villaggio natio, ad Armelle.
- Dopo tutto questo tempo… hai deciso di tornare ad Armelle? – gli domandò costernata.
- Prima o poi sarebbe dovuto succedere. No?
Sarei dovuto tornare già diversi mesi fa.
- Invece sei rimasto.
- Invece sono rimasto.
- Dunque, ora non ha più senso tornare indietro. Per quale motivo vuoi lasciarci?
Sì, le cose andavano chiamate con i loro veri nomi: Craig non voleva tornarsene ad Armelle, non c’era nulla che lo legava ad Armelle. Craig voleva lasciarli.
Poi, un moto di realizzazione colpì in pieno la fanciulla, la quale scostò involontariamente la mano da quella dell’amico.
- Giusto. Che domande.
Dovrebbe essermi stato già chiaro.
È per quello che è accaduto nove mesi fa, non è vero? Aver scoperto cosa è successo… è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Non sei più tu da quando sei qui, ma sembravi averlo pienamente accettato.
- Quella notte io vi ho fatto del male.
A tutti e due.
Questo non potrò mai e poi mai perdonarmelo.
- Tra tutti quelli che ci hanno toccato quella notte… tu sei l’unico che non ci ha fatto del male.
Tali parole ebbero il potere di lasciare l’uomo boccheggiante.
- Craig..? – lo richiamò la ragazza, per la prima volta senza l’appellativo sacro.
Lo richiamò come se volesse attirare la sua attenzione, come se non la stesse già guardando, quando, in realtà, la sua attenzione era già tutta per lei.
- Sì?
- Tu non mi hai perdonata, per quello che gli  ho fatto quella notte, vero? – domandò, percependo i propri occhi già lucidi, come succedeva ogni volta che ci ripensava.
Che ripensava a tutto il male che aveva fatto all’uomo che amava.
Craig resse il suo sguardo, fissandola dritta negli occhi. – No, non ti ho perdonata – confermò, ma non attese un secondo per aggiungere altro: - Ma al cuor non posso comandare. Lo sai.
Detto ciò, le strinse di nuovo la mano.
- Io ti amo, Arley Judith.
Non posso fare nulla per evitarlo.
Posso non perdonarti, ma continuarti comunque ad amare.
Ho scoperto questo.
Judith gli strinse la mano a sua volta, trattenendo le lacrime, ricacciandole selvaggiamente indietro.
Basta piangere.
Era stanca di piangere.
Avrebbe dovuto conservare le lacrime rimastele per il parto. Lì ce ne sarebbero volute in abbondanza.
Eppure, Craig era una delle poche persone al mondo che si meritavano le sue lacrime.
Perciò le lasciò andare. Per lui.
Non appena la vide piangere, l’uomo gliele asciugò tutte, passandole le dita delicatissime sulle guance.
- Mi dici che mi ami perchè non riesci a dirlo a lui? – gli domandò lei. – Sei riuscito a dirlo anche a lui?
Come immaginava, Craig rimase in silenzio, un silenzio che non significava affatto assenso, ma tutt’altro.
- Dovresti dirglielo. Prima di andartene. Merita di saperlo.
- Non posso, Judith.
Non posso.
- Perché?
- Perché ho vanificato e sminuito tutto quello che provo chiamandolo “desiderio”, davanti a lui; facendolo sentire un blando pezzo di carne, esattamente come l’avete fatto sentire tu e Naren quella notte.
Perché non servirebbe a nulla.
E perché sono stanco.
Judith comprese che, in quel momento, l’uomo le stesse esponendo le motivazioni per cui aveva deciso definitivamente di andarsene, di lasciarli.
- Bliaint è al sicuro, ormai.
I soldati del conte non si sono ancora mossi da Carbrey. Probabilmente il piano di Quaglia ha funzionato davvero.
- Bliaint non è mai al sicuro - contestò lei. - Non trovare una scusa, non cercare di ripeterti questo, per sentirti meglio. Se te ne vuoi andare, vai, nessuno te lo impedirà. Ma dimmi la verità, dimmi che lo stai facendo per te stesso. Sarebbe anche ora che tu pensassi a te stesso, amico mio, dopo una vita intera che hai trascorso a pensare prima al bene degli altri.
Craig le sorrise, pieno di affetto, di malinconia, di adorazione. - Non so neanche se avrò la forza di salutarlo.
- Se te ne andrai via senza salutarlo, te ne pentirai per il resto della tua vita.
Craig accolse il prezioso consiglio e si calò su di lei, lasciandole un dolce bacio sulla fronte.
Un bacio d’addio.
- Non ti dimenticherò, Arley Judith.
Ti terrò sempre stretta al cuore.
- Neanche io ti dimenticherò mai.
 
 
Tornato a casa, Craig, con i sacchi già pronti per il viaggio, decise di affrontare Blake e Quaglia a viso aperto.
Ioan dormiva, e sperò che continuasse così: meglio risparmiargli un ennesimo pianto.
Di Heloisa, invece, non vi era traccia da una settimana.
Non l’avevano cercata quanto avrebbero dovuto, Blake neanche.
Erano accaduti troppi eventi, troppo scompiglio, la tensione e la preoccupazione per la delicata situazione in cui Bliaint versava aveva tenuto la loro mente sin troppo occupata.
Blake si ripeteva che fosse scappata, magari in cerca della cugina, e che sarebbe tornata presto.
Ioan non chiedeva mai di lei. Al contrario, talvolta pronunciava il nome del padre, nel sonno.
Craig prese il suo sacco e lo poggiò sopra il tavolo, appena dopo aver comunicato loro l’angusta e inaspettata notizia.
- Mi sono fatto prelevare diverse quantità di sangue in questa ultima settimana, mi ha aiutato il medico – esordì, guardando Blake. – Il mio sangue è ben conservato. Ioan potrà usufruirne per terminare il ciclo, come gli scritti dicono, a intervalli regolari, come è stato finora. Non vi sarà alcun bisogno della mia presenza qui – notificò. Aveva pensato a tutto, ovviamente: non avrebbe mai e poi mai lasciato Ioan senza la sua fonte primaria di salute e guarigione. Al ragazzino, che oramai considerava come un fratellino a sua volta, il suo sangue serviva ancora, e lui glielo avrebbe concesso e donato volentieri. La salute di Ioan veniva prima del suo egoismo, della sua esigenza di distaccarsi da tutto quello, da quella che oramai era diventata la sua vita.
Blake non ebbe nulla da dire a riguardo, mentre Quaglia cercava di spiccicare parola, ma senza successo, a causa dello sbigottimento amaro che lo aveva colpito.
Dunque, Craig continuò: - Mi sono permesso di prendere le provviste che ho trovato nella dispensa, per il viaggio che mi attenderà: frutta, verdure, pagnotte.
- Quindi te ne vai davvero…? Fai sul serio?? – arrivò l’attesa replica di Quaglia, il quale aveva allargato le braccia, e lo guardava con sguardo contrito, ferito, e al contempo tremendamente dispiaciuto e sbigottito.
Gli sarebbe mancato anche lui. Molto.
Quaglia si era sempre dimostrato un vero amico.
Lo aveva sempre sostenuto e aveva mantenuto il suo segreto sempre, senza battere ciglio.
Era leale, coraggioso, intelligente, affidabile.
Craig gli sorrise e si avvicinò a lui. – Vieni qui – lo incoraggiò, allargando le braccia.
A ciò, Quaglia, fintamente stizzito, fintamente sostenuto e offeso, alla fine cedette alle emozioni che lo stavano pervadendo all’idea di non rivedere mai più uno degli uomini che stimava e apprezzava di più al mondo: lo abbracciò stretto e si lasciò abbracciare.
Non avrebbe usato lo stesso calore neanche nel salutare un fratello.
- È stato un onore conoscerti, amico mio – gli sussurrò all’orecchio, facendogli scaldare il cuore e salire le lacrime ai lati degli occhi.
- Anche per me… abbi cura di te, Quaglia. Saluta Ruben per me e fa’ pace con lui. Meriti di essere felice.
- Tu sei quello che lo merita più di tutti.
Non temere, ad ogni modo: avrò cura di lui. E ne avrò anche di Judith, per quanto mi sarà possibile.
Rimarrò al loro fianco, fino alla fine.
Padre Craig trattenne un singhiozzo di gioia e tristezza misti insieme, e affondò il volto nella sua spalla, per poi distaccarsi dall’abbraccio strappalacrime.
Poi, Quaglia si voltò verso Blake, e di nuovo verso di lui. – Vi lascio soli – disse discretamente, capendo ci fosse bisogno anche di quello.
Uscì di casa, facendo calare il silenzio tra i due interessati.
Craig restò per un po’ a fissare la porta da cui era appena uscito l’amico.
Poi, si voltò a guardare Blake, il quale era rimasto nella posizione precedente, con il fondoschiena appoggiato al bordo del tavolo, le mani distrattamente aggrappate allo stesso.
Fu proprio il ragazzo a rompere il ghiaccio:
- Credevo non te ne saresti mai andato.
Il duplice significato contenuto in quella frase giunse alle orecchie di Craig. Ma l’insicurezza che l’aveva sempre caratterizzato gliene fece percepire distintamente solo uno.
- Hai fatto di tutto per farmi capire che me ne sarei dovuto andare – rispose scherzosamente, rendendosi conto che il suo tono non fosse apparso affatto scherzoso. – Beh, ora lo sto facendo.
Non ne sei contento?
Blake incassò il colpo e abbassò lo sguardo, accennando un aspro sorriso. – Hai ragione – ammise.
Poi alzò lo sguardo.
Non gli pose nessuna domanda.
Né perché lo stesse facendo, né perché proprio ora.
Era come se già sapesse, se già capisse.
Padre Craig continuò ad osservarlo, scrutandolo.
Si prese il suo tempo per farlo, dato che era l’ultima volta che ne aveva l’occasione e la fortuna.
Ripercorse tutto ciò che amava di lui, dai dettagli più superficiali, estetici, nonché tutto quanto; fino alle caratteristiche invisibili all’occhio, quelle che erano precluse a chiunque non lo conoscesse.
Si beò della sua postura, del suo sguardo, del modo in cui arricciava il naso quando qualche ciocca di capelli sfuggita dalla costrizione gli solleticava il collo.
Poi, la sua voce improvvisa lo riscosse dalla contemplazione:
- Io sono qui, ora.
Sono qui.
Sono fatto di carne, sangue e ossa.
Non sono un rimorso, un rammarico, non sono l’immagine astratta della tua colpa.
Non rappresento il tuo peccato. Forse non hai fatto altro che vedermi così, per mesi: come la personificazione del tuo peccato, del tuo allontanamento da dio.
Ma io non sono questo.
Io posso ascoltare. Anche se non ti ho mai incoraggiato ad aprirti con me, tutt’altro…
Non sono un’entità da proteggere, una meta a cui aspirare, né una figura intoccabile, da non macchiare, non plagiare, non guardare.
Io non rappresento il proibito.
Forse mi hai sempre visto solo così, e io ho contribuito, non volendo, a fartelo credere.
Ma ora voglio che, per una volta, tu mi guardi per come sono davvero: un ragazzo di diciassette anni, che deve ancora imparare a vivere, ad affrontare il mondo; che sbaglia, continuamente, e che non deve essere posto su un piedistallo.
Uno stolto che non è superiore a nessuno, uno stupido sovversivo che cerca solo di trovare il suo posto in una vita che sente non appartenergli.
Guardami per quello che sono, per la prima volta – terminò, catalizzando tutta la totale attenzione dell’uomo su di sé.
Craig aveva finito le parole.
Aveva finito le lacrime, così come aveva finito le reazioni da manifestare.
Lo guardava semplicemente, come lo aveva sempre guardato, come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto.
Perché lo era, lo era davvero.
E fu come se Blake se ne rendesse conto, per la prima volta.
E capisse, capisse finalmente, di essere oggetto di un amore talmente estremo, talmente incommensurabile, talmente distruttivo e incontenibile, da meritare un posto negli scritti storici.
Padre Craig avrebbe voluto dirgli che no, non poteva guardarlo come lui gli aveva chiesto di guardarlo.
Sarebbe stato impossibile per lui. Perché il suo amore filtrava tutto, qualsiasi cosa, e lo rendeva qualcosa di completamente diverso ai suoi occhi.
Invece, Blake, di contro, era riuscito a vederlo per la prima volta per quello che era.
Vorrei che tu ti vedessi come ti vedo io.
Anche solo una volta.
E capiresti.
Eppure, Blake aveva ragione: era fatto di carne e sangue.
Era reale, lì davanti a lui, tangibile. Ciò voleva dire che poteva toccarlo, che poteva dirgli tutto ciò che avrebbe voluto dirgli da mesi e mesi, e lui avrebbe ascoltato.
Forse non era troppo tardi.
Se ne convinse maggiormente nel momento in cui il ragazzo distaccò il corpo dal tavolo e fece un solo passo verso di lui, con uno sguardo che non aveva mai avuto:
- Se devi dirmi qualcosa… dimmela ora.
Dimmela ora, o non potrai farlo mai più.
In seguito a quelle parole, Craig tremò come non aveva mai tremato prima.
No, ormai era deciso a partire.
Era deciso a partire, e, per una volta, doveva pensare a se stesso.
Non agli altri, solo a se stesso.
Se gli avesse confessato tutto in quel momento… probabilmente non sarebbe più riuscito ad andarsene.
Tutti i suoi sforzi di distaccarsi da quel giovane uomo che calamitava tutta la sua esistenza su di lui, sarebbero stati vani.
Per questo, decise di commettere l’ennesimo e peggiore sbaglio della sua vita:
- Non devo dirti nulla.
A tali parole, Blake non manifestò né delusione, né risentimento, né sgomento.
Accettò la sua risposta con rispetto.
Dopo di che, fece qualcosa che fece paralizzare Craig sul posto:
Si avvicinò a lui, sempre più, fino a quando non ci fu neanche un passo a dividerli.
Sapeva quanto Blake odiasse i contatti fisici, specialmente se non richiesti o improvvisi.
Sapeva bene quanto gli costasse fatica farsi accarezzare o abbracciare.
Sapeva tutto ciò. Per tale motivo rimase ancor più impietrito quando il ragazzo si sporse verso di lui e lo abbracciò.
Un semplice abbraccio, un semplice contatto che nel loro caso divenne qualcosa dalla potenza inimmaginabile.
Craig, che era sempre stato più basso di lui, si ritrovò il viso premuto contro la sua clavicola, sui suoi vestiti puliti, e le mani del ragazzo che gli circondavano le spalle.
Rimase immobile, incapace di muovere un muscolo, di ragionare o pensare, per quasi un minuto intero.
Poi, la possibilità che Blake sciogliesse l’abbraccio da un momento all’altro diventò più temibile della morte, e ciò servì a riportarlo alla realtà.
Risvegliatosi, si godette ogni sensazione, liberò ogni emozione e immagazzinò tutto nella mente, a fuoco:
Inspirò il suo profumo amato, affondando maggiormente il viso sulla sua clavicola, per poi circondargli discretamente i fianchi, ricambiando l’abbraccio.
All’inizio lo toccò timidamente. La consapevolezza di ciò che aveva fatto quella notte, sommata al terrore irrazionale e insito in lui da sempre, di toccarlo, di sfiorarlo persino, lo trattennero.
Poi si ricordò che quella fosse la prima, ma anche l’ultima volta.
Quell’unica consapevolezza gli permise di mandare all’aria ogni remore, e di circondare il busto e i fianchi del ragazzo con necessità cieca, con forza e disperazione, stringendo la sua carne sotto le dita, ancorandosi a lui.
Non seppe quanto durò quell’abbraccio.
Probabilmente troppo poco.
Quando Blake si staccò da lui, Craig iniziò a sentire un freddo innaturale, laddove la figura calda del ragazzo non comprimeva più il suo corpo. – Addio – gli disse egli, indietreggiando.
- Addio, Blake.
Addio…
 
 
Non appena le venne detto che all’interno della cattedrale del Diavolo, nella navata principale, vi fosse un’unica persona, seduta davanti all’altare, Myriam percepì  di chi si trattasse.
Era come se avesse sempre avuto un sesto senso, verso i movimenti che lui faceva, verso tutta la sua persona in generale.
Anche quando era bambino riusciva sempre a capire dove si trovasse, a distanza, e a non perderlo mai di vista.
Uscì dalla sua stanza e scese le scalinate in fretta.
Lo trovò seduto su una sedia, davanti all’altare. Lo sguardo perso e distante.
Myriam gli si avvicinò cautamente, prendendo posto accanto a lui e fissando gli occhi sull’altare a sua volta.
Era una vita che Blake non metteva piede in quella cattedrale, ma, soprattutto, era una vita che non vi entrava per sedersi e pregare.
Eppure, era certa che il ragazzo non stesse pregando.
Forse era giunto lì con tutti i buoni propositi di farlo, di provarci, ma poi non ci era riuscito.
La sua natura, che urlava ai quattro venti di non credere in alcun dio, aveva prevalso su tutto.
Oramai anche i monaci se ne erano accorti.
- Stavo venendo a cercarti – gli disse il vero. – Volevo parlarti – proseguì, continuando a guardare avanti a sé e a lanciare qualche sguardo sulle balconate di tanto in tanto, per accertarsi non vi fossero orecchie indiscrete ad udirli.
Blake non si smosse. – Sai dove si trova mia madre?
Tale domanda fece totalmente irrigidire la strega.
- Perché dovrei saperlo…? – replicò, lievemente sulla difensiva.
- Perché tu sai sempre tutto.
Volevo capire se sapessi qualcosa.
È scappata via? – le domandò, come se fosse oramai certo che la propria teoria fosse corretta.
Non aveva neanche idea di quanto si sbagliasse.
- Se credi sia scappata, allora sarà così – mentirgli non le era mai piaciuto, ma lo aveva comunque fatto diverse volte, a fin di bene. E anche ora, tale menzogna l’avrebbe salvato da una sofferenza innecessaria. E avrebbe salvato lei dall’ira e dal disprezzo del ragazzo.
- Padre Craig se ne è appena andato. È tornato ad Armelle.
- Lo dici come se una parte di te non fosse più qui.
- Perché volevi parlarmi? – domandò poi Blake, cambiando ancora discorso.
- Ho organizzato tutto.
- Cosa hai organizzato…?
- La tua fuga.
A ciò, Blake si voltò finalmente a guardarla.
- C’è una nave che vi aspetta al porto più vicino, a poco più di un giorno di cammino da qui – continuò Myriam. – Ho pensato a tutto: stanno aspettando voi, te e tuo fratello. Hai detto che te ne saresti andato solo con lui, giusto?
- È stato Ephram a dirtelo?
- Non serve che Ephram mi dica cose che già so.
L’avrei fatto comunque e, se fosse stato necessario, ti avrei costretto a partire, con le buone o con le cattive.
Tale frase fece sorridere lievemente il ragazzo, alleggerendo, anche se di poco, l’atmosfera.
- Prendi le tue cose, provviste per il viaggio, vestiti nuovi, e nascondi quell’opale sotto la maglia.
Parti oggi stesso, Blake.
- La nave ci aspetterà anche se dovessimo tardare?
- Sì, ma non rimarrà lì per più di qualche giorno.
- Come fai ad avere tali conoscenze? Anche i marinai ora sono in debito con te?
- Non fare domande.
Prendi le tue cose, prendi tuo fratello e vai, Blake.
- Perché hai tanta urgenza?
- Perché i monaci stanno solo attendendo che Judith entri in travaglio e abbassi la guardia per bruciarti su quel soppalco! - gli diede tale rivelazione voltandosi a guardarlo, con una paura e un’urgenza negli occhi, che Blake non le aveva mai visto.
Un terrore che spaventò anche lui.
- Se dovesse accaderti qualcosa, Blake, la mia vita non avrebbe più alcun senso.
Lo sai bene.
Li ho sentiti parlare, più volte, riguardo al fatto che i soldati del conte Agloveil siano partiti da Carbrey, e siano diretti qui.
Arriveranno nel giro di qualche giorno.
- Ma l’esercito del figlio di Quaglia sarà qui entro qualche giorno.
- Non sappiamo se arriveranno in tempo…!
Potrebbero arrivare prima i soldati del conte.
Nel villaggio gira tale voce, ma nessuno sembra crederci davvero.
I monaci ci credono, ed Ephram… Ephram lo ha visto.
Ma non lo ha detto a nessuno, per non seminare il panico.
Ma io l’ho visto. Ho visto il panico nei suoi occhi.
Abbiamo fatto tutto il possibile, tutto il necessario per proteggere il nostro villaggio.
Abbiamo pregato dèi, spiriti, qualsiasi entità immaginabile.
Ora siamo nelle mani dei due signori.
Ma io non posso affidarmi ai due signori per proteggerti, Blake.
Sei in pericolo sotto ogni punto di vista: i monaci vogliono ucciderti sia per non lasciarti ai soldati, sia perché stanno aspettando di ucciderti da mesi, ma non lo stanno facendo esclusivamente per non far soffrire Judith; in più, quando i soldati saranno qui, se per miracolo sarai ancora vivo, ti prenderanno loro. Devi andartene. Il più in fretta possibile. Quando Judith sarà troppo presa dal suo dolore per il parto… temo che ne approfitteranno per imprigionarti e giustiziarti.
- Serve un’accusa concreta per giustiziarmi.
- Ne hanno sin troppe, e anche se non le avessero, se le inventerebbero – detto ciò, tirò fuori un anello e glielo posò tra le mani. – Tieni. È un anello magico di tracciamento. Così potremo metterci in contatto e saprò sempre dove sei – gli strinse le mani nelle sue, cercando di non far palesare troppe emozioni: i monaci avrebbero potuto sbucare dalle balconate da un momento all’altro. – Non era così che mi immaginavo il nostro saluto…
Blake la guardò con affetto e le strinse le mani a sua volta. – Non pensavo mi avresti mai lasciato andare via.
- Preferisco saperti al sicuro, che saperti accanto a me.
Se solo potessi… ti raggiungerei. Ma fuori da Bliaint verrei riconosciuta subito come strega: i miei segni indelebili sul corpo mi tradirebbero. Non ti sarei di alcun aiuto da morta.
E poi… hai il mio anello. Se lo indosserai sempre… saprò dove trovarti e… quando tutto questo sarà finito, forse riuscirò anche a raggiungerti – concluse con voce rotta e le lacrime agli occhi.
Vedere gli occhi della strega bagnati di lacrime era un evento più unico che raro.
Blake annuì e strinse l’anello tra le dita.
Tuttavia, un cipiglio dubbioso traspariva dal suo viso.
- Che ne sarà di Judith?
Myriam lo scrutò, sorpresa. – Ci tieni davvero molto a quella donna, non è vero? – gli domandò, non riuscendo a nascondere un pizzico di fastidio nella voce. – Credevo fossi adirato con lei.
- Lo sono, lo sono molto.
Tuttavia, non posso andarmene senza saperla al sicuro.
Ho bisogno di parlarle, un’ultima volta.
- La ami davvero.
- Credevi non ne fossi capace?
- Certo che ne sei capace.
Eppure… cos’ha fatto per conquistarsi il tuo cieco amore?
Ti ha solo fatto del male, in tutto questo tempo.
- Suppongo l’amore non badi al male – rispose lui. – Ti prometto che me ne andrò – le disse poi. – Grazie di tutto, Myriam.
Una lacrima rigò il volto della strega, poi un’altra e un’altra ancora, e più cercava di trattenersi, peggio era. Blake le sorrise ancora e le baciò la mano, amorevole. – Ci vediamo presto – le diede il suo personale addio.
- Ti amo come un figlio.
Non importa cosa accadrà, ti ritroverò – promise, baciandogli una mano a sua volta, per poi vederlo alzarsi in piedi e andare via.
 
