Hel

di Fenice e Dregova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo:
 
All’alba dei tempi, quando le leggi non erano che una bozza, non complicata dai desideri di potere degli uomini e dalla loro sete di gloria, quando le storie erano fluidi fatti di parole che scivolavano densi dalle bocche degli anziani per confluire nelle orecchie dei più giovani, in cui ribollivano e davano forma a epici racconti di eroi e di nemici dall’aria seducente e dall’animo torbido come l’acqua piovana mista a fango, la terra era abitata da moltissime creature. C’erano gli uomini che creavano villaggi ingrandendoli in città, che prosperavano con ciò che la terra aveva loro da offrire e la natura offriva loro da cacciare. Dagli uomini, le creature più prolifiche, si udivano i canti dei bambini, il loro primo vagito, i loro pianti e i loro litigi, e le loro risate. Un bambino umano sapeva accendere, come poche cose nel creato, la gioia nei cuoi degli osservatori, una tenerezza che andava al di là del più semplice sentimento di commossa gentilezza, molto più simile a una sorta di spirito interiore che si agitava tumultuoso e che portava gli uomini a sorridere con i loro occhi umidi, e le donne a versare qualche lacrima. Quella era la loro progenie, il loro futuro.
Accanto agli uomini c’erano gli elfi. Creature di indomita bellezza, con i loro capelli che assumevano le tonalità più disparate di colori, dal ceruleo al colore giallo bruciato dei petali dei girasoli, dal rosso della terra al morbido azzurro dei non ti scordar di me. Le loro abitazioni erano costruite sugli alberi più possenti, grossi e alti, dalle fronde immense e sempreverdi, che il cuore delle foreste aveva al suo interno. Vivevano a stretto contatto con la natura. Abili arcieri, custodi della magia della natura, conoscitori del linguaggio degli animali. Gli elfi, con la loro dal tenue colore delle clorofilla, avevano una voce capace di scuotere l’anima dei tiranni facendoli piangere come bambini appena nati. I loro canti, intonati con un trasporto che coinvolgeva la loro stessa essenza, come se il loro canto fosse loro e loro le parole che soavi si alzavano potenti, scivolando sulla terra e innalzandosi fino ai cieli, facevano riemergere ricordi che si credeva perduti, voci delle persone amate e che non c’erano più, risate di bambini che si rincorrevano nel passato.
Gli elfi guardavano gli umani con affetto, ma resistevano dall’avvicinarsi troppo a loro. Vedevano il loro potenziale, ma anche i difetti che li scalfivano. Avevano paura di ciò che il destino avrebbe avuto in serbo per tutti loro se l’equilibrio, perfetto ma paurosamente fragile, in cui vivevano sarebbe venuto a mancare. Ma non per questo erano restii dall’aiutare che li andava a trovare. Erano cordiali, forse un po’ silenziosi, ma un buon racconto poteva sciogliere loro la lingua rendendoli degli amabili interlocutori dalla mente aperta e strepitosamente acuta. Non per altro erano architetti dalle abilità sovrumane, capaci di innalzare templi i cui interni, fatti di schiere di colonne di bianco marmo, erano inondati dalla luce.
Più portati a mischiarsi con gli uomini c’erano i licantropi. Non così dissimili dai loro cugini umani, i licantropi erano uomini e donne in tutto e per tutto. La magia, però, li aveva toccati in un modo che era più una maledizione per molti, o uno strano regalo secondo il pensiero di altri. La parte più semplice da comprendere del loro potere era la forza straordinaria che possedevano i loro corpi, i quali per costituzione erano fasci di muscoli vibranti e potenti, a cui si affiancavano sensi sviluppati. Niente poteva sfuggire agli occhi, al naso e alle orecchie di un licantropo, ogni sussurro era chiaro come il suono delle campane, ogni ombra definita come se fosse colpita dai raggi del sole, la traccia di un odore era forte come l’aroma del rosmarino di cui poteva seguire le tracce anche a occhi chiusi. Ma i licantropi non erano solo questo. I licantropi avevano l’abilità di tramutarsi in enormi lupi, animali dall’istinto predatore. Di norma riuscivano a controllare la loro controparte animale, però, quando la luna era alta e piena nel cielo, quando la sua luce era più forte di qualsiasi astro visibile nel cielo notturno, la bestia che avevano dentro era incontrollabile. Emergeva l’istinto del lupo, la sua forza, la sua sete di correre libero, il suo desiderio di cacciare.
Ma la pace era tutto e i licantropi, sapienti della loro condizione, i giorni precedenti la luna piena si allontanavano dalla gente comune, si disperdeva nei boschi dove chiedeva aiuto agli elfi. Con la luna piena si trasformavano, ma non c’erano incidenti, non c’era sangue a macchiare il terreno. Questo perché i licantropi erano costretti a vagare in labirinti di alte siepi e muri di tronchi duri e insormontabili e a saziare la loro fame con gli animali che rimanevano intrappolati nella trappola degli elfi.
Escluso questo aspetto della loro essenza, questo spicchio di vita che se non arginato avrebbe messo in pericolo tutti quanti, i licantropi erano conosciuti per il loro buon cuore e per la lealtà con cui si legavano alle persone. Infatti, un vecchio detto recitava: chi trova un licantropo, trova un tesoro. Proprio a indicare come la loro amicizia non avesse confini. E poi, come rifiutare l’aiuto di cacciatori provetti che riuscivano a stanare anche le prede che si nascondevano meglio, che potevano affrontare un orso e uscirne vincitori.
Nelle notti, però, si muovevano altre creature, oltre ai licantropi. Più pericolose e manipolatrici. Erano i vampiri. Nessuno sapeva da quale utero della magia fossero usciti, nessuno aveva udito il pianto di un vampiro, del primo vampiro che aveva mosso i suoi primi passi nella polvere della terra.
All’alba dei tempi del genere umano come società, la forza distruttiva dei vampiri era ben nota. Sulla loro nascita giravano tante storie. Una parlava di una donna dalla bellezza senza eguali, la più bella persino tra gli elfi, ma di origine umana. Il suo volto era così candido e puro che assomigliava a una bambola di porcellana, il suo tocco così leggero da risultare come la brezza primaverile, fresco e risanante, il suo sguardo dolce e amorevole e il suo corpo l’essenza stessa della grazia. Fu data in sposa a un giovinotto dal discutibile temperamento che sfrutto la bellezza della consorte per il proprio vanto e per racimolare ricchezze. La donna, sempre stata di animo buono, mai corrotto dall’odio o dalla rabbia, mai abbassato a raschiare quelli che rappresentavano il peggio della razza umana, venendo a conoscenza, nello stesso giorno, della sua gravidanza e dell’adulterio del marito, pregò le divinità che dal suo grembo uscisse un mostro, che il dolore che in anni di matrimonio suo marito le aveva fatto provare si reincarnassero nel frutto del loro concepimento. Fu così che nacque una creatura simile alla madre quanto al padre. Un bambino dall’aspetto di porcellana, perfetto in ogni dettaglio, che crescendo sarebbe diventato il più bello fra i belli, ma, crescendo, avrebbe dimostrato anche come il suo animo fosse freddo, calcolatore e crudele. Questo bambino non si cibava di niente se non di sangue umano, riducendo la servitù del padre a cadaveri pallidi e rinsecchiti. La madre, colta dal senso di colpa per aver lasciato che la sua parte più oscura riducesse il suo bambino a un mostro, per il dolore si gettò, in piena notte dalla finestra della torre più alta del suo castello. La magia accolse la sua preghiera: che suo figlio non facesse più male a nessuno. Ma la magia pura non poteva cancellare una vita, andava al di là delle sue possibilità, soprattutto se quella creatura, per quanto orribile nel suo essere mezzo mostro e mezzo uomo, fosse il soggetto di un amore, per quanto stupido e malato, puro. Il bambino, poi uomo, non poté più camminare alla luce del sole, la sua ombra si sarebbe mossa dalla fine del tramonto sino all’inizio dell’alba; dai suoi lombi non sarebbe nata alcuna progenie, ma solo dal suo morso e dalla condivisione del suo stesso sangue, e solo se il malcapitato fosse stato in punto di morte. Una maledizione con un accenno di miracolo, ma pur sempre una maledizione che li avrebbe seguiti per il resto della loro infinita esistenza.
Il vampiro originale, prendendo per vera questa storia, ed escludendo le altre, aveva concesso ad altri di prendere parte al peso che portava sulle spalle. Pochi, ma insaziabili.
A mantenere l’ordine c’erano i draghi, i più antichi di tutte le creature. Non si sapeva niente su di loro, su come avessero avuto origine, su come la loro magia agisse sul creato. Niente. In rare occasioni erano stati visti solcare i cieli con le loro possenti ali, ancora meno si era udito il rombo del loro ruggito. Si narrava che le loro fiamme fossero splendenti come oro, il materiale di cui si cibavano, il loro animo gentile e testardo. I bambini, cresciuti con le storie che parlavano di loro, sognavano di cavalcarli e di volare più veloci dei venti. Schegge di carne e sangue che solcavano i cieli alla ricerca di emozionanti avventure.
In verità, i draghi erano più vicini di quanto gli uomini potessero pensare. La loro magia permetteva loro di tramutarsi in uomini, di camminare tra coloro che erano stati risparmiati dal tocco della magia e di godere della loro spontaneità, della loro testardaggine, della loro creatività. Gli uomini, la razza umana, come i vampiri e i licantropi, era giovane, con tutto un potenziale da esplorare. Gli umani erano anche i più deboli. I più inclini alla violenza, non perché portati per natura o per istinto, come per i vampiri, ma per volontà, e questo li rendeva pericolosi. Però, non si poteva non vedere che tra di loro ci fossero alcuni che avevano una scintilla di magia, una scintilla che si spegneva superati i sedici anni.
I draghi decisero di donare agli eletti una parte della propria magia. Tra gli uomini nacquero i maghi e a loro fu data la possibilità di venire a conoscenza dei misteri della magia.
I draghi avevano avuto ragione nel temere gli uomini, nel dubitare che donare loro la magia fosse una scelta saggia. Erano però stati guidati dal buon cuore, e la loro testardaggine non aiutava, perché appena imboccata una strada, un accenno di pensiero, non erano capaci di fare marcia indietro.
Tra i maghi ci fu chi giocò con la magia, la usò per vagliare la trama stessa della vita. Questi maghi, desiderosi di conoscenza e di un potere maggiore che era stato concesso loro, finirono col risvegliare una forza potente rimasta sopita per secoli. Come non abboccare all’amo? Quella forza naturale parlava direttamente alla parte più nascosta dell’animo umano, e possedeva una voce sublime e sensuale, una lingua che sapeva carezzare le corde più sensibili degli uomini. La coscienza oscura che i maghi avevano risvegliato voleva tornare a camminare sul mondo, evadere dalla prigione in cui gli antichi dèi l’avevano gettata. Voleva vendetta. Era gelosa della libertà che era stata lasciata alle altre creature, mentre lei era gettata via come uno scarto.
Cantò agli uomini e fece promesse che non era intenzionata a mantenere. Agognava la libertà e avrebbe fatto di tutto per ottenerla.
La coscienza fu liberata e i maghi che l’avevano fatto uccisi, perché loro soli avevano la conoscenza di rigettarla nel baratro da cui era uscita.
La sua forma era un demone di puro caos, capace di una ferocia ben peggiore di quella dei vampiri, di una forza che andava altro a quella dei licantropi e di una magia potente capace di mettere in ginocchio sia i draghi che gli elfi.
Nel mondo riversò i suoi figli, parte della sua stessa essenza.
E ci fu la guerra. Una guerra sanguinosa in cui le diverse razze, unite per la prima volta a combattere, furono messe alla prova. I draghi e i vampiri difficilmente collaboravano, erano più propensi a seguire i propri piani invece che supportare gli altri, inoltre, i vampiri agivano più per egoismo che per desiderio di vincere la guerra. C’erano molte persone in punto di morte, persone che si sarebbero unite a loro, per l’eternità. Gli uomini cominciarono a temere i licantropi, alcuni di quest’ultimi, troppo concentrati nella battaglia, non si ritirarono nelle foreste degli elfi durante le notti di luna piena e finirono col trasformarsi in mezzo agli uomini seminando il panico e lasciandosi dietro scie di corpi morenti.
Gli elfi, forse gli unici a comprendere la vera gravità della situazione, cercarono il modo per salvare quante più persone possibili. I malcapitati feriti dai licantropi, con lacerazioni che li avrebbe condotti alla morte in poche ore, furono trasformati negli stessi licantropi che li avevano sbranati nella foga della perdita del controllo. La magia degli elfi andò, però, a mutare il dono dei licantropi. Trasformò la loro magia in una vera e propria piaga. Chiunque sarebbe stato morso da un licantropo, chiunque avrebbe avuto la sfortuna di mischiare il proprio sangue alla saliva di un figlio della luna, sarebbe diventato a sua volta un licantropo.
Gli uomini dimostrarono quanto la paura li rendesse brutali. Trovarono modi per uccidere le creature che avevano considerato loro amiche avvalendosi dell’aiuto dei maghi. Un licantropo poteva essere ucciso con l’argento, tossico per loro, o dal veleno ricavato dall’aconito. Un vampiro era indebolito dall’acqua e dall’argento, perdeva la sua velocità e la sua forza, se costretto a rimanere all’aperto durante l’alba si tramutava in cenere, la linfa del frassino era per loro letale come anche il sangue di un licantropo. Gli elfi potevano essere tenuti lontani spargendo le ceneri dei defunti intorno alle abitazioni o spargendo il sale sul terreno.
Solo i draghi sembravano non possedere punti deboli. Le loro squame erano spesse, impenetrabili da qualsiasi arma umana, le loro fiamme capaci di disintegrare anche la roccia più dura. Ma il genio dei maghi era lungi dall’essere fermato dall’impossibilità che pareva permeare la soluzione a un loro quesito. Osservarono. Studiarono. E scoprirono. Un drago poteva essere ucciso con un’arma ricavata dalle loro stesse ossa, le fiamme non penetravano uno scudo ricoperto con le loro stesse squame.
I cadaveri di tutte le razze riempivano i campi di battaglia, fu facile trovare gli strumenti per difendersi dai propri alleati.
In questo clima di diffidenza, di astio, di congiure e macchinazioni, fu difficile riuscire a battere un nemico che pareva essere al di sopra delle capacità di ogni singolo drago, uomo, mago, elfo, licantropo o vampiro.
La guerra durò secoli, scarnificando quelle che erano le creature che si muovevano sulla terra, rendendole spettri magri e consumati dal rancore.
Poco è chiaro su quello che accadde nell’ultimo giorno di battaglia, quando ormai le foreste degli elfi erano lande desolate, quando tutte le terre emerse del mondo erano coperte dalla foschia nera dei demoni, tossica per chiunque. Chiaro è che ci fu un lampo di luce, le tenebre furono scacciate e le terre sterili videro la loro superficie increspata da nuove piante che crebbero rigogliose. L’aria divenne salubre e i cieli chiari e limpidi. La pesantezza degli animi si sciolse e pianti di gioia si levarono leggeri e speranzosi.
Sulla fine della guerra circola una storia, l’unica.
Un drago, dalle squame di un verde brillante come le foglie della zamia, dagli occhi color giallo mimosa con schegge di luce bianca e un’iride verticale piena di intelligenza. Un giovane drago, nonostante i suoi seicento e ottantaquattro anni, dalle fiamme potenti e dorate e dagli artigli che non avevano provato pietà per i demoni.
Una donna, un’umana, che aveva avuto il coraggio di prendere una spada e farsi largo tra gli uomini l’avevano sbeffeggiata per il suo aspetto trasandato, ma che cominciarono a temerla dopo che ebbe sbaragliato le forze del nemico da sola, senza l’aiuto di nessuno. Una donna dai capelli rossi e ricci, dalla carnagione diafana e dagli occhi di un caldo e morbido nocciola, capaci di fendere meglio di una lama, e priva di parola.
Un vampiro, una creatura della notte a cui un elfo aveva donato un anello in cui era racchiusa una scheggia della notte, un artefatto mafico che gli permetteva di camminare sotto la luce del sole senza incontrare la morte. I suoi occhi viola mostravano una bontà che stonava con il resto della sua specie, un amore che andava oltre l’odio che i suoi simili provavano nei confronti delle altre razze. Nonostante non fosse più umano ricordava ancora con vivida intensità cosa significasse esserlo. Sentire il calore del sole sulla pelle, amare qualcuno senza avere il costante timore di uccidere al primo bacio, la sensazione dolce di un corpo caldo da abbracciare. Gli occhi pieni di vista stonavano anche col colorito pallido della sua cute, con l’odore ferroso del sangue di cui era pieno ogni francobollo della sua pelle. Era il primo vampiro a cibarsi di sangue animale anziché di quello umano.
Un licantropo, dai capelli neri e crespi, che non conoscevano l’ordine, occhi dolci di un nero profondo come il cielo notturno e dalla pelle scura che ricordava la terra bagnata dalla pioggia, e di pioggia sapeva la sua pelle. Un giovane uomo, un cacciatore che si era affezionato agli uomini quando il resto dei suoi simili aveva cominciato a temerli. Il fisico muscoloso degno della sua specie, e l’intelletto elastico di chi trovava sempre la soluzione ai problemi, anche quelli più articolati.
Un’elfa, una ragazza timida e gentile, con occhi rosa e una carnagione della tonalità del verde cacciatore, dai capelli fluenti del colore della carta da zucchero. Era un’abile guaritrice e possedeva una grande magia, le piante crescevano al suo comando, gli animali ascoltavano le sue parole con attenzione e lei dava parole ai loro pensieri. La terra stessa la ascoltava e guidava il suo cammino.
Un mago, biondo e dagli occhi azzurri, bello come i principi delle fiabe, e la sua magia potente al pari di quella dei draghi, con la conoscenza di ogni incantesimo che l’intelletto umano e non era stato capace di partorire.
Si narra che questi sei esseri si unirono e si misero in viaggio eliminando i demoni che si mettevano contro di loro. Erano spietati quanto gentili con chi ne aveva bisogno. Furono loro a sconfiggere la forza oscura che i maghi avevano liberato, confinandola nel baratro da cui era uscita.
Dopo l’onda di luce che investì tutte le terre per poi spegnersi in un fuoco d’artificio di luci argentate, di loro non si seppe più niente. Come dissolti insieme alla nebbia scura.
Girarono voci. Un drago dalle squame verdi, con una cicatrice che gli percorreva tutto il fianco destro, sorvolare le terre nordiche sempre coperte dai ghiacci. Una ninfa senza braccia e il volto rigato dalle lacrime che vagava per le foreste con un mantello ricavato dalla pelliccia di un enorme lupo nero e con due sacchetti legati alla cintura e che sussurrava di amici che aveva perso e dell’amore che non avrebbe più vissuto. Una donna umana, muta sin dalla nascita e col viso deturpato, irriconoscibile, che diede alla luce una bambina che divenne una maga, la capostipite della Casata dei Sangue di Drago.
I tempi passarono e le storie divennero leggende, e come tali pochi si cimentarono nella ricerca della veridicità delle parole, e ancora meno furono quelli che ottennero briciole di qualcosa che appariva un mosaico che sarebbe rimasto per sempre incompiuto. Troppe le cose che si erano perse, troppi i ricordi che mancavano all’appello.
I tempi passarono, le guerre si succedettero, gli ultimi demoni erano i baluardi di un passato che rischiava di essere dimenticato. Questi vennero rinchiusi da maghi che tennero segrete le conoscenze che avevano su di loro e sulla storia che era stata. Ormai era un capitolo chiuso, e con tale sarebbe dovuto rimanere.
I tempi passarono, le creature misero da parte i vecchi rancori e si mischiarono tra loro in villaggi che divennero città di pietra, poi metropoli di acciaio e cemento.
I draghi si estinsero, le loro uova non vennero mai trovate e si dubitò che fossero esistite.
I maghi divennero i custodi di quella che venne definita come l’Alleanza dei Quattro. I loro nomi impressi sull’altare dove venne firmata l’Alleanza. Eros, per gli uomini e i maghi. Aghata, per i vampiri. Nathan, per i licantropi. Belladinotte, per gli elfi.
Con loro aveva inizio un’altra epoca di pace.

