Spy Eleven -Alternative

di Melabanana_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** binary stars α ***
Capitolo 2: *** ribcage poetry ***
Capitolo 3: *** we dream of fire ***



Capitolo 1
*** binary stars α ***



 
~ le nostre mani erano legate assieme,
ma ora si stanno sciogliendo...
Come se tu, dall’inizio,
non riuscissi ad accettare di poter “essere amato”.
~
 
 
 
binary stars  α
~Fubuki Shirou & Fubuki Atsuya~
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Shirou appoggiò i palmi delle mani contro il vetro della finestra e ci si avvicinò fino a schiacciare le guance ed il naso per poter osservare meglio il cortile ricoperto di neve. Non era permesso aprire le finestre a quell’ora; il vento avrebbe trascinato nella stanza il nevischio restante nell’aria, che si sarebbe sciolto bagnando le vecchie assi di legno del pavimento già marcio. Se Shirou avesse aperto i battenti, la direttrice si sarebbe arrabbiata: era ancora stizzita con lui per aver rotto l’orribile vaso antico che per molto tempo era stato nell’ingresso dell’orfanatrofio.
In effetti, era stato Atsuya a gettarlo a terra in una fitta di rabbia, dopo aver litigato per l’ennesima volta con dei ragazzi più grandi. Di recente, Atsuya tornava in stanza sempre pieno di lividi e graffi, erano più che abbastanza, non gliene servivano altri; per questo Shirou si era preso la colpa al posto suo. La bacchetta di legno usata dalla direttrice era dura, ruvida. Le nocche di Shirou erano già spaccate per il freddo tagliente, dal momento che non avevano guanti, ma non un singolo gemito aveva lasciato le sue labbra. Era in grado di sopportare il dolore molto bene. Era stanco di reagire, o di provare a cercare una giustificazione che potesse farle cambiare idea (non funzionava mai). In realtà, lo sapeva bene, non c’era nessuna prova del fatto che fossero stati loro a rompere il vaso, nemmeno una singola impronta digitale, e chiunque avesse assistito avrebbe potuto dire soltanto questo: le finestre si erano aperte di scatto, un vento gelido e violento aveva invaso la stanza insieme ad un turbinio di neve e, come uno schiaffo, aveva buttato giù il vaso. Niente di più, niente di meno. Tuttavia, alla direttrice non importava come fossero andate realmente le cose. Lei aveva bisogno di colpevoli e, allo stesso tempo, di una scusa per punirli, per ridurli al silenzio, per esorcizzare qualsiasi tipo di “magia” li circondasse. Perché aveva paura di loro. Tutti avevano paura di loro. Shirou sapeva che era stato Atsuya a rompere il vaso, benché il fratello non lo avesse toccato: aveva semplicemente detto al vento di farlo. Anche a Shirou capitava spesso di sussurrare al vento invernale, che era uno dei loro pochi amici.
Magari avrebbe aperto la finestra, solo un pochino, per respirare a fondo.
Poi qualcosa andò in frantumi l’armonia del paesaggio bianco: un enorme SUV nero, troppo vistoso, irruppe nel viale coperto di neve. Shirou pensò fosse quasi una violenza. Il SUV si parcheggiò davanti all’orfanatrofio e ne uscì una donna con un cappotto dorato. Shirou non riuscì a vedere il suo volto, poiché stava usando un grande ombrello a fiori per schermarsi dal nevischio che ancora scendeva lieve. La donna si avviò verso l’interno dell’edificio a passo spedito e Shirou la seguì con lo sguardo finché poté.
Subito dopo, Atsuya entrò in camera come una furia, facendo sbattere la porta contro la parete. Il muro che circondava lo stipite ebbe un fremito impercettibile. Shirou alzò lo sguardo e vide che la crepa sull’arco della porta si era un po’ allungata; sperava che ciò non volesse dire che la stanza sarebbe crollata alla prossima botta, ma d’altra parte non sarebbero stati affari loro. Avrebbero presto lasciato la stanza, anzi, l’intero edificio. L’unico rimpianto che Shirou aveva era di non poter assistere al crollo, perché avrebbe provato un’immensa soddisfazione a vedere l’espressione della direttrice (oh, quanto la odiava).
-È arrivata- disse Atsuya. –Ce ne dobbiamo andare subito, dai, prendi la tua roba.
Shirou guardò il fratello con un sopracciglio alzato, poi si voltò a fissare l’armadio in cui c’erano appena una giacca di tessuto sottile,una sciarpa ruvida ed i suoi stivali da neve. Non aveva nient’altro che potesse chiamare suo. Ad un’occhiata più attenta, notò che Atsuya era già vestito in modo perfetto per uscire, anzi a ben vedere era probabilmente già stato fuori, dal momento che i suoi stivali erano bagnati e avevano lasciato una scia di impronte sul pavimento per cui sarebbero certo stati rimproverati.
-Dove andiamo…?- chiese Shirou, senza muoversi.
Atsuya non si girò a guardarlo, troppo impegnato a ficcare delle cose nel suo zainetto scucito, probabilmente cibarie sgraffignate dalla cucina. Rubare non era mai stato un problema; Shirou aveva imparato presto che, quando ti incolpano di qualsiasi crimine, anche quelli che non hai commesso, smetti di avere rispetto delle regole altrui. Cominci a seguire soltanto la tua etica ed il tuo istinto, e né l’una né l’altro impedivano loro di rubare all’orfanatrofio.
-Atsuya- Shirou chiamò il fratello con una nota d’impazienza. -Dove stiamo andando?
-Non ne ho idea, ma di certo non a casa di quella befana che è appena venuta- rispose Atsuya, in agitazione, ed una ciocca di capelli gli cadde sulla fronte mentre si chinava in avanti.
Shirou sospirò e scosse il capo. Come aveva immaginato, Atsuya non aveva nessun piano preciso in mente. Toccava a lui prendere una decisione ferma.
-No- disse e, con quell’unica parola, ottenne finalmente tutta l’attenzione del fratello.
Atsuya alzò la testa di scatto e lo fissò ad occhi sgranati, come se Shirou gli avesse dato un ceffone. Ma Shirou non si lasciò impietosire. Per avere la meglio su Atsuya doveva essere risoluto; era debole ai capricci del fratello e, se gli avesse concesso la minima apertura, Atsuya lo avrebbe persuaso.
Per un lungo minuto, rimasero a fissarsi in silenzio. Guardare Atsuya era come scrutare il proprio riflesso allo specchio, qualcosa che da bambino riusciva ad emozionarlo sempre. Allora, il pensiero di non poter mai essere solo, perché esisteva una persona esattamente identica a lui, era rincuorante. Adesso che erano più grandi, però, Shirou non riusciva a ignorare le differenze tra sé e il proprio gemello, partorito poco dopo di lui.
-Che vuoi dire?!- sbottò finalmente Atsuya.
-Tu vuoi scappare da qui e andare all’avventura con uno zaino contenente cibarie che non ci basteranno che per una settimana? Sei troppo impulsivo, Atsuya. Io non voglio.
Atsuya perse subito le staffe.
-Meglio che andare in un’altra casa, con un’altra persona di merda!- ribatté, aggressivo.
Shirou sussultò, poi si morse il labbro inferiore. Odiava quando Atsuya usava quel tono con lui, ma odiava ancora di più aver avuto paura di lui, anche solo per un secondo. Cercò immediatamente di nascondere il proprio disagio e assunse un tono il più neutrale possibile.
-Questo non lo sappiamo ancora…
-Oh, ma dai!- sbottò Atsuya. –Siamo stati già in tre famiglie diverse! Ricordami com’è andata a finire…? Siamo ancora in questo schifo di posto! Questa volta non potrà essere tanto diverso!
-Forse sì, ma… Dovremmo prima osservare la situazione…- mormorò Shirou.
–Atsuya, non sei mai… stanco di tutto questo? Di lottare contro ogni cosa, di essere sempre diffidente? Non potremmo semplicemente… lasciarci andare per una volta?
L’espressione di Atsuya cambiò immediatamente, si fece serissima.
-Che ti prende ora, vuoi essere adottato?- Sputò quella parola con un tale astio e disgusto che Shirou sussultò di nuovo, pur sapendo che quella negatività non era rivolta contro di lui.
Atsuya non se ne accorse e proseguì, impietoso.
-Nessuno ci vuole, nessuno ci amerà mai per quello che siamo! Sarà come tutte le altre volte… Quella donna farà finta di essere gentile, ma poi si libererà di noi non appena inizieranno a succedere cose… strane- esclamò. Poi, forse rendendosi conto di essere stato troppo brusco, accorciò la distanza tra loro e posò le mani sulle spalle di Shirou.
–Possiamo contare solo su di noi, Shirou- gli sussurrò, con un tono più dolce. -Noi siamo forti insieme! Dobbiamo restare uniti, qualsiasi cosa accada! Dobbiamo combattere!
Shirou lo guardò negli occhi con la stessa serietà.
Tre famiglie diverse avevano tentato di adottarli, poi si erano arrese e li avevano riportati indietro. Avevano iniziato ad avere paura di loro dopo alcuni incidenti “magici”. Nessuno sapeva che l’ultima volta era stato Shirou a spaventarli di proposito. L’aveva fatto per Atsuya, che non ci andava d’accordo e non voleva restare là un minuto di più. Tutto ciò che faceva era per Atsuya. Avrebbe potuto cedere e scappare con lui; almeno apparentemente, era la soluzione più semplice, visto che non voleva litigare con Atsuya. Shirou, però, era convinto che in seguito se ne sarebbe pentito.
Perciò prese le mani del fratello e le scostò, con delicatezza ma anche fermezza.
-Sono stanco di oppormi sempre alla corrente. Voglio provare ad avere fiducia. Voglio un’altra occasione- confessò con un filo di voce. –Io non scappo, Atsuya. E non ne voglio parlare più.
Atsuya si allontanò all’istante da lui. Non tirò fuori la roba che aveva ficcato nello zaino, né accennò a farlo. Shirou non ne rimase turbato: sapeva di averla avuta vinta, Atsuya non sarebbe mai andato da nessuna parte senza di lui.
Ma questo non significava che lo avrebbe perdonato tanto presto per questo tradimento.
-Vedrai- sbottò, velenoso. –E poi ti dirò che te lo avevo detto!
Shirou alzò gli occhi al cielo. –Sono certo che lo farai- replicò, ma a quanto pareva quelle erano le ultime parole che Atsuya gli avrebbe rivolto per il resto della giornata.

 
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Circa due ore dopo, erano seduti nella parte posteriore del SUV con le cinture allacciate. Di norma le pratiche dell’adozione erano più lente e faticose, ma stranamente questa volta erano andate lisce come l’olio. Probabilmente alla direttrice, che non vedeva l’ora di liberarsi di loro, non sembrava vero che ci fosse ancora qualcuno disposto ad prenderseli nonostante la brutta nomea che si erano fatti. Effettivamente, nemmeno Shirou l’avrebbe ritenuto possibile in circostanze normali.
La donna che era venuta a prenderli, però, aveva qualcosa che gli faceva pensare che non fosse del tutto normale. Forse era il suo portamento altero, la macchina enorme, il cappotto imbottito, tutti dettagli che lasciavano intendere un certo benessere economico; o forse erano gli occhi azzurro ghiaccio, semi-nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura dorata, inquietanti ed affascinanti allo stesso tempo. Non era una donna bellissima, ma il suo sguardo era così particolare che Shirou se ne sentì subito attratto con una morbida curiosità. Se Atsuya ne era rimasto ugualmente impressionato, di certo non lo dava a vedere: aveva evitato per tutto il tempo di guardarla in viso, ignorando anche le occhiate preoccupate di Shirou, probabilmente determinato a restare offeso con entrambi per il resto della sua vita (conoscendolo, non era improbabile). Shirou aveva provato a parlargli un paio di volte, mentre se ne stavano in disparte ad aspettare che la donna misteriosa firmasse tutti i moduli necessari, ma ci aveva rinunciato quasi subito. Era impossibile tentare di farlo ragionare in quel momento. Shirou decise di lasciarlo a sbollire nel proprio brodo, dirigendo invece la sua attenzione verso la loro nuova tutrice.
Gli piaceva come la donna avesse ignorato le moine e i tentativi della direttrice di ingraziarsela, per sbrigare invece in breve le dovute pratiche. Non sembrava essere una persona che amava perdere tempo in chiacchiere inutili, soprattutto se queste avevano il chiaro intento di estorcerle qualcosa. Shirou si chiese se non fosse un atteggiamento tipico delle persone ricche; non ne aveva conosciute molte nella sua vita.
Gli piaceva anche come la donna avesse guardato Atsuya e lui; gli piaceva come gli avesse sorriso e parlato con una voce pacata, paziente, un tono totalmente diverso da quello con cui aveva saluto (secca, quasi infastidita) la direttrice. I ragazzi avevano pochissime cose che potessero chiamare loro, per cui non ci fu nemmeno bisogno che il portiere li accompagnasse all’auto, lei non glielo permise.
La donna –Fuyumi, come Shirou aveva appreso sbirciando su uno dei fogli- aprì loro personalmente la portiera del SUV. Atsuya si arrampicò dentro per primo, appoggiò lo zainetto alle proprie gambe e, tenendolo strettissimo, si voltò da subito verso il finestrino, deciso a restare imbronciato per tutto il viaggio in auto. Shirou sospirò, entrò dopo di lui e allacciò la cintura per sé ed anche per lui, ignorando il suo comportamento immaturo e pedante.
Fuyumi richiuse la portiera dopo di lui solo quando finì di sistemarsi. Gli piaceva che lo avesse aspettato senza mettergli fretta. Poi Fuyumi si mise al posto di guida e partirono.
Shirou si voltò indietro verso l’orfanatrofio una volta soltanto. Il suo sguardo cercò subito la loro stanza: l’unica con la finestra spalancata. L’aveva lasciata così apposta. Inspirò a fondo per farsi coraggio, poi si schiarì la voce.
-Posso… aprire il finestrino? Vorrei far entrare un po’ d’aria- domandò, nel modo più casuale possibile. Atsuya non si mosse, ma Shirou non lo aveva chiesto a lui. Restò immobile coi pugni stretti sulle gambe finché Fuyumi non rispose.
-Certo che puoi. Non essere così formale con me- disse, con lo stesso tono pacato di prima. Shirou sentì parte della tensione scivolargli di dosso mentre mormorava un ringraziamento. Aprì il finestrino lentamente e, sotto voce, chiamò a sé il vento gelido invernale; gli sussurrò per poco tempo, brevissimi secondi, per non apparire sospetto. Sarebbero stati sufficienti. Tenne il finestrino aperto un altro po’, per niente turbato dal freddo pungente, e non si voltò più verso l’orfanatrofio, nemmeno per assistere a come il vento stesse portando tutta la neve nella loro stanza, lasciando senza dubbio un disastro. Un piccolo regalo d’addio non si nega a nessuno, pensò Shirou. Atsuya non era l’unico a perdonare con difficoltà, sebbene Shirou si considerasse molto più ragionevole. Avrebbe voluto che Atsuya godesse con lui di quella piccola rivincita e non poterlo fare a causa del loro litigio gli lasciò un po’ d’amaro in bocca, impedendogli di essere del tutto soddisfatto. Per non tradirsi, evitò persino di mutare espressione; nonostante questo, quando chiuse il finestrino e tornò a guardare avanti, gli parve di intravedere Fuyumi sorridere, riflessa nello specchietto frontale, come se avesse saputo esattamente cosa Shirou aveva appena fatto.
 
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La casa di Fuyumi era solo una delle varie abitazioni disseminate in quel paesaggio fatto di colline e piccole valli scavate tra le montagne. Una maggiore presenza umana era probabilmente presente nel paese più vicino, dove c’erano delle terme a scaldare gli abitanti. Shirou non aveva idea del perché qualcuno dovesse scegliere di vivere in un luogo tanto isolato, ma Fuyumi sembrava del tutto a suo agio lì.
I giorni sembrano scorrere più lenti, da quando si trovavano lì.
Era una situazione molto diversa da quelle che avevano vissuto fino a quel momento; per esempio, la donna non aveva accennato minimamente a discorsi sul visitare scuole, anzi non sembrava intenzionata a mandarceli. Non che a Shirou dispiacesse. Non erano mai riusciti ad ambientarsi in nessuna scuola in cui i precedenti genitori adottivi avevano tentato di infilarli a forza e, probabilmente, questo era stato uno dei motivi per cui li avevano poi riportati indietro, come se fossero stati elettrodomestici difettosi.
Fuyumi era una persona molto strana, o quantomeno diversa da chiunque avessero incontrato fino a quel momento. Per quanto Atsuya ignorasse le sue richieste, o sbagliasse di proposito la quantità del latte da versare nel bicchiere, facendolo rovesciare sul tavolo, o si rifiutasse di mangiare davanti a lei, Fuyumi non si arrabbiava mai. Restava sempre pacata, apparentemente serena e comprensiva. La maggior parte delle persone l’avrebbe definita gelida, ma a Shirou non importava purché continuasse a dare loro un tetto e dei pasti, senza far pesare loro il solo fatto di esistere, sottolineando i costi di mantenimento, come altri in passato avevano fatto. E, soprattutto, non aveva ancora dato segno di volersi liberare di loro.
Atsuya tentò di andarle contro in tutti i modi per una settimana o due, poi, non ottenendo da lei nessuna reazione significativa, si arrese. Il suo unico modo di opporsi a lei diventò evitarla, ostinandosi a non mangiare al suo stesso tavolo, o a chiudersi in camera per non vederla. Aveva imparato che Fuyumi lasciava sempre qualcosa anche per lui, nel frigo o sui banconi della cucina, per cui bastava che sgattaiolare in cucina quando lei non c’era. E, siccome era ancora arrabbiato con il fratello, così le giornate di Atsuya passavano in solitudine, una uguale all’altra.
Per Shirou, invece, la situazione era completamente diversa. Non nutriva antipatia per Fuyumi, anzi: lo incuriosiva. In particolare, il suo interesse era solleticato da una sorta di “rituale” che Fuyumi eseguiva ogni mattina. La donna si svegliava prestissimo, s’infilava una veste bianca da medico e poi il cappotto sopra, usciva. Andava a piedi nella serra che si vedeva dalla finestra della loro camera e non rientrava prima di un’ora; soltanto allora, preparava la colazione e li svegliava. Una mattina fortuita, Shirou si era svegliato abbastanza presto da assistere a questa routine quotidiana e da allora l’aveva osservata per molti giorni, deciso a cogliere il momento adatto per intrufolarsi nella serra. Aveva visto Fuyumi mettere la chiave in una sorta di cassetta delle poste, nascosta dietro un’asta di legno, proprio accanto alla porta di vetro opaco. Perciò, un giorno come gli altri, la seguì e si acquattò nelle vicinanze della serra. Aspettò che lei uscisse, chiudesse la porta a chiave e si recasse in casa per lasciare il suo nascondiglio, rubare la chiave ed ottenere finalmente l’accesso a quel luogo misterioso. Moriva di curiosità al pensiero di ciò che potesse trovarvi dentro.
Ad una prima occhiata, tuttavia, rimase quasi deluso: la serra conteneva soltanto due lunghi tavoli di metallo nero, separati da corridoio stretto. C’erano una miriade di vasi di piante, tanti quanti non ne aveva mai visti raccolti in un posto solo. Soltanto avanzando un po’ di più verso l’interno, notò che c’erano anche duefioriere contenenti altri vegetali,ancora solo germogli. Si accorse che i suoi passi rimbombavano nel silenzio del luogo. Riusciva a sentire un frusciare di acqua corrente: indagando un po’, scoprì che essa sgorgava da una modesta fontanella di pietra incastrata tra le due fioriere. Da lì prendevano acqua alcuni tubi verdognoli che attraversavano la serra in ogni suo angolo, un ingegnoso sistema di irrigazione costruito su misura, in modo apparentemente amatoriale.
Su alcune piante vi erano dei cartellini identificativi, ma i nomi non erano scritti in caratteri e Shirou non riusciva a comprendere lo strano linguaggio usato: riconoscere le lettere non era difficile, ma gli pareva che non formassero parole di senso compiuto, al punto che si chiese se non fossero stati inventati da Fuyumi stessa.
Stava cercando di decifrare il nome di una larga pianta dalle foglie lunghe e lisce, quando la porta della serra si aprì di scatto, facendolo sussultare. Si voltò bruscamente e, nella foga, urtò il vaso, buttandolo a terra. La terracotta si spaccò in un sol colpo al contatto col pavimento e si frantumò, mentre la pianta collassò su un fianco, assieme al terreno in cui aveva messo radici.
Shirou guardò con orrore il danno causato, ma Fuyumi si accorse di lui prima che potesse nascondersi.
-Shirou?- Il suo tono era più sorpreso che arrabbiato, mentre il suo sguardo si spostava da lui al vaso spaccato. Shirou indietreggiò d’istinto per mantenere un’adeguata distanza tra loro, un passo indietro per ogni passo avanti di Fuyumi.
La donna si fermò davanti alla pianta e le sue labbra si arricciarono in una smorfia.
-Oh. Vediamo di fare qualcosa a riguardo- mormorò sottovoce.
Invece di sgridarlo e metterlo in punizione, come Shirou si aspettava, la donna ignorò blandamente la sua presenza, gli diede le spalle e si diresse verso un angolo della serra dove erano allineate alcune fioriere vuote e vasi di terracotta. Ne scelse uno rettangolare, più largo di quello che Shirou aveva appena rotto, e, dopo averlo sollevato con qualche difficoltà, lo spostò dalla sua posizione e lo trasportò là dove si trovava la pianta.
Dal momento che lei non mostrava segni di volersi arrabbiare con lui, Shirou superò la paura e le si avvicinò con cautela per osservare più da vicino cosa stesse facendo. Fuyumi estrasse dalla tasca del proprio camice un paio di guanti verdi e se li infilò, poi si chinò a raccogliere una paletta di metallo da sotto un tavolo e cominciò a riempire il nuovo vaso con la terra caduta. Una volta raggiunto un certo livello, prese la pianta e la interrò con cura prima di riprendere a riempire lo spazio intorno ad essa. Sembrava sicura di ciò che faceva, come se non fosse stata la prima volta. In effetti, bastava guardarsi intorno per intuire che avesse un interesse, forse persino una passione, per la botanica.
Era così apparentemente concentrata su quello che stava facendo da dare l’impressione di essersi dimenticata di lui; per questo Shirou non riuscì a trattenersi dal sussultare quando lei gli rivolse la parola.
-Allora, come mai sei venuto qui dentro? Come sapevi dov’erano le chiavi?- domandò. Shirou non rispose. Non riusciva a leggere emozioni né nella sua voce né nella sua espressione, perciò era difficile decidere quale reazione sarebbe stata più appropriata.
Fuyumi non gli sembrava arrabbiata ed il suo atteggiamento non era, almeno in apparenza, studiato, tuttavia era ancora presto per abbassare la guardia con lei.
-Mi hai seguita per vedere dov’erano le chiavi, giusto? Mi stavi spiando da un po’, eh?- incalzò Fuyumi. Il silenzio imbarazzato di Shirou le fornì una risposta più che sufficiente.
-Puoi anche rispondermi, sai. O dire qualsiasi altra cosa. Non sono arrabbiata, semplicemente non capisco perché tutto questo mistero. Se tu mi avessi chiesto di portarti qui, non ti avrei detto di no. Non c’è nulla di estremamente delicato o prezioso- continuò la donna, serenamente. -Certo, se tu avessi ripetuto uno scherzetto come quello dell’altro giorno… Beh, sarebbe stato un bel problema per le mie piante! Sono in una serra proprio perché non sono molto resistenti al freddo. Non credo sopravvivrebbero al ghiaccio…
Shirou sentì la propria gola seccarsi. Pensieri e domande iniziarono subito ad affastellarsi nella sua testa. Quindi non era stata solo una sua impressione, quel giorno: Fuyumi sapeva. Ma quanto sapeva? Sapeva solo di lui, o anche di Atsuya? E, soprattutto, perché non li aveva ancora cacciati? Quali erano i suoi piani?
Finché non lo scopriva, era meglio non sbilanciarsi troppo.
-Tu sai che noi siamo… diversi?- Meglio tenersi sul vago.
-Diversi!- ripeté Fuyumi, quasi divertita. Gli scoccò un’occhiata di sbieco, poi tornò a guardare la pianta che stava curando: ne stava lisciando le foglie tra le mani, come se la stesse accarezzando. Aveva dita lunghe e affusolate, su cui Shirou non aveva mai visto anelli; era solita invece indossare guanti di pelle, di lana, o di lattice.
-È così che lo chiami? Essere diverso?- incalzò, ironica.
Shirou strinse i pugni, sforzandosi di mantenere un’espressione neutrale, ma aveva la sensazione che con lei fosse inutile fingere. Le bastava una parola, uno sguardo, o anche solo un sorriso per destabilizzarlo.
-Sai di cosa sto parlando?
-Lo so perfettamente. Anzi, è probabile che io ne sappia molto più di te. Che ne dici?- Fuyumi girò il vaso verso di lui. Shirou osservò con attenzione la pianta, che sembrava più rigogliosa di prima, e si trovò a provare sollievo per non averla danneggiata in modo serio.
Fuyumi sorrise e rivolse alla pianta uno sguardo quasi affettuoso.
-A dire il vero, ti sono grata per aver rotto il vecchio vaso, mi hai fatto realizzare che era troppo piccolo per lei e ne soffriva. Adesso sta molto meglio, vero? Così potrà crescere e fiorire al meglio delle sue possibilità.
Sembrava piuttosto soddisfatta del proprio operato, pensò Shirou. E non aveva dato una vera e propria risposta a nessuna delle sue domande.
Fuyumi si voltò di colpo verso di lui, facendolo sobbalzare.
-Allora, Shirou- disse, con un brillio negli occhi, -vuoi sapere cosa so su di te e i tuoi poteri?
E ora, tutto d’un tratto, giocava a carte scoperte.
Shirou deglutì.
-È… è magia…?- mormorò, titubante, ed arrossì quando vide Fuyumi trattenere una risata.
-No, non è magia. È scienza- disse, allegra, scuotendo il capo.
-Sei diverso, è vero, ma non più di tanti altri. Non siamo tutti diversi uno dall’altro, in fondo? Certo, tu lo sei… un po’ di più. La natura ti ha fatto un dono, Shirou. I tuoi poteri sono sempre stati dentro di te, giusto? Sono parte di te, della tua natura. Ecco, studiare questa natura è il mio lavoro. Non sei l’unico al mondo.
Shirou trattenne il fiato.
-Ci sono… Ci sono altre persone come me…?
-Certo che sì. C’è tuo fratello, no? E non siete dei prescelti o chissà cosa, è solo la natura che ha fatto il suo corso. Nessuna magia, si tratta solo di evoluzione umana e DNA.
-Evoluzione… quella di Darwin?- mormorò Shirou, incerto. Fuyumi parve compiaciuta.
-Oh, quindi un’infarinatura di cultura generale ce l’hai! Ero preoccupata che non avessi ricevuto alcuna educazione, vista la tua situazione familiare- osservò.
Le parole, anche se prive di malizia, lo fecero trasalire. Tutte le famiglie che li avevano adottati in precedenza avevano sempre evitato di parlare della “loro situazione”, come se fosse stato un dettaglio imbarazzante, qualcosa che non bisognava menzionare. E, quando veniva fatto, ricevevano solo compassione, che poi si trasformava in fastidio per il fatto di dover sempre mostrare pena nei loro confronti, di doversi sempre controllare in loro presenza.
Fuyumi notò subito il cambio di umore.
-Oh, non dovevo dirlo? Ma non ha senso evitare di parlarne, no? Nascondere i fatti non li fa sparire- disse, si accigliò mentre infilava le mani nelle tasche del camice con nonchalance.
-Vorrei mettere in chiaro una cosa. Io non ti compatisco- proseguì, seria, pragmatica. -Non c’è niente di cui debba compatirti. Hai avuto una vita infelice, come tanti altri prima e dopo di te. Ma la tua storia non definisce tutto ciò che sei ed io non sono tenuta a trattarti coi guanti.
Poi, inaspettatamente, il suo sguardo si addolcì. –Sei arrivato fin qui con le tue sole forze… Tu sei forte. Capisci quello che sto dicendo, Shirou?
Shirou annuì. Sì, lo capiva. Lo capiva fin troppo bene...
-Pensi che io sia troppo insensibile? Puoi dirmi ciò che pensi senza aver paura-lo incoraggiò Fuyumi. Shirou scosse il capo.
-Ad essere sincero… sono sollevato- sussurrò. Sentì le guance bruciare e una sorta di calore diffondersi nel petto quando Fuyumi gli rispose con un largo sorriso.
-Sapevo di non sbagliarmi su di te. Sei in gamba- gli disse. -Vuoi seguirmi per un giro nella serra? Intanto mi dirai di più sui tuoi poteri ed io ti spiegherò quello che posso.
Si incamminò e Shirou la seguì senza alcuna esitazione.
Fuyumi lo portò a fare un giro completo della serra mentre gli parlava del suo lavoro, di come si fosse imbattuta in quello strano caso di doni della natura, delle persone che aveva conosciuto. Ogni tanto fermava le spiegazioni per occuparsi di una pianta, spostare qualche vaso, dare una spuntata alle foglie. Era chiaro che amava prendersi cura di quel luogo.
Più Shirou passava tempo con lei, più si rendeva conto che ad attrarre il suo interesse non era solo ciò che lei aveva da dire: era interessato a lei come persona, voleva conoscerla, sapere di più. Tutto in Fuyumi gli appariva diverso rispetto a qualsiasi persona avesse conosciuto fino ad allora. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a vederla davvero come una madre, ma si chiedeva se avrebbe trovato in lei ciò che cercava, qualsiasi cosa fosse. Fuyumi gli parlava con serenità, senza usare un linguaggio troppo complicato o tecnico, ma allo stesso tempo senza trattarlo con un bambino. Era stata onesta con lui: non aveva intenzione di trattarlo con i guanti, nemmeno un po’. Shirou adorava questa novità.
Non aveva mai vissuto nulla di così emozionante e, senza che se ne accorgesse, passarono ore nella serra. Il suo stomaco iniziò a brontolare e Shirou lo abbracciò, arrossendo per la vergogna. Fuyumi sollevò una delle proprie maniche e scoprì un orologio da polso. Dopo una rapida occhiata, abbassò il braccio e rivolse a Shirou un lieve sorriso.
-Oh, è già ora di pranzo. Il tempo è volato- esclamò. -È naturale che tu abbia fame. Dobbiamo chiudere la serra e rientrare a preparare qualcosa. Su, andiamo.
Shirou annuì con energia. Di certo anche Atsuya doveva essere affamato…
Si bloccò.
Era la prima volta in tutta la mattina che pensava a Atsuya. Non poteva credere di essersi dimenticato di lui. Le ore passate con Fuyumi erano state così affascinanti, il tempo era davvero volato… Ma ora doveva tornare da Atsuya e raccontargli ogni cosa.
Sì, decise. Atsuya doveva saperlo, doveva essere messo a conoscenza di tutto ciò che Shirou aveva scoperto.
-Shirou, cosa aspetti? Ti sei imbambolato?- La voce di Fuyumi lo riscosse. Era già sulla porta e lo stava fissando accigliata. Shirou scosse il capo e corse verso di lei.
 
 
Non appena rientrarono, Fuyumi si mise a cucinare per il pranzo. Sarebbe rimasta impegnata al piano inferiore per un po’, perciò Shirou pensò fosse il momento giusto per trovare Atsuya e dirgli tutto. Non era sicuro del perché volesse farlo di nascosto da Fuyumi. Era chiaro che Fuyumi e Atsuya non andavano d’accordo, ma in fondo lei aveva adottato entrambi, quindi non poteva odiarlo, giusto? E poi, Shirou non aveva mai avuto segreti con Atsuya. Fuyumi avrebbe capito. Lei sembrava capirlo meglio di chiunque altro, eccetto Atsuya.
Corse a perdifiato su per le scale e aprì di colpo la porta chiamando il nome del fratello.
-Atsuya! Atsuya!
Era eccitato di condividere quello che aveva imparato con suo fratello, ma il suo entusiasmo si spense quando Atsuya non si voltò neppure a guardarlo. Lo conosceva così bene che era bastato mettere piede nella stanza per capire che qualcosa non andava.
-Atsuya?- lo chiamò di nuovo, questa volta incerto.
Atsuya era seduto a gambe incrociate sul proprio letto, il più vicino alla finestra: stringeva il cuscino al petto e fissava ostinatamente la finestra. Shirou chiuse la porta, poi gli si avvicinò, si sedette dietro di lui e gli mise una mano sulla spalla per scuoterlo con gentilezza.
-Atsuya, cosa c’è? Avanti, parlami- lo incoraggiò. Atsuya sbuffò.
-Perché? Mi sembra tu sia stato benissimo senza parlarmi tutto questo tempo- sbottò infine, incapace di trattenersi ancora.
Shirou era stato così entusiasta da dimenticare che Atsuya gli stava ancora tenendo il broncio.
-Ah… Mi dispiace… Scusami- disse. -Ma senti, ho scoperto delle cose! Fuyumi mi ha detto…
-Non mi interessa!- Atsuya si girò di scatto, inviperito, e usò il cuscino per zittirlo, premendoglielo sul viso. Per un attimo Shirou si paralizzò, colto alla sprovvista, ma poi iniziò a dibattersi e, dopo alcuni secondi di lotta, riuscì a spingere via il fratello.
-Ma sei impazzito?! Mi stavi soffocando…!
-Non mi importa ciò che quella donna ha da dire!- gridò Atsuya, interrompendolo.
-Vi ho visti insieme dalla finestra! Sei uscito di nascosto, solo per stare con lei! Ero preoccupato per te, perché quando mi sono svegliato non c’eri, ma tu… Tu invece… Non hai proprio pensato a me, vero?! Ed è tutta colpa sua!- Atsuya si fermò a riprendere fiato, col viso paonazzo. Era da tempo che non faceva scenate del genere, al punto che Shirou si era quasi dimenticato di quanto potesse essere geloso e infantile. Continuò a guardarlo con occhi sgranati, incapace di reagire per qualche momento.
-Ma… Atsuya, non volevo nascondertelo, è stato solo un caso! Volevo entrare là dentro di nascosto da lei, non da te! Ma mi ha scoperto e quindi…- si giustificò, ma l’espressione di Atsuya si rabbuiò ancora di più.
-Quindi hai passato la mattinata con lei e ti sei dimenticato di me. Ah, questo sì che migliora le cose, grazie, Shirou- disse, sardonico. Shirou si sentì arrossire, colto in flagrante.
D’impeto, strappò il cuscino dalle mani di Atsuya e glielo sbatté addosso. Atsuya sussultò e strabuzzò gli occhi, troppo stupito per protestare, e Shirou approfittò del momento.
-Beh, forse te lo avrei detto, se tu non avessi sempre questo atteggiamento!- replicò, irritato.
-Cosa?! Ora sarebbe colpa mia?! Quale atteggiamento avrei, sentiamo!
-Questo! Lo stai facendo proprio adesso!- Shirou allargò le braccia, esasperato.
-Sai benissimo di cosa parlo! Sei sempre contrariato e di cattivo umore, non mi ascolti mai, non parliamo nemmeno più!
-Stiamo parlando adesso, no? Contento?- ringhiò Atsuya, mentre si gettava in avanti per recuperare il cuscino. Lo afferrò da un lato con entrambe le mani e lo strattonò, facendo quasi ruzzolare Shirou giù dal letto; in tutta risposta, Shirou stese le gambe per mantenersi saldo e si aggrappò più forte all’oggetto, deciso a non mollare la presa. Non gli importava nulla di uno stupido cuscino, ma se questo era ciò che Atsuya voleva, lui non si sarebbe tirato certo indietro. Era stufo di dargliela sempre vinta.
-Non stiamo parlando, stiamo litigando- soffiò a denti stretti. Chissà se Fuyumi riusciva a sentirli, dal piano di sotto. Chissà se sarebbe salita a fermarli… Per un istante, si trovò quasi a voltarsi verso la porta, per accertarsi fosse ancora chiusa. Atsuya intercettò il suo movimento, forse intuì la sua preoccupazione, e Shirou vide il suo sguardo rabbuiarsi un po’ di più, ma era troppo tardi per nasconderlo.
-Persino… quando litighi con me… stai pensando a lei!- lo accusò Atsuya, soffiando aria dal naso per lo sforzo e la rabbia. Shirou aprì la bocca per ribattere, ma in quel momento il cuscino sfuggì dalla presa di entrambi, facendoli ruzzolare uno ad ogni lato del letto. L’oggetto conteso cadde a terra e, poco dopo, anche Atsuya rotolò sul pavimento con un tonfo.
Shirou si rialzò di scatto e si sporse per vedere se stava bene.
-Atsuya, ti sei fatto male?!- esclamò, tese una mano verso di lui.
L’altro gliela allontanò con uno schiaffo. Il rumore risuonò forte nella stanza e Shirou spalancò gli occhi incredulo. Ma a fare più male fu lo sguardo tradito che Atsuya gli rivolse.
-Non toccarmi- sussurrò. -Hai scelto di stare dalla sua parte, quindi non preoccuparti per me!
Shirou si portò la mano al petto, coprendola con l’altra per nascondere i tremiti. Voleva nascondere la propria vulnerabilità, aveva paura che potesse essere usata contro di lui…
-Mi stai chiedendo qualcosa di impossibile- disse, cercando di non far tremare la propria voce.
-Mi preoccuperò sempre per te, qualsiasi cosa accada… Ed io sono sempre dalla tua parte, Atsuya. Lo sai. Lo so che lo sai…
-No, Shirou… Non ne sono più sicuro- borbottò Atsuya, senza alzare lo sguardo. Afferrò il cuscino da terra e glielo scagliò contro debolmente, colpendogli soltanto le gambe. Shirou strinse forte le mani al petto e si costrinse a distogliere lo sguardo.
-Atsuya, basta… Mi rifiuto di giocare con te a questo gioco- ribatté, secco.
-Ho finalmente trovato un posto che mi piace! Lei mi accetta, ci accetta per quello che siamo! Sa cosa siamo, cosa possiamo fare e non ci caccerà per questo. Per la prima volta, mi sento benvoluto e questo mi piace!- disse. -Quindi se vuoi fare il Bastian contrario, accomodati pure, ma io mi rifiuto di prendere parte a questo capriccio. Continua pure a fare a modo tuo ed io farò a modo mio!
Non gli lasciò il tempo di rispondere. Non aveva voglia di ascoltare cosa Atsuya avesse da dire.
Shirou girò i tacchi senza più una parola ed uscì dalla stanza richiudendo la porta.
Naturalmente, come aveva previsto, Atsuya non si fece vedere per pranzo.
Fuyumi poggiò sul tavolo due ciotole di riso, poi si sedette di fronte a Shirou e ringraziarono per il pranzo.
-Ci hai messo un po’ di tempo- osservò la donna, mentre impugnava le proprie bacchette con grazia. Shirou prese le sue e le strinse forte tra le dita, anche se la mano gli faceva male. Gli piaceva il fatto di avere delle bacchette personali, era una novità. Fuyumi gli passò le verdure e chiese, disinvolta:- Qualcosa non va? Tuo fratello non scende a mangiare?
-No- bofonchiò Shirou. Fuyumi annuì tra sé e sé.
-Lo immaginavo. Dovrò mettergli di nuovo qualcosa da parte, allora- disse senza scomporsi. Se aveva notato la mano arrossata di Shirou, non ne diede segno.
Shirou non poté fare a meno di lanciare uno sguardo triste alla ciotola vuota e al paio di bacchette lasciate sul bancone, accanto alla vaporiera con il riso, ma si costrinse a scacciare via i pensieri e a concentrarsi sul proprio piatto. O almeno, ci provò finché non riuscì proprio a trattenersi.
-Lui… È difficile per noi due, dopo tutto ciò che ci è successo… Ma io ci sto provando, ci sto provando davvero! Non merito che sia arrabbiato con me…- sbottò, irritato.
-Non c’è nulla di sbagliato nel cercare di adattarsi- disse Fuyumi, come se sapesse esattamente cosa Shirou aveva bisogno di sentire. –Shirou, tu cosa vuoi fare?
Shirou restò in silenzio per un momento. -Io… io voglio restare qui- sussurrò.
Fuyumi annuì. –Bene- disse soltanto, poi riprese a mangiare e non ne parlò più. Quando Shirou alzò timidamente lo sguardo verso di lei, si accorse che stava sorridendo.
Dopo mangiato, lavarono insieme i piatti, poi Fuyumi si offrì di prestargli dei libri e di leggerli con lui, in caso fossero troppo difficili. Nella casa c’erano quasi solo libri di medicina, biologia, botanica. Shirou accettò con piacere.
Mentre stavano seduti sul divano a parlare di piante e stelle e fenomeni naturali, Shirou intravide con la coda dell’occhio Atsuya infilarsi in cucina per prendere il cibo di nascosto, come al solito, ma fece finta di non averlo visto. 
 
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-Questo mio potere… cos’è esattamente?
Una sera, Shirou non poté trattenersi dal fare quella domanda. Non che ci fosse un motivo preciso per cui l’avesse detto proprio in quel momento. Era una sera come un’altra: i giorni si susseguivano tutti uguali, in quel posto, dove il tempo sembrava quasi essersi cristallizzato.
Fuyumi stava lavando i piatti dopo la cena. Per un momento la donna si fermò, le sue spalle si irrigidirono, ma si rilassò immediatamente.
-Come mai questa domanda?- chiese dopo la pausa.
-Così… Non puoi dirmelo?
Fuyumi chiuse l’acqua e si sfilò i guanti di lattice con estrema calma. In cucina c’era ancora odore di riso e alghe nori; sicuramente la donna avrebbe usato gli ingredienti rimanenti per fare degli onigiri, in modo che anche Atsuya potesse cenare. Per il momento, però, non li toccò. Del resto, Atsuya in quel momento stava probabilmente dormendo. Era rimasto sul letto tutto il pomeriggio e, quando Shirou era entrato per cambiarsi prima di cenare, lo aveva trovato appisolato.
-Certo che puoi. Mi hai solo colta di sorpresa- disse. -Metto su un po’ di tè, poi possiamo sederci e parlarne.
Shirou la osservò mentre prendeva da un armadietto una teiera di vetro e la riempiva d’acqua. Fuori il sole era già calato e il cielo era scurissimo. Dal momento che erano lontani dalla città e non c’erano forti luci artificiali, le stelle erano visibilissime e Shirou si distrasse a guardarle. Quando si girò di nuovo, la teiera era già sul fuoco e Fuyumi si era seduta al tavolo. Shirou si sedette di fronte a lei.
-Dunque, in realtà gli studi non sono ancora del tutto certi, quindi temo di non poterti dare una risposta definitiva- esordì la donna –ma, come ti ho detto, sono doni della natura. Letteralmente. Sono inseriti nel vostro DNA, sono nel vostro sangue, o forse nel vostro cervello… I doni non si sviluppano nel tempo, sono sempre con voi dalla nascita.
-E sono tutti differenti. Non c’è una sola persona come te, al mondo.
Shirou sgranò gli occhi, sorpreso.
-Nemmeno una? Nemmeno Atsuya è come me? Ce ne sono… così tanti?- esclamò, non riuscendo a bloccare la curiosità. Fuyumi sorrise, quasi con dolcezza.
-Anche tu e tuo fratello siete diversi, anche se di poco. Tutti i doni sono unici- assicurò. –Per questo ce ne sono tanti, tantissimi.
-E tu ne hai incontrati molti, Fuyumi?- chiese Shirou.
La donna annuì, in silenzio. –Sì… Potremmo dire di sì- mormorò. Il suo sorriso si era un po’ spento e, per un attimo, il suo intero viso si adombrò in modo inspiegabile. Sembrava che qualcosa l’avesse turbata. Il suo cellulare emise un debole squillo. Fuyumi si riscosse.
-Oh, è ora- disse, si alzò e tolse la teiera dal fuoco, benché l’acqua fosse ancora liscia, senza bollicine. Aguzzando la vista, Shirou notò qualcosa che galleggiava nell’acqua: un fiore, appoggiato sul fondo della teiera, stava sbocciando proprio in quell’istante. Fuyumi notò la sua meraviglia e rise piano, mentre con la mano libera gli faceva cenno di venire vicino per osservare meglio. Shirou trattenne il fiato e balzò in piedi. Non aveva mai assistito a nulla del genere. Il fiore non appassì nemmeno quando, dopo un minuto o due, Fuyumi cominciò a versare l’acqua, limpida e pulita e leggermente rosata, nelle tazze di ceramica. 
Fu come assistere ad una sorta di miracolo.
  
 
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Mentre Fuyumi chiudeva la serra alle sue spalle, Shirou si perse ad osservare il paesaggio.
La neve persisteva: in un mese l’inverno sarebbe cessato, ma la neve non sembrava saperlo, o non le importava. Teneva duro. Benché il freddo non gli dispiacesse, Shirou non poteva fare a meno di chiedersi come il paesaggio sarebbe cambiato al cambio di stagione. Sarebbero cresciuti fiori anche fuori dalla sera? Ricordava di aver sfogliato libri illustrati, da piccolo, in cui erano ritratte abitazioni di campagna circondata da prati verdi, fiori colorati e ruscelli cantanti, sopra i quali brillava un cielo azzurro, con nuvole soffici come zucchero filato. La casa di Fuyumi non aveva un aspetto tanto idilliaco, ma probabilmente anche lì, quando la neve si fosse ritratta, avrebbero trovato spazio colori vividi e profumi tipici della primavera.
-Ci sono dei ciliegi qui vicino?- chiese a Fuyumi non appena lei gli si avvicinò.
-Mmm, nelle vicinanze del paese ce ne sono alcuni. Non è come nelle città grandi, però. Come mai me lo chiedi?- rispose lei. Shirou abbassò lo sguardo, imbarazzato.
-Uhm, vorrei andare a vederli quando sbocceranno. Non ho mai visto dei ciliegi dal vivo, solo in foto…- ammise, vergognandosi un po’.
Fuyumi intuì il suo stato d’animo e gli sorrise in modo incoraggiante.
-Non c’è da vergognarsi. Non credo esista un solo uomo sulla Terra che possa dire di aver fatto tutto e visto tutto. E non è questo il bello?- Fuyumi sollevò il viso verso il cielo, chiuse gli occhi e inspirò a fondo, espirò lentamente. Quel giorno aveva legato i capelli in una treccia, che le ricadeva morbida su una spalla.
–C’è qualcosa di poetico nella natura. Gli inverni in Hokkaido sono molto lunghi e molto duri, per questo i ciliegi che sbocciano qui hanno una bellezza speciale per noi che ci abitiamo. Ci fa pensare ad un nuovo inizio, che è possibile ricominciare. Ogni anno il ciclo continua e noi siamo parte di esso- disse. Shirou la guardò impressionato.
-Sei inaspettatamente romantica- osservò.
Fuyumi gettò indietro il capo e rise. –Il mio è solo amore per la natura. È crudele, ma anche stranamente confortante, a volte. Il mio lavoro è la mia vita. Le persone come me non possono concedersi il lusso di essere romantiche- replicò. 
Shirou intravide il suo volto adombrarsi. Succedeva, a volte, quando parlavano di certi argomenti. Se una parte di lui si trovava spesso a chiedersi se Fuyumi non fosse uno spirito della foresta o della neve, di certo erano quei momenti a ricordargli che era umana tanto quanto lui. C’era qualcosa in lei che continuava a incuriosirlo. Qualcosa di fuori posto ed enigmatico, come un puzzle i cui pezzi mancanti erano scomparsi, o stati nascosti.
-Andremo a vedere i ciliegi. È una promessa- disse Fuyumi, tornando all’argomento principale bruscamente. –Ora non perdiamo altro tempo. Oggi ho dimenticato di mettere a fare il riso.- Si affrettò a entrare in casa. Shirou la seguì senza dire altro.
Appena rientrato, corse al piano superiore a cambiarsi.
Atsuya era ancora nel letto. Shirou notò che sul suo comodino c’era ancora il piatto usato il giorno prima, con dei rimasugli di riso e pezzettini di alghe, e pensò fosse insolito che Atsuya lasciasse qualcosa in giro. Non era mai stato un bambino ordino, ma in quella casa riportava sempre tutto al suo posto, come se volesse cancellare le prove. Shirou si inginocchiò davanti al letto e lo osservò, leggermente preoccupato. Atsuya stava sempre chiuso in camera, era così tranquillo e silenzioso da far paura. In quel momento, dormiva rannicchiato su se stesso come un gattino e Shirou non poté fare a meno di provare tenerezza. Non poteva più sopportare di non parlare con lui, aveva tantissime cose da dirgli. Gli toccò una guancia, disegnando col dito la curva dello zigomo, ma Atsuya non ebbe reazioni di alcun tipo. Shirou si accigliò. Tra loro due, era sempre stato Atsuya ad avere il sonno più leggero.
-Atsuya? Sei andato in letargo?- cercò di scherzare. Gli scostò i capelli che gli coprivano il viso e gli tirò leggermente la guancia. Sembrava anche piuttosto pallido.
-Atsuya?- Lo chiamò ancora, questa volta scuotendolo per la spalla.
Solo dopo qualche minuto Atsuya cominciò a svegliarsi: aggrottò la fronte, mugolò infastidito, e poco dopo i suoi occhi si aprirono, anche se non completamente. Lo guardò a lungo senza parlare e Shirou trattenne il fiato.
-…Shirou?- mormorò Atsuya, finalmente. –Cosa…?
Vagamente sollevato nel sentire la sua voce, Shirou si sedette accanto al fratello e cominciò ad accarezzargli i capelli. Con sua sorpresa, Atsuya non respinse la sua gentilezza, ma anzi si tese ancora di più verso di lui, fino ad appoggiare la guancia contro la sua gamba, e si cullò nelle sue attenzioni. Il cuore di Shirou si riempì di affetto. Atsuya doveva averlo perdonato, pensò, e si sentì sollevato. Tuttavia, ora c’erano cose più importanti a cui pensare.
Affondando le dita nei suoi capelli, Shirou si accorse che erano ruvidi come fili di paglia, come se non li avesse lavati per un bel po’ di tempo. Shirou notò che era andato a dormire con indosso gli abiti che aveva portato con sé dall’orfanatrofio, stropicciati, sudati, probabilmente da lavare. Quand’è che Atsuya aveva smesso di prendersi cura di se stesso? L’affetto e la tenerezza finirono annacquati in un turbinio di senso di colpa ed ansia.
-Atsuya, non ti senti bene?- chiese Shirou. Quando gli premette la mano contro la fronte per controllargli la temperatura, non la trovò bollente di febbre, ma non c’era niente di cui essere felici. Atsuya continuava ad apparirgli un po’ troppo giù di tono, era come… spento.
-Non lo so… Non riesco a stare… sveglio…- mormorò Atsuya, muovendo appena le labbra. Si raggomitolò ancora di più contro il suo fianco, ma Shirou se lo scrollò di dosso e lo scosse bruscamente.
-Atsuya! Resta sveglio!- esclamò. –Vado subito a chiamare Fuyumi! Resta sveglio, capito?!
Suo fratello rispose con un mugolio che avrebbe potuto essere tanto un sì quanto un no, ma non c’era tempo di discutere. Shirou scattò in piedi e corse fuori dalla stanza, si affacciò alle scale e gridò:- Fuyumi! Atsuya è strano!
Non passò nemmeno un minuto prima che Fuyumi comparisse sulla soglia della porta della cucina.
-Strano in che modo?- domandò, accigliata.
-Non lo so, penso che stia male! Vieni a vedere!
Fuyumi rientrò in cucina, forse a spegnere la vaporiera. L’odore del riso cotto era molto forte. Qualche secondo dopo, la donna lo raggiunse al piano di sopra e si sedette sul bordo del letto di Atsuya. Il ragazzo non la respinse: nonostante Shirou glielo avesse raccomandato per due volte, si era riaddormentato comunque. Shirou restò in piedi sulla porta, apprensivo, mentre Fuyumi controllava il battito di Atsuya, prima dal polso e poi premendo due dita contro il lato visibile del suo collo. Per un momento, la donna rifletté su cosa fare, poi diede il suo verdetto.
-Potrebbe non essere niente di grave, forse problemi di pressione- constatò. –Ma io non sono un medico vero e proprio, solo una ricercatrice, perciò credo sia meglio portarlo in paese. Conosco delle persone che hanno una clinica lì.- La sua voce era tranquilla, e Shirou pensò che parlasse così per non agitarlo.
Insieme portarono Atsuya al piano di sotto e poi nella macchina di Fuyumi, parcheggiata nel viale davanti alla casa. Osservando il volto per nulla disteso del fratello, Shirou pensò che dovesse essere a disagio. Forse aveva freddo, visto che l’auto non era accesa e quindi non calda come l’interno della casa.
-Aspettami un attimo, torno subito- bisbigliò Shirou ad Atsuya, anche se lui non poteva sentirlo, poi chiuse la portiera e rientrò di corsa in casa. Salì di sopra e denudò senza alcuno scrupolo entrambi i loro letti, strappando loro le coperte spesse e ruvide. Dal momento che con le braccia piene non vedeva bene davanti a sé, di ritorno scese le scale e attraversò il soggiorno più lentamente; passando davanti alla porta della cucina, gli parve di sentire la voce di Fuyumi e si fermò. Una parte di lui gli diceva di tornare subito da Atsuya senza perdere altro tempo, ma voleva anche essere rassicurato da Fuyumi che tutto sarebbe andato bene. E se l’avesse sentita parlare con i suoi amici dottori al telefono, forse il nodo che aveva allo stomaco si sarebbe sciolto un pochino, o almeno così sperava.
-Ti ho già detto tutto quello che ti dovevo dire, no? Smettila di essere così insistente- sentì Fuyumi dire. Sembrava irritata. –Sì… Sì, sto arrivando con i ragazzi. Ora mi metto in macchina, ci vediamo lì. Ti ho detto che ne sono sicura! A dopo.- Riattaccò e sospirò, massaggiandosi le tempie. Indossava il suo cappotto dorato. Quando sollevò lo sguardo e notò Shirou sulla porta, fece scivolare il proprio cellulare in una tasca e gli si avvicinò.
-Andiamo- disse soltanto. –Entra in macchina.
 