- Ripetimi cos’è che vuoi fare, per favore, non sono sicuro di aver ben capito – lo spronò Quaglia, a braccia conserte.
- Farò andare mio fratello da solo, al porto.
Avrà con sé tutto ciò che gli serve.
Dobbiamo sbrigarci ad andarcene – gli ripeté Blake, terminando di infilare le ultime cose dentro il sacco di Ioan.
- Se è così certo che i soldati del conte arriveranno qui prima di mio figlio… per quale motivo non parti con lui? – gli domandò Quaglia avvicinandosi, lo sguardo colmo di preoccupazione. – Hai detto che Myriam ha organizzato tutto per te. Per te e lui. E tu vuoi far andare tuo fratello da solo, ad intraprendere un viaggio di due giorni, fuori dai confini di Bliaint…? Non è da te, Blake.
- Lui deve salvarsi.
- Anche tu. Anche tu devi salvarti – replicò Quaglia con decisione.
- C’è una cosa che devo fare, prima.
- Si tratta di Judith, non è vero?
I monaci non la lasciano vedere a nessuno, Blake.
Dicono stia male, a causa dell’imminente parto.
Non servirà a nulla restare qui, per aspettare che te la lascino vedere.
- Devo tentare. Non posso andarmene di qui senza averle parlato – affermò il ragazzo, guardando il fedele amico dritto negli occhi chiari. – Ti chiederei di accompagnare mio fratello al porto, ma so già che rifiuteresti: sei un maledetto cocciuto, e sei tremendamente appiccicoso – gli disse, facendolo sorridere.
- Hai ragione.
Voglio restare qui e vegliare su di te, amico mio.
Sei molto più in pericolo tu qui dentro, di quanto lo sarebbe tuo fratello là fuori.
Blake gli sorrise amaro, per poi avvicinarsi a Ioan, il quale era seduto sulla poltrona da un po’, già pronto e vestito per il viaggio.
Ioan non era entusiasta di partire senza Blake, ma il ragazzo non gli aveva lasciato altra scelta.
Blake si inginocchiò dinnanzi a lui e fissò il suo visetto angustiato e spaventato.
- Poche e semplici regole, Christopher… - esordì, attirando l’attenzione del bambino. – Non dare confidenza a nessuno.
Devi seguire sempre il vento del mare, verso sud, e se dovessi perderti… puoi chiedere indicazioni a qualcuno, ma non devi mai, MAI dire da dove provieni, né tantomeno che servi il Diavolo. 
Procedi dritto per la tua strada e cammina finché puoi: prima arrivi e meglio sarà. Non preoccuparti per la stanchezza, nel sacco hai cibo in abbondanza per riprendere le forze.
Fermati solo di notte, per dormire, ma evita i villaggi abitati. Al contempo evita anche i boschi, per gli animali feroci. In ogni caso, dormirai all’aperto solo una notte, in quando dopodomani sarai già arrivato al porto.
Quando giungerai lì, dì ai marinai chi sei, loro sanno già che dobbiamo arrivare.
Poi… aspettami. Aspettami per qualche giorno, fin quando i marinai saranno disposti ad aspettare.
Se entro qualche giorno non ti avrò raggiunto… parti senza di me.
Tutto chiaro?
- Io non partirò senza di te – affermò categorico il ragazzino. – Io senza di te non vado da nessuna parte, Even. Ti aspetterò. Ti aspetterò tutto il tempo che sarà necessario. Ma tu cerca di fare presto.
Blake gli sorrise, sentendo un magone risalirgli lungo la gola come una valanga.
Era una sensazione che provava solo e solamente quando si trattava di suo fratello, la persona più importante al mondo.
Blake gli prese le mani e cercò di trovare le parole giuste, senza tuttavia mostrarsi vulnerabile o incerto: - Arriverò. Ti raggiungerò, te lo prometto. Ma se… nella peggiore e più remota delle ipotesi, io non dovessi riuscire a raggiungerti in tempo e i marinai volessero salpare in fretta… tu sali e parti con loro, senza di me. Intesi?
Ioan non rispose.
- Intesi, Chris?? Me lo giuri sulla tomba di nostro padre??
- Sì… te lo giuro sulla tomba di papà.
- Bravo il mio ragazzo – gli disse sorridendogli fiero, accarezzandogli una guancia.
Dopo di che, prese l’anello di tracciamento che gli aveva donato Myriam e glielo infilò in un dito.- Questo indossalo sempre. Così saprò sempre dove sei, qualsiasi cosa accada.
Ioan annuì, con gli occhi invasi dalle lacrime, ma determinati e intrepidi.
- Posso portare Nellie con me? – gli domandò poi, con voce rotta, indicando la micia che ronfava sul tappeto.
Blake sorrise. – Sì, puoi portarla con te. Ma dovrai nutrirla e occupartene sempre.
Ioan annuì, poi si buttò su di lui, abbracciandolo con una forza che Blake non credeva avesse, stritolandogli il collo.
Sì, stava crescendo anche lui.
Il ragazzo ricambiò l’abbraccio e cercò di non mostrarsi debole in alcun modo, di non cedere a quelle lacrime che sentiva montargli dentro da quella mattina, quando erano iniziati gli addii.
Lo strinse fortissimo e gli baciò i capelli. – Ti voglio bene, Chris.
- Più di qualsiasi altra cosa, Even.
Ti aspetterò. Fin quando sarà necessario.
Blake annuì, sorridendo, felice di sapere suo fratello al sicuro, almeno lui, nel caso in cui i soldati del conte fossero giunti al villaggio prima del previsto e avessero iniziato a saccheggiare, a depredare e a fare schiavi.
Ioan, in ogni caso, sarebbe stato al sicuro.
E questa era l’unica cosa che contava davvero.
 
Dopo la partenza del fratello, oramai era pomeriggio inoltrato e quell’infausta giornata di addii stava giungendo al termine.
Blake si diresse verso la cattedrale del Creatore, dove sapeva trovarsi Judith.
Entrò dentro e incrociò subito padre Petrit.
- Padre, ascoltatemi.
- Cosa volete? – gli si rivolse bruscamente l’uomo.
- Voglio vedere Judith.
Non ci metterò molto. Ho bisogno solo di parlarle.
- Non potete vederla.
Nessuno può vederla.
- So che state mentendo.
So che mi odiate, ma vi imploro.
Devo solo parlarle, ci metterò qualche minuto.
Poi me ne andrò.
Ma il monaco fu irremovibile.
A ciò, il ragazzo si rassegnò, almeno per quel giorno.
Ci avrebbe riprovato il giorno seguente, fin quando non gli avrebbero concesso di parlarle.
Tuttavia, prima di andarsene, una voce familiare attirò la sua attenzione:
- Blake…? – Hinedia lo richiamò, seduta su una sedia della navata, da sola.
Stava pregando.
Esattamente come la prima volta che si erano incontrati.
Il ciclo si sarebbe chiuso esattamente come era cominciato.
E Blake si rese conto che anche lei, decisamente, meritava un degno addio.
Si avvicinò alla navata e si sedette accanto alla serva del Creatore.
- Sei venuto qui per parlare con Judith? – gli domandò ella.
- Sì.
- Non preoccuparti, non sei l’unico: non la lasciano vedere neanche a me.
Dicono stia troppo male… eppure, loro possono parlarle, e anche padre Craig questa mattina ha potuto salutarla, prima di andarsene. Sembra quasi che solo i “messaggeri di dio” siano degni di rivolgerle la parola in un momento tanto critico.
- Sai già che padre Craig è tornato ad Armelle?
La ragazza sorrise amareggiata, in risposta. – Egli è un uomo che non lascia nulla al caso: mi ha lasciato una lettera, davanti alla porta di casa, questa mattina.
- Qualcuno te l’ha già letta?
- No. Immagino lui abbia pensato che me la sarei fatta leggere da te, da Quaglia o da Judith.
Anche se, molto probabilmente, sapeva mi sarei rivolta a te, in ogni caso.
- Perché ti saresti comunque rivolta a me?
Hinedia si voltò a guardarlo.
Era una domanda complessa, a cui rispondere.
Una domanda che conteneva in sé sin troppe risposte.
- Mi è sempre piaciuto ascoltarti leggere. Fin dalla prima volta che lo hai fatto per me – ammise semplicemente. – Ma, stavolta, ho deciso di non volere che nessuno me la legga.
- Per quale ragione?
- Voglio che rimanga qualcosa di sacro e segreto.
È come se… il non leggerla mi facesse sperare che, un giorno, lo rivedremo, e che potrà dirmele a voce, le parole che ha scritto su quel foglio.  
Anche Hinedia stessa percepiva l’atmosfera di addii, nell’aria.
Forse, quello era il momento giusto per confessare l’inconfessabile, e accettare qualunque punizione il ragazzo avesse voluto darle, per aver ucciso suo padre.
Per averlo ucciso senza una motivazione.
Per averlo ucciso perché avevo paura potesse farti del male.
Sarebbe mai esistita una spiegazione più difficile a cui credere?
Si erano conosciuti esattamente lì, in quella navata.
In quel periodo, sua sorella era in fin di vita.
E quel ragazzo… quel servo del Diavolo, come se nulla fosse, le si era accomodato vicino, quasi come se non esistessero differenze tra servi del Diavolo e servi del Creatore, quasi come se fosse normale, per un servo del Diavolo, sedersi casualmente vicino ad un servo del Creatore.
E da quel giorno… era cambiato tutto.
Era cambiato il suo modo di vedere il mondo che la circondava, in particolar modo.
Forse per questo Layla, la parte di lei più intima, arcana e sanguigna, era così attaccata a Blake.
Lui le aveva insegnato a credere nell’unione, nell’uguaglianza, nell’eliminazione di differenze tra servi del Diavolo e del Creatore; ed era stato grazie a ciò che aveva dato fiducia anche a Judith.
Grazie alla fiducia e alla gentilezza che le aveva donato Blake, per primo.
“- E voi? Cosa pensate?
- Non lo so con precisione. Io continuo a pregare il mio Signore. Soprattutto ora che mia sorella è malata. Devo pregarlo il più possibile, per fare in modo che ella continui a vivere, almeno per un altro po’.
- E credete che pregarlo strenuamente salverà la vita di vostra sorella?
- Io non posso fare a meno di crederlo.
Non potrei pensare di fare nient’altro.
E voi?
- L’avete detto voi stessa: non dovrei essere qui.
- No, non dovreste ma … non state peccando, stando seduto qui accanto a me.
- Se continuerete a pregare qui per vostra sorella ogni giorno, ci rivedremo.
- Vi auguro una buona guarigione. Per le vostre mani.
- Vi ringrazio.”
Blake le aveva anche insegnato a non credere a tutto quello che dicevano i monaci.
In così poco… come aveva fatto a cambiarla tanto?
E poi, poi c’era stata la scoperta di una dimensione sconosciuta… più materiale e carnale.
Aveva imparato a guardare la sua bellezza senza timore, senza distogliere lo sguardo, senza sentirsi inadeguata, sbagliata, inferiore.
Osservare la bellezza di quel ragazzo pienamente, metabolizzandola, senza spaventarsene, le aveva fatto comprendere che non c’era nulla di sbagliato neanche nel sentirsi più donna, nel riscoprire la propria carnale femminilità, nel momento in cui provava per lui sensazioni e stati d’animo che esulavano dalla sfera dell’innocenza e del candore.
Era amore quello che provava per lui?
Il tipo di amore che avrebbe dovuto provare per il suo sposo?
Forse lo era.
Ma se lo era, non era un amore esigente, né impaziente o possessivo.
Era un tipo di amore dolce, arrendevole, buono, giusto.
Un amore che non poteva essere sbagliato, anche se i testi sacri dicevano il contrario.
Un amore che sarebbe stato felice, di vederlo stare bene accanto a Judith.
E se Layla pensava il contrario… Layla non era lei. Layla era solo una parte di lei che, senza l’influenza di Agnes, diventava un individuo distinto.
A tale conclusione era giunta.
- Te ne andrai di qui? – gli domandò, voltandosi a guardare il profilo del ragazzo.
Invece di confessare il delitto, gli aveva posto quella domanda, e non se ne pentiva.
- Sì.
Parlerò a Judith, poi me ne andrò.
Ogni giorno mi animerà la speranza che voi stiate tutti bene, che le truppe di Ruben siano arrivate in tempo per difendervi.
- Non preoccuparti per noi.
Non devi. Se trascorressi la vita a rimpiangere ogni cosa e ad angustiarti per il destino di tutti quelli che ami… faresti prima a toglierti la vita preziosa che ti è stata donata – disse la fanciulla. – Salvati, Blake. E… ti prego di provare a dimenticare il male che ti è stato fatto.
- L’ho già dimenticato – rispose lui, sapendo bene a cosa la ragazza si stesse riferendo.
Si voltò a guardarla. – Non angustiarti neanche tu, per me. Quello che è successo, è successo, Hinedia. Non si può cambiare e ho la grande fortuna di non ricordare nulla, se non il dolore che ne è venuto dopo. Spero solo che tu… riesca a vivere degnamente, accanto ad un uomo simile.
Mi addolora saperti sposata a lui, perché se ha fatto del male a me e a Judith, so che ne farà anche a te.
Per questo voglio che tu faccia attenzione. A prescindere da quello che accadrà a questo villaggio.
- Mi farò valere, te lo prometto.
- Alla fine, lo hai scoperto? – le domandò il ragazzo.
- Che cosa?
- Se vale la pena pregare. Se il tuo dio ascolta le tue preghiere – le rispose, riferendosi al loro primo incontro.
Hinedia non poté essere più felice, che anch’egli ricordasse ogni parola che si erano scambiati quel giorno lontano.
- Sì, l’ho scoperto.
Blake non le chiese altro.
Si alzò in piedi e fece per andarsene.
- Ti rivedrò, un giorno? – gli domandò a gran voce la ragazza, a distanza. L’eco di quelle parole rimbombò per tutto il monastero.
- Spero vivamente di sì – le rispose lui, rivolgendole un ultimo sorriso, per poi continuare per la sua strada, e uscire dalla cattedrale.
 
 
 
“Si osservò i piedini, immersi nell’acqua trasparente della riva.
Era un evento irripetibile, che suo padre lo portasse al mare, laddove le navi approdavano.
Il porto non era vicino al suo villaggio, ci volevano giorni di cammino per arrivarci.
Ed era ancora più strano che sua madre li accompagnasse.
I piedi nudi si muovevano con le dita tra i sassolini sottostanti, che facevano un male cane, ma erano comunque bellissimi da guardare, motivo per cui rise, felice.
Poi, la luce del sole che si rifletteva sull’acqua illuminò un frammento di qualcosa.
Non sembrava né una perla, né una conchiglia.
Ruben infilò la manina dentro l’acqua e afferrò quello strano frammento luminosissimo e tagliente.
Lo alzò verso l’alto, sopra la sua testa, e lo osservò controluce.
I capelli chiari gli svolazzavano ovunque, di qua e di là, ed erano più spessi e più voluminosi del solito, perché li aveva bagnati con l’acqua marina ed erano pieni di sale.
- Ruben! Sto arrivando! Ti prendo!
Neanche ci provò a scappare, nonostante avesse sentito benissimo quella voce.
Philippus lo afferrò da dietro e lo prese in braccio senza fatica, facendo gocciolare le sue gambe zuppe di acqua salata ovunque tirasse il vento.
Ruben si voltò verso di lui e gli sorrise. – Ho trovato un diamante, papà.
- Un diamante..? Fa’ vedere – disse lui, prendendo la manina di suo figlio e osservando il frammento. - Davvero strano. I diamanti non dovrebbero stare in mare. Dimmi, Ru, cosa ti sembra questo mare? - gli domandò l’uomo, con gli occhi che cambiavano colore ogni volta che il sole picchiava su di loro un po’ più forte.
Ruben si voltò a guardare ancora una volta quella distesa trasparente. – Vetro. Sembra vetro.
Philippus scoppiò a ridere in risposta, stringendolo ancora di più.
Il bambino cercò di ribellarsi alla sua stretta, ma non servì a nulla. Più si ribellava, più suo padre lo stringeva sempre più forte.
- Perché ridi tanto?
- Perché stai sminuendo il mare!
- Non lo sto sminuendo – replicò prontamente il bambino. – A me piace il vetro.

- A te piace toccare tutto ciò che è trasparente – replicò Philippus. – E come riconosciamo il vetro e il mare? Sentiamo – lo mise alla prova.
Il bambino si voltò di nuovo verso quella distesa infinita, ma solo di profilo, in quanto la stretta di suo padre non glielo permetteva.
Avrebbe voluto dirgli di lasciarlo andare.
Di lasciarlo libero di sperimentare.
Ma non lo fece.
Guardò di striscio il mare, poi tornò a guardare suo padre, che lo osservava in aspettativa.
Il bambino sorrise. – Esattamente come riconosciamo le persone: dalla bocca.
Quello era un gioco che aveva inventato sua madre.
Sua madre diceva che le persone si riconoscevano dalla bocca.
Non dagli occhi, non dal naso o dai capelli, bensì dalla bocca.
La bocca era la parte più riconoscibile, più unica e caratteristica di ogni essere umano.
Non potevano esistere due persone con una bocca uguale.
Però potevano esistere due persone con il naso uguale, o con gli stessi capelli.
Invece la bocca no, la bocca era quella e basta.
A ciò, fecero la prova del nove, quella che facevano sempre, seguendo tale logica: Philippus gli pose una mano grande sul volto, in modo da coprirgli tutta la parte superiore del visino, e da lasciare scoperta solo la bocca.
- Ora so che sei mio figlio: questa è la tua bocca – decretò giocosamente, poi liberando il suo viso dallo schermo della mano.
Ruben sorrise in risposta. - Dovremmo tappare gli occhi anche al mare, papà. Così scopriremo se è davvero il mare… o solo una distesa di vetro.”
Ruben aprì gli occhi di scatto, in seguito a quel ricordo che gli era apparso in sogno.
La nave traballava pericolosamente.
Una tempesta, la prima di tutto il viaggio, piombò su di loro, facendo scuotere la nave come una pallina calciata da dieci piedi diversi.
Il ragazzo uscì dalla sua cabina in condivisione con il resto della ciurma e dei suoi compagni d’arme, e uscì a prua, trovandola allagata, e affatto stabile.
Perse l’equilibrio e cadde a terra, sulle ginocchia.
Quel piccolo contrattempo li avrebbe rallentati e, forse, sarebbe stato fatale.
La sua terra natale era lì, lontana ma vicina, riusciva persino a vederla…
Ancora un altro sforzo… e sarebbero approdati.
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo tempestoso e colmo di fulmini, mentre le orecchie gli vennero magicamente invase da una voce, intenta ad intonare una litania sconosciuta:
“Cala la luna, cala la luna
Cala la luna, il cielo la inghiotte
Cala la luna, cala la notte
Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù”
 
 
 

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Capitolo 64
*** Il Dio Sanguinario ***