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Capitolo 2
*** 1 ***


1:

 

Era una notte di tempesta, il cielo scuro e coperto da pesanti nubi nere coprivano le stelle gettando l’oscurità sulla piccola cittadina che sovrastava, un agglomerato di case e alberi sferzati dal forte vento che ululava e fischiava passando per i piccoli anfratti tra le abitazioni e i rami. I tuoni rombavano e rotolavano come giganti rinoceronti facendo tremare le finestre, i fulmini piovevano verso il terreno col loro terribile sibilare, lame di luce volavano rapide per poi spegnersi di nuovo e gettando la cittadina nella sconvolta oscurità. Il vento freddo correva e ruzzolava, accarezzava gli animali che si erano nascosti nelle tane, disturbando il loro sonno già inquieto, si infiltrava nelle case dalle crepe intorno alle cornici delle finestre, e portava con sé l’odore della tempesta che non accennava a smettere.

Al centro della città si stagliava un parco, e al centro di esso si stagliava un castello dalle mura di pietra e dalle finestre sempre illuminate nelle ore notturne. Si trattava di un mondo nel mondo, una piccola realtà fatta di speranze e di dolore, di sogni e di sorrisi, di creature che si muovevano freneticamente pensando e agendo per il bene delle persone, per il meglio delle persone, che si affidavano a loro. Un ospedale. Un simbolo di pace ricavato dallo scheletro di quello che un tempo era stato il baluardo del potere e del terrore, il castello di un tiranno che aveva dominato le sue terre con il pugno di ferro, facendo soffrire il suo popolo, soffocandolo con imposte al limite della razionale ragione.

In una delle tante stanze dell’ospedale, tra infermieri e medici, tra igienisti dentali e operatori sociosanitari, in una realtà dove la maggior parte dei pazienti cercava di strappare un’ora di sonno al morso dei dolori e alle paure prima degli interventi, una donna stava combattendo con la vita e con la morte per dare alla luce la sua bambina.

Le avevano detto che sarebbe stato un parto difficile, che sarebbe stato meglio se avesse abortito. Ma non aveva voluto dare retta ai medici e al marito che le aveva consigliato più volte di lasciar perdere. Per lui non aveva senso dare alla luce una vita al prezzo di un’altra, lei non era dello stesso parere. Eracle non capiva, ma non gliene faceva una colpa. Non era mai stato bravo a comprendere le emozioni degli altri, ma lei lo aveva amato per i sentimenti che mostrava nei momenti in cui meno se lo aspettava. Quei piccoli frammenti di empatia che gli davano un aspetto del tutto diverso da come gli altri lo conoscevano. Lei lo aveva visto non solo come uomo e lavoratore, ma anche come padre, e come padre aveva dato prova di una sensibilità nei confronti della figlia che non aveva mai mostrato nei suoi confronti.

Contrazione dopo contrazione, il dolore si acuì sempre più fino a scagliarle contro il cervello lancinanti pugnali che la strappavano dalla realtà e la respingevano a forza in un passato che aveva impiegato mesi, non senza insuccessi e rigurgiti, a nascondere dietro nuovi ricordi, molto più felici.

L’ostetrica le disse di spingere. Lei lo fece.

La vecchia signora, madre di due figli maschi, ormai adulti, uno che avrebbe seguito la sua strada, un altro che nell’arte avrebbe trovato la sua vita, bardata nella sua divisa verde e col viso nascosto da una cuffietta rosa con cuori azzurri, da cui uscivano piccole gocce di sudore che si lasciavano dietro sottili scie argentate, una mascherina chirurgica azzurra e un paio di occhiali protettivi, aveva la stessa voce perentoria di sua madre. Sua madre. Da quanto non la vedeva. Dalla stessa sera in cui era scappata dalla villa di famiglia per fuggire dall’uomo che avrebbe dovuto sposare, un uomo che non amava, non avrebbe potuto, perché le era bastato uno sguardo per vedere le tenebre che celava dietro modi affettati e sorrisi falsi. Era scappata dalla volontà della sua famiglia per unirsi a un uomo che di speciale aveva solo l’amore che, seppure sgraziato e spigoloso come un diamante non raffinato, splendeva solo per lei.

Poteva sentire nella voce dell’ostetrica l’eco della voce della madre che le ordinava di smettere di credere nei sogni, di non essere egoista e una bambina. Avrebbe fatto quello che sarebbe stato meglio per la famiglia, e di certo questo avrebbe voluto dire dimenticare l’affetto che provava per l’uomo che l’aveva trattata come qualsiasi donna, che l’aveva amata dopo averla conosciuta, non per il nome che le pendeva dal collo come la medaglietta di un animale, ma per chi fosse in realtà.

Era stato con Eracle che aveva imparato a sperimentare i propri sogni nel mondo reale. Con lui aveva conosciuto il dolore di cadere, ma anche il coraggio di mettersi in piedi. Se non fosse stato per lui, non avrebbe mai provato la gioia di diventare madre. Non una, ma due volte.

Era questo che Eracle non riusciva a capire. Marialuce Focepura aveva sentito la vita della sua seconda creatura sin da subito, era stata la magia a farle vedere che bella bambina sarebbe stata, in quale forte genere di donna si sarebbe trasformata. Aveva finito con l’innamorarsi di lei in un modo così profondo e sviscerale che non le avrebbe mai resto facile prendere la decisione di abortire, di spezzare la vita che voleva crescesse in lei. Così l’aveva tenuta, nonostante i mal di testa, nonostante le notti passate a vomitare, nonostante la debolezza e le ossa che sembravano fragili a ogni giorno che passava. Marialuce voleva quella creatura con ogni fibra del suo essere, con ogni fibra della sua energia, e questo era voleva dire tanto.

Ora doveva respirare, le fu difficile ricordare come si facesse, ma alla fine, dopo qualche sforzo, ci riuscì. L’aria le entrò nei polmoni bruciandoglieli e il dolore le fece lacrimare gli occhi.

Lo vedeva dai volti degli infermieri. La situazione non era delle migliori. Le stavano accanto, le parlavano, ma nelle loro parole si vedeva l’emozione data dalla preoccupazione.

Sentiva il sangue fluire rapido fuori dal suo corpo, più di quanto avrebbe dovuto, e nel frattempo usava la magia. Avrebbe potuto usare la scintilla che le pulsava nel cuore per curarsi, non sarebbe stato affatto difficile, ma avrebbe tolto l’energia vitale alla creatura che stava per nascere. Quindi, con gioia, prese la decisione di sostenere la figlia, le sussurrava parole dolci e di incoraggiamento. Il mondo non era una favola, e vivere con le sue regole, con i suoi difetti, non sarebbe stata una passeggiata, ma ce l’avrebbe fatta. Sarebbe cresciuta forte, avrebbe mostrato coraggio e forza, molto più di quanto avrebbe potuto fare lei stessa. La figlia avrebbe superato la madre, ed era così fiera di questo.

Sentì il cuore perdere un battito, e i polmoni si strinsero dolorosamente.

Sospirò e si sentì dilaniare il torace da artigli invisibili.

Paura e gioia. Che miscellanea inusuale da provare.

Era consapevole di quello che le sarebbe accaduto, ormai mancava poco, ma non riusciva a pensarci. Non avrebbe avuto il tempo di vederla, non avrebbe sentito il calore del suo corpicino contro la pelle, tantomeno il suo dolce odore da neonata. Non avrebbe avuto la possibilità di descriverla come la più bella ranocchia rugosa e spelacchiata che avesse mai visto. La seconda ranocchia rugosa e spelacchiata che avesse mai visto.

L’ultimo sforzo.

Sentì la bambina uscire dal proprio corpo, e si sentì improvvisamente vuota e piena allo stesso tempo. Già le mancava non sentire più la piccola creatura muoversi nel suo ventre, e il cuore era pieno di una felicità indescrivibile.

 

Quando Eracle venne raggiunto dall’infermiera, gli bastò guardarla per capire che le cose non erano andate bene. Leggeva nello sguardo di quella che era poco più che una ventenne che sua moglie Marialuce era morta. No. Peggio. Era stata uccisa. Questo pensiero gli scivolò sulla pelle come pioggia, e come veleno fu assorbito dall’organismo inquinando la sua mente, rendendolo cieco e furioso. Gli occhi arcigni brillarono di una luce scura, al suo interno si muovevano schegge di vetro che riflettevano quello che la sua anima provava.

Rabbia.

Marialuce avrebbe dovuto dargli retta. Avrebbe dovuto abortire. Ma lei, no. Testarda come il giorno in cui l’aveva conosciuta. Con il suo modo di convincerlo di avere ragione, anche quando aveva torto.

-Mi dispiace doverla informare che…- ripeté l’infermiera col solito tono dispiaciuto, comunque meccanico.

Eracle versò sulla ragazza tutta la sua rabbia. Si voltò dandole le spalle, strinse i pugni e urlò facendola sobbalzare. Tornò a guardarla, fulminandola sul posto.

Marialuce era morta.

Lo aveva capito.

La notizia gli rimbombava nelle orecchie insinuandosi con insistenza nel cervello, piantando le radici affilate come unghie di un rapace, beccandogli il cuore per strapparglielo.

L’infermiera si avvicinò posandogli una mano sulla spalla, gli parlò con voce calma e dolce. Gli disse che capiva il suo dolore, che però doveva essere forte perché aveva una bambina cui badare. Gli disse che la moglie era stata forte e coraggiosa, che aveva sorriso nel sapere che la loro bambina stesse bene prima di spegnersi. Se ne era andata contenta, felice per quella vita che aveva dato alla luce. E lui avrebbe dovuto prendere il sogno di sua moglie e farlo diventare realtà.

Eracle non ascoltava. Le parole della ragazza risuonavano come rimbombi di tuoni lontano che gli ovattavano le orecchie, il dolore che provava dentro lo dilaniava. Avrebbe pianto se non lo avesse considerato una debolezza, si sarebbe inginocchiato e si sarebbe messo a strapparsi i capelli uno per uno.

Marialuce era morta.

Lo aveva capito fino in fondo? O si stava illudendo? Perché era convinto che da un momento all’altro sarebbe uscita dalle porte verdi che lo separavano dalla sala parto sul suo letto, madida di sudore, stanca, ma col sorriso sulle labbra. Come quando era nata Camilla. Lui le sarebbe andato incontro, avrebbe sorriso all’ostetrica con gentilezza, avrebbe scambiato brevi parole con le infermiere che avrebbero elogiato le falsa bellezza della bambina che per le ore successive sarebbe stata poco simile a una ranocchietta raggrinzita. Poi avrebbe passato del tempo con la moglie parlando della figlia, sognando come sarebbe stata, divertendosi a creare per lei un futuro che molto probabilmente si sarebbe rivelato essere molto diverso. Avrebbero perso tempo a imparare un nome. Sicuramente Marialuce si sarebbe impuntata su qualche stranezza uscita fuori da uno dei tanti libri con cui si drogava la sera prima di andare a dormire o quando aveva una briciola di tempo libero. Magari un nome impronunciabile di cui lei si era innamorata perdutamente. Lui avrebbe invece lottato per un nome più modesto, normale. Avrebbero fatto tutto ciò che i genitori comuni facevano. Avrebbero nutrito lo scricciolo, lo avrebbero accudito e visto crescere, fallire e imparare a risollevarsi. Ma ora che Marialuce non c’era più, le cose non sarebbero state più le stesse. Come avrebbe potuto anche solo guardare in faccia la creatura che l’aveva uccisa. Era la creatura, non certo sua figlia.

Senza dire una parola, seguì l’infermiera nella nursery. Non avrebbe potuto prendere in braccio la bambina quel giorno, dovevano monitorizzarla perché, anche se nata a termine, aveva i parametri vitali non nella norma. Niente di grave però. Probabilmente era dovuto allo stress del parto, alla mancanza della madre, perché i bambini avvertivano queste perdite. Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi, presto avrebbe potuto tenerla in braccio e parlarle.

Eracle non aveva la minima intenzione di tenere fra le braccia quel mostriciattolo testa e addome che non sentiva appartenergli.

Davanti all’immenso vetro trasparente, fece scorrere lo sguardo sui nuovi nati, uno a uno, osservandoli attentamente, rabbrividendo per i loro pianti, gioendo del silenzio di altri. Venti maschi. L’unica femmina. La bambina, sua figlia, stava dormendo. Le piccole manine chiuse e pugno e alte sulla testa, il pigiamino rosa che le fasciava il corpo e sottili sonde che entravano dentro di esso.

Fosse stato per lui l’avrebbe abbandonata nella teca di vetro che la proteggeva dal mondo esterno. Ma, alla fine, l’avrebbe presa con sé. Era una promessa che aveva fatto alla moglie. Non avrebbe tradito le sue ultime parole.

-Signore, dovrebbe darmi un nome per sua figlia. Per i documenti.-

Con gli occhi ancora bagnati dalle lacrime, con le guance rosse contro il viso scavato e pallido, l’uomo disse solo una parola: Hel.

Hel. La dea norrena dei morti. La bambina che gli aveva tolto sua moglie e che aveva privato sua sorella della madre. Avrebbe portato quel nome per ricordarsi del peccato che aveva commesso. Un biglietto da visita perfetto per quando avrebbe incontrato il re degli inferi.

L’infermiera prese per un braccio l’uomo, con una delicatezza che gli ricordò molto quella della moglie. Fu questo a fargli salire la rabbia.

Si lanciò sulla porta entrando nella stanza dove c’erano i neonati che per il boato si svegliarono e si misero a strillare. Le urla lo aizzarono come una bestia messa all’angolo. Dal soprabito lungo estrasse un coltello a serramanico, la mano che calava sulla bambina con un tetro bagliore. L’infermiera che urlava e la piccola che apriva gli occhi, giusto in tempo per salutare la morte.

 

 

Hel si svegliò di soprassalto col cuore che le pulsava violento e dolorosamente contro il torace, sentiva il sangue fischiarle nelle orecchie e il corpo che tremava sotto il piumino pesante di una morbida tonalità panna.

Si era addormentata con la lucetta sul comodino accesa e il libro di storia dell’arte sullo stomaco. Doveva smetterla di studiare fino a tardi, soprattutto poi con una luce che non illuminava niente della stanza che non fosse a una cinquantina di centimetri dalla sua fonte, e nemmeno bene. Si ciecava a leggere i capitoli dei libri, e faceva fatica a leggere le didascalie scritte con dimensioni di caratteri come formiche. Però non aveva molto altro da fare. Nella sua stanza i passatempi erano limitati, leggere o disegnare, ma visto che entro pochi giorni avrebbe dovuto dare la sua ultima prova di storia dell’arte, preferiva finire il programma per avere poi più tempo per ripetere.

Studiare le era sempre piaciuto, trovava magico perdersi nei libri assaporando e assimilando le informazioni che nascondevano tra le pagine. Le piaceva imparare cose nuove, sperimentare la sua conoscenza giocando con le domande che trovava alla fine di ogni capitolo.

Si massaggiò le tempie che sembravano voler esplodere da un momento all’altro, si scostò i capelli neri incollati sul viso e li sentì accarezzarle il collo.

Non era la prima volta che faceva questo sogno, ormai era diventato ricorrente come il tacchino a Natale. Solo che non sapeva se considerarlo come un vecchio ricordo o la sua più grande paura che diventava realtà, anche se solo in sogno. Storse il naso e fece per alzarsi, ma si accorse che qualcosa non andava. La stanza le sussultò attorto e l’ansia la colse con uno spasmo svegliandola completamente.

Un’altra volta. Stava fluttuando sul suo letto, il piumino ancora sopra di lei a tenerla al caldo. Ma non era solo lei a ondeggiare a mezz’aria. A farle compagnia c’erano alcuni oggetti. Le tele su cui amava dipingere i tramonti e volti di persone mai conosciute, i suoi pupazzi rattoppati che erano quelli che la sorella non voleva più perché ricordi degli amori che l’avevano lasciata o perché rotti, la sedia della scrivania e lo specchio che normalmente sarebbe stato appeso all’anta dell’armato. E fu proprio nello specchio che vide il suo riflesso. Una ragazza di tredici anni, con i capelli lunghi che le incorniciavano il capo magro, gli occhi azzurri in cui si muovevano schegge di una cremisi luce rossa. A seconda di come la luce sul comodino le colpiva gli occhi, le sembrava di vedere scintille piovere dalle sue iridi. Scostò il piumino che la copriva e si perse nei disegni di luce azzurra e rossa che le si muovevano sotto la pelle, come sbuffi di fuoco che cercavano una via di uscita. Se si concentrava, poteva sentire il calore di quei giochi di luce invaderle il corpo, una sensazione bellissima che la faceva sentire bene.

Stava peggiorando. In passato, altre volte le era capitato di usare la magia, sempre senza avere idea di come facesse ad attivarla. Era sempre riuscita a tenere nascosta alla sua famiglia questa abilità che non avrebbe dovuto avere sino al compimento dei sedici anni. Qualche volta si era persino permesse di giocare con le fiamme che le si accendevano sulle dita. Molte volte quelle piccole e tremule fiammelle si erano spente ancor prima che riuscisse a formulare un desiderio, rare le volte in cui riuscì a creare qualcosa. Come le farfalle con cui giocava con prudenza quanto la noia prendeva il sopravvento e la voglia di sperimentare quel lato di lei veniva a galla con una prepotenza che non la spaventava, ma la eccitava.

Se prima erano poche le volte in cui il suo potere si accendeva senza il suo consenso, due volte l’anno al massimo, negli ultimi anni si era presentata sempre con maggiore frequenza. Negli ultimi mesi già cinque volte. E non sapeva più come tenere segreta quella parte di lei che voleva uscire allo scoperto.

Se prima si divertiva nel vedere come le cose che desiderava, per una manciata di minuti, accadevano davanti ai suoi occhi, come la volta in cui i suoi pupazzi presero a ballare, ora era spaventata perché provava il profondo timore di perdere il controllo su quella magia di cui non conosceva niente.

Sarebbe stato inutile parlarne col padre. C’era una lastra di freddo marmo tra loro. Il loro rapporto non era mai stato dei migliori. E Hel sapeva il perché e non lo biasimava. Se lei non fosse nata, sua madre non sarebbe morta. Eracle avrebbe avuto ancora una moglie con cui parlare, una moglie con cui sorridere e piangere a seconda delle esperienze che la vita gli offriva. Doveva essere una tortura essere costretto a vedere in viso la causa della morte della sua anima gemella, soprattutto se poi la bambina in questione assomigliava in maniera innaturale alla defunta madre. Hel aveva i suoi stessi occhi azzurri, lo stesso sguardo acceso e curioso, gli stessi capelli lisci che la madre era solita raccogliere in una lunga treccia. Avevano la stessa carnagione chiara macchiata da una spruzzata di efelidi sul naso e sulle guance che le rendevano lo sguardo ancora più innocente e da bambina.

Non poteva parlarne nemmeno con Camilla. La sorella l’aveva sempre odiata, accusandola apertamente di aver ucciso sua madre e dicendole che doveva ritenersi fortunata se il loro comune padre non l’avesse abbandonata nell’ospedale in cui era nata. Ma non era solo per questo che non le avrebbe detto che aveva problemi con la magia.

La magia aveva delle leggi specifiche. Al compimento del sedicesimo anno di età, la magia faceva il suo ingresso nella vita del festeggiato e dal quel momento si sarebbe dovuto iscrivere in una delle Accademie che insegnavano come incanalare il potere per creare cose spettacolari, senza essere però un pericolo per gli altri. Soprattutto per gli umani.

Le leggi della magia erano chiare. Ma come ogni legge che si rispetta, anche la magia aveva dei casi speciali. Camilla aveva compiuto sedici anni da due mesi, ma la sua magia non si era ancora palesata.

Con le famiglie miste poteva capitare, soprattutto se uno dei due genitori era un umano. Non era detto che il potere sarebbe stato ereditato dal figlio. C’erano poi casi in cui il nascituro dimostrava di avere in sé le caratteristiche di entrambi i genitori.

Nella sua breve vita ne aveva viste di tutti i colori.

Irina, un’amica di Camilla, era figlia di un mago e di una umana. Era una ragazza simpatica, con i capelli rossi e voluminosi che erano un intricato nido di ricci e con due occhi verdi che sembravano due smeraldi incastonati nel suo cranio. Hel non capiva come facesse una ragazza dall’animo gentile e altruista come lo era Irina a essere amica di sua sorella. Non c’entravano niente l’una con l’altra. Eppure erano inseparabili e si sostenevano sempre. Irina non aveva poteri. Era stata sottoposta al giudizio di un’elfa e il responso era stato che non avrebbe mai sviluppato poteri. Però non sembrava importarle molto.