 
Stavano percorrendo la stessa strada che avevano fatto la prima volta. Erano passati solo pochi mesi da quando Fuyumi li aveva accolti, ma a Shirou parevano anni. La realtà dell’orfanatrofio e la vita che avevano consumato fino ad allora erano lontani ricordi nella sua memoria e non intendeva rivangarli, eppure… Eppure, proprio in quel momento, misteriosamente, gli stavano tornando tutti in mente. Più si allontanavano dalla casa di Fuyumi, più Shirou aveva la sensazione di star uscendo da un bellissimo sogno.
Era probabilmente la paura di perdere Atsuya a far ritornare a galla tutti i suoi ricordi traumatici. Solo la presenza del fratello gli aveva impedito di crollare. Perderlo era assolutamente impensabile. Non poteva accadere, Shirou non riusciva a concepirlo. Erano sempre stati assieme… ma il suo egoismo li aveva separati. Il peso della sua colpa lo schiacciava. Non si era accorto della sofferenza di Atsuya, non meritava il suo perdono.
Atsuya appariva più fragile che mai, addormentato e infagottato com’era nelle coperte, e Shirou lo strinse forte a sé mentre osservava la strada scorrere davanti ai propri occhi. Fuyumi non li guardava mai e non aveva detto una parola da quando erano partiti. Sembrava nervosa, o forse impaziente: come al solito, Shirou non riusciva a capirla fino in fondo. I suoi occhi azzurri erano fissi sulla strada e ancora più freddi del solito. In quel momento, nell’abitacolo del SUV nero, il silenzio aveva un peso reale e gravava sulle loro teste, impietoso.
Fuyumi era stata strana tutta la mattina, pensò Shirou. Quel pensiero non lo lasciava in pace, come il ronzio di una zanzara che non riesci a vedere, ma che ti tormenta ugualmente. Era come se… Come se avesse paura, realizzò Shirou. Non riusciva a immaginare Fuyumi spaventata. Cosa poteva averla turbata a quel modo?
Atsuya mugugnò contro la sua spalla qualcosa di non ben distinguibile, richiamando la sua attenzione. Shirou pensò che stesse scomodo e si ritrasse il necessario perché Atsuya potesse scivolare contro di lui e trovare maggiore appoggio, tuttavia l’espressione del fratello restò tesa. Faceva così male vederlo in quelle condizioni, che Shirou avrebbe volentieri preso il suo posto. Chiuse gli occhi, affondando il viso nei capelli di Atsuya. I suoi pensieri erano tutti ingarbugliati, con troppe domande e troppe immagini che si affastellavano insieme. Ripensò a tutto quello che aveva visto e sentito quella mattina. C’era qualcosa di sbagliato, su cui non riusciva a puntare il dito.
Aveva una brutta sensazione. Istintivamente, mise la mano sulla portiera.
-Ferma la macchina- disse, brusco.
Attraverso lo specchietto, vide Fuyumi guardarlo. Finalmente.
-Cosa? Perché?- replicò, sorpresa, confusa.
-Fermala!
Lei lo guardò. Si guardarono per forse un minuto.
-Non posso- mormorò Fuyumi.
Shirou strinse convulsamente la maniglia della portiera e il vento scosse il veicolo con una forza innaturale, tale da far tremare i vetri. Gli occhi di Fuyumi non lasciavano i suoi. Sapeva cosa stava facendo.
-Non farlo, Shirou- gli disse. Lui non l’ascoltò.
Gli pneumatici scivolarono sulla strada ghiacciata e l’auto uscì fuori strada. Saltarono tutti dai sedili e Shirou si staccò dalla portiera per afferrare il fratello con entrambe le braccia e proteggerlo col proprio corpo in caso ci fosse un forte impatto. Fuyumi cercò di mantenere il controllo del veicolo, ma era ormai fuori dal suo controllo e il volante le sfuggì dalle mani, ruotando impazzito. Per fortuna, l’auto non colpì un albero, bensì un cumulo di neve abbastanza duro da fermarne la corsa e a poco a poco rallentò e si fermò per inerzia. Il vento fece schizzare altro nevischio sui loro finestrini.
Per prima cosa, Shirou si assicurò che Atsuya stesse bene. Suo fratello stava ancora dormendo e non sembrava aver accusato nessun colpo, anzi, probabilmente non se n’era manco accorto. Shirou non pensava fosse una cosa positiva. Come si può continuare a dormire in tutta quella confusione? La brutta sensazione si acuì.
Shirou aprì entrambe le portiere dei sedili di dietro, uscì e fece il giro dell’auto per vedere come stesse Fuyumi. La donna scese dall’auto poco dopo. Gli lanciò un’occhiata indecifrabile, poi si mise a osservare il veicolo da tutti i lati, per verificare che non ci fossero danni gravi. Mentre lo faceva, il cellulare nella tasca del suo giaccone da neve cominciò a vibrare. Fuyumi guardò appena lo schermo prima di rispondere.
-Scusa, sì, sono in strada… No, va tutto bene, perché chiami?- disse. Si girò a guardare Shirou, poi Atsuya, poi decise di allontanarsi per parlare al telefono senza essere sentita.
Shirou la guardò andare. Osservò i loro dintorni. A circondare la strada, che continuava verso la città, c’era un paesaggio di soli alberi e nemmeno un’abitazione. Era un posto del tutto isolato, per di più rivestito da una matassa di neve che appariva infinita. Bastava voltarsi indietro per capire che tornare indietro da là avrebbe richiesto del tempo. Per questo motivo, non potevano chiamare un medico che venisse a casa per visitare Atsuya, era necessario andare in una clinica in paese. Era del tutto ragionevole. Anche troppo. Sembrava costruito.
Shirou seguì con lo sguardo le impronte lasciate sulla neve da Fuyumi. Da un lato della strada la distesa bianca finiva verso in un pendio, si lanciava giù in un dirupo proprio a bordo strada. Si avvicinò a Fuyumi con cautela, per paura in parte del burrone, in parte di un rimprovero che sarebbe stato più che appropriato. Arrivò dietro di lei giusto in tempo per sentirla chiudere la chiamata.
-Ci vediamo tra poco. Non cominciate senza di me- la sentì dire, poi Fuyumi spense il telefono e lo fece scivolare di nuovo nella tasca del giaccone. Parve riflettere per qualche momento. Shirou mosse un passo verso il pendio, senza avvicinarsi troppo, soltanto per gettare uno sguardo oltre l’orlo: se lo aspettava, ma guardare giù e vedere solo un vortice di bianco fu ugualmente scioccante. Si ritrasse di scatto. Fuyumi sentì il crepitare dei suoi scarponi nella neve e si voltò verso di lui. Gli rivolse un sorriso amichevole e, per un momento, Shirou si sentì sollevato.
-Non sono arrabbiata con te- esordì Fuyumi. –Sei agitato, lo capisco. E quando sei agitato, ti viene naturale usare i tuoi poteri.- Lanciò uno sguardo alla strada, poi alla macchina. Tre portiere su quattro erano aperte. Atsuya dormiva. Non sembrava esserci niente di diverso.
Fuyumi si abbracciò, incrociando le braccia al petto, gli sorrise di nuovo, poi si mise a osservare il panorama, serenamente.
-Invece di discutere, dovremmo rimetterci in marcia. Possiamo fare una piccola pausa, se preferisci, ma sarebbe meglio portare subito tuo fratello dai dottori, non credi? Per questo ti dicevo che non è il caso di fermarsi. E poi, qui siamo in mezzo al nulla- disse, sempre molto pratica.
-Non voglio andare in città- replicò Shirou. –Voglio tornare indietro.
Fuyumi non lo guardò. Non si mosse.
-Perché?- domandò.
Shirou strinse i pugni. Il vento scuoteva l’orlo dei loro giacconi e, soffiando verso l’alto, infilandosi tra le fessure della roccia e tra i rami degli alberi, suonava simile ad un lungo grido spezzato.
-Tu non vuoi il bene di Atsuya. Non sei preoccupata per lui… Non te n’è mai importato nulla di lui- disse Shirou. Gli tremava la voce, e anche tutto il resto del corpo.
Fuyumi rimase immobile.
-Perché?- ripeté.
La risposta era semplice. Shirou aveva vissuto per Atsuya, per tutto quel tempo. Si preoccupava sempre e solo di lui.
Come aveva potuto perderlo di vista?
-Cosa gli hai fatto?- chiese, ancora tremante. –Dove ci stai portando, in realtà?
Fuyumi rimase in silenzio. Non era una risposta, ma forse un’ammissione di colpa sì.
-Io mi fido… mi fidavo di te! Cosa gli hai fatto?- la incalzò Shirou, alzando la voce.
Fuyumi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e sospirò come se avesse appena aspirato il fumo di una sigaretta e dovesse buttarlo fuori, come se avesse respirato qualcosa di velenoso. Nell’aria gelata, il suo fiato divenne condensa all’istante. Lentamente, si voltò verso Shirou.
-Gli ho soltanto dato dei tranquillanti. Un poco alla volta. Non era appropriato che fosse così irrequieto… non andava bene- ammise, senza alcuna inflessione nella voce.
–E, per la cronaca, non ti ho mai mentito. Stiamo davvero andando in una clinica. Ci saranno ricercatori come me, è vero, ma ci sono anche dei medici. Tuo fratello starà bene- aggiunse.
-Come puoi dirlo? Come puoi esserne certa?- domandò Shirou. Fuyumi non rispose, continuò a guardarlo, accrescendo la sua frustrazione verso di lei. Certamente lei aveva visto l’esatto istante in cui la consapevolezza aveva illuminato i suoi occhi, quando aveva finalmente unito i pezzi.
-Hai… Hai detto che ci sono altri ricercatori. Questa clinica…- Deglutì. Gli girava la testa e aveva un senso di nausea crescente. –Tu… ci stai portando da loro…? Ci useranno come… esperimenti? Per tutto questo tempo…- Dovette fermarsi, si sentiva soffocato. Gli tornarono in mente i volti delle persone che lui ed Atsuya avevano incontrato fino a quel momento. Li avevano chiamati mostri, scherzi della natura, demoni. Nessuno, però, prima di allora, era mai riuscito a ferirlo davvero come aveva fatto Fuyumi. Era stato proprio lui a darle quel potere.
Per qualche misterioso motivo, anche lei sembrava ferita. Shirou la fissò con astio, scaricandole addosso tutto il suo rancore e la sua frustrazione. Lei non aveva il diritto di sentirsi ferita.
-Tu sei speciale, Shirou- mormorò Fuyumi. –Questa non è una bugia. Sei speciale per me. L’ho capito quel giorno… La prima volta che ti sei intrufolato nella serra, te lo ricordi? Ho capito che tu ed io, in fondo, siamo simili. Anche il modo in cui hai sempre tenuto lontano tutti, tranne tuo fratello, non era che un modo per non essere ferito, vero? Perché, per quanto ci possiamo credere, le persone che non feriscono gli altri sono rare- disse.
Non sai niente di me, pensò Shirou, ma non riuscì a ribattere. Aveva un nodo in gola. Scosse il capo, mordendosi il labbro. Fuyumi non lo capì, non colse la sua silenziosa protesta: era troppo presa dal proprio ego per notare quanto lui stesse soffrendo.
-Sono diventata una ricercatrice perché volevo credere. Non è la magia a darci i miracoli, ma la scienza. È la natura stessa, a definirci e distinguerci gli uni dagli altri. A salvarci.
Fuyumi sollevò una mano e la tese verso di lui.
-Sia tu che tuo fratello avete dei poteri… ma questo non garantisce la salvezza a entrambi. Tu lo sai bene, non è vero? Lo sai meglio di tutti. La possibilità di essere salvato è rara anche per una persona sola. Che lo vogliamo o no, la natura sceglie solo i più forti…
Il suo sguardo si rabbuiò.
-Ho visto molti ragazzi come te, in questi anni. Io non ho doni, ma sono sopravvissuta a loro. Non erano forti abbastanza. Sai come mi sono sentita, a cercare di salvarli, uno dopo l’altro? Ci sono cose che non possiamo controllare, poteri che non immaginiamo neppure, là fuori… Per questo ho continuato. Ho continuato a cercare e a cercare… Non mi sono mai arresa, e alla fine la strada intrapresa mi ha portato a te. E, di tutto ciò che mi è successo, incontrarti è l’unica che non abbia mai rimpianto.
Una lacrima le era rimasta impigliata tra le ciglia. La sua mano era ancora sospesa in aria, tesa verso di lui, ma Shirou non si mosse per prenderla. Perché era vero, lui la capiva. Capiva meglio di chiunque altro il dolore di non riuscire a proteggere qualcuno. Eppure, non poteva accettarlo. Scosse il capo più e più volte, come per scacciare fisicamente la presa che quelle parole avevano su di lui.
-No- rispose, soffocato. 
Fuyumi gli rivolse uno sguardo di compassione. Non se lo sarebbe mai aspettato da lei e la odiò per questo. Lo guardava come se avesse capito tutto, come se conoscesse esattamente i suoi pensieri, anche quelli a cui non dava voce. Era come se lo compatisse proprio per questo.
-Finché resterai legato a lui, non potrai mai essere libero. Se non è possibile salvare tutti, allora bisogna scegliere, Shirou- disse Fuyumi, un sorriso le sfiorò le labbra, e poi abbassò la voce di colpo. Come se stesse per svelare un segreto.
-Ed io ho scelto te- bisbigliò.
Fu come ricevere uno schiaffo.
Shirou trattenne il fiato di colpo. Una lacrima gli scivolò lungo la guancia, e a quella ne seguirono molte, molte altre. Le lacrime cominciarono a colargli calde sul viso, contro la sua volontà, ancor prima di realizzare cosa stesse accadendo. Deglutì il sapore salato e si forzò a distogliere lo sguardo.
Fino a quell’istante, finché non aveva sentito quelle parole, non lo aveva mai realizzato: lui voleva essere scelto. Era quello che aveva sempre voluto, essere amato da qualcuno che lo vedesse per quello che era, come Fuyumi aveva fatto. Eppure… non era abbastanza. Era ciò che voleva, ma allo stesso tempo la cosa di cui aveva più paura.
Lasciare indietro Atsuya, ottenere la felicità al prezzo della sua, era l’unica cosa che non era disposto a fare. Atsuya ed il legame che esisteva tra loro erano intimamente parte di lui, perciò non avrebbe potuto accettare l’amore di nessuno, finché qualcuno non avesse accettato anche quelle parti. Era così semplice, eppure non era mai riuscito ad esprimerlo.
-No!- Benché l’avesse detto in un tono di voce normale, quella sillaba risuonò come un grido nel silenzio della pianura innevata. E lui la ripeté di nuovo, ancora e ancora, prendendosi la testa tra le mani e scuotendola forte. Ogni no era prezioso, sgretolava la sua indecisione, combatteva la sua debolezza.
-Shirou, non farlo…! Tu puoi ancora… puoi ancora scegliere! Puoi essere salvato!- gridò Fuyumi. Era la prima volta che alzava la voce. Aveva perso la solita calma, perché in realtà aveva già capito cosa Shirou avesse scelto. Aveva capito di essere stata abbandonata.
-Non vedi? Tu ed io siamo così simili, siamo… siamo anime affini… Potrei essere tua madre, potrei esserlo davvero. Potremmo girare il mondo insieme, e averlo nelle nostre mani, un giorno! Se solo tu ora… Se solo tu prendessi la mia mano…!
Fuyumi si tese verso di lui con tutta sé stessa, ma Shirou schiaffeggiò la sua mano, allontandola da sé.
Poi successe tutto molto rapidamente.
Fuyumi indietreggiò e scivolò. Shirou alzò lo sguardo di scatto e la vide perdere l’equilibrio e cadere di lato, la sua treccia ondeggiante nell’aria, gli occhiali che scivolavano sul viso. Dietro le lenti, i suoi occhi sgranati di sorpresa, uno sguardo ferito, tradito, che Shirou non avrebbe mai più dimenticato. Shirou si mosse il più velocemente possibile, tese le mani avanti per afferrarla, ma mai come quel giorno realizzò quanto impotente fosse un ragazzino, quanto più grande fosse quella situazione rispetto a lui. Le sue mani erano ancora troppe piccole per contenere il mondo che Fuyumi desiderava per loro, e certamente troppo piccole per mantenere lei mentre scivolava e cadeva dal pendio innevato.
Fuyumi cadde e svanì nel bianco senza avere il tempo di urlare.
Shirou crollò in ginocchio sul ciglio del pendio, guardando giù in un vano tentativo di scorgerla, di accertarsi che stesse bene. Ma come avrebbe potuto? Eppure, voleva vederla di nuovo. Voleva sperare ciecamente che si fosse salvata, che avrebbero avuto una seconda occasione. Altre lacrime di rabbia gli scesero lungo le guance e non fece niente per bloccarle. Non sapeva nemmeno se fosse giusto piangere per lei.
Qualcuno lo strattonò da dietro.
Atsuya lo afferrò cingendogli il corpo con entrambe le braccia e lo trascinò lontano dal pendio con tutta la forza che aveva. Non era molta, ma Shirou non oppose alcuna resistenza, anzi si abbandonò a lui. Prima di sparire, Fuyumi lo aveva privato di ogni voglia di lottare. Perché farlo? E contro cosa? Chiuse gli occhi, stringendoli così forte da vedere macchie indistinte sotto le palpebre, e trovò una sorta di sollievo in quel buio, almeno finché Atsuya non lo lasciò cadere bruscamente nella neve. L’impatto non fu dolce e lo costrinse a muoversi, frastornato dal freddo. Atsuya non gli lasciò il tempo di riprendersi prima di iniziare ad inveire contro di lui.
-Avevo ragione! Te l’avevo detto, io te l’avevo detto dal principio! Nessuno ci accetterà mai, non troveremo mai un posto dove stare! Nessuno… nessuno sceglierà di restare con noi perché ci ama- gridò.–Avevo ragione fin dall’inizio…! Nessuno… nessuno sceglierà te… o me…- Le parole rabbiose furono soffocate dai singhiozzi. Atsuya si asciugò con furia le lacrime con il dorso del braccio, poi fulminò il fratello con occhi pieni di rancore e tristezza. Shirou si costrinse a sostenere quello sguardo.
Gli pareva fosse passato un tempo interminabile dall’ultima volta che si erano guardati così, faccia a faccia, eppure non era cambiato niente: il volto di Atsuya era ancora uno specchio del proprio, i suoi lineamenti erano una mappa familiare, in cui si riconosceva ora più che mai. Non riuscì a provare un vero sollievo, perché subito dopo realizzò che Atsuya non aveva sentito le parole di Fuyumi. Atsuya non sapeva che Fuyumi aveva scelto qualcuno. Sussurrando quelle parole soltanto a Shirou, ancora una volta Fuyumi aveva escluso Atsuya, aveva voluto egoisticamente stabilire un legame soltanto con Shirou. E, ora che se n’era andata, aveva lasciato soltanto a lui il peso di quell’orribile segreto. In quel momento, Shirou decise che Atsuya non avrebbe mai dovuto scoprirlo, che nasconderglielo era l’unico modo per proteggerlo. Tuttavia, non era questo a fargli male. Proteggere Atsuya non era mai stato un peso per lui.
Le sue parole di accusa, invece, spezzarono un blocco dentro di lui e liberarono una furia cieca che non aveva mai pensato di poter provare. Era come se tutta la sua profonda infelicità fosse confluita in rabbia verso Fuyumi, verso Atsuya e verso sé stesso. La gola gli bruciava ad ogni respiro, non si fidava della propria voce, ma allo stesso tempo sentiva il bisogno di urlare tanto quanto il fratello, di sovrastarlo con la propria voce.
In preda alla collera, Shirou affondò una mano nella neve e la scagliò in faccia al fratello. Atsuya indietreggiò istintivamente con un grido di sorpresa, preso alla sprovvista. Approfittando della sua confusione, Shirou si alzò in piedi, gli si avvicinò tanto da pestargli quasi i piedi e poi gli diede uno spintone. Atsuya barcollò ed aprì bocca per protestare, ma Shirou aveva appena cominciato.
-Non dirlo! Non osare dire che nessuno ti sceglierà! Perché io ho scelto te! Tutto ciò che faccio, che ho sempre fatto, è per te, Atsuya! Ho sempre… sempre… Tutto ciò che ho fatto…!
Gridò con tutto il fiato che aveva e, come temeva, la voce lo tradì, spezzandosi. Allora, per frustrazione, diede un altro spintone al fratello e lo fece cadere nella neve: una piccola, insoddisfacente rivincita. Mentre riprendeva fiato, non poté far altro che osservare l’espressione sconvolta di Atsuya. Lo stava fissando ad occhi sgranati, ancora lucidi, rossi e gonfi per il pianto, ma le lacrime si erano bloccate, forse per lo shock.
Nonostante quell’espressione chiaramente ferita, Shirou non aveva alcuna compassione di lui ed era grato a sé stesso di questo. Essere guardati con pietà, lo sapeva bene, era cento volte più doloroso che essere trattati con crudeltà o indifferenza. Loro due non dovevano essere compatiti da nessuno. Qualora l’avessero accettato, avrebbe voluto dire che erano davvero senza speranza, come credevano tutti. Shirou non poteva permettere che anche Atsuya cominciasse a crederci. Per impedirlo, non sarebbe rimasto in silenzio. Avrebbe urlato ancora più forte, sovrastando tutte le altre voci.
-Io ho scelto te, Atsuya. Ho scelto te, fin dall’inizio- ripeté, tremante ma deciso.
Ti prego, ti prego, fa’ che queste parole lo raggiungano, pregò, senza sapere bene a chi chiedere quel favore immenso. Fa’ che lo raggiungano davvero, davvero, questa volta… Solo quando Atsuya cambiò espressione, mostrando finalmente di aver capito, Shirou si lasciò andare ai singhiozzi.
Il vento gelido gli sferzava il viso, raffreddando le lacrime sulle sue guance, ma non se la prese: era certo che stesse cercando di accarezzarlo, di consolarlo. Il vento invernale sarebbe stato sempre un loro alleato, ne era convinto.
Quando avvertì il calore di altre braccia attorno al proprio corpo, un’altra guancia premuta contro la propria, Shirou ricambiò subito l’abbraccio, perdonando e, allo stesso tempo, accettando il perdono da parte del fratello. Affondò le dita nel suo maglione, vi si aggrappò con forza e nascose il volto umido nel suo collo.
-Atsuya… Oh, Atsuya, Atsuya, Atsuya- mormorò tra un singhiozzo e l’altro. Voleva ripetere il suo nome ad alta voce, tante e tante volte. Per ogni volta che lei si era rifiutata di pronunciarlo. Per ogni volta in cui lei aveva scelto Shirou, ma non Atsuya. Il nome che lei non diceva mai, lui l’avrebbe ripetuto fino allo sfinimento, perché alle cose importanti e preziose bisogna sempre dare un nome. E così continuò a chiamarlo a mezza voce, finché quelle sillabe non iniziarono a fondersi in una litania. Solo al quel punto, Atsuya lo interruppe.
-Non piangere, Shirou- sussurrò, sebbene stesse piangendo anche lui. Non tentò di scusarsi o di giustificarsi, perché aveva capito che era già tutto passato e che non avrebbero dovuto parlarne più. –Io sono dalla tua parte. Sarò sempre dalla tua parte, Shirou…
Si tranquillizzarono, pian piano, facendo affidamento su quella semplice, tacita promessa: che avrebbero dovuto continuare a scegliersi a vicenda quando nessuno era disposto a farlo, finché qualcuno, dall’esterno, non fosse apparso per scuotere il loro piccolo mondo.
 
 
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In confronto ai paesaggi di campagna cui erano abituati, Tokyo appariva infinita. Dal terrazzo su cui erano seduti riuscivano a vedere solo una porzione della città, che sembrare estendersi ancora per miglia e miglia. Nonostante l’aria fosse tanto fredda da pungere loro le guance, non era caduto neppure un fiocco di neve sulla città per tutta la mattina.
-Cosa faremo adesso, Shirou?- chiese Atsuya. 

-I soldi che abbiamo non saranno abbastanza per vivere qui a lungo…
Era seduto sul muretto di cinta, affacciato sul vuoto, e dondolava le gambe come un bambino, mentre sgranocchiava delle patatine da un pacchetto rubato in un konbini.
Shirou esalò un respiro e lo osservò trasformarsi in una nuvola bianca.
Quel giorno, dopo aver pianto tutte le loro lacrime, avevano dovuto pianificare la loro vita futura. Di tornare all’orfanatrofio non se ne parlava, perciò avevano fatto l’unica cosa sensata: erano tornati a casa di Fuyumi e l’avevano ripulita da cima a fondo. Avevano preso tutto ciò che potevano. Fuyumi era sempre parsa loro abbastanza benestate, ma scoprirono solo allora quanti soldi avesse davvero: forse per via delle sue ricerche,  (a cui Shirou non voleva nemmeno pensare), guadagnava molto più di quanto avessero potuto immaginare. Una parte considerevole dei soldi se ne era andata con i biglietti del treno per Tokyo, tuttavia era rimasto loro ancora un discreto gruzzoletto.
-Dobbiamo conoscere persone, allargare il nostro giro. Cominciamo a farci conoscere. I soldi basteranno ancora per qualche settimana… e poi troveremo un’altra fonte di guadagno- disse Shirou, calmo. Stava pensando velocemente, ad alta voce.
Atsuya svuotò il pacchetto di patatine, lo capovolse e lo ripulì anche dalle briciole, versandosele direttamente in bocca, poi si ripulì le labbra e il mento con la manica della maglia.
-Mi piace questo piano- replicò.
Shirou si alzò e gli tese la mano. Finché le loro mani fossero rimaste unite, ne era certo, non avrebbe mai perso di vista ciò che era veramente importante. Magari sarebbero anche rimasti in quella città abbastanza a lungo da vedere i ciliegi sbocciare. Atsuya prese la sua mano senza esitazioni, e Shirou gli sorrise.
-Rendiamo un po’ più bianca questa città, Atsuya.

 
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 . 
 
 

 
Note

1 Si chiama stella binaria (in inglese, "binary stars") un sistema di due stelle che orbitano intorno ad un comune centro di massa.

2 Le righe di apertura, scritte in corsivo, non mi appartengono: sono tratte dal testo della canzone “Polaris” di Aimer. Anche se ho scritto la oneshot senza ispirarmi a nulla, a scrittura ultimata ho riascoltato per caso questa canzone e mi sono resa conto che il testo mi ricorda molto Shirou, perciò ho deciso di aggiungerla in fase di revisione. Potete sentirla qui su youtube e attivare i sottotitoli italiani.

Piccola playlist di ost consigliata:

            1. Snow sonata - Reve
            2. Prayer in the winter - Yang Su Hyeok
            3. Our End Moment - 네이비 (NAVY)

            4. Beyond the snow/Staff roll (I am Setsuna OST)
 

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Capitolo 2
*** ribcage poetry ***


Grazie a RaffyRen97 e Shinkocchi_ per avermi fatto da beta.
 
ribcage poetry
~Yagami Reina~
 
 
China sopra di lei c’era una spiga di grano. Siccome era molto più alta rispetto a lei, sembrava guardarla dall’alto in basso, chiedendole, Cosa ci fai qui?, poco prima che un filo di vento la facesse ondeggiare su e giù, di qua e di là. Reina non sapeva cosa rispondere.
Poco prima, ne era certa, si era addormentata in veranda. Stava leggendo un libro illustrato e colorando diligentemente le figure bianche e nere, stesa a pancia in giù sul parquet, con una matita colorata dietro l’orecchio e le altre sparse in giro sul pavimento. Sua madre la rimproverava sempre quando la beccava a dormicchiare là per terra, eppure Reina non poteva rinunciarci: aveva imparato che, subito dopo l’ora di pranzo, il sole si spostava da quel lato della casa ed inondava di luce e calore la veranda, trasformandola nel luogo più piacevole del mondo. Proprio in quell’ora, quell’angoletto del loro giardino illuminato dal sole attirava anche degli uccellini, che venivano là per sonnecchiare e scaldarsi; un altro dei motivi per cui quello era il posto preferito di Reina.
Quindi, cosa ci faceva lei, adesso, in mezzo ad un campo di spighe dorate?
Si guardò intorno: quel posto le ricordava la loro casa di campagna, solo che non c’era la casa, né l’orto di suo padre... C’era soltanto il grano, che ondeggiava col vento. Sopra di loro si estendeva un cielo grigio, no, bianco sporco, no... Reina arricciò le labbra. Esiste un colore così… incolore? La sua mente non riusciva ad afferrare il concetto di un colore-non-colore. Può il cielo essere trasparente come l’aria? In quel posto tutto... non era. Non c’erano nemmeno i suoni, né la sua voce, né quella del vento. Riusciva, invece, non sapeva come, a vedere l’aria.
L’aria era fluida come acqua. Reina era stata una volta in piscina coi propri genitori, e sua madre le aveva insegnato a mantenere il fiato sott’acqua. Il ricordo riaffiorò in lei proprio in quel momento, perché l’aria era uguale all’acqua, quando scendi giù e spalanchi gli occhi e vedi tutto ondulato e non ci sono suoni. Reina tornò a guardare in su. Ora che la osservava meglio, la spiga sembrava più triste che altro; forse per questo si era incurvata. Forse non amava stare sott’acqua. A quel punto, Reina decise che era tutto un sogno: ecco com’era arrivata fin lì dalla veranda di casa sua. Si girò, scrutò la zona in punta di piedi e poi si incamminò nella direzione in cui credeva ci fosse il loro curatissimo orto. Avere solo nove anni non significava essere una sprovveduta e, anche se non c’erano stelle, Reina era sicura di saper ritrovare la strada di casa.
In realtà, la casa non la trovò, ma vide i suoi genitori. Stavano entrambi fermi in mezzo al grano e fissavano in giù, esattamente come le spighe. Quando Reina si avvicinò, provò a chiedere loro di riportarla a casa, ma loro non si mossero. Forse non l’avevano sentita. Mentre loro continuavano a fissare il terreno in totale silenzio, il vento si sollevò sempre di più, fino a travolgere il campo di grano come la marea e li fece ondeggiare insieme alle spighe. Ben presto, la marea si ritirò e i due adulti scomparvero in un vortice di fili dorati. Reina restò da sola, coi piedi ben piantati per terra.
 
xxx
 
«Chi vorrebbe mai tenere con sé una bambina come quella?».
Sebbene fosse stata bisbigliata, la domanda raggiunse perfettamente tutti i commensali a tavola. Subito dopo aver offerto le proprie condoglianze, gli invitati avevano passato la mattinata a bere e mangiare, e l’intera casa degli Yagami si era riempita di un solo colore, il nero, una grande macchia di inchiostro in continua, inesorabile espansione. Quando i primi bisbigli cominciarono a sollevarsi intorno alla tavola, tutti rallentarono i propri movimenti in modo da poter prestare orecchio alla conversazione, pur senza smettere di servirsi.
«Dicono che, poco prima della loro morte, avesse cominciato a dire delle cose terribili. È come se lei, la bambina, avesse portato loro sfortuna!».
«Stupidaggini! Io, lo sai, sono sempre stato un uomo ragionevole. Ma come potrei accogliere quella bambina chiacchierona e bugiarda nella mia casa?».
Mentre gli adulti parlavano male di lei, Reina se ne stava da sola in disparte, seduta a terra in posizione seiza, con un piattino di ceramica in grembo. Nonostante non avesse tanto appetito, stava spiluccando il riso da alcuni tamago-nigiri che aveva trafugato dal buffet poco prima che la stanza si riempisse. Ogni tanto, mentre prendeva un chicco di riso alla volta e se li portava alla bocca in totale silenzio, una lacrima le cadeva nel piatto. La foto dei suoi genitori che era stata utilizzata per la cerimonia giaceva accanto a lei, appoggiata al muro, e ancora adesso non riusciva a guardarli negli occhi.
 
xxx
 
(Pazza. Bugiarda.
Devi stare zitta e ascoltare.
                     Comportati da signorina.                      
Disgraziata.
Mio padre è morto per colpa tua!                                          
Vuoi attenzione, forse?!
Porti sventura. Porti sventura.)
 
xxx
 
La persona che era venuta a prenderla aveva l’aria di non voler restare molto in quella casa. Gli zii avevano parlato tanto di quella persona nell’ultima settimana: era stato l’argomento più discusso con parenti, amici e vicinato, anche se, naturalmente, a essere raccontata era una versione migliorata della storia. In teoria, era andata così: un sabato mattina, di punto in bianco, quella persona aveva telefonato e aveva chiesto di Reina. Il problema era che nessuno chiedeva mai di Reina. Studiava privatamente, a casa, e pochi nel vicinato aveva scambiato due parole con lei da quando era arrivata. Gli zii si erano premurati di rendere la sua esistenza il più insignificante possibile, così che nessuno avrebbe fatto domande su quella ragazzina che tutto il parentado si era scambiato per anni e anni, spedendola di qua e di là come un pacco postale, o un regalo natalizio che non piace a nessuno.
Tuttavia, quella persona, che sembrava essere piuttosto importante, sapeva dell’esistenza di Reina. Ed era persino disposta a prenderla nella propria “scuola per ragazzi speciali”.
La mattina dell’appuntamento, lo zio e la zia aspettarono l’ospite nell’ingresso di casa. Troppo nervosi ed indiscreti per distrarsi con altri servizi, lui fingeva di leggere il giornale, lei di fare la calza; e, anche se non si sentiva volare una mosca, di certo nelle loro menti c’era un gran lavorio.
Da parte sua, Reina aveva già fatto i bagagli da un pezzo e teneva d’occhio la strada dalla finestra della sua camera. Non appena vide un’auto sostare davanti alla casa, scese nell’ingresso. Traslocare da un posto all’altro non era una novità per lei, e certamente non aveva mai nutrito sentimenti di eccitazione o aspettative al riguardo. In questo caso, però, era incuriosita da quella persona. Si mise in un angolo, in disparte, e gli zii non la notarono neanche. Anche loro si erano accorti che l’ospite tanto attesa era arrivata e si affrettarono a mettere via tutto. Aprirono la porta con foga ancora prima che venisse bussato il campanello.
Davanti a loro c’era una donna giovane, ma sicuramente già adulta. Gli zii la fecero entrare e le offrirono del tè, ma la donna non sembrava apprezzare tutta quell’attenzione, perciò in breve tempo si passò dai convenevoli alle domande. Mentre gli adulti parlavano, Reina rimase a distanza, senza però perdersi un attimo del serrato interrogatorio. Il nome della donna era Kira Hitomiko. No, non era sposata. No, non insegnava da molto. Sì, veniva da Tokyo. La signorina Kira era molto riservata, fredda come un mattino d’inverno, e questo fu tutto ciò che gli zii riuscirono a cavarle di bocca.
Finalmente arrivò la fatidica domanda.
«Kira-san, sono terribilmente spiacente di doverlo chiedere, ma… Credo che dovremmo discutere dei costi» disse infatti lo zio. Non sembrava affatto dispiaciuto. La moglie, invece, appariva piuttosto imbarazzata della schiettezza del coniuge e evitava di sollevare lo sguardo dal pavimento. Ma la signorina Kira rimase impassibile.
«Come le ho già anticipato per telefono, la ragazza non dovrà pagare alcuna retta. L’unica cosa che dovrà fare è frequentare la nostra scuola, e le garantisco che ci occuperemo di lei al meglio. Vitto e alloggio sono inclusi, naturalmente».
Reina la fissò, sorpresa, poi azzardò un’occhiata verso gli zii. Era ovvio che avevano accolto la notizia con sollievo. Avrebbero forse acconsentito a pagare una retta, se fosse stata modesta, ma non avevano molti soldi da parte. Onestamente sembrava un affare troppo buono per essere vero. Reina tornò a guardare la signorina Kira e, per un momento, i loro occhi si incrociarono. La donna mantenne il contatto visivo per una manciata di secondi, poi si girò nuovamente verso gli altri.
«Se lo desiderate, vi terrò aggiornati sulle condizioni della ragazza» disse. Estrasse dalla tasca della propria giacca un biglietto da visita e lo offrì allo zio. «Qui ci sono tutti i nostri contatti. Sarà anche possibile chiamare per telefono la ragazza ogni due settimane».  
Marito e moglie si scambiarono uno sguardo discreto, ma eloquente.
«Lo terremo presente-» disse lui con un sorriso. «Ma sono certo che vi prenderete cura di lei... Sì, sono certo che questa sistemazione sarà la soluzione migliore per tutti». Intascò il biglietto, ma era chiaro che non aveva alcuna intenzione di chiamare.
«Tesoro, vai a chiamare la ragazza» aggiunse, e la zia annuì. Girandosi, si accorse finalmente di Reina e sussultò come se non si aspettasse di trovarla lì. Non era la prima volta che capitava. La zia si portò una mano alla fronte e sospirò, esasperata. 
«Oh cielo, da quanto sei lì in silenzio? Vieni qui, vieni, cara» le disse, esitante. Quando Reina si avvicinò, trascinando con sé i propri averi, la zia la scrutò per qualche istante. Poi la superò, andò all’appendiabiti e prese un giubbino nero, imbottito; lo diede a Reina.
«La tua giacca è troppo leggera per questa stagione, e come farai per l’inverno? Non ho avuto il tempo di comprartene una nuova... Prendi questo con te, non c’è bisogno che me lo restituisci» bofonchiò a capo chino, e Reina intuì che nessuno di loro tre si illudeva che si sarebbero più rivisti. Chinò la testa in segno di gratitudine, poi uscì con la signorina Kira.
Attraversarono il vialetto che divideva in due il cortile ed entrarono in una monovolume color ocra. Partirono subito.
Per un po’, nessuna delle due aprì bocca: la signorina Kira guardava la strada davanti a sé, mentre Reina cercava di allentare la tensione fingendosi interessata al paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Amareggiata, si accorse presto che non riconosceva nessun posto, nessuna strada: aveva vissuto in quel quartiere per quasi due anni, ma non lo conosceva affatto.
Fu la signorina Kira a rompere il ghiaccio, o almeno ci provò.
«Non ci siamo ancora presentate, tu e io. Il mio nome è Kira Hitomiko, ma puoi chiamarmi per nome» disse, senza distogliere gli occhi dalla strada. Tacque per un momento.
«Ora, se apri il cassetto di fronte al tuo posto, troverai una lettera. Lì c’è tutto quello che devi sapere, per il momento».
Reina eseguì le istruzioni e trovò la lettera, chiusa in una busta gialla. Cercò di non mostrarsi troppo interessata, ma in realtà quella lettera aveva tutta l’aria di essere la cosa più emozionante che le fosse mai capitata. La rigirò tra le dita un paio di volte, indecisa sul da farsi. Hitomiko si accigliò.
«Be’, che aspetti? Aprila» la incoraggiò. Reina scosse il capo.
«No... Mi scusi, ma a leggere in auto mi verrebbe la nausea» replicò sommessamente. Hitomiko parve sorpresa di sentirla parlare.
«È la prima volta che sento la tua voce. Sono sollevata» disse. Reina si accorse che la donna stava sorridendo.
«Io sono… Yagami Reina» mormorò. Anche se Hitomiko lo sapeva già, Reina aveva sentito il bisogno di dirlo, per non lasciare in sospeso la conversazione. Hitomiko annuì, sempre con un sorriso. Sul parabrezza dell’auto cominciarono a cadere alcune gocce di pioggia, che via via divenne più fitta. A suo agio nel silenzio che era nuovamente calato nella macchina, Reina seguiva con lo sguardo il cammino delle gocce lungo il finestrino. Alle elementari aveva imparato una canzone sulla pioggia, com’è che faceva? Era passato tanto tempo. Le gocce picchiettavano contro i vetri come picchi, e Reina resistette all’impulso di tracciare i loro percorsi con un dito. Strinse forte la lettera al petto, come se qualcuno potesse sottrargliela da un momento all’altro.
 