Il Dio Sanguinario
 
 
CRAIG
 
Il legno di cui era composta la chiesa di Armelle era vecchio e marcio.
Nulla in confronto ai materiali resistenti e alla maestosità architettonica delle cattedrali di Bliaint, le quali sembravano due mausolei, se messe a confronto con quel buco, maleodorante e privo di grazia.
Craig si fece il segno della croce, accomodato placidamente dentro quella chiesa, la stessa che frequentava sempre fin da bambino e che, per quanto fatiscente e bruttina, conteneva dei preziosi ricordi d’infanzia.
Il suo crocefisso, che mai abbandonava il suo collo, era ora adagiato sulle sue gambe.
- Sei stanco? – quella voce familiare attirò la sua attenzione, facendogli alzare gli occhi verso la fonte, la quale si stava accomodando accanto a lui.
La presenza di padre Archy era stata pari a quella di una figura paterna, nella sua vita.
L’uomo aveva un accennato sorriso stampato sul volto. – Devo ancora abituarmi a riaverti qui.
I preti del suo villaggio natale erano stati così misericordiosi con lui, in onore dell’affettuoso legame che li univa, che gli avevano permesso di rinnegare i propri voti, per vivere come un uomo comune, oltre a non avergli posto domande riguardo al fatto che fosse sparito per quasi un anno, senza fare mai ritorno, mettendo radici in quel villaggio maledetto e leggendario.
Le loro domande, così come quelle di tutti gli inconsapevoli abitanti di Armelle, aleggiavano in aria, senza trovare mai risposta.
Così i loro sguardi. Sguardi dubbiosi, curiosi, giudicanti.
Eppure, Craig non poteva davvero lamentarsi per l’accoglienza che gli era stata riservata, dopo un anno di assenza, nessun contratto commerciale stipulato, e nessuna intenzione di continuare ad essere ciò che non si sentiva più di essere.
Forse, il suo volto era talmente pietoso, da averli mossi tutti a pietà al solo guardarlo, persino i più duri tra loro.
- Sono tornato solo ieri, padre Archy. Avrai tempo per abituarti a riavermi qui – gli rispose placido, senza guardarlo.
L’uomo, dal canto suo, sospirò.
Ahimè, per quanto Craig ci provasse, non riusciva più a non accorgersi dell’immane differenza nell’igiene e nella pulizia tra gli abitanti di Bliaint, e quelli di qualsiasi altro villaggio, Armelle compreso.
Improvvisamente, si domandò se anch’egli puzzasse tanto di sudore, di sporco e di “non lavato”, quando era giunto per la prima volta a Bliaint.
In ogni caso, se anche così fosse stato, nessuno glielo aveva fatto notare.
Gli abitanti di Bliaint lavavano diligentemente il loro corpo ogni giorno, lavavano i loro vestiti e le loro lenzuola ogni giorno, pulivano e sistemavano le loro dimore ogni giorno, ed erano abituati a lavarsi persino i denti, con uno strano elemento che aveva scoperto non essere sapone, bensì una pastosa sostanza bianca perlacea, profumata di fresco, che faceva profumare anche le loro bocche di fresco.
Tutto ciò, senza distinzione tra servi del Diavolo e servi del Creatore.
Gli abitanti di Bliaint avevano sempre un aspetto lindo, profumavano sempre di pulito, tenevano molto all’igiene e alla presentabilità al pari della cordialità, ospitalità e altre buone qualità.
Ad Armelle, invece, non si erano mai curati di cose come l’igiene.
Per entrare nel Regno dei cieli non serviva essere puliti.
La conseguenza a ciò era a dir poco evidente, purtroppo. I loro fiati emanavano un odore rivoltante, i loro denti marcivano già in giovane età, i loro capelli erano spesso unti e poco folti, la pelle colma di imperfezioni, i vestiti palesemente usurati, sporchi e talvolta anche macchiati.
Prima di andare a Bliaint non si era mai accorto di tutto ciò.
Viveva nella totale inconsapevolezza, e non solo per quanto riguardava la cura della persona.
Ora invece… ora che aveva scoperto qualcosa di totalmente diverso, di innovativo, di così giusto, così bello, così sensato… riusciva a scorgere dettagliatamente tutti i difetti della sua terra natia, una terra a cui non sarebbe più stato in grado di uniformarsi.
Perché quella, oramai, non era più la sua terra.
Dopo aver trascorso dieci mesi a lavarsi i denti… smettere di farlo era quasi fisicamente doloroso.
La domanda che voleva porgergli il buon padre la sentiva aleggiargli intorno, sin dal giorno prima.
Ma non gli venne ancora posta.
- Allora, è vero quello che dicono di loro? – gli domandò invece padre Archy, lasciando trapelare un quesito ben più superficiale e infantile, animato da una genuina curiosità pettegola.
- Cos’è che vuoi sapere, esattamente? – gli domandò Craig.
Perché sei rimasto lì tutto questo tempo?
Di che incantesimo sei stato vittima, per voler restare ancorato in una terra straniera, in cui non saresti mai stato visto come benvenuto?
Chi ha attirato la tua attenzione a tal punto, da spingerti a non voler mai più fare ritorno a casa?
- Nulla. Solo se le voci che circolano su di loro corrispondono a realtà almeno un po’: le donne, le serve del Diavolo, sono davvero in grado di far cadere ai loro piedi il sole e la luna insieme? E i servi del Creatore, invece, sono dei mostri che fanno paralizzare la vista al solo guardarli, come si dice?
Craig non poté fare a meno di sorridere tra sé e sé.
Buffo. Buffo, come l’animo umano volesse sempre sapere prima riguardo la bellezza, più di qualsiasi altra cosa.
La bellezza attirava chiunque, mostri e demoni, uomini e dèi, ninfe e arpie, spiriti e animali.
- Il sole e la luna insieme – ripeté ad alta voce Craig, senza un motivo in particolare. – A Bliaint ho visto donne capaci accecare un essere vivente con la propria bellezza. E non solo le donne – si premurò di aggiungere.
Padre Archy sgranò genuinamente gli occhi scuri. – Gli uomini non posseggono la bellezza, Craig.
Giusto. Ad Armelle tutto ciò che non era donna non era desiderabile.
Di conseguenza… le donne non potevano far altro che rendersi desiderabili.
Qualunque donna non si rendesse desiderabile era una strega.
Qualunque uomo si rendesse desiderabile… non era mai accaduto, e non era neanche da prendere in considerazione.
- Che mi dici del Diavolo, allora?
Lui è classificabile come donna, dunque? – gli pose quella domanda volutamente provocatoria.
- Il Diavolo era un angelo, non un uomo.
È una creatura ultraterrena. Non fare paragoni stupidi – controbatté il prete. – Ed i mostri, invece?
I mostri.
Craig ripensò al dolce sorriso di Hinedia, alla pace che riusciva a trasmettergli.
Poi pensò anche alla fuggevole e sudicia immagine di Naren (un’immagine che fortunatamente non ricordava affatto, per la propria salute mentale), che si sfogava sessualmente come una bestia sui corpi di Blake e di Judith.
E realizzò, come aveva già fatto molte volte, che la mostruosità non si poteva misurare dalla bruttezza del proprio aspetto esteriore.
A Bliaint c’erano tanti mostri. Ma non tutti erano servi del Creatore.
- Sono orribili. Esattamente come dicono – gli rispose. – Tuttavia… devo dire che nel nostro villaggio ho visto gente persino più brutta – aggiunse poi, lasciando il buon prete perplesso.
Quest’ultimo si voltò a guardarlo. Lo sguardo spaesato e al contempo affettuoso, colmo di un tipo di pietà buona, caritatevole e amorevole.
- Non sono qui per giudicarti – gli disse all’improvviso. – Sei stato un mio fratello, davanti a Dio. Nutro un rispetto spropositato per te, Craig Daviston.
- Lo stesso vale per me, padre.
- Ti ho visto crescere, nonostante non ci dividano troppi anni di differenza.
Mi ricordo di te sin dal tempo in cui ti arrampicavi sugli alberi troppo più alti di te per raccogliere le mele, fino al momento in cui hai sentito la chiamata di Dio, e i tuoi occhi si sono illuminati di Fede.
Un fratello, un figlio, un compagno nella Fede.
Questo sei, per me.
Per questo io non ti giudicherò.
Quando io e gli altri padri più maturi abbiamo scelto te, come inviato da mandare a Bliaint, lo abbiamo fatto perché ci fidavamo ciecamente di te, del tuo giudizio, della tua mente salda e forte.
- Vi ho deluso.
- No, non ci hai deluso, figliolo.
Chiunque di noi avrebbe potuto venire abbagliato, da qualsiasi cosa ci sia in quel luogo.
Non parlare come se ci fosse Satana a Bliaint.
Perché sì, probabilmente c’è anche Lui, ma io non l’ho mai visto, e di Lui non mi è mai interessato nulla.
- Io ti conosco, ragazzo mio.
So leggere i tuoi occhi.
E, in questo momento, nei tuoi occhi vedo tanto dolore – proseguì l’uomo. – Un dolore che non ho mai veduto in vita mia. Ora, tale dolore è nei tuoi occhi.
- Vuoi sapere che cosa ho lasciato in quel luogo?
Perché non me lo chiedi?
Perché non mi poni la domanda che tutti mi vogliono porre?
- Qualsiasi cosa tu abbia lasciato lì… è più grande e importante di tutto ciò che ti lega qui.
Una lacrima gli rigò la guancia nell’udire tali parole. Se la asciugò subito, ma venne immediatamente rimpiazzata da un’altra.
- Tua madre è molto malata, oramai da anni, Craig.
Hai avuto modo di darle l’ultimo saluto, tra ieri e oggi.
Tuo padre è perito prima della tua nascita. Non hai alcun parente in vita.
A parte la buona gente fedele di questo villaggio, che si rivolgeva a te per le confessioni… non c’è nulla che ti lega ad Armelle.
Persino noi, che siamo stati i tuoi fratelli nella Fede, che abbiamo vissuto, mangiato e pregato con te, sento che non siamo all’altezza di tutto ciò che ti sei lasciato indietro, in quel villaggio.
Nulla lo è.
Nulla lo sarà mai.
- Mi stai dicendo di tornare indietro, padre?
Mi stai dicendo di rinnegare le mie origini, per trascorrere la vita in un villaggio straniero?
Un villaggio che è diventato la mia casa più di quanto questa lo sia mai stata?
Un villaggio colmo della risata sguaiata di Quaglia?
Un villaggio che rinasce con i dolci occhi di Hinedia?
Un villaggio che si illumina quando Ioan sorride?
Un villaggio che vive di vita propria quando Judith apre gli occhi al mattino?
Un villaggio che si anima e rimbomba come un cuore umano, ogni volta che Blake cammina sopra di esso?
- Sì, è proprio quello che ti sto suggerendo, figliolo.
Se Dio ti ha portato lì e ha fatto in modo che ci restassi per tutto questo tempo… allora Dio ha dei piani per te, lì.
E anche se non li avesse… oramai non sei più un uomo di Dio. Sei libero di vivere come preferisci. Non hai più alcun obbligo verso il tuo villaggio natale.
Non devi nulla ad Armelle, figliolo.
Dunque, non sprecare la tua giovane vita rinnegando qualcosa che ami.
Non voglio vederti rovinarti in questo modo.
- Se decidessi di ripartire per tornare lì… - azzardò Craig, posando gli occhi disperati verso padre Archy. – Non vi rivedrò più. Lascia che rimanga qui per una settimana almeno. In modo che io possa decidere se il mio cuore è davvero pronto, a tornare lì. Intanto, trascorrerò del tempo con la mia vecchia famiglia, qui – propose Craig, guadagnandosi una risata sincera da padre Archy.
- Oh, figliolo, sarebbe un’idea magnifica!
Tuttavia… temo che, se non partirai il prima possibile… sarà troppo tardi.
- Cosa intendi? – gli domandò Craig, ora confuso. – Parla.
- Girano voci, sul fatto che i soldati di quel conte straniero approdati sul nostro continente… siano quasi giunti a Bliaint.
- Impossibile. Erano fermi a Carbrey.
- Lo erano. Sono ripartiti. Carbrey dista molto poco da Bliaint. Quasi quanto vi dista Armelle.
Se giungeranno lì… non so cosa accadrà alle persone che ami, figliolo.
Da una parte vorrei che tu restassi qui, al sicuro… dall’altra, so che, se vivessi con la consapevolezza di non esserci stato, quando Bliaint verrà rasa al suolo, ciò ti distruggerebbe da dentro, facendoti crollare.
Craig scattò in piedi, il corpo divenuto un unico fascio di nervi impazziti.
- Le voci non dicono che un’altra nave è approdata…? Una nave proveniente dall’oriente.
Le truppe di Ruben avrebbero dovuto già essere lì.
Avrebbero dovuto…
- No. Nessuna nave proveniente da oriente, in nessun porto.
Se partirai oggi stesso, con un cavallo… forse riuscirai ad arrivare prima dei soldati stranieri.
Craig non ci pensò un secondo.
Sapeva già cosa fare.
Era stato uno stupido, infinitamente, assurdamente stupido e ingenuo.
Come poteva aver pensato, anche solo per un momento, che Bliaint fosse al sicuro?
Era convinto che le truppe di Ruben sarebbero arrivate in tempo.
Ne era certo, le predizioni di Ephram non sbagliavano quasi mai.
Come aveva potuto essere tanto ottimista, illudersi a tal punto?
Con il cuore in gola, ripreparò il suo sacco con le provviste e i viveri necessari per il viaggio.
Si diede il tempo di salutare solo padre Archy, poi montò a cavallo, sulla puledra più vispa e veloce che lo stalliere del villaggio aveva a disposizione, diretto verso l’unico luogo che sentiva appartenergli.
Per la prima volta dopo giorni, ripregò Dio.
Ripregò Dio, e per la prima volta in assoluto, pregò anche il Diavolo.
Li supplicò di arrivare in tempo, di arrivare prima di loro.
Padre Archy aveva ragione, più nulla gli sarebbe importato. Tutto ciò che voleva, era trascorrere gli ultimi momenti con loro.
Avrebbero trovato un modo per nascondersi, per fuggire, avrebbe trovato il modo di frantumare l’orgoglio di “popolo eletto” che li ricopriva, e di far risplendere sulle loro menti il lume della ragione, del buon senso, dell’istinto di sopravvivenza.
Avrebbero trovato un modo, una soluzione, se Ruben non fosse giunto in tempo.
Avrebbe combattuto lui stesso per proteggerli, a mani nude, se fosse stato necessario.
Vi prego…
Vi prego, ascoltate la mia ultima richiesta.
Permettetemi di giungere lì in tempo.
Per confessargli quello che non ho mai avuto il cuore e l’audacia di confessargli.
Ora sono pronto.
Quattro giorni dopo, sorpassò i confini di Bliaint con la puledra in procinto di stramazzare a terra per il ritmo inumano della cavalcata.
Craig scese da cavallo e si diresse verso la dimora che aveva imparato a chiamare casa.
Bussò alla porta per cinque minuti filati, ma nessuno aprì.
Pensò che stessero dormendo, in fondo era sera e la strada era semivuota.
Sin troppo vuota.
- Perché bussate alla porta? – gli domandò una donna, l’unica che passava da quelle parti in quell’istante. Ella lo fissava sbigottita, come se lo stesse guardando dare da mangiare a degli avvoltoi.
- Cosa intendete? – le domandò l’uomo, facendo un passo verso di lei.
- Non lo sapete?
- Sapere cosa…?
- La casa del proprietario della galleria è vuota ormai: Blake è stato arrestato e imprigionato dai monaci. Lo giustizieranno domani mattina.
 
- 12 ORE PRIMA -
 
JUDITH
 
- Aaaaaaaaaah! – urlò a squarciagola la ragazza, mentre i monaci più robusti la trasportavano dentro una stanza sotterranea, la più attrezzata di entrambe le cattedrali, per i parti.
Judith si dimenava disperata, in preda ai dolori del parto.
Era da un giorno intero che era iniziato il travaglio.
Un travaglio lungo e sfinente, che non sapeva quando avrebbe avuto fine.
Alcune donne dicevano che il travaglio poteva durare anche più di tre giorni.
Judith sperò che non fosse il suo caso, altrimenti si sarebbe tolta la vita prima.
Quel dolore era il più inumano che avesse mai provato e si domandò più volte, durante quelle lunghe ore, per quale motivo il Creatore avesse deciso di rendere la nascita di una nuova vita tanto dolorosa per gli esseri umani.
Il Creatore doveva essere un sadico, esattamente come aveva sempre pensato.
Un sadico che odiava le donne, in particolare.
Si dimenò e sgambettò, urlando disperata, mentre i monaci stentavano a tenerla ferma.
La adagiarono su un letto spoglio, dentro quella specie di cripta buia, che venne immediatamente illuminata dalle fiaccole.
- Sta’ calma, Judith! – cercò di rassicurarla padre Petrit, stringendole la mano. – Presto questo dolore finirà!
Judith avrebbe voluto ridergli in faccia, ma continuò ad urlare.
La levatrice del villaggio era morta di recente, a causa della febbre gialla.
Dunque, essendo l’unica donna rimasta in grado di far nascere bambini, Bliaint era rimasta senza nessuno in grado di farla partorire.
Una situazione tra le più rosee.
I medici del villaggio non volevano prendersi la responsabilità di far nascere tre gemelli, non avendo le competenze giuste per far partorire una donna.
Dunque, gli unici che potevano aiutarla, erano essenzialmente i monaci.
- Vedrai, dentro la biblioteca troveremo sicuramente qualche libro di medicina, che ci istruirà sul da farsi! – cercò di rassicurarla padre Thomas.
Judith urlò ancora, piangendo dal dolore.
- Ora cerca di rilassarti, cara… La tua apertura non è ancora dilatata.
Judith lo guardò negli occhi, trovando la forza di parlare:
- Il padre dei miei figli… è venuto a cercarmi, nel corso degli ultimi giorni? – domandò, con voce rotta e dolorante.
- No – mentì padre Thomas.
Judith affilò lo sguardo. Nonostante fosse sofferente, riusciva ancora a capire quando gli uomini che l’avevano cresciuta le mentivano. – Siete sicuri…? Blake non ha mai chiesto di me, nonostante sappia che ho raggiunto la data del parto?
- No, mai – ripeté l’uomo.
A ciò, nonostante il dolore la stesse uccidendo neanche troppo lentamente, Judith colse quell’occasione di estrema criticità per farsi strappare una promessa:
- Non importa…
So che state aspettando che io partorisca per approfittare della situazione e imprigionarlo… avete intenzione di giustiziarlo, da diverso tempo…
Siete come dei libri aperti per me…
- Judith…
- No, ascoltatemi! – urlò, prendendo padre Thomas per la tonaca e portandoselo più vicino, con violenza. – Io non vi permetterò di toccarlo. Sono stata chiara? Anche se dovessi morire durante il parto, farò in modo che voi non sfoghiate le vostre frustrazioni e il vostro odio su di lui.
Quando i gemelli saranno nati… se scoprirò che voi lo avete fatto bruciare al rogo mentre ero impegnata a partorire… porterò via i miei figli da Bliaint… e con loro, me ne andrò anche io. Non mi rivedrete mai più.
- Judith, non puoi farlo…!
- Posso, e lo farò.
Mi autoesilierò.
E anche se dovessi morire nel metterli al mondo… vi sarà qualcun altro a portarli via di qui, per me, qualcuno perfettamente in grado di fare le mie veci – disse con decisione di ferro, nonostante la voce tremante dal dolore.
I suoi occhi erano fuoco puro, fuoco di insania.
Padre Thomas e padre Petrit ne furono spaventati e paralizzati.
- Promettete… che non toccherete Blake.
- Lo promettiamo.
- Bene. Ora lasciatemi urlare a squarciagola in pace. Uscite di qui.
 