Poi c’era Ares. Camilla non lo avrebbe mai ammesso, ma provava determinati sentimenti quando si trovava accanto a lui. Erano amici d’infanzia, ma lei non gli aveva mai dato una sola possibilità, troppo impegnata a farsela con chiunque avesse a che fare con i club sportivi. Ares, per un po’, le aveva sbavato dietro, ed Hel aveva provato pena per lui. Essere trattato come una pezza senza vedere i suoi sentimenti riconosciuti. Eppure Camilla sentiva qualcosa per lui, e Hel non capiva come mai non lo ammettesse. Ares era il figlio di un’elfa e di un licantropo. Uno strana coppia che aveva dato alla luce un figli esplosivo. Dalla parte del padre, dalla famiglia dei licantropi, aveva ereditato i sensi sviluppati del lupo, la sua forza e la sua velocità. Da parte di madre, aveva ereditato un briciolo di magia che gli permetteva di usare incantesimi che manipolavano la crescita delle piante e che, in certa misura, lo rendevano capace di comunicare con loro. A Hel stava simpatico Ares. Tra tutti gli amici di Camilla, lui era quello che non rispettava il divieto di parlarle e la salutava ogni volta che la incontrava per strada o veniva a trovare Camilla.

Ora che cominciava a capire qualcosa di più in materia di ragazzi, Hel doveva ammettere che il ragazzo non era male. Occhi nocciola e una soda muscolatura sotto una liscia pelle nera dall’aroma di muschio. Forse l’unico difetto era rappresentato dalla peluria scura e riccia che cresceva indomita sulla sua pelle. Ma era per metà licantropo e, anche se non si trasformava in lupo, metà dei suoi geni lo portavano ad assomigliare a quel ramo della famiglia.

Se Hel avesse detto a Camilla che era in grado di usare la magia, era abbastanza certa che la sorella l’avrebbe odiata ancora di più. Non solo l’aveva privata dell’affetto materno, ma le aveva rubato il primato sulla magia.

L’unica soluzione che la ragazza trovava per non inasprire la situazione era mantenere il segreto. Doveva resistere per altri tre anni, poi avrebbe usato i suoi poteri e sarebbe stata iscritta a un’Accademia e, dopo i suoi cinque anni, si sarebbe allontanata dalla famiglia che non l’aveva mai accettata e avrebbe viaggiato. Sì. Avrebbe viaggiato, visitato il mondo e appreso quanto i libri non potevano offrirle. Oppure, se si fosse dimostrata particolarmente brava nell’uso della magia, veramente brava, nel senso che avrebbe usato la magia e gli incantesimi come fossero stati l’aria che respirava e l’acqua che costituiva per il novanta percento il suo corpo, magari le avrebbero offerto un lavoro in qualche organizzazione presieduta dal Comitato per il Controllo della Magia, oppure le avrebbero offerto di insegnare.

Che bello sognare. Quello nessuno glielo avrebbe tolto.

Hel calmò i pensieri e respirò a fondo. Contò. Uno. Due. Tre. Il cuore lentamente tornò al suo ritmo.

Gli oggetti tornarono a occupare il loro posto e lei incontrò il rassicurante calore del materasso.

Si specchiò nella lastra di vetro posata all’anta dell’armadio. Gli occhi azzurri erano tornati normali, come la sua pelle. La magia si era spenta.

Hel aveva svolto delle ricerche e sapeva di essere una Prematura, una dei pochi bambini che sviluppavano la magia prima del tempo, una dei pochi che rappresentava una reale minaccia perché naturalmente impreparata a sopportare fisicamente il peso della magia. Anche se niente le era sembrato così normale come quei momenti in cui la magia faceva capolino nella sua vita.

Tre anni. Solo tre anni.

Nel frattempo, aveva ancora qualche giorno di pace prima che suo padre e sua sorella tornassero dalla piccola vacanza che si erano concessi a Venezia. Nel frattempo, aveva qualche altro capitolo da studiare.

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Capitolo 3
*** 2 ***


2:

 

Una nuova giornata di scuola aveva inizio.

Hel frequentava l’ultimo anno della Scuola Media e Superiore Statale Petunia Rossotramonto. L’edificio era un vecchi castello in stile barocco che si ergeva in mezzo a un ampio parco fatto di siepi alte e colorate, alberi di ulivo e panchine dove i ragazzi si sedevano per rendere l’attesa dell’inizio delle lezioni più comoda o per copiare i compiti. La scuola era stata battezzata con il nome di una delle discendenti di Eros Rossotramonto, un dei firmatari dell’Alleanza dei Quattro. Era un grande onore frequentare una scuola di prestigio com’era la Rossotramonto.

L’edificio, costruito in marmo che si alzava per tre piani, era pieno zeppo di stanze, originariamente tutte ampie camere da letto e sale lettura che erano state modificate per ospitare classi di venti alunni. Al suo interno c’era una linea di confine invisibile, ma molto presente e se la si valicava, il poveretto che l’aveva fatto si sarebbe ritrovato a dover sopportare il peso degli sguardi degli studenti più grandi. In sostanza, la scuola era divisa in due, il lato est era dedicato alle scuole medie, tre anni che per alcuni erano sinonimo di agonia, il lato ovest ospitava le classi superiori, altri cinque anni che per molti erano un vero e proprio supplizio, a meno che a sedici anni non si dimostrava di essere stati toccati dalla magia, a quel punto il supplizio sarebbe stato più facile da sopportare. Gli studenti che dimostravano di avere doti particolari, venivano trasferiti in una delle Accademie di magia. Su queste si aggiravano solo voci, niente di concreto, e questo uccideva le menti delle persone che erano costrette a viaggiare di fantasia per colmare le lacune lasciate da una volontaria disinformazione.

Anche Hel, che sapeva che un giorno avrebbe lasciato il mondo normale per accedere a quello magico, provava una morbosa curiosità per quello che avrebbe avuto davanti. Aveva fatto ricerche, ma non erano state utilissime. A quanto sembrava, gli studenti non potevano parlare delle attività che venivano svolte nelle mura delle Accademie. Qualcuno aveva azzardato a descrivere i dormitori, dei veri e propri miniappartamenti sprovvisti di cucina, con un massimo di tre camere da letto, un bagno e una piccola sala comune. Altro particolare era che questi appartamentini potevano essere misti. Il pensiero le faceva venire la pelle d’oca. Maschi e femmine, perfetti estranei che si trovavano a condividere gli stessi spazi, con gli ormoni a mille. Chissà quante storie di amore nascevano e morivano in quelle stesse aule che un giorno l’avrebbero vista come studentessa.

Provava un fremito alle ginocchia e un vortice dentro lo stomaco quando si soffermava a pensare all’avventura che avrebbe vissuto a partire dal suo sedicesimo compleanno. Non vedeva l’ora di abbandonare l’esistenza che aveva per abbracciare qualcosa che le sarebbe caduto a pennello.

Le lezioni nella Rossotramonto non erano male. I docenti, per la maggior parte anziani e con la voglia di sopportare la vista di impertinenti studenti negli anni peggiori della loro crescita, la pubertà, con tutti i cambiamenti e i problemi che comportava, fingevano una certa autorità, ma spesso e volentieri si limitavano a spiegare e a interrogare senza molto entusiasmo.

Se per alcuni le lezioni apparivano noiose, Hel le trovava emozionanti. Abituarsi al ritmo della scuola non era un problema per lei. Amava lavorare sodo e studiare. All’inizio le era stato utile per concentrarsi su qualcosa che non fosse lo sguardo tagliente di Camilla o il pesante silenzio del padre. Poi, da barriera, divenne la quotidianità della sua vita, e a lei non dispiaceva. Anzi, provava una sensazione strana e piacevole quando si trovava davanti a una nozione che non conosceva, e ancora più estasiante era quando c’erano concetti che non capiva. Allora si metteva a fare ricerche, a sviscerare il problema fino a trovare finalmente la sua chiave di lettura.

Andare a scuola le piaceva, ma le piaceva ancora di più sapere che ogni anno che passava, l’avvicinava al suo destino.

Pochi altri mesi e avrebbe dato gli esami di terza media. Poi altri tre anni e sarebbe scappata da casa rifugiandosi in una delle Accademie. Sperava solo non si trattasse della stessa della sorella. Era giù terribile dover camminare per i corridoi della scuola col terrore di incontrarla nelle zone che venivano definite dagli studenti come neutre. Come se la Rossotramonto fosse un atomo e racchiudesse in sé forze che avevano una carica elettrica che li distingueva. Protoni e Neutroni? Medie e Superiori. Neutroni? I laboratori, la palestra, il giardino intorno alla scuola, la piscina al coperto e la mensa.

La fortuna però le sorrideva. In genere i ragazzi delle medie e delle superiori si dividevano sempre in due gruppi, anche quando si trovavano a dover condividere la stessa giungla, un po’ come due branchi diversi, di specie diverse, che si studiavano a vicenda temendo di essere mescolati con chi non accettavano. Ovviamente, anche nei diversi branchi, si potevano individuare specie diverse che si sostenevano a vicenda solo per fronteggiare il comune nemico.

C’erano i gorilla, i ragazzi e le ragazze che partecipavano ai corsi sportivi per prendere punti extra, erano gli unici che di tanto in tanto si mischiavano alla loro stessa specie del branco superiore. Poi c’erano le oche che si credevano cigni. In realtà, erano cigni, ma con l’animo di un’oca. Gelose, antipatiche e sempre vestite bene, come se dal loro aspetto esteriore dipendesse il destino di tutta la razza umana. Si potevano intravedere gli oppossum, individui che vivevano per dar fastidio agli altri ma che, se ripresi, fingevano di essere morti, ignari delle cose di cui li si stava accusando. Le iene, i bulli che godevano nel prendersi gioco degli altri indipendentemente se li si riprendesse o meno. Le tartarughe, quelli che subivano le angherie e restavano in silenzio, solo per poi ritirarsi in se stessi e piangere. Infine c’erano le chimere, un’animale che presentava più popolazioni differenti di cellule geneticamente distinte. Scherzi della natura che potevano passare per una razza o un’altra, e che venivano lasciati emarginati dai gruppi perché non si poteva dare loro un’etichetta. Hel era una di loro. Tartaruga un po’ cigno senza l’anima di un’oca con qualche tratto di gorilla. Infine, i falchi. I falchi erano quei ragazzi e quelle ragazze che già sapevano di avere le ore contato, magari avevano una madre o un padre mago, o licantropo, vampiro o elfo, e aspettavano con ansia il momento in cui la loro metà magica sarebbe venuta allo scoperto. Se così non sarebbe stato, nella delusione assoluta, si sarebbero accontentato di occupare un posto fra le chimere.

Mentre si avviava fuori dallo spogliatoio della palestra, Hel si sentiva di buonumore. La prova in storia dell’arte era andata a gonfie vele. Era soddisfatta di sé e si era convinta a portare Leonardo Da Vinci come soggetto principale della sua tesina. Il protagonista del suo percorso nelle scuole medie. La chiave che le avrebbe dato l’accesso alle scuole superiori. Lo amava, per il suo genio, per il mistero che gli aleggiava incontro, per i tratti dei suoi disegni, per la tumultuosa vita che vi leggeva dentro. C’era chi prendeva una cotta per un cantante o per un attore, c’era chi si innamorava di un artista defunto. Così era la vita, bella perché strana.

Anche se Leonardo era imbattibile, Hel cominciava a sperimentare cosa volesse dire trovare attraente un ragazzo. Non erano i suoi coetanei ad attirare il suo sguardo, li vedeva troppo infantili, con ancora tratti di bambino sul viso. I suoi occhi erano tutti per i ragazzi delle superiori, specialmente per quelli che cominciavano a mostrare qualche accenno di virilità. L’alba di una barba, muscoli un po’ più evidenti, occhi più maturi. Tranne quella per Leonardo, non si era mai presa una cotta, ma questo non voleva dire che non poteva osservare in silenzio quello che un giorno avrebbe desiderato. Era il naturale corso degli eventi, e la spaventava non poco. Una buona ragione in più per concentrarsi sullo studio.

Ultima ora, l’ora di ginnastica.

Il professor Constantin, un uomo di mezz’età con una pancia enorme e sempre vestito con la stessa tuta, dalla barba lunga e dalle folte sopracciglia, e con un ciuffo bianco scompigliato sulla sommità della testa altrimenti calva, aveva la brutta abitudine di sparare a raffica esercizi senza spiegare come si svolgessero, pretendendo che tutti seguissero i suoi comandi. Hel si domandava come Dimitri Constantin avesse fatto a ottenere la cattedra di educazione fisica. Magari nascondeva, molto in profondità, le doti di un atleta olimpico. Peccato dimostrasse una completa incapacità a mettersi nei panni dei suoi allievi, con lui non si poteva fare una conversazione. Tutto ciò che usciva dalla sua bocca era sacrosanto, gli altri sempre nel torto marcio. Per questo i suoi colleghi non lo invitavano mai alle riunioni o alle cene. A Hel dispiaceva un po’ per lui, lo vedeva un po’ come lei, una chimera emarginata che aspettava solo il momento propizio per mostrare quello che sapeva fare.

Il professor Constantin si era particolarmente fissato con la corsa quel giorno, cos’ faceva fare ai suoi allievi il giro del campo da calcio in continuazione, come se non esistessero altre attività da fare.

Mentre stavano per iniziare il loro sesto giro, Hel sorprese Noah D’Angelo a guardarla. All’inizio pensava di esserselo immaginato, l’educazione fisica la stancava molto e finiva sempre col vedere cose che non c’erano. Ma, alla terza volta in cui gli rivolse lo sguardo, Noah la stava ancora guardando.

Noah D’Angelo, un mezzosangue e uno dei ragazzi più belli della sua classe. Era a lui che i pensieri di tanto in tanto andavano, quando aveva esaurito tutto le possibilità di studio. Era figlio di un vampiro e di un’umana, e forse per questo era di una bellezza spaventosa: incarnato chiaro, occhi neri che sembravano due pozze di pura oscurità magnetica, labbra sottile di un candido rosa pesca, ciglia lunghe e folte e lisci capelli neri che ondeggiavano a ogni suo movimento come se ci fosse un continuo vento a scompigliarglieli. Come mezzosangue era normale che frequentasse una scuola in cui la fauna principale era costituita da umani, la cosa strana era che lui mostrava la maggior parte dei caratteri che la magia aveva donato ai vampiri. Era forte, veloce, e con un carisma capace di attrarre a sé la maggior parte degli studenti della Rossotramonto. Dalla madre aveva preso la resistenza ai raggi solari e a tutto ciò che la sua natura vampiresca lo avrebbe reso sensibile. Peccato che si cibasse di sangue. Portava sempre con sé un piccolo borsone con sacche che contenevano sangue di animale. Questo però non spaventava le ragazze che sbavavano dietro di lui lasciandosi dietro scie di saliva appiccicosa. Per mesi Hel le aveva prese in giro, con la parte più trasgressiva di se stessa, e si sentiva una stupida a dover ammettere di far parte del suo fan club.

Non ci poteva fare niente. Stava crescendo.

-Non mi dire che anche tu ti vuoi unire alle ragazze che gli vanno dietro.-

A parlare era stata Irina, una ragazza umana, nonché la sola e l’unica migliore amica che Hel avesse mai avuto.

Irina e Noah erano le due costanti fisse nella vita di Hel. Conosceva loro due dall’asilo. La differenza principale era che a Noah non aveva mai rivolto la parola, nemmeno per sbaglio, mentre Irina era la valvola di sfogo su cui poteva contare quando aveva bisogno di parlare con qualcuno. Fortunatamente non accadeva molto spesso, Hel si sentiva sempre a disagio quando doveva condividere il peso di qualcosa con qualcuno. Non voleva che i propri problemi diventassero un pensiero anche per gli altri. Sapeva che l’amicizia voleva dire anche esserci per l’altro, ma non desiderava altro che la felicità di Irina, per questo non la rendeva partecipe di ciò che le passava per la testa. Soprattutto non le aveva detto della magia.

-Non scherzare.- le disse Hel col fiatone che le smorzava le parole, l’aria fresca dell’autunno che le pugnalava i polmoni a ogni respiro.

Irina assottigliò il suo guardo cristallino e arricciò le labbra carnose.

-Ti prego.- esclamò con un tono di voce appositamente più alto assumendo un’espressione teatralmente imbronciata -È tutto oggi che ti osserva, e mi vieni a dire che non c’è niente?-

-Da parte mia sicuramente non c’è niente.-

-Vi siete salutati?-

-Lo sai pure tu che non ci siamo mai parlati.-

Irina, a differenza di Hel, non aveva il ben che minimo problema in educazione fisica. In realtà, lei era una delle poche persone che Hel conosceva che eccellesse in qualsiasi sport. E poi, Irina era bella. Veramente. Era così candida e aggraziata nei noi modi di fare che pareva essere uscita da una delle fiabe che i genitori erano soliti raccontare ai propri figli prima di metterli a letto, solo che delle principesse aveva solo l’aspetto esteriore, quello interiore era molto simile a quella del classico principe azzurro senza macchia e senza paura. Irina era una combattente nata, non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno.

-Sarà.-

-Lo sai che non ti sto mentendo.-

-Allora dovresti dirgli di smetterla, perché tra un po’ di farà un buco in fronte con lo sguardo.-

D’istinto Hel rivolse un’occhiata a Noah e si accorse che la stava ancora guardando.

-Siamo ancora troppo piccoli per queste cose.- cominciò Hel.

-Non vorrai mica ricominciare con quella storia.- si lamentò Irina alzando gli occhi al cielo nuvoloso.

-Abbiamo tredici anni.-

-In passato, le ragazze della nostra età venivano date in moglie.-

-Fortunatamente ci siamo evoluti.-

-Ma l’istinto animale c’è ancora.-

Da quando Hel la conosceva, Irina era sempre stata attratta dalle storie d’amore. Le vedeva letteralmente nascere e sbocciare, ogni tanto anche appassire, in ogni angolo della scuola. Era più forte di lei. Ogni volta che vedeva due persone che spesso si appartavano o che trascorrevano molto tempo assieme, iniziava a fantasticare. Questa sua abilità, che molto spesso portava al nulla, l’aveva condotta a pianificare in ogni minimo dettaglio la sua vita amorosa. Da primo appuntamento al primo bacio, dal matrimonio alla luna di miele, dai figli ai nipoti.

-Ma smettila.- le disse Hel velocizzando la corsa per superarla.

Le parole di Irina la pungevano sul vivo. Da una parte avrebbe voluto scambiare due parole con Noah, ma non ce la faceva, mai. Da vicino il suo volto non era solo bello, era affascinante. Davanti a lui si sentiva come se stesse leggendo una poesia di Leopardi. Si perdeva sulle linee del suo volto, sui colori che scivolavano sulla tela che era la sua pelle.

Doveva smetterla, si disse.

Doveva pensare ad altro, si convinse.

Ma a cosa?

Sentiva gli occhi di Noah ustionarla.

Camilla e suo padre sarebbero tornati quella sera stessa. Questo era un bel pensiero su cui focalizzarsi.

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Capitolo 4
*** 3 ***


3:

 

Fu colta di sorpresa dal rumore della chiave che entrava nella toppa, dal suo scattare metallico e cigolante che le ricordava i denti di un mostro di latta di cui aveva letto da qualche parte. Ogni volta che era da sola a casa e sentiva quel rumore, il suo corpo rispondeva con la pelle d’oca e tutta se stessa si aspettava di posare gli occhi sul pericolo che avrebbe salito le scale per poi entrare nella sua camera minacciandola di tagliarla fuori dal mondo. Come se il suo isolamento non fosse abbastanza.

Sentì dei rumori attutiti dalla distanza giungere dal piano di sotto, voci concitate che parlavano e ridevano, voci senza volti che le mettevano ansia. Camilla e suo padre erano tornati e da come sembravano allegri dovevano essersi divertiti molto a Venezia.