xxx
 
La scuola dove Hitomiko insegnava non sembrava per niente una scuola.
Si trovava in mezzo a una radura, alle cui spalle si estendeva un piccolo bosco; dal momento che gli alberi erano ormai spogli, guardando tra i rami s’intravedevano in lontananza delle recinzioni, che forse delimitavano un cortile. L’edificio era una specie di cilindro di cemento, alto circa tre piani, ognuno dei quali aveva diverse finestre a pannelli trasparenti. L’ingresso era sormontato da un porticato di cemento armato.
Hitomiko parcheggiò la monovolume nello spazio davanti alla scuola, tra ceppi di alberi tagliati di netto. La donna aspettò che Reina uscisse dall’auto e prendesse tutti i suoi bagagli prima di incamminarsi verso l’entrata. A Reina non restò che seguirla, affrettandosi per non trovarsi sola in un ambiente sconosciuto. Le foglie cadute si erano ammucchiate sul terreno, probabilmente sospinte dal vento, e scricchiolavano sotto le scarpe. Quando Reina la raggiunse sotto il porticato, Hitomiko tirò fuori una tessera dalla tasca della giacca e la premette contro un pannello elettronico sulla parete. La porta a scorrimento si aprì automaticamente. Reina seguì Hitomiko all’interno.
Appena entrate, svoltarono a destra e sbucarono in un corridoio tappezzato di quadratini blu, azzurri, bianchi e gialli, disposti a mosaico per creare delle figure geometriche. Non incrociarono nessuno lungo la strada; forse erano tutti a lezione?
Dopo un po’ Reina vide una porta grigia alla fine del corridoio e immaginò che dovesse essere l’ufficio di Hitomiko. A conferma di ciò, la donna andò spedita verso la porta e la aprì senza bussare; poi, una volta dentro, si tolse la giacca e la sistemò su un appendiabiti a muro. Invitò Reina a fare lo stesso, ma la ragazza scosse il capo mentre osservava silenziosamente la stanza.
Era un ufficio modesto, molto semplice. In fondo alla stanza, proprio davanti alla finestra, c’era una sottile scrivania di metallo, girata in modo da poter godere della luce naturale fino all’ultimo istante. Lo sguardo di Reina scivolò sui pochi oggetti presenti: una tazza con tre penne, un pennello per calligrafia e delle matite con la punta finemente temperata; una boccetta d’inchiostro sigillata; una pila ordinata di fogli puliti; un portafoto di legno ovale, voltato verso la finestra. Reina spostò lo sguardo sulla propria destra. Una pergamena battuta a macchina era stata incorniciata con cura e, al di sotto, un tozzo mobiletto azzurro era stato incastrato in un angolo: attraverso le vetrinette opache, chiuse con un lucchetto, si riusciva a intravedere il dorso dei libri conservati al suo interno. Avevano l’aria consumata, come se fossero stati letti e maneggiati più volte. Al lato del mobile, c’era un ragazzo stravaccato su un divano blu a due posti. Per via della posizione, la felpa gli era salita un po’ sulla pancia, lasciando visibile una striscia di pelle scura proprio sopra la vita dei pantaloni.
La presenza di una terza persona era qualcosa a cui Reina non era preparata, e d’istinto fece un passo indietro. In quel momento il ragazzo alzò la testa verso di lei e, quando i loro occhi si incrociarono, si raddrizzò di colpo, quasi mortificato per lo stato in cui l’avevano trovato. I capelli bianchi gli ricaddero sul viso e coprirono gli occhi. Aveva un aspetto alquanto insolito, per cui Reina non poté fare a meno di fissarlo, finché non si rese conto che era scortese e abbassò lo sguardo a sua volta. Non sapeva come comportarsi con quel ragazzo, perciò esitava a sedersi accanto a lui.
Hitomiko, intanto, si era accomodata su una sedia girevole, dietro la scrivania. Non sembrava aver notato lo scambio di sguardi tra i due ragazzi, o forse non le interessava; si accorse, tuttavia, dell’esitazione di Reina.
«Qualcosa non va, Yagami?» chiese, accigliata.
Reina strinse le labbra.
«No» rispose. Mostrarsi debole il primo giorno non era una buona idea, e a lei non erano concesse false partenze. Questa era la sua unica possibilità di cambiare la sua vita, non poteva sprecarla. Perciò si sganciò lo zaino dalle spalle e si sedette accanto al ragazzo, stringendosi quanto più possibile nell’angolo opposto del divano. Era impossibile non accorgersi che lo stava evitando, ma il ragazzo non disse nulla. Sembrava essersi irrigidito.
«Per cominciare, Yagami, vorrei che leggessi quella lettera» disse Hitomiko, pacata.
Reina annuì e, anche se perplessa, aprì la busta. Dentro c’era un solo foglio, scritto molto fitto. Lo lesse con molta attenzione, con la speranza di trovare le risposte che cercava, ma, al contrario, il contenuto la confuse ancora di più.
«Non capisco» mormorò alla fine, abbassando il foglio. Hitomiko la guardava. Reina capì che quello era il momento di fare domande, e che forse non ce ne sarebbero stati molti.
«Questa non è una scuola, vero?».
«Non proprio, no. Ma, in un certo senso, è come una scuola. Parteciperai alle lezioni con altri ragazzi come voi e ti saranno insegnate varie cose. Sarò io la vostra insegnante».
«Lei è una...», Reina abbassò lo sguardo sulla lettera, esitante, «...Spy Eleven?» Corrugò la fronte. Sembrava inglese, forse aveva sbagliato la pronuncia.
Hitomiko scosse il capo.
«No, sono solo alle dipendenze di una Spy Eleven. Ma affronteremo più in là questo discorso. Se hai altre domande riguardo alla scuola, invece, risponderò adesso».
Reina si fermò a riflettere. Nel frattempo, il ragazzo accanto a lei alzò la mano, come se volesse dire qualcosa. Hitomiko gli fece un cenno col capo.
«Non siamo a lezione, puoi parlare liberamente» disse. Lui abbassò la mano, imbarazzato.
«Ah, mi scusi, Hitomiko-san, volevo chiederle... a proposito di Saginuma-san… Si trova anche lui qui?» domandò, speranzoso.
«Saginuma in questo momento non è qui. È partito ieri per occuparsi di alcuni affari importanti in Hokkaido. Prima di partire, però, mi ha spiegato qual è la tua situazione, Zell». Quando Hitomiko lo chiamò per nome, Zell ebbe un sussulto quasi impercettibile, di cui Reina si accorse solo perché erano seduti vicini. Poi il ragazzo sprofondò nel divano, imbronciato. Sembrava molto contrariato da quella risposta.
«Fin quando Saginuma non sarà di nuovo libero, dovrai restare qui, sotto la mia supervisione. Ma avremo modo di approfondire questo discorso, insieme a quello sulle Spy Eleven, ve lo prometto. In un certo senso, le cose sono correlate» continuò Hitomiko, imperterrita.
«Se non ci sono altre domande, vorrei parlare della seconda parte della lettera. Yagami, immagino che, prima di oggi, tu non abbia mai sentito parlare dei drifter e dei doni».
Non appena Reina annuì, Hitomiko si lanciò in una breve, ma esaustiva, spiegazione su cosa fossero i doni e i drifter, e a cosa servisse quella scuola...
Solo allora Reina capì perché la sua vita era stata segnata da tanta sventura. Aveva ricevuto un dono, no, una maledizione. Per anni si era chiesta cosa avesse fatto di male per meritarselo, ma la verità era che non aveva fatto nulla. Lei quel potere non l’aveva mai chiesto, né voluto, e se ne sarebbe volentieri liberata. Ripensò ai suoi genitori, e le venne quasi da vomitare.
Sussultò sentendo un leggero tocco sulla spalla.
«Ehi, stai bene? Sei impallidita di colpo» le bisbigliò Zell. Sembrava preoccupato per lei. Reina deglutì, non sapeva come rispondere. Forse doveva vomitare davvero. Si premette le mani sulla bocca. A quel punto, anche Hitomiko notò che qualcosa non andava e interruppe la spiegazione. Senza dire nulla, si alzò, fece il giro della scrivania e si chinò verso di lei.
«Yagami? Ascoltami bene. Inspira a fondo, espira lentamente. Non pensare a niente» le disse, e cominciò a massaggiarle la schiena con inaspettata dolcezza. Reina provò a liberare la mente ed eseguire quelle semplici istruzioni.
«Zell, nel cassetto ci sono delle buste di carta. Ne prenderesti una?» Sentì Hitomiko parlare sopra la sua testa, e con la coda dell’occhio vide Zell alzarsi, andare alla scrivania e tornare indietro. Hitomiko aprì la busta e la premette gentilmente sul viso di Reina.
«Respira qui dentro» le disse. «Andrà tutto bene. È solo un piccolo attacco di panico».
Sembrava abituata a gestire quel tipo di situazioni.
Reina la lasciò fare e, pian piano, riuscì a riprendere il controllo di sé. Zell era ancora in piedi davanti a loro, e fino alla fine Reina si concentrò sui lacci delle sue scarpe, su nodi e intrecci: grazie a quella distrazione, riuscì a scacciare la nausea.
Sollevò una mano tremante e la chiuse attorno al polso di Hitomiko. La donna capì al volo e allontanò il sacchetto dalla sua bocca, continuando però a massaggiarle la schiena con l’altra mano. Reina tirò due lunghi respiri prima di parlare.
«Hitomiko-san...» La voce le uscì spezzata e tremula, e lei la odiava. «Quella cosa, quello che io faccio... non è un dono, non lo è, non è utile a niente... Io, io non dovrei essere qui...!».
Stupida!, gridò la voce della ragione, nella sua testa. Ora ti cacceranno e non avrai più un posto dove stare!
Ma cosa importa?, pensò poi, sconsolata. Non potrò mai usare il mio potere in un modo utile. Non so come fare. Fallirò ancora prima di cominciare.
«Credo che ci sia stato un equivoco, Yagami. Non siamo qui per sfruttare i vostri poteri, quindi non importa che sia “utile” o meno. Questo posto esiste per addestrare i drifter e tenerli al sicuro dal mondo esterno» disse Hitomiko. «Vogliamo soltanto aiutarvi, così che possiate avere un futuro».
Reina alzò il viso di scatto e, con suo grande stupore, le parve di vedere un’espressione tenera sul volto di Hitomiko. Le diede il coraggio di azzardare una domanda che altrimenti non avrebbe mai fatto.
«Quindi… vado bene così? Posso... restare?».
«Certo che sì» rispose subito Hitomiko.
Anche se i suoi dubbi erano ben lontani dall’essere risolti, Reina si sentì inondare dal sollievo e dalla gratitudine. Mormorò un ringraziamento molto sentito, soffocato dall’emozione, e abbassò di nuovo lo sguardo. Un rossore le imporporava le guance. Adesso si sentiva molto in imbarazzo per come aveva reagito.
A quel punto Zell tornò a sedersi e Hitomiko decise che era meglio cambiare argomento. Cominciò a spiegare loro come funzionava il centro.
«Durante la vostra permanenza qui, questa sarà anche la vostra casa: vi allenerete qui, mangerete qui, dormirete qui. I ragazzi e le ragazze saranno divisi in due diversi dormitori. Non avrete camere singole» li informò Hitomiko.
In verità Reina sperava che fosse possibile fare un’eccezione, ma non ci fu il tempo di soffermarsi sulla questione perché in quel preciso istante qualcuno bussò alla porta. Reina aveva i nervi così a fior di pelle che sobbalzò come un gatto a cui è stato pestato la coda. Zell, invece, si girò verso la porta con un’aria interrogativa, come a chiedersi che altro stava succedendo. Hitomiko sbirciò rapidamente l’orologio da polso.
«Oh, bene. Ottimo tempismo» commentò con un sorriso compiaciuto, poi alzò la voce.
«Entrate, entrate, vi stavo aspettando».
A quel punto la porta dell’ufficio si aprì ed entrarono due ragazze. A una prima occhiata, Reina pensò che dovevano essere sue coetanee e, dalla sua posizione sul divano, le studiò con attenzione.
La più alta delle due appariva anche come quella più matura, sia per i vestiti, sia per l’atteggiamento. Il viso, già grazioso di suo, era reso ancora più adorabile dalla massa di boccoli rosa che lo incorniciava, in contrasto con la pelle scura. Indossava una gonna rosso vino, lunga fino alle caviglie, e un dolcevita nero con un maglione di pelo rosa.
La sua compagna, invece, sembrava essere uscita direttamente da un manga di streghette.
Portava una spumeggiante gonna verde con tanti veli e calze a righe viola e nere; quanto alla parte superiore, sotto una t-shirt bianca col disegno di un gatto spuntava una maglia viola, a maniche lunghe, fin troppo rispetto alle braccia: per questo le mani della ragazza sparivano al loro interno. I suoi capelli verde acqua erano striati di bianco e legati in due cipollotti alti. Di certo si faceva notare, anche se per motivi del tutto diversi rispetto all’altra.
La streghetta si accorse di essere osservata e si girò. Prima che Reina potesse distogliere lo sguardo per l’imbarazzo, il viso dell’altra si aprì in una grande sorriso. Reina provò a ricambiare, ma probabilmente il risultato fu più simile a una smorfia.
Intanto, Hitomiko riprese la parola.
«Fumiko, Sumeragi. Grazie di essere venute» disse. «Avete fatto ciò che vi avevo chiesto?».
La ragazza dai capelli rosa rispose per prima, rapidissima: «Sì, Hitomiko-san!».
L’altra si girò in fretta verso Hitomiko e annuì con vigore.
«Hitomiko-san, questa è la ragazza di cui ci ha parlato?» chiese, eccitata. Hitomiko annuì e il viso della ragazza si illuminò. Si avvicinò al divano e si chinò verso Reina per osservarla meglio. Reina si allontanò di scatto, infossandosi nello schienale del divano, ma l’altra non si offese minimamente.
«Cavoli, sei davvero carinissima» esclamò senza peli sulla lingua. Reina non ebbe il minimo dubbio che lo pensasse davvero. Bastava guardarla negli occhi, e i suoi in quel momento sembravano brillare. Ancora una volta, Reina abbassò lo sguardo e ringraziò a bassa voce. L’altra le rivolse un sorriso, se possibile, ancora più luminoso di quello di prima.
«Sono Sumeragi Maki, ma puoi chiamarmi Maki! Tu sei Reina-chan, vero?». Maki liberò la mano sinistra dalla manica e gliela porse. Reina la strinse. Sentire il proprio nome seguito da un suffisso così carino la colse alla sprovvista: l’ultima volta in cui qualcuno l’aveva chiamata così risaliva alle elementari. Decise di non correggerla, perché essere chiamata così non le dispiaceva. In un certo senso, però, questo consolidò la sua idea che Maki fosse un po’ infantile, o che le piacesse comportarsi come tale.
«Yagami, loro sono le tue compagne di stanza. Ho chiesto loro di preparare la camera per il tuo arrivo. In questi primi giorni ti faranno anche da guide all’interno del centro, quindi se hai delle domande non esitare a fargliele» disse Hitomiko.
«Ti aiuto a portare i bagagli! Puoi darmi la tua borsa, se vuoi» propose Maki. Reina gettò un’occhiata veloce alla propria roba, poi scosse il capo.
«Ah, grazie, ma ce la faccio da sola» replicò. Si sentiva più a suo agio così. Maki la guardò con un’espressione perplessa.
«Eh? Sicura? Guarda che non è un problema, ti assicuro!» esclamò.
Ma Reina non si lasciò persuadere. Si alzò in piedi, mise lo zaino in spalla e indossò a tracolla la borsa, poi incastrò il giubbino tra la tracolla e il proprio corpo. Era pronta a andare. Maki sembrava divisa tra ammirazione e desiderio di insistere, ma in quel momento la ragazza coi capelli rosa decise di intervenire.
«Ora basta, Maki, la stai mettendo in imbarazzo» disse, arricciando le labbra in un broncio e incrociando le braccia al petto. Le sue parole sortirono un effetto immediato.
«Ah, ehm, davvero? Non era mia intenzione!» esclamò Maki. «Perdonami, Reina-chan. Se ne sei così sicura, non dirò altro!». Unì le mani come in una sorta di preghiera e le rivolse uno sguardo un po’ mortificato. Ricordava un cagnolino triste dopo essere stato rimproverato. In un certo senso, faceva tenerezza.
«Non c’è niente da perdonare. So che hai buone intenzioni» disse Reina. Finalmente riuscì a rilassarsi e sorridere, e il volto di Maki si illuminò di nuovo.
«Aw, allora andiamo, okay? Ti porto a vedere la nostra camera e poi facciamo un giro del centro, okay? E poi andremo a pranzo insieme, oggi c’è il budino di riso e non vedo l’ora perché qui lo fanno buonissimo e…».
«Sì, sì, Maki, però mentre la bombardi di informazioni cominciamo ad incamminarci. Se facciamo tardi in mensa, puoi dire addio al budino di riso- la interruppe l’altra ragazza con un mezzo sorriso. Maki si coprì la bocca con una mano.
«Ooops! No, no, andiamo! Buona giornata, Hitomiko-san!» esclamò.
«Buona giornata, Hitomiko-san» fece eco l’altra, più pacata.
Hitomiko ricambiò il saluto e augurò a Reina di ambientarsi presto. Poco prima che uscissero dalla stanza, anche Zell rivolse la parola a Reina.
«Ehi, allora ciao... Ci vediamo in giro» disse.
Reina si fermò a guardarlo. Anche se il ragazzo non sorrideva, non esattamente, la sua espressione calma e gentile offriva un certo conforto. Non aveva esitato un attimo, prima, quando Reina aveva avuto bisogno d’aiuto, e non aveva fatto domande. Nonostante non avesse molta affinità con i ragazzi, Reina pensò che non le sarebbe dispiaciuto affatto rivederlo. 
«Sì, immagino di sì» rispose, chinò leggermente il capo, poi uscì seguendo Maki.
Una volta richiusa la porta alle proprie spalle, la ragazza coi capelli rosa esclamò: «Allora, non ci siamo ancora presentate. Io sono Kii Fumiko. Puoi chiamarmi Fumiko».
Le porse la mano, ma non per stringergliela: nel suo palmo, infatti, c’era una chiave, la cui parte superiore era rivestita da un cappuccio di gomma azzurro. Appena Reina la prese, Fumiko ritrasse la mano, come per evitare il contatto. Reina non si offese.
«Yagami Reina. Puoi chiamarmi come preferisci».
«Potresti chiamarla Reina-chan anche tu!» suggerì Maki. Fumiko alzò gli occhi al cielo.
«Okay, vada per Reina» decise sul momento. Poi si lanciò nelle questioni serie, ovvero l’incarico assegnatole da Hitomiko, e Reina si concentrò sulla lunga spiegazione, in modo da assorbire quante più informazioni possibili.
Camminando passarono sotto diverse arcate e attraversarono due stanze di dimensioni più o meno simili, ciascuna delle quali era occupata da un largo tavolo rotondo e diversi sgabelli con altezza regolabile. Fumiko spiegò che erano delle aree relax, e forse per quello scopo erano state dipinte di colori rilassanti: le chiamavano l’area verde e l’area azzurra. Più avanti c’era la mensa e, a fianco, le scale per il piano superiore, dove c’erano le camere da letto. Per il momento si trattava soltanto di imparare quelle nozioni base. Per il resto, Reina era certa che si sarebbe abituata in fretta: se c’era una cosa di cui andava fiera, quella era la sua capacità di adattamento, anche se non l’aveva certo sviluppata in condizioni ideali.
A preoccuparla maggiormente era il pensiero di dividere la stanza con qualcun altro.
Reina non aveva amici da... be’, da parecchio tempo. Tutte le vecchie amicizie si erano interrotte quando i suoi genitori erano morti; in seguito non aveva potuto formarne di nuove, un po’ a causa dei continui trasferimenti, che le impedivano di mettere radici, un po’ a causa del suo carattere sempre più chiuso e distaccato. In più, la maggior parte dei suoi parenti desiderava nasconderla il più possibile dal mondo esterno, perciò avevano preferito affidarla a insegnanti privati piuttosto che mandarla a scuola.
Ancora non riusciva a farsi un’idea precisa né di Fumiko, né di Maki. Fumiko aveva risposto a tutte le domande di Reina con molta pazienza. Era garbata, ma distaccata e talvolta brusca, e non faceva mai commenti personali, al contrario di Maki. Sembrava che Maki avesse un’opinione su tutto (“Un’altra cosa che devi assaggiare assolutamente è il flan! Si scioglie in bocca, lo adoro!”, oppure “Odio i percorsi a ostacoli, sono la parte peggiore dell’addestramento…”) e non si faceva problemi a esternarle. Fumiko evitava il più possibile il contatto fisico, mentre Maki non poteva fare a meno di invadere continuamente lo spazio personale altrui; il solo concetto doveva sembrarle incomprensibile. Fumiko e Maki erano agli antipodi una rispetto all’altra e, in un certo senso, si bilanciavano a vicenda.
Ma, più di tutte queste cose assieme, a lasciare Reina interdetta era proprio l’entusiasmo di Maki. La riservatezza di Fumiko, quella poteva capirla. Erano simili, loro due. Ma perché Maki era così felice che lei fosse lì? Durante il tragitto dall’ufficio di Hitomiko alla loro stanza, che si trovava al secondo piano, Reina si formò un’idea di Maki come una persona estremamente estroversa, chiacchierona, sempre sorridente, sempre allegra: in una parola, solare. Se da un lato la trovava tenera, dall’altro non riusciva proprio a starle dietro. Anzi, alla lunga si sentì svuotata di energie.
Arrivate alla camera, Fumiko si fermò a cercare la chiave in una tasca della gonna, mentre Maki elencava tutti i colori di smalto per unghie che possedeva. Apparentemente collezionarli era una sua passione.
«Naturalmente il blu ti donerebbe tantissimo, ma forse è una scelta scontata? I tuoi capelli sono bellissimi, a proposito! Ma non per questo dovremmo escludere a priori i colori caldi! Mi fai vedere la tua mano?». La voce di Maki era così assillante che Reina sollevò la propria mano sinistra quasi senza pensarci. Si irrigidì quando Maki la strinse tra le sue e si chinò in avanti con un’espressione molto concentrata, come se stesse studiando accuratamente la mano. Reina la guardò come se fosse pazza.
«Che fate, vi tenete per mano? Entrate o no?» disse Fumiko. Aveva trovato le chiavi ed aperto la porta e ora le stava fissando, ferma sull’uscio, con le mani sui fianchi ed un sopracciglio alzato. Imbarazzata, Reina ritrasse la mano bruscamente. Maki parve un po’ delusa, ma riprese a sorridere come se non fosse successo nulla.
«Hai delle belle mani, con le dita affusolate. Sì, sono certa che anche i colori caldi ti donerebbero. Se vuoi, ti faccio io le unghie, ti va?» suggerì. Reina la guardò, incerta, poi scosse il capo.
«No, grazie, non sono interessata» mormorò. Maki si imbronciò.
«Eeeh? Ma perché?».
«Basta importunarla, Maki. E poi non è il caso di far baccano in corridoio. Visto che è il giorno libero, c’è chi vorrebbe starsene in pace in camera propria» la rimbrottò Fumiko, corrucciata. Poi si rivolse a Reina e la sua espressione si distese.
«Vieni, Reina, ti faccio vedere la camera. Sarai sicuramente stanca e vorrai sistemarti».
Le fece cenno di entrare e si spostò per farle spazio. Reina mise così piede per la prima volta in quella che sarebbe stata la sua camera fino al trasloco successivo.
La stanza in sé non era piccola, ma era chiaro che fosse stata inizialmente pensata per accogliere solo due persone; la mobilia che era stata aggiunta per ospitarne una terza aveva ristretto di molto lo spazio. Sulla parete a destra della porta c’erano un armadio a muro con un’anta sola a scorrimento e una cassettiera di quattro cassetti totali. Sulla sinistra, a pochi centimetri dai piedi di un letto, una porta aperta dava sul bagno. I letti non erano disposti uno accanto all’altro: due erano attaccati ai muri laterali, mentre il terzo era stato infilato nell’unico spazio disponibile, ovvero contro la parete in fondo, sotto la finestra sprovvista di davanzale. Non era difficile capire come fossero assegnati i letti e, soprattutto, quale toccasse a lei. Con la coda dell’occhio, infatti, notò che ai letti delle compagne erano stati affiancati due comodini di ferro che non c’entravano assolutamente niente con l’arredamento e, tuttavia, scoppiavano di personalità. Bastava un’occhiata per capire chi fossero le proprietarie: su quello di Maki erano allineate tutte le boccette di smalto di cui aveva appena finito di parlare e una lima per le unghie. Fumiko, invece, aveva poggiato sul suo alcuni bigodini e uno stick di lucidalabbra rosa. Nella camera le uniche sorgenti di luce erano quella finestra e un lampadario rotondo. Al centro della stanza, sul pavimento, c’era un largo tappeto rosa dalla forma ovale.
«Purtroppo non abbiamo un comodino in più per te, ma abbiamo svuotato il primo cassetto di questa e parte dell’armadio». Fumiko aprì la cassettiera e l’armadio per mostrarli a Reina. «Vuoi una mano a sistemare le cose?».
«Ah, non importa, non ho molta roba» replicò Reina. Attraversò la stanza e poggiò la borsa a terra, poi si sfilò lo zaino dalle spalle e cominciò a svuotarlo.
«Se per te non ci sono problemi, dormirai qui» disse Fumiko e, come Reina già sospettava, le indicò il letto sotto la finestra.
Reina annuì mentre tirava fuori dallo zaino una felpa sportiva e le cuffie attorcigliate, ancora attaccate al lettore CD. Non aveva mai potuto avere un telefonino, ma la zia le aveva regalato un vecchio lettore CD che non usava più e, siccome ogni mese le dava una sorta di paghetta da spendere come meglio credeva, Reina si era procurata da sola qualcosa da ascoltare. Si trattava, per la precisione, di un solo CD di musica classica contemporanea. Quando il mondo cominciava ad essere troppo stressante, o i ricordi della sua infanzia riaffioravano impedendole di dormire, ascoltare la prima traccia, Brielle, riusciva sempre a tranquillizzarla. Era come un incantesimo. Per paura che la magia sparisse, non aveva mai cercato informazioni sull’autore del brano, ma si era promessa di farlo, un giorno. Dopo aver messo la felpa nel cassetto a lei assegnato, vi appoggiò sopra, con cura, il lettore CD, lasciando accanto le cuffie arrotolate. E solo quando fu certa che tutto fosse in ordine e al sicuro, proseguì nel disfare i bagagli.
Intanto, Fumiko si era seduta sul proprio letto e aveva tirato fuori dal comodino un piccolo contenitore a forma di mela. Rimosse il coperchio, infilò dentro un dito e raccolse una generosa quantità di quella che sembrava crema per le mani. Un dolce profumo si diffuse in quell’angolo della camera mentre Fumiko si spalmava la crema sulle mani.
«Questo freddo mi rende la pelle secca» si lamentò. «Non sopporto le stagioni fredde!».
«Ah, come ti capisco! Voglio il sole, i fiori, l’estate! Certo, anche l’autunno ha dei colori meravigliosi, ma l’inverno no» commentò Maki. Si lasciò cadere sul letto opposto a quello di Fumiko e cominciò a maneggiare le boccette di smalto.
Da quel momento in poi, Reina smise di seguire la conversazione, o meglio si concentrò soltanto su quello che stava facendo, riducendo automaticamente il chiacchiericcio a rumori di sottofondo. Le due ragazze continuarono a chiacchierare per tutto il tempo. Con sua grande sorpresa, Reina scoprì che non le dispiaceva affatto avere compagnia.
 
xxx
 
Quella notte, Reina si svegliò di colpo, col respiro corto e il cuore che sobbalzava nel petto.
Ancora inseguita dalle voci dei suoi parenti, rimase sveglia per un po’ a fissare il soffitto. Questo era il problema di essere sveglia nel cuore della notte: aver paura di riaddormentarsi e fare sogni peggiori. Nel silenzio e nel buio della stanza, intuì dal picchiettio contro i vetri che stava piovendo. Era un rumore quasi confortante, così come il respiro delle sue compagne di stanza, serenamente ignare e addormentate nei propri letti.
Reina si alzò in punta di piedi, andò alla cassettiera e prese il lettore CD; poi tornò a letto, silenziosa come un gatto, si infilò sotto la coperta e strattonò le lenzuola fino a coprirsi il capo, creando una specie di cupola, sotto la quale si nascose. Mise le cuffie, accese il lettore e poggiò la fronte contro il cuscino mentre ascoltava le prime note della melodia. Il suono del pianoforte si mescolò delicatamente a quello della pioggia e dei respiri, e così Reina sprofondò in un sonno più tranquillo prima ancora che se ne rendesse conto.
 
xxx
 
Abituarsi agli addestramenti non fu affatto facile. Reina non aveva mai praticato sport; al massimo aveva preso parte alle lezioni di ginnastica a scuola, o qualcosa del genere. Gli esercizi di riscaldamento la stancavano subito, e le prime notti andò a dormire con i muscoli doloranti; in pochi giorni capì anche di non avere fiato sufficiente. L’aria fredda era implacabile e affaticava ancora di più il respiro.
La mattinata cominciava sempre con la dei giri di corsa in un spazio recintato alle spalle dell’edificio. C’erano foglie dappertutto, perché il vento le strappava ai rami e le portava lontano, e non era neppure raro che te le gettasse in faccia. E, quando pioveva, bisognava stare attenti a non scivolare nella poltiglia di fango e foglie schiacciate.
Dopo la corsa, ci si riscaldava con esercizi di stretching, a volte a coppia, a volte ognuno per sé; e infine si passava ai percorsi a ostacoli ideati da Hitomiko.
Nelle prime settimane, Reina notò tre cose: primo, non sembrava fossero previste attività in cui usare i “doni”. Questo la confuse, ma la fece anche sentire molto meglio.
Due, allenarsi in quelle condizioni era difficile per tutti, anche se ognuno reagiva a modo proprio. C’era chi tollerava più facilmente il freddo, chi lo detestava ma si allenava comunque in silenzio, e chi invece si lamentava di continuo. Fumiko faceva parte della terza categoria. Era sempre la più vestita di tutti, con i guanti, svariate maglie sotto la tuta, e persino la giacca; eppure pareva che sentisse sempre freddo, anche dopo la corsa e i primi esercizi, che in teoria avrebbero dovuto scaldarla. Non faceva altro che borbottare e maledire il tempo dal momento in cui usciva fino a che non rientrava dentro. In quel momento, per esempio, si stava lamentando della pioggerellina che li aveva sorpresi.
Al contrario Reina pensava che la sensazione di una pioggia così lieve sulla pelle non fosse poi così male, e le piaceva il profumo della terra bagnata.
Quando cominciò a piovere più forte, tuttavia, anche lei fu costretta ad arrendersi e unirsi agli altri sotto il porticato. Dopo una decina minuti, Hitomiko cedette e sospese gli allenamenti all’aperto per tutta la mattinata. I ragazzi accolsero con entusiasmo la decisione, e molti decisero di tornare alle proprie stanze per godersi al meglio l’inaspettata vacanza. Gli altri studenti erano all’incirca una decina di adolescenti, ragazzi e ragazze, nonostante fossero più o meno tutti suoi coetanei, Reina aveva difficoltà ad attaccare bottone con loro.
Della terza cosa Reina si accorse quando, invece di rientrare subito con gli altri, decise di indugiare ancora un pochino sotto il portico per osservare la cappa di pioggia che avvolgeva il paesaggio. Dal momento che si trovavano vicini ad un bosco, l’odore di bagnato era ancora più forte e pregnante. Era tentata di uscire di nuovo, solo un pochino, ma non voleva essere sgridata. Reina si guardò attorno per verificare che Hitomiko fosse rientrata, e in quel momento notò, con la coda dell’occhio, un piccolo oggetto nero incastrato sotto il portico. Reina continuò a fissare davanti a sé, corrucciata, finché non le sfuggì uno starnuto e un brivido la percosse.
«Scusami...?».
Sentendo una voce alle proprie spalle, Reina sussultò e si voltò di scatto, trovandosi faccia a faccia con un viso familiare.
Il ragazzo indossava una t-shirt con il disegno di un drago, e reggeva fra le braccia una felpa bianca che aveva l’aria di essere molto grande e morbida. I capelli bianchi erano tenuti su da una fascia nera.
«Non volevo disturbarti» disse a mezza voce. Esitò, poi si avvicinò. «Passavo qui davanti e ti ho sentita starnutire... Se vuoi, posso prestarti la mia felpa».
Un rossore gli si diffuse sulle guance e sul naso, e Reina pensò che fosse per il freddo. Lo scrutò in cerca di un secondo fine, o un qualsiasi motivo per cui avrebbe dovuto aiutarla.
«Avanti, prendila. Dico davvero» insistette lui.
Reina continuò a fissarlo. Sentiva già un altro starnuti solleticarle le narici, e aveva le braccia intirizzite, perciò si lasciò persuadere. Quando prese la felpa, sfiorò con la mano quella del ragazzo ed entrambi si bloccarono per un momento. Lui trattenne il respiro. Reina ritrasse la mano e s’infilò la felpa in fretta. Dato che il ragazzo era più alto di lei, e aveva le spalle più larghe, le maniche erano troppo lunghe, e la felpa le arrivava alle ginocchia.
«Grazie» disse, imbarazzata. Tacque un momento, poi ammise: «Mi dispiace, ho dimenticato il tuo nome».
«Ah... be’, non fa niente, cioè, stai tranquilla». Il ragazzo si ingarbugliò nelle parole e Reina non riuscì a trattenere una piccola risata. Lui si bloccò e arrossì ancora di più. Realizzando di essere stata sgarbata, Reina si coprì la bocca con una mano.
«Scusa, non ridevo di te, lo giuro...».
«Ah, no, prego» farfugliò il ragazzo, poi si rese conto dell’errore e scosse il capo.
«Cioè, quello che volevo dire è che non me la sono presa. Uh... sto parlando a vanvera, vero?».
«Un pochino» replicò Reina, e gli tese la mano. «Cominciamo daccapo. Io sono Yagami Reina».
«Yagami» ripeté lui, come per testarne il suono. Sulle sue labbra comparve un sorriso incerto.
«Io sono Zell. Questa volta non dimenticarlo, okay?».
Era un nome piuttosto insolito, ma Reina non voleva essere maleducata. La mano che le porse era completamente fasciata, in particolare attorno alle nocche, e questo dettaglio catturò la sua attenzione. Mentre contemplava se chiedere o meno cosa fosse successo, sentì la voce di Maki chiamarla.
«Reina-chan! Reina-chan, dove sei?!».
Poco dopo, naturalmente, la porta a scorrimento si aprì e Maki apparve sull’uscio, trafelata. Non appena i suoi occhi si posarono su Reina, la sua espressione si rilassò.
«Reina-chan! All’improvviso non ti ho vista più dietro di noi, mi sono preoccupata! E anche Fumiko era…». S’interruppe di colpo. Reina vide il suo sguardo spostarsi da lei alle loro mani ancora strette, e i suoi occhi sgranarsi per la sorpresa.
Maki sembrava sul punto di dire qualcosa quando Zell ritrasse la mano di scatto ed esclamò: «Non è come sembra!».
Maki chiuse la bocca di scatto. Reina corrugò la fronte, interdetta. Cosa c’è che non va, adesso?, avrebbe voluto chiedere, ma Maki cambiò discorso bruscamente.
«Zell! Oddio, che hai fatto alla mano? Fammi vedere subito!» disse, concitata. In un attimo si avvicinò al ragazzo e gli afferrò la mano fasciata, facendolo sobbalzare. Reina indietreggiò d’istinto, per cavarsi d’impiccio.
Come sempre, Maki si comportava in modo molto invadente, per non dire bizzarro. Era chiaro che Zell era a disagio. Reina si chiese se per caso avrebbe dovuto salvarlo da tutto questo; gli doveva un favore, ma non era certa di volersi mettere in mezzo a... a quella cosa, qualunque cosa fosse. Francamente, non capiva bene cosa stava succedendo.
Dopo un po’, Maki sollevò il volto e domandò, seria: «Ehi, posso togliere la fasciatura? Non dico niente, promesso».
Zell esitò, colto alla sprovvista, ma l’espressione di Maki non era una a cui si potesse dire di no. Si studiarono a vicenda per qualche secondo, poi il ragazzo annuì. Maki iniziò a disfare la fasciatura, in silenzio; come promesso, non disse nulla quando la fascia venne via e lasciò in bella vista la pelle rossa e scorticata. Era una brutta escoriazione, e probabilmente aveva anche sanguinato. Reina non poté fare a meno di sbirciare, incapace di trattenere la curiosità. Quando sollevò la testa, incrociò lo sguardo di Zell per errore, ma lui abbassò subito gli occhi, come vergognandosi. Reina rimase a guardarlo confusa, domandandosi come si fosse procurato una ferita tanto dolorosa.
Intanto Maki stava ancora osservando la ferita. D’un tratto si raddrizzò e fece un sospiro. Questo attirò nuovamente l’attenzione degli altri due su di lei. Maki si rivolse a Zell.
«Posso aiutarti, se me lo lasci fare» affermò, risoluta. Zell la guardò disorientato.
«Va bene, ma cosa vuoi fare?».
«Vedrai» disse Maki, e inspirò profondamente. Lasciò la mano di Zell e sollevò le proprie.
«Tienila ferma» mormorò Maki. Zell obbedì. Per qualche secondo, nulla parve cambiare, poi il ragazzo sussultò. I suoi occhi si spalancarono per lo stupore.
Reina spostò lo sguardo da lui a Maki e viceversa, senza capire cosa stesse accadendo. Decise di concentrarsi su Maki, in cerca di qualcosa di insolito... di speciale.
Come, per esempio, la tenue luce che avvolgeva le sue mani.
Reina rimase senza fiato nel momento in cui si accorse dei sottilissimi fili di luce che, fuoriuscendo dalle dita di Maki, stavano disegnando una sorta di motivo ad incrocio sulla pelle di Zell. Era come se… Come se la stesse ricucendo, realizzò Reina, e la colpì un senso di vertigine. Forse sarebbe svenuta. Come si regge lo shock di una cosa simile? Era la prima volta che vedeva qualcuno usare il proprio dono, e le sembrava di essere testimone di un miracolo. La ferita cominciò a richiudersi lentamente e, a giudicare dal comportamento di Zell, era anche un processo del tutto indolore. I fili penetravano la pelle senza romperla, senza versare una sola goccia di sangue, come se fosse del tutto naturale Il ragazzo non gridò, né svenne. E nemmeno lo fece Reina, nonostante tutto.
Finalmente Maki abbassò le mani. Fili e luce svanirono nel nulla.
La ragazza osservò il proprio lavoro per un paio di secondi, poi guardò Zell.
«Come va? Ci sono fastidi?» chiese.
Zell non rispose subito. Lentamente chiuse le dita in un pugno, poi le distese. Il suo stupore era evidente. Dopo aver ripetuto un paio di volte il movimento, un sorriso gli increspò le labbra.
«Va a meraviglia! Aspetta, questo è il tuo dono? Ma è una cosa fighissima!» esclamò, ammirato. Maki sorrise, a dir poco compiaciuta.
«Ma dai! Non è stato niente di speciale. Un mio amico si fa spesso questo tipo di... di... Be’, si fa male spesso. Da bambini lo guarivo spesso di nascosto, per non farlo scoprire alle mamme» replicò, e gli scoccò un’occhiata di complicità che lo mise di nuovo in imbarazzo. Zell borbottò qualcosa sottovoce, in cui si sentì solo un ‘grazie’.
«Comunque, sei stata fantastica! Quindi il tuo dono, cos’è che fa?» disse, ed era un palese sforzo di cambiare argomento. Maki decise di assecondarlo.
«Ah, è un potere solo di difesa, per questo sono qui» rispose. Per Reina quella frase non significava niente, Zell invece annuì come se avesse capito tutto. I due cominciarono a parlare animatamente di quello che era appena successo, tagliandola fuori, ma Reina non se la prese: il suo cervello stava ancora tentando di elaborare ciò a cui aveva assistito.
Il dono di Maki era la cosa più bella e pura che avesse mai visto.
«Reina-chan? Tutto bene? Noi stiamo rientrando, tu non vieni?».
Ancora una volta fu Maki a chiamarla, riscuotendola dai propri pensieri. Reina sussultò e, di colpo, tutti i rumori tornarono – la pioggia, il vento, la voce di Maki. In qualche modo, era riuscita ad astrarsi talmente tanto da non accorgersi che i due si incamminavano verso l’entrata. Adesso entrambi la fissavano con espressioni più o meno sconcertate. Un brivido la scosse, e Reina si sentì tremare dalla testa ai piedi. Non credeva fosse colpa del freddo. Non fidandosi della propria voce, si limitò a fare un cenno di assenso, poi si strinse nella felpa e li raggiunse.
Andarono in mensa, e Zell e Maki continuarono a chiacchierare tra loro, gettando ogni tanto occhiate ansiose alle proprie spalle per accertarsi che Reina ci fosse ancora. Siccome la ragazza era molto silenziosa, si girarono più di una volta, e ogni volta sembravano sollevati di trovarla ancora lì, come timorosi di perderla da un momento all’altro. Che stupidaggine, pensò Reina, vagamente irritata.
L’atmosfera non si alleggerì neppure quando si misero in fila per il pranzo. Reina prese un menù a caso, uno con gli udon in brodo. La sua mente era altrove.
Fumiko li aspettava seduta a un tavolo, e aveva tutta l’aria di essere sul piede di guerra.
«Finalmente! Sapete quanto mi avete fatta aspettare?! E tu, Reina, non farmi preoccupare così! Non è che devi stare sempre con noi, ma almeno avverti prima di sparire!» sbottò appena raggiunsero il tavolo.
Reina poggiò il vassoio accanto al suo già vuoto e si lasciò cadere accanto a lei.
«Mi dispiace» disse, sincera, poi divise le bacchette e iniziò a mangiare gli udon prima che scuocessero. Fumiko la scrutò per un momento, e lasciò perdere. Non fece nemmeno un commento sulla felpa, e si rivolse invece a Maki e Zell, seduti al lato opposto del tavolo.
«Be’, lui chi è?» disse Fumiko, schietta, fissando Zell con diffidenza.
«Uhm, ci siamo visti brevemente nell’ufficio di Hitomiko-san. Mi chiamo Zell. Vivrò anch’io qui, per il momento» rispose Zell, abbozzando un sorriso. Per qualche motivo, lanciò uno sguardo verso Reina. La ragazza se ne accorse, ma, non sapendo come reagire, lo ignorò. Lui tornò a guardare il proprio piatto di carne, un po’ deluso.
«Ah» commentò Fumiko in tono annoiato, e non aggiunse altro. Rimase in silenzio per tutta la durata del pranzo, e così anche Reina, mentre Maki chiacchierava con Zell, in sottofondo solo il rumore di piatti e posate e il brusio degli altri studenti.
 
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Ancora una volta, Reina si svegliò di soprassalto nel cuore della notte. Alcune notti erano insopportabili; notti bianche in cui cercava di sfuggire agli incubi rifiutando di chiudere occhio, ben consapevole degli effetti disastrosi che ciò avrebbe portato. Altre notti erano migliori. Erano le notti in cui pioveva. Il suono della pioggia era molto più forte del silenzio e, soprattutto, delle voci che la inseguivano nei sogni.
Quella notte, tuttavia, la pioggia non bastava a confortarla. La luce dei lampi rischiava di tanto in tanto la camera. Il vento sbatteva contro i vetri della finestra con violenza. Mentre un tuono particolarmente intenso rimbombava in lontananza, Reina si ricordò di ciò che aveva visto in cortile, quella cosa da cui l’arrivo di Zell e Maki l’aveva distratta.
Era una telecamera. Una presenza piccola, non ingombrante, che tuttavia bastò a metterle una strana inquietudine. Il dubbio che l’intero edificio fosse sotto costante sorveglianza si fece largo tra i suoi pensieri, e dopo pochi secondi diventò certezza. Se c’erano delle telecamere che affacciavano sul cortile, sicuramente anche gli altri spazi erano controllati.
In quelle prime settimane, era quasi riuscita a ingannarsi, ma gli eventi di quel pomeriggio le avevano ricordato che quello non era un posto per gente normale. Dopotutto, lei portava ancora addosso una maledizione. E Maki era in grado di fare miracoli.
 
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Il resto del mese passò in un battito di ciglia e, con la venuta di dicembre, arrivò la neve. Se Reina amava la pioggia, lo stesso non si poteva dire della neve – in primo luogo perché la neve non faceva alcun rumore quando cadeva, anzi portava con sé un silenzio assoluto, quasi spettrale. Ma c’era anche un altro aspetto, molto più pratico, da considerare. Quando durante la notte ne cadeva molta, la neve non aveva il tempo di congelarsi: restava morbida e rendeva ancora più difficoltosa la corsa. E, a quanto pareva, per Hitomiko la pioggia era un motivo valido di sospendere gli addestramenti; la neve no.
A più di due settimane dall’arrivo, Reina aveva imparato nomi e volti dei compagni, e così anche le abitudini, le stranezze, o comunque cose che li caratterizzavano. Erano appena una quindicina, lei compresa. All’inizio non c’erano state grandi occasioni per socializzare. Gli altri la osservavano senza avvicinarsi, come se la stessero studiando, cercando di capire chi era. Ma la situazione era cambiata: Maki, Zell e Fumiko parlavano con lei come nulla fosse, e dopo un po’ gli altri si erano semplicemente adeguati. Ora la salutavano, le sorridevano, o persino si fermavano a scambiare quattro chiacchiere a mensa e nei corridoi. Qualche volta capitava che le parlassero durante gli allenamenti, ma era meno frequente, poiché gli esercizi fatti al freddo e al gelo non lasciavano fiato per respirare, figurarsi fare conversazione.
Non che ciò impedisse a Maki e Fumiko di dire più o meno tutto quello che volevano.
«Morirò congelata» borbottò Fumiko. Era piegata in due, le mani tese per toccarsi la punta dei piedi. «Questa volta morirò davvero congelata. Non mi sento più le dita delle mani». Evitava molto accuratamente di toccare la neve con le dita, sebbene portasse i guanti.
Fumiko esordiva così ogni mattina, specialmente quando, dopo una massiccia bufera notturna, trovavano il cortile esterno e gli alberi totalmente imbiancati. A nessuno faceva piacere allenarsi nella neve, ma quella che meno sopportava il freddo, senza dubbi, era Fumiko. Sembrava che nulla riuscisse a scaldarla, né la corsa, né i molteplici strati di vestiario.
Anche Maki si faceva sempre notare. O, per meglio dire, era impossibile ignorarla: quella mattina era vestita tutta di giallo, come un gigantesco sole in un cartone animato per bambini. Anche i lacci delle scarpe erano gialli. Al contrario di Fumiko, Maki non perdeva tempo a lamentarsi, ma si buttava subito negli esercizi, cercando di coinvolgere l’amica il più possibile.
«Fumi, non serve a nulla se non tocchi bene le punte! Vuoi che ti dia una mano? Possiamo fare degli esercizi di allungamento insieme! Se ci sediamo, e mi dai le mani...».
«Non ci pensare neanche! Io non mi siedo nella neve!».
Maki provò a persuaderla ancora una volta, ma Fumiko era irremovibile quando si trattava di preservare calore. Per questo, dopo alcuni tentativi a vuoto, Maki sospirò e si voltò per cercare Reina tra gli altri ragazzi. Prima che Maki potesse trovarla, Reina afferrò il braccio di Zell.
«Fai coppia con me» disse in fretta. Zell la guardò sorpreso, ma annuì e si lasciò trascinare.
Reina si trovava a suo agio con lui. Dal giorno in cui le aveva prestato la felpa, avevano parlato sempre più spesso. All’inizio era sempre Zell ad attaccare bottone con lei; non perdeva mai occasione di parlarle. Di recente, però, Reina stava pian piano uscendo dal suo guscio. Zell era un bravo ragazzo e, in un certo senso, era più facile avere a che fare con lui che con le ragazze. Soprattutto quando si trattava di lavorare in coppia. Fumiko e Maki erano troppo esuberanti, ed era meglio lasciare che se la sbrigassero tra loro.
Maki parve un po’ delusa del fatto che avesse scelto Zell al posto suo, ma si riprese subito. Dopo aver rinunciato a convincere Fumiko, e avendo perso l’occasione con Reina, si girò e chiamò un’altra ragazza. «Ruru-chan, fai coppia con me!» gridò. Dall’altro lato del cortile, una ragazzina minuta con i capelli viola prugna agitò un braccio per farle segno di raggiungerla. Maki si illuminò, e Reina la osservò correre via allegramente con la sua tuta gialla: era come un girasole in mezzo alla neve.
«Yagami?» Zell richiamò la sua attenzione. Reina lo guardò, poi abbassò lo sguardo sulle loro mani unite e si rese conto di aver smesso di tirare, rendendo l’esercizio inutile.
«Scusa» borbottò. Sistemò meglio la presa e riprese a tirare.
«Se c’è qualcosa che non va, o se ti fa male, puoi dirmelo» le disse Zell. Dal momento che erano schiena a schiena, era impossibile vedere la sua espressione, ma dalla voce Reina intuì che era preoccupato per lei.
«Va tutto bene» rispose. Zell non insistette. Continuarono l’esercizio in silenzio, passando al successivo senza altri intoppi.
«Pronta?» chiese Zell, rompendo il silenzio. Reina inspirò a fondo, poi diede la conferma e, un attimo dopo, la terra le mancò da sotto i piedi. Zell era molto più forte di quello che appariva e riusciva a sollevarla senza problemi. Le prime volte Reina aveva avuto un po’ di paura, adesso era abituata a quella routine; si fidava di Zell al punto da riuscire persino a rilassarsi in quella scomoda posizione. Alzò il viso verso il cielo grigio e, per alcuni minuti, dimenticò di avere i piedi sospesi in aria. Con la coda dell’occhio vedeva ancora la tuta gialla di Maki.
Quando Zell la mise giù, sciolsero la presa e si divisero. Zell aveva il viso rosso e accaldato.
«Ho bisogno di riposare un po’» disse e, per qualche motivo, fissava i propri piedi anziché lei. Sapendo che non avrebbe mai potuto sollevarlo a sua volta, Reina lo lasciò andare. Non avrebbe certo detto di no a cinque minuti di pausa. E inoltre, a giudicare dalla frequenza con cui Hitomiko guardava l’orologio da polso, il tempo dell’addestramento stava per scadere.
Si guardò intorno. Zell era seduto su un ceppo d’albero, reciso chissà quanto tempo prima, e non sembrava affatto turbato dal freddo. Fumiko si era rifugiata sotto il porticato, mentre Maki chiacchierava con Ruru e con Komazawa, un ragazzo con meche bionde che partivano dalla frangia e cadevano, morbide, sulle guance. Reina decise di camminare un po’ per non perdere subito il calore accumulato.
Se non altro, la neve dava al paesaggio un tocco magico, una bellezza unica che poteva essere ammirata solo in quella stagione. Per Reina, che aveva sempre abitato in città ed era cresciuta circondata da palazzine, trovarsi davanti a un bosco innevato era una novità. Poggiò la mano sulla corteccia di un albero e fissò il sentiero bianco che serpeggiava tra i tronchi, diretto chissà dove. In quel tipo di paesaggio, sarebbe bastato passare attraverso un varco tra due alberi per immaginare di essere dentro una fiaba... Be’, se fosse stata più romantica, magari l’avrebbe pensata così. Invece, pensò che quei rami appesantiti dalla neve non avevano un aspetto sicuro.
Reina stava per voltarsi e tornare indietro quando sentì un suono debole, appena percettibile nel silenzio circostante. Reina tornò sui propri passi, incerta se guardare in alto o a terra. Il suono non era costante, ma somigliava piuttosto a un pianto spezzato. Arrivò fino all’albero dove poco prima si era appoggiata e abbassò lo sguardo, chinandosi per osservare meglio la distesa di neve. Fu allora che lo vide: un uccellino completamente blu, tondo come una pallina da pingpong, stava su un fianco a terra, proprio sotto l’albero. Era così piccolo che non l’aveva visto, nonostante il colore brillante. D’istinto Reina alzò gli occhi, cercando il posto da dov’era caduto, poi tornò a guardare l’animale. C’era qualcosa che non andava. Il fatto stesso che non fosse scappato subito significava che probabilmente non poteva farlo. Forse era ferito. Reina si accovacciò, ma esitava a toccarlo, per paura di fare più danni del necessario. Non sapeva che fare. Non poteva andarsene e fare finta di niente.
«Reina-chan? Che succede?».
Maki arrivò alle sue spalle, facendola sussultare. Dietro di lei c’era anche Zell. Reina non disse nulla, ma si spostò leggermente e indicò a terra. Maki seguì con lo sguardo la direzione del suo dito e sgranò gli occhi. Senza esitare, si inginocchiò accanto a Reina. Le sue calze si bagnarono subito, ma non sembrava che le importasse.
Maki raccolse il piccolo volatile con estrema delicatezza e, tenendolo nel palmo delle mani, con le dita semichiuse, lo sollevò per guardarlo da vicino.
«È ferito ad un’ala» constatò tristemente.
«Forse è caduto dal suo nido» disse Zell, sporgendosi per vedere meglio. «O la madre lo ha abbandonato. A volte succede».
«Cosa? Poverino!» esclamò Maki.
Vedendosi circondato, l’uccellino cominciò ad emettere dei deboli stridii, forse di minaccia, benché di minaccioso non avesse nulla; anzi, era proprio carino. Il piumaggio non era uniforme: solo la testolina e il dorso erano blu, con un misto di bianco e giallo sul resto del corpo. Reina ricordava di aver visto uccellini simili nel giardino di casa, da bambina, ma proprio non le veniva in mente il nome della specie.
Reina si sporse verso Maki, quasi inconsciamente, e urtò per errore la spalla di Zell, che farfugliò una scusa e si ritrasse di scatto. Aveva le guance e le orecchie molto rosse, e Reina si accigliò, temendo che gli stesse venendo la febbre. Intanto, Maki si era accorta del suo interessamento per il piccolo volatile e girò le mani verso di lei per mostrarglielo, ma, prima che Reina potesse commentare, arrivò Fumiko.
«Maki, lascia perdere» disse. 
«Cosa? Perché? Non è una ferita grave, possiamo guarirlo facilmente!».
Fumiko si spostò i boccoli dalle spalle con un sospiro ed incrociò le braccia sul petto, nascondendo le mani sotto le ascelle per tenerle calde.
«Perché se davvero la madre lo ha abbandonato, vuol dire che era più debole degli altri. Anche se adesso lo prendiamo, prima o poi dovremo liberarlo, e non ci sono garanzie che non succederà di nuovo! Non possiamo prenderci cura di lui per sempre».
Maki tacque per qualche secondo, poi mormorò: «Ma… è crudele».
«È la natura» ribatté Fumiko, con lo sguardo basso. «Il mondo è crudele con chi non sa difendersi. Se lo aiuti adesso, rischi solo di prolungare la sua agonia…».
«Ma non puoi saperlo» la interruppe Maki. «Potrebbe morire, ma potrebbe anche diventare più forte! E vivere! Solo perché è partito svantaggiato, questo non significa che debba arrendersi!».
C’era qualcosa di estremamente vulnerabile nella sua voce. Era la prima volta che Reina la vedeva fare un’espressione simile; sembrava quasi una questione personale. Quindi, dopotutto, anche Maki aveva dei problemi che la preoccupavano.
«Lo guarirò» dichiarò Maki. «Potrebbe non servire a nulla, ma lo farò comunque. Mi prenderò cura di lui finché non potrà volare di nuovo».
Con l’aiuto di Zell, si rialzò lentamente da terra senza usare le mani. Non solo le calze, ma anche il bordo della gonna si era bagnato e insozzato di fango. Senza badarci, Maki guardò teneramente l’uccellino che cinguettava tra le sue mani, poi si rivolse di nuovo a Fumiko.
«So cosa vuoi dire, ma non posso abbandonarlo. Arrendermi prima di averci provato proprio non mi va» disse.
I suoi occhi tradivano ancora tracce di vulnerabilità, ma al tempo stesso bruciavano di determinazione. Dopo un attimo di esitazione, Fumiko sospirò di nuovo e scosse il capo.
«Ora non voglio passare per quella cattiva» brontolò, e tese le mani in avanti. Le sue dita erano fasciate da soffici guantini di lana nera. Sul bordo, all’altezza del polso, erano ornati con un sottile cerchio di pelliccia finta. Fumiko fece cenno a Maki di passarle l’uccellino.
«Da’ qua. Io ho i guanti, starà più al caldo».
Reina e Zell la guardarono sorpresi, ma Maki non sembrava pensare che ci fossero contraddizioni. Il suo volto si aprì in un sorriso sollevato.
«Oh! Grazie, Fumi!» esclamò. «Non penso tu sia cattiva... Fumi, tu pensi sempre agli altri. E mi piace molto la tua franchezza, la rispetto».
Fumiko s’imbronciò. «Non è niente di speciale» bofonchiò.
Maki non si lasciò scoraggiare dalla reazione imbarazzata e continuò a sorridere mentre lasciava scivolare l’uccellino dalle proprie mani a quelle della compagna, con delicatezza. L’uccello emise soltanto un lamento di protesta, ma non oppose resistenza, né cercò di liberarsi beccando loro le dita: forse sentiva, istintivamente, che restare lì era l’unica possibilità di salvezza.
Poi sentirono la voce di Hitomiko richiamarli all’ordine. La donna doveva essersi accorta che mancavano all’appello ed era venuta a cercarli. Senza dubbio li aspettava una bella ramanzina.
Maki, Zell e Fumiko si affrettarono a raggiungere Hitomiko, mentre Reina indugiò ancora un attimo. Alzò la testa e scrutò gli alberi più vicini, cercando un segno, una traccia, o una qualsiasi altra prova che là, da qualche parte, c’era stato un nido. Soltanto quando Hitomiko cominciò a chiamare più forte, e proprio il suo nome, Reina rinunciò e corse via, senza guardare più indietro.
 