 
MONA
 
I singhiozzi di Gwen coprivano qualsiasi altro rumore, in quella casa: il rumore del coltello che pelava nervosamente decine e decine di patate, il vociare delle persone fuori dall’abitazione, che si accingevano a fare compere al mercato.
Mona scostò la tenda della finestra, osservando il movimento della gente, fuori casa.
La ragazza aveva un occhio nero, tumefatto, e diversi altri ematomi sparsi lungo il bel corpo.
Sua madre non aveva preso bene la notizia dello stupro di massa, e, naturalmente, se l’era presa non tanto con i violentatori, quanto con la figlia stessa, la quale non avrebbe dovuto partecipare a quel matrimonio a prescindere.
Nonostante Mona, né nessun’altra delle vittime, potesse lontanamente prevedere cosa sarebbe accaduto quella notte, dopo i festeggiamenti, la matrona della casa era moralmente obbligata a punire le proprie figlie, a mortificarle, qualsiasi disgrazia accadesse.
Questi erano sempre stati gli insegnamenti in casa sua: devozione totale verso il Signore, divieto di intrattenere qualsiasi contatto con i servi dell’altro credo, rispetto, obbedienza assoluta alle autorità.
La madre continuava a tagliare nervosamente le patate, mentre la più piccola piangeva, seduta al tavolo.
- Smettila di frignare, Gwen – le ordinò la donna, scocciata.
La bambina, a ciò, tirò su col naso. – Non riesco a smettere… - confessò.
- Il mare è pieno di pesci – commentò freddamente la donna. – Ne troverai un altro, bello come lui e sicuramente più devoto al Signore: quella famiglia non ha una buona fama.
Mona non ne poté più: la madre poteva scagliarsi contro di lei tutte le volte che voleva, ma non poteva permetterle di trattare in tal modo Gwen. – Vuoi smetterla? – ebbe l’audacia di dirle, spingendola a voltarsi verso di lei, con occhi spiritati e rabbiosi.
- Che cosa hai detto, ragazzina? – le rispose sua madre, facendola tremare, al ricordo di quelle mani ruvide e brutali sulla propria pelle.
- Smettila di prendertela con lei.
Le piace un ragazzino, della sua età, un servo del Diavolo, esattamente come noi.
Non ha fatto nulla di male. È normale che Ioan le manchi.
Avrebbero dovuto vedersi da giorni, ma di lui non c’è più alcuna traccia.
Perché non riesci a provare un po’ di compassione o empatia per lei? – continuò la ragazza, vedendo gli occhi di sua madre iniettarsi di sangue sempre più.
- E tu cosa ne sai del provare attrazione verso qualcuno, svergognata?? – iniziò ad alzare la voce, raggiungendola a grandi falcate. Mona si riparò con le mani, ma non servì a nulla: la donna le mollò un feroce schiaffo sulla guancia, giusto per scaldarsi un po’.
Gwen urlò di spavento.
- Ti sei fatta stuprare da quei rifiuti umani!
Loro non possono toccarci! Lo dicono i libri sacri!!
Meriteresti il rogo, tu e quei maniaci!!
- Non sono stata l’unica a subire un trattamento del genere!!
Eravamo incoscienti, tutti noi!
Te l’ho già detto, mamma! Hanno approfittato di noi quando non eravamo in noi, eravamo tutti drogati pesantemente!! Come posso fartelo capire?? – urlò, mentre la donna le tirava i capelli, sorda ad ogni sua parola, come lo era sempre stata.
- Dovevate fare più attenzione!!
Adesso il tuo spirito è corrotto, perché ti sei fatta toccare dai servi del Creatore!!
Tutto di te è corrotto!! Da buttare via!
Con che coraggio cercherai un marito, dopo quello che ti sei fatta fare?!
- Te lo ripeto: eravamo decine e decine! Non sono stata l’unica a venire abusata!
Non potevamo ribellarci, non ne eravamo in grado!!
- Mamma, ti prego, lasciala… - la supplicò Gwen, dal tavolino.
- Tu sta’ zitta! Ne ho anche per te, se vuoi!
- Se devi prendertela con qualcuno, prenditela con me! Non con una bambina che piange perché le manca il suo giovane amore! Gwen non ha colpe!
- Allora perché non vai in casa Rolland e non chiedi al fratello o alla madre per quale motivo quel piccolo disgraziato non si è fatto più vedere né sentire??
- Per gli Inferi, è un bambino, mamma! Potrebbe essergli accaduta qualsiasi cosa!
- Allora va’ da loro e chiedi di vedere Ioan, fa’ le veci di tua sorella!
Se davvero Gwen ci tiene tanto a lui, lo sposerà tra qualche anno! Devo essere sicura che andrà in sposa a un ragazzo per bene, e non ad un mascalzone che si dimentica di lei da un giorno all’altro!
Va’, almeno sarai utile a qualcosa! – esclamò tirandole ancora i capelli, facendola urlare di dolore. – Ricorda una cosa, Mona: finché il tuo animo non compirà un gesto di giustizia, di coraggio, di fede estrema e di onore, la tua anima macchiata non troverà mai pace e non sarà mai accetta al nostro Signore!
- Che cosa intendi…?
- Che il Signore ti disprezza.
Perché i servi del Creatore ti hanno disonorata.
Quindi, ora, devi fare qualcosa per riscattarti.
Se non lo farai… quando morirai, la tua anima soffrirà pene e dolori fino all’eternità, in quanto il Diavolo non ti accoglierà tra gli eletti che siederanno al suo fianco!
Ti rigetterà! Finirai come i due amanti suicidi! Anzi, peggio!
- No! No, non è vero!
- Sì, invece!
E ti disconoscerò anche come figlia!
Io non la voglio, una figlia impura.
Tutto ciò che toccano i servi del Creatore è impuro.
Dunque, trova il modo di riscattarti, prima che sia troppo tardi, squilibrata!! – concluse la donna, strattonandole la chioma di capelli un’ultima volta, per poi lasciarla andare, facendole perdere l’equilibrio e cadere a terra.
Quando la donna si fu allontanata da lei, Gwen corse subito in aiuto della sorella, aiutandola a rimettersi in piedi.
Gli occhi tumefatti di Mona erano cosparsi di lacrime, mentre accettava l’aiuto della sorellina.
- Ti ho appena detto di sbrigarti ad andare in quella casa di disgraziati e di chiedere di Ioan!
Non ne posso più di sentire tua sorella lagnarsi per quel ragazzino!
Mona si rimise in piedi, e, con lentezza provocata dal dolore degli strattoni e dei colpi ricevuti anche nei giorni precedenti, prese il mantello e uscì di casa, diretta verso l’abitazione dei Rolland.
E mentre la giovane donna camminava, un solo pensiero riempiva la sua testa plagiata e annientata:
Riscatta la tua anima.
Fa’ qualcosa di onorevole, di estremamente giusto.
Dimostra che la tua Fede supera ogni cosa, e la tua anima si salverà.
 
 
 
QUAGLIA
 
Più si sforzava di comprenderlo, maggiormente quel ragazzo sfuggiva al suo controllo.
Erano giorni che provava a vedere Judith, senza successo, a causa dell’irremovibilità dei monaci.
Al contempo, erano giorni che Ioan era scappato, raggiungendo il porto, da cui sarebbe partita la nave che avrebbe dovuto portare i due fratelli lontano da lì. Al sicuro.
Eppure, l’anello di tracciamento che indossava Ioan indicava che la nave era ancora al porto. Non era partita. A quanto pareva, Ioan era riuscito a convincerli ad aspettare, ad aspettare fin quanto fosse necessario, l’arrivo di Blake.
Dunque c’era ancora speranza per lui. C’era ancora una possibilità. Di scappare, di salvarsi.
Eppure, il ragazzo era ancora lì.
E vedendolo lì, impegnato ad alimentare il fuoco nella fornace della fucina ardente, a Quaglia vennero dubbi riguardo il fatto che fosse ancora lì solo per Judith.
Lo era anche per lei, sicuramente, ma c’era dell’altro.
C’era sempre dell’altro, quando si trattava di quella creatura.
Quaglia, a volte, si domandava se fosse davvero un semplice ragazzo di diciassette anni, come diceva di essere.
Sembrava esserlo, in tutto e per tutto: la sua carne era calda, morbida, sanguinava e provava dolore.
Quaglia lo aveva sentito e visto.
Eppure… quando lo vedeva dentro quella fucina, era come se non fosse mai stato umano.
Una polvere spessa e nera era sul palmo delle sue mani, e la toccava e maneggiava come fosse cosa di poco valore.
L’arma più pericolosa della loro era, saggiata da mani umane, come fosse semplice sabbia colorata.
- Non vuoi andartene via di qui? – gli domandò Quaglia.
Oramai né la trasmutazione dell’anima, né quella dei metalli, avevano più importanza.
Nulla aveva più importanza, considerando quanto fossero vicini i soldati del conte.
Ogni minuto in più che restava a Bliaint… era un minuto che lo avvicinava alla morte, o al suo rapimento.
Eppure, Blake se ne restava lì, a fare quello che aveva sempre fatto: sovvertire le regole della natura. Non sembrava affatto preoccupato della propria incolumità. Oppure, semplicemente, l’insania aveva preso il sopravvento in lui. Quaglia non l’avrebbe esclusa come ipotesi.
Blake alzò finalmente gli occhi innaturalmente illuciditi su di lui. – Più di qualsiasi altra cosa al mondo – disse il vero.
- Allora perché sei ancora qui? – gli domandò l’uomo, avvicinandoglisi, tradendo l’apprensione nel tono di voce. – Siamo rimasti solo io e te in questa casa, Blake. Se ne sono andati tutti. Ma l’unico che se ne sarebbe dovuto davvero andare… è ancora qui. Perché sei ancora qui? Sai bene che i monaci non saranno più ragionevoli e misericordiosi con te domani, dopodomani, o il giorno avvenire. Sai bene che non potrai rivedere Judith. Allora perché sei ancora qui?? La nave che Myriam ha preparato per te ti sta ancora aspettando… hai ancora la possibilità di andare, di raggiungere Ioan.
Di avere salva la vita.
Di contro, Blake sembrò quasi non udirlo, mentre le fiamme della fornace divampavano sempre più violentemente.
Il ragazzo infilò nuovamente le mani dentro la polvere nera.
- Un modo per salvarci tutti ci sarebbe – disse improvvisamente. – Ci ho pensato spesso, negli ultimi giorni – continuò guardandolo. – Ti rendi conto… che basterebbe spargere questa – fece una pausa, continuando a vezzeggiare quella polvere calda e mortale – ovunque… e i soldati salterebbero in aria in meno di uno schiocco di dita? L’unico problema… è che salteremmo in aria anche tutti noi.
Eppure, sarebbe un destino migliore, rispetto a quello di venire depredati, rapiti, fatti schiavi, o massacrati. Non credi?
Il suo tono di voce impauriva.
- Se davvero esiste qualcuno, qualcuno di più grande di noi che mi ha condotto fino a qui, e che mi ha portato a scoprire quest’arma… - riprese sprezzante. – allora, forse è un segno. Un segno che io debba usarla in questo modo, per salvare tutti.
Quaglia, per quanto ci provasse, non riusciva a dargli torto.
Non riusciva a non riconoscere quanto avesse ragione.
Eppure… se si fossero fatti saltare tutti in aria… non avrebbe potuto rincontrare suo figlio. Suo figlio che, disgraziatamente, era in ritardo.
- Tu ti prenderesti una responsabilità come questa? – gli domandò l’uomo, fissandolo negli occhi. Le fiamme della fornace accanto al ragazzo disegnavano degli strani giochi sulle sue iridi brillanti, illuminandoli come diamanti.
- Tu te la prenderesti? – gli rivoltò la domanda Blake.
- No.
Se dipendesse solo da me… forse lo farei. Per salvare tutti.
Ma l’idea di uccidere più di un centinaio di persone inconsapevoli, che non hanno scelto questo… mi perseguiterebbe fin nell’aldilà.
- “L’aldilà”… - lo imitò Blake, sorridendo disilluso. – Non è quella la mia paura.
- E allora perché non lo fai?
- Perché non tutti desiderano morire tramite le fiamme.
Molti preferirebbero perire tramite un colpo di spada.
Dunque, chi sono io per privarli di tale volontà?
- Tu ti faresti saltare in aria pur di scampare a tutto questo? – gli domandò Quaglia.
- Sì.
- Lo faresti… ma hai ancora una scelta.
- Una scelta che altri non hanno.
Quella nave dovrebbe essere lì in attesa per tutti noi, non solo per me.
- I discorsi moralisti non ti si addicono, Blake.
Fortunatamente, hai sempre avuto un angelo custode che ha vegliato su di te. Un angelo dalla pelle scura, più pericoloso di un plotone battagliero, in possesso di una magia potentissima.
- Un angelo che ha scelto di proteggere solo me.
- Perché non avrebbe potuto fare altro… l’incantesimo di protezione è stato annullato quando Imogene ha deciso di lasciarci. La magia non basta per proteggere un intero villaggio da truppe addestrate a depredare e a trucidare.
Blake posò la teca contenente la polvere nera davanti a Quaglia. – La decisione è tua.
- Ti ho già detto che non lo farei.
- Prenditi del tempo per pensarci.
- E intanto… tu cosa farai? Perché sei di nuovo qui, Blake? Cosa stai cercando tanto fervidamente, da tutta la vita?
A ciò, il ragazzo gli si avvicinò a grandi falcate.
Quaglia se lo ritrovò improvvisamente a qualche centimetro di distanza dal suo viso, che lo guardava dall’alto.
Il suo sguardo era quanto di più doloroso si potesse osservare: disperato, allucinato, con una determinazione disillusa negli occhi luminosi, una forza d’animo che non aveva ancora raggiunto il suo climax, ma che, quando l’avrebbe fatto, Quaglia era certo si sarebbe sgretolata, divenendo polvere al vento.
Quella ricerca lo avrebbe distrutto.
Provò l’implacabile istinto di chiedergli perché non riuscisse a trovare la pace.
Perché il suo animo fosse così… irrequieto.
Quaglia lo fissò negli occhi, venendone stregato.
- Io devo provarci – gli disse solamente, quella creatura a tratti ultraterrena, a tratti troppo umana.
- È davvero così importante per te…? – gli rispose Quaglia, tremando di consapevolezza, di commozione, di amara tristezza.
- Devo scoprire se posso farlo – aggiunse Blake, sempre con quella voce inumana.
Fu a quel punto che Quaglia sentì di dover tentare il tutto e per tutto, per capirlo, per comprenderlo, una volta per tutte.
Aveva voglia di svelare l’oscuro mistero che era Even Blake.
Solo allora si sarebbe dato pace.
Così lo prese per le spalle e lo strattonò brutalmente, sperando di scuoterlo almeno un po’. - Perché?!? Dimmi perché!! Io sono qui, per ascoltarti!!
Vengo da una famiglia di sette generazioni di alchimisti, Blake!!
Eppure, nessuno di loro è mai stato accanito come lo sei tu, nei confronti della ricerca dell’impossibile!!!
Nessuno ha mai voluto sovvertire tutto ciò che domina l’equilibrio dell’universo quanto lo vuoi tu!!
Perché lo vuoi?! Chi ti costringe a farlo?!? Stai rischiando la vita per ottenere che cosa???
Blake non si ribellò da quella presa e stretta, restando inerme tra le sue braccia, facendosi maneggiare come una bambola di pezza, ma continuando a guardarlo dritto negli occhi, mentre l’altro gli urlava contro.
- La trasmutazione. Devo scoprire se posso farlo davvero.
Non lo so il perché.
- Non lo sai??
- Non lo so.
Devo farlo. Devo riprovarci.
Non riesco ad oppormi, non ce la faccio – la nota di disperazione nella sua voce spinse Quaglia a smettere di strattonarlo.
- E se dovessi riuscirci? Una volta che l’avrai fatto, cosa succederà…?
- Raggiungerò la nave.
- No, non è vero.
Non troverai pace.
Perché tu sei così, ti getti nel fuoco senza pensare alle conseguenze, non sei minimamente interessato alla tua incolumità.
Hai una volontà di ferro, ma insensata, invadente, assurda.
Hai qualcosa di umano, Blake? – lo stringeva ancora per le spalle. La sua pelle sotto i vestiti era calda, sin troppo, essendo stato tanto vicino alla fornace.
Era come se tutta la volontà del mondo gli stesse pulsando tra le mani, dal momento in cui aveva stretto le spalle di quel ragazzo.
Tutta la volontà del mondo, racchiusa in un solo corpo.
Non è assurdo?
Se quella volontà mastodontica si fosse spenta, probabilmente anche il mondo sarebbe morto con lui.
Per questo avrebbe quasi preferito che il conte lo prendesse con sé, piuttosto che i monaci lo uccidessero prima.
La trasmutazione dei metalli non era una semplice trasformazione del piombo in oro.
Solo in quel momento Quaglia lo comprese.
La trasmutazione era un modo per dimostrare all’uomo che il proprio potere è illimitato.
Che non c’è nessun dio, nessuna entità superiore, che governa le nostre azioni, che ci limita e decide per noi.
Solo l’uomo.
L’uomo che è capace di fare tutto ciò che vuole, di contenere le leggi della natura nel suo palmo e stringere fino a polverizzarle.
L’uomo che è in grado di toccare il sole, di cambiare posizione alle stelle, di smuovere il mare, di far eruttare un vulcano o disintegrare una montagna.
Questo era quello a cui auspicava Blake, sin dal giorno in cui era venuto al mondo.
Gli dèi lo temevano e gli uomini lo odiavano.
Ma a lui non importava.
Blake era sempre stato Adamo ed Eva insieme, perseguitato e odiato da un Lucifero che si era sentito tradito, e da un Creatore che lo disprezzava.
Senza Blake, il mondo sarebbe stato costretto a sottostare a delle entità più grandi di loro, fino alla fine dei tempi.
Senza creature come Blake, erano tutti destinati all’obbedienza, alla schiavitù.
La realizzazione invase i suoi occhi nel momento stesso in cui le iridi del ragazzo vennero illuminate da una vampata di fuoco più lucente delle altre.
- Ho capito – spirò Quaglia, faticando a lasciargli andare le spalle.
Era come se, nel momento in cui lo avesse fatto, il ragazzo sarebbe volato via.
Blake gli rivolse uno sguardo di cruda riconoscenza, gli angoli della bocca si alzarono, ma il suo volto rimase distrutto e distaccato.
- Puoi andartene, se non vuoi assistere – gli disse.
- Ma io voglio assisterti.
D’altronde, mi hai portato qui a Bliaint per essere il tuo assistente, no? – replicò, sorridendogli come avrebbe fatto ad un figlio o ad un fratello.
Rimarrò affianco a te per fare in modo che tutto questo non ti prosciughi e trascini via.
Ti assisterò. Fino alla fine, fratello.
Fu così che Blake sfuggì alla sua presa e tornò dinnanzi alla fornace, sul tavolino in cui riposavano tutta la strumentazione che gli serviva, insieme al recipiente colmo di piombo fuso.
Dalla tasca, il ragazzo tirò fuori una pietra grigio-bluastra, dalla particolare pigmentazione metallizzata.
Nessuna magia, nessun incantesimo, nessuna invocazione.
Solo fuoco, carbone, metallo e una gemma.
Fu come se il ragazzo uscisse fuori di sé, mentre compiva quel miracolo.
Il miracolo che gli attribuivano sin oltreoceano, e per cui stava rischiando la vita e la libertà.
Quaglia lo guardò allucinato, per tutto il tempo.
Puoi riuscirci.
So che puoi farlo.
Sei l’unico che ne è in grado.
Il rumore delle fiamme della fornace sovrastò tutto il resto.
Non soffiava più il vento, né il sole calava all’esterno.
Tutta la vita dell’universo era contenuta in quella fucina.
E Quaglia si sentì fortunato, indicibilmente fortunato, nel poter assistere a tutto ciò.
Ad un tratto, come in un sogno, il colore e la consistenza del piombo dentro il recipiente, erano totalmente mutate:
Il nero era diventato oro.
Oro, luminoso, brillante, purissimo.
La gemma che teneva in mano poco prima Blake, invece, era scomparsa.
- La creatura aveva ragione… - sussurrò il ragazzo, non credendo ai suoi stessi occhi. – Aveva ragione…
- Blake…
- Ci sono riuscito.
Ne sono in grado.
Ho fatto la trasmutazione, Quaglia.
Ora cambierà tutto.
Tutto quanto.
Quaglia dovette avvicinarsi, perché era certo che la sua vista lo stesse ingannando:
Ma dentro quel recipiente c’era davvero l’oro.
Quel metallo desiderato ardentemente da ogni uomo presente sulla faccia della terra.
Da tutti, eccetto Blake.
Blake, che aveva compiuto il miracolo solo per dimostrare a se stesso che avrebbe potuto fare tutto, cambiare tutto. E che non aveva bisogno dell’approvazione e dell’aiuto di alcuna entità ultraterrena, per sovvertire l’ordine della natura.
Lui stesso era tutto ciò che gli serviva.
Lo studio, l’intelligenza, la logica, la ricerca.
Con questi doni, l’uomo era onnipotente.
Blake voltò il viso verso Quaglia, per la prima volta dopo aver compiuto il “miracolo”, ma si paralizzò nel momento stesso in cui individuò qualcosa, o meglio qualcuno, alle spalle dell’assistente.
Quaglia si voltò di scatto a sua volta, trovando dietro di sé, ferma e immobile, in piedi alla fine della scalinata, una bellissima giovane ragazza che aveva un aspetto vagamente familiare.
Non avevano chiuso la porta della fucina.
A quanto pare, si erano dimenticati di chiudere qualsiasi porta, troppo presi per ciò che stavano per fare.
Inoltre, il rumore sovrastante provocato dalla fornace aveva coperto qualsiasi eventuale suono che potesse indicar loro che qualcuno si fosse introdotto in casa e che stesse scendendo le scale della fucina, attirato da quel frastuono.
Blake aveva guardato sempre il recipiente, Quaglia non aveva mai staccato gli occhi da Blake.
Erano stati stupidi, distratti, ed ora il danno era fatto.
La ragazza se ne stava in piedi, come una statua di sale, il volto illuminato dalle lingue di fuoco, gli occhi esterrefatti, le labbra socchiuse, sconcertate.
Guardava il recipiente colmo d’oro, l’oro che prima era stato piombo, agghiacciata.
- Mona… - sibilò Blake, talmente piano che la sua voce venne coperta dal rumore del fuoco. Era totalmente incredulo anche lui, di vedere quella ragazza lì.
Una ragazza estremamente bigotta e devota, che aveva visto compiersi il miracolo.
- Ciò che hai fatto qui dentro, Blake… è uno scempio – furono le parole della ragazza, spiritate, quasi estranee a se stessa. I suoi occhi erano colmi di lacrime. – Verrai punito, per questo.
Detto ciò, Mona risalì le scale e si accinse ad uscire di casa.
Quaglia la rincorse, per fermarla, per bloccarla, addirittura per legarla e imbavagliarla se fosse stato necessario, pur di farla stare zitta.
- Ferma! Fermati!! – gridò risalendo le scale a sua volta, ma la voce di Blake lo fece paralizzare.
- No! – esclamò il ragazzo.
Quaglia si bloccò a mezza scalinata, guardandolo a distanza, contrariato. Egli era sempre accanto al recipiente, avvolto dalle lingue di fuoco, non aveva mosso un muscolo.
- Che significa “no”…? Andrà dai monaci a denunciarti! Ti porteranno via e ti giustizieranno se dovessero venire a saperlo!
- Lasciala andare.
- Blake…?
Il bellissimo volto del ragazzo era fuori dal mondo. – Lasciala andare.
Accadde tutto in meno di un’ora:
Dopo trenta minuti, i monaci si presentarono in massa a casa loro e lo portarono via.
Prima di venire trascinato via, con la falsa accusa di aver utilizzato impropriamente la magia, Blake guardò Quaglia negli occhi e gli fece solo due richieste:
“Accertati che Judith sia viva e stia bene dopo il parto.
Fa’ in modo che Ioan salpi su quella nave il prima possibile.”
Rimasto solo in quella casa funerea, Quaglia poggiò gli occhi sul sacco contenente la polvere nera, maneggiato poco prima da Blake.
“La decisione è tua”
 