Si chiese quali bellezze architettoniche avessero visitato, quali prelibatezze il loro palato avesse assaporato e su quali colori i loro occhi si erano posati. Mise tutti i pensieri da parte e si concentrò sul libro che stava leggendo. I suoi compagni di classe avrebbero sgranato gli occhi per la sorpresa nel vedere di che genere di libro lei stava sfogliando le pagine. I libri di scuola le piacevano, le permettevano di conoscere il mondo e le leggi che lo governavano, ma anche lei ogni tanto aveva bisogno di staccare, e per farlo non c’era niente di meglio che un bel romanzo. Non aveva un genere preferito, leggeva tutto ciò che le capitava a tiro, ma se la storia possedeva romanticismo, azione, magia e una piccola tragedia, il suo cuore era perduto per sempre fra le parole, capitolo dopo capitolo, sino alla fine del libro.

Fuori dalla finestra della sua camera, una domenica nuvolosa si muoveva tra scrosciate di pioggia e pigri fasci di luce che sembravano deboli al punto di morire pochi secondi dopo essere spuntati. Non le dispiaceva la giornata, era una buona scusa per rimanere in camera sua a leggere o fare qualsiasi altra cosa che non le permettesse di incontrare i suoi parenti. Non aveva voglia di vedere i loro sorrisi spegnersi sui volti e il suono delle loro risate perdersi nel silenzio della casa. Era una cosa che le spezzava il cuore. Preferiva far finta di non esistere e di lasciare che loro continuassero a vivere, senza avere il costante pensiero di non essere da soli.

Hel non voleva essere un peso per nessuno, e odiava quando leggeva nei loro sguardi quanto invece lo fosse.

Si coprì le mani con le maniche della maglia rossa di caldo cotone e tirò su le coperte morbide e profumate di arancio. Girò un’altra pagina e si perse nel capitolo sedici della storia appassionante che stava leggendo. Le punte dei polpastrelli accarezzarono le pagine ruvide, un po’ incartapecorite e ingiallite di quel libro che sicuramente aveva visto giorni e proprietari migliori. Forse, pensò Hel, un tempo aveva avuto la fortuna di incontrare due persone che si amassero come i protagonisti. Pronti a tutto per stare insieme, anche a costo di sfidare l’ira degli dei.

Qualcuno stava salendo le scale e lei trattenne il fiato, gli occhi fissi sulla stessa parola incapaci di scorrere in avanti, il cuore che sobbalzava rapido e fremete mentre le orecchie si tendevano per cogliere ogni minimo rumore.

I passi si fermarono a metà scala, ci fu un breve silenzio che a Hel parve infinito, poi le scarpe tornarono sui loro passi scendendo.

Non aveva bisogno di vedere a chi appartenessero i piedi per riconoscere chi era tornato indietro. Camilla doveva essersi accorta della luce che trapelava da sotto la porta della camera, oppure non aveva fatto silenzio abbastanza, o magari le erano spuntati i poteri a aveva percepito che era in camera. Non che Hel avesse altri luoghi dove andare, soprattutto di domenica. Almeno, non come i suoi compagni di classe. Aveva ascoltato con avarizia di particolari i loro racconti sui pranzi trascorsi in famiglia, in cui si andavano a trovare i nonni, con cui si giocava a carte e da cui si veniva viziati sotto lo sguardo vigile e rimproveratore dei genitori. Magari Hel avesse avuto dei nonni, si sarebbe recata da loro per trovare una briciola di pace in quella vita che sembrava non averne nemmeno un granello per lei.

A Hel non era stato possibile conoscere i nonni, né quelli materni, né quelli paterni.

Eracle era orfano, i suoi genitori erano morti quando era ancora piccolo. Un incidente con una maga. Suo padre non aveva voluto raccontare niente a Camilla ed Hel aveva rispettato il silenzio del padre assieme alla sorella, ma la sua curiosità aveva preso il sopravvento sulla paura di infastidire il padre. Svolse delle ricerche sui giornali dell’epoca e scoprì che i genitori di Eracle erano morti in un incidente in cui era coinvolta una maga. C’era stato un incidente, una fuga di gas che aveva dato origine a un’esplosione e poi a un incendio che nessuno riusciva a domare, né i pompieri né i maghi intervenuti sul luogo del sinistro. Cinque persone morirono nell’incendio, un numero minuscolo rispetto ai feriti. Vennero svolte delle indagini, si ascoltarono testimoni e tra di essi ce ne fu uno che raccontò di una giovane donna che vestiva un abito verde dalla gonna lunga fino a metà polpaccio, con i capelli rossi e ricci raccolti in una voluminosa coda, con due occhi azzurri che sembrava quasi che l’acqua dell’oceano avesse deciso di cambiare luogo dove trovare dimora. Questa donna era una maga che improvvisamente si era come pietrificata e poi aveva iniziato a formulare incantesimi che le si erano ritorti contro.

Fu impossibile risalire all’identità della maga, di lei non rimaneva che cenere, persino le ossa erano state consumate, ma si pensò si trattasse di Rodmilla Selvina, un’esperta di artefatti magici che permettevano ai maghi di controllare la magia del fuoco. Era conosciuta nel mondo magico come la creatrice di oggetti capaci di incanalare il potere del fuoco rendendo il mago che possedeva l’oggetto capace di creare persino delle creature quasi viventi grazie all’immenso potere delle sue opere. Erano queste le più richieste dai maghi di un certo livello. Peccato che lei avesse provato a dominare tale magia senza l’ausilio di oggetti che catalizzassero il suo potere, impedendo che si facesse esplodere e limitando la dose di magia che era richiesta nell’esperimento magico.

Tre gli altri morti c’erano anche i genitori di Eracle.

In alcuni momenti Hel si domandava come fossero i suoi nonni paterni. Non li aveva mai visti, nemmeno in una foto. Di loro non conosceva i nomi. Ogni tanto le veniva da chiedersi se la situazione che viveva sarebbe stata differente se loro fossero stati ancora vivi. Magari avrebbero fatto ragionare il figlio, magari non l’avrebbero odiata come invece faceva il resto della sua famiglia. Non che si trattasse di una famiglia enorme. Eracle era figlio unico, quindi nemmeno l’ombra misera di uno zio a cui chiedere aiuto, nessun cugino con cui confidarsi.

Erano loro tre. Camilla, Eracle e Hel. Nessun altro.

Di tanto in tanto, quando si sentiva particolarmente demoralizzata, si chiedeva se i nonni paterni avrebbero mai acconsentito alle nozze tra Eracle e Marialuce. Magari, se si fossero opposti, loro due non si sarebbero mai sposati e Hel non sarebbe nata lasciando la madre ancora libera di vivere tutta la sua vita.

Si perdeva in questa fantasia dove lei non esisteva. In cui forse sarebbe stata solo un fantasma di cui non si sarebbe mai conosciuto il nome. Un nome che odiava e che le ricordava il male che aveva fatto alle persone che la circondavano. Odiava se stessa.

Magari era un bene non aver avuto la possibilità di conoscere i suoi nonni, persone in meno di cui sopportare gli sguardi accusatori. Meno pesi sulla coscienza. Meno sensi di colpa.

La curiosità c’era, era impossibile non averla, e tra foto rubate in attimi di solitudine in casa, Hel si costruì immagini che appartenevano ai nonni. Non conosceva i loro nomi, ma i loro visi li aveva imparati a menadito, tanto che di notte le andavano qualche volta a fare visita e le raccontavano storie di mondi impossibili in cui la magia non esisteva e le persone non avevano alcun modo per dimenticare, o meglio, per nascondere gli avvenimenti brutti nella vita, se non facendo finta che non esistessero, andando avanti lentamente e senza la luce negli occhi. Non poteva veramente esistere un universo in cui non si potesse assistere alle grandi opere di magia, in un universo in cui la maggior parte delle persone che lei conosceva non esistevano. Ma nel sonno lei restava ad ascoltarli affascinati, e al risveglio si chiedeva se nella vita vera avessero avuto quelle stesse voci che la sua fantasia aveva dato loro e se le espressioni dei loro visi fossero naturali o meno.

Ma se le era stato relativamente semplice ricostruire la parentela da parte del padre, a Hel era praticamente impossibile scoprire chi fossero i genitori della madre.

Camilla una volta le disse di aver sentito loro padre parlare al telefono. Non poteva sapere cosa l’altra persona stesse dicendo, ma le parole di Eracle erano chiare: voleva che prendessero Hel e la portassero via.

Per giorni Hel si era divisa tra il desiderio spasmodico di essere presa da uno sconosciuto e allontanata con la forza dalla famiglia che la odiava. Quante probabilità c’erano che la trattassero peggio. Ma una vocina nella testolina le ricordava che per quanto la vita con Eracle e Camilla potesse essere difficile, erano pur sempre la sua famiglia e non poteva abbandonarla come se niente fosse. Una parte di loro sarebbe per sempre rimasta in lei.

Era un pensiero che ripudiava per la maggior parte del tempo. Ma se si soffermava a pensare, sarebbe stato veramente così semplice lasciare tutto e cambiare vita? Sperava proprio di sì, di non avere la sfortuna di sentire la nostalgia delle persone che la ignoravano o deridevano.

Ci fu un periodo in cui le chiamate che Eracle faceva alle misteriose persone divennero più frequenti, per poi smettere di botto. Sempre secondo Camilla, si trattava dei loro nonni materni. Non ne volevano sapere niente di loro, soprattutto di lei, Hel, che aveva ucciso la loro bambina.

Spinta dalla curiosità, Hel cominciò a origliare le chiamate che il padre effettuava. Una volta lo sentì pregare la persona all’altro capo del telefono. Voleva che prendesse Hel, che la portasse lontano da lui perché non sopportava di vederla in viso, assomigliava troppo a Marialuce e sapere l’amore della sua vita aveva sacrificato la propria vita per lei gli provocava troppo dolore. Dovevano venire a prenderla, solo così le cose sarebbero migliorate. Avrebbero potuto prendersi cura di una loro parente, e se l’avessero presa, lui non l’avrebbe mai più cercata. I rapporti sarebbero stati come al solito. Freddi. Inesistenti.

Ma la persona sconosciuta, senza volto e senza nome, non parve voler dare ascolto alle parole di Eracle. Ogni chiamata finiva con un rifiuto.

Quindi nemmeno il ramo materno della famiglia voleva saperne di lei. Cosa sapeva di quelle persone che si erano sempre tenute nell’ombra? Si trattava sicuramente di una famiglia di maghi, questo era più che ovvio, ma per il resto? Per il resto, nulla. Non sapeva altro, e sarebbe stato inutile chiedere a Eracle delle informazioni al riguardo, sapeva già cosa avrebbe ricevuto: uno guardo freddo e tagliente come una lama, una smorfia di disgusto e una risposta breve e fugace. Il canovaccio delle loro conversazioni era sempre questo. Battuta più o battuta meno. Dipendeva molto da ciò che animava le loro parole.

In genere, Eracle non faceva mai domande. Non si interessava dove la figlia andasse, e firmava rapidamente, senza leggere, i permessi per le gite scolastiche. Gli unici momenti in cui fingeva di tenere a Hel era quando il preside della scuola lo chiamava per congratularsi con lui, non poteva avere una figlia migliore. Eracle annuiva e stringeva mani, ma una volta uscito dalla scuola, tutto tornava come sempre.

Meglio il silenzio che parole con un peso.

Da piccola, l’indifferenza del padre e della sorella, anche se di quest’ultima erano frequenti gli sgarbi, era stata difficile da gestire. Era difficile restare sempre da sola, non poter contare su una figura di attaccamento pronta a correre in suo soccorso, non avere nessuno con cui parlare liberamente, o quasi. Solo crescendo capì quando la situazione che l’aveva soffocata per tanto tempo, fosse in realtà una sorta di liberazione.

Loro non la volevano. Lei non doveva fare altro che fingere, restare per i fatti propri, e sarebbe stata libera. Ogni tanto doveva fare attenzione a Camilla, alle sue parole piene di acido e veleno. Ma cos’era una frecciatina di tanto in tanto in confronto alle giornate passate senza qualcuno che le chiedesse in continuazione cosa stesse facendo o che si impicciasse dei suoi affari?

La particolare situazione famigliare in cui viveva le permise di allenarsi indisturbata con la magia, imparare a controllarla per non farla emergere erroneamente quando era spaventata o mentre dormiva. Aveva ancora molto da imparare, visto gli ultimi risvegli, ma doveva ammettere a se stessa che se la stava cavando egregiamente per una che non aveva avuto ancora alcuna istruzione nell’uso del potere che le scorreva nelle vene.

Le orecchie di Hel erano ancora tese a sentire i rumori provenienti dal piano di sotto. Qualcuno si stava muovendo rapido, e a piedi scalzi. Camilla.

Trasalì quando dei colpi fecero tremare la porta.

Si era talmente persa nei propri pensieri che non si era accorta che Eracle avesse salito le scale.

Deglutì chiudendo il libro e riponendolo accanto a lei nel letto, si mise a sedere meglio e lanciò una rapida occhiata alla stanza. Cosa stava cercando? Segni che facessero capire a suo padre della magia che aveva praticato.

Era un pensiero stupido. Il massimo che poteva fare era animare pupazzi, levitare e creare delle scintille di luce, niente che fosse permanente, ma la prudenza non era mai troppa.

Non era un buon segno quando il padre bussava alla sua porta, meglio non peggiorare la situazione con qualcosa che avrebbe potuto far preoccupare lui e inacidire la sorella.

Tutto al proprio posto, niente scintille che svolazzava, nessun oggetto che volteggiava in aria. Lei era apposto, niente da segnalare nel proprio riflesso.

Eracle bussò un’altra volta. Meglio non farlo aspettare.

-Avanti.- disse Hel con la voce che tradì l’esitazione.

La porta di aprì cigolando sui cardini, con una lentezza che fece ricordare a Hel il momento nel flm dell’orrore in cui il mostro entrava nella stanza per prendersi la vita dell’indifesa ragazza. Anche se lei aveva un potere, anche se immaturo, su cui contare, non si sentiva diversa dalla poveretta che avrebbe prodotto l’ultimo urlo.

La testa di Eracle entrò nella stanza, prima circospetta e guardinga, con gli occhietti dietro le lenti degli occhiali che guizzavano da una parte dall’altra della stanza come se si aspettassero di incontrare qualcosa di strano, e poi entrò con tutto il corpo.

Eracle era molto cambiato dalle foto che lo ritraevano come un uomo dall’aspetto distinto e austero. Di austero aveva ancora lo sguardo e i modi di fare, ma questi contrastavano il suo modo di vestire sciatto e i capelli unti tirati indietro in una coda di cavallo. Ma era ancora bello, nonostante qualche chilo in più rispetto al passato.

-Vi siete divertiti?- chiese Hel con la bocca improvvisamente asciutta.

Eracle la fissò come se avesse parlato in un’altra lingua. Fece schioccare le labbra e si tirò su gli occhiali.

-È stata troppo breve. Tu stai bene.-

Non era una domanda. L’inflessione era dura, come se fosse deluso nel constatare che la figlia se l’era cavata anche senza di loro. Oppure deluso del fatto che lei fosse ancora dentro casa e non fuggita da qualche parte, magari persa in una foresta. Hel dubitava persino che denunciasse la sua scomparsa.

-Prima di venire siamo passati al supermercato e abbiamo fatto un po’ di spesa. Se vuoi, puoi scendere a decidere cosa vuoi da mangiare.-

Era la loro routine. Non mangiavano mai assieme. Hel cucinava per sé, aveva incominciato a farlo appena fu in grado di sollevare una pentola piena d’acqua. Camilla e il padre mangiavano o prima o dopo di lei. Non stavano insieme mai più del tempo dovuto. Come Hel, anche loro volevano risparmiarsi i lunghi silenzi imbarazzanti e scomodi.

Hel gli sorrise, non seppe nemmeno lei perché lo fece. Forse per sembrargli più accondiscendente? O per non irritarlo? Possibile che quello che sentiva fosse nostalgia?

-Non ti preoccupare.- gli rispose -Credo che leggerò un altro po’ e poi mi metterò a dormire.- cosa che avrebbe fatto fino all’ora di cena.

Era una giornata piovosa, niente di meglio per stare da soli e lasciarsi cullare dalle fantasie.

-Come ti pare.-

Eracle non parve dispiaciuto per la risposta della figlia, tutt’al più era sollevato. Non avrebbe dovuto fingere che tutto andasse come aveva sempre desiderato.

Dal piano di sotto si sentì Camilla chiamare Eracle.

Papà. Era da un sacco di tempo che Hel non usava quella parola. In genere non si chiamavano mai per nome o con altri appellativi. Quando si scambiavano due parole, lo facevano sempre da soli, a bassa voce, proprio come ora.

-Ti serve qualcosa per domani?-

-No.- mormorò Hel accarezzando la copertina del libro.

Già. Domani. L’ennesimo giorno di scuola. Il fine settimana trascorso senza l’ombra di Camilla a perseguitarla per i corridoi era stato una manna dal cielo, ma ora tutto sarebbe tornato alla solita normalità. Non sarebbe stato difficile ricominciare a evitare di trascorrere la pausa pranzo insieme agli altri suoi compagni di classe nel giardino, avrebbe persino evitato di andare in biblioteca, che si trovava nella parte di scuola frequentata da Camilla. Fortunatamente avrebbe dovuto trascorrere metà giornata a passeggiare in un museo di animali. Almeno quello avrebbe stemperato la noia. Inoltre, era più che certa che sarebbero tornati a casa più tardi rispetto al solito, e questo non era che un bene. All’ora del suo rientro, Camilla si sarebbe trovata nella propria camera per finire i compiti, così lei avrebbe potuto pranzare senza sentire lo sguardo pieno di astio della sorella.

L’indomani non sarebbe stato così male.

 

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Capitolo 5
*** 4 ***


4:

 

Camilla quella sera non riuscì a dormire. Il pensiero di Hel nella camera poco distante dalla sua la turbava.

Col padre aveva passato un bellissimo fine settimana a Venezia e il ritorno a casa era stato traumatico. Dover tornare consapevole che la finzione era solo una finzione e che la verità era pronta ad aspettarla sotto le sembianze di una ragazzina taciturna, col naso piccolo e leggermente storto alla base, dovuto a un brutto incontro col tomo numero sette dell’enciclopedia di animali della madre, che le era caduto accidentalmente sul viso quando aveva tre anni. Accidentalmente voleva dire che lei lo aveva lanciato contro Hel, la quale la stava infastidendo con le sue solite lamentele sul perché non giocassero mai insieme.

Già, perché?

La risposta era andata affievolendosi col passare degli anni, alcune volte nemmeno lei si ricordava a cosa fosse dovuto tutto il risentimento che provava nei suoi confronti. Non era sano, la faceva stare male e le tormentava le notti. Si chiedeva persino, in alcuni momenti di scarsa lucidità, cosa le impedisse di uscire dalla propria camera, di consumare a piedi scalzi il metro che la distanziava dalla camera della sorella, bussare alla sua porta e chiederle di perdonarla. Voleva farlo, veramente, solo che poi si ricordava il perché che l’avesse tanto con Hel, rammentava perché il solo vederla la faceva stare ancor più male che l’odiarla. Hel era la causa della sua solitudine.

Camilla aveva assistito con la madre al miracolo che le stava crescendo in grembo. Voleva tanto una sorellina, pregava ogni notte che accadesse il miracolo che l’avrebbe finalmente resa felice. Avrebbe smesso di giocare da sola e di assillare i genitori affinché stessero un po’ con lei. Loro non facevano storie, placidamente si piegavano alla sua volontà come se al posto di acri suppliche pronunciasse solenni e potenti incantesimi. Lo facevano con amore, si mettevano con lei e giocavano a qualsiasi cosa volesse, ma Camilla vedeva che i loro pensieri erano altrove e che dovevano concentrarsi per tornare bambini, per avere fantasia.

La madre era la più brava a immedesimarsi in una bambina; forse, a differenza del padre, non aveva smarrito la capacità di vedere il mondo con occhi diversi, o forse solo perché, nella famiglia, era lei ad avere nel sangue la magia. Forse sì, era questo ciò che le aveva permesso di giocare con Camilla con un po’ di convinzione in più. E, poi, con la madre c’era stato sempre qualcosa di nuovo con cui divertirsi.

Eracle vedeva la magi come qualcosa da evitare, come una malattia contagiosa che avrebbe portato la morte se fosse riuscita a toccare qualcuno.