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Come promesso da Hitomiko, ogni due settimane c’era la possibilità di telefonare alla famiglia o amici esterni al centro; perciò era stata allestita una stanzetta con tre telefoni a muro, vecchio stile, e tre pouf su cui sedersi comodamente. Inoltre, Hitomiko aveva predisposto dei turni, ben conscia che alcune persone erano capaci di stare al telefono per ore. La tabella da lei scritta e stampata era appesa alla porta della stanza, così che tutti potessero consultarla.
Sia Zell che Fumiko non erano nella lista, e Reina aveva saputo da Maki che avevano ceduto i propri minuti ad altri. Avrebbe dovuto farlo anche lei, ma non era riuscita a dirlo; non dopo che Maki le aveva confessato, piena di emozione e allegria, che non vedeva l’ora.
Ora, mentre Reina aspettava il turno in piedi, appoggiata alla parete con le braccia dietro la schiena, Maki era seduta davanti a uno dei telefoni. Aveva l’abitudine di giocherellare inconsciamente con il filo del telefono mentre parlava. Inoltre, sembrava che non riuscisse a stare ferma sul pouf, si muoveva di continuo; quando accavallò le gambe, una scarpa da ginnastica spuntò sotto la gonna verde, a pieghe lucide. Il suo viso si animava di espressioni sempre diverse, ed era facile leggere le sue emozioni. In quel momento, per esempio, era chiaramente divertita da qualunque cosa le stessero raccontando.
«Haruyan, nega pure quanto vuoi, ma se continui a parlarmi soltanto di lui, cosa vuoi che ti dica?». Maki scoppiò a ridere. «Mmh, ma è ovvio che ti interessa. Non negarlo! Parli solo di lui di recente! Ahah, lo so che ti stai lamentando. Ma questo non cambia un bel niente!».
L’altro dovette rispondere qualcosa di molto sgarbato, perché Maki esclamò: «Cattivo! Tanto so che è così!» prima di scoppiare di nuovo a ridere. Quando riuscì a calmarsi, il suo tono di voce si addolcì.
«Ehi, tra poco devo andare... Haruyan? Per il resto, tu come... come stai...?». Dopodiché Maki si coprì la bocca dal lato del ricevitore con una mano, in modo che nessuno potesse sentire cosa diceva. Reina, da parte sua, si spostò di qualche metro per lasciarle privacy.
In quel momento Nemuro, il ragazzino seduto accanto a Maki, terminò i minuti a sua disposizione. Mise a posto la cornetta, poi si alzò e, andando alla porta, si accorse di Reina.
«Io ho finito» le disse, poi la aggirò come se fosse stata un ostacolo qualsiasi e s’incamminò verso il piano superiore. Reina non riuscì a ringraziarlo in tempo.
«Non te la prendere. È un po’ scorbutico, ma non è cattivo» disse Ruru. Il suo turno era dopo quello di Maki, quindi anche lei era lì in attesa.
«Non ho mai pensato fosse cattivo» replicò Reina, scrollando le spalle. Ruru le sorrise, apparentemente sollevata nel sentire quella risposta.
«Il posto è libero, non vai?» chiese. Reina si schiarì la gola, impacciata.
«Uhm, sì... Allora, io... vado» rispose. Si sentiva terribilmente in colpa, ma occupò lo stesso il posto vuoto; quasi in automatico, si sedette e sollevò la cornetta. Per un attimo fissò la tastiera numerica, come se avesse avuto davvero un numero da chiamare. Questo le fece ricordare qualcosa. Una volta, alle medie, aveva perso la tessera per i mezzi e aveva provato a chiamare la zia con cui stava in quel periodo. Pioveva forte, quel giorno. Non c’era modo di tornare a casa a piedi, quindi sarebbe stato bello avere un passaggio in macchina. Sua zia aveva risposto, stizzita, di non chiamare mai più quel numero. Ma viviamo nella stessa casa, aveva detto Reina, sconcertata. La risposta era stata, più o meno: Solo per adesso.
Reina contemplò brevemente l’idea di appendere la cornetta e cedere il turno, o di chiamare i suoi zii e urlare loro tutto ciò che le passava per la testa, ma la voce di Maki la riportò alla realtà.
«Haruyan, devo andare, è finito il mio turno. Ci sentiamo presto, spero, ah, ma probabilmente non la prossima volta! Ho promesso a mamma che l’avrei chiamata! Cerca di tenere duro col tuo nuovo amico, okay?». Maki scoppiò in una risata cristallina. Alzò lo sguardo, lanciò un sorriso fugace a Reina e tornò ai propri saluti.
Reina compose un numero che sapeva essere inattivo e passò i successivi cinque minuti a sentirsi dire dal telefono: Il numero da lei chiamato è inesistente. Controllò il passare del tempo sull’orologio a muro. Dopo cinque minuti esatti, riappese la cornetta e si alzò. Intanto, Ruru aveva fatto a cambio con Maki. Reina la salutò con un cenno della mano e un sorriso che sperava non apparisse troppo finto.
Una volta fuori, scoprì che Maki era rimasta ad aspettarla in corridoio.
«Eh? Già finito, Reina-chan?» chiese, stupita.
«Mmh... Non erano in casa» rispose Reina.
«Oh...» mormorò Maki. Sembrava davvero dispiaciuta per lei, e di nuovo Reina si sentì in colpa. Evitò il suo sguardo, timorosa che facesse altre domande; con suo grande sollievo, invece, Maki cambiò del tutto argomento.
«Reina-chan, vieni con me! Ti faccio vedere una cosa!» esclamò. La prese a braccetto e Reina si lasciò trascinare via senza protestare.
Non riuscì a nascondere la sorpresa quando si accorse che Maki la stava portando verso l’ufficio di Hitomiko. Benché non ci fosse mai venuta dopo quel giorno, quel corridoio era indimenticabile.
«Cosa ci facciamo qui?» chiese, spaesata.
«Vedrai, vedrai!» rispose la ragazza, enigmatica.
Reina realizzò presto che Maki aveva le chiavi, e che quindi dovesse esserci un qualche accordo tra lei e Hitomiko. Senza esitare, Maki aprì la porta ed entrò nell’ufficio deserto.
«Ed eccoci qua!» esclamò, trionfante.
La stanza era esattamente come Reina la ricordava, eccetto che per un dettaglio.
Sulla scrivania c’era una gabbia per uccelli di modeste dimensioni, con il fondo foderato di carta di giornale e coperto di semini neri. Al suo interno, l’uccellino che avevano salvato dondolava pigramente su una minuscola altalena tutta per lui, pensando ai fatti propri.
«Ah!! Hai di nuovo fatto finire i semi dappertutto!» lo rimbeccò Maki, scattando verso la gabbia. L’uccello la ignorò e voltò il capo dall’altra parte. Maki lo fissò, imbronciata.
«Non ignorarmi! Tanto per cominciare, dovresti stare a riposo, sai?! E ora mi tocca pulire di nuovo...» Maki continuò a parlare con lui, ma l’uccellino era imperturbabile e ben presto cominciò a pulirsi le penne, sordo a ogni rimprovero.
Reina, che aveva assistito all’intera scena, non riuscì più a trattenersi e si lasciò sfuggire una risata. Maki ammutolì di colpo e si girò a guardarla con occhi spalancati. Reina si coprì subito la bocca con la mano.
«Scusami, è solo che...».
«Non scusarti» la interruppe Maki. «È la prima volta che ti sento ridere così!».
Reina abbassò piano la mano. «Non sono... una persona solare, ecco» disse, non trovava parole migliori. Provò comunque a sorridere prima di cambiare argomento.
«Piuttosto, non vorrei sembrare insistente, ma... Cosa ci facciamo chi?».
«Siamo venute a trovare lui, ovviamente!» rispose Maki.
«È un gran maleducato, ma è così carino che poi gli perdoni tutto... Be’, quasi tutto, non è simpatico per nulla quando lascia in giro tutta la sua...».
«Faccio a meno dei dettagli, grazie» tagliò corto Reina. «E non intendevo questo. Volevo dire, perché è qui? Cioè, mi chiedevo che fine avesse fatto, ma devo ammettere che l’ufficio di Hitomiko-san è l’ultimo posto che mi sarei aspettata».
«Ah, sì. È che ho parlato con Hitomiko-san dopo l’allenamento... Anche se ho detto tutte quelle cose, mi serviva il suo permesso... Be’, non solo me l’ha dato, ma si è offerta di comprargli una gabbietta e tenerlo nel proprio ufficio! Del resto, non so dove altro avremmo potuto tenerlo. Fumi non mi avrebbe mai permesso di tenerlo in stanza». Mentre parlava, Maki si era tirata su le maniche e si era messa al lavoro per raccogliere tutti i semi, anche e soprattutto quelli schizzati fuori dalla gabbia e atterrati sulla scrivania di Hitomiko.
«Mi ha fatto promettere di prendermene cura e mi ha dato le chiavi dell’ufficio, così posso andare e venire quando voglio... Ah, Reina-chan, puoi darmi una mano?»
Reina esitò, ma si avvicinò lo stesso. «Cosa devo fare...?».
«Darmi una mano, letteralmente» ripeté Maki, e aggiunse rapida: «Se non ti fa paura».
Solo a quel punto Reina intuì cosa voleva. In tutta risposta, chiuse le mani a coppa, con i palmi rivolti verso l’alto, e le stese in avanti. Il sorriso di Maki si allargò e i suoi occhi parvero brillare. Reina si morse il labbro inferiore mentre l’altra apriva la gabbietta ed estraeva delicatamente l’uccellino con una mano. L’animale protestò con un piccolo stridio, ma si tranquillizzò quasi subito appena si trovò sulle mani di Reina. Sentire le zampette ruvide e il piumaggio morbido contro la pelle era stranissimo, ma non spiacevole. L’uccellino cominciò a osservarla con discreta curiosità, inclinando la testolina di lato. Anche Reina lo fissava. Con una certa tristezza, notò che l’ala destra era legata a uno stecchetto di legno e fasciata con un bendaggio, affinché non la muovesse.
Quando l’uccellino decise di averla tenuta d’occhio a sufficienza, si sedette sul palmo e riprese la pulizia delle penne. La sua tenerezza era davvero irresistibile.
«Ha un nome?» chiese Reina.
«In realtà no» rispose Maki, sorprendendola. Per com’era fatta Maki, Reina era sicura che gli avrebbe dato un soprannome.
«Io lo chiamo semplicemente "uccello"» proseguì Maki senza guardarla. Stava smontando il fondo della gabbia per ripulirlo. «Ah, abbiamo accertato che è un maschio, però! Il giorno stesso in cui l’ho portato da lei, Hitomiko-san lo ha portato in macchina alla clinica veterinaria più vicina. È là che gli hanno fasciato l’ala».
Reina tacque per un momento, poi azzardò: «Non… non avresti potuto guarirlo tu?».
«Io? Non avrei saputo nemmeno da che parte cominciare! Sono cresciuta in città anche io, sai?».
«No, non era quello che io...». Reina sospirò e decise di andare dritta al punto. «Non avresti potuto guarirlo con il tuo dono?».
Le mani di Maki si fermarono, anche se solo per un istante, al punto che Reina pensò di averlo immaginato. Dopotutto, anche se le dava le spalle, Maki non mostrava alcun segno di tensione.
«Ah! No, non potevo» rispose in tono allegro. «Voglio dire, forse potrei, in teoria? Con un po’ di allenamento? Boh. Nessuno potrebbe insegnarmi come fare, ovviamente».
Maki rimosse i giornali, li accartocciò e li gettò nel cestino.
«Quindi, uhm... Non ne sono sicura? Al momento non so fare niente di incredibile. Posso richiudere solo ferite superficiali... Mettere a posto un osso fratturato, tipo, quello sì che sarebbe fantastico, ma al mio livello attuale...».
Non dire che non è incredibile, pensò Reina, punta dalla gelosia. Era più forte di lei. Ai suoi occhi, il potere di Maki era assolutamente desiderabile, era la magia buona delle favole trasportata nel mondo reale. Reina avrebbe dato qualunque cosa per fare a cambio...
Ma compatirsi non serviva a niente. Accusare Maki non l’avrebbe fatta sentire meglio. Maki ignorava quale fosse la sua storia, o il suo potere, e lei non aveva intenzione di parlargliene.
«Reina-chan? Qualcosa non va?» domandò Maki d’un tratto. Si era fermata e la stava fissando. Aveva un foglio pulito di giornale in una mano e la vaschetta vuota del cibo nell’altra.
«Sei ammutolita all’improvviso... Ho detto qualcosa che non dovevo?» aggiunse, preoccupata.
Reina scosse il capo. «No... Stavo solo pensando».
Maki sembrava sul punto di dire qualcosa, ma l’uccellino la anticipò cinguettando. Aveva interrotto la pulizia e si era rimesso in piedi; si spostò sulla mano destra di Reina e sollevò gli occhi neri e lucidi verso di lei. Quando i loro occhi s’incontrarono, lui inclinò il capo di lato, interrogativo, e Reina ebbe un’idea. Rimosse la mano libera e con un dito sfiorò il capo dell’animale. Dapprima lui protestò e si appiattì per non farsi toccare; non appena Reina si ritrasse, però, lui si zittì e la fissò curioso. La ragazza ci riprovò, muovendosi ancora più piano. Questa volta l’uccellino accettò le attenzioni, si rilassò e chiuse gli occhi, e quella vista riempì Reina di orgoglio ed emozione.
«È... un buon segno?» chiese. «Dici che... gli piaccio?».
«Oh, gli piaci, gli piaci un sacco!». Maki, dal canto suo, era visibilmente estasiata. «Quando lo prendo in mano io, non sta mai così calmo! Ah, ma forse è perché tu e lui siete simili».
«Simili?» ripeté Reina, perplessa. Maki sorrise e indicò i suoi capelli.
«Stesso colore, no? Siete praticamente fratelli!».
«Ah, in quel senso» mormorò Reina, come ricordandosi solo in quel momento il colore dei propri capelli.
«Ma sì, hai anche delle meche bianche, come lui! Manca solo il giallo».
Reina decise di accettare quella spiegazione decisamente poco scientifica, e intanto continuava ad accarezzare piano il capo dell’uccellino, che a sua volta premeva il becco contro le sue dita chiedendo maggiori attenzioni.
«Per caso vi hanno detto anche la specie? Sono certa di aver visto degli uccelli come lui, quando ero piccola, ma non credo di aver mai saputo cosa fossero».
«Sì, è una cinciarella» rispose Maki. Aveva finito di foderare la gabbia con fogli puliti, e ora aprì un cassetto della scrivania di Hitomiko e tirò fuori il sacchetto dei semi; ne versò una manciata nella ciotola del cibo prima di montarla nuovamente nella gabbia. Alla fine, si rivolse alla cincia.
«Ecco fatto, ora vedi di non buttare tutto fuori, eh?!».
Sfortunatamente per lei, l’uccellino la ignorò del tutto. Reina sorrise, come a scusarsi per lui, e Maki fece spallucce.
«Be’, ci ho provato» disse. «Se vuoi possiamo aspettare un pochino prima di rimetterlo dentro».
Reina guardò la cinciarella con affetto.
«Sì» sussurrò. «Sì, mi piacerebbe».
 
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Fumiko era stesa sul letto a pancia sotto e dondolava pigramente i piedi che sporgevano oltre il bordo del letto. Indossava la tuta, dei calzini di lana e una fascia di spugna rosa sulla testa. Da quando era rientrata, non aveva staccato un attimo gli occhi dal libro che si era portata in camera, e di cui Reina era riuscita a leggere solo il titolo, qualcosa che aveva a che fare con l’anatomia umana. Probabilmente lo aveva preso in prestito dall’ufficio di Hitomiko.
La camera era adeguatamente riscaldata, ma fuori aveva ripreso a piovere, una pioggia gelida e obliqua che aveva trasformato in poltiglia la neve, impedendo loro di uscire.
Reina tirò le gambe al petto e si strinse nella felpa troppo grande. Era passato quasi mezzo mese da quel giorno, ma non l’aveva ancora restituita a Zell; nessuno dei due aveva più tirato fuori l’argomento. La stanza era immersa nel silenzio, e c’era un’atmosfera domestica, confortevole. Si sentiva distintamente il rumore delle pagine Sul comodino di Fumiko c’era un bicchiere di tè ormai freddo, dimenticato mentre la ragazza leggeva. Da quel che Reina poteva vedere, Fumiko era arrivata a circa un quarto del libro.
Quel momento di quiete fu interrotto dall’entrata di Maki, che spalancò la porta di colpo, facendola sbattere contro il muro. Maki non ci fece caso; sembrava estremamente di buonumore. «Ragazze!! Indovinate cos’ho qui?!» esclamò, con le mani nascoste dietro la schiena.
Reina la guardò, senza rispondere. Fumiko non sollevò neppure gli occhi dal libro.
«Non lo so, Maki. Cos’hai?» disse, monocorde.
Maki si imbronciò, ma solo per un attimo, poi tornò a sorridere. Si schiarì la voce e, canticchiando qualche nota di presentazione, mostrò loro le mani: aveva con sé dei fogli di carta in stile pergamena antica e delle buste da lettere molto simili a quella che Reina aveva ricevuto da Hitomiko. Maki sventolò sotto i loro nasi anche una bustina trasparente, in cui c’erano una manciata di quadratini di carta scura, presumibilmente francobolli.
«Ta-dà! Guardate cosa mi ha dato Hitomiko-san!».
Con quel nome riuscì finalmente ad attirare l’attenzione di Fumiko. La ragazza alzò gli occhi verso di lei, la squadrò per qualche secondo e poi aggrottò la fronte.
«Carta da lettere? Non sapevo potessimo mandare lettere» disse.
«Infatti non lo facciamo, di solito» ammise Maki. «Però la mia mamma insiste sempre... Parlare a telefono ogni tanto non le basta. Quindi ho chiesto a Hitomiko-san se potevo fare qualcosa e lei mi ha dato il permesso di scrivere una lettera!» Il suo sorriso si allargò, se possibile, ancora di più. «Anzi, mi ha detto di dirlo anche a voi e a tutti gli altri! Ha detto che d’ora in poi sarà possibile mandare una lettera ogni tanto. Sarà lei, proprio, a prenderle in consegna!».
Fumiko sospirò. «Hitomiko-san è così gentile» disse con sguardo sognante. Chiuse il libro, si tirò su e tese una mano verso Maki. «Da’ qua».
Maki si illuminò, entusiasta, e consegnò subito a Fumiko tutto il necessario, ossia un paio di fogli, una busta e un francobollo. Quando Maki si voltò verso di lei, Reina sussultò.
«Io sono a posto così» disse subito. Maki le scoccò un’occhiata interdetta.
«Ma i tuoi saranno preoccupati! Sei figlia unica anche tu, giusto?».
«Sì, ma...».
«Allora devi assolutamente farlo! Mamma dice sempre che, per i genitori con un solo figlio, il distacco è ancora più difficile» disse Maki, e Reina era quasi certa che stesse quotando la madre parola per parola.
Maki le tese la carta e il resto e aspettò che le prendesse. La guardava dritta negli occhi, e la rendeva nervosa. Reina mantenne il contatto visivo, ma tenne sotto controllo le proprie emozioni. Era inutile discutere con Maki. Prima di tutto, per giustificarsi avrebbe dovuto raccontare l’intera storia.
Le due ragazze si fissarono per un lungo minuto, poi Reina cedette.
«Va bene» brontolò. Maki annuì e le ficcò tutto tra le mani.
«Io racconterò a mamma dell’uccellino! È quasi guarito, sarà felice di saperlo» annunciò allegramente.
«Davvero? Mmh... Quindi, quando lo liberi?» chiese Fumiko. Aveva già messo da parte il materiale per scrivere, sistemandolo in modo ordinato sul comodino.
Maki s’immobilizzò, colta alla sprovvista.
«Non te ne sarai dimenticata, vero?» la incalzò Fumiko.
Maki accennò una risata spensierata, ma non le riuscì molto bene.
«No, no, figurati» disse. «Sto solo aspettando il momento giusto!».
Fumiko sospirò e alzò gli occhi al soffitto.
«È per questo che non volevo» mormorò.
«Ti fai trascinare troppo dai tuoi sentimenti, così perdi di vista le cose importanti. Non basta avere buone intenzioni, Maki. Non puoi prenderti la responsabilità di una vita senza mettere in conto il fatto che prima o poi vi separerete» proseguì Fumiko. Anche se la stava rimproverando, la sua voce era colma di affetto. Maki abbassò il capo per evitare il suo sguardo.
«Ma Fumi... lo hai detto anche tu! Se esce, potrebbe farsi di nuovo male e... e potrebbe... Insomma, che bisogno c’è?! Potrei continuare a crescerlo io. Potrebbe restare con me, me ne prenderei cura...!».
«Non importa quanto è bella, una gabbia resta sempre una gabbia» affermò Fumiko, irremovibile. «Deve tornare libero, Maki. Anche se è difficile».
Rimasero per un po’ in silenzio, finché Maki non sbirciò verso di lei, esitante.
«Sicura? Sicura sicura?» chiese. Fumiko annuì, seria. Questa volta Maki non ribatté, ma poi parve riprendersi – la sua capacità di recupero era terrificante – e rivolse a Fumiko un sorriso sincero, anche se un po’ colpevole.
«Ho capito!» esclamò. «Ora vado dagli altri! A dare la notizia! E la carta! A dopo!». Di nuovo allegra, Maki lasciò la stanza con la stessa turbolenza con cui era entrata.
Reina rimase a fissare la porta, nervosa e confusa. Non aveva capito per nulla lo scambio appena avvenuto, e sembrava che si fossero completamente dimenticate di lei.
«Chissà se ha capito davvero» disse Fumiko tra sé e sé. Chiuse la porta, poi, nel girarsi, incrociò lo sguardo di Reina. Scrollò le spalle in risposta a una domanda non espressa e se ne tornò a leggere. La calma tornò, ma Reina non riusciva più a godersela. Continuava a pensare alla lettera che avrebbe dovuto inviare.
Dando le spalle a Fumiko, così che non potesse vedere cosa faceva, piegò il foglio e lo infilò nella busta. Senza scriverci nulla.
«Yagami, tu non parli molto, vero?» disse Fumiko d’un tratto, facendola sussultare. Reina ficcò in fretta busta e francobollo sotto il cuscino e si voltò lentamente, ma l’altra non la stava guardando, i suoi occhi erano apparentemente incollati alla pagina. Reina si rilassò un pochino.
«Non ho molto da dire» rispose.
Fumiko non ribatté, fece soltanto un verso sottovoce. Non era affatto convinta.
«A me sta bene così. Mi piaci, perché mi rilasso con te» disse, tranquilla. «Ma se vuoi essere amica di Maki, devi dirle apertamente ciò che provi... altrimenti lei non capirà».
Sì, pensò Reina, questo lo so. Ma il solo pensiero di dire tutto a Maki faceva crescere un peso nel suo petto; cresceva, cresceva, e l’avrebbe soffocata.
 
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Qualche giorno dopo, Reina andò a cercare Zell per restituirgli la felpa. L’aveva fatta lavare assieme alle proprie cose – restava un mistero dove fosse la lavanderia; tutto ciò che Reina sapeva era che bisognava lasciare tutto in una borsa, e che Hitomiko portava tutto via e lo riportava qualche giorno dopo – e, visto che era rientrato quella mattina stessa, non c’era motivo di aspettare oltre. Imbracciando la felpa, si diresse verso le camere dei maschi.
Quando arrivò dalla loro parte del corridoio, alcuni ragazzi la guardarono con sospetto, altri con imbarazzo. Reina non capiva il perché. Alle ragazze non pareva importare molto quando Zell veniva a trovare Maki; a volte lo facevano persino entrare in stanza, e non sembrava essere un problema per nessuno. Forse la vedono come un’invasione di territorio? I ragazzi ragionano in modo strano.
«Cosa ci fai qua?» disse qualcuno alle sue spalle. Reina si girò e si trovò davanti Komazawa, che le sorrideva amichevolmente. Accanto a lui, un ragazzo coi capelli viola e le orecchie a elfo la guardava con aperta curiosità. Nessuno dei due appariva ostile. Reina decise di andare al sodo.
«Sto cercando Zell».
«Non è qua. Prova a cercarlo al pianoterra» rispose Komazawa.
Reina lo ringraziò, poi andò alle scale. Mentre si allontanava, li sentì fare commenti su quanto Zell fosse fortunato... Per cosa, esattamente, Reina non lo sapeva. Forse gli era successo qualcosa di bello? Reina sperava di sì. Zell era un bravo ragazzo e meritava decisamente qualcosa di bello.
Scese al piano di sotto e cercò Zell in mensa, nei corridoi e nelle aree relax, infine nell’ingresso. Era sul punto di rinunciare – ma quanto poteva essere difficile restituire una felpa? – quando finalmente, passando davanti ad una finestra, lo vide.
Zell era in piedi sotto il porticato; dava le spalle all’edificio, perciò non si accorse di lei. Per un attimo, Reina pensò di bussare al vetro della finestra per attirare la sua attenzione, ma si bloccò appena realizzò che l’amico non era da solo.
Lo sconosciuto con Zell aveva il viso allungato e i capelli di un nero lucente, legati in una coda di cavallo alta. Indossava un maglione di lana e stivali di pelle marrone, in stile cowboy. Non dimostrava più di vent’anni.
Anche se non aveva prove concrete, Reina capì che quell’uomo non poteva essere altri che Saginuma-san. Zell chiedeva spesso notizie di lui a Hitomiko, e sembravano essere in rapporti molto stretti. Chiunque fosse, Saginuma doveva essere una persona molto importante per Zell.
Reina si appoggiò alla parete, in attesa che finissero la loro conversazione. Aspettare non le costava niente. Dopo circa cinque minuti, Saginuma poggiò una mano sulla spalla di Zell, come per accomiatarsi, poi si voltò e s’incamminò verso la monovolume di Hitomiko.
La portiera dal lato del guidatore si aprì e ne uscì Hitomiko. Saginuma le si avvicinò e si chinò a sussurrarle qualcosa all’orecchio; lei fece un breve cenno di assenso. La natura della loro relazione non era molto chiara.
Reina stava per uscire, quando sentì Zell gridare. Non l’aveva mai sentito alzare la voce prima.
«Saginuma-san! Aspetta! Dimmi cosa devo fare!».
Evidentemente per lui la conversazione non era finita affatto, e la sua frustrazione era palpabile.
«Rispondimi! Cosa... cosa ti aspetti da me?! Per quanto ancora resterò qui?!».
Reina si paralizzò. Si era dimenticata che la permanenza di Zell era temporanea e quelle parole furono una doccia gelida.
«Non è il momento per parlarne» disse Saginuma, impassibile, e guardò dritto verso Reina.
Lei arrossì, colta in fallo, ma era tardi per nascondersi: a quel punto, infatti, anche Zell si accorse di lei. La fissò, confuso, e questo lo distrasse quel tanto che bastava perché Saginuma e Hitomiko entrassero in auto. Quando Zell si voltò di nuovo, Hitomiko aveva già messo in moto. Zell e Reina rimasero a osservare la macchina allontanarsi sempre di più fino a diventare una macchiolina di colore in lontananza.
A quel punto Reina uscì allo scoperto. Non sapeva come affrontare Zell, ma non aveva scelta. Sperava solo che non fosse troppo arrabbiato.
«Uhm... devo chiederti scusa. Non volevo spiarti, te lo giuro» disse, facendo un rapido inchino in avanti. Stringeva ancora la sua felpa tra le braccia, e il ragazzo lo notò.
«Yagami, alza la testa» disse. Reina si raddrizzò, esitante.
«Sei perdonata. So che non lo hai fatto apposta, tu non sei quel genere di persona. Ah, e grazie della felpa» proseguì Zell. La sua voce era calma e calorosa come sempre; non c’era traccia dell’impazienza di poco prima.
«No, grazie a te...» replicò Reina, impacciata. Zell non disse nulla, e rimasero in silenzio un po’ troppo a lungo perché non diventasse imbarazzante. Reina non riusciva a trovare la tempistica giusta per tornare indietro. Proprio quando si decise, Zell ruppe il silenzio.
«Ehi... Se non hai nulla da fare, posso dirti una cosa?».
Reina esitò, ma poi annuì.
Entrarono insieme e cercarono l’area relax più vicina, a quell’ora poco frequentata, perché con la mattinata libera tutti preferivano rilassarsi in camera propria. Quindi, al momento, non c’era posto più appartato di quello.
Appena arrivato, Zell si lasciò cadere su un divanetto di pelle, poi si spostò in modo da stare quasi attaccato al bracciolo: le stava lasciando tutto lo spazio per sedersi senza toccarlo, forse ripensando al loro primo incontro. Reina guardò Zell, che sembrava stanchissimo, e si sedette proprio accanto a lui, ignorando la distanza.
«Ti ascolto» disse a un soffio. Le loro ginocchia si sfioravano appena. Preso in contropiede, Zell s’immobilizzò e arrossì leggermente. Ma non si spostò.
«Ehm,» tentennò, si schiarì la gola, nervoso, «quanto hai sentito, esattamente...?».
«Solo la fine» rispose Reina. E poi, poiché non riuscì a trattenersi: «Quindi te ne vai?».
Stavolta Zell non ebbe la minima esitazione.
«Questo non è il mio posto... Sono qui solo perché Saginuma-san mi ha affidato a Hitomiko-san mentre lui si occupa di altri affari» disse.
«Ti ricordi le Spy Eleven? Saginuma-san è stato nominato da poco Spy Eleven qui in Giappone... a Hokkaido» continuò. «Io a lui devo tutto. Senza di lui, non sarei qui adesso, non sarei nessuno. Ho un debito enorme nei suoi confronti... Per questo vorrei andare là, in Hokkaido, per dargli una mano. Voglio essergli utile».
«Non voglio perdere quest’occasione, ho già perso troppo. Per questo ho accettato di stare qua mentre Saginuma-san consolida la sua posizione in Hokkaido. Io credo in lui, non c’è persona che ammiri di più, ma...».
Zell tacque. Fissava dritto davanti a sé, con le mani intrecciate in grembo. Reina lo guardava preoccupata, mentre aspettava che lui proseguisse.
«Ma adesso non sono più sicuro di niente» disse infine Zell. «Non so se ha davvero bisogno di me, o se invece sono solo un peso. Voglio dire, sono passate settimane e non mi ha mai contattato. Non so più se sia giusto o no che io lo segua lì...».
Allora resta, pensò Reina. Non riuscì a fermarsi, ma almeno serrò le labbra per impedirsi di dirlo ad alta voce. Non sarebbe stato corretto. Lei non aveva alcuna voce in capitolo sulla vita di Zell.
Mi mancherai, pensò. Ma non poteva essere egoista, perciò restò zitta. Non sapeva come confortarlo; non aveva esperienza con quel genere di cose. E non aveva niente da offrire, se non i capricci di una bambina che non vuole essere abbandonata. Ma Zell, ignaro di tutto ciò, parve accontentarsi di quegli attimi di quiete, seduti vicini, più vicini di quanto fossero mai stati.
 
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Il numero da lei chiamato è…
Sentire la voce distaccata e neutra della segreteria automatica era quasi più confortante che ricevere una risposta da uno dei suoi parenti.
 
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Reina avrebbe voluto vedere un’altra volta l’uccellino, ma per farlo avrebbe dovuto chiedere a Maki, e probabilmente rimanere sola con lei. Il pensiero bastava a paralizzarla. C’erano volte in cui avrebbe voluto mettere quanta più distanza possibile fra loro, e volte in cui realizzare che quella distanza già esisteva le toglieva il respiro. Più Maki brillava, più la sua luce era calda, e più lei avvertiva il bisogno di tornare nell’ombra e cercare conforto nella solitudine.
Ora che la pioggia cadeva di rado, la musica era l’unico rifugio che le era rimasto; eppure neanche la sua canzone preferita poteva darle il conforto che cercava.
Non aveva la forza di dimenticare ogni cosa.
 
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Una mattina di metà dicembre, come un preludio al Natale, arrivarono le risposte alle lettere.
Hitomiko diede appuntamento a tutti in mensa e, quando furono al completo, affidò a Fumiko l’incarico di distribuire le buste. Fumiko non rifiutò la richiesta solo perché veniva da Hitomiko, ma svolse il compito controvoglia, senza alcuna forma di partecipazione, sprecandosi, al massimo, in congratulazioni distaccate.
Maki accolse la lettera dei suoi genitori con pura gioia: l’aprì all’istante e la lesse diverse volte, facendo tintinnare di continuo i bracciali di metallo, troppo grandi per il suo polso sottile. Reina, intanto, sperava che la terra la inghiottisse. Come aveva previsto, i suoi amici realizzarono che Reina non aveva ricevuto nulla appena Fumiko tornò a sedersi e l’attenzione verso di lei scemò.
«Forse è solo andata persa nella posta» cercò di consolarla Zell, e sbirciando alla propria destra Reina notò che anche lui era a mani vuote. Maki si agganciò subito a quanto detto da lui.
«D-deve essere andata così! Non scoraggiarti, Reina-chan! Sicuramente arriverà nei prossimi giorni!» esclamò.
«Non fa niente, sto bene» disse Reina, pacata. Maki continuò a guardarla, preoccupata che stesse fingendo, ma Reina la ignorò.
Sbirciò verso Fumiko, ma l’altra aveva apparentemente deciso di ignorare la cosa, concentrandosi invece sulla propria lettera. Durante la lettura la sua espressione restò prudentemente neutrale, come se stesse reprimendo ogni briciolo di emozione. Reina si chiese da parte chi fosse, ma si morse la lingua: proprio lei non aveva il diritto di fare domande.
Il silenzio durò poco, perché qualche minuto dopo Maki riprese a parlare. Chiacchierava con Zell di cosa mangiare a pranzo, ma rispetto al solito la solita allegria sembrava forzata. Reina capì che lei e Zell cercavano di cambiare argomento per alleggerire l’atmosfera. Per non farle più pensare alla lettera. Ma Reina non ne era felice. Più Maki cercava di confortarla, più lei si sentiva in colpa, e stava rapidamente raggiungendo il limite di sopportazione.
Mentre considerava un modo gentile, ma fermo, di interrompere quello sproloquio, Hitomiko entrò nella mensa. Si fermò sulla porta e, da lì, chiamò ad alta voce proprio lei.
«Yagami, puoi seguirmi un attimo? C’è qualcosa di cui vorrei parlarti in privato».
Il suo tono era serio, e non prometteva niente di buono. Reina si alzò in piedi di scatto.
«Sarà meglio che vada» bofonchiò e, a capo chino per evitare le occhiate nervose degli altri, raggiunse Hitomiko.
Insieme si lasciarono la mensa alle spalle e imboccarono un corridoio che le portò dritte nell’area relax verde. A quel punto Hitomiko si fermò: si guardò intorno, come per accertarsi che fossero sole, poi si sedette su uno degli sgabelli.
«Yagami, siediti» la esortò.
Reina scosse il capo e rimase in piedi davanti a lei.
«Preferirei di no» rispose.
Si fissarono per qualche secondo; inaspettatamente, fu Hitomiko a cedere. Con un sospiro, la donna si frugò nella tasca della giacca e tirò fuori un involucro di carta, che appoggiò sul tavolo. Reina riconobbe all’istante la propria lettera.
«Non hai messo il francobollo, Yagami» le disse Hitomiko, a bassa voce. Le restituì la busta, facendola scivolare verso di lei. Reina la prese, esitante, e la strinse fino a spiegazzarla.
«È ovvio che una lettera così torni indietro. Te ne sei semplicemente dimenticata? Oppure...».
Guardava Reina come se volesse inchiodarla con gli occhi. Reina fece del suo meglio per resistere: non distolse lo sguardo, e mantenne la propria espressione accuratamente neutrale. Hitomiko aggrottò la fronte.
«C’è qualcosa che vuoi dirmi? Parlarne potrebbe farti sentire meglio e, naturalmente, ti prometto che non ne farò parola con nessuno». Una pausa. «So già qualcosa sulla tua situazione familiare, ma vorrei che fossi tu a parlarmene, Yagami».
In quel momento, Reina si rese conto di aver commesso due sbagli clamorosi. Primo, aveva consegnato la lettera, quando avrebbe fatto meglio a nasconderla. Secondo, aveva sottovalutato la donna che aveva davanti. Si sentì un’idiota. Probabilmente Hitomiko sapeva chi era da molto prima di incontrarla di persona.
Reina non si aspettava questo. Si aspettava... Non lo sapeva. Forse si aspettava che semplicemente Hitomiko la ignorasse. Gli adulti con cui aveva trascorso la maggior parte della vita ignoravano ciò che non portava guadagno.
Non ricevendo risposta, Hitomiko incalzò.
«In realtà, quando ho notato che mancava il francobollo, ho pensato che fosse strano che te ne fossi dimenticata. Non posso fare a meno di chiedermi...» disse, la sua voce si abbassò.
«Yagami, non hai mai avuto intenzione di spedire una lettera, non è così?».
Reina non sapeva cosa dire; era come se la voce le fosse stata rubata.
In quel momento nella stanza echeggiò un rumore metallico. Reina sussultò e si voltò di scatto. Sotto l’arco da cui erano appena passate c’era Maki, con le mani che tremavano e gli occhi spalancati. Uno dei bracciali le era scivolato dal polso ed era caduto a terra, e girò ancora una volta su se stesso prima di cadere di lato e fare di nuovo quel rumore.
Hitomiko si coprì il volto con una mano e sospirò, esasperata.
«Sumeragi...».
«Scusate, non l’ho fatto apposta! Ero preoccupata per Reina-chan e sono venuta a vedere e poi ho sentito la voce di Hitomiko-san e...». Maki s’interruppe, senza fiato per aver parlato così velocemente.
Il suo sguardo spaesato si fermò su Reina.
«Non... non capisco, che succede?» disse in un filo di voce. «Reina-chan... è, è la verità? Hai solo... finto di...?».
Reina avvertì un senso di vertigine. Una voce scattò nella sua testa. Scappa.
Prima che potessero intuire cosa stava per fare, cominciò a correre, infilandosi sotto il varco opposto a dov’era apparsa Maki. Sentì le voci dietro di lei, ma non si fermò. Corse a perdifiato verso l’uscita. Vide la porta. Si lanciò fuori senza alcuna esitazione, ma alla cieca. Non aveva idea di quale sarebbe stata la prossima mossa. Non aveva un piano, né tantomeno un luogo a cui tornare.
Era quasi uscita dal cortile quando la porta si aprì di nuovo.
«Reina-chan! Fermati!» urlò Maki e, per qualche motivo, il corpo di Reina obbedì.
Rallentò, fece un altro paio di passi avanti, come per inerzia, e poi si fermò. Le faceva male il petto, non riusciva a respirare.
Anche Maki respirava affannosamente e Reina, sbirciando alle sue spalle, la vide piegata in due, con le mani sulle ginocchia sulle ginocchia. Aveva perso anche gli altri due bracciali nella corsa, ed era tutta scarmigliata, in disordine dalla testa ai piedi. Reina continuò a fissarla, guardinga. Le spalle di Maki tremavano, o almeno così le pareva. Erano uscite entrambe senza una giacca.
Cosa sto facendo? Era una domanda più che legittima. Niente le impediva di continuare a correre. Eccetto che era tutto sorvegliato lì, li tenevano sempre d’occhio e probabilmente l’avrebbero trovata in poco tempo. Dopotutto, non poteva andare lontano, giusto? Ma non era per questo che Reina si era fermata. Non sapeva perché lo avesse fatto: era stata una risposta istintiva all’urlo di Maki. Alla disperazione nella sua voce. Cosa sto facendo?
Bugiarda. Non avevano tutti i torti a chiamarla così. E ora tutte le bugie che aveva accumulato erano sul punto di venire a galla, soffocandola.
Maki cominciò a riprendere fiato.
«Reina-chan... tu non volevi spedire la lettera fin dall’inizio». Non era una domanda. Reina strinse i pugni e distolse lo sguardo, secca.
«Avrei dovuto trovare una scusa per non mandare quella stupida lettera» sbottò.
«Ma… ma perché? Reina-chan,» Maki abbozzò un sorriso, «puoi parlarmi di tutto, lo sai...?»
«Non ho nessuno a cui spedire una lettera. Non ho nessun numero da chiamare. Hai capito, adesso?».
Si concesse di sbirciare verso Maki, e vide il preciso istante in cui la sua espressione cambiò.
«Anche le chiamate... Anche le telefonate erano tutta una bugia... Reina-chan, era tutto costruito, fin dall’inizio...? Non capisco...» cominciò a balbettare, confusa. Il suo sorriso vacillò. Alzò la voce. «Io non capisco, Reina-chan! Non sarebbe stato più facile dire che non volevi farlo? Perché mentire? Se solo tu me l’avessi detto, io...!».
«Non potevo dirtelo!» sbottò. La sua voce echeggiò nello spiazzo innevato, e Maki ammutolì di colpo. Reina affondò le unghie nei palmi delle mani. Doveva fermarsi ora o mai più, perché non avrebbe potuto tornare indietro. Ma era arrabbiata, troppo arrabbiata, da troppo tempo.
«Vuoi la verità?! Eccola qui, la verità! Io ti invidio, Maki... ti invidio, ti invidio...
«Hai una madre che ti ama, e una famiglia, e degli amici. Il tuo dono è una vera benedizione e hai delle persone che tengono a te. E sei una brava persona. Sei davvero, davvero una persona gentile... Sei sempre stata gentile con me, mentre io pensavo queste cose di te! Sei... sei tutto ciò che non sono, che non potrò mai essere, perché non importa cosa faccia alla fine sono sempre sola! Volevo essere tua amica, ma... volevo anche essere te!».
La vista le si offuscò, e Reina sollevò il viso così che le lacrime non potessero cadere.
«Ora capisci perché non potevo dirlo?! Come posso dire una cosa simile senza sentirmi ancora più miserabile?! Se avessi detto la verità, sarei diventata ancora più patetica! In confronto a te, sarei stata soltanto patetica!
«Non volevo parlarne, perché non volevo pensarci! Se non avessi mentito, sarei stata costretta a guardare in faccia la verità, che a nessuno importa di me!» gridò, non sapeva più come fermarsi.
Maki urlò così forte da sovrastare la sua voce.
«Ma a me importa!».
Reina si bloccò. Poi abbassò lentamente lo sguardo.
Anche Maki stava piangendo, ma, al contrario di lei, non faceva nulla per trattenere le lacrime. Guardava dritta verso di lei, senza paura. A carte scoperte.
«Se è così difficile da dire, non devi dirmelo per forza! Puoi anche dirmi che non ne vuoi parlare! Avrei preferito mille volte questo, piuttosto che una bugia!» gridò Maki. «Perché a me importa di te! E sono davvero felice che tu voglia essere mia amica...!».
«Come puoi dirlo?! Non sai niente di me!».
«E allora dimmelo! Voglio sapere tutto, voglio starti accanto! Non importa cosa mi dirai... Non importa se saranno solo cose terribili, Reina-chan sarà sempre Reina-chan!».
Reina soffocò un singhiozzo.
«Ma il mio dono...!».
La voce le venne a mancare. Maki poteva parlare così perché non sapeva. Non conosceva il vero orrore. E allora glielo avrebbe detto. L’ultimo piccolo, orribile segreto.
«Io posso vedere la morte delle persone!» gridò.
«Tu puoi salvare vite, mentre io…! Io non posso fare altro che vederle morire, ancora e ancora, e non posso evitarlo... Non posso fare niente, perché nessuno mi crede, nessuno capisce! Tutti mi trovano disgustosa, e anche tu… anche tu, adesso che lo sai...!
«Se la mia vita non cambierà, se anche il mio futuro sarà questo, allora avrei preferito non essere mai nata...!».
Reina si bloccò, senza fiato. Era esausta, e così triste, e così arrabbiata, da non poter più fermare le lacrime. Poi fu sopraffatta dalla vergogna e dalla paura, e chinò di nuovo il capo perché non voleva vedere l’espressione di Maki. Si aspettava che Maki si scagliasse contro di lei; invece seguì un lungo silenzio, che si mostrò ancora più difficile da digerire.
Alcuni interminabili minuti dopo, Maki parlò.
«Ho capito... Adesso basta. Basta così...» disse, poi tacque di nuovo.
Dal rumore dei passi e dal crepitio della neve calpestata, Reina capì che Maki se ne stava andando.
No. Si stava avvicinando.
Quando Reina sbatté le palpebre per schiarirsi la vista dalle lacrime, nel suo campo visivo comparve la punta dello stivale di Maki. Era a pochi passi da lei.
Senza pensarci Reina alzò la testa di scatto, sorpresa, e proprio in quel momento Maki la raggiunse e tese le mani verso di lei. Le braccia di Maki si strinsero attorno al suo corpo, con la stessa delicatezza con cui aveva raccolto quell’uccellino, come se avesse paura di romperla. La abbracciò così dolcemente da farle venire da piangere, e fu la prima volta che Reina realizzò che anche le cose delicate possono farti male.
«Basta, ti prego», la voce di Maki si spezzò in una supplica, «smettila di parlare così di te stessa! Non permetterò a nessuno di parlare male della mia amica, nemmeno se sei tu!».
Reina trattenne il respiro. Una lacrima le scivolò lungo la guancia.
«Perché...?» mormorò. Maki la strinse un po’ di più.
«Tu... tu dici di invidiarmi, ma... neanche io sono sempre sincera. Anch’io spesso mento agli altri e a me stessa. Cerco sempre di sorridere, di apparire ottimista, come se niente potesse buttarmi giù, anche quando in realtà sono triste, così triste che non so cosa fare... Solo per soddisfazione personale, per non essere ferita...
«Ho un amico che, come te, ha avuto una vita difficile... Quando era il momento di consolarlo, io non sono riuscita a dirgli niente. Anche se gli voglio bene, anche se sono sempre così preoccupata per lui... Sono rimasta là, senza dire niente... perché avevo paura di sbagliare, e di essere ferita. Sono stata così egoista...!
«Da quel giorno, ho deciso di non restare mai più in silenzio... A costo di essere fastidiosa e invadente, a costo di farmi odiare, ho deciso di dire sempre quello che provo alle persone a cui voglio bene... Perché certe cose, per quanto siamo vicini, vanno dette ad alta voce».
Maki si staccò da lei e la guardò, seria.
«Col mio dono posso guarire le ferite fisiche, ma non posso far nulla per quello che provi. Quello devi dirmelo tu, e possiamo lavorarci insieme. Perché siamo amiche, non è così?».
 «Tu vuoi,» Reina deglutì a fatica, «ancora essere mia amica...?».
«Non potrei mai odiarti,» disse Maki, «perché tu, Reina, sei così gentile.
«Sei gentile, per questo hai sopportato tutto da sola. Ma adesso è diverso. Non sei più sola, non sarai mai più sola, non importa cosa accada, te lo prometto».
Maki premette il viso bagnato contro il suo collo, e Reina avrebbe voluto scomparire nel suo abbraccio. Strinse una mano nel maglione di Maki, aggrappandosi a lei.
Tutti quegli anni di dolore – di rifiuti, di porte sbattute in faccia, e notti bianche – non erano nemmeno paragonabili a ciò che la terrorizzava di più. Gli incubi non erano nulla in confronto ai pensieri che la aspettavano al risveglio.
«Mi dispiace... mi dispiace, mi dispiace» pigolò Reina.
«In realtà, so che è colpa mia se sono sola... Anche se tutti mi rifiutavano, avrei comunque potuto farmi degli amici. Avrei potuto impegnarmi di più, ma non l’ho fatto. Ho lasciato che la distanza crescesse sempre, sempre di più... Sono stata io, fin dall’inizio, a mettere un muro tra me e gli altri. Perché più andavo avanti, più realizzavo che...
«È tutto inutile, non posso avere amici,» balbettò, «perché se li avessi, e dovessi vedere la loro morte... rimarrei troppo ferita, e non potrei sopportarlo...!».
«Lo so» ribatté Maki, con voce tremante. «Lo so, ma non puoi restare sola per sempre. Sono sicura che non è inutile... Se cerchiamo un modo insieme, qualcosa cambierà. Sono sicura che insieme troveremo un modo...
«E, anche se ci saranno momenti difficili, starò al tuo fianco e non mi arrenderò! Perché credo fermamente che un giorno... un giorno, sicuramente... il destino potrà essere cambiato. E così anche tu, Reina, potrai essere felice. Perciò... facciamo del nostro meglio, va bene...?».
A quel punto, le lacrime diventarono troppe, e Reina non riuscì più a vedere nulla.
«Sì» disse soltanto, poi i singhiozzi cominciarono a scuoterle tutto il corpo e non fu più possibile fermarli. Pian piano si appoggiò a Maki, premendo la fronte contro la sua spalla.
Più tardi, con più calma, Reina raccontò a Maki tutto: del suo dono, dei suoi genitori, dei suoi parenti. Anche se il suo viso s’incupiva sempre di più, Maki la ascoltò senza dire una parola e alla fine sorrise. Strinse appena le dita attorno al suo polso e le disse, piano: «Torniamo».
 