- LA MATTINA SEGUENTE -
 
AMBROSE
 
Era l’alba.
In mezzo alla piazza principale del villaggio faceva bella mostra, come sempre, il soppalco.
La sera prima era stato annunciato che si sarebbe tenuta un’esecuzione quella mattina, la prima dopo Beitris, quindi, di fatto, la prima esecuzione al rogo dopo mesi.
La folla, comprendente quasi tutti gli abitanti del villaggio, servi del Creatore e del Diavolo insieme, erano tutti riuniti, per assistere all’evento.
D’altronde, quel rogo non era uno come tanti. Quella mattina, difatti, sarebbe stato giustiziato colui che aveva dato inizio a quel circolo vizioso di terrore e di incertezza, dettato dall’imminente invasione straniera: Even Blake.
Ambrose lanciò uno sguardo complice a Prudence, poi a Barclay, poi ancora a Terry, e infine ad una delle locandiere, Mary Claire.
“Radunate tutti quelli che potete.
Gli amici di Folker, le locandiere che lavoravano con Bridgette, le intere famiglie dei due, chiunque li conoscesse e nutrisse anche solo un minimo di rispetto e stima per loro.
Chiunque.
Radunatevi nei sotterranei della Taverna, in segreto, e create una strategia d’offesa.
Lo schieramento deve essere netto e impenetrabile.
Quando avrete ottenuto questo… insorgete.”
Ambrose aveva preso le parole dello stregone alla lettera.
Dopo quella conversazione, si era armato di tutta la determinazione che lo animava e di spirito combattivo. Si era messo in contatto con gli amici di Folker (di cui Barclay poteva farsi portavoce); con i suoi amici servi del Creatore che erano rimasti disturbati dal pessimo trattamento riservato ai due suicidi (che Terry aveva riunito); con le locandiere della Taverna, tutte profondamente affezionate a Bridgette (Marie Claire in particolar modo), e, ovviamente, avevano coinvolto anche Prudence.
Ambrose si prese del tempo per osservare la giovane madre del suo amore perduto: il suo sguardo era quello di una leonessa ferita, annientata, ma non per questo meno pericolosa.
C’era qualcosa di terrificante, nei suoi occhi chiari e vuoti…
I suoi capelli biondi erano legati sciattamente, parecchie ciocche sfuggivano alla costrizione, mosse dal vento primaverile, mentre il suo volto restava algido e drammaticamente bellissimo.
Ambrose sapeva quanto desiderasse la morte, dopo ciò che era accaduto al suo ultimo figlio rimasto in vita.
Motivo per cui sapeva bene che Prudence fosse la più letale tra loro, persino più di lui stesso.
D’altronde, lui era mosso da una rabbia ferale, l’ira di un amore carnale e passionale distrutto, mai vissuto e tanto agognato.
Prudence, invece, era animata dalla rabbia uterina e funerea di una madre.
L’amore di una madre non poteva competere con quello di un amante.
Ambrose lo sapeva bene. Per ciò, era concentrato su di lei, per impedirle di compiere gesti estremi. Prudence era pericolosa come lo era ogni madre che aveva perso un figlio.
Dovevano attenersi al piano che avevano concordato.
Non appena, la sera prima, avevano saputo dell’esecuzione di quella mattina, si erano incontrati tutti alla Taverna, come ai vecchi tempi della Congrega, tutti uniti per un unico scopo: annientare i monaci una volta per tutte, liberando il villaggio dal loro giogo. Tutti erano a conoscenza del piano, servi del Diavolo e servi del Creatore che si erano uniti alla ribellione.
Un’esecuzione al rogo era l’occasione perfetta.
Non importava di chi fosse.
Avrebbero potuto salvare una vita umana se avessero messo in atto il loro piano di rivolta ben pensato quella mattina stessa, e si dava il caso che quella vita fosse di Blake.
Ambrose era sorpreso di sapere che i monaci avessero deciso di giustiziare proprio quel ragazzo.
Forse perché sembrava intoccabile, data la sua posizione.
O forse perché Judith aveva molta influenza sui monaci, e finché c’era lei, non avrebbe permesso a nessuno di quei “messaggeri di dio” di fare del male al ragazzo.
A proposito di Judith, Ambrose la cercò con lo sguardo ma non la vide.
Sperò che stesse bene, ma non ci prestò troppa attenzione.
Si voltò, infine, verso colui che l’aveva convinto ad organizzare quell’insurrezione con le sue sole forze: Ephram se ne stava incappucciato, notevolmente lontano dalla folla, più dietro, isolato.
Lo stregone fissò i suoi occhi in quelli del servo del Creatore a sua volta, rivolgendogli uno sguardo complice.
Da qualche giorno girava voce che i soldati del conte straniero fossero vicinissimi a Bliaint, e che, nel giro di poco, li avrebbero invasi.
Tuttavia, nessuno sembrava volerci credere davvero.
Ambrose continuò a guardare Ephram a distanza, fin quando i suoi occhi non vennero calamitati dalla figura agitata e scalpitante di padre Craig, il quale sembrava quasi che volesse salire sul soppalco in prima persona, tanto era contrario a quell’esecuzione, tanto era allarmato, disperato, portentoso.
Ambrose lo osservò con interesse, chiedendosi, effettivamente, dove fossero tutte le persone che tenessero a Blake, coloro contrarie alla sua esecuzione: non vedeva nessuna madre piangente, né un fratello in lacrime, né qualche amico col volto colmo di tristezza, né una Judith devastata.
Dove erano finiti tutti?
Gli sembrò strano, molto strano; in quanto sapeva che Blake fosse amato, e parecchio conosciuto al villaggio.
Solo padre Craig era lì per lui, per piangerlo e per tentare inutilmente di opporsi alla morte del ragazzo.
Lui, i bambini dei peccati capitali (tutti con i visini afflitti e turbati) e gli scavatori della galleria, i quali erano ben riconoscibili, in quanto se ne stavano tutti a testa bassa, scossi, tristemente rassegnati.
Anche loro sembravano provare della sincera affezione e del riverente rispetto per il nuovo proprietario della galleria.
Ma l’attenzione di Ambrose era tutta per il prete straniero, quell’uomo che gli era sempre stato amico, e che si era sempre mostrato una roccia, solida e stabile, una sicura spalla su cui piangere. Quell’uomo che, ora, sembrava perso, devastato, placcato, in guerra col mondo.
Non riuscì più a riconoscerlo, e ciò lo affascinò, quanto lo impaurì.
Eppure, Blake non era stato ancora portato sul soppalco, il quale era vuoto.
Dopo diversi altri minuti, i monaci fecero il loro ingresso, portando con loro il condannato, con le mani incatenate.
Lo trascinavano malamente sulle scale del soppalco, trattenendolo per le braccia.
Fu a quel punto, non appena lo vide, che padre Craig scalpitò ancor di più, e i monaci che lo trattenevano fecero il doppio della fatica per farlo stare fermo al suo posto.
Ambrose era costernato: negli occhi di padre Craig c’era un fuoco. Un fuoco che somigliava terribilmente a quello che c’era anche nei suoi, di occhi, ogni volta che guardava Folker, o anche solo pensava a lui.
Era bastato che Blake, legato, entrasse nel suo campo visivo, per farlo scattare come una iena, per animarlo come non lo aveva mai visto animato, per fargli rombare il cuore fuori dal petto, farlo scalciare e urlare come un neonato.
Ambrose non poteva credere ai suoi occhi.
Poteva essere che padre Craig amasse Blake quanto lui aveva amato Folker, se non di più?
Poteva esserlo, eccome.
Blake, dal canto suo, catalizzava l’attenzione di tutta la folla su di sé:
Camminava con passo fermo, senza lasciarsi trascinare, senza ribellarsi o opporsi alle mani dei monaci, tutt’altro che gentili su di lui: gli fecero sbattere la schiena contro il palo, gli liberarono brutalmente i polsi dalle catene, per poi tirarglieli senza grazia indietro, facendogli scricchiolare le ossa; gli legarono strettamente le mani dietro il palo, con delle corde tanto strette da non fargli circolare il sangue, a giudicare dalla lieve smorfia di dolore che si dipinse sul viso di lui.
E mentre i monaci, ancora non contenti, gli circondavano il busto stretto con un’altra corda spessa, facendolo aderire maggiormente al palo; Ambrose si prese tutto il tempo per osservarlo, comprendendo in pieno come mai in così tanti fossero assuefatti da lui: il viso del ragazzo, dalla bellezza ultraterrena, non era abbassato, intimorito o riverente, bensì teneva lo sguardo alto, fisso, lontano da tutto; il suo intero corpo e la sua postura trasmettevano una sicurezza spiazzante, eterea e granitica. Ma, in particolar modo, a stregare chiunque erano i suoi occhi. Grandi, vividi, di un intenso blu che avrebbe fatto invidia a qualsiasi cristallo, ornati da lunghe ciglia scure.
Non era la sua bellezza a far bloccare il mondo intorno a sè, perché quella era palese, tangibile, immensa e trasparente nella sua concretezza.
No, era piuttosto l’aura che emanava. Un’anima instancabile, nobile, combattiva, immortale.
Fu come se, per la prima volta, Ambrose osservasse una creatura immortale. E quella creatura era Blake.
E Padre Craig ne era tanto assuefatto e ammaliato, da esserne quasi accecato.
Pendeva dalle sue labbra come un suddito con il suo dio.
I monaci non si risparmiarono e gli strinsero l’addome al tronco con le corde, fino a togliergli quasi il respiro.
Il ragazzo tossì un paio di volte, poi puntò le sue biglie luminose sul monaco di fianco a sé, che aveva appena finito di legarlo. Gli chiese qualcosa, qualcosa che, a quella distanza, Ambrose non riuscì a sentire. Basandosi solo sul labiale del ragazzo, gli sembrò che gli stesse chiedendo qualcosa riguardo Judith.
“Dove la tenete rinchiusa? Sta bene? Voglio solo sapere se il parto sta andando bene”
Il monaco, in risposta, afferrò i folti capelli color cacao del ragazzo con rabbia. Si attorcigliò le lunghe e morbide ciocche intorno alla mano e tirò indietro, strattonandolo e costringendolo a portare indietro la testa, esponendo la gola.
Padre Craig divenne una furia, da sotto il soppalco:
- Non toccatelo!!!
Non osato toccarlo!!!
Toglietegli subito le mani di dosso!!!
La voce dell’uomo faceva male all’anima per quanto disperata, feroce e addolorata, Ambrose la sentì risuonare lungo la propria cassa toracica come una pugnalata.
Ma i monaci non lo udirono neanche, anzi, sembrò che quell’esclamazione li galvanizzasse ancor di più, spingendoli a maneggiare il ragazzo come preferissero.
- Non osare chiedere di lei – gli intimò il monaco che lo stava ancora strattonando per i capelli castani, trattenendoli e tirandoli come fossero le redini di un cavallo.
Blake contrasse la mascella, ma non si oppose né si lamentò, aspettando che la presa si allentasse.
Ma quando il monaco lasciò andare la sua chioma selvaggia, non gli diede neanche il tempo di riprendersi, che lo afferrò violentemente per le mascelle, costringendolo a guardare la numerosissima folla che era lì ad osservarlo.
Padre Craig scalpitò ancora, al limite della sopportazione e della furia:
- Lasciatelo stare!!!
- Questo giovane servo del Diavolo – cominciò a gran voce padre Petrit, continuando a stringere le mascelle del ragazzo tra le dita artiglianti. – È la piaga peggiore che Bliaint potesse mai generare. E sapete perché? Perché questo serpente… non solo ha portato un’arma mortale dentro il nostro villaggio, l’arma peggiore che la nostra generazione e quelle future possano lontanamente temere… non solo, egli ha anche attirato qui, NEL NOSTRO SACRO VILLAGGIO SANTIFICATO DAI DUE SIGNORI, un nemico che non possiamo sconfiggere, esponendoci al pericolo!!
Non temete, tuttavia!! I nostri Signori ci proteggeranno da ogni minaccia!!
Dalla folla si elevarono urla di approvazione, affermazioni rabbiose e consenzienti.
Così, il monaco continuò fieramente: - Lui è il male. Il male impersonificato. Non lo vedete? Egli è il Demonio. Il Demonio che si è incarnato su questa terra, un Demonio terribile e pericoloso, temuto persino da Lucifero stesso. Questo volto! Questo volto che vedete, è il volto del maligno!! Il volto della punizione che i Signori hanno deciso di darci, a causa dei peccati commessi dai nostri antenati, nei confronti dei Bambini sciagurati!!
Lui è la penitenza per la crudeltà commessa dai nostri antenati!!
È lui!!
Quante sciocchezze  non riuscì a fare a meno di pensare Ambrose, schifato dal comportamento dei monaci.
Come poteva essere stato cieco fino a quel momento?
Era stato necessario il suicidio di Folker per fargli aprire gli occhi su quei luridi e infami “messaggeri di dio” fasulli, che li avevano sempre governati e manipolati.
Analfabeti, semplici di mente, facilmente raggirabili.
Questo erano sempre stati, per loro.
Null’altro.
Come poteva Judith avere ancora fiducia in loro?
Eppure, molte persone sembravano ancora credere ciecamente nei monaci: tra la folla, si elevarono esclamazioni di assenso, accompagnate da qualche “Bruciatelo! Sbrigatevi a bruciarlo!” e “Il ragazzo è il male, liberateci da lui!”.
- NO!!! – padre Craig non si arrese e continuò a tentare di ribellarsi dalla presa di coloro che lo tenevano fermo. Guardava verso l’alto, verso l’unico giovane uomo che avrebbe mai amato. – LUI NON HA FATTO NIENTE!!
Blake era ancora costretto dalla presa artigliante del monaco sulle mandibole, e quando questo lo lasciò andare, dei piccoli rivoli di sangue sbucarono dalla sua pelle, laddove era rimasta l’impronta delle unghie.
Dopo di che, il monaco infilò la mano sotto la maglia larga e leggera che copriva il torace del ragazzo, dall’alto, e tirò fuori il ciondolo opale che indossava.
Gli staccò via il ciondolo con forza, gettandolo lontano e guardandolo fisso negli occhi, con odio e frenesia:
- Le tue ultime parole, Even Blake?
Dicci, illustraci per quale motivo hai fatto tutto ciò che hai fatto – lo sfidò. – Una nostra fedele figliola ti ha visto compiere un sacrilegio nella tua fucina, trasformando il piombo in oro.
Un’esclamazione di estremo stupore si elevò dalla folla, nell’udire tali parole.
Dunque è vero…?
- Esattamente il sacrilegio che vogliono farti compiere gli stranieri che tanto disperatamente ti cercano.
Fanno bene a volerti, quindi! Ma gli stranieri non conoscono una fondamentale legge contenuta nei nostri testi sacri: A Bliaint ogni vita è sacra e intoccabile. Anche quella dei Demoni come te. Sei battezzato al Diavolo, e in quanto servo del Diavolo di Bliaint la tua vita è sacra esattamente come la nostra. Motivo per cui non puoi lasciare questa terra senza attirare l’ira dei due Signori.
Non potremmo mai lasciarti a loro. Brucerai come meriti di bruciare, e i tuoi peccati imperdonabili verranno purificati col fuoco, mentre la tua carne giovane e tenera verrà consumata fino all’osso.
- NO!!
Non ve lo permetterò!!
Bruciarlo al rogo NON È LA SOLUZIONE!! – strillò padre Craig, sgolandosi.
- Avanti, Blake, dimmi…: perché hai trasformato il piombo in oro?
Perché pratichi un’arte blasfema e oscura, chiamandola “alchimia”, incurante delle conseguenze?? - insistette padre Petrit, avvicinandosi al volto del ragazzo.
Ambrose, così come tutti gli altri, attese con trepidazione la risposta.
Blake, di contro, guardò il monaco negli occhi senza timore, poi puntò le iridi sulla folla presente e intenta ad osservarlo. Schiuse le labbra sbiancate e parlò:
- Non ho bisogno di dare spiegazioni.
Mi accusate di praticare inadeguatamente la magia, ma quella che pratico io non è magia.
Non chiedo al mio Signore di darmi la forza e il potere, non l’ho mai fatto.
Non mi serve. Tutto ciò che mi serve è l’ingegno che proviene dall’uomo.
La trasmutazione è possibile, e non perché me lo ha permesso il Diavolo.
Il Diavolo non è il mio dio. Così come non è il dio di nessuno di voi. Né lo è il Creatore.
- È anche blasfemo! Bruciatelo ora, prima che oltraggi ancora i nostri Signori!
Blake non si curò di quel grido proveniente dalla folla, e continuò:
- Io faccio solo ciò che ho sempre fatto e che voglio fare.
C’è un mondo là fuori, che noi neanche conosciamo.
Un mondo pieno di scoperte, di tesori e di mille altre cose che non possiamo minimamente immaginare.
Io so qual è il mio posto, ed è lontano da qui.
Bliaint non mi appartiene, il Diavolo non mi appartiene.
- Eppure… hai l’aspetto di un figlio del Diavolo. In tutto e per tutto – contestò padre Petrit accanto a lui, con voce bassa, accarezzandogli delicatamente uno zigomo con l’indice, sfiorando i capelli setosi, come per sfregio.
Padre Craig lanciò un urlo di puro odio in risposta.
Blake non si oppose, ma si mostrò superiore, ancora una volta:
- Nessuno ha l’aspetto del Diavolo, qui.
La bellezza non è sinonimo di maligno.
L’aspetto esteriore non è un criterio per scegliere chi sia figlio di quale dio.
Abbiamo già appurato che Allister Chaim, di errori ne ha commessi sin troppi, e che le sue parole sono tutt’altro che oro colato – gli rispose, dritto in faccia.
Era immobile, tenuto fermo e inerme dalle corde che lo stringevano ovunque, eppure sembrava avere la situazione in mano, nonostante tutto.
Ambrose ne fu meravigliato.
- Al rogo!! – urlò il monaco.
- Al rogo!! – seguì la maggior parte della folla.
Ma prima che padre Petrit potesse prendere la fiaccola accesa e buttarla sulla paglia che circondava i piedi di Blake, Ambrose diede il via alla rivolta con il segnale che avevano concordato:
Alzò una mano al cielo, ben visibile, e gridò come un lupo.
A ciò, tutti coloro che facevano parte della rivolta, nonché decine e decine di giovani ragazzi, di locandiere, più i genitori dei due suicidi, si accalcarono sopra ogni monaco presente e lo tramortirono tramite colpi, pugni, calci, e altre forme di violenza.
I monaci, la maggior parte in età matura, provarono a ribellarsi, ma non poterono nulla contro la furia e l’energia dei giovani che li stavano attaccando corpo a corpo.
- Uccideteli tutti!!! – urlò Ambrose, con il fuoco negli occhi.
E senza attendere un secondo di più, con un sottofondo di urla umane appartenenti alla parte del villaggio che non era a conoscenza della rivolta, ma che stava osservando il tutto senza muovere un dito, Ambrose e i suoi compagni assassinarono ogni monaco presente a Bliaint, liberando il villaggio dal giogo di quelle carogne umane.
Vendicando Folker. E Bridgette.
Barclay urlò di gioia al cielo, con le mani e i vestiti sporchi di sangue, tutti gli altri lo seguirono.
Prudence sembrava l’unica ad essere rimasta totalmente impassibile dinnanzi a quello spettacolo rivoltante e aberrante: sapeva cosa sarebbe successo, non vedeva l’ora che succedesse, ma era rimasta ferma, ad osservare, algida e serafica, lontana, senza prenderne parte.
Anche Ambrose urlò a squarciagola alla vittoria, con in mano il pugnale sporco del sangue di padre Petrit, fin quando la voce non gli mancò.
Blake, padre Craig e tutta la fetta del villaggio inconsapevole, dal loro canto, erano sconvolti dallo spettacolo a cui avevano appena assistito.
- Il villaggio è nostro!!
- Il villaggio è nostro!!!
Ambrose non poteva vederlo, ma, in quel momento, Ephram sorrise a distanza, sotto il cappuccio.
Per un attimo, anche lo sguardo di un piacevolmente incredulo padre Craig si incrociò col suo, e i due si sorrisero, inevitabilmente.
Padre Craig lo stava ringraziando in ogni lingua e in ogni modo possibile, dentro di sé, Ambrose ne era certo, ed era più che felice di aver salvato la vita di Blake, seppur lo conoscesse a malapena.
Eppure… non sarebbe stato facile convincere l’altra fetta del villaggio di aver fatto la cosa giusta.
Non sarebbe stato facile convincerli di aver sterminato i monaci per una giusta causa. D’altronde, anche Beitris ci aveva provato, mesi prima, ed era stata giustiziata per questo.
Non sarebbe stato facile, soprattutto, convincere l’altra fetta del villaggio che Blake meritasse di vivere.
Padre Craig si accinse a salire sul palco e incontrò lo sguardo di un Blake ancora allibito e legato.
Ambrose li osservò e sorrise, invidioso e al contempo felice per loro.
Craig si fiondò subito dietro Blake, dove si trovava il palo a cui il ragazzo era ancorato e a cui erano legate strettamente le corde che lo imprigionavano.
- Ci penso io – gli promise l’uomo, sorridendo con le lacrime agli occhi, come un bambino, mentre maneggiava le corde cercando di scioglierle senza fare male all’oggetto del suo amore, ma queste erano troppo strette. – Ci penso io, Blake… - continuò a ripetergli, come un mantra, a mo’ di rassicurazione. – Cercherò di non farti male, ci penso io, ti slego e sarai libero in men che non si dica… non ti faranno più del male, non lo permetterò, io non lo permetterò…
La voce dell’uomo era tremante, e c’era un’implacabile, plastica e travolgente brama di abbracciarlo e stringerlo a sé, in lui, da fare quasi male al solo guardarlo, al solo osservare i movimenti frenetici e tremanti delle sue mani mentre tentava di slegare quelle corde troppo strette e laceranti sulla pelle del ragazzo.
- Sei tornato… - disse solamente Blake, poggiando la testa sul palo dietro di sé e sospirando di sollievo per non essere ancora invaso dalle fiamme. - Perché sei tornato?
Padre Craig bloccò i movimenti, come se stesse per svenire da un momento all’altro per la troppa emozione, per le troppe intensissime sensazioni provate tutte insieme.
Blake voltò il viso di lato, per cercare di guardarlo, ma non vi riuscì in quella posizione.
- Per te. Sono tornato per te – rispose solamente Craig, con una fermezza e una decisione senza pari nel tono di voce, riprendendo a tentare di slegare quelle corde impossibili.
A ciò Ambrose andò in suo soccorso, mentre tutti gli altri si stavano occupando di disfarsi dei cadaveri e di placare la fetta di folla che si chiedeva cosa stesse succedendo, e che si stava opponendo.
- Lasciate fare a me, padre – gli disse Ambrose, poggiandogli una mano affabile sulla spalla, spronandolo ad alzarsi. – Voi state tremando e queste corde sono troppo strette: serve un po’ di forza bruta per slegarlo – lo incoraggiò, accennandogli un lieve sorriso. – Lo libero io.
- Niente “padre” – gli rispose l’uomo, riconoscente. – Solo “Craig”, d’ora in avanti.
- D’accordo, Craig – rispose Ambrose, avendo ben capito che l’uomo avesse rinnegato i propri voti, decidendo di vivere come un popolano comune, e comprese bene anche il perché.
- Grazie, Ambrose. Fa’ in fretta! – lo spronò apprensivo, lasciandogli fare e accostandosi a Blake dalla parte opposta.
- Non potete slegarlo!! Quel Demonio merita di morire!! Bruciatelo!! – urlò una donna in mezzo alla folla, mentre Ambrose si accovacciava dietro il palo, all’altezza dei polsi di Blake, e tentava di sciogliere quei nodi che stavano comprimendo il corpo del ragazzo in modo a dir poco doloroso.
Si diede dello stupido quando si rese conto, dopo un minuto buono di tentativi inutili, che avesse un pugnale a portata di mano. Afferrò il pugnale e fece per tagliare le corde, ma venne bloccato immediatamente da uno strillo acuto e assordante, proveniente dalla folla, che lo spinse a rialzarsi e ad affilare lo sguardo, per capire cosa stesse succedendo.
Avrebbe preferito non averlo fatto…
Non appena si tirò su, notò un esercito di soldati a cavallo, fermi a diversi metri da loro.
Quello che doveva essere il comandante dell’esercito aveva il braccio alzato in alto, come per indicare ai propri uomini di non avanzare ulteriormente.
Dunque era vero… i soldati stranieri erano riusciti a raggiungere Bliaint.
E i due Signori non li stavano proteggendo, come invece sostenevano i monaci.
Erano soli.
Soli, contro un plotone armato.
Ambrose si paralizzò, così come erano paralizzati tutti gli altri.
Il fermento e la confusione generale della folla, per gli eventi appena accaduti, aveva distolto l’attenzione di chiunque dal rumore placido degli zoccoli dei cavalli che si avvicinavano da lontano.
Nessuno si era accorto di nulla fin quando non se li erano ritrovato davanti, che li osservavano, a metri di distanza.
- Mi chiamo Charles, e ho accompagnato questi uomini oltre il mare, per giungere qui, a Bliaint - esordì l’uomo più avanti degli altri, con il braccio alzato, coperto dall’armatura. La sua voce era ferma, alta, sicura, il suo accento molto strano. – Sicuramente saprete che il signore che serviamo, il nobilconte Agloveil, vuole qualcosa da voi – precisò con ovvietà, ma senza arroganza. – Noi non abbiamo intenzione di farvi del male – chiarì.
Prudence, intanto, salì a sua volta sul soppalco, per guardare meglio gli stranieri, da quella posizione rialzata, nonostante la distanza.
- Noi vogliamo solo un ragazzo.
Un vostro servo del Diavolo.
Un alchimista in grado di compiere la prodigiosa trasmutazione dei metalli.
Non vogliamo le vostre ricchezze. Non vogliamo le vostre gemme. Vogliamo solo lui – continuò Charles, affilando lo sguardo.
Craig deglutì rumorosamente, sentendosi pizzicare le mani; mentre Blake era pietrificato.
- Il suo nome è Even Blake – scandì bene quel nome Charles, a distanza.
Nessuno gli rispose, i popolani rimasero immobili, a guardarlo, diffidenti e scostanti, come se fossero pronti, da un momento all’altro, a fare qualcosa di irrecuperabile.
L’uomo analizzò la situazione che si stava trovando dinnanzi:
Una folla di persone era riunita intorno ad un soppalco, sopra il quale era legato un ragazzo ad un palo.
Sapeva bene che a Bliaint amassero bruciare la gente al rogo.
Aguzzò la vista, per osservare quel ragazzo, nonostante la distanza.
Non riuscì a vedere molto di lui, ma tre cose riuscì a scorgerle distintamente:
Decisamente di bell’aspetto, dunque un servo del Diavolo.
Capelli castani.
Occhi blu.
La descrizione di Selen combaciava.
Sorrise, vittorioso: non doveva neanche cercarlo, in quanto il suo bottino di guerra era esattamente davanti ai suoi occhi. Altrimenti per quale motivo avrebbero dovuto bruciare un giovane al rogo, se non per punire le pratiche alchemiche con cui egli si dilettava? – Sei tu Blake, non è vero? – domandò a gran voce, facendosi ben udire.
 