Camilla lo aveva osservato con attenzione mentre la madre faceva danzare i fiori o trasformava bolle di sapone in animali rotondeggianti, per far felice la sua piccola bambina. La guardava con diffidenza e con terrore, che non avevano nulla a che vedere col tono dolce e affettuoso, con la luce negli occhi, che lo animavano quando, invece, di magia per casa non ce n’era nemmeno l’ombra.

Per Camilla la magia voleva dire tutto. Voleva dire non dover più dover sopportare la vista di Hel e la sua somiglianza con la madre, perché lei aveva ciò che aveva reso la loro mamma così speciale. Avrebbe voluto dire abbandonare la maledetta scuola in cui si sentiva soffocare ogni giorno per andare in un’Accademia di magia dove le avrebbero insegnato a danzare con gli elementi della natura e a manipolare le leggi della realtà. Finalmente si sarebbe sentita completa, e non a pezzi come lo era il suo cuore.

Dicevano che Eracle e Camila erano due gocce d’acqua, ma non era vera. Nella loro somiglianza vedevano la realtà da due punti di vista diversi. Eracle avrebbe voluto iscriverla in una scuola per soli umani, ma essendo per metà figlia di una maga, non poteva. Lei era contenta di essere finita in una scuola mista. Eracle non sopportava la vista degli amici ‘magici’ della figlia. Camilla odiava il modo freddo e distaccato con cui il padre si comportava quando invitava i suoi amici. Sottolineando. Eracle odiava la magia. Camilla la adorava, e non si era fermata un secondo per tentare di capire cosa spingesse il padre a rifiutare ciò che era stato di sua moglie.

Ogni giorni, dal suo sedicesimo compleanno, Camilla restava in silenzio, appena svegliatasi, a sentire cosa le diceva il corpo.

Non sapeva come capire quando la magia avrebbe cominciato a fare parte della sua vita. In giro se ne dicevano di tutti i colori. C’era chi raccontava di aver visto spuntare fiori dalle punte dei capelli di un ragazzo il giorno in cui la magia si risvegliò in lui. oppure di una ragazza che ebbe la sfortuna di abbracciare la magia insieme all’influenza, ogni starnuto si trasformava in una piccola tromba d’aria che metteva a soqquadro la casa. O addirittura c’era chi senza volerlo si era ritrovato a boccheggiare con le sembianze di un pesce rosso, e il poveretto dovette aspettare l’ingresso nell’Accademia per tornare alle sembianze di un ragazzo.

Camilla conosceva altre storie folli, anche troppo folli per poter essere vere. Ma, in fin dei conti, non le importava realmente il modo in cui i suoi poteri si sarebbero svegliati, se con una carezza o con un fremito. A essere importante era il quando.

Aveva compiuto sedici anni da due mesi e ancora nessun potere in vista, nemmeno uno sbuffo pieno di brillantini. E più passavano i giorni, più l’amarezza montava.

Possibile che dalla madre non avesse ereditato nulla?

Il pensiero che la distruggeva era quello in cui Hel avrebbe ottenuto la magia.

No. Non lo avrebbe sopportato. A dirla tutta, probabilmente sarebbe stata la sua morte.

Quando il silenzio della camera divenne troppo assordante, decise di uscire e di andare a fare colazione.

Eracle era uscito per andare al lavoro, lo aveva sentito andare via. Di solito si alzava anche lei quando Eracle faceva colazione, così da poter passare insieme a lui un po’ di tempo. Aveva sempre qualche storia del suo passato da raccontarle, e quei momenti per lei erano preziosi, quasi quanto quelli trascorsi assieme ai suoi amici.

Quella mattina però non se l’era sentita di stare con lui. Un po’ perché le piaceva di tanto in tanto stare da sola e poi perché in quel fine settimana c’era stato un momento che l’aveva scossa.

Forse era stato solo frutto della sua immaginazione, ma era inutile illudersi.

Quando Hel non era con loro, non le capitava mai di pensare a lei. E non lo avrebbe fatto nemmeno questa volta se suo padre non le avesse detto che, magari, una volta avrebbero potuto portare anche Hel con loro.

Si era trattato solo di un pensiero pronunciato con un fil di voce, ma era bastato a far contorcere le budella a Camilla.

Che il padre stesse avendo dei ripensamenti su Hel?

Il rapporto fra i due era sempre stato freddo e distante, possibile che ora volesse riavvicinarsi alla figlia che a stento guardava e di cui non sapeva niente?

Svogliatamente si preparò la colazione. Succo di arancia che le scese lenta e fredda lungo la gola. Fu come deglutire una manciata di aghi che le graffiarono la gola, nonostante la stucchevole dolcezza dei frutti che aveva spremuto.

Fu mentre mandava giù un boccone di pancarré con crema di nocciole che le venne in mente un’idea.

Folle.

Perché non era da lei.

Non le era mai capitato di pensare a qualcosa che coinvolgesse la sorella. Probabilmente era stata contagiata dal padre.

Era strano, troppo vicino al normale, ma la voglia di averla con sé era sospinta da sentimenti che avevano poco a che fare con la sorellanza, con l’amore. C’era una fetida cattiveria, un divertimento malsano che per lei avrebbe messo in chiaro la situazione con Hel.

Le avrebbe fatto capire che non doveva azzardarsi anche solo a pensare di ottenere ciò che era stato della madre, non doveva nemmeno sognare di poter possedere la magia.

Le avrebbe fatto capire quanto fosse inutile, incapace. Il nulla.

Prima, però, doveva fare una chiamata e poi avrebbe dovuto fare una cosa che le faceva venire la nausea solo al pensiero: parlare con Hel.

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Capitolo 6
*** 5 ***


5:

 

Erano in sei, ma sembravano occupare tutto lo spazio a loro disposizione, come se sei ragazzi potessero con la loro sola presenza occupare i buchi presenti tra un albero e l’altro.

Hel non sapeva cosa aspettarsi da quella fuga dal mondo reale le appariva strano stare a così stretto contatto con persone che l’avevano vista sempre da lontano, senza mai degnala di una qualche parola o frase con senso compiuto. Solo lunghi silenzi fatti di occhiate e di frasi bisbigliate da Camilla che distoglieva le poche attenzioni che i suoi amici avevano rivolto altrove. Peccato che quell’altrove fosse proprio Hel.

Hel percepiva gli sguardi degli altri, li trovava pesanti e scomodi, come se stesse vestendo un abito troppo stretto, da asfissiarla. In altri momenti, invece, era diversa al sensazione che il sentirsi i loro occhi su di sé le dava. Gli abiti non erano stretti, bensì larghi, troppo, e la mettevano a disagio. Cominciava a dubitare della sua setta identità, come se la pelle che la rivestiva non fosse la propria.

Era questo ciò che le facevano provare gli occhi di Camilla e dei suoi amici quando si posavano su di lei.

Ma Camilla era speciale. Le sue occhiate nascondevano un odio puro e senso che sapeva di fiele.

Per questo si stupì quando, aprendo la porta della propria camera, per scendere a fare colazione, si trovò davanti Camilla.

Un sudore freddo le percorse la schiena facendole sbattere, per la confusione, il gomito allo stipite della porta. Senza però provare dolore, troppo presa dalla scena che aveva luogo davanti ai suoi occhi.

Le due sorelle si fissarono in silenzio per qualche attimo.

Hel trovò quella scena surreale. Non si erano mai trovate così vicine. In genere prestavano abbastanza attenzione della reciproca presenza per non rischiare di incrociarsi per sbaglio, men che mai di proposito.

Poteva sentire il profumo dolce del bagnoschiuma della sorella invaderle le narici, un aroma che le ricordava quello della rosa canina, e i suoi occhi avevano sempre avuto quella sfumatura bordeaux? Non se lo ricordava. D'altronde poche volte si erano trovate a una distanza così ravvicinata.

Dei pensieri stupidi le affiorarono nella mente. Sapeva che lo erano ma non poté farne a meno.

Si domandò se i capelli stessero bene.

Se non avesse un aspetto troppo sfatto.

Che stupidaggine, si riproverò. Si era appena alzata, era normale che non fosse al meglio della propria bellezza.

Hel si accorse che Camilla la stava ancora guardando, non sostenne il suo sguardo e abbassò il proprio.

Doveva dire qualcosa?

Buongiorno?

Non ne aveva la più pallida idea.

Per questo, non sapendo che fare e che dire, si limitò a rimanere in silenzio.

-Domattina andremo in campeggio.- disse Camilla, la voce distorta dall’imbarazzo.

Hel non avrebbe mai pensato che la sorella potesse provare qualcosa di simile.

-Vuoi che ti prepari il pranzo al sacco?-

L’espressione che fece Camilla, Hel pensò di non poterla mai vedere sul suo volto. Era una sorta di curiosità mista a panico e a stupore. Che senso potevano avere per lei quelle emozioni.

Perché si stavano parlando? Era questo il vero interrogativo che aleggiava come una nuvola tempestosa nella mente di Hel.

Era la prima volta che si parlavano. Persino il suono della voce della sorella le appariva strana, come una eco distorta che non riusciva a catturare pienamente.

-No.- esitò Camilla rivolgendo per qualche secondo lo sguardo altrove, non avrebbe mai pensato che parlare con Hel potesse essere così difficile.

Le parole le morivano nella mente ancora prima di vedere la luce, faticava a formulare un pensiero compiuto. La lingua era secca e si attaccava al palato impastato di saliva che era come colla. Sentiva il cuore pulsare in modo strano, vellutato e lento. Si sentiva agitata, era agitata, ma una parte di lei era stranamente calma, come se fare quello che aveva in mente rappresentava l’espressione della sua anima.

Che cosa orribile da pensare.

Ciò che aveva intenzione di fare non era per niente carino. E non aveva il minimo dubbio che non si sarebbe sentita in colpa.

Non pensava di essere cattiva, ma adesso non sapeva veramente cosa pensare di se stessa. Il dubbio si era insinuato, ma era sicura che si sarebbe sentita meglio quando tutto sarebbe finito.

-No.- ripeté Camilla con un pizzico di convinzione in più -Tu verrai con noi.-

Hel guardò la sorella senza sapere cosa dire. Era impossibile che stesse parlando realmente, ma non c’era ombra di derisione sul suo volto. Solo una profonda paura che non riusciva a capire. Una paura che lei stessa provava.

Quell’incontro così inaspettato rendeva reale ogni suo desiderio più nascosto. Avere finalmente la possibilità di un rapporto con la sorella. Ma rappresentava anche la sua più ignobile paura. Non sapere cosa significasse l’essere la sorella di qualcuno.

Non lo erano mai state. Almeno non realmente. Avevano solo questo legame di sangue che per la maggior parte del tempo odiavano.

Ora, per qualche strano motivo. Camilla sembrava pronta ad andare oltre. Da un giorno all’altro. Come se tutti gli anni passati in silenzio potessero essere cancellati con una bella spugna bagnata.

Hel sapeva di non dover accettare, c’era qualcosa in tutta quella storia che le faceva venire l’amaro in bocca. Ma c’era anche la voglia di provarci, e questa vinse su qualsiasi avviso la sua mente le stesse mandando.

E accettò. Contro ogni più ragionevole considerazione.

E così so trovarono in sei, in una foresta, con tre tende e un po’ di cibo, giusto per trascorrere la nottata in mezzo la natura.

Non era realmente un campeggio, non lo sarebbe mai stato. Nessun genitore sano di mente avrebbe mandato i loro figli nel nulla, senza la supervisione di un adulto.

Si trovavano nel bosco che faceva parte dell’ampia tenuta dei genitori di Ares. Ovviamente una famiglia in cui la maggior parte dei suoi costituenti era di natura licantropa, doveva avere un ampio spazio in cui muoversi sotto forma di lupo o anche solo per sfogare l’energia in eccesso.

Erano tutti seduti intorno al fuoco che Ares aveva acceso con cautela, tutti pronti a raccontare storie di paura.

Sei persone che da spartire avevano ben poco. Da una parte c’era Camilla con Ares e Irina, un po’ più in disparte Noah, che si era rivelato essere uno dei migliori amici di Ares, e dall’altra, nel più assoluto silenzio c’erano Hel e Irina. Nessuno aveva fatto caso che nel gruppetto c’erano due ragazze con lo stesso nome.

Se una cosa simile fosse accaduta in classe, qualcuno si sarebbe messo a bisbigliare per trovare il nomignolo più adatto che potesse indicare almeno una delle due. Così da non fare confusione.

Camilla e Hel erano state portate nell’immensa villa dei signori Lambert da Eracle. L’uomo non aveva spiccicato una parola per tutto il percorso in macchina, continuava a scoccare occhiate fugaci alla figlia minore che sedeva sui sedili posteriori e ogni tanto si rivolgeva a Camilla alla sua destra.

Hel lo capiva. Cercava di capire cosa stava accadendo. Improvvisamente Camilla e Hel uscivano insieme per andare nello stesso luogo. Per passare una serata insieme a persone con cui Hel non aveva mai scambiato una parola che non andasse al di là di uno scusa mormorato talmente piano che non poteva essere considerato realmente come un abbozzo di conversazione unidirezionale.

Non aveva senso.

Cosa frullava nella testa di Camilla?, si era chiedo Eracle per tutto il viaggio, ma non disse nulla e una volta lasciate le figlie se ne andò sulla sua macchinina rossa dalle portiere bianche, un po’ sgangherata e vecchia, ma efficiente come sempre. L’unica cosa che fece prima di perderle di vista fu lanciare un’occhiata a entrambe e sperare che niente di strano accadesse.

Non quella sera.

Quella sera doveva rimanere immacolata.

L’ennesimo anno dalla morte di Marialuce.

Si trovavano tutti e sei intorno al falò, riscaldandosi con le fiamme che scoppiettavano e che gettavano ombre fredde e spettrali che non rimanevano fuori dalle coperte di pile che i Irina, l’amica di Camilla, aveva portato.

A parlare era solo il fuoco. Raccontava di una storia che Hel non riusciva a capire fino in fondo, le sfuggivano parole importanti.

Si rese conto che accettare l’invito della sorella era stata la peggiore delle idee. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe andata a finire in questo modo. Lei e Camilla non avevano niente da dirsi. Così come nemmeno i loro amici sembravano avere l’intenzione di intraprendere qualche discorso.

Se le fosse stato possibile, si sarebbe alzata e avrebbe chiesto ai genitori di Ares di poter chiamare il padre. Si sarebbe fatta prendere. Qualsiasi scusa sarebbe stata efficace. Un mal di pancia improvviso, non aveva ancora avuto il menarca, quindi, sì, sarebbe stato facile. Oppure un’intossicazione? Avrebbe deciso al momento, improvvisando.

Non era mai stata brava a mentire, ma la necessità le avrebbe fatto da maestra.

Fu quasi sul punto di farlo. Di alzarsi e di marciare decisa verso la casa di Ares e di farsi venire a prendere da Eracle, quest’ultimo avrebbe sbuffato e i sarebbe lamentato, ma l’avrebbe salvata da quell’atrocità pur di non avere problemi con i genitori di Ares e, soprattutto, per non sentire le lamentele che nella sua mente Hel avrebbe vomitato.

In realtà, la ragazza avrebbe passato tutto il viaggio di ritorno in silenzio maledicendosi per aver accettato l’invito, chiedendosi cosa le fosse passato per la testa. Senza, sicuramente, riuscire a trovare una risposta soddisfacente.

E fu sul punto di farlo.

Scivolare fuori dalla coperta che cingeva le sue e le spalle di Irina, ma non lo fece perché Camilla cominciò a parlare attirando l’attenzione di tutti.

-Che ne dite se movimentiamo un po’ la serata?-

Gli occhi di Ares si fecero grandi e luminosi, come se le stelle avessero impresso la propria luce nelle sue iridi.

Irina, accanto a Hel, ne fu impressionata e produsse un sospiro che accarezzò la pelle dell’amica.

Hel sapeva cosa Irina provava per Ares. Era letteralmente affascinata da lui. Ogni volta che parlava nelle assemblee studentesche pendeva dalle sue labbra come se ne colasse oro fuso.

Irina era così. Innamorata perennemente dell’idea dell’amore.

Le parole di Camilla attirarono persino l’attenzione di Noah che non aveva fatto altro che fissare le fiamme, forse pentendosi anche lui di aver accettato l’invito a quella fantasmagorica festa che avrebbe ucciso anche i morti.

-Sì!- esclamò Ares tutto contento dopo essere riuscito a trattenere almeno nove decimi del suo entusiasmo, e comunque quell’un decimo era comunque eccessivo.

-Cosa hai in mente?- le chiese Irina con poca convinzione.

Hel guardò la sua amica che aveva parlato direttamente con Camilla. Quei pochi giorni si stavano rivelando pieni di sorprese.

-Che ne dite di una prova di coraggio?-

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Capitolo 7
*** 6 ***


6:

Noah marciava con passo stentato, annoiato, trascinando i piedi sul terreno molle e coperto con un tappeto di foglie che si stavano seccando e un’erbetta sottile. Camminavano così piano che Hel non avrebbe saputo dire quanto si fossero allontanati dall’accampamento, se qualche metro o addirittura qualche centimetro. Non poteva dire nemmeno in quanto avessero consumato quella distanza, se minuti, secondi o ore. Sapeva solo che camminavano lenti e in silenzio, persino gli alberi, se avessero potuto, li avrebbero superati.

Hel camminava dietro il ragazzo con il cuore che le tremava nel petto. Era consapevole di non essere la compagnia più gradita, probabilmente avrebbe desiderato avere un compagno diverso per quell’avventura. Ares, molto probabilmente, ma pensava che chiunque altro gli sarebbe andato bene, eccetto lei.

Era ancora in tempo per tornare indietro, prendere le sue cose al campo e dirigersi verso la casa di Ares, ma qualcosa la costringeva a rimanere. Era una sensazione che non riusciva a spiegare, uno sbattere di ali nello stomaco. Stranamente Noah non c’entrava nulla con quel sentimento. Si disse che probabilmente era dovuto tutto all’ansia causata da quella situazione così nuova, e spettrale. La sua idea di divertimento non aveva niente a che fare con una camminata al chiaro di luna, in una foresta silenziosa, cercando qualcosa che Ares aveva nascosto.

Il gioco era semplice. Ares, quella mattina aveva chiesto a sua madre di appendere a un albero della foresta una sua maglia bianca, così da poter risaltare al buio. Si erano divisi in tre squadre. Ares e Irina, Camilla e Rebecca, Noah e Hel. La prima squadra che avrebbe trovato la maglia, avrebbe obbligato i perdenti a fare qualsiasi cosa.

Era un tipo di divertimento che nauseava Hel. Perché non leggere un libro, in silenzio, accanto al fuoco, e, se proprio volevano una prova, cercare di descrivere la trama con quanti più particolari rammentavano. Proprio una scarpinata in mezzo al nulla dovevano scegliere.

-Stai bene?- le chiese Noah all’improvviso, rallentando ulteriormente il passo tanto che Hel dovette voltarsi a guardarlo.

La sua espressione non le diceva niente. La solita noia, le palpebre quasi calate, e nonostante ciò era di una bellezza che le toglieva il fiato. Doveva essere per forza la sua natura di vampiro a renderlo così elegante e misterioso, come Ares era selvatico e iperattivo per il suo essere un licantropo.

La domanda la colse così di sorpresa che non seppe cose rispondergli, si limitò a continuare a camminare con il viso rivolto di qualche grado verso di lui, con gli occhi scuri sgranati, tanto da sembrare due lampioni scuri contro un cielo bianco.

-Potresti anche rispondermi.- disse il ragazzo denti stretti, al ché Hel si riscosse.

-Sì.- balbettò portando immediatamente gli occhi davanti a sé.

Si erano parlati. Da quando non lo facevano? Mai fatto?

Noah sospirò e scosse la testa.

Nessuno dei due seppe il perché, semplicemente a un certo punto voltarono a destra. Gli alberi parevano tutti uguali e l’assenza di luce non aiutava certamente le cose. Forse stavano girando in tondo, commentò a se stessa Hel cercando con gli occhi qualcosa che le desse la speranza che non fosse così. Forse proprio una maglietta bianca, almeno avrebbero finito quella stupidaggine. Avrebbe poi lasciato a Noah il piacere di scegliere la punizione per gli altri, sperò non ci andasse tanto pesante con Irina. Alla fine non era colpa sua se era stata trascinata in quella follia.