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Trovarono Fumiko seduta sul proprio letto, immersa nella lettura del libro sullo yoga. Aveva un’espressione impassibile, come se nemmeno si fosse accorta di quanto tempo erano state via, ma Reina si accorse che non era affatto andata avanti rispetto all’ultima volta che l’aveva vista leggere. Fumiko abbassò il libro, le studiò per circa un minuto, poi annuì, senza fare domande. Reina gliene fu grata.
Si prepararono per la notte come al solito, ma, non appena venne il momento di dormire, Maki sorprese entrambe spingendo il letto di Reina contro il proprio.
«Così possiamo dormire vicine! Sarà un po’ come un pigiama party!» esclamò mentre s’infilava sotto le coperte. Reina esitò, ma poi la imitò. Fumiko le guardò, poi scrollò le spalle e spense le luci. Nel buio, Maki si girò a guardare Reina.
«Hai paura di addormentarti?» le sussurrò. «Per i brutti sogni?».
Reina annuì, piano. «Un po’».
«Se succederà, puoi svegliarmi. Ci sono io a proteggerti» la rassicurò Maki. Imbarazzata, Reina si morse il labbro e non rispose. Maki allungò una mano e le diede una piccola carezza sulla testa, come se stesse consolando una bambina.
Un rumore improvviso le fece sobbalzare. Le luci si accesero di nuovo. Maki e Reina scattarono entrambe a sedere e guardarono stralunate la compagna che stava in piedi e a braccia conserte.
«Oh, non guardatemi così» disse Fumiko. Con un po’ di fatica, spinse il proprio letto accanto ai loro, poi spense le luci e tornò a letto. Una volta scivolata sotto le coperte, diede loro le spalle.
«Buonanotte» bofonchiò. Maki sorrise.
«Eri preoccupata, Fumi?».
«Oh, sta zitta, Maki».
Reina pensò a Fumiko, che le aveva aspettate in camera per tutto il tempo, e al libro rimasto a metà. Poi premette il viso contro il cuscino, bagnandolo con le proprie lacrime, e chiuse gli occhi. Per la prima volta in molto, molto tempo, era certa che sarebbe stata una nottata tranquilla.
 
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Una mattina, entrando nell’area relax dove le tre amiche trascorrevano serenamente la pausa pomeridiana, Zell esordì così:« Quindi, sembra che mi trasferirò subito dopo Natale».
Fumiko non sollevò neppure lo sguardo dal libro. «Ah, davvero?» mormorò, mentre Maki e Reina smisero di parlare dell’addestramento della mattina e si voltarono verso di lui. Maki gli fece subito spazio vicino a lei e Zell accolse l’invito con gratitudine, lasciandosi cadere sul divanetto verde acido. Passò qualche minuto a cercare la posizione più comoda prima di riprendere il discorso.
«Okay, allora, Saginuma-san ha sistemato le cose a Hokkaido, perciò posso finalmente trasferirmi. Pare che lavorerò direttamente sotto il suo comando e... be’, non posso dirvi altro, scusate, è top secret».
«In realtà nessuno ti ha chiesto niente» obiettò Fumiko. Maki le diede un lieve schiaffo sul braccio, e lei alzò gli occhi al cielo.
Maki si rivolse a Zell. «Mi mancherai, ma se sei felice, ti appoggerò!» lo incoraggiò. Poggiò una mano sulla sua spalla e gli diede una breve stretta, piena di affetto. Zell ricambiò con un sorriso sollevato, poi si girò e incrociò lo sguardo di Reina.
La ragazza esitò per un attimo. Aveva paura di non riuscire a essere felice per lui; cercando dentro di sé, però, non trovò più i sentimenti negativi che aveva avuto la volta precedente. Si poggiò una mano sul petto e sospirò di sollievo. Quella scoperta la faceva sentire molto meglio.
Zell ora la guardava perplesso, e Reina tentò di abbozzare un sorriso un po’ goffo.
«Sono felice per te, Zell. So quanto volevi andarci» disse.
«Grazie» mormorò lui. Sembrava un po’ commosso. Reina si chiese se avrebbe dovuto stringergli la mano o qualcosa del genere, ma si bloccò, temendo che a Maki potesse dare fastidio. Le pareva che quei due si piacessero a vicenda, non voleva mettersi in mezzo.
Rimasero per un po’ in silenzio, poi Fumiko sbottò: «E va bene, anch’io sono felice per te, okay? Non sei così fastidioso, in fondo. Congratulazioni!».
Maki soffocò a stento una risata, guadagnandosi un’occhiataccia. Per alleggerire l’atmosfera, senza però incorrere nell’ira di Fumiko, Zell decise di cambiare argomento alla svelta.
«E voi cosa farete? Avete già un piano per il futuro?» domandò.
Fumiko si ricompose immediatamente.
«Io seguirò Hitomiko-san, è naturale!» dichiarò. «E sia chiaro, non farò certo l’agente. Pensavo piuttosto di fare lavoro d’ufficio. O magari farò la segretaria di Hitomiko-san, quello sì che sarebbe un sogno!».
«Ah, neanche io sarò agente operativo, credo. Sarebbe un po’ troppo complicato» osservò Zell.
«Scusate, non vi seguo» intervenne Reina, confusa. «Cosa fa un agente... operativo?».
«Be’, non è una regola, ma di solito solo quando hai un dono puoi fare l’agente. E scelgono gente particolarmente forte, o che sia utile, comunque» spiegò Zell, tranquillo. «Non penso che molta gente qui finirà sul campo, ecco».
Reina si accigliò. «Ancora non vi seguo».
«In breve, qui hanno tutti doni deboli, o difensivi, o roba che certo non ti salverebbe in battaglia» disse Fumiko. Le labbra le si incresparono in un sorriso insolitamente candido. «L’ha voluto Hitomiko-san, per non lasciare indietro nessuno. Un’altra prova della sua infinita compassione! Altri ci avrebbero semplicemente scartati, invece lei ci ha dato un posto tutto per noi». Reina annuì, cercando di metabolizzare il tutto. Finalmente capiva perché Hitomiko l’aveva fatta venire in quel posto, e quella nuova consapevolezza le scaldò il petto.
«Non... non lo sapevo. Grazie di avermelo detto» mormorò.
Fumiko annuì, soddisfatta. Maki alzò una mano di scatto, come se volesse essere interpellata, ma era troppo impaziente per aspettare oltre.
«Anche la qui presente Sumeragi Maki entrerà nella stessa agency dove c’è Hitomiko-san! Ma ho deciso che farò l’agente operativo! O, almeno, cercherò di diventarlo... Un mio amico andrà lì e ci siamo promessi di provarci assieme, quindi farò del mio meglio!» annunciò.
Fumiko aggrottò la fronte, perplessa.
«Non sarà per niente facile, lo sai? Non siamo stati addestrati a combattere» obiettò.
«Lo so! Ma voglio farlo lo stesso!».
Fumiko la fissò per un lungo momento. «Be’, va bene. Non è che voglia farti cambiare idea. E poi tu di certo non sarai inutile, sei come una cassetta del pronto soccorso su gambe».
«Grazie!» esclamò Maki allegramente, anche se Reina non era affatto certa fosse un complimento. Fumiko scosse il capo, esasperata, ma Maki la ignorò e si sporse sul tavolo verso Reina, piena di entusiasmo.
«Reina! Tu hai già deciso? Se non hai altre idee, vieni con noi! Se diventi agente operativo anche tu, potremmo essere partner!» esclamò.
L’aveva colta alla sprovvista un’altra volta. Reina esitò e, in silenzio, osservò i suoi tre amici uno ad uno.
«Io... ho perso il mio posto una volta, e da allora non ne ho più avuto uno. Mi sono fatta semplicemente trascinare dagli eventi, ma non voglio più farlo. Voglio fare qualcosa che mi renda orgogliosa. E felice» disse lentamente, scegliendo con cura le parole. Si girò e guardò Maki dritto negli occhi. «Quindi la mia risposta è sì».
Maki sbatté le palpebre, confusa. «Sì?».
«Sì» ripeté Reina. «Verrò con te. E proverò a diventare un agente operativo, anche se il mio dono non è forte, né utile, né altro. Farò tutto quello che posso e conquisterò la forza che voglio con le mie mani».
Maki spalancò la bocca per la sorpresa, ma poi scoppiò in una fragorosa risata. Si alzò, fece il giro del tavolo e si gettò su di lei, facendola quasi cadere dal pouf.
«Sei la migliore! Saremo le migliori partner di sempre!» strillò Maki.
Reina pensò che Fumiko si sarebbe lamentata del rumore, ma per una volta l’altra sembrava totalmente senza parole. Reina sperò che fosse una cosa positiva. Cercando di non soffocare nell’abbraccio di Maki, si voltò leggermente e incrociò lo sguardo di Zell. Il ragazzo le fece un piccolo cenno col capo e sorrise, come a farle i suoi migliori auguri.
 
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Scelsero una mattina di bel tempo, o comunque il migliore possibile. Il cielo era azzurro, il sole brillava alto anche se non era caldo e di nuvole non c’era traccia, perché erano state soffiate via dal vento. Quello era l’unico problema. Reina strinse le mani nelle maniche del giubbino nero che era stato il regalo d’addio della zia; per qualche motivo, lo sentiva molto più caldo del solito. Fumiko e Maki stavano in piedi alla sua sinistra, entrambe ben coperte. Fumiko indossava almeno due maglie in più rispetto a loro; insomma, la normalità. E così le tre ragazze attesero in silenzio che Zell portasse lì l’ospite d’onore.
Il ragazzo arrivò poco dopo, portando a due mani la gabbia. L’uccellino sembrava parecchio vispo e dava voce all’agitazione strillando, specialmente quando la gabbia fu poggiata a terra.
Zell guardò le ragazze, aspettando un loro cenno di assenso. Il suo sguardo indugiò più a lungo su Reina, la quale annuì dopo un attimo di esitazione.
Quando Zell aprì la gabbietta, l’uccello saltellò fino ad arrivare all’uscio della porticina e si guardò attorno spaesato e impaurito. Aprì un’ala, poi l’altra, come se stesse testando le proprie capacità fisiche, poi finalmente lasciò la gabbia. Nell’istante in cui spiccò il volo, Reina trattenne il fiato. All’improvviso realizzò che tantissime cose sarebbero potute andare storte.
Come a confermare quelle paure, l’uccellino riuscì a salire solo di qualche metro prima che una folata di vento lo investisse e lo spingesse verso il basso. Per un attimo Reina temette che sarebbe precipitato, o che il vento lo avrebbe trascinato con sé. Strinse i pugni sul petto e mormorò sottovoce: «Coraggio... coraggio...!».
Poco dopo, come se in qualche modo avesse recepito l’incoraggiamento, l’uccello sconfisse la pressione del vento e riprese quota. Acquistata maggiore sicurezza, disegnò un cerchio sopra le loro teste, poi si sollevò sempre di più, fino a stagliarsi contro l’immensità del cielo azzurro. Reina non riusciva a staccare gli occhi da quell’immagine. Proprio adesso, aveva voglia di cantare a gran voce, ma non conosceva le parole di nessuna canzone. Anzi, una sì.
Il testo di Amefuri cominciò a riversarsi dalle sue labbra prima di potersi fermare. I suoi amici si voltarono a guardarla, stupiti. Reina era consapevole che era una scelta strana, tuttavia non smise di cantare: non avrebbe potuto fermarsi neanche volendo, perché, se l’avesse fatto, di certo le sarebbe venuto da piangere. Non aveva mai provato un’emozione tanto forte.
Rimase sorpresa quando Maki si unì a lei e le loro voci si sovrapposero in un quieto pitchi pitchi chappu chappu ran ran ran. E, forse, provò uno stupore ancora maggiore quando la voce di Zell si aggiunse alle loro. Fumiko, invece, scosse il capo e sospirò.
«Sul serio? Ma non sta neanche piovendo» mormorò, lo sguardo fisso sul cielo. Aveva l’espressione più serena che Reina le avesse mai visto in volto.
La cinciarella non si fermò a salutarli prima di volare via, ma Reina non se la prese: dopotutto, pensò, gli uccelli nascevano per essere liberi. Era felice che le loro strade si fossero incrociate, anche se per poco. Mentre lo pensava, il suo cuore era leggero come una piuma. 
 
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La mattina di Natale, Maki la svegliò saltandole letteralmente sul letto.
«Reina! È Natale! Il nostro primo Natale assieme!» esclamò, scuotendola. Quando aprì gli occhi, Reina se la trovò a un palmo dal naso. Ricordava vagamente di essere crollata dal sonno la sera precedente.
Hitomiko aveva organizzato per loro una festa della vigilia a sorpresa, e avevano festeggiato fino a tarda serata. La mensa, decorata in ogni angolo con lucine e addobbi natalizi, offriva una sfilza di piatti prelibati, che avevano mangiato con gli occhi prima ancora che con la bocca. Fette di arrosto di maiale navigavano in zuppe di ramen e miso, sulle quali troneggiavano uova fritte dal tuorlo dorato; c’erano montagne di pollo fritto impilate su vassoi ovali; i cesti di panini bianchi al vapore, caldi e morbidi, venivano riempiti di continuo, così che non ne restassero mai senza; e per tutta la sera si erano passati avanti e indietro ciotole di riso da riempire a proprio piacimento con fette di prosciutto, manzo essiccato, funghi, uova strapazzate e verdure di stagione. Alla fine del pasto, il cuoco che Hitomiko aveva assunto – un uomo alto e grosso con capelli e barba bianca e occhialini scuri sul naso, che avrebbe potuto benissimo essere Babbo Natale in persona – era uscito dalla cucina con un carrello di dolci: una shortcake altissima e sofficissima, ricoperta e farcita con panna e fragole, e un tronchetto di crema al cioccolato con decorazioni di zucchero colorate. Non c’era da meravigliarsi se avevano mangiato fino a scoppiare, per poi crollare abbracciati ai propri cuscini appena messo piede in camera da letto.
Dal momento che Reina era ancora intontita dal sonno, Maki le afferrò le mani e la tirò su praticamente di peso.
«Vestiti, dai! Ho scelto io per te!» esclamò, indicando quelli che erano certamente abiti di Reina, piegati in fondo al suo letto. Troppo assonnata per fare domande o protestare, Reina lasciò il letto e andò in bagno con i vestiti sotto braccio. Mentre si preparava, rischiò di restare incastrata nel maglione di lana spessa per ben due volte. Quando finalmente riuscì ad emergere dal collo a tartaruga senza soffocarsi, si guardò allo specchio e realizzò vagamente che Maki aveva abbinato un pantalone rosso ruggine con un maglione azzurro e calzettoni verdi. Decise di non cambiarsi, tornò in camera e gettò il pigiama appallottolato sul letto.
Maki era seduta a terra a gambe incrociate e si stava mettendo lo smalto; aveva già finito una mano. Fumiko, già sveglia e pronta da un pezzo, era seduta sul proprio letto. Una rapida occhiata all’aspetto di Reina bastò perché si alzasse.
«Vieni qua, ti sistemo i capelli» disse. Frugò nel cassetto del comodino, poi afferrò Reina per un braccio e la fece sedere sul bordo del letto con lei. Cominciò a pettinarla, un po’ con le dita, un po’ con la spazzola, senza aspettare una risposta da parte di Reina, al momento incapace di formulare una frase.
Mentre Fumiko era indaffarata a riempirle i capelli di forcine, lo sguardo di Reina cadde involontariamente sulle calze di lana dell’altra: alte fino al ginocchio, rosse, con ricami blu che rappresentavano dei cristalli di neve, e quasi certamente fatte a mano. In quel momento, le tornò in mente proprio l’immagine di sua zia che faceva la maglia. Era un ricordo caldo, con una punta di malinconia, la stessa sensazione che si prova guardando una vecchia foto ingiallita.
«Fatto!» annunciò Fumiko, strappandola ai suoi pensieri. Sembrava molto soddisfatta di sé. Sentendo un’insolita sensazione di freddo alla nuca, Reina si portò istintivamente una mano ai capelli, ma Fumiko la bloccò.
«Ehi! Non toccarla, rischi di rovinarla! Aspetta un momento» disse, si alzò e prese una sorta di astuccio dal comodino. Quando lo aprì, Reina realizzò che era una trousse e, sopra una piccola palette di lucidalabbra e ombretti, c’era uno specchio rettangolare, di modeste dimensioni.
Reina osservò attentamente la pettinatura a cui non era abituata. Era una semplice coda di cavallo, anzi una treccia, che partiva dal centro della testa e scendeva sulle spalle. Fumiko aveva lasciato sciolte le due ciocche bianche, in modo che cadessero morbide davanti alle sue orecchie. In quel momento, Maki sollevò lo sguardo verso di loro.
«Oooh, ma quanto sei carina!» commentò. «Fumi, ottimo lavoro! Le sta benissimo!».
«Ovviamente».
«È carinissima» disse Reina. «Mi piace molto. Grazie, Fumiko».
Fumiko sorrise, molto compiaciuta. Era molto brava in quel genere di cose. Restava però un mistero come riuscisse a farsi i boccoli ogni mattina.
Reina si sedette di nuovo sul letto per infilarsi gli stivali. Intanto, Maki decise che lo smalto era abbastanza asciutto e si tuffò, quasi letteralmente, nel letto sfatto: si stese a pancia sotto, con i piedi dondolanti in aria e la testa che sporgeva dal bordo, mentre si protendeva per raggiungere qualcosa sotto il materasso.
«Finirai per cadere» la avvertì Fumiko, ma Maki la ignorò. Stava canticchiando un motivo natalizio piuttosto allegro, che dopo un po’ Reina riconobbe come Jingle Bells.
«Ecco qua!».
Maki si rialzò, sollevando in aria una scatola colorata con fare trionfante. La aprì, sotto lo sguardo stupefatto delle sue amiche, e ne tirò fuori una larga sciarpa rosa, su cui erano stati cuciti a mano tanti piccoli fiorellini di tessuto. Maki pescò dalla scatola anche una busta di carta giallina e la tese a Fumiko.
«Questo è il mio regalo di Natale per te» rivelò Maki con un gran sorriso. Confusa, Fumiko accettò la lettera. Maki scoppiò a ridere.
«Ma no, non solo la lettera» disse. Si alzò e, con delicatezza, avvolse la sciarpa sulle spalle di Fumiko. «Ah, ti dona tantissimo, che bello!».
«Uh, sì... cioè, cosa?» farfugliò Fumiko, mentre istintivamente tastava la sciarpa con la mano libera. «Ma io non ti ho regalato niente» bofonchiò, imbarazzata.
«Figurati! Non devi sentirti in debito, l’ho fatto perché volevo. Cucire è il mio hobby! Ho imparato da mia mamma. Quindi ho chiesto aiuto a Hitomiko-san per la lana» disse Maki.
Invece di rispondere a voce, Fumiko la abbracciò e Maki ricambiò all’istante, sorpresa, ma felice.
«Mi raccomando, leggi anche la lettera!» disse quando si staccarono. Fumiko tossicchiò, cercando di ricomporsi.
«Sì, sì, in privato, perché sono certa che sarà imbarazzante» mormorò, impacciata.
Maki rise di nuovo, poi riprese in mano la scatola; questa volta, a uscirne fu un involucro di carta scura, su cui c’era una letterina attaccata con del nastro adesivo. Maki si girò verso Reina e le tese il pacchetto.
«Buon Natale, Reina» disse, incoraggiante.
Appena lo ebbe tra le mani, Reina staccò subito la lettera, tirandola con attenzione per paura di strapparla per errore. Una volta scartato il pacco, si trovò in mano un paio di guanti di stoffa blu cuciti a mano, con ricambi bianchi e gialli all'altezza dei polpastrelli. Era chiaro a cosa Maki stesse pensando mentre li creava. Reina alzò lo sguardo di scatto, con gli occhi velati di lacrime.
«Maki... sono bellissimi... Grazie, è il regalo di Natale più bello che abbia mai ricevuto… Be’, non che ne abbia ricevuti tanti, ma sai che voglio dire» disse, un po’ a fatica. Rise piano mentre asciugava gli occhi umidi.
«Mi accerterò di ricambiare in futuro... partner» aggiunse.
Un attimo dopo, Maki le gettò le braccia attorno e la abbracciò strettissima.
 
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Appena messo piede fuori, Fumiko inspirò bruscamente e soffiò tra i denti, stringendosi le braccia attorno al corpo. Portava la stessa gonna che aveva indosso il giorno in cui si erano incontrate per la prima volta; Reina era sicura che sotto avesse almeno due paia di calze di cashmere. Era un mistero come riuscisse a muoversi agevolmente con tutti quegli indumenti pesanti addosso. Fumiko si arrestò appena fuori la porta, decisa a non oltrepassare il portico. Onestamente, era già un miracolo che fosse venuta fin lì, considerato che non aveva grande affinità con Zell e il genere maschile in generale.
Reina si fermò poco più avanti di lei e si guardò attorno.
Hitomiko e Saginuma stavano parlando davanti alla monovolume. Aveva nevicato tutta la notte, e i loro capelli scuri spiccavano nello spiazzo imbiancato. I ceppi di tronco erano stati sepolti quasi totalmente, e i rami ossuti degli alberi erano come impolverati, cosicché l’intero paesaggio era silenzioso e spettrale. La valigia di Zell era sotto il portico, a pochi metri da loro, mentre il suo proprietario se ne stava in disparte, appoggiato alla parete con il viso sepolto nella sciarpa.
Prima che Reina potesse chiamarlo, Maki la anticipò.
«Zell! Siamo venute a salutarti!» cinguettò, allegra. A ogni passo la sua gonna di tulle sobbalzava e si sollevava di un buon palmo, scoprendo i calzettoni di lana a pois.
Appena gli fu abbastanza vicina, Maki afferrò le mani di Zell e le strinse forte, dondolandole da un lato e dall’altro.
«Ehi, ciao» disse Zell, con la voce soffocata dalla sciarpa. Non sembrava infastidito per il gesto, ma cominciò ad agitarsi non appena realizzò che non erano soli. Pensando che fosse imbarazzato, e sentendosi improvvisamente di troppo, Reina si voltò da un’altra parte.
«Ah, fate come se non ci fossi» disse, sperando di rassicurarli. «Voglio dire, scusate, non ho pensato che voleste un po’ di... privacy. Ma posso andare più in là, se volete».
Maki e Zell la guardarono con un’espressione spaesata.
«Eh? Perché?» chiese Maki.
«Perché... non voglio essere invadente...?». Adesso anche Reina era confusa. Continuarono a fissarsi senza capire niente, finché Fumiko non intervenne.
«Oooh, capisco. Pensa che voi due siate una coppia...» disse, e sulle sue labbra comparve un sorriso divertito.
Non aveva neanche finito che Maki e Zell si separarono di scatto. Zell fece un verso soffocato e guardò Reina a occhi sgranati.
«Noi non stiamo insieme!» esclamò, con una voce un po’ più acuta del normale.
Reina non capiva come mai fosse tanto agitato.
Lo studiò in silenzio, fissandolo dritto in viso, finché Zell non ruppe il contatto visivo per la vergogna. Il ragazzo cominciò invece a giocherellare goffamente con l’orlo della giacca a vento, forse lambiccandosi il cervello per trovare qualcosa da dire e alleviare la tensione. Fumiko si premette una mano sulla bocca, come se si stesse trattenendo per non scoppiare a ridere, mentre Maki si sbatté una mano sulla fronte e sospirò.
«Siamo solo amici, Reina» disse. Anche lei sembrava a disagio, e rivolse a Zell un’occhiata sconfortata. «Solo amici, davvero» sottolineò con maggiore enfasi.
«Oh. Va bene, ho capito. Mi dispiace aver frainteso» ribatté Reina, perplessa dalle loro reazioni, a suo parere eccessive.
Dopo alcuni secondi di silenzio, Maki colpì Zell sulla schiena e, quando lui la guardò stupefatto, gli scoccò un’occhiata eloquente. Allora Zell fece un mezzo passo verso Reina: le sorrise, incerto, e le tese la mano.
Reina la guardò per un momento, poi la ignorò e si mosse per abbracciarlo: era troppo più bassa di lui, perciò dovette accontentarsi di stringerlo all’altezza del petto, ma a lei piaceva così. Zell sobbalzò, preso in contropiede, e agitò le mani senza sapere dove appoggiarle. Reina sospirò.
«Ho sentito dire che in Hokkaido fa molto freddo. Prenditi cura di te» gli disse, sottovoce. A quel punto finalmente Zell si rilassò e, superato lo stupore iniziale, la strinse al petto. Reina percepì distintamente le sue mani gentili sulla schiena, e il suo respiro tra i capelli.
«Lo farò. Buona fortuna anche a te... Reina» mormorò il ragazzo.
Sciolsero lentamente l’abbraccio. Zell sembrava raggiante, al punto che sembrava contagioso. Separarsi con un sorriso non era poi così male.
 
xxx
 
Due settimane dopo la partenza di Zell, anche per le ragazze arrivò il momento di lasciare il nido.
Reina era pronta, ma non lasciò subito la stanza. Voleva osservarla prendersi qualche momento per imprimere ogni dettaglio nella propria memoria. Vedendo i letti spogli e i mobili svuotati, era impossibile non provare tristezza, ma bisognava andare avanti. Stranamente, Reina non aveva paura del cambiamento che si stava verificando tutt’intorno a lei, e dentro di lei.
Fumiko e Maki avevano lasciato la camera prima di lei; si erano alzate molto presto, perché la sera precedente Hitomiko aveva chiesto loro di raggiungerla nel proprio ufficio. Reina era impaziente di riunirsi a loro, e fu questa impazienza a spingerla a chiudere la porta una volta per tutte. Scese al piano inferiore, con zaino e borsa sulle spalle. Gli scarponcini colpivano il pavimento con un suono continuo e musicale: toc toc. Gli altri ragazzi se n’erano andati il giorno prima e nel centro regnava un silenzio innaturale. Toc toc. Reina si era abituata al chiacchiericcio, al tintinnio delle posate, al rumore dei passi. Ora, invece, si sentivano solo i suoi. Toc toc toc toc.
Alcuni erano rimasti in Giappone; altri erano partiti addirittura per l’Europa, dove il padre di Hitomiko aveva un vecchio amico. Il sistema che regolava le agency era complesso e la confondeva ancora. Erano partiti prima di lei perché tutti avevano scelto, com’era prevedibile, di non diventare agenti operativi. Chissà se lavorare in un ufficio li avrebbe resi davvero felici? Reina pensava di conoscerli bene, ma adesso, vagando per quell’enorme edificio vuoto, realizzò che non aveva la minima idea di quali motivi avessero spinto ognuno di loro ad accettare l’invito di Hitomiko. E lo rimpianse, perché sapeva che c’erano poche probabilità di rivederli.
Ciò che più la rendeva triste era il pensiero di non avere più modo di contattare Zell. Apparentemente, la sua agency era praticamente tagliata fuori dal resto del mondo. Se l’avesse saputo prima, forse avrebbe insistito perché restasse, ma ormai non c’era niente da fare.
Dovette arrivare fino a una delle due aree relax per riuscire a incontrare un’altra persona.
Quella mattina Fumiko indossava un maglione grigio scuro che le arrivava fino alle ginocchia e, legata intorno al collo con un fiocco, la sciarpa che Maki le aveva regalato per Natale. Le calze di lana rossa sparivano in stivali alti di pelle di daino, chiaramente imbottiti. Era seduta su un pouf con le gambe accavallate, un gomito sul tavolo e il viso appoggiato a una mano; con l’altra sfogliava il libro di autodifesa che teneva aperto davanti a sé. L’aveva quasi finito.
Reina si sfilò la borsa, la poggiò sul tavolo e si sedette di fronte a lei. Fumiko era l’unica, tra quelli che avevano scelto il lavoro d’ufficio, a non essere partita subito. Non aveva alcuna intenzione di lasciare quel posto senza Hitomiko.
Quando Reina si sporse per leggere il titolo del libro, Fumiko alzò lo sguardo verso di lei.
«Lo vuoi? Io sono alla fine, quindi puoi chiedere a Hitomiko di prestarlo anche a te. In fondo questa roba servirà molto più a te che a me».
«Sì, in effetti potrebbe farmi comodo una lettura veloce» disse Reina, scrollò le spalle. «Credo che Maki e io dovremo faticare il doppio per riuscire a entrare... Ma chi se ne importa».
Fumiko la squadrò per un momento, poi disse: «Devo ammettere che mi hai veramente sorpresa. Non pensavo che avresti preso questa strada».
Reina abbassò lo sguardo e si mise a giocherellare con la zip della giacca.
«Mm, in effetti, ne sono rimasta sorpresa anch’io. Sai, devo tutto a voi».
«In che senso? Non ti seguo».
«Be’, tu, Zell e Maki mi avete fatta sentire... a casa. E, mentre pensavo a come esprimere la mia gratitudine, ho capito che in realtà i miei sentimenti erano molto più profondi. Mi sono sempre sentita in difetto verso gli altri, come se dovessi sempre loro qualcosa... Ma tutto quello che volevo era qualcuno che avesse bisogno di me, qualcuno che volesse me. Così ho capito che quello che voglio davvero è fare la differenza per qualcuno.
«Insomma, voglio essere una persona migliore, credo» concluse e sorrise timidamente.
Fumiko non rispose subito. Quando Reina sollevò lo sguardo, e vide la sua espressione combattuta, allungò la mano sul tavolo e la poggiò sulla sua senza pensarci due volte.
Fumiko sospirò, poi si girò verso di lei. Le sue labbra tremarono leggermente.
«Il mio dono...» disse, seria. «Non è niente di speciale, e ha anche un prezzo... Posso produrre una piccola fiammella, ma perché la fiamma bruci, qualcosa deve consumarsi in cambio... Sono come una stupida candela».
«Aspetta, per questo hai sempre freddo?» chiese Reina, stupita. «Il tuo potere... intacca la temperatura del tuo corpo?».
Fumiko annuì, imbronciata.
«Ma, anche se come potere fa schifo, è pur sempre una cosa anormale. Sono figlia unica, e mia madre mi ha cresciuta da sola, e... Lei, quando l’ha scoperto... be’, ha cominciato a dare di matto. È diventata ossessiva, mi ha impedito di andare a scuola e voleva che rimanessi sempre dentro casa, dove lei poteva vedermi» raccontò con voce sommessa.
«Perciò Hitomiko-san mi ha salvata, ci ha salvate. Mamma si è convinta e... e ora sta bene. Quando ci sentiamo al telefono, adesso, mi sembra di parlare con la mamma di prima, prima che il mio dono venisse fuori...».
Fumiko si accigliò, le labbra piegate in una smorfia.
«Non è facile da spiegare. Dovrei avercela con lei, ma... lei mi ama. Aveva paura, ma credo che abbia cercato di proteggermi come poteva. E io la amo, ma mi sentivo in gabbia e non ero felice... ma non è tutta colpa sua. Non so se ha senso... Ha senso per me».
Reina ci pensò. Non poteva dare una risposta superficiale.
Istintivamente strinse la mano libera sul petto, sentì il tessuto della giacca scivolarle sotto i polpastrelli. Nella sua mente, tornò vivida l’immagine della donna che la chiamava “cara”, e che le aveva fatto due regali a cui Reina teneva moltissimo, per quanto di seconda mano. Forse la donna aveva cercato di starle vicino, a modo suo, ma erano tentativi goffi, in ritardo di anni, e allora Reina non l’aveva capito.
«Sì... sì, credo di capire cosa vuoi dire» dichiarò alla fine.
Estese anche l’altra mano verso Fumiko.
«Facciamo entrambe del nostro meglio, okay?» disse, con un sorriso. Quando Maki le aveva detto quelle parole, l’aveva resa molto felice; adesso sperava di poter fare lo stesso per Fumiko.
Con suo grande sollievo, Fumiko si sciolse in un sorriso gentile e le strinse le mani a sua volta; poi chiuse gli occhi un momento e cercò di ricomporsi.
Proprio allora, con un tempismo perfetto, Maki entrò nella stanza di corsa e gettò le braccia attorno alle spalle di Fumiko, che sobbalzò e si lasciò sfuggire un piccolo verso di sorpresa.
«Maki! Ci siamo viste appena un’ora fa!» la rimbeccò, esasperata.
«E non posso abbracciarti lo stesso?» ribatté Maki scherzosa, punzecchiandole la guancia con un dito. Poi abbassò lo sguardo sul tavolo e sbatté le palpebre con aria perplessa.
«Perché vi tenete per mano? Oh, Fumi, ti mancheremo così tanto?».
Fumiko inarcò un sopracciglio.
«Ma che dici? Ricordi che abbiamo letteralmente fatto richiesta per lo stesso posto, vero?».
«Certo che sì! Ma rimarremo comunque separate per un bel pezzo!».
«Mmh... Be’, mi mancherete, ma starò bene, perché avrò Hitomiko-san».
«Chissà perché mi aspettavo questa risposta» intervenne Reina. Fumiko fece spallucce. Tipico di lei. Reina era felice che fosse tornata se stessa.
Lasciò le sue mani e si girò verso Maki.
«Ehi, ti ricordi di cosa mi hai promesso il primo giorno?» domandò. Maki la guardò, confusa, perciò Reina sorrise e tese le mani in avanti.
«Vorrei che mi mettessi lo smalto. Ti va ancora, Maki?».
Non serviva dire altro. Il viso di Maki s’illuminò con un’espressione di pura felicità.
«Accidenti, certo che sì! Aspetta che prendo tutto...!».
Maki aprì subito la propria borsa e si mise a rovistare al suo interno; portava sempre con sé i suoi colori preferiti, in modo da non restare mai senza. Una manciata di secondi dopo, poggiò sul tavolo una boccetta di blu zaffiro e si sedette accanto a Reina.
«Pronta?» chiese, eccitata. «Oh, ne varrà la pena, te lo prometto!».
«Oh no, guarda cosa hai fatto, ora non smetterà più di parlarne» disse Fumiko, ma il suo tono non era per nulla tagliente. Sorrideva e il suo sguardo era gentile.
Reina alzò lo sguardo verso la finestra. Al di là del vetro s’intravedeva uno spicchio di cielo azzurro, ritagliato tra i rami sottili e scuri degli alberi; e pure le pareti della stanza erano azzurre, e sembrava di essere circondate da solo cielo. Quel colore dava un senso di pace, ti faceva venire voglia di uscire e riempirti i polmoni di aria, e poi cantare, cantare ad alta voce.
Reina guardò Fumiko, poi mise la mano su quella di Maki.
«Correrò il rischio» disse.
Perché ora sapeva che il futuro prometteva molto, molto di più.
 


 
**Angolo dell'Autrice**
Buon pomeriggio! Come avete visto, ho deciso di trasformare questa oneshot in una raccolta di oneshot... be', sarebbe meglio dire che questo era il progetto originale. Ma quando scrissi binary stars, non ero sicura di riuscire a scriverne altre, quindi accantonai il progetto. Scrivo e riscrivo questa storia da novembre, ed era una storia che volevo raccontare da tempo, perché avevo in mente la storia di Reina fin dall'arc di Jordaan (secoli fa, lo so). E sono abbastanza orgogliosa del risultato finale.
In questi mesi sono stata impegnatissima e, anche ora che la situazione è quello che è, il mio tempo libero è agli sgoccioli e sono sempre molto stanca. Comunque ho in porto almeno un'altra oneshot, non so se la pubblicherò prima o dopo l'ultimo capitolo di Spy Eleven. Vi posso solo consigliare di seguire questa raccolta se vi interessa. Intanto vi mando un abbraccio fortissimo. Insieme, ne usciremo. 
Alla prossima!
                  Roby

P.s. Qualora siate curiosi, questa è Amefuri. È una canzoncina per bambini abbastanza nota in Giappone, nonché la mia preferita. Mi piace tantissimo la parte in cui vengono riprodotti i suoni dell'acqua. 

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Capitolo 3
*** we dream of fire ***


Eeeee torno con un'altra oneshot. L'editing è stato un supplizio.

Canzoni che mi hanno accompagnata nella scrittura: x, x, x, x, x




Shigeto era sempre stato stregato dal fuoco.
Gli piaceva guardarlo, probabilmente più di quanto fosse lecito. Anche se bruciare delle pigne era un passatempo monotono, c’era qualcosa di terribilmente affascinante nel modo in cui le lingue fiammeggianti si allungavano e inghiottivano quelle offerte votive.
Realizzando di essersi avvicinato inconsciamente alla bocca del camino, Shigeto si costrinse a distogliere lo sguardo, si alzò e si avvicinò alla finestra. Il vetro era appannato e umido di condensa. Sul viale davanti casa non c’era nessuno, neppure un passante occasionale. I nonni stavano facendo molto tardi. Shigeto aggrottò la fronte, chiedendosi cosa li stesse trattenendo. Forse il nonno si era fermato da qualche parte per scaldarsi con un bicchierino di sake. Nonostante l’età avanzata continuava a fabbricare oggetti da vendere al mercato domenicale, e quella domenica la nonna era andata con lui per comprare della frutta secca.
Il cielo era stato limpido per tutta la mattina, ma adesso le nuvole si stavano addensando, con anelli concentrici via via più larghi. Shigeto si mise a fissare le nubi con sguardo torvo, come se guardare male una nuvola potesse farla scomparire.
Fu allora che vide la colonna di fumo. Gonfia, scura, che univa terra e cielo. Qualcosa in quella visione improvvisa lo sgomentò.
Shigeto intuì che doveva essere successo qualcosa giù in paese. Dopo aver spento il caminetto, s’infilò in fretta e furia scarpe e giaccone, poi aprì la porta d’ingresso e uscì. Fece di corsa tutta la stradina che scendeva in paese. Più si avvicinava alla meta, più l’aria diventava irrespirabile.
Quando arrivò, gli abitanti erano tutti in piazza. C’era chi stringeva a sé i propri bambini, chi si copriva la bocca con la mano, chi urlava di fare qualcosa, e chi effettivamente faceva qualcosa portando grandi secchi d’acqua verso la zona del mercato. Shigeto si paralizzò alla vista delle lingue di fuoco che salivano verso l’alto, come risucchiate dal cielo. Il cuore gli saltò in gola. Il fuoco si era propagato lungo tutto il perimetro della piazza e, divorando tendoni e bancarelle di legno, era divampato sempre più forte. Shigeto si guardò intorno, cercando spasmodicamente i due volti che avrebbe voluto vedere tra la folla, ma in cambio ottenne soltanto occhiate di pietà da parte di chi lo aveva riconosciuto.
Il tendone del nonno era ormai completamente avvolto dalle fiamme. Shigeto si mise a correre verso il rogo. Qualcuno gli urlò di fermarsi, attirando così l’attenzione degli uomini che stavano provando a domare l’incendio; ma erano stanchi e affaticati, e molti di loro avevano ancora in mano i secchi nonostante fosse ormai evidente che l’acqua disponibile non era sufficiente. Nessuno riuscì a fermare Shigeto che, piccolo e agile, s’infilò tra di loro a tutta velocità e si lanciò nel muro di fuoco.
Tese le mani in avanti, come a voler strappare via le fiamme con la forza.
-Vai via! Vai via!
Al suo ordine, le fiamme iniziarono a distorcersi e ritirarsi. Si agitarono per un po’, ma poi scivolarono via, ubbidienti; infine, con un ultimo sbuffo, il fuoco scomparve, creando il vuoto intorno a lui. Shigeto spalancò gli occhi, incredulo. Il cuore gli martellava nel petto, il vociare della folla intorno a lui diventò un suono ovattato. Forse stava per svenire.
Nella confusione qualcuno riuscì a raggiungerlo, lo afferrò da dietro e lo trascinò via. Shigeto provò a dibattersi, ma aveva il fiato corto, il fumo era troppo denso e gli entrava in bocca e nel naso. Mentre veniva portato via, poco prima di perdere i sensi, un ultimo pensiero gli attraversò la mente. Quella sera, il fuoco aveva obbedito a lui.
 
we dream of fire
~Atsuishi Shigeto & Netsuha Natsuhiko~
~Heat & Nepper~
 
 
~ 3 mesi dopo 
– dicembre

 
Heat sfiorò la punta della fiamma col polpastrello e guardò la pelle annerirsi. Per qualche minuto giocherellò con la fiamma, costringendola a seguire le linee da lui tracciate nell’aria: era come incollata al suo dito, e lui poteva tirarla, alzarla e manipolarla a proprio piacimento. Non era propriamente un gioco, quanto piuttosto una distrazione utile per scacciare altri pensieri. Heat aveva lasciato spenta la luce della camera, così che solo il bagliore della candela fosse ancora più luminoso. Era fine dicembre e dalla finestra entrava appena un filo di luce invernale che ingrigiva ancora di più la stanza.
Dei passi echeggiarono nel corridoio. Stava arrivando qualcuno.
Heat afferrò subito la fiamma in un pugno e la spense. Delle spirali di fumo gli sfuggirono dalle dita. Per un minuto Heat rimase al buio, poi scattò in piedi e accese la luce centrale. Proprio in quel momento Desarm aprì la porta, mancandolo per un soffio. Heat sussultò e si mise sull’attenti in modo un po’ goffo, ma Desarm, guardandolo stranito, gli fece segno di sedersi.
Heat obbedì, ma non riuscì a rilassarsi e rimase a fissare il suo superiore con evidente nervosismo. Desarm, invece, sembrava solo stanco (era sempre stanco).
-Heat, è arrivato quel ragazzo, quello di cui ti avevo parlato.
Heat deglutì a vuoto e annuì. Sperava di essere pronto a incontrare chiunque avrebbe varcato quella porta. Per tutta la mattina non aveva fatto altro che cercare di immaginarselo, curioso ed eccitato al pensiero di avere un compagno di stanza. Ora che era arrivato il gran momento, però, gli sembrava che le gambe gli fossero diventate di gelatina.
Heat trasalì quando Desarm si spostò di lato per far passare il nuovo arrivato. Era un ragazzino smilzo, con capelli castani lunghi fino alle spalle che gli coprivano, in parte, gli occhi. Stringeva febbrilmente la tracolla di un borsone sportivo che gli pendeva dietro la schiena. Borbottò un saluto sotto voce, ma per il resto rimase immobile, rigido come marmo, senza accennare inchini o niente di simile.
-Come ti ho detto, è tuo coetaneo- disse Desarm. Fece una pausa drammatica, poi aggiunse:- Il suo nome è Nepper.
Le mani del ragazzo si strinsero ancora di più attorno alla tracolla.
-Heat, ho deciso che Nepper sarà il tuo partner- continuò Desarm.
I due ragazzi gli rivolsero uno sguardo confuso.
Desarm si passò una mano sul viso, mentre cercava le parole giuste per spiegare il concetto. Era solo in momenti come quello che Heat ricordava quanto giovane fosse in realtà: Desarm aveva poco più di vent’anni ed era arrivato in Hokkaido poco prima di loro. Prima di arrivare lì... beh, nessuno di loro sapeva esattamente cosa facesse.
Dopo averci riflettuto bene, Desarm si lanciò in una dettagliata spiegazione che riguardava i doni, le Spy Eleven e la differenza tra agency e centri d’addestramento.
-Il nostro è solo un centro, al momento, perché non siamo sotto la diretta giurisdizione di una Spy Eleven. In altre parole, dipendiamo dall’agency di Tokyo e non siamo autonomi...
Quasi subito Heat perse la concentrazione, perché erano cose che già sapeva. Gli erano state spiegate al suo arrivo, più o meno negli stessi termini. La voce di Desarm diventò solo un rumore di fondo mentre osservava Nepper. Più la spiegazione procedeva, più lui sembrava confuso. Aveva la fronte aggrottata e le labbra arricciate in un broncio. Forse tutte quelle informazioni assieme erano troppe per lui.
A un certo punto Nepper si accorse di essere osservato e si girò verso di lui. Heat distolse subito lo sguardo, imbarazzato, e riprese ad ascoltare Desarm, che intanto era appena arrivato alla fine di una lunga lezione (le sue lezioni erano sempre lunghe).
-Comunque, come dicevo, al di là dei dettagli burocratici la realtà è che non abbiamo abbastanza membri- stava dicendo. -Ma credo che sia saggio cominciare a lavorare con ciò che abbiamo. Il motivo per cui siete qui, dopotutto, è per crescere e imparare...
-Sì, sì, tutto chiaro, ma io voglio sapere cos’è ‘sta storia dei partner- intervenne Nepper con aria spazientita. Si zittì subito quando Desarm, che odiava essere interrotto, gli scoccò un’occhiata risentita.
-Ci stavo arrivando. Nelle agency, gli agenti sono soliti lavorare in coppia, ecco perché si parla di “partner”. Ho scelto di accoppiare voi due per due semplici motivi. Primo, i vostri doni sono accomunati dallo stesso elemento. Secondo... Beh, è un semplice fatto di numeri. Al momento siete solo in cinque, voi due compresi. IQ e IC mi hanno chiesto di non separarli, mentre Diam...
Desarm fece una pausa e lanciò a Heat un’occhiata eloquente.
-Diam non vuole un partner- concluse. -Ci sono obiezioni?
Heat scosse il capo.
-No. Se a lui sta bene, sta bene anche a me- rispose. Guardò nervosamente l’altro.
Nepper aggrottò la fronte, come se stesse facendo a mente dei calcoli complicati. Non sembrava molto contento di tutta la faccenda dei partner. Squadrò Heat da capo a piede, poi fece un brusco cenno col capo.
-Va bene, qualsiasi cosa significhi- brontolò.
Desarm si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
-Perfetto. Ora vi lascio soli, devo fare una chiamata- tagliò corto. Quando diceva così, voleva dire che doveva telefonare a Hitomiko-san. Desarm parlava poco di lei, e ancor meno di se stesso, ma una volta aveva detto che Hitomiko-san gli aveva salvato la vita. Non era sceso troppo nel dettaglio. Tutti loro però avevano intuito che Hitomiko-san era una persona straordinaria, una sorta di benefattrice.
Non appena Desarm se ne fu andato, un silenzio pesante calò nella stanza. Nepper andò dritto al letto sotto la finestra senza dire una parola e, visto che non c’era bisogno di presentarsi, Heat non sapeva cosa dire per rompere il ghiaccio. Era strano pensare che da quel giorno in poi avrebbero dormito insieme...
Cioè, non insieme. Vicini. Nella stessa stanza. Insomma.
Imbarazzato dai suoi stessi pensieri, Heat si alzò, aprì la cassettiera e finse di essere occupato a riordinare i vestiti mentre in realtà osservava l’altro ragazzo di nascosto.
Per prima cosa, Nepper mise a terra il borsone e con un piede lo spinse sotto il letto, poi si sedette e cominciò a togliersi le scarpe logore e fradice. Erano scarpe sportive, per niente adatte a camminare nella neve, e nella neve lui e Desarm erano passati di sicuro. Da quelle parti bastava poco perché l’intero paesaggio si imbiancasse. Quella notte c’era stata una bufera; il boato del vento e il rumore violento della grandine contro la finestra avevano tenuto sveglio Heat fino alle prime ore del mattino.
Nepper lasciò cadere le scarpe a terra, senza curarsi di metterle in ordine. Anche i calzini, rossi a righe bianche, erano zuppi e il ragazzo fece un verso disgustato mentre se li sfilava. Indossava una felpa sportiva e dei pantaloni di tuta che lo facevano sembrare ancora più magro. Per un attimo rimase immobile a fissare il pavimento, poi borbottò qualcosa d’intellegibile. Heat non capì. Pochi secondi dopo, Nepper alzò il viso di scatto.
-Ehi, tu! Dico a te!- esclamò in modo sgarbato. -Ti ho chiesto se puoi darmi dei calzini!
Heat alzò lo sguardo, intimidito ma anche un po’ irritato.
-Scusa, non ti ho sentito. E poi il mio nome non è tu, ma Heat- ribatté.
Nepper sbuffò. Si spostò i capelli dal volto e gli rivolse un’occhiata penetrante.
-È il tuo vero nome?- domandò con aria di sfida.
Heat non gli rispose. Ovviamente non era il suo vero nome, non più di quanto Nepper fosse quello dell’altro. Rimasero a fissarsi per mezzo minuto, tanto che Heat cominciò ad avere la sensazione che fosse una specie di gara di resistenza. Sembrava quasi che Nepper si aspettasse una risposta alla provocazione. Forse voleva soltanto litigare. Il suo sguardo era tagliente almeno quanto la sua lingua.
Ma Heat non amava litigare e non era abituato a guardare gli altri negli occhi. Fu il primo ad abbassare lo sguardo. Al segnale di resa, l’espressione di Nepper si ammorbidì e dalle sue labbra sfuggì un sospiro di stanchezza.
-Okay, okay, scusa. È che tutta ‘sta storia è assurda. Tutti ‘sti discorsi difficili... Ma se non so neanche come sono finito qui... Roba da pazzi- disse Nepper, grattandosi la nuca con una mano.
-Allora, dei calzini puoi prestarmeli? Cercarli ora nel borsone è una rottura.
Heat decise di assecondarlo. Rovistando nella cassettiera, tirò fuori un paio di calzettoni neri. Li appallottolò e li lanciò al compagno, che li afferrò al volo con una mano sola.
Nepper non perse tempo. Si sfilò i calzini bagnati, poi anche i pantaloni. In boxer e a piedi scalzi, con i calzettoni asciutti stretti nel pugno, si alzò e appese tutta la roba umida al termosifone. Era molto magro, ma le sue gambe erano toniche, come quelle di un ragazzo che fa sport da sempre. Non si cambiò i pantaloni. Per qualche motivo, s’infilò i calzettoni in precario equilibrio invece di farlo da seduto, sollevando prima una gamba, poi l’altra. Quando si lasciò cadere sul letto, si lasciò sfuggire un sospiro non appena la sua testa toccò il cuscino. Solo allora parve ricordarsi di non essere solo. 
-Grazie- disse, impacciato.
-Nessun problema- gracchiò Heat in risposta.
Nepper gli scoccò un’occhiata dubbiosa, ma non sembrava che volesse fare conversazione. Incrociò le braccia dietro la nuca, accavallò le gambe nude e si mise a fissare il soffitto mentre rimuginava tra sé e sé, la lingua premuta nell’interno della guancia.
Senza sapere che altro fare, Heat tornò al letto e si stese a sua volta, con le mani intrecciate in grembo e gli occhi sbarrati, allo stesso tempo grato e deluso che il compagno non nutrisse alcun interesse per lui.
 