 
MYRIAM

La strega si scagliò disperatamente contro la botola di quel sotterraneo in cui li avevano appena rinchiusi, mentre Judith continuava ad urlare come una dannata.
Poco prima, allo scoccare dell’alba, Myriam era stata rapita e rinchiusa in quel sotterraneo insieme a Judith. Con loro vi erano anche Hinedia, Quaglia e il medico del villaggio.
Il motivo? Le doglie di Judith erano vere stavolta. Entro la mattinata avrebbe partorito i suoi tre gemelli, vivi o morti.
E dato che la levatrice era morta, serviva qualcun altro in grado di garantire la sopravvivenza della ragazza e dei suoi tre gemelli, durante il travagliato parto.
Ecco il motivo per cui la strega si era ritrovata rinchiusa, contro la propria volontà, in quel sotterraneo sotto la cattedrale, imprigionata insieme agli altri quattro, che non volevano trovarsi lì almeno quanto lei.
La spiegazione dei monaci era stata semplice e basilare: Judith non deve vedere nè sentire cosa succederà là fuori, per non agitarsi; inoltre deve essere assistita nel parto da quante più persone competenti possibili.
Ma al villaggio non c’erano persone competenti per far partorire tre gemelli ad una giovane ragazza.
Dunque, si erano accontentati di ciò che avevano: Quaglia era stato scelto in quanto alchimista (non che l’alchimia avesse mai fatto nascere bambini, ma era pur sempre qualcosa); il medico era stato scelto per ovvi motivi; Myriam era stata disgraziatamente scelta in quanto “la sua magia avrebbe forse potuto riparare l’irreparabile”; mentre Hinedia, era stata rinchiusa lì solo e solamente per tranquillizzare Judith. Ed era quella che stava facendo un lavoro molto più proficuo e utile del loro, a dir la verità.
Così, quella tremenda combriccola si era ritrovata in quel luogo stretto, umido e illuminato solo da due fiaccole, con una Judith sdraiata sull’unico giaciglio piccolo e spoglio presente, intenta ad urlare come un’ossessa, in preda al dolore.
Un dolore sia fisico che mentale, Myriam ne era più che certa.
Difatti, tutti e cinque sapevano bene cosa sarebbe accaduto quella mattina.
Blake era stato imprigionato la sera prima, e sarebbe stato giustiziato esattamente in quel momento, in mezzo alla piazza, mentre Judith era impegnata a mettere al mondo tre vite.
Un tempismo perfetto aveva avuto quella ragazza.
Myriam continuò a dare pugni e calci alla botola, urlando come un animale in cattività, strappandosi di tanto in tanto i capelli dall’ira e dalla tremenda preoccupazione.
Poco prima, Quaglia, nervoso e delirante quanto lei, le aveva chiesto se la sua magia potesse tirarli fuori di lì; ma lei aveva risposto che no, la sua magia poteva fare molto, ma non arrivava a quei livelli, disgraziatamente.
Anche se fossero stati fuori di lì, non avrebbero potuto fare nulla per salvare Blake.
Eppure… la sola consapevolezza di non poterlo vedere, nemmeno un’ultima volta, nonostante quell’ultima volta sarebbe stata su una pira infuocata, li distruggeva tutti.
Myriam continuò a calciare la porta, inutilmente, ferendosi.
Quaglia si strinse i capelli e camminò avanti e indietro per la stanza, con il volto contrito e la bocca serrata.
Il medico, invece, stava provando, come poteva, a facilitare le spinte di Judith.
Hinedia stava cercando in tutti i modi di non pensare a cosa stesse avvenendo là fuori, e di concentrarsi solamente sulla sua amica sofferente, stringendole la mano, accarezzandole i capelli e rassicurandola.
Judith, dal canto suo, era un disastro quasi mitologico: la vestaglia bianca che indossava era un bagno di sudore, la sua chioma di fluenti capelli rossi era sparsa a raggi sul cuscino candido, il suo corpo era teso come una corda di lira, le gambe nude piegate e spalancate in faccia al medico, con l’intimità già dilatata in bella vista, i piedi arricciati e stretti alle lenzuola sudice sotto di sé.
Era selvaggiamente e drammaticamente bella, come potevano esserlo le tigri o i giaguari.
Seppur in preda ad una sofferenza incomparabile, che la spingeva a stringere le dita sul materasso sotto di sé come se volesse disintegrarlo, emanava una forza sovrumana, un’autorevolezza senza pari, suscitando soggezione e spavento.
La giovane donna urlò, buttando la testa indietro con violenza, con la bocca spalancata, il volto sudato sconvolto dal dolore e gli occhi colmi di lacrime secche.
- Fatemi uscire di qui!!! – urlava. – FATEMI USCIRE DI QUI!!!
- Ci sto provando, Judith!!! Non dimenticare che vogliamo uscire di qui quanto te!! – le urlò Myriam, continuando a calciare la botola irrazionalmente, nonostante sapesse non servisse a nulla, per nulla interessata al parto della ragazza.
La strega non voleva rassegnarsi. Per nulla al mondo. Se fosse uscita di lì, forse avrebbe trovato il modo di salvarlo.
Di salvarlo ancora e ancora, come l’aveva sempre salvato.
- FATEMI USCIRE DI QUI!!! – continuò Judith, tra una spinta e una contrazione. – VOGLIO VEDERLO!!! COSA GLI STANNO FACENDO?? COSA GLI STANNO FACENDO?!?
VI PREGO!!! – urlava e urlava ancora, nonostante la voce gli uscisse oramai dalla gola come un suono roco e doloroso, spaccatimpani.
Non si capiva se stesse soffrendo più per la consapevolezza di ciò che stessero facendo all’uomo che amava, là fuori, o per i dolori delle contrazioni.
“Judith non deve vedere cosa succederà là fuori. Deve essere isolata, e partorire in tranquillità, senza pensieri negativi. Più si agiterà, più aumenterà la probabilità che non sopravviva al parto dei gemelli”.
Quegli idioti credevano davvero che, rinchiudendo Judith dentro un buco con loro, le avrebbero risparmiato il dolore e la sofferenza…?
Judith sapeva bene cosa stesse succedendo fuori di lì.
Nessun monaco si era rinchiuso dentro quel buco con loro, tra l’altro, in quanto erano tutti impegnati nell’esecuzione di Blake.
Dunque, i gemelli sarebbero stati benedetti da Myriam.
Ma Myriam non aveva alcuna intenzione di preoccuparsi di quei gemelli, né di Judith.
Hinedia, intanto, con le lacrime agli occhi, guardava la sua amica soffrire come un’ossessa, stringendole la mano e cercando di incoraggiarla.
- Spingi, Judith, spingi!
- Deve spingere più forte, vedo la testa del primo, ma non riesce a dilatarsi più di così… - balbettò il medico, rivolto ad Hinedia.
A ciò, la serva del Creatore strinse maggiormente la mano di Judith.
- Judith, sono con te!!
Però devi spingere, amica mia! Spingi!!
- Hinedia, fammi uscire di qui, ti prego!!! – le urlò Judith, voltandosi verso di lei, piangendo disperata. - Hinedia!!
- Non posso, Judith…! Se solo potessi, ci farei uscire tutti di qui, ma siamo rinchiusi!
Lo capisci?? E tu stai partorendo, perciò la tua priorità è far uscire i tuoi bambini sani e salvi!!
Pensa ai gemelli!
- Non posso pensare ai gemelli quando là fuori stanno uccidendo Blake!!! – contestò la rossa, stringendo la mano di Hinedia tanto forte da farle scricchiolare le ossa. – DEVO VEDERLO!!!
- Anche io voglio vederlo, Judith, ma non possiamo fare nulla al momento!! Riesci a capirlo?!? Judith, per favore… spingi!!! Spingi e non mollare!!!
Avevano trascorso lì dentro quelle che erano sembrate loro ore.
Nonostante ciò, non era stato tirato fuori neanche il primo dei gemelli.
Judith era sfinita.
- NON MOLLARE, JUDITH!
AMICA MIA, GUARDA ME, GUARDA ME!! – le urlò prendendole il viso tra le mani e guardandola dritta negli occhi. – DEVI SPINGERE E SALVARTI LA VITA! NON PUOI MORIRE COSÌ, E NON PUOI LASCIAR MORIRE I TUOI FIGLI COSÌ!!
Myriam rimase sorpresa dalla determinazione di Hinedia.
Quest’ultima si voltò verso di loro con gli occhi scuri iniettati di sangue, di preoccupazione e di disperazione: - VOLETE AIUTARMI?!? LASCERETE MORIRE UNA RAGAZZA DI PARTO SOLO PERCHÉ NON POTETE ESSERE LÀ FUORI?!? DATEVI DA FARE E VENITE AD AIUTARMI!!
A ciò, Quaglia sembrò acquistare un po’ di lucidità, e Myriam con lui.
Si avvicinarono a Judith, la quale urlava ancora, con le sue ultime forze.
Myriam osservò Hinedia: era come se la ragazza si stesse trattenendo. Stesse trattenendo qualcosa dall’uscire fuori di sè.
Si concentrò su Judith, aprendole maggiormente le gambe, sostituendosi al medico: quei tre gemelli non sarebbero morti. Di Judith non le importava nulla. Ma quei gemelli sarebbero venuti al mondo, a qualsiasi costo.
- Spingi, Judith, avanti!!! – la spronò la strega, con decisione. – Pensi che Blake vorrebbe questo?? Pensi che vorrebbe vederti struggerti per lui e mollare tutto?!? – non appena disse quelle parole, proprio come aveva immaginato, la rossa si placò, e alzò il volto sfinito per guardarla, con occhi spalancati.
- Ha ragione, Judith! – venne in loro aiuto anche Quaglia, il quale si posizionò di fianco a Judith, dal lato opposto ad Hinedia, e le strinse l’altra mano. – Questi gemelli sono i tuoi figli. Del resto non importa. Devi metterli al mondo ora, e devi sbrigarti, altrimenti collasserai o morirai dissanguata. Se ci fosse anche solo una possibilità che Blake riesca a salvarsi… non vorresti rivederlo??
- Certo che lo vorrei… più di qualsiasi altra cosa – spirò la giovane donna.
- Allora spingi!!! Fa’ un ultimo sforzo e resta viva!! – esclamò l’alchimista.
I monaci, per quanto fossero stupidi, crudeli e subdoli, tenevano davvero a Judith, proprio come a una figlia.
Per tale motivo avevano fatto tutto ciò che era in loro potere per farla partorire “in pace”, al sicuro, e con tutto l’aiuto che avevano a disposizione.
Myriam fu in grado di riconoscerlo, nonostante la furia, l’odio, l’apprensione e la frustrazione che la animavano.
Miracolosamente, il primo gemello uscì fuori, appiccicoso e strillante come lo era ogni neonato che si affacciava alla vita, accolto dalle calde mani di Myriam.
Era una femmina.
Hinedia rise istericamente non appena la vide, e Quaglia non riuscì a credere ai suoi occhi.
Il medico, che li assisteva a lato, sorrise sollevato a sua volta.
Myriam gli poggiò la prima figlia di Judith tra le mani, e l’uomo la prese, tentando di cullarla.
- La piccola è viva?? – domandò Quaglia, preoccupato.
- È più che viva. È un portento – rispose Myriam, tranquillizzandoli.
- Judith, ce l’hai fatta!!! La prima è nata e sta bene!! – esclamò Hinedia.
- L’ultima cosa che ho fatto, l’ultima volta che l’ho visto… è stata incolparlo e gridargli addosso, nonostante sia stata io a ferirlo di più!!! – urlò Judith, in preda al dolore. – LE ULTIME PAROLE CHE GLI HO RIVOLTO ERANO PAROLE DI ODIO!!
Non le importava nulla della bambina. Il suo unico pensiero, al momento, era rivolto a Blake.
Ma non era finita lì. Ve ne erano ancora due da far uscire fuori, e Judith doveva rimanere concentrata e continuare a spingere.
- Spingi, Judith!!! – la spronò ancora Quaglia, stringendole la mano.
- Judith, Blake ti ama.
Nulla cambierà questo.
Non importa quali siano state le ultime parole che vi siete detti.
Lui sa che lo ami, e tu sai che lui ama te. Immensamente.
Solo questo importa! – la rassicurò Hinedia, accarezzandole i capelli sudati e sorridendole tristemente.
A ciò, Judith spinse ancora, urlando fino a consumarsi le corde vocali.
La testa del secondo neonato apparve.
- SPINGI, JUDITH! – la spronò Myriam, iniziando già a prendere con cautela quella testolina.
La giovane donna instancabile spinse ancora, stritolando le mani di Hinedia e di Quaglia.
La seconda bambina vide la luce, finendo tra le mani di Myriam a sua volta.
La strega sorrise, nel guardarla piangere a dirotto, energica e vivace quanto sua madre.
Porse la seconda neonata tra le braccia di Quaglia, il quale la cullò.
Intanto, il medico era riuscito a calmare la prima, coprendola con un panno pulito. L’uomo si rivolse a Myriam: - È vivo il secondo?
- “Seconda” – lo corresse Myriam, riprendendo velocemente la sua postazione. – È una femmina anche lei – precisò. – Ed è vivissima, esattamente come sua sorella.
Il medico assunse uno sguardo allarmato, a ciò. – Speravo che almeno uno dei tre morisse, nel parto: non è di buon auspicio partorire tre gemelli…
- State scherzando, vero?!?! – gli urlò contro Hinedia, a distanza. – TAPPATEVI LA BOCCA E CONTINUATE A CULLARE LA BAMBINA. QUESTI BAMBINI SOPRAVVIVRANNO, TUTTI E TRE! - esclamò con sicurezza la serva del Creatore, e Myriam non poté fare a meno di sorriderle, fiera.
Era vero, non era ancora finita. Ne mancava uno, da tirare fuori sano e salvo, l’ultimo della cucciolata.
- MI AVEVANO PROMESSO CHE NON GLI AVREBBERO TORTO UN CAPELLO!
I MONACI ME LO AVEVANO PROMESSO!!! NON HANNO MANTENUTO LA PROMESSA!!
SONO DEI VERMI SCHIFOSI!! – pianse a squarciagola Judith, oramai delirando, scuotendo la testa in preda agli spasmi.
- JUDITH, NON MOLLARE ORA!
CONCENTRATI, AMICA MIA!
MANCA L’ULTIMO, POI SARÀ TUTTO FINITO! – la supportò nuovamente Hinedia, stringendole la mano.
- Avanti, Judith!! Puoi farcela!! – andò di nuovo in suo aiuto Quaglia, il quale stava cullando la seconda gemella sgambettante, lì di fianco.
Judith fece l’ultimo sforzo, e fiumi di sangue uscirono dalla sua apertura.
Tutto quel sangue era allarmante, ma Myriam non glielo disse. Continuò invece ad incoraggiarla, insieme agli altri due, fino alla fine.
- Vedo la testa!!! – esclamò la strega, ponendo già le mani in posizione, accanto all’intimità estremamente dilatata della rossa.
- AVANTI, JUDITH, CI SIAMO!! – continuò Hinedia.
Judith spinse ancora, e urlò, urlò talmente tanto da venire colpita da qualche conato di vomito.
Il suo intero corpo era un bagno di sangue e sudore.
Tuttavia, se avessero fermato il sangue in tempo, sarebbe sopravvissuta.
Ma, soprattutto, se l’avessero fatta riposare e avessero placato la sofferenza e il tumulto del suo cuore scarnificato.
Anche la sofferenza emotiva estrema poteva portare alla morte, Myriam lo aveva appreso tempo prima.
La testa uscì completamente, e con essa tutto il corpo.
Myriam accolse tra le proprie braccia l’ultimo gemello, un bel maschietto rigoglioso.
Tuttavia, il maschietto non pianse subito come le sue sorelle, tanto da far allarmare Myriam.
La strega lo cullò e lo scosse con gentilezza, cercando segni di vita in lui, e, all’improvviso, il bambino aprì gli occhi.
Iniziò a piangere, dimostrando di essere vivo e forte.
Myriam sorrise sollevata, poi guardando Hinedia, dandole tacitamente la conferma che tutti e tre i gemelli fossero sani e salvi.
Quaglia sorrise a sua volta, mentre il medico sbiancò.
- Ce l’hai fatta Judith!!! – Hinedia pianse e le accarezzò i capelli. – Ora che la tua pancia è vuota… puoi tenerne uno, se vuoi. Ma non di più, non devi affaticarti più di così…
Credendo che Judith volesse tenere almeno uno dei suoi figli in braccio, Myriam porse l’ultimo nascituro tra le braccia di Hinedia, che era accanto a Judith.
La serva del Creatore ammirò quella meravigliosa creaturina, che muoveva le braccine e sbatteva gli occhietti ancora annebbiati, provando il desiderio di piangere a dirotto, fino alla fine dei tempi.
Gli accarezzò una guancia con la punta delle dita. – Ciao, piccolino…
Judith la guardò stringere il neonato, ma si voltò dall’altra parte. – Non voglio tenerli – disse.
Hinedia alzò lo sguardo dal bambino e lo posò sull’amica.
Non era lì per giudicarla. Tuttavia, sapeva che, se non l’avesse convinta ad instaurare un primo approccio con i tre gemelli in quell’esatto momento, Judith se ne sarebbe pentita per tutta la vita.
- Prendilo solo un attimo.
Ti somiglia tantissimo – le sussurrò discretamente.
A ciò, Judith si voltò verso di lei e, sfinita, si convinse a prenderlo tra le braccia nude e stanche.
Non appena se lo accoccolò al petto, la giovane donna osservò il volto del neonato, sentendo scariche di brividi attraversarle tutto il corpo intorpidito.
Le sembrò di vedere le porte del Paradiso e quelle dell’Inferno insieme, e di non averne paura.
Guardarlo, era come guardare le stelle del cielo, con la consapevolezza di poterle stringere, accarezzare, persino baciare, e ammirare all’infinito.
Judith sorrise, piangendo. Infilò l’indice della mano sul palmo minuscolo del bambino, e questi lo strinse immediatamente e istintivamente.
Avvicinò le labbra carnose alla fronte del pargolo, inspirando il suo buon odore, un odore che non avrebbe mai e poi mai dimenticato.
Lo baciò.
Si rese conto che non le importava più che fossero di Naren.
Non le importava di chi fossero.
Non le importava, perché quei bambini erano suoi. Tutti suoi. E sempre lo sarebbero stati.
- È così che si sentono le madri…? – domandò improvvisamente Judith, con voce sibilante e rotta, rotta d’amore. Cullò suo figlio, premendolo al suo seno, chiudendo gli occhi.
Intanto, il medico aveva avuto un mancamento a causa del fatto che tutti e tre gemelli fossero nati vivi e in salute, così Myriam si occupò della primogenita al suo posto.
- Qualcuno deve bloccare la fuoriuscita di sangue – ricordò a tutti la strega. – Hinedia, sei l’unica con le mani libere, pensaci tu.
La serva del Creatore fece per obbedire, ma venne bloccata dalla mano di Judith sul suo polso, che la trattenne accanto a sé. - Hinedia… - la richiamò l’amica, voltandosi verso di lei, mentre accostava suo figlio maggiormente a sé.
- Sì?
- Sei stata una buona amica.
La migliore che potessi desiderare – le disse sorridendole amorevolmente.
Hinedia sorrise in risposta, con gli occhi lucidi e pieni di affetto. – Insieme. Fino alla fine – le promise, stringendole ancora la mano.
- Ma non è finita qui – quelle parole di Judith la allarmarono, e non seppe neanche il perché.
- Che cosa intendi?
Lo sguardo di Judith mutò e si riempì di determinazione di ferro.
I suoi grandi occhi neri la perforarono da parte e parte, mentre la guardava. – So che lo ami.
Hinedia schiuse la bocca e incespicò sulle proprie parole, non sapendo cosa rispondere. Il soggetto era sottointeso: sapeva benissimo di chi stesse parlando. – Judith, che cosa…?
- So che lo ami – ripeté la rossa. – L’ho saputo sin dalla prima volta in cui mi hai chiesto di lui. E mi va bene, amica mia, dico davvero, mi è sempre andato bene – la rassicurò, con sincerità. – Non sei l’unica, oltre me, ad amarlo. Ma ora ti chiedo… in onore dell’amore che provi per lui e in onore dell’amicizia che ci lega… io ti chiedo, con il cuore in mano, di far uscire fuori Layla.
Per l’ultima volta, falla uscire fuori di tua volontà.
Solo lei può tirarci fuori di qui.
- Judith, no! – esclamò la serva del Creatore, scattando in piedi come scottata.
Myriam non comprese di cosa stesse parlando esattamente, ma se ciò poteva tirarli fuori di lì, allora ben venga.
Quaglia, invece, sapeva sin troppo bene cosa Judith stesse chiedendo ad Hinedia.
Conosceva la gravità e la pericolosità di quella tremenda richiesta.
Ma Judith era decisa, più di quanto lo fosse mai stata: voleva rivedere Blake. Voleva rivederlo, prima che fosse troppo tardi, e impedire ai monaci di ucciderlo, in qualsiasi modo possibile o immaginabile.
- Se le permetterò di uscire… poi dovrò togliermi la vita, Judith… - balbettò Hinedia, terrorizzata da tale richiesta.
“Adsum martikhoras”
- Non dovrai farlo, perché riuscirai a controllarla, noi ti aiuteremo a controllarla e a tornare in te stessa.
- Tu non capisci! Non puoi capire…!!
- Hinedia – la richiamò fermamente Judith afferrandole nuovamente il polso con la mano libera e riportandola ad un palmo dal suo viso. – Vuoi o non vuoi salvare Blake?
- Darei qualsiasi cosa per salvarlo! – liberò quel sentimento, urlandoglielo addosso con cruda sincerità.
- Allora fallo, amica mia. Io sarò con te, fino alla fine. Esattamente come tu mi hai assistita nel momento più importante della mia vita, io assisterò te e non permetterò a Layla di avere il sopravvento. Ma ti prego, ti supplico, ti imploro… tiraci fuori di qui. Io devo vederlo e devo impedire che lo giustizino. Devo salvarlo.
Anche io voglio salvarlo.
Non immagini neanche quanto.
 