Entrarono in quello che sembrava un tunnel costituito da rami si salici piangenti che si erano intrecciati.

-Tutta questa cosa è una perdita di tempo.- borbottò Noah schiarendosi la voce.

Hel sorrise. -Ma a Ares piace.- si ritrovò a dire, e subito si pentì.

Sentì gli occhi del ragazzo puntati sulla sua testa.

-Perché devi fare così?- le chiese.

-Così come?-

Stavano parlando. Non si erano mai parlati per tutti gli anni scolastici in cui erano stati compagni di classe ed era bastata una serata trascorsa lontano dalle rispettive case per renderli dei conoscenti degni di scambiarsi qualche parola?

Strana la vita.

-Come se dovessi compiacere tutti, non è sano. Dovresti pensare più a te stessa. Fare quello che ti piace o ti va di fare.-

Si sentì ferita dalle parole del ragazzo.

-Ma io faccio quello che mi piace.- disse in fretta.

-Ne sei sicura?- le rimbeccò.

-Sì.-

-Quindi ti piace camminare in un bosco di notte alla ricerca di una maglia bianca.-

Per niente. -In parte.-

Noah sospirò.

Hel lo seguì a ruota.

-È una perdita di tempo.- sibilò Noah.

-Se non ti va, puoi tornare al campo. Troverò io la maglia.-

Di nuovo lo sguardo del ragazzo sulla sua nuca.

-Da sola?-

-Sono brava in queste cose.- da quando?

-Però non sei brava a calcolare i vantaggi dei tuoi avversari. La maglia è di Ares, e lui è un licantropo. Conosce abbastanza bene il bosco e il proprio odore per trovarla.-

Hel quasi inciampò in una radice. Non ci aveva pensato. Ares era un licantropo, sapeva seguire le piste meglio di un cane.

-Ma non sa dov’è, possiamo farcela.- disse la ragazza in un sussurro.

Noah digrignò i denti facendo venire la pelle d’oca a Hel.

-Allora è un bene che tra noi due ci sia uno capace di vedere bene al buio.-

E così tra di loro cadde nuovamente il silenzio. Fu un sollievo per Hel. Non le rimaneva che camminare e guardarsi in torno senza dover pensare a cosa dire e a come modulare le frasi. Finalmente sola con i propri pensieri, quando spuntavano.

Le parve di vedere i sorci verdi quando sentì una risatina alla sua sinistra. Era Camilla seguita da Rebecca, entrambe salutarono Noah, solo Noah, cinguettando e saltellando nella sua direzione.

Noah non sembrò particolarmente interessato dalla comparsa delle due ragazze. Le trattò con freddezza nonostante loro gli cinguettassero attorno chiedendogli di usare le sue abilità da vampiro per trovare la maglia di Ares. Avrebbero potuto instaurare un’alleanza momentanea, almeno fino a quando non avessero avuto la maglia di Ares sotto le mani, dopo il più scaltro l’avrebbe sottratta agli altri.

Hel così tornò a essere ignorata e la cosa non le dispiacque più di tanto. Per qualche strano motivo le avrebbe fatto piacere parlare ancora con Noah, sentire i suoi pensieri e capire cosa pensasse di lei. Però, la presenza della sorella e della sua amica le permettevano anche di concentrarsi su quella prova di coraggio. Non vedeva l’ora che qualcuno trovasse quella maledetta maglia per mettere fina al tormento che provava.

Chiunque di loro avrebbe potuto trovarla, eccetto Camilla. Non voleva sapere quali ingranaggi malefici si sarebbero attivanti nella sua mente nel momento in cui avrebbe dovuto assegnarle una punizione. Le venivano i brividi solo a pensarci.

I quattro si mossero insieme, divisi in due gruppi. Hel davanti e Noah, Camilla e Rebecca dietro di lei. Le due ragazze non la smettevano di parlare, di esclamare a ogni minimo rumore, ad aggrapparsi a Noah alla più piccola folata di vento.

Hel si chiese se stessero provando a strappare qualche commento rassicurante al ragazzo. Sorrise tra sé e sé. Avrebbero potuto provare anche all’infinito, ma qualcosa le diceva che Noah non avrebbe fiatato nemmeno se gli fosse capitato un chiodo sotto il piede. Era più facile che morisse in silenzio per l’indifferenza e la noia.

La cosa che la infastidiva era continuare a sentire dietro la nuca la sensazione di avere uno spillo puntato contro la cute. Non le affondava nel corpo, non le faceva male, ma era comunque fastidioso. Si era voltata un paio di volte per vedere se la causa di quel fastidio fosse lo sguardo di Noah, ma il ragazzo aveva lo sguardo piantata sul terreno. Pareva aver perso ogni interesse che lo aveva animato poco prima a parlare con lei.

Invece di continuare diritti, svoltarono a destra, seguendo tracce invisibili nell’oscurità, respirando piano cercando di non far rumore, ma comunque abbastanza forte per sentire la reciproca presenza.

-Inizio a provare un po’ di paura.- ammise Rebecca a un certo punto.

Anche Camilla aveva cambiato atteggiamento. Aveva smesso di parlare e si guardava attorno alla ricerca di qualcosa tra gli alberi che si mischiavano tra di loro nell’inchiostro della notte. Questa descrizione piacque così tanto a Hel che decise di appuntarsela mentalmente e di annotarla nel suo diario appena tornata a casa.

Noah continuò a ignorare le due ragazze, ma qualcosa diceva a Hel che anche lui cominciasse a cambiare opinione sulla prova di coraggio.

La cosa più strana osservò Hel, fu che più camminavano e più i normali rumori del bosco, il legno scricchiolante, il verso degli animale e il sibilare delle foglie, si attenuava, come se un manto pesante stesse comprendo tutto rendendolo immobile.

-Forse sarebbe meglio tornare indietro, tra un po’ dovremmo arrivare alla recinzione della villa.- commentò Rebecca.

Hel storse la bocca. Avevano camminato a lungo, ma non così tanto. La proprietà dei genitori di Ares era immensa, grande abbastanza da ospitare un centro estivo, oltre alla loro dimora.

-Va bene.- disse Noah -Tanto ho l’impressione che non saremo noi a vincere.-

Camilla sbuffò contrariata. Nel frattempo lanciava occhiate agli alberi e apriva e chiudeva le mani nervosamente.

Che strano, pensò Hel incamminandosi dietro di loro.

Hel osservò la sorella. Era nervosa, ma non spaventata. Stava aspettando qualcosa. O qualcuno.

Il dubbio le insinuò freddo dentro la pelle, risalendo e affondando fino al cervello. Quella storia puzzava di bruciato sin dall’inizio. E come mai si erano unite al loro gruppo quando, normalmente, non avrebbero esitato un solo istante ad accodarsi ad Ares. Noah aveva ragione. Ares era un licantropo, molto più avvantaggiato in questo genere di competizioni. Loro due erano un’umana, quasi, sgradita e un vampiro annoiato. Non proprio la compagnia migliore per divertirsi. Eppure eccola a camminare insieme a loro. Sempre guardandosi intorno.

Stava macchinando qualcosa.

Non poteva dire di conoscerla abbastanza. Erano sorelle, ma se avessero unito insieme tutti i discorsi che si erano fatti nel corso degli anni a stento avrebbero riempito un’ora. Non la conosceva abbastanza, ma le bastava osservarla per capire che stava orchestrando qualcosa.

Un brivido le scivolò lungo la schiena e un desiderio le vibrò nel petto. Se Camilla avesse fatto qualcosa di orribile, lei si sarebbe vendicata. Non sapeva ancora in che modo, ma lo avrebbe fatto.

Il nervosismo della sorella la contagiò e cominciò a osservare con attenzione i contorni degli alberi alla ricerca di qualche movimento strano, di qualche ombra che non avrebbe dovuto esserci. Ma tutto sembrava così calmo che la mente cominciò a farle brutti scherzi. Sentiva l’aria raffreddarsi ogni secondo di più, tanto che in più di una volta le parve di vedere il proprio fiato condensarsi appena uscito dal naso e dalla bocca. Inoltre aveva la sensazione di camminare in una bolla di silenzio.

Ma questa non era una sensazione.

C’era veramente un innaturale silenzio.

Aveva letto abbastanza libri dell’orrore da sapere che non era un buon segno. Avrebbe voluto avvisare gli altri di aumentare il passo, ma le parole non le uscirono dalle labbra secche. Un’urgenza diversa le si impose nella mente.

-Camilla, l’hai visto pure tu?- domandò Rebecca indicando da qualche parte nella foresta.

-No.- rispose subito la ragazza con ansia e aspettativa nella voce.

Hel e Noah avevano visto, invece, due sfere gialle e piccole che si erano mosse davanti a loro, sfiorando il terreno. Ma Hel e Noah avevano visto anche altro. Non erano umani e le loro abilità magiche li mettevano un gradino sopra rispetto agli altri. Se Ares fosse stato lì con loro avrebbe concordato con i compagni che sarebbe stato meglio darsela a gambe e anche alla svelta.

Era un serpente gigante che strisciava tra gli alberi, soffocandoli tra le sue spire. Gli occhi gialli, quasi dorati, splendenti come soli, si fissarono su loro quattro muovendosi ondeggiando, in modo ipnotico.

Camilla, accortasi di ciò che anche gli altri vedevano, sorrise nervosa.

-Ma che cos’è?- domandò con poca convinzione, il ché sorprese Hel.

Il serpente si mosse lento, accarezzando l’aria con la lingua biforcuta che vibrava nello spazio che li separava.

-Non fate movimenti strani.- disse Noah.

Ma quali movimenti strani? Il massimo che Hel avrebbe voluto fare sarebbe stato mettersi a urlare, ma non era sicura di riuscire anche a correre. Aveva le gambe piantate al suolo come trattenute da radici.

-Non mi verrai a dire che hai paura di quello.- borbottò Camilla dando le spalle al serpente e osservano Noah dritto negli occhi, un velo di soddisfazione le si disegnò sul volto.

Era paura?, si chiese Hel. No. Conosceva la paura, era una sua vecchia amica, l’avrebbe riconosciuta all’istante. Lo stomaco avrebbe preso a farle male, avrebbe avuto un giramento di testa e le gambe sarebbero state molli come budini. Sarebbe stata in grado di scappare.

Questa volta era diverso. C’era qualcosa in lei che le imponeva di rimanere dov’era, i suoi occhi si fermavano sempre su quelli del serpente anche quando cercava di scostarli.

Notò il cambiamento in lei quando il serpente si fece un po’ più vicino, minando la sicurezza di Camilla.

-Ares, adesso basta.- sibilò -Ci hai spaventati abbastanza.-

Un brivido caldo riempi il corpo di Hel.

Avrebbe dovuto dare di matto. Aveva avuto ragione nel credere che Camilla stesse tramando qualcosa alle sue spalle. La voleva vedere piangere, piegarsi impaurita tenendosi la testa fra le mani? Si sbagliava di grosso.

Un calore intenso le riempì le vene, tanto che credette di andare a fuoco. Prese a respirare veloce, il cuore le scoppiava nel petto e il sangue le fischiava nelle orecchie.

La sentiva. Sentiva la magia che cresceva dentro di lei. La represse, non era il momento di giocare a levitare o a far volare gli oggetti. O forse sì?

Era così naturale tutto quello che provava che si sentì felice, la rabbia era finita da qualche parte, la briciola di paura si era dissolta.

Il serpente si fece avanti.

-Non credo sia Ares.- balbettò Noah, calcolando quante probabilità avessero di sopravvivere.

Gli occhi del serpente, accesi di luce propria, si fermarono su Hel, così come gli sguardi di Camilla, Rebecca e Noah.

Hel lo sentiva. Il serpente gigante era lì per un motivo, era lì per uccidere e non se ne sarebbe andato se non avesse assaggiato prima il loro sangue.

Percependo questo la paura si fece più forte, pizzicandole la base del cranio, dietro la nuca, regalandole una scossa che le attraversò la colonna vertebrale, che affondò nei muscoli e negli organi. Si trattava di una paura controllata, quel genere di paura che dava coraggio.

Strano, vero? Cosa avrebbe mai potuto fare una bambina contro un serpente lungo indicibili metri che aveva fame di sangue? Probabilmente niente. Se si fosse trattato di una bambina normale.

Ma lei non era normale.

Era da anni che lo sapeva.

Che attendeva il momento in cui avrebbe compiuto sedici anni per dimostrare al mondo quanto fosse speciale.

Un momento che era stato anticipato da quel serpente.

Il rettile piegò il capo all’indietro, confuso per la magia che percepiva nell’aria, entusiasta di aver trovato qualcuno che lo avrebbe saziato e la cui morte avrebbe fatto piacere al suo Padrone.

Sibilando attaccò con le fauci aperte. Un guizzo nero nella foresta altrettanto nera. Una lama oscura che andò a impattare contro una cupola rossa, fiammeggiante, dai riflessi dorati, contro cui non poté fare nulla. Il serpente la colpì e la attraversò trasformandosi in sottile cenere che gli sbuffi di vento portarono subito via.

Nessuno dei ragazzi parlò. I loro occhi erano puntati su Hel, sulla sua pelle che mandava bagliori dorati, come se oro iridescente fosse stato il suo sangue, o i suoi occhi rossi come carboni ardenti, con solo le pupille a ricordare il loro naturale colore, oppure i centimetri che la distanziavano dal suolo.

Nessuno diceva niente, ma tutti provavano qualcosa.

Rebecca. Sgomento.

Noah. Curiosità.

Camilla. Odio.

Hel. Libertà. Finalmente.

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Capitolo 8
*** 7 ***


7:

 

Finalmente. Libertà.

Sul serio? Perché si sentiva come se fosse stata masticata e poi sputata.

Tutti gli avvertimenti che si era data erano stati inutili. Adesso che era uscita allo scoperto, ansiosa e impaurita, con la testa che le faceva male ogni minuto sempre di più, Hel non riusciva a non pensare a tutto quello che era accaduto nel bosco.

Il serpente che attaccava, il suo potere che le esplodeva nel petto espandendosi come una bolla di calore che avvolgeva la natura, richiamava la sua forza vitale e la costringeva a muoversi contro il mostro che li stava minacciando. Aveva percepito le radici e i rami degli alberi come se fossero le sue dita, le aveva guidate a stringersi attorno al serpente, lo aveva immobilizzato, poi il suo potere aveva fatto il resto. Lo aveva consumato, disintegrato, ma era successo anche altro che non riusciva a spiegarsi. Mentre il mostro moriva, lei aveva sentito una morsa stringersi attorno al petto, strappandole il fiato e riempiendole la mente con immagini oscure ce non riusciva a ricordare se si concentrava, ma da quel momento aveva iniziato a farle paura l’oscurità che vedeva quando chiudeva gli occhi.

 

L'ospedale Valion era attrezzato per trattare tutti i tipi di pazienti e qualsiasi condizione essi avessero. Il nome di questa struttura era sulla bocca di tutti. Praticamente si occupava delle questioni mediche delle Accademie e della maggior parte delle condizioni che riguardavano le razze magiche. Ed qui che era stata trasportata He. Più precisamente nella stanza di analisi.

L’odore di limone dei prodotti usati per la disinfezione delle superfici era penetrante, la nauseava e probabilmente avrebbe vomitato se avesse avuto qualcosa nello stomaco. Fortunatamente per la ditta delle pulizie, da quando aveva messo piede in ospedale era stata tenuta in uno stretto regime dietetico a base di flebo.

Si trovava in una stanza spoglia, dal pavimento ricoperto con una guaina plastificata di un orrendo azzurro, scrostata dove si incontrava col battiscopa, e dalle pareti di un accecante bianco, un pugno negli occhi quando le luci al neon si accendevano. Gli unici arredamenti erano un letto, che lei occupava e di cui sentiva che il materasso aveva preso la sua forma, cosa che lo rendeva scomodo, e per un armadietto dove erano stipati con ordine maniacale una quantità infinita di farmaci e altri preparati che, probabilmente, non erano per gli umani.

Ciò che rendeva la stanza e il letto speciali era il fatto che erano provvisti di sonde che analizzano il corpo e la magia di ospitavano. Aiutavano i medici a capire come stabilizzare la magia dello sfortunato, in questo caso sfortunata, che aveva risvegliato i propri poteri troppo presto.

Da quando Hel era stata portata nell’ospedale, passava la maggior parte del suo tempo dentro quella stanza, intontita, quasi assente. Nei momenti di lucidità si trovava a pensare se si sentisse in questo modo perché la sedassero o perché, alla fine, ci fosse qualcosa che non andava con i suoi poteri.

Avrebbe dovuto capirlo. Non era un buon segno che la magia si risvegliasse prima dei sedici anni, c’erano più probabilità di non riuscire a controllarla. Ma lei c’era riuscita, le veniva naturale manipolare l’energia che le pulsava dentro. Almeno, questo nella maggior parte delle volte.


Intanto nella stanza attigua, dove monitor dagli schermi luminescenti e su cui comparivano simboli che la maggior parte delle persone non sarebbe riuscita a comprendere, nemmeno dopo aver studiato nelle Accademie, lo staff medico, i pochi che avevano avuto l’ordine di occuparsi di Hel, erano nel caos.

A preoccuparli erano i dati che registravano. Era incomprensibili, persino per loro che si erano specializzati in quella branca della medicina che si occupava di gente come loro, in cui la magia era la normalità.

A incuriosirli e a destare le loro preoccupazioni era come la magia di Hel fosse fuori scala rispetto a qualsiasi altro potere incontrato in precedenza.

Ad osservare il tumulto di pensieri che si susseguivano di bocca in bocca, intenta a leggere ogni tanto rapporti su Hel che variavano da un’ora con l’altra, c'era una donna dall'aspetto severo, stretta in un tailleur bianco e con una collana di perle nere a fasciarle il lungo collo elegante. La direttrice Archer aveva alle spalle secoli di carriera, sotto le sue mani erano passati i migliori Cacciatori della storia, ma mai aveva visto una cosa del genere. Mai. Forse non era del tutto vero. C’era stata una studentessa che si era dimostrata portata per le arti magiche in un modo che l’aveva lasciata stupita, e turbata allo stesso tempo.

Le labbra della donna divennero due linee esangui, serrate in una perfetta linea orizzontale. La sua migliore allieva. Persa a causa di un umano qualsiasi. Probabilmente non avrebbe dovuto stupirsi che la figlia di quell’allieva arrivasse alla sua osservazione. Certo, non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe accaduto in un modo così inaspettato e improvviso.

Hel.

Una ciocca di capelli rossi le ricadde sul viso. Con un movimento elegante e fluido la rimise al suo posto dietro l’orecchio sinistro.

Sui monitor i valori presero a scintillare e a susseguirsi all’impazzata, come terrorizzati da qualcosa che non riuscivano a quantificare.

Hel. Così simile alla madre, ma così diversa.

-Cosa succede?- chiese quando le luci nella stanza presero a traballare, mentre i monitor, a turno, si accendevano e si spegnevano.

La sua voce suonò tranquilla, in contrasto con quella agitata del medico che le rispose.

-La stanza fatica a leggere la magia della bambina. È come se ci fosse qualcosa che la schermasse ai nostri sensori.-

Archer storse le labbra in un’espressione pensierosa, mentre il suo volto rimase impassibile. C’era un’altra spiegazione. La magia di Hel poteva essere così forte da non poter essere letta dai sensori.

Marialuce. Perché non le aveva mai scritto. Doveva per forza sapere cosa sarebbe diventata la figlia. In nove mesi possibile che non avesse usato la magia per leggere il futuro della creatura che le cresceva in grembo.

Era troppo tardi per chiederle spiegazioni.

Osservò per un’ultima volta i dati che i monitor le fornivano.

-Fatemi sapere se ci sono novità.- disse, poi uscì dalla stanza.

Appena la porta le si chiuse alle spalle, trovò la forza di sospirare.

Hel aveva del potenziale, questo senza ombra di dubbio. Ora doveva solo trovare il modo di averla con sé. Non le restava che parlare con il padre.

Il solo pensiero le trasformò il viso in una maschera di disgusto. Non era per niente entusiasta di dover incontrare l’uomo che le aveva sottratto Marialuce. Non solo perché era stata una delle migliori allieve che avesse mai avuto, ma perché le aveva sottratto chi aveva considerato come una figlia.