-
 
I primi ad arrivare per colazione erano sempre i gemelli. Quando arrivava, tra le otto e le otto e mezza, Heat trovava sempre i piatti di IC già vuoti e la ragazzina impegnata a schiaffeggiare dolcemente il braccio del fratello per impedirgli di riaddormentarsi. Infatti, anche se si svegliava presto, IQ non era affatto mattiniero. Lo faceva “per una questione di orgoglio ed etica professionale”, diceva lui, ma entrando quella mattina in mensa Heat pensò che non ci fosse niente di professionale in una faccia mezza addormentata con i chicchi di riso appiccicati vicino alla bocca. A quanto pareva, IC non era riuscita a fermarlo in tempo prima che si addormentasse con la guancia nel piatto. Gli occhiali sul suo naso erano storti e, quando IC si sporse in avanti per raddrizzarli, IQ mugugnò qualcosa d’incomprensibile. IC sorrise e gli diede una leggera pacca sulla schiena.
Heat si avvicinò e salutò IC con un cenno, poi passò la mano davanti al viso di IQ per vedere se c’erano reazioni, ma il ragazzino sembrava ancora rallentato e non reagì. Heat si sedette di fronte a loro e posò sul tavolo il piatto di riso che aveva sapientemente coperto di riccioli di uova strapazzate e bruciacchiate, con due fettine di salmone cotto, anche quello bruciacchiato. Desarm non era molto bravo ai fornelli: il suo unico talento era quello di riuscire a bruciacchiare tutto ciò che toccava. Purtroppo non aveva trovato nessun altro che se ne potesse occupare, e questo era quanto. In ogni caso l’unico a lamentarsi apertamente era Diam, sfacciato e irriverente come sempre.
Dopo aver ringraziato per il pasto, Heat spezzò il salmone con le bacchette e ne mangiò un pezzetto. Si sentiva solo il sale. Il riso invece sapeva di uova e le uova, inspiegabilmente, di salmone. Ma poteva andare peggio. Mentre Heat piluccava la colazione, cercando di grattare via le parti bruciate, IC lo fissava con i gomiti sul tavolo e le mani sulle guance.
-Ehi, Heat, dov’è il tuo partner?- chiese d’un tratto. Heat scrollò le spalle.
-La mattina presto va a correre.
-Corre?! Nella neve?!- gridò IC, facendo sobbalzare il fratello, che per poco non lanciò in aria le bacchette per lo spavento. Se non altro, l’urlo parve svegliarlo un po’.
-Cosa? Che succede?- domandò con aria disorientata. IC gli prese una spalla e lo scosse.
-Il ragazzo nuovo corre nella neve!- gli disse. IQ corrugò la fronte, forse chiedendosi perché Nepper facesse una cosa tanto stupida, o forse perché a lui dovesse interessare. Prima che potesse rispondere, però, IC si girò di nuovo verso Heat.
-Ma può farlo?
-Credo di sì. Desarm gli ha dato l’autorizzazione- disse Heat, con lo sguardo fisso sulla colazione. Tutto quello stupore era più che comprensibile. Era quasi metà gennaio e, naturalmente, la neve in Hokkaido era implacabile e onnipresente. D’altronde, la neve in Hokkaido era così praticamente tutto l’anno, in particolare dove si trovavano, perché il centro era una vecchia villa seminascosta in una foresta montana. Se ci si lasciava scoraggiare dal clima, non si sarebbe potuto fare mai nulla. E se c’era una cosa che Heat aveva capito di Nepper, era che il ragazzo era testardo come un mulo.
In generale Heat non aveva tanta voglia di parlare di Nepper: la convivenza non stava andando benissimo. Scambiavano a stento qualche parola, e solo quando dovevano. Nepper era molto diffidente e a volte, per motivi che Heat ignorava, sembrava persino irritato dalla sua presenza. Ma, nonostante tutto questo, a Heat lui interessava. Era ingiusto che Heat nutrisse dell’interesse per Nepper, mentre Nepper addirittura lo evitava di proposito.
Quasi come se l’avessero evocato parlando di lui, poco dopo Nepper entrò in mensa. Ogni dettaglio del suo abbigliamento lasciava intendere che fosse appena rientrato senza neanche passare in camera a cambiarsi: indossava un paio di pantaloncini, leggins neri alla caviglia, una giacca di tuta chiusa fino al mento e scarpe da ginnastica. I capelli erano tenuti su da una fascia.
Dopo aver esaminato le scelte disponibili, Nepper snobbò il riso e si riempì il piatto di uova, salmone e una montagna di toast, i più bruciati che c’erano.
Quando si girò, i suoi occhi incrociarono quelli di Heat. Quasi istintivamente Heat abbassò lo sguardo sul cibo, anche se gli si era appena chiuso lo stomaco. Sentì Nepper schioccare la lingua contro il palato. Osservandolo di sottecchi, Heat vide che stava per andare a sedersi a un altro tavolo quando la porta della mensa si aprì di nuovo e Diam entrò con un familiare tintinnio di cianfrusaglie.
Quel giorno indossava un jeans strappato sulle ginocchia, con due catenelle di metallo appese ai passanti della cintura; non solo, a entrambi i polsi portava almeno tre bracciali, che sfregando uno contro l’altro producevano quel rumore. Diam amava gli accessori. Siccome era l’unico ad accompagnare Desarm in missione, una volta fuori prendeva qualsiasi cosa su cui metteva gli occhi. Se perdeva qualcosa, o se ne stufava, trovava subito come sostituirla. Sembrava che non nutrisse attaccamento per nulla, eccetto un singolo orecchino, un pendente con una piccola gemma viola di cui era estremamente geloso.
Appena entrato Diam salutò tutti con un vago cenno della mano, poi si coprì la bocca mentre sbadigliava. Afferrò un paio di toast, poi andò spedito al tavolo che Nepper aveva intenzione di occupare e glielo soffiò da sotto il naso.
-Ehi, quello è il mio tavolo!- berciò Nepper, guardandolo in tralice.
Diam non si scompose affatto.
-C’è il tuo nome? No- ribatté con aria annoiata. Lo squadrò da capo a piede e la sua espressione cambiò leggermente in una di sorpresa. -Mmh? Aspetta, il tuo nome qual era?
Stavolta Nepper lo fulminò con lo sguardo.
-Ah?! Mi prendi in giro? Sono qui da due settimane!
-Sì, sì, due settimane, due giorni, che vuoi che sia? Non ti sei mai presentato.
Nepper aprì la bocca per ribattere, ma poi ci ripensò e la richiuse senza dire nulla. Aveva ancora delle difficoltà a venire a patti con il nuovo nome, e probabilmente era per questo che l’idea di presentarsi non gli passava neanche per l’anticamera del cervello. In più, si trattava di Diam e ciò bastava a indisporlo. Nepper rimase in silenzio per un po’, con la fronte corrugata e la lingua premuta nell’interno della guancia. Alla fine si voltò, andò all’altro tavolo e sbatté il piatto accanto a quello di Heat.
-Fatti in là- brontolò.
Senza parole, Heat si spostò per fargli spazio sulla panca. Intanto, Diam e IC li osservavano con curiosità, mentre IQ, ancora mezzo addormentato, scoccò a Nepper un’occhiata torva per quella che considerava un’invasione di spazio personale.
-Ma quindi si può sapere il tuo nome?- chiese Diam, inchiodando Nepper con uno sguardo.
Nepper digrignò i denti e rimase ostinatamente in silenzio, vigile come un animale che riconosce a fiuto la minaccia. E aveva ragione, a non abbassare la guardia. Anche quando si mostrava amichevole ed espansivo, Diam non lo era mai fino in fondo. Tutto ciò che sapevano di lui glielo aveva raccontato Desarm. Diam non si era mai confidato con nessuno di loro. Aveva tracciato una linea tra lui e gli altri, e tutti cercavano di non superarla per sbaglio. Mantenere quella distanza era necessario perché la convivenza potesse funzionare.
Siccome il silenzio minacciava di prolungarsi troppo, intervenne IQ.
-Si chiama Nepper- disse, sistemandosi gli occhiali sul viso con aria saccente. Non sopportava che Nepper avesse invaso il suo tavolo, e questa era una sorta di ripicca. IQ era decisamente più infantile di quanto non volesse apparire.
-Ah, Nepper- disse Diam. La sua aura minacciosa si dissolse. -Nepper, Nepper... Mi piace, ha un bel suono- osservò.
-E chi se ne frega di che piace a te?- replicò Nepper, irritato, ma Diam si fece una risata.
-In qualche modo ti devo pur chiamare. E io sono Diam, comunque, come di certo sai già perché... Beh, per esclusione, direi- disse. Prese una fetta di pane e cominciò a sbocconcellarla con le dita smaltate di nero. -Anche oggi il grande capo ha bruciato tutto... È incredibile, in un certo senso- mormorò con disappunto.
Dopo questo commento nessuno ebbe altro da dire, e finirono tutti di mangiare in silenzio. Poi, dopo essersi ficcato in bocca l’ultimo pezzetto di pane, Diam si alzò in piedi e si infilò le mani nelle tasche. IC si tirò su di scatto.
-Dove vai? Oh, vai di nuovo fuori con Desarm, vero?! Come vorrei venirci anche io…!
Diam fece spallucce.
-Eh sì, mi hai beccato- rispose.
-Ai... cioè, IC- IQ si corresse in fretta, -sai che Desarm non vuole. Non siamo pronti ad andare in missione, sarebbe troppo pericoloso.
-Ma ci alleniamo tutti i giorni! Quando saremo pronti?- protestò IC, mettendo il broncio.
-Quando sarete tutti in grado di usare i vostri poteri- disse Diam, abbozzando un sorriso. Il suo sguardo cadde su Nepper in particolare.
-Anche se ci occupiamo solo di pesci piccoli, non si sa mai, no? È meglio essere pronti- aggiunse a cuor leggero. Heat notò che il sorriso non gli arrivava agli occhi, scuri e insondabili come un abisso. Trattenne a stento un brivido e, lanciando un’occhiata intorno, ebbe l’impressione che anche gli altri avessero percepito che il discorso rischiava di prendere una brutta piega.
-Va bene, va bene! Mi impegnerò a fondo negli allenamenti!- esclamò IC con forzata allegria. Si avvicinò a Diam e sorrise in modo un po’ più rilassato. -Buona fortuna là fuori!
L’espressione di Diam si addolcì di nuovo. Nessuno riusciva a essere cattivo con IC. Diam le scompigliò i capelli scherzosamente e annuì, poi se ne andò. Quando i suoi passi furono ormai un eco lontano, Nepper addentò con rabbia un toast bruciato.
-Quale diavolo è il suo problema?- sbottò.
Nessuno gli rispose. I gemelli si scambiarono uno sguardo, poi presero i piatti e, con la scusa di metterli a posto, sparirono in cucina. In mensa calò subito un silenzio imbarazzante. Heat si sforzò di dire qualcosa per alleggerire l’atmosfera.
-Uhm... perché non andiamo a cambiarci per l’allenamento? I tuoi vestiti saranno bagnati...
-Ah, non preoccuparti di quello- lo interruppe Nepper, tranquillo. Sollevò una gamba e poggiò il piede sulla panca. -Vedi?
Heat non poté fare a meno guardare e, con sua grande sorpresa, dovette constatare che scarpe e calzini erano completamente asciutti.
-Oh- disse solo. Nepper fece un sorriso sornione e scrollò le spalle. Senza aggiungere altro, gli diede le spalle e s’incamminò verso la sala addestramento da solo. Heat sospirò, rassegnato, e si affrettò a inseguirlo.
 
-
 
Anche se ormai l’aveva fatto dozzine di volte, Heat non riusciva ad abituarsi a essere chiamato a combattere. Il momento in cui Desarm chiamava il suo nome lo faceva sempre trasalire. Non che fosse un combattimento vero. Se fosse stato vero, Heat non avrebbe avuto alcuna speranza di vincere, no, anzi, di sopravvivere.
Nepper non lo aspettava mai. Ancora prima che Desarm lo chiamasse, lui aveva già lasciato la postazione d’attesa. Heat lo seguì con lo sguardo, finché IQ non gli diede una spinta per ricordargli che doveva andare anche lui. Heat strinse i pugni lungo i fianchi e andò alla piattaforma di combattimento: a ogni passo le pareti sembravano stringersi di più.
Heat si fermò di fianco a Nepper e ne osservò il profilo tagliente, impavido. Nepper non sembrava affatto nervoso, mentre per Heat la prospettiva di dover usare i propri poteri sotto lo sguardo severo di Desarm era causa di grande preoccupazione. Il suo sguardo cadde sui manichini che IQ e IC avevano trasformato in ghiaccioli. Erano sculture perfette. I gemelli erano diventati più bravi con la manipolazione del ghiaccio, e in più il loro gioco di squadra era impeccabile. Heat e Nepper, che non avevano la stessa affinità, erano soliti completare l’allenamento ognuno per conto proprio.
Quando Desarm diede loro il segnale di partenza, Heat non era pronto e Nepper iniziò per primo, come al solito. Protese le mani avanti e concentrò tutta l’energia nei palmi. Dal suo corpo si irradiava un forte calore e i suoi occhi brillavano come carboni ardenti. Il ghiaccio sui manichini cominciò a liquefarsi, ma Nepper non aveva ancora raggiunto il suo vero scopo: doveva immagazzinare molto calore prima di riuscire a manifestare il suo dono.
-Heat, datti una mossa!- La voce di Desarm rimbombò nella sala. Heat sobbalzò.
-S-sì, signore!- gridò, mettendosi d’istinto sull’attenti. Senza accorgersene era rimasto imbambolato a fissare Nepper. Quando si girò, gli parve di scorgere un sorriso sul volto del compagno, come se lo stesse deridendo. Heat avvampò e abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Cercò di evocare nella propria mente l’immagine di una fiamma: ne immaginò vividamente la forma, i colori, la temperatura, e come per magia questa si materializzò tra le sue dita. Heat la modellò goffamente in una sfera.
Intanto, Nepper aveva terminato le preparazioni. Tutto a un tratto dalle sue mani esplose una violenta fiammata, che colpendo il manichino a lui più vicino finì per trasformarlo in una sorta di fiaccola. Nepper fece schioccare la lingua contro il palato, seccato. Probabilmente aveva solo intenzione di sciogliere il ghiaccio sul manichino, tuttavia non aveva ancora né l’abilità, né la precisione necessarie a fare un lavoro pulito.
Heat spostò lo sguardo sul fantoccio rimasto integro. Avrebbe voluto un po’ più di tempo, ma sapeva di dover agire prima che Nepper gli rubasse il bersaglio, perciò lasciò perdere la manipolazione del fuoco e scagliò la sfera che aveva fatto contro il manichino. Dal momento che la potenza di quell’attacco era molto minore rispetto a quella di Nepper, la fiamma si limitò ad avvolgere il bersaglio e sciogliere il ghiaccio rimasto, che cominciò a raccogliersi in una pozza sul pavimento. Nepper gli rivolse un’occhiata tagliente, quasi a volerlo accusare di qualcosa, ma Heat evitò con decisione di incrociare il suo sguardo. 
Subito dopo Desarm soffiò nel fischietto. Heat tirò un sospiro di sollievo e, dando le spalle a Nepper, corricchiò da Desarm, il quale spese cinque minuti per distribuire critiche e consigli a ciascuno di loro prima di mettere fine alla sessione di allenamento. Per tutto il tempo, Heat continuò a sentire quasi fisicamente lo sguardo di Nepper sulla propria schiena.
 
-
 
Andava sempre allo stesso modo.
Correva verso la colonna di fumo, anche se la strada che si snodava verso il paese sembrava allungarsi. Il fumo si faceva sempre più nero, avvolgeva il paesaggio circostante in una fitta oscurità e si raggrumava nei polmoni e nella gola, lasciandogli addosso una sensazione di disgusto insopportabile. Poi, finalmente, la meta – il mercato – appariva in mezzo al nulla come una fiaccola nel buio. I tendoni erano in fiamme. Le punte di fuoco s’innalzavano fino al cielo e, danzando in cerchio, cantavano in una lingua terribile e seducente, magnetica e pericolosa. Nonostante non l’avesse mai sentita prima, dentro di lui si annidava la sensazione di conoscere il significato della canzone. Sulla punta della lingua aveva parole scritte con carbone ardente e fuochi d’artificio, che non aspettavano altro che essere pronunciate. Poteva farlo. Poteva scacciare il fuoco; l’aveva già fatto una volta.
Ma quando saltava nel muro di fuoco e pronunciava le parole, le fiamme rivelavano la loro vera natura e, anziché obbedire, si ribellavano al loro padrone, gli andavano addosso e lo avvolgevano nelle proprie spire. L’incantatore di fuoco tentava di domarle, ma finiva sempre per esserne inghiottito e diventare fuoco a sua volta...
Non era la prima volta che Heat si trovava intrappolato in quel sogno, e anche stavolta si svegliò nel cuore della notte con il sudore sulla fronte e il fiato corto. Per un momento restò a fissare il soffitto scuro, ancora spaventato e intontito dal sonno; poi, lentamente, sollevò una mano davanti al volto e la osservò. Non era avvolta dalle fiamme. Non stava andando a fuoco, e anche la sensazione di soffocamento da fumo era svanita.
La paura e il disgusto, però, quelli non se n’erano andati.
Heat si tirò su di scatto e tirò il cassetto del comodino. Quello si aprì con uno schiocco. Nepper mugugnò qualcosa dall’altro lato della stanza. Temendo di averlo inavvertitamente svegliato, Heat gli lanciò un’occhiata fugace, ma il compagno non diede altri segni di vita. La luce della luna tracciava il profilo del suo corpo, un fagotto coricato su un fianco, con il viso rivolto alla finestra. Con un sospiro di sollievo, Heat distolse lo sguardo da Nepper e si mise a frugare nel cassetto per cercare a tentoni una candela. Ne teneva sempre un paio di scorta, proprio per situazioni come quella.
Ogni qualvolta che il sogno tornava a tormentarlo, Heat prendeva una candela e la accendeva. Toccare il fuoco con mano era l’unico rimedio che potesse tranquillizzarlo: aveva bisogno di sapere che aveva ancora il controllo.
Accese il cerino con un dito e catturò la fiammella non appena questa iniziò a brillare vivacemente. La prese tra due dita, la allungò e la accorciò, la costrinse a seguire le linee immaginarie da lui tracciate. Ogni gesto, in quel rituale, era lento e studiato. Se la fiamma manifestava una volontà, era compito di Heat piegarla alla propria.
Mentre Heat la manipolava con mani esperte, la luce della fiammella si fece via via più vivida e, dall’angolo di letto su cui lui era seduto, si estese finanche a tracciare una linea sul pavimento, un filamento di luce in mezzo all’oscurità. Heat seguì distrattamente la traccia luminosa fin dove s’interrompeva, poi alzò gli occhi da terra e incrociò quelli di Nepper.
Per un secondo o due quello che aveva visto non si registrò nella sua mente intorpidita; poi, di colpo, arrivò la realizzazione. Il cuore gli balzò in gola.
Nepper era sveglio e lo stava osservando con aria rapita.
Heat trasalì e d’impulso strinse la fiammella con la mano. Il buio calò di colpo nella stanza. Nepper si lasciò scappare un verso di sorpresa e si sollevò di scatto sui gomiti.
-Che diavolo... Sei stupido?! Ti sei fatto male?!
Heat lo guardò, lento a capire. Poi scosse il capo furiosamente.
-No, no!- farfugliò, accaldato per l’imbarazzo. Per fortuna, al buio non si poteva dire che fosse arrossito.
Siccome Nepper continuava a fissarlo con aria incredula, Heat aprì e chiuse rapidamente la mano un paio di volte per dimostrargli che stava bene. Nepper parve recepire il messaggio.
-Okay... ma cosa stavi facendo?- chiese.
Non suonava infastidito, ma Heat esitò comunque. Aveva ancora il battito a mille per lo spavento preso e, per un attimo, ebbe la forte tentazione di inventare una bugia. Ma non gli venne in mente nulla, e comunque che motivo c’era?
-Mi esercito sempre così quando sono solo- disse in un soffio.
Nepper si mise a sedere di scatto.
-Davvero? Che figata! Come lo fai?- esclamò con inaspettato entusiasmo. Heat non lo aveva mai visto entusiasmarsi per niente. Tra l’altro, era la prima volta che Nepper manifestava una vera curiosità nei suoi confronti; e Heat, che non era abituato a essere considerato interessante, figuriamoci figo, provò un misto di sorpresa, imbarazzo e compiacimento.
-Posso far fare alla fiamma tutto quello che voglio- disse. -Posso allungarla, o far sì che segua le mie dita, o... altre cose...
-Ah!! Come quella cosa che hai fatto oggi in allenamento? Quella era fighissima! Credi che potrei fare anch’io una cosa come quella? Me la puoi insegnare? Ah, ma forse a te viene naturale. O no? Io tipo, quando corro... insomma la mia temperatura corporea sale da sola, e in qualche modo riesco a camminare nella neve senza problemi. Non è una figata? E non lo faccio apposta, mi viene naturale. È così anche per te?
Nepper parlava così veloce che Heat faceva quasi fatica a seguirlo. Ma era felice di poter parlar così con lui. Si sentiva elettrizzato all’idea che Nepper avesse aspettative su di lui.
-S-sì... Credo che sia una cosa che posso fare solo io- rispose Heat, stringendosi nelle spalle. Poi, con uno slancio di coraggio, aggiunse:- Senti, posso venire vicino a te...?
Nepper non rispose.
Il silenzio si protrasse per quasi un minuto. Heat stava già rimpiangendo tutte le scelte fatte fino a quel momento, quando intravide un movimento vicino alla finestra.
Nepper, che si era spostato per fargli posto, sbatté la mano sul materasso.
-Vieni qua, dai- lo esortò. Dal tono di voce sembrava tranquillo. Heat non si fece pregare: scalciò via la coperta e il lenzuolo e si affrettò a sedersi accanto a Nepper, raggomitolandosi per occupare meno spazio possibile. Nepper se ne accorse.
-Puoi metterti comodo, eh- esclamò, gli sfuggì una sorta di grugnito.
Heat capì che stava trattenendo una risata. Imbarazzato, cercò di rilassare le spalle e appoggiò la schiena al muro, poi scivolò un pochino verso il basso, con le gambe piegate contro il petto e le mani allacciate sotto le ginocchia. Nepper notò anche quello e fece un mezzo sorriso, ma non fece commenti. Se ne stava appoggiato con un gomito al davanzale, girato di tre quarti verso Heat. Forse era merito della luce che gli contornava parte del volto e dei capelli, ma Heat aveva l’impressione che la sua espressione fosse più morbida del solito, più mansueta. Una volta che si furono sistemati, Nepper si schiarì la gola.
-Allora... tu sei qui da molto?
Heat scosse il capo. -Sono arrivato solo tre mesi prima di te- lo informò.  
-E ti sei abituato subito a stare qui?
Heat esitò, poi scosse di nuovo il capo.
-Vivevo con i nonni prima. Qui è completamente diverso- ammise. Nepper gli scoccò una breve occhiata. Heat si rese conto di aver parlato al passato senza pensarci.
-È stato un incidente- si affrettò a spiegare. -Sto bene adesso- aggiunse poi, senza sapere perché avesse sentito il bisogno di dirlo. Forse perché non era vero.
-Scusa- disse Nepper, con voce sommessa. -Non volevo farti parlare di cose dolorose.
Heat non disse niente, scosse solo il capo, per cui Nepper continuò a parlare.
-Io non so se mi abituerò. Non ci riesco. Non mi ricordo niente, quindi come faccio a buttare via tutto e ricominciare? E poi sono...- Esitò e abbassò la voce. -Lo so che oggi in mensa ho fatto lo spaccone, ma... In realtà sono preoccupato per il “dono”. Non capisco ancora bene che significhi- confessò con una certa riluttanza.
-Perché non lo hai detto a Desarm?- chiese Heat. 
Nepper scosse il capo. Alla tenue luce che entrava dalla finestra, i suoi capelli sembravano davvero color miele, mentre gli occhi erano scuri come cenere.
-Perché è da sfigati, no?- borbottò.
Rimuginando, Heat abbassò lo sguardo, poi decise di buttarsi.
-Senti... Noi siamo partner adesso, giusto? Quindi con me puoi parlare di tutto quello che vuoi! Prometto che non lo dirò a nessuno. Ti coprirò le spalle... Insomma, un partner è qualcuno su cui puoi contare... credo- disse, tutto d’un fiato per paura di bloccarsi. Quando sbirciò verso Nepper, vide che l’altro lo stava fissando con sorpresa.
-Sei figo- disse Nepper dopo un po’. A Heat mancò un battito.
-Eh?!
-Sei veramente figo. E poi sei forte. Penso di potermi fidare di te- proseguì Nepper, imperterrito. Improvvisamente, afferrò la mano di Heat.
-E tu, puoi fidarti di me?
-S-sì, certo!
-Davvero? Anche se non mi ricordo niente?- Nepper aggrottò la fronte, ma Heat non ebbe esitazioni.
-Voglio fidarmi. Prometto di essere sempre sincero con te, e vorrei che tu lo fossi con me- disse, deciso. Nepper lo guardò per un attimo, poi gli strinse la mano.
-Affare fatto, partner. E visto che abbiamo deciso di essere sinceri, comincio io- disse.
-Non guardare sempre giù. Lo fai sempre. Ma non hai niente di cui vergognarti! Sei forte. Ti guardo, agli allenamenti. Magari sei solo timido, ma è irritante, quindi non farlo più.
Nepper si sporse leggermente verso di lui, preso dall’entusiasmo. Heat lo guardò stupefatto, non sapeva che dire; poi d’un tratto realizzò una cosa.
-Uh... quindi è per questo che mi guardi sempre male? Pensavo di starti antipatico!
-Ah, no, mi dispiace se ti ho dato quell’impressione- disse Nepper, grattandosi nervosamente la nuca. -È solo che... Se hai qualcosa da dire, fallo e basta. Anche se sei timido, puoi dire quello che pensi, no? Stasera lo hai fatto.
Heat annuì. -Okay- mormorò. -Cercherò di non farlo più.
Nepper gli rivolse un sorriso compiaciuto.
-Okay, ora penso che dovremmo dormire- disse.
Heat capì che la conversazione era finita. Per quanto gli dispiacesse spostarsi, non poté che concordare e tornare al proprio letto. Si era appena infilato sotto le coperte quando sentì la voce di Nepper, all’altro lato della stanza.
-Buonanotte, Heat.
Quelle parole lo resero così felice che quasi se ne vergognò. Ricambiò, poi si raggomitolò sotto le coperte e ripensò a quello che si erano detti finché non si addormentò senza accorgersene.
 
-
 
-Heat. Ehi, Heat. Svegliati, dai!
Qualcosa lo colpì in piena faccia. Con un verso di disappunto, Heat rotolò su un fianco e continuò a sonnecchiare, ma i colpi continuarono finché non diventarono molesti. A quel punto Heat si trovò costretto ad aprire gli occhi e a voltarsi per capire cosa l’avesse svegliato così bruscamente.
Ancora intontito dal sonno, intravide una figura davanti a sé. Era Nepper, con in mano un cuscino. Heat era ancora troppo instupidito per fare due più due, ma aveva la vaga sensazione che Nepper volesse qualcosa da lui. Si sollevò sui gomiti e lanciò un’occhiata pigra verso la finestra: fuori era ancora buio pesto.
-È notte... Buonanotte- mugugnò con la voce impastata, e si lasciò cadere di nuovo all’indietro, tirandosi la coperta fino al mento. Purtroppo per lui, Nepper sembrava avere altre idee. Heat aveva appena poggiato la testa sul cuscino quando sentì le dita del compagno strizzargli una guancia.
-Heaaat- disse Nepper, allungando il suono centrale in modo petulante, -non rimetterti a dormire!!
Heat aprì gli occhi, stizzito.
-Ma è ancora notte- protestò.
-No, è mattina presto- ribatté Nepper. -Quindi ora devi alzarti, vestirti e seguirmi. Ho avuto un’idea fantastica, modestamente!
Heat continuò a guardarlo torvo, sperando di comunicargli il suo dissenso per via telepatica. Nessuna idea che prevedesse svegliarsi quando era ancora buio fuori poteva essere “fantastica”. Nepper, però, non colse il messaggio, o più probabilmente lo ignorò di proposito. Alzò il cuscino e per la seconda volta lo colpì in piena faccia. Heat si lasciò sfuggire un gemito sofferente e arricciò naso e bocca in una smorfia.
-Muoviti- lo incalzò Nepper. Testardo come un mulo.
Heat si trascinò con estrema lentezza fuori dalle coperte, si sedette sul bordo del letto e si coprì la bocca con una mano mentre sbadigliava, esagerando un po’ per sottolineare i suoi sentimenti sul brusco risveglio. Nepper sbuffò, ma più che infastidito sembrava divertito. Gli tirò un’altra cuscinata.
-Ehi! Sono sveglio!- si lamentò Heat.
-Lo so, ma è divertente- disse Nepper con un mezzo sorriso. -Non sapevo che fossi così lagnoso appena sveglio.
-Non mi hai mai visto appena sveglio. Esci sempre prima di me- borbottò Heat.
Si alzò, liberandosi definitivamente delle coperte, raccattò in giro i vestiti del giorno prima (non aveva voglia di sceglierne altri) e uscì per andare al bagno comune che stava in fondo al corridoio. Almeno poteva essere certo che non lo avrebbe trovato occupato: a parte Nepper nessun altro si sarebbe sognato di alzarsi a quell’ora in pieno inverno.
Quando tornò in camera, trovò Nepper che ingannava l’attesa facendo stretching nello spazio tra i letti. Era piegato in due, con le mani strette attorno alle caviglie, e già vestito per uscire. Heat si accigliò notando lo spazio di pelle nuda tra la fine dei pantaloncini e l’inizio dei calzini.
-Non sentirai freddo?- chiese, indicando con un vago gesto le sue gambe.
-Nah. Mai stato un problema. Finisco lo stretching e usciamo- rispose Nepper, mentre si inginocchiava a terra. Distese con delicatezza la gamba destra e poi, lentamente, fece scivolare indietro la sinistra fino a fare una spaccata.
Intanto Heat continuava a fissargli le gambe.
-Sei molto... snodato- osservò in tono disinteressato. Nepper sbuffò una risata.
-Facevo calcetto da piccolo. Non ricordo perché ho smesso, ma sono sempre stato un tipo atletico, credo. Comunque non farebbe male neanche a te. Fai questo, dai.
Tenendo le spalle rilassate e le braccia lungo i fianchi, portò la mano destra sotto il gomito sinistro e spinse, sollevandolo fino al petto. Heat lo imitò, titubante, e dopo un po’ sentì tirare dietro la spalla. Anche Nepper dovette provare la stessa cosa, perché sciolse la posizione e la ripeté con mano e gomito opposti. Alla fine scrollò braccia e spalle, ruotò il capo un paio di volte per sbloccare bene il collo. Heat imitò tutti i movimenti senza fiatare.
Finalmente Nepper si fermò. -Pronto a uscire?- chiese.
-Posso rispondere di no?
Una scintilla di sfida si accese negli occhi di Nepper.
-Provaci.
Per un momento Heat ebbe un flash di cosa sarebbe successo se l’avesse fatto: immaginava che Nepper lo avrebbe trascinato per i piedi, se necessario. Ed era probabilmente meglio evitare quello spettacolo. Sospirando, Heat si spostò dalla porta e gli fece cenno di fare strada.
Chiaramente Nepper non aspettava altro. Gli passò accanto, lo afferrò per un braccio e marciò fuori dalla stanza con aria trionfante. Heat fece del suo meglio per tenere il passo. Lo aveva già notato altre volte, ma Nepper aveva una naturale tendenza a imporsi sugli altri.
Attraversarono tutto il corridoio, passarono davanti alla mensa e si fermarono nella stanzetta d’ingresso. Nepper gli lasciò il braccio e cominciò a frugare tra giacche a vento sdrucite e cappotti scoloriti appesi alla rinfusa all’appendiabiti a muro. A terra, sotto una panchina ruvida di legno, erano allineati gli scarponi da neve di ognuno di loro: tutti di seconda mano e con indelebili macchie di fango, potevano essere riconosciuti solo dai colori. Era Desarm a procurare tutti gli indumenti che avevano, così come tutto il resto; era probabile che li comprasse a poco prezzo in mercatini dell’usato, e certo non aveva il miglior gusto estetico. Ma vestiti e scarpe erano sempre caldi quanto bastava.
Nepper trovò subito ciò che cercava: una chiave di rame con il pettine leggermente arrugginito e un cordoncino sottile che passava attraverso l’impugnatura. Heat si avvicinò e fece per prendere il proprio cappotto, ma Nepper gli bloccò il polso.
-Ti sarà d’impiccio, fidati- disse. Heat si accigliò, ma si ritrasse senza fare storie mentre Nepper infilava la chiave nella serratura del portone. A quel punto non restava che tirare. Era un portone di legno pesante, non troppo vecchio ma con cerniere rovinate dalle condizioni di gelo semi-permanente. Dopo che Nepper si fu messo la chiave attorno al collo e dentro il colletto della felpa, i due ragazzini tirarono il portone con tutta la forza che avevano finché non riuscirono a spostarlo quel tanto che bastava a passare. Lo spazio era stretto, ma Nepper ci strisciò in mezzo senza problemi e sparì dietro il portone. Dopo un attimo di esitazione, Heat fece lo stesso.
Una volta fuori, vide che il compagno non era andato avanti, ma si era fermato ad aspettarlo. La cosa lo sorprese e gli fece piacere.
Ancora più sorprendente, la neve si scioglieva dove Nepper poggiava i piedi. Avvicinandosi a lui, Heat notò che dal corpo di Nepper veniva un debole tepore e capì che l’altro stava usando il dono per alzare la propria temperatura corporea.
-Wow, sei come una stufa. Per forza che non hai freddo- osservò Heat, affascinato.
Nepper fece una smorfia, forse perché non gradiva essere paragonato a una stufetta, ma si riprese subito e sfoggiò un sorriso spavaldo.
-Te l’ho detto. È la stessa cosa che ti ho fatto vedere ieri a mensa, solo che ora lo faccio in modo continuato- disse con un certo autocompiacimento.
-Sembra utile. Io non credo che potrei farlo.
-Perché no?
-Non posso fare calore così, o alzare la mia temperatura come fai tu. Posso soltanto creare una fiamma... E controllare il fuoco quando ce l’ho davanti. Ad esempio non potrei fermarti, in questo momento. Non posso controllare una cosa che non si... materializza- spiegò.
-Mmh- Nepper rispose con un mormorio d’assenso. Heat si strinse le braccia attorno al corpo e alzò gli occhi al cielo, che in quel momento era una sfumatura tra il blu scuro e l’indaco. Faceva molto freddo e la neve non era fresca, bensì dura e croccante, con un sottile strato di ghiaccio sulla superficie. 
-Beh, quale sarebbe la tua idea?- chiese Heat, impaziente. Nepper si riscosse.
-Ah sì. In realtà è una cosa facilissima. Hai visto come riesco a fare delle fiammate potentissime? Il fatto è che lo sono un po’ troppo- disse. -Ma, visto che tu sai controllare bene il fuoco, ho pensato che potremmo collaborare. In fondo, come partner dovremo imparare a farlo prima o poi, o no?- Mentre parlava, Nepper si era messo a calciare la neve circostante. Anche se fino a poco prima era stato così orgoglioso della sua idea, adesso sembrava leggermente imbarazzato. Heat lo guardò sorpreso.
-Vediamo se ho capito bene... Vorresti che usassi il mio potere per... controllare il tuo?
-Sì, qualcosa del genere. Pensi di poterci riuscire?- chiese Nepper.
-Non lo so. Ma possiamo provarci- rispose Heat, onesto. Si guardò attorno per un momento. -Ah, ora ho capito. Siamo venuti qui per allenarci, vero?
Il volto di Nepper parve illuminarsi, e Heat intuì di aver indovinato. Evidentemente Nepper voleva verificare che quell’idea fosse fattibile prima di metterla in pratica in addestramento, e quelli erano il posto e l’orario ideale per un allenamento di nascosto. Heat doveva ammettere che l’idea lo stuzzicava.
-Sono un po’ emozionato- ammise con un piccolo sorriso. -Prova a fare qualcosa come quella che hai fatto ieri in allenamento.
Nepper si stiracchiò, poi sollevò lentamente la mano destra. Poco dopo, dal palmo fuoriuscì una gittata di fiamme. Heat scattò in avanti e provò ad afferrarla con le mani, ma non riuscì né a prenderla né a manovrarla; semplicemente, la fece scomparire.
Nepper lo guardò con un misto di curiosità e sorpresa.
-Che hai fatto?- chiese, mentre Heat si guardava le mani, altrettanto perplesso.
-Io... non saprei- mormorò. Il fuoco di Nepper era familiare, eppure diverso dal suo, così come i loro doni erano simili ma differenti. Heat alzò lo sguardo e disse:- Proviamo con un altro approccio. Pronto quanto lo sei tu.
Nepper annuì e ripeté quello che aveva fatto prima. Stavolta, invece di cercare di afferrare la fiamma, Heat alzò un braccio e disegnò una linea in aria. La fiamma si piegò di scatto e si mosse lungo la retta. Heat proseguì: man mano che tracciava linee, costringeva la fiamma a venirgli dietro, adeguandosi al percorso tracciato. Alla fine, quando si stancò, diresse la fiamma verso il terreno. Questa si tuffò in picchiata e si estinse con un piccolo scoppio, trasformando un mucchio di neve in una pozza d’acqua bollente. Heat sospirò di stanchezza e si voltò.
-Una cosa del genere?- disse con un sorriso nervoso.
Nepper stava fissando a occhi sgranati il punto dove la fiamma era caduta. Quando si girò verso Heat, sul suo volto c’era un sorriso larghissimo.
-Sì, sì, sì!- esclamò. -Proprio una cosa così! Sei stato fighissimo!
Heat arrossì per il complimento, poi tornò serio e si portò una mano al mento con fare pensieroso. Il sorriso di Nepper si smorzò un pochino.
-Qualcosa non va?- domandò.
-No... non esattamente... Solo che, quando ti guardo, ho l’impressione che tu possa essere più forte di così- osservò Heat con sincerità. Nepper sbuffò una risata.
-Voglio il tuo aiuto proprio perché faccio attacchi troppo potenti, non mi hai sentito? E tu pensi che possano essere ancora più forti?
-Non sono un esperto-. Heat avvampò. -Ma forse dovresti pensare di cambiare il modo in cui raccogli l’energia, o il modo in cui la butti fuori...- Si fermò a riflettere, incrociando le braccia al petto e sollevando lo sguardo verso il cielo. Ripercorse mentalmente ciò che avevano appena fatto, il modo in cui la fiamma si era librata in aria e poi si era tuffata giù...
-Che ne dici di un drago?- disse la prima cosa che gli era venuta in mente.
-Un drago? Vorresti vedermi sparare fuoco dalla bocca?
Heat abbassò lentamente lo sguardo su di lui.
-Sì- disse in tono serissimo.
Nepper lo fissò come se fosse matto.
-Non ci riuscirò da un giorno all’altro, sai.
-Non importa quanto ci metterai. Ti aiuterò per tutto il tempo necessario- disse Heat.
Nepper continuò a fissarlo con la stessa espressione, e Heat si rese conto di aver detto una cosa piuttosto audace. Ma non aveva intenzione di rimangiarsela. Per una volta, sostenne lo sguardo di Nepper con fermezza.
Quella strana gara di sguardi finì pochi secondi dopo. Il sorriso tornò sul volto di Nepper.
-E va bene- cedette. -Prevedo l’inizio di una grande amicizia!
Heat sperava proprio di sì.
 
 
♦♦♦
 
~ giugno.
 
-Heat, Nepper, è il vostro turno.
Heat si portò una mano al petto e fece un respiro profondo. Era teso come al solito.
-Ehi, Heat, andiamo!
Ma ora qualcosa di diverso c’era.
Passandogli accanto, Nepper gli diede una pacca sulla schiena per spronarlo; fece un paio di passi, poi si fermò ad aspettarlo. Il suo sorriso e il tono spavaldo con cui l’aveva chiamato lasciavano intendere che non sarebbero usciti sconfitti, ed era per questo che Heat si sentiva più forte e sicuro che mai. Andarono alla piattaforma insieme. Le lastre di ghiaccio che IQ e IC avevano creato poco prima erano già state rimosse e sostituite con dei bersagli pensati apposta per Heat e Nepper, dei grandi cerchi di metallo che si muovevano su e giù.
Negli ultimi mesi c’erano stati grandi cambiamenti. Man mano che loro miglioravano, Desarm diversificava il tipo di addestramento, fino a personalizzarlo per ogni coppia. Di mese in mese la frequenza delle chiamate con Hitomiko si era intensificata. Heat non capiva perché la signorina Hitomiko dedicasse loro così tanto tempo, ma gliene era grato. Non poteva fare a meno di pensare che gli allenamenti fossero diventati più stimolanti.
Desarm diede loro il segnale di inizio. I cerchi cominciarono a muoversi.
Nepper si stiracchiò le braccia e si girò verso di lui.
-Ci sei?- chiese, con un gran sorriso che si allargò ancora di più quando Heat annuì senza esitare. Nepper cominciò subito a immagazzinare calore: era diventato molto più veloce a farlo, adesso gli bastavano pochi secondi. E non era la sola cosa che aveva imparato a fare.
Dopo il primo tentativo, infatti, Nepper aveva scoperto che sparare fiamme con la bocca era molto più divertente che farlo con le mani.
Non appena il getto di fiamme si levò in aria, Heat tracciò in aria una curva con il braccio, poi indicò con la mano uno dei bersagli più lontani; come previsto, la fiamma seguì la traiettoria da lui tracciata e si tuffò nel cerchio. Senza perdere la concentrazione, Heat disegnò altre linee, una dopo l’altra. Stava già sudando. Inevitabilmente manipolare il fuoco alzava la temperatura intorno a lui. Al contrario di lui, Nepper lo sopportava senza problemi.
Heat continuò a manovrare la fiammata finché questa non passò attraverso tutti i cerchi; per il gran finale, tutti i bersagli presero fuoco. Heat li osservò senza fiato: era come assistere a uno spettacolo pirotecnico. In quel momento Nepper gridò vittorioso e gli balzò sulle spalle.
-Heat! Sei stato fenomenale! È la prima volta che ci viene così bene!- esclamò, così vicino da assordarlo. Heat abbozzò un sorriso timido.
-È merito tuo... Sei diventato ancora più forte. La fiamma resiste così a lungo solo perché sei tu a farla... Io non riesco a creare del fuoco così- rispose.
Nepper si accigliò, poi si strinse nelle spalle.
-Forse, ma se tu non fossi così bravo nella manipolazione questo giochetto non sarebbe mai riuscito. Prenditi i tuoi meriti, Heat. Sei proprio figo!- disse, in modo così convinto che Heat non poté contraddirlo.
Poco dopo Desarm soffiò nel fischietto e i gemelli si precipitarono da loro, seguiti pigramente da Diam.
-Cos’era quello, Heat?! È stato fighissimo!- strillò IC, afferrò le mani di Heat e iniziò quasi a saltare sul posto, incapace di contenere la propria energia. Anche IQ pareva molto colpito e, benché cercasse di mantenere un contegno, i suoi occhi brillavano di ammirazione dietro le lenti degli occhiali. Persino Diam rivolse loro un sorriso che sembrava sincero.
-Siete diventati ancora più veloci- osservò.
-È stato un gioco da ragazzi, vero, Heat?- ribatté Nepper con orgoglio, girandosi verso il partner in cerca di appoggio. Heat annuì, ma la sua mente era altrove per via del fatto che Nepper aveva ancora il braccio attorno alle sue spalle e non pareva intenzionato a spostarlo.
Intanto, Desarm si avvicinò al gruppetto. Heat si irrigidì immediatamente.
-Nepper, qui non stiamo giocando. Non ve la cavereste tanto facilmente in un vero combattimento- lo rimproverò. Poi, con grande sorpresa dei ragazzi, la sua espressione si ammorbidì. -Tuttavia, devo dire che è stata una performance notevole. Il vostro lavoro di squadra è migliorato molto. Continuate così- aggiunse in tono meno severo. Poggiò una mano sulla spalla di Heat e una su quella di Nepper, rimase fermo per un momento, poi si voltò e se ne andò. Mentre gli altri lo seguivano, Nepper e Heat rimasero indietro.
Una volta sicuro che nessun altro li potesse sentire, Nepper si sporse verso Heat per parlargli all’orecchio.
-Cacchio, sbaglio o il grande capo ci ha appena fatto dei complimenti?!- sussurrò in tono incredulo, mettendo una mano a coppa sulla bocca.
-Sembrerebbe proprio di sì. Pazzesco, no?- rispose Heat, compiaciuto.
Nepper scoppiò a ridere e lo attirò ancora più vicino a sé. Heat sobbalzò, colto alla sprovvista, e per un momento rimase diviso tra desiderio di stringerlo a sé e l’impulso di sottrarsi. Quando alzò lo sguardo e vide l’espressione di Nepper, però, non ebbe il coraggio di allontanarlo: il sorriso di Nepper era così puro e innocente da essere quasi abbagliante.
-È solo grazie a te, Heat. Sei il mio miglior amico, lo sai?
Quelle parole, pronunciate sottovoce, furono un pugno allo stomaco. Il senso di soddisfazione e trionfo provato poco prima si squagliò scontrandosi con i sensi di colpa. Perché Heat aveva un segreto che non aveva ancora detto a nessuno, nemmeno a Nepper. Specialmente a Nepper.
 