 
BLAKE

- Il ragazzo è proprio lì, Charles.
Ti basta dare ordine alle truppe di avanzare e lo prenderemo con uno schiocco di vita, ammazzando tutti quelli che ci si metteranno in mezzo – sussurrò Gregory, accanto a lui.
- No – disse Charles, placandolo con la mano. – Aspettiamo. Non siamo qui per fare strage di innocenti, senza tentare la strada della diplomazia.
Se non ci ascolteranno, sarete autorizzati a depredarli tutti, a ucciderli o a fare schiavi, a vostro piacimento.
Ma ti ricordo che il ragazzo che Nostra Signoria vuole ardentemente è legato, in mezzo a loro: sono loro ad avere il coltello dalla parte del manico, per ora.
Cerchiamo di convincerli con le buone – concluse, per poi rivolgersi nuovamente alla folla di abitanti di Bliaint, alzando la voce:
- Popolazione di Bliaint, ascoltatemi, vi prego:
Non siamo qui per fare strage di innocenti, né per fare schiavi.
Noi vogliamo solo il ragazzo che vi stavate accingendo a bruciare al rogo.
Se lo volete bruciare, non dovrebbe esservi molto utile, no? Non dovrebbe essere un problema cederlo a noi.
Dunque, ecco il nostro accordo:
Se ci consegnerete Blake, vi risparmieremo tutti.
Se, invece, deciderete di non farlo… saccheggeremo il vostro villaggio, prenderemo con noi tutte le donne e i bambini, e uccideremo tutti gli altri. Bliaint verrà rasa al suolo.
Prendetevi il vostro tempo per pensarci, se ne avete bisogno: noi resteremo esattamente qui.
Terminata la sua orazione, la folla iniziò a vociferare tra loro.
La risposta a tale accordo sembrava sin troppo semplice per quei soldati stranieri: se fossero stati al loro posto, avrebbero ceduto un ragazzo ad un esercito straniero, senza neanche pensarci.
Eppure, per Bliaint non era così. Per Bliaint ogni vita consacrata al Diavolo o al Creatore era pura, intoccabile, e cederla ad uno straniero significava macchiare la sacralità di Bliaint e del loro rapporto con i due Signori.
Blake lo sapeva bene. Osservò la folla confabulare, indecisa, in quell’aria di tensione, di terrore e di desolazione.
La corda stretta al suo addome aveva iniziato a strappare i vestiti sotto di sé, arrivando alla carne.
Ma, oramai, quel dolore non lo sentiva quasi più.
E anche in quel bivio di vita o di morte, non riuscì a non domandarsi dove fosse Judith, se il parto fosse andato bene, se fosse ancora viva, se i suoi gemelli fossero vivi. Lo sperò con tutto se stesso.
Prudence prese parola, alzando una fiaccola al cielo:
- Io non ho più alcun desiderio per la vita.
Eppure, le mie parole non sono plasmate dalla mia noncuranza nei confronti della mia vita, spogliata dai miei figli.
Parlo a nome delle sacre leggi di questo villaggio, che ci spingono ad essere impavidi e senza paura, confidando ciecamente nei nostri due Signori: non possiamo cedere questo ragazzo ad un conte straniero. Egli deve essere bruciato esattamente come merita, per tutto ciò che ha fatto.
E anche se il suo cuore fosse innocente… non potremmo esimerci dall’ucciderlo: solo così eviteremmo che questi sporchi stranieri mettano le mani su di lui! – disse a gran voce, incontrando l’evidente dissenso da parte di Craig, di Ambrose, degli altri componenti della ribellione e dei bambini dei vizi capitali.
- Prudence, cosa stai dicendo?? – le domandò confuso Ambrose, avvicinandosi a lei.
Lei, Ambrose e Craig erano gli unici ad essere ancora sopra il soppalco, insieme a Blake.
- Sai anche tu che è giusto così, Ambrose – disse asettica la donna.
- No, non può essere giusto… se rifiutiamo di cedergli Blake, ci attaccheranno e ci uccideranno! Non possiamo combatterli, saremmo spacciati! Inoltre, abbiamo appena salvato questo ragazzo dal rogo, dalla condanna ingiusta dei monaci… non possiamo condannarlo ora, solo per non cederlo agli stranieri.
- Quale abitante di Bliaint, quale essere umano senziente, preferirebbe rinunciare alla propria libertà, essere ceduto come un oggetto, come schiavo, ad un nobile straniero, che potrebbe fare di lui qualsiasi cosa, piuttosto che morire dignitosamente? – replicò freddamente Prudence, come se fosse ovvia la risposta.
- Stai ponendo sullo stesso piano la morte al rogo e una vita trascorsa come schiavo…! – le rispose Ambrose, in difficoltà.
Poi, improvvisamente, il servo del Creatore si rese conto che non avevano ancora interpellato l’oggetto e protagonista di tutta quella disputa.
Si voltò verso Blake, mostrando il suo volto spaesato, in cerca di risposte: - Tu cosa ne pensi di tutto questo? Preferiresti andare con loro… o morire ora?
Blake non si aspettava di venire interpellato: era ancora legato, privato del diritto di scelta sulla propria vita.
Per tale motivo nel suo volto si dipinse sorpresa, dinnanzi al quesito di Ambrose.
Craig, invece, era come paralizzato.
- Se non permetterete che mi portino con loro… vi uccideranno, stupreranno le donne, tortureranno i rimanenti, probabilmente – rispose ragionevolmente Blake. – Non è questione se io preferisca cedermi spontaneamente come schiavo, o morire ora. Si tratta della vita degli abitanti di Bliaint. Sono stati chiari: Bliaint verrà rasa al suolo se non mi avranno.
Perciò la scelta è scontata, ai miei occhi: cedetemi a loro. Permettete che mi prendano e avrete salva la vita – disse ad Ambrose, fissandolo dritto negli occhi con cruda sincerità, come in una sorta di preghiera.
- Il ragazzo è intelligente! – si elevò una voce, proveniente dai cavalieri stranieri, in attesa. – Fareste meglio ad ascoltarlo!
- No!!! – fu l’esclamazione ben chiara di Craig, il quale sembrò risvegliarsi dall’oltretomba, attirando gli sguardi su di sé. Si voltò a guardare Blake, Ambrose e Prudence: - Blake non verrà bruciato al rogo, né verrà ceduto come mera merce di scambio a questi bifolchi – affermò deciso.
A ciò, Ambrose riprese la parola, riflettendo: – Blake ha ragione. Se non lo cederemo a loro… moriremo tutti – disse guardando il succitato negli occhi, come per scusarsi in anticipo delle parole che avrebbe a breve pronunciato, a cui sarebbero dovute seguire le azioni. Poi si voltò verso Prudence: - È deciso, Prudence: doneremo Blake ai soldati, proprio come ci hanno chiesto, così saremo salvi.
In risposta, la donna si girò a guardarlo, congelandolo sul posto. – Tu non decidi proprio niente, qui. È il popolo che decide, unanimemente – disse. – Ti sei fatto incantare da lui così velocemente? – lo derise.
- Non mi sono fatto incantare. È ciò che è giusto fare, Prudence, per salvare la vita del nostro popolo.
Ma la donna non lo ascoltò neanche, rivolgendosi direttamente alla folla, con la fiaccola alzata. - NESSUNO CI GARANTISCE CHE QUESTI STRANIERI MANTERRANNO LA PAROLA E RISPARMIERANNO LE NOSTRE VITE, DOPO CHE GLI AVREMO CEDUTO IL RAGAZZO!
IO DICO DI BRUCIARLO! BRUCIARLO, PRIMA CHE SE NE APPROPRINO! E DICO ANCHE DI TOGLIERCI LA VITA, PRIMA CHE SI APPROPRINO DI NOI!
COSÌ VORREBBERO I NOSTRI SIGNORI!
COSÌ DEVE ESSERE FATTO!
NON SIATE CODARDI E NON ABBIATE PAURA!
AL CONTRARIO, ABBIATE PAURA DELL’IRA CHE SI SCAGLIERÀ SU DI NOI, SE DOVESSIMO DISOBBEDIRE ALLE SACRE SCRITTURE E AL VOLERE DEL CREATORE E DEL DIAVOLO!
LA PUNIZIONE CHE CI COLPIRÀ POI, SE ANCHE QUESTI CAVALIERI DOVESSERO RISPARMIARCI LA VITA… SARÀ MOLTO PEGGIO DI TUTTE LE CALAMITÀ E LE EPIDEMIE CHE BLIAINT HA SOPPORTATO SINORA!
Inoltre… - concluse la donna, voltandosi verso Blake e puntando il dito contro di lui. – QUESTA CREATURA PECCATRICE DEVE MORIRE! HA CONDOTTO GLI STRANIERI DA NOI, MERITA LA MORTE!
Un coro di urla di approvazione si elevò dalla folla, la quale iniziò ad urlare:
“A morte!
A morte!
A morte!”
Improvvisamente, Blake visualizzò anche la figura di Ephram, che avanzava tra la folla, verso il soppalco, con sguardo allarmato, come se ogni suo piano e proposito gli si fosse rivoltato contro, andando in fumo: - NO! Che diavolo state facendo?!? Vi rendete conto della gravità di ciò che state facendo, razza di carogne urlanti?!? – urlò lo stregone, trascinando Ambrose giù dal palco con violenza e scagliandoglisi contro: - Non era questo quello che intendevo quando ti ho incoraggiato ad aizzare una rivolta contro i monaci!! Non ti ho chiesto di mettere a capo di questa rivolta una donna pazza e incurante verso la vita!!! – gli urlò, strattonandolo, mentre Ambrose continuava a guardare con orrore il corpo di Prudence muoversi verso Blake. – Prudence, NO!! FERMATI! – le urlò il ragazzo, ma non vi fu verso.
Accadde tutto troppo in fretta.
Troppo in fretta per essere fermato da qualsiasi azione dei soldati, e da qualsiasi altro volesse salvargli la vita, o evitare di condannare Bliaint alla rovina.
Craig si scagliò su Prudence, tenendola ferma, come una belva feroce che difende con le unghie e con i denti i suoi cuccioli.
Blake non lo aveva mai visto così.
In quei pochi minuti, stava scoprendo lati di Craig che non aveva mai visto prima.
Poi, però, l’uomo venne afferrato da diverse paia di mani, appartenenti a uomini che erano profondamente d’accordo con Prudence. Lo tirarono giù dal soppalco, tenendolo fermo, mentre questo urlava e si dimenava, piangendo disperato.
Nel soppalco rimasero solo Prudence e Blake, legato.
La donna lo guardò negli occhi, gelida.
Blake ricambiò lo sguardo, non dicendo nulla, attendendo solamente, che il proprio fato gli bruciasse addosso.
Quando la donna lanciò la fiaccola accesa ai piedi di Blake, decretando la decisione del popolo, anche l’urlo di Charles giunse alle loro orecchie, che non si aspettava minimamente quel risvolto, e non era stato abbastanza veloce per impedirlo.
Blake ebbe il tempo di fare molte cose, in quei pochi secondi che lo dividevano dalla morte, mentre le fiamme consumavano velocemente la paglia ai suoi piedi:
Individuò la figura di Mona, tra la folla, che piangeva e lo guardava, pentita di averlo denunciato alle autorità.
Il suo volto diceva:
“Perdonami”
E Blake la perdonò, dentro di sé.
Poi, riportò gli occhi su Ephram, il quale lo guardava dal basso, incapace di muovere un muscolo, sconcertato, scioccato, sbiancato, come non lo aveva mai visto.
E gli venne quasi da ridere nel vederlo così, tanto debilitato, impaurito, svuotato.
Il suo volto diceva:
“Perché non te ne sei andato, come ti avevo chiesto, amico mio?”
Blake gli sorrise, perché infondo se lo meritava, e perché sapeva di essere stato sin troppo duro con lui.
Poi, Blake sperò di vedere anche Myriam, Quaglia e Hinedia, tra la folla, un’ultima volta, per imprimersi i loro volti a sangue nella memoria, prima di spirare.
Ma loro non c’erano.
Così come Judith, che, nei sogni di Blake, in quel momento stava abbracciando i suoi tre gemelli neonati, tutti vivi, ridendo, sfinita dal parto, e rendendosi conto di avere un’immensa voglia di tenerli con sé.
La sua Judith che gli sorrideva e gli diceva che, in un modo o nell’altro, sarebbero riusciti a salutarsi, a riabbracciarsi di nuovo.
L’idea che anche Ioan si sarebbe potuto trovare lì in mezzo se le cose fossero andate diversamente, fu in grado di fargli provare un ultimo brivido alla spina dorsale, che gli sconvolse tutto il corpo: il suo scopo era stato portato a termine, il suo dovere l’aveva fatto.
Suo fratello era salvo. Lontano da tutto quel baccano, da tutto quel sangue, da tutto quel dolore, da quella puzza di bruciato.
Se suo fratello stava bene… poteva morire in pace, sereno e realizzato.
Poi, per ultimo, Blake voltò lo sguardo verso l’ultima persona che gli mancava da guardare, affrontando l’ostacolo più grande e più bello.
Se lo era lasciato per ultimo perché sapeva, immaginava cosa l’uomo volesse dirgli.
Quell’amico devoto, che si era insinuato nel suo cuore silenziosamente e con costanza, a cui avrebbe letteralmente affidato la vita, tanta era la fiducia che nutriva verso di lui.
L’amico che si era reso conto volesse al suo fianco.
L’amico che non era disposto a veder andare via.
L’amico che gli era sempre stato accanto, salvandolo in ogni modo possibile.
L’amico… che meritava molto di più da lui, meritava più che essere chiamato semplicemente “amico”.
L’amico che meritava il suo cuore intero, meritava di stringere a sé la sua anima nuda.
L’amico che Blake sperava riuscisse ad andare avanti, dopo quello che i suoi occhi stavano vedendo, perché non avrebbe sopportato l’idea che morisse, per niente al mondo.
Va’ avanti senza di me, Craig.
Vivi la tua vita, senza paura.
La mia morte non è la fine di tutto.
Non è la tua fine.
Vivi.
E scappa via di qui.
Blake lo guardò intensamente, vedendolo dimenarsi tra le braccia degli uomini che tentavano inutilmente di tenerlo fermo, di tenerlo lontano da lui.
Ma Craig era una belva, un animale.
Sfuggì alla loro presa e si aggrappò con le braccia alla superficie del soppalco, esattamente ai suoi piedi. Cercò di issarsi su, per salire, ma il suo corpo era tremante, instabile, le sue mani sudate, le sue gambe ridotte a due pezzi di carne gelatinosi.
A ciò, Craig lo guardò dal basso, con il volto sconvolto dalle lacrime.
Erano vicini, così vicini, ma al contempo troppo lontani, come lo erano sempre stati.
Craig si beò di ogni cosa di lui, saziando i suoi occhi, come era abituato a fare.
Poi, schiuse la bocca, e quelle parole che avrebbe voluto dirgli da mesi e mesi, quelle parole che si tratteneva dentro come macigni consumanti, quelle parole che lo divoravano e infuocavano giorno dopo giorno, finalmente lasciarono le sue labbra, dinnanzi all’unico giovane uomo che avrebbe mai amato, che le udì forti e chiare:
- Ti amo.
Ti amo, da morire.
Ti amo…
Ti amo!
Ti amo!!
TI AMO!
TI AMO!!!
Gliele urlò piangendo, tirandole fuori senza paura, senza vergogna, liberandole al cielo, liberandole per Blake.
Blake, in risposta, pianse.
Pianse e gli sorrise.
Gli sorrise in un modo in cui non gli aveva mai sorriso.
Gli sorrise con gli occhi e il viso pieno d’amore.
Infine, quando iniziò a sentire il fuoco raggiungergli le caviglie, Blake guardò davanti a sé, trovando, dopo tanto tempo, una vecchia conoscenza venuta a fargli visita.
Una vecchia conoscenza che aveva scoperto gradire immensamente.
- Bonnie… - sussurrò Blake, guardando la bambina bionda sporca di terra, in piedi davanti a sé.
Bonnie gli sorrise, con un sorriso troppo diverso da quello dei bambini.
Gli sorrise quasi come avrebbe fatto una madre, poi volò in aria, staccando i piedini nudi da terra e avvicinandosi al suo viso.
Allungò una manina e accarezzò la guancia bagnata di lacrime del ragazzo.
Blake si beò di quel contatto, guardandola negli occhi e sorridendole, distrutto. – Ho paura, Bonnie. Ho tanta paura…
La bambina gli sorrise nuovamente, con immensa premura, poi intonò il suo canto, il canto del fantasma:
- “Ho sentito scaturire in me il terrore della morte e dell’ignoto.
Ho cercato tutti i miei pezzi, sepolti chissà dove, a metà tra i due mondi, ma non li ho trovati.
Mi dissolverò come il vento, lo so.
Ti vedo ma tu non vedi me.
Non sogno più, quindi mi infilo nei tuoi, di sogni, per non perdermi.
Fammi dormire ancora, fammi dormire e fammi sentire i battiti del tuo cuore, perché io non sento i miei.
Guarda il mio sudario un’ultima volta e smetti, smetti di piangere, altrimenti non riuscirò mai ad addormentarmi sottoterra”
Non avere paura – concluse la bambina. – Non averne. Io sono con te.
Blake annuì, rassicurato, poi alzò gli occhi blu, lucidi come le stelle, verso l’alto, guardando il cielo.
Come ad ogni rogo, in cielo splendeva il sole. Anche stavolta.
Poi, il fuoco lo raggiunse.
E mentre le urla atroci del ragazzo si innalzavano, Charles e i suoi soldati tentavano ancora di superare la folla accanita, che impediva loro di raggiungere il soppalco.
 