Il pensiero le andò a Hel. Povera bambina, pensò, non aveva avuto modo di conoscere la madre, e chissà quale dolore le avesse causato vivere con un uomo che di magia non sapeva niente e di cui non aveva mai voluto sapere niente.

La Diretrice Archer soppesò l’idea di parlare con Eracle. Niente da fare. Avrebbe preferito lottare all’ultimo sangue contro un licantropo al posto di dover scambiare due parole con quello che considerava essere un idiota.

Gli avrebbe parlato, ma a tempo debito, prima voleva testare personalmente la sua teoria.

Invece di recarsi in sala di attesa, svoltò l’angolo e si fermò davanti alla stanza dove si trovava Hel.

I secoli di magia l’avevano cambiata. L’avevano resa molto suscettibile a determinati tipi di potere e non poté ignorare che il solo trovarsi vicino alla bambina le regalava una serie di sensazioni che difficilmente potevano essere descritti a parole. Era un misto tra una scossa elettrica che le attraversava la colonna vertebrale e un’ondata di un umido calore che le accarezzava la pelle.

Scostò la benda dorata che le copriva l’occhio destro. L’iride, un anello di agata di fuoco, brillò come se al suo interno celasse una piccolissima stella. Quello era il ricordo dei suoi vecchi tempi di gloria, quando ancora era una Cacciatrice con dei compiti da svolgere e delle lotte da combattere. L’occhio artificiale le permetteva di vedere la magia all’interno delle cose e delle persone, di rompere illusioni e di vedere la reale essenza delle persone. La benda era intrisa di un particolare tipo di incantesimo, che lei stessa aveva messo a punto.

Come posò l’occhio sulla porta della stanza, così vide l’eco della magia che Hel possedeva. Era come osservare un fuoco che ardeva libero, senza dighe a controllarlo, bellissimo nella sua furia indomita, terribile nell’ombra che nascondeva.

Archer coprì l’occhio. Temeva persino a pensare a cosa volesse dire la bestia alata che quel fuoco aveva assunto come forma. Poteva significare qualsiasi cosa, nel bene e nel male.

Doveva parlare con Eracle.

Sospirò. Qualcosa le diceva che, in fin dei conti, non sarebbe stato così arduo convincerlo a consegnarle la bambina.

 

Il caldo era asfissiante, il sudore le scorreva bollente sulla pelle e il fiato, pesante, le usciva a fatica dai polmoni, strozzato dal calore che si alzava dal terreno.

Si guardò attorno scorgendo dettagli spaventosi del panorama che la circondava. Si trovava in un campo, ma non c’era erba sottile a frusciare, ma fiamme che ululavano e si gonfiavano a ogni soffio di vento che alzava banchi di cenere. Il cielo era pervaso da fulmini neri che serpeggiavano fra le pesanti nubi viola che coprivano il cielo grigio, assordanti tuoni facevano vibrare la terra e lei stessa.

Si guardò attorno. Confusa. Spaventata.

Violente folate di vento si alzarono all’improvviso, e non portavano solo cenere ma anche un sibilo, una voce che sussurrava parole incomprensibili.

Un altro tuono.

Hel riprese i sensi, si trovava nella solita stanza vuota che l’accoglieva quando il senso di pesantezza alla testa passava. Ma ora, ad aspettarla al risveglio, c’era molto altro. Il corpo le doleva, le bruciava in ogni sua fibra. La scosse un tremito, poi un altro ancora.

Respirare, doveva ricordarsi di respirare. Quanto era difficile. Soprattutto con le pareti della stanza che le si piegavano sopra, asfissiandola.

Provò ad urlare, ma la voce le morì in gola in un muto sibilo.

Lacrime calde le scivolarono sulle guance. Non capiva cosa le stesse succedendo e non desiderava altro che qualcuno si degnasse di darle una spiegazione.

Il dolore iniziò a svanire, lentamente, mentre la pesantezza alla testa tornava. Si aggrappò con tutta la forza che possedeva alla realtà, provò a usare il proprio potere, che non rispose, e alla fine si addormentò.

Archer camminò per i corridoi bianchi dell’ospedali con i nervi a fior di pelle, i muscoli tesi per la tensione. Quando arrivò nella sala d’attesa riconobbe subito l’uomo seduto su una delle poltroncine di plastica, con lo sguardo perso a osservare i segreti di un punto sul pavimento, come se fosse la cosa più importante al mondo.

Avrebbe voluto chiamarlo in tanti modi diversi, e non centravano nulla col suo nome.

-Eracle.- lo chiamò risvegliandolo dal mondo di pensieri in cui si era rinchiuso, l’uomo le rivolse uno sguardo perso che la donna ignorò -Non credo ti ricordi di me…-

-So benissimo chi sei.- le rispose l’uomo alzandosi.

Era invecchiato, ma, allo stesso tempo, non era cambiato per niente. Rimaneva lo stesso uomo tutto muscoli e niente cervello di cui la povera Marialuce si era innamorata-

-Perfetto, vuol dire che possiamo saltare i convenevoli.-

-Ce li ha, vero?-

-Se intendi che ha dei poteri, sì. Proprio come sua madre.-

Il volto dell’uomo divenne una maschera di cera. Qualsiasi emozione stesse provando in quel momento, la stava reprimendo, ma i suoi occhi erano il puro riflesso di ciò che il suo animo covava. C’era rabbia nel suo sguardo, risentimento e un accenno di odio.

Dopo tutto questo tempo? Si chiese Archer. Non era stato capace di comprendere come la magia gli avesse permesso di avere una figlia? Era riuscita a mettere le mani sulla cartella di Marialuce, sapeva cosa aveva fatto per salvare Hel.

-Arriviamo direttamente al sodo della questione.- disse la donna portandosi un po’ più vicina a Eracle -Dobbiamo parlare del suo futuro.-

-Non mi interessa niente.- la interruppe Eracle, la voce rotta da un profondo tormento e da un astio bruciante.

-È tua figlia.-

-E tu la vuoi come Cacciatrice.- alzò le mani -Fai come vuoi. Non è mia figlia da quando l’ha uccisa.-

Archer si lasciò scivolare sopra le parole di Eracle. Era inutile cercare di fargli capire qualcosa che voleva ignorare. L’amore poteva fare davvero male, trasformare tutti in dei gusci pieni solo di rancore.

Lo lasciò andare e si limitò a seguirlo con lo sguardo, solo per vedere l’altra figlia che Marialuce aveva avuto da lui. L’occhio della donna e quelli della ragazza si incrociarono per una frazione di secondo e Archer poté vedere la gelosia e la rabbia bollire nell’animo di Camilla.

Archer rimase da sola nella salta d’attesa. La mente che vagliavano le possibilità che Hel aveva davanti. Doveva solo capire come dirle che non aveva più nessuno.

Le si strinse il cuore. Alla fine, madre e figlia sembravano dover percorrere lo stesso percorso di solitudine.

 

Quando Hel si svegliò, fece fatica ad aprire gli occhi. Era come se non volessero vedere ancora le pareti della stanza in cui si risvegliava ogni volta. Tratteneva il fiato. Per non provare la nausea data dal penetrante odore di disinfettante.

Il solo pensarci la disgustava.

Le faceva male dentro.

E dava libertà a un pensiero che non avrebbe mai pensato che la propria testa potesse produrre. Voleva suo padre. Voleva sua sorella. Li avrebbe pregati di perdonarla e di portarla via con loro, da quel luogo dove a stento riusciva a rimanere sveglia, dove tutta la magia che conteneva restava immobile, bloccata da una barriera che non riusciva a infrangere.

Un brivido le attanagliò le membra. Stirò i piedi, accarezzò con la punta delle dita il lenzuolo sotto di lei.

Era strano. Tutto la raggiungeva con una lucidità che non era stata sua in quei giorni. O in quei mesi. Chi avrebbe saputo dirlo.

Una mano calda si posò sulla sua ed Hel si irrigidì, il cuore le prese a battere veloce come ali di falena, ma per niente silenzioso. Lo sentiva pulsare al di là del torace, dentro di lei, e lo sentiva cavalcare come a volerle uscire dal petto e avvinghiarsi a chi le stava dando quel conforto.

E subito pensò a suo padre e a sua sorella. Forse erano veramente lì con lei, pensò. Forse l’avevano perdonata per non averli messi al corrente della magia che aveva ereditato dalla madre. Forse la paura di perderla aveva scattato in loro un sentimento d’affetto.

Ci sperava.

Ci credeva anche poco. E faceva male.

Aprì gli occhi e fissò prima il soffitto candido, solido, con una linea di luci opache, che non le infastidivano gli occhi.

Respirò. Prima timidamente, poi con più sicurezza. Niente odore di disinfettante. Nessun odore in particolare.

Alla fine, non guidata dal coraggio ma dalla realtà che covava in petto, si voltò e puntò gli occhi su chi le stava tenendo con tanta dolcezza la mano.

Una donna dai capelli rossi e mossi, dagli occhi neri, almeno, uno era nero perché l’altro era coperto da una benda dorata. Era tipo il capitano di una nave, un pirata elegante che vestiva di bianco con una collana nera attorno al collo, e che indossava uno sguardo dolce e un profumo delicato.

-Dov’è mio padre?- chiese Hel, d’istinto.

L’espressione della donna cambiò impercettibilmente, ma non sfuggì a Hel, che comprese la verità.

-Per il momento ci ha permesso di prenderci cura di te.- mentì la donna.

Hel tornò a fissare il soffitto, chiuse gli occhi per trattenere le lacrime.

-Hel.- le chiamò con dolcezza la donna, la bambina però non le rispose -Mi chiamo Archer Elamai II. Sono la direttrice dell’Accademia della Falce di Luna Calante.-

Quei nomi mossero qualcosa nella mente di Hel, però la confusione e il dolore mascherarono tutti ciò che aveva appreso nella sua ricerca all’inseguimento del suo sogno.

Accademia. Maghi. Potere. Erano tutte parole che avevano perso significato.

-Mi dispiace molto per come ci siamo comportati.- continuò Archer dopo aver fatto una breve pausa -Non era nostra intenzione spaventarti.-

-Ci siete riusciti.- disse flebile la bambina.

-La verità è che non ci aspettavamo che in qualcuno la magia maturasse prima dei sedici anni, soprattutto non una magia così forte.-

Archer vide gli occhi di Hel aprirsi lentamente, li vide combattere per non voltarsi verso di lei.

-Sei più forte di tua madre, e questo l’avrebbe resa orgogliosa.-

I brividi che scorrevano nel corpo della bambina divennero più famelici, più intrusivi sia nelle membra che nella coscienza.

Sua madre. Ciò che sapeva di lei era che aveva posseduto la magia e che era morta dandola alla luce.

Quella donna sapeva qualcosa su sua madre? Cosa?

Archer, nel momento stesso in cui Hel si voltò a scrutarla diffidente, con le lacrime agli occhi, seppe di averla in pugno. Aveva toccato un tasto che era direttamente collegato alla sua anima.

Sorrise. Agirò una mano e nell’aria, come fatta da una coltre di brillantini colorati, comparve il ricordo, il suo più dolce ricordo. Il volto della madre di Hel prese forma, etereo, perfetto come era stato un tempo.

Prese a raccontare di lei, con il cuore in mano, spinta a riversare fuori dal proprio corpo l’amore e il dolore sotto lo sguardo stregato di Hel, promettendosi che non avrebbe commesso gli errori del passato.

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Capitolo 9
*** 8 ***


8:
 
Hel era davanti a una montagna. A destra e a sinistra si estendeva una foresta dalla livrea variopinta, come se migliaia di farfalle si fossero posate su rami nudi e mostrassero con orgoglio i colori delle loro ali. Acquamarina, ardesia, argento, azalea, azzurro fiordaliso, beige olivastro, bianco di titanio, blu dodger, blu polvere, cardo, celeste, fiore di granturco, cioccolati, giallo miele, glicine, rosso cardinale, vere marino, vinaccia… tutti colori che non avrebbe mai detto di poter trovare su degli alberi. Erano molto belli e davano un senso di tranquillità che stonava con le sensazioni che provava in quel momento.
Archer le aveva raccontato molto di sua madre e del destino che l’avrebbe avvolta come un mantello. O, sarebbe stato meglio dire come un lazo, stretto attorno alla sua vita e la tirava verso il portone che aveva davanti agli occhi, incastonato nella montagna.
Quella mattina si era alzata presto e aveva abbandonato l’hotel in cui aveva soggiornato per una settimana, senza che le venisse detto altro. quei sette lunghi giorni le erano serviti per capire meglio la situazione in cui si trovava.
Aveva usato il suo potere.
Era stata portata in un ospedale.
Aveva conosciuto un’amica di sua madre.
Ora stava per entrare nel mondo della magia.
Troppi pensieri da digerire e che le avevano tolto il sonno, per questo non le fu difficile alzarsi prima di tutti e prepararsi per quello che sarebbe stato l’inizio del suo racconto.
Le erano capitate cose orrende, suo padre l’aveva abbandonata, liberandosi finalmente di lei, sua sorella molto probabilmente la odiava e non le avrebbe rivolto più la parola, sarebbero divenute due estranee.
Doveva prendere il lato positivo della situazione e coltivarlo. Finalmente il suo desiderio si stava avverando, non proprio con le metodiche che aveva sperato, ma non importava. Stava per imparare a controllare la magia che aveva dentro, l’avrebbe fatta propria e avrebbe fatto cose grandiose.
Avrebbe reso omaggio alla memoria di sua madre. E, chi poteva mai saperlo, avrebbe saputo altro su di lei? Sperava di sì. In fondo stava per mettere piede nello stesso istituto in cui aveva studiato lei.
Il cuore le batteva all’impazzata.
Intanto gli uomini che l’avevano scortata nel pick-up nero dai vetri oscurati avevano recuperato le sue cose, lasciandole il tempo di osservare meravigliata il grande portone in oro e argento che si stagliava, con i suoi quattro metri di altezza, con lupi e fenici che si rincorrevano tra le varie cornici. Poteva sembrare che stessero vivendo pacifici, rincorrendosi contro sfondi privi di ogni particolare, oppure che si stessero dando la caccia a vicenda.
Il cuore le batteva forte e rapido, l’emozione le impediva di concentrare lo sguardo in un punto solo e le informazioni che i sensi raccoglievano la tempestavano.
-State per entrare nell’Accademia fondata dagli antenati della Signorina Archer. Deve sentirsi eccitata.- disse Logan, avvicinandosi a lei -Da alcuni, da molti a dire il vero, è considerata la migliore di tutte. Rappresenta la possibilità di realizzare molti sogni. Per altri, invece, è già un sogno potersi ritrovare così vicini al suo portone. Solo i migliori vengono scelti per poter entrare a far parte della Fenice Cremisi. Qui trovano il modo di sviluppare il loro massimo potenziale e vengono istruisti sulla storia della magia. Scoprono anche se hanno particolari talenti, o no.-
Le parole di Logan gravarono sulle spalle di Hel. Una parte di lei sentiva di doversi ritenere fortunata di trovarsi lì, ma era troppo eccitata per perdersi in inutili pensieri.
Logan era l’uomo a capo della sua scorta. Era un uomo sulla cinquantina, dalle spalle larghe e dai pettorali e dai bicipiti gonfi. Anche la pancia era parecchio gonfia. Aveva due occhi grigi e penetranti che nascondeva dietro due lenti scure, i capelli brizzolati erano raccolti disordinatamente sul suo viso spigoloso e portatore di una barba che cresceva a sprazzi.
Aveva l’aspetto burbero di un alcolista, e ne aveva anche l’odore. Il pungente aroma di whisky gli permeava lo smoking e lo seguiva come la scia di una lumaca.
-Archer si trova lì dentro?- domandò lei.
-La Signorina Archer in questo momento si trova in America per un convegno di maghi molto importante. È stata chiamata con urgenza per visionare un antico reperto risalente all’epoca di Socrate, non tornerà prima di due settimane.-
Qualcosa dentro Hel si spezzò, aveva sperato di incontrare Archer al suo arrivo all’Accademia. Sognava di poter parlare ancora con lei di sua madre, assorbire tutti i ricordi che la donna conservava di lei, per conoscerla. Allo stesso tempo, nemmeno per un secondo aveva immaginato di non essere addestrata da Archer in persona. Le avrebbe dovuto insegnare a controllare il suo potere, a plasmarlo secondo la sua volontà per compiere imprese incredibili.
-Incontrerai il tuo mentore a breve, appena decideranno di aprire questo dannato cancello.-
Logan parlava con tono basso e stizzito, come se avesse tante altre cose da fare, molto più importanti che stare con una bambina davanti a una montagna.
Hel si guardò attorno, tutti gli altri uomini che l’avevano accompagnata nel viaggio erano lì, anche loro attendevano che il cancello si aprisse.
Con sconforto soppesò i bagagli che la accompagnavano. Due valigie, più lo zaino che aveva sulle spalle. Triste pensare che la sua vita potesse essere rinchiusa in così pochi contenitori, anche di piccole dimensioni. Ma cosa poteva aspettarsi? Suo padre non le aveva spedito niente durante il suo periodo in ospedale, e tutto ciò che possedeva ora le era stato comprato da Archer.
Rabbrividì al pensiero di aver lasciato tutto ciò a cui teneva nella casa del padre, e ancora più terribile fu la consapevolezza che non sarebbe riuscita a recuperare niente di ciò che le aveva reso più sopportabili le giornate trascorse nella sua famiglia. Tutti i suoi libri, i suoi diari, i suoi disegni. Le sarebbe mancato persino il suo letto, lo sentiva.
Con un cigolio assordante e con un ronzio che le penetrava nella carne facendole tramare le ossa, il portone si aprì verso l’estero, allargando le sue braccia per abbracciarla.
Hel sentì una stretta allo stomaco e un filo collegato al suo cuore che la strattonava nella bocca scura della montagna.
-Finalmente.- disse Logan con poco entusiasmo dandole una spintarella per farla camminare.
Pochi secondi dopo, Hel dovette ridefinire il significato di ‘straordinario’.
L’ingresso era immenso, molto più grande di qualsiasi ambiente interno i suoi occhi si fossero posati. Le pareti erano ricoperte da scaglie dorate e di smeraldo, mentre il pavimento era un fiume di mattonelle fatto di pietre preziose che si illuminavano quando venivano calpestate.
Ai lati del portone, a dare loro il benvenuto nella strabiliante struttura, c’erano due enormi statue rappresentanti due shisa, con le forti forme leonine, le code e le chiome voluminose e le fauci dentate che le sorridevano.
Il portone si chiuse alle sue spalle e il silenzio calò nell’ambiente come una pesate coperta di lana. Sarebbe stata morbida e rincuorante se Hel non avesse avuto la sensazione che la stesse soffocando.
Era l’unica nota dolceamara di quella giornata che le stava rovinando l’emozione del momento.
Per la prima volta prese realmente in considerazione ciò che le stava realmente accadendo. Si trovava in una scuola di magia, la stressa che aveva frequentato sua madre, e Archer sperava che anche lei avesse le stesse qualità cha la sua precedente allieva aveva posseduto.
Hel sudava per l’ansia. E se non fosse stata abbastanza brava o dotata? Era la prima volta che ci pensava, e la terrorizzava. Si vedeva già a fallire miseramente in tutti i campi della magia.
Ogni suo pensiero fu interrotto dalla figura di un uomo che si parò davanti a loro in tutta la sua altezza. La fissava come se volesse distruggerla.
-Logan, puoi ritenere il tuo compito assolto. Di lei me ne occuperò io.-
E così Logan ed Hel si separarono, l’uomo si chiese se l’avrebbe mai rivista, probabilmente solo per caso.
-Io sarò il tuo insegnante, puoi chiamarmi Maestro Fearlow, o solo Maetro.- fece una pausa –E quei due che vedi in fondo al corridoio sono i tuoi compagni, avrai tutto il tempo di fare la loro conoscenza. Adesso vai in camera e riposati. Da domani si comincia.-