-
 
Il fatto era che Heat stava cominciando a venire a patti col fatto di essere gay, ma non sapeva ancora bene cosa fare con quell’informazione.
Non è che avesse molte possibilità di testarlo, dato che non conosceva ragazze oltre a IC. Quando pensava a lei, però, si sentiva più a suo agio nei panni di un fratello che non in quelli di un possibile fidanzato, e questo doveva significare qualcosa, giusto? E comunque, Heat non aveva neanche mai pensato di baciarla... Ma nemmeno di baciare IQ o Diam. IQ era una gelida strega delle nevi, mentre Diam era una fortezza ancora più invalicabile. Era impossibile fargli abbassare la guardia. Insomma, Diam era attraente quanto bastava, peccato solo che fosse Diam (se qualcuno glielo avesse chiesto, Heat non avrebbe saputo spiegarlo meglio di così).
Nulla di tutto questo aveva importanza.
Ciò che importava davvero era decidere che fare con la gigantesca cotta che aveva per Nepper. All’inizio aveva cercato di ignorarla, ma quella sembrava seguirlo dappertutto, onnipresente, ingombrante e invasiva. A volte gli capitava di immaginarla come un grosso elefante invisibile che lo seguiva di stanza in stanza a suon di tamburo. Trattarla come un’influenza stagionale e augurarsi che passasse presto sembrava la soluzione migliore.
Prima di tutto, la convivenza con Nepper era già abbastanza problematica senza che lui sapesse che forse, forse Heat aveva un debole per lui. Heat aveva il presentimento che Nepper non l’avrebbe presa molto bene. Il loro rapporto era decisamente migliorato, vero, ma Heat aveva faticato molto per arrivare fin là. L’ultima cosa che voleva era rovinare tutto ciò che avevano costruito. Inoltre, rovinare tutto per un desiderio egoista gli sembrava ingiusto nei confronti di Nepper. Quello di cui Nepper aveva bisogno era un amico, un partner che gli coprisse le spalle. Heat non poteva e non voleva tradire così la sua fiducia.
Quindi restava solo da decidere cosa fare con tutta quella frustrazione.
Purtroppo, per quanto Heat si sforzasse di non darlo a vedere, la sua concentrazione calò a picco nelle settimane successive. Non riusciva a sorvolare sui sorrisi che Nepper riservava soltanto a lui, sulla disinvoltura con cui gli metteva il braccio attorno alle spalle, o sul modo in cui la sua voce, la sua espressione, la sua postura persino si addolcivano quando parlavano. Heat non contava più le volte in cui avrebbe voluto poggiare la mano sulla sua e lasciarla lì, o ricambiare le strette con abbracci molto più amichevoli. E più si sforzava per reprimere quella frustrazione, più questa premeva per uscire.
Ben presto, il suo segreto cominciò a influire negativamente anche sugli allenamenti.
Quel giorno tutto sembrava a posto. Heat doveva solo fare come al solito e tutto sarebbe andato bene. Poco prima di cominciare, però, Nepper lo beccò a fissarlo senza motivo. A Heat capitava spesso di farlo. Era una cosa piuttosto imbarazzante, ma Nepper parve non darci peso e andò avanti come al solito. Heat si sforzò di fare lo stesso e cominciò a muovere il fuoco come sempre, ma i suoi movimenti erano più distratti e lenti del solito, riusciva a percepirlo persino lui. Cercò di concentrarsi il più possibile sul suo compito e così, in qualche modo, la manipolazione diventò più stabile e precisa.
Ma poi, d’un tratto, Heat incrociò di nuovo lo sguardo di Nepper. Questa volta era lui a fissarlo, e nel suo sguardo c’era qualcosa che Heat non aveva mai notato prima e che non sapeva spiegarsi.
Heat perse il ritmo.
La fiammata sfuggì al controllo e schizzò verso l’alto, colpendo una delle luci e causando una piccola esplosione. Dal soffitto venne giù una pioggia di scintille e schegge di vetro.
-Heat!!- Nepper urlò il suo nome e, rapidissimo, lo afferrò per il braccio e lo tirò via con un impeto tale che caddero all’indietro. Heat, seduto a terra tra le gambe di Nepper, fissava a occhi sgranati il mucchietto di vetri a un paio di metri da loro. Dalla luce distrutta usciva ancora qualche scintilla, insieme a una nuvola di fumo, mentre i cerchi continuavano a muoversi senza badare all’incidente di percorso. Heat non era riuscito ad accenderne neanche la metà. La voce di Nepper lo riscosse dallo shock.
-Heat, stai bene?!
Heat si rese conto che Nepper lo stava mezzo abbracciando. Cercò di girarsi verso di lui per quanto possibile e abbozzò un sorriso incerto.
-Scusami, ho fatto cilecca- disse. Nepper lo guardò, attonito, poi scosse il capo. Prima che potesse ribattere, però, Desarm li raggiunse di corsa.
-Heat, stai bene?- domandò. Quando Heat annuì, Desarm sospirò di sollievo, poi la sua espressione si fece dura.  
-Quando siete in allenamento, non dovete pensare a nient’altro. Heat, eri chiaramente con la testa da tutt’altra parte. Sono molto deluso- lo rimproverò. Heat sentì lo stomaco aggrovigliarsi e abbassò lo sguardo per la vergogna, stringendo le spalle per rimpicciolirsi il più possibile e sfuggire a quello sguardo severo, ma anche preoccupato. Non aveva niente da obiettare, e Desarm interpretò il silenzio come un’ammissione di colpa.
-Pensavo che tu e Nepper foste quasi pronti ad andare in missione, ma evidentemente mi sbagliavo. C’è ancora molto su cui lavorare- sentenziò. Si passò una mano sul volto e si lasciò sfuggire un sospiro di stanchezza. -Per oggi finiamo qui. Andate a riposare- disse, poi girò i tacchi e uscì velocemente dalla sala addestramento. Di sicuro stava andando a chiamare Hitomiko per consultarsi con lei.
Nepper lo osservò andare via con aria insoddisfatta. Non appena la porta si chiuse, lasciò la presa sul braccio di Heat e si mise in piedi.
-Ehi, che ti è preso?- gli chiese, brusco, guardandolo dall’alto in basso. Heat sussultò e chinò ancora di più il capo. Questo parve irritare Nepper.
-Guardami negli occhi quando ti parlo!- berciò. Heat sapeva che Nepper non ce l’aveva davvero con lui, che era solo frustrato per le parole di Desarm; tuttavia non riusciva a reggere il suo sguardo in quel momento. Sollevò un po’ la testa e la voltò di lato, evitando il confronto visivo. Nepper fece schioccare la lingua contro il palato e gli afferrò una spalla, spingendolo bruscamente all’indietro nel tentativo di farsi guardare.
In quel momento, però, i gemelli intervennero per separarli.
-Ora basta! Non serve a niente litigare!- esclamò IC, mentre lei e IQ bloccavano Nepper prendendolo per le spalle.
-Ehi, lasciatemi! Non gli faccio niente! Voglio solo sapere cos’è successo!- replicò Nepper.
Heat avrebbe voluto dirglielo, ma non sapeva come fare senza rivelare tutto il resto. Non era mai stato bravo a mentire. Mentre lui tentennava, Diam rispose al suo posto.
-Perché non lo chiedi a te stesso?- disse, e con nonchalance si posizionò proprio tra Heat e Nepper. Tutti lo guardarono sbalorditi. Era raro che Diam intervenisse in questioni che non lo riguardavano direttamente. Quando si riprese dalla sorpresa, Nepper gli scoccò un’occhiata truce.
-Cosa diavolo vorresti dire?- sbottò.
Diam infilò le mani in tasca e inclinò leggermente il capo.
-Heat non era il solo a essere distratto, no?- disse. -Tanto per cominciare, il tuo attacco iniziale era molto più forte del solito. Non mi sorprende che Heat abbia avuto difficoltà a controllarlo.
Per tutto il tempo Heat continuò a fissarlo, sempre più confuso. Diam aveva notato tutto questo? Lui non si era accorto di nulla. Sbirciò verso Nepper e notò che il suo volto era diventato paonazzo. Nepper boccheggiò per qualche secondo; poi, non trovando subito il modo di rispondere per le rime, fece una smorfia contrariata.
-Quello che succede tra me e Heat non sono cazzi tuoi, mi hai capito?!- sbraitò alla fine.
-Beh, non che me ne freghi niente- replicò Diam, scrollando le spalle. -Insomma, sì, sono affari vostri. Ma se credi davvero che Desarm vi avrebbe portati in missione, ti sbagli di grosso. Non capisci che qui siete viziati e coccolati? Non siete pronti al mondo esterno. Gli spettacolini con i fuochi d’artificio servono a poco, là fuori-. Socchiuse gli occhi con aria annoiata. A quanto pareva, non aveva alcuna intenzione di andarci leggero.
-Non siete abbastanza forti. Tu- proseguì, puntando l’indice contro Nepper, -non sei abbastanza forte. Impara a conoscere e usare meglio il tuo dono, e poi forse potrai criticare gli altri.
Quando finalmente Diam smise di parlare, nella sala calò un silenzio gelido. Nepper si scrollò di dosso i gemelli con veemenza e, dopo aver lanciato a Diam un’occhiata dardeggiante, gli diede le spalle e marciò fuori dalla sala; lo sentirono borbottare insulti sottovoce finché non uscì sbattendo la porta. A quel punto i gemelli si scambiarono uno sguardo esasperato. IC si mise le mani sui fianchi.
-Diam, hai esagerato- disse, imbronciata.
Diam fece spallucce e si girò verso Heat.
-Ehi, ce la fai ad alzarti? Vuoi una mano?
Heat lo guardò per un istante, poi scosse il capo e si alzò da solo.
-Diam... Lo hai detto per noi, non è vero? Tu sei già andato in missione. Sai cosa significa- disse, scuro in volto. -Qui siamo protetti da Desarm... ma non lo saremo per sempre. Un errore stupido è sufficiente a mettere in pericolo sia te che gli altri...
-Già il fatto che tu lo abbia capito è positivo. Spero che ci arrivi anche Nepper- lo interruppe Diam con un mezzo sorriso.
-Bene, miei prodi, lezione di vita finita! Ora devo rilasciare la tensione, quindi lasciatemi solo- aggiunse, indicando loro la porta con un gesto deferente della mano. Gli altri, che sapevano cosa intendeva dire, non se lo fecero ripetere due volte, anche se IQ aveva delle rimostranze per quel “miei prodi”. Poco prima di chiudere la porta, Heat vide Diam mettersi le cuffie, per cui si affrettò a chiudere e allontanarsi il più possibile.
Ora che si trovava con del tempo libero in più, non sapeva cosa farci. Avrebbe voluto cercare subito Nepper e assicurarsi che stesse bene, ma aveva l’impressione che fosse meglio lasciarlo in pace per un po’. Probabilmente in quel momento Nepper non voleva neanche vederlo... Heat si bloccò. Deglutì. Il pensiero che Nepper non volesse più avere a che fare con lui era insopportabile. Non che lo biasimasse. Per colpa sua anche Nepper era stato punito. Per colpa di un suo errore.
Intanto, IC si accorse che si era fermato e tornò indietro per consolarlo. Heat cercò di non piangere mentre la ragazza gli dava dei colpetti affettuosi sulla schiena.
-Non preoccuparti, Heat, andrà tutto bene! Tu e Nepper siete grandi amici, lo sappiamo tutti. E poi, Diam non odia affatto Nepper. Anzi, sono sicura che è preoccupato per lui!
-Come fai a esserne sicura?- chiese Heat, confuso. IC abbozzò un sorriso.
-L’ha chiamato per nome, no? Ti ricordi che all’inizio non si ricordava nemmeno come si chiamava? Penso che ora Diam lo consideri davvero uno di noi- disse. Heat non era convintissimo, ma non ebbe la forza di contraddirla. Certo, su una cosa aveva ragione: trattandosi di Diam, essersi ricordato il nome era già un enorme passo avanti.
 
-
 
L’aria in mensa era tesa. Per un po’ Heat si sforzò di essere positivo, contro la propria natura e contro tutte le aspettative, ma le sue speranze crollarono quando, una decina di minuti dopo, fu chiaro che né Diam né Nepper li avrebbero raggiunti. A quel punto IQ si raddrizzò nervosamente gli occhiali sul naso e fece un sospiro cupo.
-È inutile aspettare oltre- dichiarò, mentre andava a riempirsi il piatto. Heat rimase fermo a fissare la porta finché IC non gli diede un colpetto sul braccio.
-Andiamo anche noi- disse la ragazza in tono incoraggiante.
Heat annuì e la seguì al bancone, dove osservò senza appetito le uova strapazzate e il pane bruciacchiato. Prese comunque qualcosa a caso da mettere nel piatto – solo perché IC e IQ continuavano a lanciargli occhiate di sottecchi – e andò a sedersi al solito tavolo.
Non poteva fare a meno di sentirsi in colpa. Da quando aveva cominciato a legare con lui, Nepper si era aperto poco a poco anche con IQ e IC; di solito in mensa c’era un’atmosfera leggera e scherzosa, a cui a volte partecipava persino Diam. Ma ora si respirava un’aria ben diversa. La mensa, senza Nepper e Diam, appariva vuota.
Heat scoprì di avere lo stomaco annodato e di non poter mandar giù un solo boccone, perciò allontanò il piatto da sé con un gesto svogliato. IC e IQ si scambiarono un’occhiata.
-Dai, Heat, non fare così. Sono sicura che hanno bisogno solo di tempo per sbollire, ma poi tornerà tutto come prima!- lo incoraggiò IC.
-Indebolirsi non servirà a nulla, devi mangiare- aggiunse IQ in tono brusco, ma si capiva che era davvero preoccupato.
Heat scosse il capo e nascose il viso tra le braccia con un mugugno.
-È colpa mia. Nepper vuole evitarmi, è palese! Dopo quello che è successo, forse non vorrà più vedermi. Ecco, lo sapevo, ho rovinato tutto... Scusatemi, ragazzi- borbottò.
-Ma no, non devi scusarti! Capitano a tutti le giornate no! E sono più che certa che Nepper tornerà presto sui suoi passi e che tornerete a essere amici come prima!!- IC faceva del suo meglio per tentare di tirarlo su, ma non stava ottenendo grandi risultati; Heat continuava a sentirsi molto colpevole.
-C’è una cosa che non mi spiego, però- intervenne IQ. -Perché quando Nepper ti ha chiesto cos’era successo, non gli hai risposto e basta? La situazione non sarebbe degenerata se tu gli avessi semplicemente risposto...
A quel punto IC gli diede una gomitata nel fianco, accompagnata da un’occhiataccia che lo accusava chiaramente di mancanza di tatto. IQ recepì il messaggio e tacque, anche se sembrava più confuso che altro mentre si massaggiava la parte dolorante. In realtà, pensò Heat, non aveva tutti i torti. Ma come poteva spiegare quello che era successo, senza confessare il suo segreto? Non poteva, assolutamente.
-Ho paura- ammise sottovoce.
Qualcuno, probabilmente IC, allungò una mano e cominciò ad accarezzargli i capelli dolcemente. Sembrava che i gemelli non sapessero più cosa dire per consolarlo, perciò rimasero tutti e tre in silenzio. Heat sospirò e premette la guancia contro la superficie fresca del tavolo, pensando a quanto gli sarebbe mancato scherzare liberamente con Nepper. Non poteva lasciare che quella situazione si protraesse ancora. Quel senso di vuoto era già abbastanza. Dopo qualche minuto, Heat si raddrizzò.
-Devo parlare con Nepper e sistemare le cose, vero?- mormorò. Anche se era più una domanda retorica che altro, IQ e IC non esitarono a cogliere la palla al balzo.
-Certo!
-Assolutamente!
Heat li fissò per un lungo momento, poi annuì con ritrovata determinazione.
-Va bene, ci vado adesso. Non so dove sia Nepper, ma lo troverò e gli parlerò!- affermò. Si alzò da tavola e i gemelli lo imitarono seduta stante. Heat notò che anche loro, nonostante quello che avevano detto, non avevano toccato cibo.
Uscirono dalla stanza insieme, facendo ipotesi su dove potesse essere andato Nepper. Una delle principali opzioni era la camera da letto, com’era ovvio; ma era anche vero che Nepper amava andare a correre, soprattutto quando aveva bisogno di sfogarsi.
-Ma non può essere andato lontano. Direi di partire dall’opzione più ovvia, cioè la camera da letto- osservò IQ, pragmatico come al solito, e gli altri due concordarono.
Erano arrivati a circa metà del corridoio quando si accorsero di un forte odore di bruciato.
-Possibile che sia quello dei toast?- chiese IC, confusa.
-Ma non arriverebbe fin qui...- Anche IQ sembrava piuttosto disorientato. Cominciarono tutti e tre a guardarsi attorno in cerca della fonte di quell’odore, finché a un certo punto Heat non alzò la testa e si accorse che sul soffitto si stava raccogliendo un sottile strato di fumo. Un brutto presagio. Heat riprese a camminare seguendo quella pista.
Il fumo fuoriusciva da sotto la porta chiusa della loro camera.
Heat restò per un attimo senza fiato, scioccato, poi si precipitò alla porta. Quando la spalancò, fu investito da una nuvola di fumo nerastro. L’odore acre gli riempì le narici e lo fece tossire. Ma il problema non era soltanto il fumo. Heat sentì IC e IQ trattenere il fiato di colpo alle sue spalle, perché la camera era avvolta dalle fiamme.
La vista del fumo e del fuoco lo portò subito indietro nel tempo, al fatidico giorno in cui aveva perso tutto. La paura e il panico ebbero il sopravvento. Heat smise di pensare. Era paralizzato dal terrore, gli sembrava proprio di avere le scarpe incollate al pavimento. Non riusciva a respirare. Aveva bisogno di aiuto.
-Vado a chiamare Desarm!- gridò IC e, senza aspettare una risposta, corse via più veloce che poteva. IQ spostò lo sguardo da lei a Heat, indeciso, ma poi seguì la sorella. Rimasto solo, Heat cercò di calmarsi come poteva. Di sicuro, pensò, Desarm avrebbe saputo cosa fare. Sì, doveva solo aspettare che Desarm tornasse e tutto sarebbe andato apposto; Desarm lo avrebbe salvato di nuovo, poi avrebbe dato una camera nuova a lui e a Nepper e tutto sarebbe tornato normale...
Nepper.
Tutto il mondo di Heat arrivò a uno stop improvviso.
Non capiva come avesse fatto a non pensarci subito. C’era la possibilità che Nepper si trovasse lì, in camera, e che per qualche motivo non potesse uscire. Forse si era ferito, forse era rimasto intrappolato. Non c’era spazio per ipotesi o dubbi. Heat deglutì. Se Nepper era in pericolo, lui doveva salvarlo a ogni costo. Quel pensiero bastò a dargli la scarica di adrenalina necessaria ad agire.
Per la seconda volta nella sua vita, Heat si lanciò in un muro di fuoco di sua spontanea volontà.
Una volta nella stanza, si guardò attorno freneticamente. Il letto di Nepper era avvolto dalle fiamme, la finestra era chiusa e gli parve di vedere una figura a terra, contro la parete. Senza pensarci due volte, Heat si tese in avanti e afferrò a mani nude un nastro di fuoco, soffocandolo all’istante. Non avvertì il minimo dolore. Era come se fosse nato per quello. Per dominare il fuoco. Forte di quella consapevolezza, Heat fece un ampio gesto con il braccio e agitò minacciosamente il pugno chiuso. Guarda, intimò. Guarda cosa posso farti. E il fuoco cominciò ad arretrare, a fargli il vuoto attorno, come se avesse capito davvero.
Ma non era ancora abbastanza.
Heat aprì la mano e stese il braccio davanti a sé. Delle parole si fecero strada in lui, parole che appartenevano al fuoco stesso. Vieni, pensò Heat, nella lingua del fuoco, non mi fai paura. Non era del tutto vero, ma il fuoco – lo intuiva – aveva più paura di lui. Le fiamme si inchinarono come canne al vento e fluirono all’interno della sua mano. Adesso che lo spazio era libero, Heat corse alla finestra e la spalancò, così da far uscire il fumo. Quando si voltò e vide in che condizioni versava la loro stanza, gli mancò il respiro. Il letto di Nepper era un ricordo lontano: il materasso era stato consumato dalle fiamme, perciò era affumicato, squarciato con tutte le molle in bella vista. La testiera, i piedi e la rete metallica si erano salvati, ma la vernice era bruciata in più punti e sotto s’intravedeva il metallo. Le tende erano a brandelli e il cassettone era stato in buona parte rovinato dal fumo e dalle fiamme che l’avevano lambito. Anche le pareti e il soffitto erano sporche e annerite. Heat barcollò in avanti, senza sapere dove guardare, e inciampò in una scarpa mezza bruciata. Era una delle scarpe da ginnastica di Nepper. Heat stava per sboccare quando sentì una voce fioca chiamare il suo nome.
In un attimo Heat riprese l’equilibrio, si girò di scatto e trovò Nepper rannicchiato in un angolo: il ragazzo aveva il viso sporco di cenere e i vestiti bruciacchiati, ma per il resto sembrava stare bene. Il sollievo fu tale che tutta l’adrenalina scomparve. Heat sentì le forze venirgli meno all’improvviso e crollò in ginocchio. Nepper si sporse verso di lui e lo afferrò per le spalle.
-Tu... tu mi hai salvato la vita- disse, sbigottito. Heat annuì, senza parole.
Poi una voce gelida li interruppe.
-Nepper, cosa significa tutto questo?
Desarm era arrivato e, in piedi sulla porta, torreggiava su di loro in modo minaccioso: l’espressione truce sul suo volto lasciava intendere che Nepper si trovava in un mare di guai. Nepper sussultò, ammutolì e si girò lentamente verso di lui, ma incrociando il suo sguardo abbassò subito gli occhi. Desarm riprese a parlare senza aspettare una risposta.
-Credo di avere già un’idea di cosa sia successo, ma voglio sentirlo da te, Nepper.
Nepper esitò, mordendosi il labbro, ma sapeva di non avere scelta. Alzò il volto e guardò Desarm con una sorta di spavalderia mista ad arroganza.
-Stavo solo giocando un po’- disse. -Era tutto sotto controllo, avrei potuto spegnere il fuoco anche da solo...
Le sue parole contrastavano con quello che aveva appena detto a Heat, che ci rimase di stucco. Desarm, invece, andò su tutte le furie.
-Razza di stupido!- ruggì, facendoli sobbalzare. Si avvicinò a Nepper e lo afferrò per il colletto della felpa, sollevandolo da terra come se il suo peso non contasse niente. Heat si spostò d’istinto e cadde all’indietro, finendo con il sedere per terra. Nepper era così sbalordito che non provò neppure a liberarsi: fissava Desarm a occhi sgranati, spaventato e incapace di difendersi.
-Stavi giocando? Questo non è un gioco, Nepper! Guarda cos’hai fatto!- gridò Desarm, fece un ampio gesto con il braccio libero. -E non provare a fare il gradasso! Non hai idea di cosa sarebbe potuto succedere. Se Heat non fosse intervenuto, saresti morto!
Nepper deglutì. Sembrava che stesse trattenendo le lacrime. Quando Desarm lo lasciò andare, Nepper barcollò e dovette appoggiarsi al muro per non cadere; poi rimase là, immobile, a fissare il letto bruciato con aria devastata, come se per la prima volta si fosse reso conto di cosa aveva combinato. Desarm gli lanciò un’occhiata indecifrabile, ma per il momento decise di ignorarlo. Spostò la propria attenzione su Heat, al quale si rivolse con un tono decisamente più gentile.
-Heat... Dopo parleremo di quello che è successo, ma prima dimmi: stai bene? Riesci ad alzarti da solo?
Heat fece un debole cenno di assenso con il capo, ma, quando provò a tirarsi su, non ci riuscì. Era come se le gambe gli fossero diventate di gelatina per lo shock. Desarm non disse nulla; si limitò a tirarlo su, lasciando che Heat si aggrappasse al suo braccio. Quel gesto rammentò a Heat di come Desarm l’aveva trascinato via dal mercato in fiamme, salvandogli la vita. Il ricordo gli riempì gli occhi di lacrime.
Heat avrebbe voluto dire qualcosa per difendere Nepper, ma non riusciva proprio ad articolare le parole. Tutta l’energia rimasta gli serviva per non cadere di nuovo. Desarm lo aiutò a sedersi sul suo letto, poi si girò verso Nepper e la sua espressione si indurì di nuovo.
-Nepper, devi capire che i doni che abbiamo non sono uno scherzo. Sono una grande responsabilità, di cui anche tu devi farti carico. Tutti noi lavoriamo duramente per imparare a controllarci. Mi sembrava che ti stessi impegnando, o no?- disse, mentre chinava leggermente il capo per cercare di scrutare il viso del ragazzo. Nepper, però, non lo stava guardando. I suoi occhi scivolarono dal materasso distrutto a Heat, eppure rimasero vacui, come se non lo vedesse neppure.
-Io... cosa ho fatto?- mormorò, così a bassa voce che Heat pensò di averlo solo immaginato.
In quel momento l’istinto gli disse che doveva muoversi, che doveva fare qualcosa subito, perché Nepper stava andando in un posto lontano, dove lui non avrebbe potuto più raggiungerlo. D’impulso Heat allungò una mano verso Nepper, ma non riuscì neanche a toccarlo. D’un tratto il mondo si rovesciò sotto i suoi occhi e lo fece scivolare nel buio.
 
-
 
Il fuoco era entrato dentro di lui e ora minacciava di trasformarlo dall’interno.
Heat sapeva che era soltanto un sogno. Le sue gambe erano pesanti come piombo e la piazza del mercato non era niente più che un’immagine sfocata sullo sfondo al di là delle fiamme. Ma sapere che era un sogno non lo rendeva meno reale. Heat si sentiva come se avesse ingoiato un pezzo di carbone ardente, aveva sulla lingua il sapore della cenere. Si portò le mani alla gola istintivamente. Doveva chiamare aiuto prima che la voce gli venisse tolta; tuttavia il primo nome a venirgli in mente non fu quello del nonno o della nonna, e nemmeno quello di Desarm.
-Nepper...
Pronunciando quel nome, Heat aprì gli occhi.
Lentamente, mise a fuoco i dintorni. Era pieno giorno e luce abbondante entrava nella stanza, che però non era la sua. Heat realizzò subito di non essere nel proprio letto, ma gli ci volle qualche minuto in più a ricordarsi che la loro camera era andata a fuoco. Spossato e dolorante, si sforzò di ricordare il resto. Aveva salvato Nepper dall’incendio, poi era arrivato Desarm e aveva rimproverato Nepper, e poi... Poi Heat aveva perso i sensi.  
Cercò di mettersi a sedere e scendere dal letto, ma un capogiro lo fece oscillare verso il bordo del letto. Per fortuna, prima che potesse cadere qualcuno lo prese per le spalle e lo raddrizzò.
-Ehi, attento. Non penso proprio che tu possa alzarti così di colpo.
Sentendo quella voce, Heat trasalì e alzò il viso di scatto. Diam ricambiò lo sguardo senza scomporsi, mentre lo teneva ancora saldamente per le spalle.
Nonostante la sorpresa di vederlo lì, Heat decise di non fare commenti. Guardandosi intorno, capì che si trovavano in infermeria.
-Dov’è Nepper?- chiese subito.
Diam non rispose subito. Aveva un’aria pensierosa, come se stesse riordinando le idee e scegliendo accuratamente cosa non dire.
-Ah...- sospirò infine. -Dopo quello che è successo, Desarm lo ha messo in isolamento per una notte. Nepper aveva dei problemi a... contenere i propri poteri-. Si portò una mano alla nuca, insolitamente nervoso. Heat si accigliò.
-Ma sta bene?- insistette, per nulla soddisfatto.
Diam scrollò le spalle. -Bene, no... Beh, non sta male fisicamente. È solo... difficile da spiegare. Finché non lo vedi, non puoi capirlo- disse.
Era una risposta così vaga che Heat non poté fare a meno di sentirsi frustrato e irritato. Una cosa, però, gli era chiara: c’era qualcosa che Diam non osava dire, almeno non direttamente. E questo era preoccupante. Diam non aveva mai paura di dire quello che pensava. La situazione doveva essere davvero grave.
Heat scalciò coperta e lenzuola e fece per alzarsi all’istante, ma Diam l’aveva previsto e senza esitare lo prese per le spalle e lo spinse a letto. Heat era più debole di lui già in condizioni normali, e ora che era debilitato non aveva speranze di averla vinta; così dopo essersi dimenato un po’ fu costretto ad arrendersi e a tornare steso, anche se ricalcitrante.
-Non guardarmi così- disse Diam. -Ordini di Desarm: non puoi alzarti dal letto, specialmente se è per cercare Nepper. E io sono stato messo qui apposta per impedirtelo. Ma non sono un tipo molto paziente, quindi stai buono, se non vuoi che ti canti una ninnananna delle mie.
Heat si morse il labbro per non ribattere, ma continuò a fissarlo in modo ostile.
Diam sospirò. -E poi, dove vorresti andare? Guarda come stai messo, non ti reggi manco in piedi. Anzi, ora dico ai gemelli di portarti qualcosa da mangiare. Non ti alzare, eh, torno subito- aggiunse, poi andò alla porta e la aprì. Si affacciò fuori e disse qualcosa. A quanto pareva i gemelli erano proprio là fuori. Heat approfittò di quella chance per rilassarsi: al momento, anche essere irritato con qualcuno richiedeva troppe energie. Ora che ci pensava, aveva veramente fame. Il suo stomaco ruggiva come se non avesse toccato cibo da giorni.
Diam tornò indietro dopo un minuto al massimo. Trascinò una sedia vicino a uno dei letti liberi e si sedette, con i piedi alzati sul materasso e le braccia incrociate al petto. Heat decise di ignorarlo. Visto che non c’era niente di meglio da fare, sistemò il cuscino contro la testiera del letto e ci sprofondò con la schiena; si mise il più comodo possibile e socchiuse gli occhi mentre pensava a come sfuggire al controllo di Diam, scoprire dove si trovava Nepper in quel momento e raggiungerlo...
-Hai dormito per tre giorni, lo sai?
Diam ruppe il silenzio con un’affermazione a dir poco inquietante. Heat spalancò gli occhi e, dimenticandosi del proposito di ignorarlo, si girò verso di lui.
-Tre giorni? Mi prendi in giro?- esclamò, allibito.
-Non ho mai visto nessuno dormire tanto. Devi aver usato parecchia energia, per sfinirti così- osservò Diam. -Anche Desarm dice che non ha mai pensato che potessi usare il tuo potere così. Quindi ho pensato che dovrei scusarmi, per avervi detto che siete deboli e tutto il resto. Forse in fin dei conti ti ho sottovalutato. Scusami.
-Non... non fa niente- farfugliò Heat sovrappensiero. Era troppo preoccupato del fatto di aver dormito per tre giorni interi per sbalordirsi del fatto che Diam avesse chiesto scusa (a proposito di cose mai viste prima).
Se Diam non mentiva, allora erano passati tre giorni da quando Nepper era stato messo in isolamento. Cosa ne era stato di lui dopo? Heat non poteva fare a meno di angosciarsi, ma Diam non aggiunse altro e, poco dopo, i gemelli entrarono nell’infermeria. IQ trasportava un vassoio di vivande; quando lo poggiò sulle sue gambe, Heat vide un piatto di porridge cremoso con un cubetto di burro e una spolverata di erbe sopra, del pane abbrustolito e un bicchiere di gres con del tè verde. Il profumo era davvero invitante e gli fece venire subito l’acquolina in bocca.
-Abbiamo pensato di raffreddarlo un po’, così non avrai problemi a mangiarlo- sottolineò IQ.
Heat annuì, ringraziò per il cibo e prese subito una cucchiaiata di porridge. Era caldo ma non bollente, e il sapore era normale. Anche se la fame era tanta, Heat dovette costringersi a rallentare per non infastidire lo stomaco che, dopo un lungo digiuno, era ancora molto sensibile. A ogni boccone si sentiva rinato. Finito il porridge, cominciò a rosicchiare il pane, fermandosi ogni tanto per bere un sorso di tè.
Era così preso dal pasto che all’inizio non fece caso al chiacchiericcio dei suoi compagni, ma a un certo punto fu impossibile non notare che si erano appartati vicino alla porta per parlare, escludendolo. Era sempre più palese che nascondessero qualcosa. Nonostante fosse piuttosto offeso, Heat si sforzò di mantenere un’espressione neutrale e al tempo stesso si concentrò per cercare di catturare una parola o due. Purtroppo non ne cavò granché. A un tratto IC si accorse che Heat aveva finito di mangiare e gli si avvicinò.
-Come ti senti?- chiese in tono apprensivo, mentre raccoglieva il vassoio.
-Solo un po’ stanco. Penso che riposerò un altro po’... anche se a quanto pare ho dormito per tre giorni- rispose Heat, calcando le ultime parole per enfasi.
-Oh, riposare ti farà sicuramente bene, ma sono sicura che le forze ti torneranno in un battibaleno dopo aver mangiato! Desarm si è superato stavolta.
-In effetti il pane era meno bruciato del solito e il porridge era buono- osservò Heat con un mezzo sorriso. Sprimacciò per bene il cuscino, lo rimise al suo posto e vi appoggiò la testa, stendendosi al contempo sotto le coperte. -Ora mi metto a dormire, quindi potete uscire?- chiese con aria innocente. IC annuì ingenuamente e gli accarezzò la testa prima di tornare indietro con il vassoio.
-Ragazzi, Heat ha detto che vuole dormire!
-Ancora?- IQ si accigliò. -Beh, e allora che facciamo? Parliamo qui fuori?
Diam tentennò. Ci rifletté un attimo, ma poi dovette pensare che Heat era troppo debole per tentare una fuga e decise di assecondare i gemelli.
-Okay, okay. Ma restiamo qui fuori, mi hai sentito, Heat?- disse, alzando la voce apposta.
Heat rispose fiaccamente con un mugugno, poi diede loro le spalle e finse di mettersi a dormire mentre loro uscivano. Rimase immobile ancora per qualche minuto, per essere sicuro che se ne fossero veramente andati; poi si girò di nuovo nel letto e controllò che la porta fosse chiusa. Doveva fare in fretta.
Strisciò fuori dal letto facendo il minor rumore possibile, s’infilò le scarpe senza allacciarle e in punta di piedi raggiunse la finestra. La aprì con la massima delicatezza, facendo scivolare il pannello di vetro verso l’alto, e si affacciò. Per fortuna l’infermeria era al piano terra e la distanza tra davanzale e terreno non era molta. Heat si lanciò una rapida occhiata alle spalle. La porta era ancora chiusa, e lui riusciva a sentire il vocio che veniva dal corridoio. Senza perdere altro tempo, quindi, scavalcò il davanzale, saltò dall’altro lato e atterrò nella neve fresca. Si allontanò in fretta, curandosi di non fare tanto rumore.
Adesso doveva trovare Nepper.
Non aveva idea di dove cercare, ma rientrare senza essere visto sarebbe stato problematico. Mentre rifletteva su come fare, svoltò un angolo dell’edificio, così che anche affacciandosi alla finestra dell’infermeria non avrebbero potuto più vederlo. Heat si guardò intorno nervosamente. Sebbene l’espediente avesse funzionato, non gli avrebbe fatto guadagnare molto tempo; presto Diam si sarebbe accorto che gli era sfuggito e sarebbe venuto a cercarlo, o più probabilmente avrebbe avvertito Desarm. Heat non sapeva perché Desarm non volesse che lui e Nepper s’incontrassero, ma doveva assolutamente trovare Nepper prima che glielo impedissero. Fin dal momento dell’incidente aveva una gran brutta sensazione e per placarla doveva accertarsi che Nepper stesse bene.
Svoltando l’angolo successivo, si trovò davanti alla facciata dell’edificio. C’erano almeno due finestre dalle quali potevano vederlo, perciò Heat si chinò e camminò rasente al muro, pregando che nessuno passasse di là. A pochi metri c’era il portone d’ingresso e di fronte a lui la foresta di pini e la radura in cui lui e Nepper erano soliti allenarsi da soli.
Heat ripensò con nostalgia alla prima volta che Nepper lo aveva portato lì.
Proprio in quel momento intravide un movimento tra gli alberi che lo fece trasalire per lo spavento. Aguzzando meglio la vista, però, riconobbe la familiare tuta rossa: anche se in quella stagione il paesaggio non era coperto di neve, spiccava ugualmente tra i pini montani.
-Nepper!- gridò d’impulso.
Nepper era appoggiato al tronco di un albero, con le mani in tasca e le spalle rivolte all’edificio; quando Heat lo chiamò, ebbe solo un lieve sussulto, ma per il resto rimase perfettamente immobile, come se non avesse sentito. Si staccò dal tronco e tornò verso il centro camminando piano, finché non si fermò nel bel mezzo della radura, a più di tre metri da lui. Heat lo fissò, confuso dalla distanza che c’era tra loro.
Si alzò in piedi, ma non riuscì a muovere neanche un passo. Vedendo l’espressione di Nepper, si era paralizzato. Sul viso di Nepper non c’era traccia di cordialità: i suoi lineamenti erano rigidi e tesi, le labbra strette in una linea sottile. Aveva delle occhiaie molto profonde e i suoi occhi erano freddi e inespressivi, come se fossero stati svuotati di ogni emozione.
-Cosa ci fai qui?- domandò Nepper in tono duro, quasi sprezzante.
Heat sussultò. Nepper non era mai stato così ostile, neanche quando era appena arrivato. Cosa diavolo era successo in quei tre giorni? Cosa si era perso? Doveva essere importante.
Dopo qualche esitazione, Heat riuscì a balbettare:- S-sono venuto a cercarti... p-perché volevo parlare con te di quello che è successo...- Deglutì. -Nepper, stai...?
-Non ho voglia di parlarne!- berciò Nepper, scattando subito sulla difensiva.
Heat strinse i pugni e si fece coraggio.
-Va bene... Ma almeno puoi dirmi se stai bene. Sono preoccupato per te...
-Cazzo, ma lo vuoi capire che non voglio parlarti!- Nepper lo interruppe di nuovo. -Non girarmi più attorno, capito?! Lasciami in pace!- Con quel grido, avanzò deciso verso di lui e gli diede uno spintone.
Heat, troppo scioccato per opporre resistenza, cadde a terra. Non riuscì neanche a chiamare il suo nome. Senza degnarlo neanche di uno sguardo, Nepper lo superò ed entrò nel centro. Una volta che se ne fu andato, il silenzio tornò nella radura: sembrava che fosse appena passata una tempesta.
Heat si rimise a piedi a fatica, non perché si fosse fatto male, ma perché l’accaduto gli faceva girare la testa. Per quanto si sforzasse di capire, non riusciva proprio ad afferrare cosa fosse appena successo. E non erano solo le parole sprezzanti ad averlo sconvolto.
Per la prima volta, Nepper gli aveva fatto paura. Heat non aveva mai avuto paura di lui, nemmeno quando Nepper aveva dato fuoco alla loro stanza. Nepper era diverso. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in lui, e Heat non sapeva spiegarselo.
Deglutì e i suoi occhi s’inumidirono. Prima che le lacrime arrivassero, però, qualcuno gli poggiò una mano sulla spalla. Voltandosi, Heat si trovò faccia a faccia con Desarm.
-Heat- disse lui, con un’espressione gentile, -possiamo parlare?
 