 
HINEDIA
 
Judith le aveva appena chiesto di liberare il suo nemico più grande: se stessa.
O meglio, la parte più oscura di sé.
Layla stava scalpitando per uscire sin da quando erano stati chiusi contro la loro volontà in quel sotterraneo, ma, come ogni volta, Hinedia aveva lottato per tenerla a bada.
Ora, invece, si trovava dinnanzi ad un bivio: o uscire di lì per tentare di salvare Blake, o mantenere il controllo di sé, respingendo quella parte distruttiva in fondo, lì dove sarebbe dovuta restare.
Tentare di salvare Blake e tenere prigioniera Layla non erano coinciliabili.
Poi, però, pensò che la soluzione era molto semplice: dopo aver risvegliato Layla, avrebbe pronunciato la famosa frase che avrebbe liberato il veleno della manticora, e che l’avrebbe resa libera, uccidendola.
Infondo, voleva morire sin da quando aveva tolto la vita a Dun Rolland, macchiandosi di omicidio.
Ora era il momento giusto: Judith era salva, con i suoi tre bellissimi gemellini, e Blake sarebbe stato salvo a sua volta, se Judith fosse riuscita a convincere i monaci a non giustiziarlo. Anche Quaglia stava bene, lì accanto a lei.
Eppure, prima di prendere la decisione finale… volle consultarlo.
Oramai la figura di Quaglia era divenuta pari a quella di un maestro spirituale per Hinedia.
L’ultima parola sulla faccenda, l’avrebbe avuta lui.
Hinedia si voltò verso l’uomo, che già la stava guardando, con in braccio la secondogenita della cucciolata.
- Secondo te cosa dovrei fare?
- Qualsiasi cosa sia, falla uscire – parlò a sproposito Myriam, che smaniava per uscire a sua volta: forse anche la sua influenza in quanto monaca sarebbe servita a convincere i monaci a non giustiziare Blake.
Quaglia si avvicinò a lei, e le sorrise rassicurante: - Falla uscire, Hinedia. Ti riporterò io indietro – le garantì con decisione.
E Hinedia si fidò ciecamente di lui, così come si fidò ciecamente di Judith, che le strinse la mano, prima di guardarla avvicinarsi alla botola.
Vieni fuori, Gemella.
Vieni fuori…
Le bastò pensare a tutto l’odio che nutriva nei confronti dei monaci, coloro che stavano per far bruciare al rogo Blake, per istigare lo spirito protettivo di Layla ad uscire fuori, facendolo scatenare.
Quando la ragazza riaprì gli occhi scuri, non era più Hinedia, bensì il mostro.
Urlò disperata ed esagitata, spaventando tutti, iniziando a prendere la rincorsa e a scagliarsi contro la botola come un toro.
La sua volontà si era sostituita alla sua forza fisica: il suo corpo era animato solo dal morboso e malato spirito protettivo che Layla nutriva nei confronti di Blake.
Fu solo per tale ragione che, dopo dodici violentissime spallate di rincorsa, con cui Layla tartassò incessantemente la porta, questa venne sfondata, e alcune schegge di legno si infilzarono dentro la pelle della ragazza.
- Usciamo di qui, svelti!! – le parole di Myriam punsero le loro orecchie come aghi.
Myriam prese in braccio tutti e tre i gemelli, mentre Quaglia prese in braccio il corpo debolissimo e prosciugato di Judith, riuscendo anche a trascinarsi Layla con sé, mentre risalivano le scalinate della cattedrale e giungevano al portone.
Prima di aprire il portone, Quaglia adagiò Judith a terra, poi si accostò a Layla.
Era evidente Hinedia stesse combattendo dentro di lei, per riuscire fuori.
“Adsum martikhoras
Adsum martikhoras
Adsum martikhoras” si ripeteva dentro di sè la ragazza.
Era il momento.
Era il momento di pronunciarla, con le ultime briciole di lucidità che le rimanevano.
Era ora di liberarsi per sempre di Layla. E di se stessa.
- Adsum-
- No!! – la interruppe Quaglia prontamente, sapendo bene cosa stesse per fare. – La colpa dell’esistenza di Layla è solo mia, ricordi??? Tu non hai colpe. Perciò svegliati, Hinedia. Svegliati e dominala. Non devi morire per questo.
NON DEVI MORIRE.
Improvvisamente, Hinedia riaprì gli occhi, ritrovando se stessa.
Era stato pari ad un miracolo, ma le parole di Quaglia erano state in grado di scacciare via il mostro.
La ragazza gli sorrise, immensamente riconoscente, ma ora non vi era tempo di pensare a ciò.
- Aprite questo maledetto portone!!! – esclamò Myriam, con i tre gemelli in braccio.
Quaglia si affrettò a spalancare il portone che dava sulla piazza principale del villaggio.
Ma lo spettacolo che si trovarono dinnanzi era il peggio, del peggio, del peggio che si potessero immaginare.
I soldati stranieri, uomini armati fino ai denti, stavano uccidendo chiunque capitasse loro a tiro, i loro cavalli calpestavano senza grazia i cadaveri a terra, molti di loro trascinavano per i capelli donne e bambini, incatenandoli, altri le stupravano come cavalli da monta, all’aria aperta, tra le urla, il sangue, le grida di disperazione, il lamento di un popolo intero condotto alla rovina.
Per orgoglio.
Per bigottismo.
Per una fede cieca, che chiedeva sempre e non dava mai in cambio.
Per abbandono di ogni speranza.
In mezzo a tutta quella catastrofe, a quelle urla, a quei lamenti, a quella tragedia consumata dinnanzi ai loro occhi, si stagliava il soppalco, a distanza, in mezzo alla piazza.
Legato al palo, consumato a sua volta, vi era uno scheletro carbonizzato, oramai prossimo a divenire polvere.
Myriam fu la prima a ritrovare la capacità di muoversi e di pensare, dinnanzi a quella visione: poggiò i tre gemelli tra le braccia di Quaglia, e iniziò a camminare, poi a correre, diretta verso il soppalco.
Il suo andamento era quello di una morta vivente, privata di ogni spirito vitale, di ogni speranza, di ogni motivazione a continuare a vivere.
Quaglia era ancora immobile, congelato sul posto.
Judith, dal suo canto, guardava il soppalco da sdraiata a terra, a distanza.
I suoi occhi scuri erano spalancati, stralunati, sembrava volessero uscirle dalle orbite.
Inoltre… stava continuando a perdere sangue, ma gli altri non si accorsero di nulla.
Ne perdeva ancora e ancora, e sembrava che il suo stato mentale, il desiderio di morte che stava nutrendo in quel momento, stesse contribuendo a farle uscire ancora più sangue, a realizzare la brama di riunirsi al suo amore.
- Amore mio… - sussurrò Judith, sentendo una gravissima stanchezza piombarle improvvisamente addosso. – Amore mio, perdonami… perdonami se sono arrivata tardi. Sto per raggiungerti…
“Apri gli occhi, chiudi gli occhi, oh mia piccola dolce Arley Arley …
Arley, Arley, non guardare …”
Le parole di sua madre la cullarono nel cammino verso la morte.
Poi, poco prima di chiudere definitivamente gli occhi, accogliendo la Nera Signora incappucciata, un’unica voce, calda e amatissima, risuonò nelle orecchie della fanciulla:
“Spero tu stia facendo bei sogni”
Sto arrivando, amore mio.
Curerò le ferite che ti ha procurato il fuoco del rogo e non sentirai più alcun dolore, amore.
Sto arrivando…
Quando Judith chiuse gli occhi, in una pozza di sangue, abbandonando la testa a terra, Hinedia stava per muovere i primi passi verso la piazza, verso il soppalco, esattamente come aveva fatto Myriam, mossa dal disperato desiderio di avere un’ultima parte di lui, anche se si fosse trattato di abbracciare la cenere.
Poi, però, posò lo sguardo su Judith e la trovò in quel modo.
Sgranò gli occhi, iniziando a respirare affannosamente, abbassandosi su di lei e alzandole la testa e il busto pesanti. – Judith! Judith!! Judith, ti prego, rispondimi!!! JUDITH! RISPONDIMI, JUDITH, TI STO CHIAMANDO!! SONO QUI CON TE, CON TE FINO ALLA FINE, AMICA MIA!
JUDITH!!!
Hinedia alzò gli occhi su Quaglia, come per chiedergli aiuto, ma l’uomo era ancora paralizzato a guardare il soppalco a distanza, e i soldati che sterminavano e stupravano la popolazione di Bliaint.
Era un miracolo che possedesse ancora la facoltà e la razionalità di tenere in braccio i tre neonati, appena divenuti orfani.
Hinedia non ci poteva credere. Non ci poteva credere che anche Judith se ne fosse andata.
Strinse il corpo della ragazza a sé, piangendo piano, immaginando di star stringendo, con Judith, anche il corpo di Blake.
Poi, in uno sprazzo di lucidità, udì la voce di uno dei soldati stranieri avvicinarsi, camminare verso il portone della cattedrale.
Quaglia, ancora paralizzato, non ebbe reazioni.
La mente di Hinedia, invece, si riempì solamente di un pensiero:
Proteggi i bambini.
Nel momento in cui la fanciulla si voltò, l’uomo si stava avvicinando a Quaglia, osservando i tre gemelli, a metà tra l’intenerito e il divertito: - Carine, queste bestioline. Sono servi del Diavolo? Se sono servi del Diavolo, li porto con me, se non ti dispiace – disse l’uomo, tirando fuori la sua spada, poi alzando lo sguardo verso Quaglia. – Oh… che sorpresa. Ciao, Philippus – il soldato lo riconobbe come il “messaggero da Bliaint”.
- Non toccarli!!! – gridò Hinedia, scattando in piedi e fronteggiandolo, con rabbia ferina.
Layla era ben sotto controllo.
Ora era lei, Hinedia, ad essere infuriata.
- Oh, chi abbiamo qui?? Suppongo una serva del Creatore, a giudicare dall’aspetto che lascia a desiderare – la sdegnò l’uomo, avvicinandosi, per poi posare i suoi sudici occhi sul cadavere di Judith, steso a terra. – Gesù Cristo… chi è questa dea? E chi ha osato ucciderla? Sia maledetto chiunque ha stroncato la vita una giumenta tanto meravigliosa… che spreco. Però, posso averne un assaggio anche ora, dato che il suo cadavere mi sembra ancora fresco… e morbido – disse avvicinandosi.
Ma Hinedia si stagliò tra il corpo di Judith e il soldato, fulminandolo ferocemente.
- Non.Osare.Avvicinarti.A.Lei – scandì bene ogni parola, facendo ridere l’uomo.
- Sennò?? Sennò che fai?? Mi colpisci con l’orlo della tua sottana??
L’uomo alzò la spada su di lei, ma Hinedia schivò abilmente il colpo, mettendo in pratica gli insegnamenti di Quaglia.
In poco tempo, riuscì a disarmarlo, dandogli un’improvvisa e inaspettata ginocchiata sullo stomaco.
Dopo di che, conficcò la spada sul petto dell’uomo.
Gente come quell’essere non meritava di stare al mondo.
Fatto ciò, Hinedia ebbe chiaro in mente il da farsi.
Doveva agire subito, fare in fretta.
Si abbassò per prendere il corpo di Judith e riporlo in una zona della cattedrale più nascosta possibile.
Poi, la abbracciò un’ultima volta e le diede un bacio sulla fronte. 
In seguito, tornò da Quaglia e lo risvegliò dal suo stato di trance.
- Dammi uno o due dei gemelli, Quaglia, alleggerisciti – lo spronò. – Dobbiamo portare questi bambini via di qui. ORA.
A tali parole, l’uomo si riscosse, obbedendo e lasciandole tra le braccia due dei neonati.
- C’è un modo per scappare via da Bliaint, senza dover attraversare la piazza? – domandò Quaglia, pratico.
Hinedia vi pensò su, allontanandosi dal portone. - Il bosco… - realizzò. – Possiamo raggiungere il bosco dal retro della cattedrale. Judith, una volta, mi ha rivelato che c’è un modo per uscire dalla cattedrale del Creatore, tramite un tunnel che si trova nelle cucine, un tunnel che Maroine e Maringlen usavano sempre per infiltrarsi dentro – spiegò.
- Bene. Affrettiamoci.
Così, insieme, corsero verso la salvezza, con tre gemelli in braccio.
 
EPHRAM

La violenza imperversava ovunque.
Uomini che violentavano donne e anche qualche giovane fanciullo.
Luridi vermi che rapivano e trascinavano per i capelli la sua gente, senza averne la minima cura.
Nessuno, tra la sua gente, era addestrato a combattere.
Saresti dovuto essere qui in tempo, Ruben, per salvarci.
E invece non ci sei.
Dove sei, ragazzino?
Osservò quel tremendo spettacolo dinnanzi a sé, a distanza, con il cappuccio tirato su, a coprirgli il volto.
Blake era morto.
Il suo villaggio stava venendo massacrato.
Cosa rimaneva ancora, di Bliaint?
Poi, improvvisamente, uno dei numerosi soldati stranieri si accorse di lui, e gli si avvicinò puntandogli una spada alla gola.
- Togliti il cappuccio – lo minacciò. – Voglio vederti in faccia.
- Perché, che vuoi fare, cane? – gli domandò Ephram sprezzante, alzando le mani, imitando un fasullo segno di resa.
A ciò, il soldato gli tolse il cappuccio con la lama della spada, scoprendogli il viso.
Osservò il suo bel volto, poi fece scorrere gli occhi sui disegni neri e indelebili che sbucavano dal collo e dalla nuca. – Sei un servo del Diavolo. E anche uno stregone, vero? Ci hanno detto che quelli con i segni come i tuoi sul corpo sono stregoni, a Bliaint. Ci può tornare utile uno stregone. E poi… sei pur sempre un servo del Diavolo. Vali molto – annunciò il soldato, rinforzando la presa sulla spada puntata al collo del giovane stregone, poi prendendolo per un braccio e strattonandolo. – Ora fa’ il bravo e vieni con me… - gli sussurrò.
Ma Ephram gli sorrise sdegnato e schifato, strattonando il proprio braccio dalla presa di quel verme.
- Voi non ci avrete mai – gli disse, fissandolo negli occhi con una sicurezza e un’intensità che fecero paralizzare l’uomo.
- Che cosa…?
- Ho detto: Non ci avrete mai.
Nel caso fosse accaduta la peggiore delle ipotesi… mi sono armato. Anche per questo – la fiducia nelle proprie parole, che traboccava dai suoi occhi chiari, era spiazzante. – Ho fatto il mio dovere, e ho provveduto ad invocare il volere di qualcuno molto più potente e assetato di sangue, rispetto al Diavolo e al Creatore – lo informò.
Il soldato rise di sfregio, in risposta. – Ah sì?? E chi avresti pregato di salvarvi, sentiamo??
- Lo vedrai.
“Ho già pregato il mio Signore.
Ma ora rivolgo le mie preghiere a Te, Dio Sanguinario
Improvvisamente, la terra tremò.
Come Ephram aveva previsto, Lui venne in suo aiuto, accompagnato da tutti gli spiriti inquieti e tormentati dei Bambini, morti come lui.
“Hai ucciso i tuoi fratelli e sorelle, e ti sei tolto la vita.
Hai compiuto il gesto che ha permesso alle persone che amavi di raggiungere la libertà, Dominic.
Ho versato questo sangue per te come sacrificio”
La terra tremò, facendo impietrire tutti i soldati e gli abitanti di Bliaint soggetti alle loro torture e alla loro violenza.
Ephram sorrise, fiero.
“Ho bisogno che tu, tu e i tuoi compagni, malediciate questa Terra.
La malediciate, contro tutti gli invasori stranieri che vi metteranno piede.
Da qui, fino all’eternità”
I brutali tremori della terra partirono da tutte le cripte dissotterrate e dalla galleria.
Improvvisamente, delle crepe iniziarono ad aprirsi sul terreno, dalle cripte, scoperchiando anche la galleria, estendendosi su ogni singola porzione del villaggio di Bliaint.
“Ascolta le mie parole, Dominic!
Ascoltate le mie parole, Bambini Sciagurati!
Se non volete proteggerci… allora maledite anche noi abitanti di Bliaint!
Malediteci tutti, ma vi imploro, maleditela anche contro i nostri invasori, in modo che nessuno di noi soffra mai a causa loro!”
- Che diavolo sta succedendo?!? – domandò il soldato, spaventato a morte.
Ephram rise ancora, pronto alla morte a sua volta. – È il potere del Dio Sanguinario.
“Accetta questo sangue come dono, Dominic, e ascolta, ascolta le mie parole”
Ogni essere vivente presente sul suolo di Bliaint venne inghiottito dalle crepe, inghiottito dalla terra.
La sofferenza terminò, terminò quando sopraggiunse l’estinzione.
 
RUBEN

Quando Ruben mise piede sul suolo di Bliaint, trovò solo desolazione e tanto, tanto dolore, che aveva il colore del sangue secco, ma ancora fresco.
Ogni cadavere era stato inghiottito dal terreno, da delle crepe enormi e innaturali, che lui e i suoi compagni d’arme furono costretti a scavalcare con dei lunghi e grandi salti, per non caderci dentro.
Distruzione radicale fu tutto ciò che videro, relitto di quell’imponente e glorioso villaggio, la cui maestà poteva scorgersi dalle solenni e splendide cattedrali, ora distorte, a causa delle crepe.
- Che accidenti è successo qui?? – domandò il suo comandante, tappandosi il naso, per non sentire l’odore del sangue putrefatto perforargli in naso.
Un odore che avevano sentito già un’infinità di volte, prima d’allora, a cui avrebbe dovuto ormai esser avvezzo.
Ruben camminò tra le crepe, saltando da parte a parte, guardandosi intorno.
Il sole splendeva in cielo, il vento era vento di Primavera.
Nessun superstite.
Nessuno, da nessuna parte, nemmeno dentro le case.
Ruben vagò ancora, raggiungendo la parte centrale della piazza, occupata da un soppalco, inclinato dalla crepa sotto di esso. Sopra quel soppalco c’era un palo semicarbonizzato, con i resti quasi totalmente polverizzati di uno scheletro.
Ruben lo osservò, guardando il vento portare via quella cenere nera e spessa.
Alzò una mano al cielo, facendosi sfiorare da quei resti, appartenuti a chissà chi.
Siamo arrivati tardi, papà.
E tu?
Dove sei, tu?
Inghiottito anche tu, dalle fauci della terra di questo villaggio che tanto amavi?
Il mio viaggio in mare durato settimane… mi ha portato a questo?
Mi dispiace. Di essere arrivato tardi.
Non era rimasto nulla.
Era inutile rimanere lì.
Il leggendario villaggio di Bliaint era solo un ricordo, svanito nel nulla.
Prima che Ruben se ne andasse, di nuovo una voce, indistinta, gli carezzò le orecchie col suo canto misterioso:
Cala la luna
Il cielo la inghiotte
Cala la notte
Il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più
Cala la luna
Ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù.
 
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:

Perdonatemi per questo finale atroce alla George Martin, ma non amo i finali allegri, sfortunatamente.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto fino alla fine, capisco che seguire una storia del genere di sessanta e passa capitoli, non deve essere facile.
Spero vi sia piaciuta 🙏🏻
Comunque (per chi fosse interessato), la nostra storia non finisce qui:
Ho intenzione di scrivere anche un sequel, prossimamente, ambientato anni dopo, che seguirà le gesta di Ruben, dei figli di Judith e della figlia di Ephram e Sybil, principalmente (ma incontreremo anche qualche vecchia conoscenza)
Se vorrete seguire anche quella, ne sarei molto felice!
Grazie a tutti e buon anno nuovo (un po’ in anticipo) 🎉

 
 
 
 

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