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Capitolo 10
*** 9 ***


Marcus Fearlow si mosse nell’ufficio di Archer come un’ombra trasportante tempesta, a ogni suo movimento l’aria si caricava di elettricità e le correnti d’aria che smuoveva erano gelide, tanto da intirizzire la donna che lo osservava in silenzio da dietro la scrivania, con le labbra coperte dalle mani incrociate e con l’occhio che fissava la scura figura in cerca di qualche segnale che glielo facesse vedere come un nemico.
Non perché lo odiasse, semplicemente aveva sempre covato segretamente il desiderio di confrontarsi contro di lui, per vedere chi fosse più forte.
Marcus Fearlow era un vampiro di 432 anni proveniente da una delle famiglie più nobili che avevano frequentato l’accademia che si era trovata a dirigere. Di lui si diceva fosse un lottatore formidabile, con abilità che andavano al delle comuni capacità dei vampiri. In qualsiasi torneo la sua famiglia organizzasse lui risultava il vincitore.
Un uomo interessante e invidiabile, nonostante la sua veneranda età, che dovrebbe renderlo simile a una mummia rinsecchita che appena si muoveva perdeva polvere dalla pelle, assomigliava a un ragazzo di appena diciotto anni, volendo essere eccessivi. Altrimenti sarebbe potuto passare benissimo per uno di quei mocciosi che si impegnavano ad avere nemmeno un’unghia del suo talento.
Archer lo fissava divertita, e la cosa infastidiva l’uomo che si domandava come mai avesse accettato l’invito della donna.
-Allora, che ne pensi?-
Che doveva pensare della fregatura che gli aveva proposto. -Che mi sento offeso?- le disse.
-Offeso?-
-Sì.-
Archer rise dietro le mani. Qualcosa la rendeva tesa, anche se non aveva ben inquadrato cosa. Probabilmente l’aspetto minaccioso che aveva il vampiro. Vestito con un saio nero, con il suo incarnato ebano e gli occhi di un pallido giallo paglierino, aveva tutto l’aspetto di un demone vendicativo che l’avrebbe attaccata appena avesse mostrato di possedere qualche debolezza.
-E posso sapere cosa to offende?-
-Che tu mi voglia nel tuo libro paga.-
-Ti disturba così tanto che la tua vecchia allieva ti voglia come insegnante.-
-Un po’.-
-In vero, dovresti esserne fiero. Vuol dire che ti trovo più capace di tutti quelli che ho attualmente alle mie dipendenze.-
Archer e Marcus avevano dei trascorsi. Erano stati allieva e maestro per tanti anni, poi colleghi e, per un periodo abbastanza breve, anche amanti. Le cose potevano farsi complicate quando si frequentava un vampiro, e nonostante lei potesse vivere qualche centinaio di anni in più rispetto ai comuni mortali, l’immortalità non era ancora tra le sue doti. In più c’era la differenza della dieta e il fatto che le venisse da vomitare ogni volta che aveva il più piccolo pensiero su un vampiro che tracannava sangue umano.
-Questo sì, ma fa comunque un certo effetto sapere di essere così vecchio.-
-Senti chi parla. Non è te che il tempo intacca.-
-Eppure, mi sembra che tu sia invecchiata benissimo.-
-Il solito adulatore.-
La donna si costrinse a rilassarsi, spostando il peso del corpo sullo schienale, allargando le spalle rimaste troppo tempo chiuse sul petto e abbassando le braccia.
Marcus. Di lui sapeva che non lo avrebbero incantato i soldi, d’altronde la sua famiglia possedeva tesori che non potevano essere quantificati in una sola vita. Erano le sfide quelle che lo attiravano di più, e gliene stava per porgere una con tutti i fiocchi e salamelecchi che gli servivano per accettare l’invito.
-Ricordi Marialuce Danai?-
-Certo, mi è dispiaciuto molto venire a conoscenza della sua morte e, a tal proposito, ti devo le mie condoglianze. So quanto fossi affezionata a lei.-
Archer annuì. -Purtroppo, sono cose che capitano. Non abbiamo controllo sulla morte. Ci viene a prendere quanto più le fa comodo, anche quando è troppo presto.-
-Già.- concordò l’uomo.
-Se ti dicessi che la tua allieva sarà sua figlia?-
-Non sapevo avesse una figlia.-
-È cresciuta con il padre umano. Non credevo avrebbe sviluppato poteri degni di nota, ma il fato non è stato gentile con lei. Ha lo stesso potere della madre, se non più forte.-
-Questo potrebbe essere un problema per te.-
-Per questo ti ho fatto chiamare.-
-Dopo tutto questo tempo hai avuto il coraggio di chiamarmi.- la stuzzicò Marcus.
-Sai perché non l’ho fatto.-
-Hai avuto paura della nostra storia.-
-Siamo troppo diversi.- gli rispose secca, poi alzò le mani togliendogli la parola ancor prima che potesse pronunciare altro -E non è questo il motivo per cui ti ho chiamato. Mi serve sapere se sarai disposto a prenderti cura di lei.-
-È così potente?-
Lei annuì. -Ha bisogno di essere educata. Non ha il minimo controllo sulle sue abilità.-
-Ne vale la pena? Ho visto molti promettenti astri fare una brutta fine.-
-Ha il carattere della madre. È testarda e volenterosa, sa quello che vuole diventare. E imparando a controllare il potere non correrà il rischio di fare del male a qualcuno per sbaglio.-
Marcus soppesò la proposta. Gli aveva accento qualcosa nella missiva di invito, ma non avrebbe mai pensato che gli volesse realmente affidare degli allievi, sapeva cosa era accaduto agli ultimi e da quell’ultimo giorno si era ripromesso di non mettere più piede in nessuna delle Accademie. E di proposte ne aveva avute.
E perché proprio questa gli solleticava la gola.
-Cosa ci guadagno io?-
-Qualsiasi cosa tu voglia. Hai la possibilità di crescere la prossima Nova.-
-Addirittura? Nova? Una ragazzina si meriterebbe già il titolo più alto delle maghe?-
-Capirai quando la vedrai.-
-Presupponi già che accetterò il lavoro.-
-Lo hai già fatto.- disse Archer sorridendo -Per quanto tempo vuoi fingere?-
-Il tempo che sarà necessario a farti supplicare.-

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Capitolo 11
*** 10 ***


10.
 
Hel fu svegliata da un rumore acuto, tipo un urlo che le rimbombava nelle orecchie e le accendeva diverse luci dolorose nel cervello. Sobbalzò nel letto con così tanta irruenza che scivolò dalle coperte e il suo sedere ebbe un incontro ravvicinato con il pavimento di marmo nero. Il rumore risuonava ancora nella stanza, correndo sulle pareti e rimbalzando sugli oggetti.
La porta della stanza si aprì lentamente, lamentandosi sui cardini. Le urla si affievolirono, non aveva più la sensazione che le sanguinasse il cervello, mentre l’ansia prendeva il sopravvento facendole galoppare il cuore, il potere distante lo spessore di un capello dalla sua coscienza, pronto a essere usato. Prima si affacciò Connor, poi Ester. Indossavano entrambi la divisa nera, sembravano due pinguini, con il completo nero e il dolcevita bianco, che li faceva ancora più magri e longilinei di quanto fossero. Dei pinguini colpiti da una cucitrice, le cuciture rosse brillavano come sangue fresco. Una volta che i loro occhi si abituarono all’oscurità nella camera la guardarono in silenzio per degli interminabili secondi imbarazzanti. I loro talismani brillavano, uno appeso alla collana di Ester, l’altro incastonato nel braccialetto che Connor portava al polso destro. Ester si era raccolta i capelli in uno stretto pon pon in cima alla testa, talmente tirati che sembravano sul punto di staccarsi dal cuoio capelluto.
Hel si lamentò accovacciandosi sul pavimento, si allungò in cerca del materasso su cui fare leva per sollevarsi.
Ester sogghignava, Hel le vedeva il sorriso immacolato sbrilluccicare nel buio.
-È così per tutti, la prima volta. Alla fine ti ci abituerai. Hanno un modo un po’ brusco di svegliare gli alunni.- le spiegò Connor -Vestiti, andiamo a fare colazione.-
Hel non aveva mai avuto bisogno dell’allarme di qualche sveglia per svegliarsi. Era sempre stata in grado di alzarsi all’ora giusta tutte le mattine, sempre in anticipo rispetto a sua sorella e a suo padre, pronta per la scuola in cui concentrare la mente e prendere boccate d’aria fresca lontano dalle mura della sua casa. Mandò giù l’amaro in bocca: si chiese che ore fossero.
-Che ore sono?-
-Quasi le cinque e mezzo.- disse Connor.
Le cinque e mezzo. Quasi.
La notte prima aveva faticato a prendere sonno e ora si sentiva distrutta. Ma chi si svegliava alle cinque e mezzo. Si stropicciò gli occhi e si mise a sedere sul letto.
Ester non la smetteva di sorridere, la cosa era inquietante e snervante.
-La divisa la trovi nell’armadio.- le disse la ragazza.
-Andiamo.- disse Connor tirandola per la manica -Lasciamo che si vesta.-
La sua divisa era pulita e profumata di lavanda e vaniglia. La prese nel buio della stanza, aveva già appurato l’assenza di interruttori, avrebbe dovuto imparare al più presto un incantesimo per manipolare la luce.
Dopo aver visitato il bagno, fortunatamente illuminato, si vestì con lentezza, non lo aveva mai fatto, ma voleva assaporare quel momento con ogni centimetro del corpo. Il tessuto era liscio e morbido, con un effetto vellutato mentre scivolava sulla pelle. Le scarpe squadrate, contenute in una sacchetta di tela, le trovò stranamente comode e il tacchetto le dava quei centimetri di altezza, anche se pochi, che la facevano sembrare più grande. Almeno era questo che percepiva al buio mentre si osservava riflessa nello specchio nell’armadio. Una volta pronta si recò nella sala comune, dove trovò Ester e Connor in sommesso silenzio sormontati da Maestro Fearlow che li guardava truce con le braccia incrociate. Per uno che indossava solo una vestaglia slacciata e un paio di boxer larghi a righe incuteva parecchio timore.
-Siete in ritardo.- ringhiò -Tutti e tre.- e puntò gli occhi sul Hel -Ci si aspetta da voi studenti che siate pronti nella sala comune per la colazione quando suonano le campane del mattino.-
-In realtà…- cominciò Ester.
Maestro Fearlow le puntò gli occhi addosso, incenerendola sul posto, sibilando come un rettile. -Niente scuse e niente accuse. Siete tutti e tre miei apprendisti e mi aspetto da voi collaborazione e sostegno, non pugnalate alle spalle. Per quanto mi riguarda, se il successo e il fallimento di uno di voi equivale al successo e al fallimento di tutti voi. Sono stato chiaro?-
Ester aveva perso tutta la sua altezza e la luminosità del suo sguardo, ora era una bambino spaventata e ingobbita che cercava un luogo in cui nascondersi dal mostro nell’armadio.
Maestro Fearlow annuì soddisfatto e come se nulla fosse successo la rabbia di poco prima scomparve dal suo volto tornando a essere il serio vampiro pluricentenario che l’aveva accolta nella scuola.
Tutti e quattro entrarono nella sala comune, il Maestro a fare loro da guida. Era un po’ fuori posto nel suo vestiario molto comodo rispetto alle divise che tutti i presenti indossavano, ma, chissà per quale motivo, i Maestri lì riuniti a fare colazione, lo guardavano tutti con aria piena di rispetto, alcuni persino terrorizzata.
Connor le si avvicinò all’improvviso, facendola sussultare per la sorpresa e regalandole un’occhiata fulminante di Ester. Le urtò la spalla con la propria attirando la sua attenzione.
-Qualcuno di è dimenticato il suo talismano questa mattino.- le disse il ragazza in un sussurro.
Hel sussultò e si portò la mano al collo e con gli occhi della mente vide il bracciale ancora posato sul suo comodino, comodamente al riposo. Le sorrise con innocenza e sibilò una manciata di parole che risuonarono come il borbottio di una caffettiera e nella sua mano comparve il braccialetto di Hel. Le fece l’occhiolino.
-Un piccolo trucchetto che ho imparato. Serve a trovare le cose perdute. Serve solo un po’ di concentrazione ed esercizio, ma è semplice.-
Hel ringraziò con un cenno del capo e prese il braccialetto e se lo sistemò attorno al polso sinistro.
-Meno male che Maestro Fearlow non se n’è accorto.- le sussurrò -Devi tenerlo sempre con te.-
Presto l’attenzione dei presenti nella sala comune verso di loro andò scemando e il frastuono dei ragazzi e delle posate.
I tavoli erano imbanditi di leccornie: varie brocche di acqua calda, latte, caffè, succhi di frutta, torte paradiso e muffin al cioccolato e alla vaniglia, c’erano anche piadine farcite con salumi, per chi preferiva una colazione salata. E c’era ancora tanto altro. Non aveva mai visto tutto quel cibo messo insieme, immaginò fossero così le tavole dei sovrani medievali. Per mangiare e bere ogni tavolo era fornito di eleganti posate di argento e tazze e piatti di porcellana finemente decorati con fiorellini di ogni tipo.
Presero posto all’ultimo tavolo nella sala grande, lontano da tutti e poco illuminato dalle torci che brillavano per il fuoco bianco e magico che non emanava calore, il caldo proveniva dai termosifoni appesi alle pareti.
Ester versò dell’acqua calda in una tazza in cui immerse un filtro con delle foglie e dei petali secchi, oltre a qualche bacca che aveva raccolto da un vasetto rosa antico. Appena il filtro fu completamente immerso si sprigionò il profumo dell’uva nera e dell’aromatica fragola. Su un piattino posò tre fette biscottate e una decina di mandole. Connor si servì con una tazza di latte macchiato con tre gocce di caffè in cui immerse tre cucchiaini abbondanti di zucchero, a tutto questo affiancò una macedonia con cachi, uva rosa, mirtilli e lamponi.
Hel non sapeva cosa prendere. In genere le sue colazioni consistevano in qualcosa trafugato rapidamente dal frigo e dalla dispensa, e di certo non aveva mai fatto un pasto così completo. A disagio si preparò una tisana riempiendo un filtro con il contenuto di un vasetto diverso da quello usato da Ester. Togliendo il tappo al contenitore sentì il profumo fresco del mango e di qualcosa di dolce e pungente, come melograno. Prese anche lei una manciata di mandorle, più un muffin alla vaniglia.
Maestro Fearlow non era molto attratto dalle leccornie che le cucine dell’Accademia avevano prodotto, ogni tanto si attaccava alla fiaschetta che tirava fuori dalla grande tasca, sul fianco sinistro, della vestaglia.
-Oggi non hanno preparato la crostata di mele.- osservò Connor dopo aver mandato giù un abbondante sorso di latte.
-Visto cosa è accaduto l’ultima volta mi stupirei se la servissero ancora.- commentò Ester tra un sorso e l’altro della sua tisana, teneva con grazia la tazza con una mano e il piattino con l’altra, si era sistemata uno dei fazzoletti in stoffa sulle gambe.
Connor si strinse nelle spalle. -Spero di no.-
Hel li scrutava senza dire niente mentre ruminava le sue mandorle, Connor intercettò il suo sguardo e sorrise. La ragazza si accorse che aveva un bel sorriso, di quel genere che hanno gli attori negli spot televisivi che conquistano subito e convincono senza parole.
-Perdonaci, tu non puoi saperlo.- disse lui con gli occhi che gli brillavano.
-Per favore, non tediarla con questa storia. Altrimenti non farà in tempo a finire la colazione.- Ester le rivolse un sorriso innocente prima di tornare a degustare la sua tisana, immergendo di tanto in tanto pezzetti di fette biscottate, senza spargere briciole.
-Ester!- la riprese Connor, sempre col sorriso sulle labbra.
Si capiva che erano molto amici, si domandò se si conoscevano da molto, o se erano diventati amici nell’Accademia.
-Allora, Hel, devi sapere che la settimana scorsa Mical Wade Eringhton II.- e le indicò con la forchettina con cui aveva iniziato a mangiare la macedonia un ragazzino dai capelli biondi tagliati a scodella che gli cadevano dritti scoprendo le orecchie, sembrava un ragazzo gentile, ma gli occhi chiari le davano sempre questa impressione -Mical stava cercando di fare colpo su Elizabeth Collins.- e le indicò una ragazza con una bella carnagione scura e con i denti bianchissimi che sorrideva sempre alle parole di Mical, che diventava sempre rosso quando la ragazza gli prestava attenzione -In pratica, si era messo a giocare con la magia per tramutare la crema al limone con cui avevano riempito la torta in una al cioccolato.-
-Grave errore.- grugnì Maestro Fearlow, tradendo un sorriso.
-Esatto.- concordò Connor -Le magie sugli alimenti è la più difficile da fare. Ti spiego, se uno diventa abbastanza bravo può unire ingredienti e cucinare con la magia, ma bisogna essere realmente un mago straordinario per cambiare la natura di un alimento. Trasformare la crema al limone in crema al cioccolato è stato pericoloso. Infatti tutte le torte di mela che erano ai tavoli sono esplosi. Ester ne aveva preso un pezzo e si è ritrovata ricoperta di pasta frolle, crema e pezzetti di mela.-
Ester rabbrividì e le guance le si imporporarono. -Non me lo fare ricordare. È stata un’esperienza traumatizzante.-
-Da quel momento non hanno più servito la torta alle mele.- finì di raccontare Connor -E Mical ha smesso di fare esperimenti con la magia.-
-È al terzo anno, non avrebbe dovuto fare niente che fosse fuori dalla sua portata.- sibilò Ester prendendo le distanze dalla torta paradiso che era sul tavolo, come se temesse di trovarsi di nuovo contro il fuoco nemico.
-Ester, tu sei al primo anno, ma sai fare cose del terzo.- le rinfacciò Connor.
-Me lo posso permettere, io.- borbottò Ester.
Hel osservò la ragazza, aveva dimenticato che tra lei e tutti i presenti nella sala c’era un abisso a separarli. Hel aveva poco controllo sul potere che possedeva e non aveva la minima idea su come usare la magia.
Maestro Fearlow spostò il suo sguardo su Hel, gli occhi brillanti come quelli di un folletto.
La ragazza provò a ignorarli.
-Immagino che anche da te ci aspetteremo grandi cose.- disse il Maestro, Ester gli rivolse uno sguardo fugace prima di piantarlo su Hel -La vostra compagna ha sconfitto tutta da sola un Incubus.-
Connor sgranò gli occhi. -Veramente?-
 L’improvvisa attenzione di tutti al suo tavolo su di lei la face sentire fuori posto. -È stato un incidente. Non controllo bene i miei poteri, prima di allora avevo solo levitato o spostato gli oggetti. Quello… l’Incubus, non so come ho fatto. I miei amici erano in pericolo.-
-Fantastico!- esclamò Connor sognante -Persino i maghi migliori hanno difficoltà a uccidere un Incubus. Hai sentito, Ester?-
-Sì.- disse la ragazza secca -La paura ha innescato il suo potere, facendolo esplodere. Solo per questo c’è riuscita.-
-Ma è indubbio che questo dimostri una grande potenzialità.- tagliò corto il Maestro -Ora è da vedere se sarai in grado di imparare e migliorarti.-
Hel annuì.
-Se è così promettente, perché è con noi?- sibilò Ester.
Maestro Fearlow la stava fissando con una sottile rabbia nello sguardo. -Perché no?- disse l’uomo -Se fosse stato per me, avrei preso solo lei. Sfortuna ha voluto che la vostra insegnante sia andata in maternità e mi siete toccati anche voi. La Direttrice mi ha praticamente dato un ultimatum, o tutti e tre o niente.- sospirò -E pensare che all’inizio mi aveva supplicato.- sospirò di nuovo -Vede in voi qualcosa, e al momento non so veramente cosa.-
Tutti e tre tacquero, persino i loro respiri smisero di fare rumore. Connor giocava con la macedonia nel bicchiere. Tamara riprese a mangiare rivolgendo lo sguardo altrove.
Quando Maestro Fearlow riprese a parlare, il suo tono era distaccato -Dovrete imparare a lavorare come una squadra e a considerarvi come tale. Ma per questo dovete conoscervi, e avrete tempo. Nel peggiore dei casi sarete uniti dal percorso accademico, cinque anni di vittore e perdite, nel peggiore diventerete amici per tutta la vita.- chiuse la fiaschetta e la ripose nella tasca della vestaglia -Finite di mangiare, poi raggiungetemi nell’Aula 6. Io vado a vestirmi.-
Hel bevve la tisana in silenzio, che nel frattempo aveva perso parte del suo calore. Il suo addestramento stava per cominciare.

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