-
 
Un quarto d’ora più tardi, Heat era nell’ufficio di Desarm senza di lui.
Dopo averlo accompagnato, Desarm gli aveva detto di aspettarlo lì ed era andato, così Heat decise di dare un’occhiata in giro per ingannare l’attesa e distrarsi per un po’.
La stanza si trovava al lato opposto rispetto alle loro, sullo stesso piano, ed era la più illuminata di tutte. Davanti a due finestre grandi c’era la scrivania, sulla quale Heat vide un gran numero di fogli di carta stampata e dei ritagli di giornale con date passate – alcuni vecchi persino di anni – su cui Desarm aveva annotato delle cose a penna. C’erano anche una lampada con un paralume in vetro opaco, un tagliacarte e una piantina grassa finta. Sulla parete a destra della scrivania c’erano due scaffali contenenti una decina di libri e un piccolo mappamondo e, poco più in là, una terza finestra, davanti alla quale stava una sedia con un cuscino verde. Accanto agli scaffali erano appesi un orologio a pendolo e una scala a pioli che serviva a salire in soffitta. Era lì che Desarm dormiva e, a parte lui, nessuno di loro c’era mai salito; proprio per questo, agli occhi dei ragazzi era diventato un posto avvolto dal mistero. Heat osservò per un po’ la botola di legno sul soffitto, poi abbassò lo sguardo su un piccolo scrittoio di legno chiaro, sul quale troneggiavano una tazza scolorita, usata a mo’ di portapenne, e un portadocumenti pieno zeppo di carta da lettere e buste vuote. Era incredibile che qualcuno pensasse ancora a scrivere lettere a mano in tempi moderni, eppure Desarm lo faceva e scriveva pure lettere lunghissime. Heat si era spesso chiesto dove, come e a chi le spedisse.
Una decina di minuti dopo, mentre Heat guardava da vicino l’orologio a pendolo, Desarm ricomparve alla porta con in mano un bicchiere di gres che sprigionava un forte profumo di tè verde. Si chiuse la porta alle spalle e fece segno a Heat di sedersi sulla sedia con il cuscino verde. Quando Heat si fu accomodato, Desarm gli passò il bicchiere.
-Ho pensato che una cosa calda potesse servire- aggiunse, sedendosi alla scrivania.
Heat mormorò un ringraziamento, si portò il bicchiere alle labbra e ingoiò un piccolo sorso. Il tè era caldo, ma non bollente, perciò Heat ne prese un’altra sorsata, stavolta più sostanziosa. Sospirò mentre sentiva la bevanda riscaldargli la gola e lo stomaco.
Nel frattempo, Desarm lo osservava con le mani giunte davanti al volto.
-Quello che sto per dirti non è facile, ma spero che ascolterai fino alla fine. Dal canto mio, cercherò di essere breve, anche se non è il mio forte- esordì.
Heat si agitò nervosamente sulla sedia.
-Si tratta di Nepper, vero?- chiese. -Ho cercato di parlare con lui poco fa, ma si comporta in modo strano... Non so proprio che gli è preso, così all’improvviso...
-Heat- Desarm lo interruppe, in tono gentile ma fermo. Heat ammutolì all’istante.
-Ti racconterò tutto ciò che so. È una storia che ho potuto ricostruire quasi per intero con le indagini, ma non ho potuto trovare tutto. Mi scuserai se cercherò di riempire questi vuoti con delle mie ipotesi- disse Desarm.
-In realtà, seguivo le tracce di Nepper già da qualche mese quando lo incontrai. Ho cominciato le ricerche in seguito a una segnalazione dall’agency di Tokyo su un possibile drifter. Il suo nome era Netsuha Natsuhiko. La sua infanzia era stata normale fino a otto o nove anni, ma poi all’improvviso tutta la famiglia si era trasferita in una piccola cittadina di periferia.
-Ma perché?- si lasciò sfuggire Heat, confuso.
-Mi sono chiesto la stessa identica cosa. Quindi ho rintracciato i vicini di casa e tutti mi hanno parlato di “strani incidenti”- disse, lanciando a Heat un’occhiata eloquente.
Heat capì al volo.
-Il suo dono...- mormorò. Desarm annuì.
-Sì, credo proprio che sia andata così. E anche allora mi convinsi che Natsuhiko doveva aver cominciato a manifestare il dono. I genitori devono essersi spaventati, non sapevano cosa stesse succedendo. Per questo fuggirono in campagna. Forse speravano di dare meno nell’occhio, ma non ci riuscirono del tutto. Parlando con le persone del luogo, infatti, ho scoperto che in molti avevano l’impressione che la coppia nascondesse qualcosa. Non lasciavano mai entrare nessuno in casa e, quando uscivano, chiudevano sempre tutto a chiave, sia porte che finestre. Pare che avessero un figlio piuttosto piccolo, e la cosa strana è che tutti quelli con cui ho parlato si ricordavano perfettamente di lui, ma non di Natsuhiko. Ho quindi dedotto che fosse proprio lui, quello che stavano nascondendo. E che, durante i quattro anni in cui hanno vissuto là, i suoi genitori lo abbiano tenuto chiuso in casa.
-Adesso dovrò cominciare con le congetture di fantasia. Purtroppo non ci sono prove, ma ho fatto del mio meglio per ricostruire l’accaduto. Cerca di seguirmi ancora un po’- disse Desarm. Fece una pausa per riprendere il fiato.
-Quindi, Natsuhiko è stato confinato in casa per quattro anni- riprese. -Non possiamo sapere per certo quale fosse il rapporto con i genitori e con il fratello, o cosa succedesse dentro casa. Ma possiamo supporre che i genitori di Natsuhiko avessero paura di lui, o che se ne vergognassero, ed è probabile che tenessero l’altro figlio lontano da lui. Così Natsuhiko è diventato sempre più solo e insofferente. Possiamo supporre che a un certo punto la frustrazione abbia superato il limite e che un giorno Natsuhiko sia riuscito a scappare mentre la famiglia era tutta in casa.
-Poco dopo c’è stata un’esplosione. Natsuhiko è stato sbalzato via. Quando sono arrivato sulla scena, forse un’ora dopo, l’ho trovato mezzo morto a una quindicina di metri dalla casa. A parte lui, non ci sono stati superstiti- disse Desarm, con lo sguardo fisso sulla propria scrivania.
-Ho trovato la casa parzialmente distrutta, e ricordo anche che c’era un forte odore di gas. Forse i genitori di Natsuhiko hanno cercato di inseguirlo... ed è possibile che Natsuhiko abbia usato i suoi poteri. Sinceramente, dubito che sia stato intenzionale, direi che è stato un incidente... anche se temo che questo non lo consolerà.
-A causa del trauma, Nepper ha perso tutti i ricordi dei quattro anni vissuti in quel posto. Ma l’avvenimento dell’altroieri deve averglieli riportati alla mente... Di certo in questo momento sarà molto confuso e spaventato-. Desarm si fermò e sollevò lo sguardo verso Heat.
-Capisco che tu sia preoccupato per Nepper- disse, in tono molto serio, -ma devo chiederti di non interferire oltre. Lascia che me ne occupi io.
Heat deglutì e strinse le mani attorno al bicchiere. Dal tono era chiaro che Desarm non avrebbe accettato un no come risposta, perciò Heat si costrinse a dire di sì anche se era l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto fare. Desarm non sembrava molto più entusiasta di lui; anzi, aveva un’aria più stanca del solito. Gli toccava prendere una decisione difficile. Heat non poteva fare a meno di preoccuparsi su come Desarm avrebbe risolto la situazione, ma aveva la sensazione che fosse una cosa da non chiedere.
-Posso andare?- disse, agitandosi irrequieto sulla sedia.
Ancora con lo sguardo fermo su di lui, Desarm annuì lentamente. Heat si alzò di scatto e andò alla la porta.
-Stai alla larga dai guai, Heat- consigliò Desarm alle sue spalle.
Heat si fermò per un attimo, con la mano sulla maniglia.
-Grazie del tè... e di avermi detto tutto- disse senza emozione. Poi uscì senza dare a Desarm il tempo di rispondergli.
Mentre camminava lungo il corridoio, gli venne in mente che il bicchiere andava riportato al suo posto. Era rimasto ancora del tè, ma Heat non aveva voglia di finirlo; non ci sarebbe riuscito neanche volendo, perché il nodo alla gola non accennava a sparire. Cominciò a scendere le scale a rilento, con mille pensieri per la testa.
Era davvero grato a Desarm di avergli raccontato tutto, ma allo stesso tempo una sorda rabbia serpeggiava dentro di lui, e farla tacere era sempre più difficile. Una volta superato lo shock, infatti, si era trovato a chiedersi perché Desarm non glielo avesse detto prima. Si era trovato a pensare che, se solo lo avesse fatto, forse non sarebbero arrivati a quel punto. Se solo avesse saputo, Heat avrebbe potuto fare di più per Nepper, avrebbe potuto proteggerlo meglio... Ma adesso era tardi per i “se”.
Il solo pensiero che Nepper si stesse allontanando da lui era devastante.
Heat aveva la sensazione che il vuoto si aprisse sotto di lui a ogni passo; nonostante ciò, si costrinse a camminare, ad andare avanti in maniera automatica. Non poteva ancora permettersi di cadere in pezzi.
Era così immerso nei pensieri che per poco non sbatté la faccia contro la porta della mensa. Quando se ne accorse, si bloccò di colpo e fissò l’ostacolo con un cipiglio confuso. Di solito la porta della mensa non era mai chiusa, neanche durante la notte. Inoltre, gli pareva di sentire delle voci provenire dall’interno.
-Heat è stato chiamato da Desarm? Oh, spero che non sia niente di grave...
A parlare era stata IC: sembrava molto preoccupata. Sentendo il proprio nome, Heat accostò subito l’orecchio alla porta per origliare.
-Probabilmente deve parlargli di Nepper. A questo punto, penso sia inevitabile che...
-IQ, non dirlo neanche per scherzo!
-Scusa, IC- intervenne Diam. -Ma, lasciando da parte quello che Desarm ci ha detto, il problema vero qui è che Nepper non è in grado di controllarsi neanche ora. Non è che voglio vederlo andare via, ma se rischia di mettere in pericolo il nostro segreto... è come se mettesse a rischio la nostra stessa esistenza, capito?
Andare via? A quelle parole, la mente di Heat passò da zero a mille in un secondo. Stava per entrare e urlare, Ma che cavolo stai dicendo!, quando Diam riprese a parlare.
-Desarm dovrà per forza prendere delle misure- disse.
-Oh no... Pensi davvero che... che manderà via Nepper...?
-Non possiamo escluderlo.
-No, non voglio... E poi, Heat? Come lo diremo a Heat?!- esclamò IC, affranta.
Heat non rimase ad ascoltare la risposta di Diam.
D’un tratto gli tornarono in mente le parole di Desarm, la richiesta di lasciare tutto a lui. Pur non capendo fino in fondo cosa Desarm intendesse, Heat dava per scontato che avrebbe fatto di tutto per convincere Nepper a restare.
Ma se invece mi sbagliassi?
Se invece Desarm non avesse avuto alcuna intenzione di tenere Nepper?
Il bicchiere gli scivolò di mano e cadde a terra. Non si ruppe, incredibilmente, ma rotolò su un lato e si fermò contro lo stipite della porta. Heat lo ignorò. Arretrò di un paio di passi, quasi barcollando; poi si voltò e prese a correre.
Non poteva lasciare che finisse tutto così.
Doveva trovare Nepper e parlargli ancora una volta.
Salì di corsa le scale e controllò tutte le stanze, persino il bagno, ma Nepper non era da nessuna parte. Allora scese di nuovo al piano terra. Nepper non era neanche nell’ingresso. Heat riprese a correre, stavolta in direzione della sala addestramento. Escludendo la mensa per ovvi motivi, quella era l’unica parte dell’edificio che ancora non aveva controllato. Se non si trovava neanche lì, allora Nepper doveva essere uscito. Il pensiero lo mandò in subbuglio. E se Nepper fosse già andato via di nascosto, mentre lui non guardava?
Quando arrivò alla sala addestramento, Heat dovette fermarsi per riprendere fiato. Si piegò e si mise le mani sulle ginocchia, affondando le dita nelle pieghe dei pantaloni di tuta mentre lottava per l’aria. Avvertita fitte di dolore lancinanti al fianco sinistro, dove c’era la milza. Doveva aver sottovalutato le proprie condizioni fisiche; non si era ancora ripreso del tutto dall’incidente di pochi giorni prima.
Proprio quando pensava di star per vomitare anche l’anima, Heat intravide con la coda dell’occhio un movimento alla sua sinistra.
Alzò il volto di scatto e si appiccicò con mani e naso alla vetrata della sala addestramento.
Nepper era in piedi sulla piattaforma, con le mani in tasca e lo sguardo apparentemente perso nel vuoto. Non era andato da nessuna parte. Heat non poté che provare sollievo, anche se non c’era ancora niente da festeggiare. Ma in quell’istante i “se” e i “ma” scomparvero finalmente dalla sua testa: era il momento di agire, non di pensare.
Heat spalancò la porta bruscamente. Nepper si voltò di scatto e, quando vide di chi si trattava, sul suo volto comparve un’espressione corrucciata.
-Sei persistente- sbottò. -Vattene. Ti ho detto che non voglio parlare...
Ignorando le sue parole, Heat chiuse la porta alle sue spalle e ci si parò davanti, così da bloccare l’unica possibile via d’uscita. Nepper se ne accorse subito e, per un attimo, la sua facciata da duro insensibile crollò, i suoi occhi tradirono sorpresa. Durò un solo istante, poi il suo sguardo tornò vuoto e apatico. Heat rabbrividì, ma stavolta, anche se aveva paura, non era disposto a cedere terreno.
-Non importa cosa mi dirai. Io non me ne andrò- disse, con voce tremante. -Voglio che parliamo di questa cosa. Siamo partner, ricordi?
Nepper scoppiò in una risata beffarda.
-Partner? Ah! Ma se non sai niente di me, e io di te! Non c’è niente che ci leghi davvero, Heat, siamo praticamente due estranei- ribatté con veemenza.
-Non è vero!- Heat abbassò lo sguardo e prese fiato. -Io so tante cose di te! So che eri nel club di calcio quando eri piccolo, che ti piace correre la mattina, che ti piace metterti in gioco! E so che preferisci la parte bruciata dei toast, e so che sei testardo ma sai fare i complimenti agli altri e che ti piace quando gli altri li fanno a te...
-Heat...
-So che sei un egoista e che, quando le cose vanno male, metti sempre una facciata per sembrare forte e insensibile... Ma in realtà sei una persona premurosa e ti preoccupi sempre per me che sono un imbranato... Ti sei fidato di me anche se non c’era motivo di farlo... E questo mi ha reso molto felice-. Heat si fermò e con la manica della maglia si asciugò furiosamente le lacrime che gli solcavano le guance.
Sentendo rumore di passi, sbirciò davanti a sé e vide che Nepper si era avvicinato fino a trovarsi a solo pochi metri da lui. La sua espressione adesso era diversa, quasi gentile, anche se addolorata.
-Non posso proprio competere con te- mormorò Nepper in tono rassegnato. Alzò una mano verso Heat, come se volesse toccarlo, ma poi cambiò idea e la lasciò cadere di nuovo. Abbassò lo sguardo e strinse i pugni lungo i fianchi.
-Non fingerò più... non con te, tanto è inutile. Respingerti non è servito a niente- disse Nepper, scosse piano il capo. -Ma non mi farai cambiare idea. Heat, io non posso restare. Devi capirlo. Non c’è posto qui, per uno come me.
-Sì che c’è. Il tuo posto è con me- replicò Heat subito.
Nepper trattenne bruscamente il fiato. Strinse di più i pugni.
-Come puoi dirlo?- chiese, con un tremito nella voce. -Desarm ti ha detto tutto, vero? Ora sai tutto, quindi come... come puoi fidarti di me?
-Mi fido della persona che ho davanti. Non sei il mostro che credi di essere...
-Sono morti per colpa mia!- gridò Nepper.
Heat serrò la mascella e scosse il capo con decisione.
-Non puoi saperlo. È stato un incidente, lo dice anche Desarm...
-Ma non ha importanza, non capisci?! Sono morti per colpa mia! È stata colpa mia! È troppo tardi per chiedere scusa! Chi... chi potrà mai perdonarmi? Come riuscirò, io, a perdonarmi?!
Heat stava per rispondergli, ma Nepper non gliene lasciò il tempo.
-E ho quasi ammazzato anche te, lo hai già dimenticato?! Se ti facessi del male, Heat, io... io... non potrei mai perdonarmi neanche questo! Per questo, io...! Non posso proprio restare, devo andarmene prima di far male a qualcun altro!
-Non puoi andartene!- gridò Heat in risposta. Si aggrappò a un suo braccio d’impulso, come se potesse bastare a fermarlo. Nepper si divincolò, ma Heat lo afferrò di nuovo, disperato.
-Non puoi lasciarmi indietro! Cosa ne sarà di me se tu te ne vai?!
-Starai meglio senza di me...
-Non dirmi come mi devo sentire!- Anche Heat alzò la voce. Non aveva potuto trattenersi. A quello scoppio Nepper ammutolì, ma tenne ostinatamente il capo chino, gli occhi incollati al pavimento e la bocca contratta in una smorfia.
Heat lo fissava con il fiato corto. Così non va affatto bene, pensò, allarmato. Così non riuscirò a convincerlo. Aveva mille cose che voleva dirgli, ma, per qualche motivo, in un momento tanto critico non gliene veniva in mente nemmeno una. Prese un respiro profondo e cercò di calmarsi, per quanto possibile.
-Io non ti lascio solo- disse con voce ferma. Allentò la presa sul braccio di Nepper e fece scivolare la mano nella sua, con l’intenzione di stringergliela.
Ma per tutta risposta Nepper schiaffeggiò la sua mano e arretrò bruscamente.
-No! Non devi toccarmi!
Il grido di Nepper risuonò nella stanza, così struggente che Heat rimase pietrificato; allo stesso tempo la temperatura nella stanza si impennò di colpo. In pochi secondi il calore nell’aria diventò insostenibile e Heat cominciò a sudare. Intanto Nepper faceva letteralmente scintille, come se il suo corpo riuscisse a malapena a contenere tutto quel potere.
Heat si guardò attorno, lambiccandosi il cervello in cerca di una soluzione, ma non sapeva cosa fare o dire per calmare Nepper. Dubitava persino che Nepper lo avrebbe ascoltato. L’unica speranza che avevano era che gli altri venissero a cercarli; ma Heat si rese conto subito che non avrebbero mai fatto in tempo. Toccava a lui impedire un altro incidente per cui Nepper avrebbe sofferto. Pur non avendo un piano d’azione, Heat gli afferrò di nuovo il braccio e lo strinse forte.
Poi udì uno scricchiolio alle proprie spalle. Heat si girò e si accorse che la vetrata stava tremando... No, era il calore a farla tremare. Nel momento in cui vide la crepa allargarsi lungo la superficie del vetro, Heat ebbe un’intuizione e si gettò su Nepper. La vetrata esplose con un gran fracasso e le schegge si riversarono violentemente nella stanza e nel corridoio, rimbalzarono contro i muri e sui loro corpi. Non appena Heat e Nepper toccarono il pavimento, stretti in un abbraccio, la temperatura scese di colpo.
Tutto taceva. Heat si sollevò lentamente sulle braccia e aprì gli occhi, che aveva chiuso d’istinto durante la caduta. Rimase scioccato da ciò che vide: erano circondati da un mare di vetro e, fino a un attimo prima, il suo stesso volto era stato vicinissimo a schegge lunghe almeno tre centimetri.
Nepper era disteso sotto di lui e lo fissava a occhi sgranati, altrettanto turbato. Poi una goccia di sangue gli cadde sul viso, facendolo trasalire. Quando Heat realizzò che colava dalla propria guancia, avvertì un improvviso senso di vertigine e la sua coscienza cominciò a scivolare via. Forse proprio perché lui si stava perdendo, Nepper al contrario tornò in sé e fermò la sua caduta prendendolo tra le braccia. Almeno lui sembrava illeso.
Mentre lo teneva stretto a sé, Nepper cercò di dirgli qualcosa, ma Heat non riusciva a distinguere i suoni. Qualsiasi cosa stesse dicendo, però, sembrava importante. Doveva essere importante, o Nepper non avrebbe pianto così. È la prima volta che lo vedo piangere, pensò Heat. Subito dopo, il mondo si fece buio.
 
-
 
Quando si svegliò, la prima cosa che vide fu il soffitto dell’infermeria.
Stava diventando un orribile cliché.  
Heat si fece scappare un lamento. Aveva addosso una stanchezza immane. Chiuse di nuovo gli occhi e cercò di girarsi nel letto per rimettersi a dormire, ma non appena si appoggiò al cuscino la guancia cominciò a fargli male. Dopo poco, si trovò costretto a tornare alla posizione iniziale. Mentre fissava il soffitto, imbronciato, qualcuno entrò nella stanza.
Heat voltò leggermente la testa e vide Nepper sull’uscio della porta. Per un momento il compagno rimase paralizzato, poi accorse al suo capezzale e si lasciò cadere in ginocchio accanto al letto. Heat notò subito che i suoi occhi erano gonfi e arrossati, come se non avesse dormito affatto.
Evitando il suo sguardo, Nepper gli prese una mano con delicatezza e premette la fronte contro le sue nocche. Era un gesto così intimo che Heat si sentì arrossire.
-Scusa- disse Nepper a voce sommessa. Heat lo guardò, confuso e preoccupato.
-Nepper? Stai bene?
Nepper scosse il capo e strinse la sua mano tra le proprie, poi all’improvviso lo attirò a sé e abbracciò. Heat trattenne bruscamente il respiro.
-Scusami- mormorò Nepper. -Lasciami restare così per un po’...
Heat non avrebbe mai potuto dirgli di no, perciò rimase in silenzio. Pian piano, si rilassò nell’abbraccio, premendo la guancia sana contro la sua spalla. Era così bello da non sembrare vero; e Heat temeva davvero che da un momento all’altro qualcuno potesse entrare e rovinare il momento. Si tirò su per premersi il più possibile contro Nepper; solo che, nel farlo, il lenzuolo gli scivolò di dosso e lo lasciò al freddo. Quando Heat non riuscì a trattenere un piccolo verso di sorpresa, Nepper sussultò e si staccò di colpo.
-Che succede? Ti fa male da qualche parte? Se ti senti male devi dirmelo subito, okay?!- gridò, tenendolo per le spalle. Heat lo guardò senza capire, stordito dal volume della sua voce, ma si riscosse non appena Nepper fece per alzarsi.
-Sto bene, sto bene!- si affrettò a dire, e lo trattenne per un braccio. Non voleva che chiamasse qualcun altro. Poi, visto che Nepper non pareva convinto, aggiunse:- Sono solo un po’... confuso, direi? Cos’è successo dopo che... dopo che sono svenuto?
-Oh- mormorò Nepper in tono cupo. Abbassò di nuovo la testa, come se non potesse sopportare di guardarlo.
-Beh, gli altri mi hanno aiutato a portarti qui. Eri coperto di tagli su gambe e braccia... Non è uscito tanto sangue, ma è stato orribile lo stesso... e poi, la tua guancia...- Nepper esitò, il suo volto si rabbuiò ancora di più. -Desarm dice... dice che il taglio è molto profondo e che rimarrà una cicatrice...
D’istinto Heat si portò le dita alla guancia, scoprendo così che era coperta da un largo cerotto. E non solo: il braccio sinistro era fasciato dal gomito al polso, mentre il destro era pieno di cerotti. Poteva immaginare che anche le gambe fossero in condizioni simili. Stava per sollevare il lenzuolo per guardare, ma Nepper lo fermò prendendogli la mano.
-È tutta colpa mia- disse con voce rauca. -Sono un idiota e ti ho messo in pericolo un’altra volta e... tu meriti di meglio! Guarda cosa ho fatto!
Heat fece per aprire bocca, ma Nepper non lo lasciò parlare.
-Io... farò qualsiasi cosa per farmi perdonare, lo giuro- farfugliò, arrossendo di vergogna. Heat lo guardò per un lungo momento.
-Qualsiasi cosa?
Nepper annuì, mordendosi il labbro.
-C’è solo una cosa che puoi fare. Restare.
Nepper alzò il viso di scatto e lo guardò allibito. Heat sapeva di star tremando, ma mantenne il suo sguardo con fermezza. I tremiti arrivavano fino alle mani strette nelle lenzuola, perciò Nepper se ne accorse.
-Heat... sei arrabbiato?
-Certo che sono arrabbiato! Continui a dire questo e quello, ma a me non importa che è pericoloso! Non me ne importa niente! Smettila di sottovalutarmi! Ti ho fatto una promessa. Pensi che ti abbandonerei così?!
Nepper tentennò, ma poi si morse il labbro e scosse il capo.
-Ti aiuterò a controllare i tuoi poteri. Farò qualsiasi cosa, ma non lascerò che Desarm ti mandi via- disse Heat con veemenza, guardandolo dritto negli occhi per accertarsi che Nepper avesse capito. -E non provare mai più a tenermi lontano. Guarda che mi arrabbio davvero!
-Aspetta, quindi sei arrabbiato per quello? Non per l’incidente?- domandò Nepper, incredulo. Heat annuì senza esitare. Nepper sgranò gli occhi per la sorpresa; poi il suo volto si contrasse in una smorfia. Era chiaro che tratteneva a stento le lacrime. Le sue spalle tremavano leggermente.
-Heat, tu... mi perdoni? Davvero? Posso davvero... restare qui con te?
Quando Heat annuì di nuovo, Nepper lo abbracciò e affondò il viso nel suo collo. Poco dopo arrivarono le lacrime. Heat gli accarezzava piano la schiena per tranquillizzarlo. Non voleva pensare a nulla, ma solo godersi quel momento d’intimità in silenzio.
Poi qualcuno tossì.
I due ragazzini si staccarono di scatto e si girarono verso la porta. Desarm era sull’uscio e cercava palesemente di non fissarli. Indugiò sulla porta ancora per un momento, forse indeciso se chiedere o meno. Il suo sguardo diventava più pesante ogni secondo che passava, e il silenzio era a dir poco snervante. Heat e Nepper non sapevano che fare e, per l’imbarazzo, si misero a fissare uno il letto, l’altro il pavimento. Alla fine, per fortuna, Desarm decise di non fare domande e passare direttamente al sodo.
Chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò ai due ragazzi.
-Heat, Nepper- disse, in piedi vicino alla branda. -Immagino che siate ancora sotto shock e forse sarebbe meglio rimandare il discorso a quando Heat starà meglio. Tuttavia credo che sia opportuno chiarire subito certe cose...
-Per favore, non mandi via Nepper!- lo interruppe Heat d’impulso.
Quando Desarm lo fissò interdetto, Heat si fece piccolo piccolo, desiderando di potersi nascondere sotto le lenzuola, come faceva da bambino quando aveva paura. Alzò timidamente lo sguardo su Desarm, ma l’altro sembrava più sorpreso che arrabbiato.
-Cosa?- esclamò infatti, accigliandosi.
Spostando lo sguardo da Heat a Nepper, parve finalmente rendersi conto che torreggiare in quel modo su due ragazzini non faceva altro che renderli nervosi. Si accigliò ancora di più. Senza dire nulla, afferrò una sedia, la trascinò vicino alla branda e ci si sedette a gambe incrociate. Heat notò che, ora che erano alla stessa altezza, Desarm non aveva più un’aria tanto minacciosa. Dopo qualche attimo di riflessione, Desarm si massaggiò il ponte del naso con due dita e sospirò.
-Non so dove tu abbia preso quell’idea- borbottò, -ma non ho mai avuto intenzione di mandare via Nepper.
Per un secondo Heat guardò Desarm senza capire.
-C-cosa? Davvero?!- esclamò, a voce più alta di quanto volesse.
-Non lo farei mai- disse Desarm, incupendosi. Heat non poteva credere alle sue orecchie.
-Ma... ma Diam ha detto di averti sentito dire che lo avresti fatto...?
-Diam?- Desarm parve colto alla sprovvista, poi un lampo di consapevolezza comparve nei suoi occhi. Si sbatté una mano sulla fronte e mugugnò:- Ah... Deve aver frainteso quella chiamata...
Visto che Heat e Nepper lo guardavano confusi, Desarm spiegò:- Subito dopo aver messo Nepper in isolamento, ho chiamato Hitomiko per chiederle un favore... Diam deve avermi sentito parlare al telefono e ha equivocato le mie parole quando ho detto che Nepper doveva andare via... ma è solo per qualche giorno.
Si rivolse a Nepper e la sua espressione tornò seria.
-Un conoscente di cui Hitomiko si fida è disposto a farci avere un inibitore per i tuoi poteri. Servirebbe soltanto per diminuire e contenere la potenza dei tuoi attacchi, senza però indebolire troppo il tuo dono- aggiunse. -Credo che potrebbe essere un’ottima soluzione, per tranquillizzare tutti. Ma ovviamente, la scelta finale spetta a te, Nepper. Penso che dovresti venire con me da questa persona e decidere da solo se accettare.
-Non ce n’è bisogno- disse Nepper subito. -Accetto tutto.
-Di già? Sicuro che non cambierai idea?
Nepper annuì.
-È sempre stato difficile controllarlo. Anche per questo i miei non volevano assolutamente che uscissi, o che toccassi il mio fratellino... E poi quando ho cominciato ad allenarmi qui, è stato lo stesso. Ho sempre avuto la sensazione che fosse troppo per me... e ammetto che qualche volta ho avuto paura- disse.
-Ma non ho mai avuto paura come adesso. Io non voglio... non voglio più far del male a nessuno. Voglio imparare a controllare questo potere... Per questo accetterò tutto. Se c’è qualcosa che può aiutarmi, la voglio.
Desarm parve sollevato. Il suo volto si distese.
-Bene. Sono lieto che questa cosa sia risolta. Avrei voluto parlartene subito, ma dopo che hai recuperato i ricordi, siamo stati tutti presi da... altre cose. Mi scuso per avervi fatti preoccupare inutilmente-. Si appoggiò allo schiena della sedia con un lungo sospiro di stanchezza. D’un tratto parve ricordarsi di una cosa e si raddrizzò di colpo.
-Ora che ci penso- disse, scoccando un’occhiata torva a Heat, -non ti avevo esplicitamente detto di non interferire?
Heat arrossì e scoppiò in una risatina nervosa.
-Ah, sì, uhm, in effetti è vero, ma ecco, io...- farfugliò. -C-chiedo scusa! Quando ho sentito che Nepper sarebbe andato via, non ho più pensato... Insomma, io pensavo...
-Lascia stare, ho capito perfettamente- lo interruppe Desarm.
-Per questa volta passi, visto che è stata anche colpa mia... Ma la prossima volta che disobbedisci a una mia esplicita indicazione, non te la caverai così bene. E quando vi sarete rimessi entrambi, vi metterò sotto torchio con gli allenamenti, così che potrete andare in missione il prima possibile. Sono stato abbastanza chiaro?
-S-sissignore!- risposero Heat e Nepper all’unisono.
Quando chinarono la testa in segno di rispetto, Desarm li colse di sorpresa poggiando le mani sulle loro teste e scompigliando loro i capelli.
-Per ora è tutto. Mi aspetto che facciate del vostro meglio per rispondere alle aspettative. Dal canto mio, credo molto in questa squadra. È anche possibile che si allargherà ancora.
-Cosa? Avremo altri compagni?- esclamò Nepper, sorpreso. Desarm annuì.
-Ci sono molte persone che meritano una seconda possibilità... Questo è l’insegnamento più prezioso che la mia mentore mi ha passato- disse. 
-Uhm... Quando dici “mentore”, intendi la signorina Hitomiko?- Heat non poté trattenersi. Quando Desarm annuì, il ragazzino si illuminò. -Spero tanto di incontrarla, un giorno! La signorina Hitomiko è incredibile, sa sempre cosa fare... e deve avere anche un dono fantastico, no?
Ma Desarm sorrise e scosse il capo.
-Niente affatto. È una persona normalissima, senza alcun potere particolare- rispose in tutta tranquillità, si alzò e uscì dalla stanza senza lasciar loro il tempo di replicare. Heat rimase a fissarlo a bocca aperta, mentre Nepper era più che altro confuso.
-Non sono sicuro di aver capito bene- disse e scrollò le spalle. –Ma la cosa più importante è che non devo andare via, no?
A quelle parole Heat si riscosse dallo stupore e si girò verso di lui con un gran sorriso.
-È vero! Non devi andartene! Ah, sono così felice!- esclamò, facendosi prendere dall’entusiasmo. Ora che quel peso era sparito, si sentiva decisamente meglio. -Ho quasi voglia di saltare di gioia- gongolò.
-Eh, non farlo. Non voglio che ti si riaprano le ferite- lo rimbeccò Nepper, ma la sua voce non era per nulla tagliente. -Piuttosto, dovresti dormire. Hai sentito Desarm, no? Ci aspetta un lavoraccio nei prossimi mesi, tanto vale prendercela comoda finché possiamo.
Heat non trovò ragioni per contraddirlo.
-Okay, okay, ricevuto. Ora dormo, contento?- Non appena si ristese nel letto, lo sguardo gli cadde sulle loro mani, ancora unite. Tirò leggermente quella di Nepper per attirare la sua attenzione. -Anzi, perché non ti metti vicino a me? Ti faccio spazio- suggerì.
-Ma che dici? Non c’è posto per tutti e due, e poi non ho mica sonno...- disse Nepper, ma non appena finì di parlare gli sfuggì un mezzo sbadiglio. Anche lui doveva essere piuttosto stanco. Le guance di Nepper si imporporarono per la gaffe. Heat rise.
-Ecco, vedi? Scommetto che ieri notte non hai chiuso occhio, ti si vede in faccia- disse in tono allegro. -C’è posto se mi sposto di più verso il muro, vieni.
Nepper restò fermo, chiaramente imbarazzato, ma sembrava meno contrario all’idea rispetto a poco prima. Forse la stanchezza stava avendo la meglio. Heat si spostò subito verso il muro, rotolando su un fianco, e batté la mano sul materasso con fare incoraggiante. Capì di aver vinto definitivamente quando Nepper sospirò e cominciò a togliersi le scarpe.
Nepper salì sul letto, ma non andò sotto le coperte, ci si stese sopra a pancia in su; quindi poggiò la nuca al cuscino e si girò verso Heat.
-Va bene così...?- chiese, scoccandogli un’occhiata nervosa. Heat gli prese di nuovo la mano e la strinse, poi sorrise e chiuse gli occhi.
Dopo poco, però, li riaprì di nuovo.
-Nepper?
-Che c’è? Vai a dormire.
-Sarai ancora qui quando mi sveglio?- chiese Heat. Si sentiva un po’ infantile, ma Nepper non rise di lui.
-Certo- bisbigliò in tono serissimo. -Non ti lascerò mai più solo. Te lo prometto.
Heat si illuminò, il suo sorriso arrivò fino agli occhi.
-Grazie- mormorò. Poi la stanchezza ebbe il sopravvento, e in pochi secondi Heat si trovò a fluttuare dolcemente in uno stato di semi-incoscienza, in cui tutto era reale e al contempo no. Riusciva a percepire il respiro di Nepper, così vicino a lui. Lo faceva sentire... a casa. Non aveva mai pensato che sarebbe riuscito di nuovo a provare quella sensazione.
  
 

 
♦♦♦
 
~ 1 anno dopo
– gennaio
 
 
L’aeroporto era gremito di persone che si facevano gli affari propri. Tutti infatti sembravano impegnatissimi, così presi dalla loro vita da dimenticarsi di non essere soli nell’universo.
Se all’inizio i ragazzi avevano temuto di dare nell’occhio, quel timore era stato subito fugato una volta messo piede in aeroporto: nessuno sembrava far caso a una banda di ragazzini con giacconi sdruciti e scarponi da neve, nonostante non fossero esattamente tranquilli.
-Allora? Stanno arrivando? Arrivano?- chiese IC per l’ennesima volta, afferrando il braccio del fratello e tirandolo verso il basso con insistenza. IQ, che da mezz’ora veniva tormentato e sballottato qua e là dalla sorella, sembrava sul punto di avere il mal di mare, così Heat ebbe pietà di lui e sbirciò il tabellone degli arrivi.
-Sono atterrati cinque minuti fa. Staranno prendendo i bagagli- disse. Sperava così di tranquillizzare IC; tuttavia lei si limitò ad annuire, poi tornò a fissare avanti a sé con aria impaziente. Dopo pochi secondi, cominciò a battere un piede a terra, poi a saltare sul posto, come se fosse incapace di restare del tutto ferma.
Quell’irrequietezza era cominciata qualche giorno prima, quando Desarm aveva annunciato che ci sarebbero stati grandi cambiamenti: uno, presto alla squadra si sarebbero aggiunti due nuovi membri, un ragazzo e una ragazza. Una ragazza! Il solo pensiero che presto non sarebbe più stata l’unica ragazza aveva mandato IC in estasi.
Heat aveva accolto la novità serenamente. Fare nuove amicizie lo rendeva nervoso, ma c’era anche tanta curiosità. A preoccuparlo invece era il fatto che Desarm fosse partito subito dopo quella rivelazione, senza dire loro quali fossero gli altri “grandi cambiamenti”.
Nepper era andato in bagno almeno un quarto d’ora prima. Probabilmente era più nervoso di quanto mostrasse. Al contrario, Diam non mostrava il minimo segno di disagio. Se ne stava appoggiato a un pilone con le mani in tasca e non prestava la minima attenzione alle loro conversazioni. Heat gli si avvicinò.
-Pensavo avresti mostrato un po’ più di interesse. Uno dei due potrebbe diventare il tuo partner- disse. Diam scrollò le spalle. Guardava le persone di passaggio, senza concentrarsi su nessuna in particolare.
-Nah, figurati. Io non lo voglio, un partner. Mi sarebbe soltanto d’impiccio- rispose.
-Anche se, forse... Se incontrassi qualcuno con un dono più straordinario del mio, forse in quel caso sarei interessato. Sempre che quella persona non scappi a gambe levate- aggiunse con un sorriso sardonico. Era un modo piuttosto pessimista di vedere le cose. Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, Heat si domandò se per caso Diam non si sentisse solo. Non avrebbe mai avuto la faccia tosta di chiederglielo, però.
Diam interpretò il suo silenzio come un segno che la conversazione era finita, quindi accese il suo mp3 portatile, indossò le cuffie e si mise ad ascoltare musica ad alto volume, astraendosi così da tutto e tutti. Heat tirò un lungo sospiro e volse di nuovo l’attenzione verso i gemelli. Erano passati poco più di cinque minuti, ma IC aveva già ripreso a tormentare IQ con domande a cui lui non poteva avere risposta. Heat si girò per guardare di nuovo il tabellone, ma in quel momento uno sciame di persone uscì da un ascensore e lo travolse. Il ragazzino stava per essere trascinato via quando Nepper, sbucato fuori dal nulla, gli afferrò una mano. Nepper lo portò in un angolo meno affollato, a qualche metro dagli altri; una volta in salvo, Heat poté sospirare di sollievo.
-Ah, è stato tremendo, per un attimo mi sono sentito perso...
-A volte sei proprio imbranato. Devi stare più attento, soprattutto in posti affollati- gli fece notare Nepper. Heat sorrise timidamente.
-Hai ragione... Mi hanno preso di sorpresa- disse. -Grazie, Nepper.
-Figurati. Non posso mica perderti qui- rispose Nepper e, nonostante il tono disinteressato, Heat pensò che fosse una cosa molto carina da dire. Tra l’altro, Nepper non gli aveva ancora lasciato la mano, benché non fosse più necessario. Heat evitò accuratamente di farglielo notare, ma, per sua sfortuna, in quel momento Diam fece capolino da dietro il pilone.
-Raga, se avete smesso di flirtare, i passeggeri del volo stanno uscendo ora- li informò cordialmente. Nepper lasciò subito la mano di Heat e scoccò a Diam un’occhiata irritata.
-Sei proprio un...!- esclamò, ma non parve trovare un insulto abbastanza forte. Diam abbozzò un sorrisetto divertito.
-Andiamo, non imbarazzarti per così poco. Non vi ho mica beccati a limonare.
Le orecchie di Nepper si fecero scarlatte.
-Non sono imbarazzato!- ribatté e marciò verso Diam con l’aria di volerlo picchiare per l’ultimo commento. Heat rimase per un po’ a guardare la propria mano, ora desolatamente vuota; poi inghiottì la delusione e raggiunse Diam e Nepper. Stava per dire qualcosa per farli smettere quando il loro bisticcio venne interrotto da uno strillo.
-Sono qui! Sono qui!- urlò IC, assordando il povero IQ.
Nonostante la confusione fu molto facile individuare Desarm, perché svettava di una buona spanna su tutti gli altri; insieme a lui c’era un ragazzo alto, con la pelle scura e i capelli albini. IC cominciò a saltare sul posto e urlare per essere notata, ma restava troppo bassa per essere vista. Diam e Nepper si scambiarono una rapida occhiata; poi, come se si fossero messi d’accordo, andarono da IC e la sollevarono tra le braccia.
La ragazza parve sorpresa, ma si adattò subito e cominciò a sbracciarsi e urlare da lassù, così che finalmente Desarm la sentì, si girò e la vide: dopo aver detto una mezza parola al ragazzo che era con lui, andò verso di loro a passo spedito e sicuro.
-Non vi avevo detto di aspettarmi a casa?- esordì appena fu abbastanza vicino.
-Sì- rispose Diam con un sorriso tranquillo, mentre lui e Nepper facevano scendere IC.
Desarm scosse il capo, ma sembrava più esasperato che altro.
-E quindi ovviamente siete venuti tutti- borbottò. Si passò una mano sul viso e strizzò con due dita il ponte del naso, ma si riprese abbastanza in fretta: era ormai diventato esperto nell’arte di farsi scivolare addosso qualsiasi cosa.
-Facciamo le dovute presentazioni. Da destra, Heat, Nepper, IC, IQ, e Diam- disse in tono pragmatico. -Questi invece sono i nostri nuovi membri. Come vi ho già accennato, Zell è più grande di voi, mentre Clara ha più o meno la vostra età.
Solo quando Desarm la presentò, i ragazzi notarono una ragazza bassa e magrolina, seminascosta e quasi invisibile dietro Zell. Stava a testa bassa e la frangia dei capelli le copriva gli occhi, mentre con i denti si torturava un labbro. Sembrava piuttosto intimidita, ma IC non si lasciò scoraggiare.
-Ciao, Clara! Io sono IC. Ti stavo aspettando!- esclamò, sfoderando il suo sorriso più brillante. Clara sussultò e, senza alzare la testa, si indicò con un dito tremante.
-Me...? Stavi aspettando me...?- chiese in un fil di voce. Sembrava stupita che qualcuno le avesse rivolto la parola. IC annuì energicamente e le tese la mano.
-Certo! Non vedevo l’ora di incontrarti!
Clara sollevò finalmente gli occhi. Guardò Zell e Desarm, che le rivolsero occhiate incoraggianti; quindi si fece coraggio e prese la mano di IC. A quel punto, forse cogliendo il desiderio della sorella di far sentire inclusa la nuova arrivata, IQ si fece avanti.
-Benvenuta tra noi, Clara- disse, in tono insolitamente gentile, e le offrì persino un sorriso. Clara, che non sapeva di aver appena assistito a un evento rarissimo, arrossì e lo ringraziò sottovoce. Heat si chinò verso Nepper.
-Forse sto sognando, ma IQ è appena stato carino con qualcuno che non è IC, di sua spontanea volontà!- gli bisbigliò all’orecchio. Nepper si lasciò scappare una risata, ed entrambi si guadagnarono un’occhiataccia da parte di IQ.
-Ecco, ora lo riconosco- fu il commento di Nepper. Dovettero trattenere il fiato per non ridere perché IQ continuava a fissarli con sospetto. Poi Desarm mise fine alle presentazioni e li guidò verso l’area taxi.
I ragazzi erano scesi in paese con i pullman; tuttavia Desarm, Zell e Clara erano già stanchi per il viaggio in aereo, e Desarm non aveva alcuna intenzione di perdere altro tempo, per cui noleggiò un taxi a sette posti per ritornare a casa. Durante il viaggio, IC si sedette vicino a Clara, e fin da subito le due ragazze cominciarono a parlare fitto fitto a bassa voce. Sembrava che Clara fosse molto affascinata dalla prospettiva di abitare in una vecchia villa: contrariamente alle apparenze, era tutt’altro che paurosa e adorava i misteri e i libri gialli. Anche Zell si inserì subito. Era un ragazzo piuttosto amichevole, che si era trasferito là da un centro di addestramento diretto da Hitomiko in persona; inoltre, dopo mezz’ora di conversazione venne fuori che sapeva cucinare, cosa che mandò in visibilio tutti.
-Quindi sarai tu a cucinare d’ora in poi?- domandò Heat, pieno d’ammirazione.
-Così pare- rispose Zell.
-Oh, grande!- esclamò Diam. -Niente più pane bruciato!
-Guarda che ti sento- disse Desarm dal posto di guida, sbirciando verso di loro grazie allo specchietto. Diam si strinse nelle spalle con un sorriso di scuse, ma non si rimangiò niente.
-A me piace, il pane bruciato- osservò Nepper.
Desarm non rispose, ma per un attimo s’intravide l’ombra di un sorriso sulle sue labbra. Era così compiaciuto del commento di Nepper che non lo rimproverò neppure vedendolo seduto in modo scomposto, stravaccato tra il suo sedile e quello di Heat.
 
-
 
Si era deciso che le due ragazze avrebbero dormito nella stessa camera, perciò IQ si trovò a dividere la sua con Zell; sebbene non facesse i salti di gioia al pensiero di dividere la stanza con un semi-sconosciuto, non avrebbe mai agito contro la felicità della sorella, e quindi la nuova disposizione fu accettata senza problemi. Desarm aveva anche pensato a una divisione in fasce orarie per usare il bagno e progettava di ricavarne un altro da una delle camere ancora inutilizzate. Insomma: era chiaro che tante cose erano destinate a cambiare anche in termini di spazi. Ma per Heat non era un peso, anzi: aveva la sensazione di vivere in una famiglia allargata e la cosa gli piaceva molto.
Non appena arrivarono a casa, Desarm mandò Zell e Clara a mettere a posto i rispettivi bagagli e tutti gli altri a cambiarsi. Diede loro mezz’ora per prepararsi e scendere in mensa, ma Heat e Nepper erano già pronti dopo dieci minuti, perciò si avviarono per primi.
-Cosa pensi che debba dirci?- chiese Nepper, con apparente disinvoltura, ma si capiva che era nervoso dal modo in cui si tormentava i capelli con le dita. Heat pensava che fosse molto carino. Per un attimo immaginò di prendergli la mano, ma, siccome gli mancava il coraggio di farlo, si accontentò di camminargli vicino, sfiorandogli ogni tanto la spalla con la propria. Con suo grande sollievo, Nepper non si spostò... anche se probabilmente solo perché erano amici.
-Heat? Terra chiama Heat?
-Ah, scusa, ero sovrappensiero- rispose Heat.
Nepper lo guardò, poi sollevò la mano chiusa in un pugno.
-Non essere troppo nervoso, ok? Non sarà niente di grave... E poi ci sono io con te, no?- disse, con il pugno sospeso in aria. Nepper era troppo carino. Heat sorrise e batté il pugno contro il suo mentre entravano in mensa. Si sedettero al solito tavolo.
Pochi minuti dopo arrivarono i gemelli insieme a Clara; poi Zell, Diam e infine Desarm.
Appena il loro capo entrò in mensa, tutti tacquero, curiosi e impazienti di sapere cosa stava succedendo. Desarm si schiarì la gola, teatrale come sempre.
-Vi ho già accennato che ci saranno grandi cambiamenti qui. Ora che ci sono anche Zell e Clara, vorrei assegnarvi dei ruoli chiari e definiti- esordì.
Heat notò che Nepper aveva la lingua premuta nella guancia, come faceva sempre quando era immerso nei propri pensieri; e infatti, non appena Desarm finì la frase, Nepper alzò subito la mano. Desarm gli fece un cenno di parlare.
-Non dobbiamo rifare le coppie, vero? Perché io Heat non lo mollo- esclamò Nepper. Prese il braccio del compagno e si guardò intorno con espressione guardinga, come se temesse che qualcuno potesse soffiarglielo. Heat lo guardò, sorpreso e lusingato. Era così felice che avrebbe potuto toccare il cielo con un dito, ma cercò di restare composto e si morse il labbro per trattenere un sorriso.  
-Non ce ne sarà bisogno, Nepper. Ci stavo arrivando- ribatté Desarm, un po’ seccato, -ma Zell e Clara non sono agenti operativi. Zell mi farà da assistente, oltre a occuparsi della cucina, mentre Clara ha espressamente richiesto di non assumere ruoli attivi, dico bene?
Si fermò e cercò conferma nei loro volti. Zell e Clara annuirono prontamente.
-Quindi, come vedete, le coppie rimarranno invariate- riprese Desarm. -Bene, ora andiamo oltre. Ci sono due importanti novità di cui devo mettervi al corrente.
-Prima di tutto, da ieri questo centro è diventato ufficialmente un’agency. E io ne sarò a capo, con il ruolo ufficiale di Spy Eleven. Secondo, dopo aver esaminato i vostri progressi dell’ultimo anno, ho deciso che siete pronti ad andare in missione. Quindi IC, IQ, Heat e Nepper: da questo momento siete a tutti gli effetti degli agenti operativi.
Per un momento, entrambi gli annunci furono accolti da un silenzio incredulo; poi i ragazzi esplosero in un coro di esultanza. Finalmente il loro valore veniva riconosciuto!
Heat realizzò di essersi messo a piangere quando la sua vista si appannò improvvisamente, ma non ebbe il tempo di soffermarcisi troppo, perché Nepper gli era saltato addosso e lo stava abbracciando e gli stava urlando nell’orecchio ed era tutto troppo, troppo bello per essere vero. Heat vide i gemelli abbracciarsi e festeggiare, mentre Diam si congratulava sinceramente con tutti loro. Zell e Clara si misero a battere le mani per solidarietà. Intanto, Desarm osservava la scena in disparte, appoggiato all’uscio della porta con le braccia incrociate al petto. Aveva un’aria così profondamente orgogliosa, che di certo non poteva essere soltanto per la sua promozione. Heat lo guardò tra le lacrime e mormorò un grazie che andò perduto nella confusione della stanza.
 
 
-
 
 
Nepper stava giocando con il contenitore delle pillole. Continuava ad aprirlo e chiuderlo di scatto, ne aveva fatto una specie di abitudine. A prima vista sembravano delle caramelle rosso fragola, ma in realtà si trattava di inibitori che Desarm aveva specificamente richiesto per lui e, da quando li aveva ricevuti, Nepper non se n’era separato neanche un momento. Anche se negli ultimi mesi si era addestrato fino allo sfinimento per migliorare l’autocontrollo, la paura di fare un passo falso non sarebbe mai sparita del tutto.
Certo, vedendolo gettarsi a capofitto nella mischia, nessuno l’avrebbe mai detto.
Erano appena tornati dalla loro prima missione e Nepper non tradiva il minimo segno di agitazione. Dopo aver fatto rapporto, Desarm aveva dato loro il resto del pomeriggio libero e Nepper aveva deciso per entrambi di passarlo alla radura davanti all’agency. Heat non aveva mosso obiezioni. Gli piaceva quel posto. Visto che loro due venivano sempre lì ad allenarsi, era un po’ come se fosse il loro posto, no?
-Beh, che ti è parso della nostra prima missione?- chiese Nepper, sedendosi su un cumulo di neve. Heat gli invidiava parecchio quell’insensibilità al freddo.
-Mmh... È stato meno difficile di quanto pensassi- osservò Heat mentre tentava di scaldarsi le mani sfregandole e soffiandoci sopra. Sicuramente Desarm aveva dato loro un compito facile, ma forse era stato anche troppo facile: l’obiettivo era intercettare dei ladri d’appartamento e, con i loro poteri, intrappolarli era stato un gioco da ragazzi.
-Nessuno avrebbe voglia di lanciarsi in un muro di fiamme... tranne te, ovviamente- disse Nepper con un sorriso divertito.
-Non lo faccio poi così spesso- borbottò Heat sottovoce.
Nepper si stiracchiò e sbadigliò come un gatto, sempre con quell’espressione divertita.
-Dai, non prendertela- disse dopo qualche minuto di silenzio. Heat non gli rispose. Non se l’era presa davvero, ma era curioso di vedere come Nepper avrebbe reagito. Deciso a fingersi offeso, quindi, voltò la testa dall’altra parte con uno sbuffo, evitando in modo deciso il suo sguardo. Questo attirò subito l’attenzione di Nepper.
-Ehi, che ti prende, Heat?- gli chiese. Dopo altro silenzio, nella sua voce si insinuò una sfumatura preoccupata:- Ehi, non ti sarai offeso davvero...?
Heat non riuscì a trattenere un sorriso.
-No, volevo solo vedere la tua faccia quando...- s’interruppe di colpo quando, girandosi, si trovò faccia a faccia con Nepper, che si era avvicinato più del previsto. I loro nasi quasi si sfioravano. Heat arrossì, ma prima che potesse dire qualcosa Nepper si allontanò.
-Non è giusto prendermi in giro così!- protestò.
-Sei stato tu a cominciare...- ribatté Heat a mezza voce. Il cuore gli batteva ancora all’impazzata, ma Nepper non sembrava essersene accorto.
-Va bene, va bene, hai vinto tu! Scusa- ammise Nepper. Si appoggiò all’altro lato del tronco e sollevò lo sguardo verso il cielo. -Ma non ti stavo criticando, anzi, ti ammiro. Voglio dire, hai molto più fegato di quanto non si direbbe- aggiunse.
Heat lo guardò con sorpresa. Era la prima volta che gli dicevano qualcosa del genere, e Heat non avrebbe mai immaginato che potessero dirla proprio a lui. Non si era mai considerato una persona coraggiosa, ma gli faceva piacere che Nepper lo pensasse.
Tra loro calò il silenzio, ma non era imbarazzante; era il tipo di silenzio che solo due persone con un forte legame possono condividere. Dopo pochi minuti, Heat sbirciò verso Nepper e scoprì che l’altro aveva chiuso gli occhi, si stava godendo il sole e sembrava proprio in pace con se stesso. In quel momento, aveva probabilmente l’espressione più serena che Heat gli avesse mai visto fare.
Heat si girò di nuovo, intrecciò le mani dietro la schiena e anche lui sollevò lo sguardo. Il cielo era tiepido e pervinca e soltanto qualche nuvoletta bianca s’inseguiva in lontananza, sospinta dal vento. Il sole non era caldo come in estate, ma comunque piacevole. L’atmosfera era tranquilla: sembrava il momento adatto per una confessione.
-Ho paura del fuoco- mormorò Heat.
Per un momento Nepper non rispose e, anche se erano così vicini, Heat si chiese se avesse sentito. In un certo senso, forse era meglio che restasse in silenzio.
-I miei nonni sono morti in un incendio, nel paese dove vivevo. Nessuno ha potuto fare nulla... Da quel giorno ho sempre, sempre avuto paura... Ma quel giorno ho anche scoperto il mio dono- continuò Heat. -Tu dici che ho fegato, ma in realtà sono solo disperato. Fino a poco tempo fa, avevo paura di perdere me stesso.
-Perdere te stesso?- ripeté Nepper senza capire. Heat si strinse nelle spalle.
-Sì... Avevo paura di perdere il controllo sul mio dono, di esserne sopraffatto. Mi esercitavo con le candele perché... Beh, perché se riuscivo a controllare la fiamma, allora era tutto a posto. Ma non l’ho mai detto a nessuno, perché mi vergognavo di essere così debole.
Nepper restò in silenzio mentre rimuginava sulle sue parole.
-Posso chiederti una cosa?- disse alla fine e, quando Heat annuì, domandò:- Quando ti sei offerto di aiutarmi, perché lo hai fatto, se sapevi che ti sarebbe costato tanto?
Heat rise piano. Non era una domanda difficile.
-Volevo guadagnare la tua fiducia. Sono più disperato di quanto pensi. Ma volevo anche sinceramente aiutarti... Sembrava che tu avessi bisogno di un amico- disse, con un sorriso imbarazzato.
-Ah, ma se ti senti in colpa, non farlo. Non abbiamo chiesto di diventare partner, ma volevo davvero essere tuo amico. Ora che ci penso, incontrarti ha cambiato la mia vita. Di recente non ho più tanta paura... Probabilmente perché ci sei tu-. Heat chiuse gli occhi e inspirò a fondo: non si era mai sentito tanto leggero. -Quando sono con te, tutto sembra possibile.
Nepper gli afferrò un braccio e lo tirò così bruscamente che per poco Heat non inciampò nell’albero e dovette aggrapparsi a Nepper per non cadere. Stava per chiedergli perché l’avesse fatto quando, alzando la testa, si rese conto di quanto il viso di Nepper fosse vicino. La voce gli morì in gola. La situazione non era poi molto diversa da poco prima, eppure era tutto diverso. Lo sguardo di Nepper non era quello di una persona che non sapeva cosa stesse facendo. Prima che Heat potesse riflettere su cosa questo significasse, Nepper gli cinse la vita con un braccio e premette le labbra sulle sue. Heat trattenne il fiato. Il cuore gli balzò in gola. Non aveva quasi fatto in tempo a registrarlo che il bacio finì.
Quando si staccarono, Nepper aveva il viso paonazzo e il fiato corto. Heat non poté fare a meno di fissarlo, totalmente cotto.
-Penso di essere gay- confessò di getto.
Nepper gli scoccò un’occhiata incredula, poi scoppiò a ridere.
-Lo spero bene- disse con un largo sorriso. Heat amava il suo sorriso. Stava per dirglielo, ma Nepper gli prese il viso tra le mani e lo baciò di nuovo, più a lungo e più gentilmente. Questa volta Heat non fu colto alla sprovvista, ma si dimenticò lo stesso di respirare. Si sciolse tra le sue dita con un sospiro. Quando si staccò, Nepper gli accarezzò le guance e lo guardò con espressione adorante.
-Penso di amarti. Ti amo- disse in un soffio e, se possibile, arrossì ancora di più.
Heat poggiò le mani sulle sue, tenendole ferme contro le proprie guance.
-Ti amo anch’io- mormorò, e questa volta fu lui a sporgersi e a baciarlo.
Ma in quel momento, ovviamente, furono interrotti.
-Ommioddio ommioddio ommioddio!
Lo strillo di IC li fece sobbalzare e separare di scatto. Purtroppo non era sola: con lei, infatti, c’era l’intera squadra meno Desarm. Per fortuna, pensò Heat, considerando che Desarm li aveva già beccati una volta ad abbracciarsi.
-IQ, IQ, vieni a vedere!- gridò IC, girandosi verso il fratello, l’ultimo a essere uscito. -Heat e Nepper si baciano sotto l’albero!
-Non c’è bisogno di dirlo così!!- protestò Nepper, che era rosso fino alla punta delle orecchie.
-Non posso credere di avervi davvero beccati a limonare. Non ci tenevo affatto- osservò Diam scuotendo il capo. Nepper lo guardò in cagnesco.
-Oh, sta zitto!
-Quindi state assieme, o no?- Diam ignorò Nepper e si girò verso Heat.
Heat esitò, senza trovare le parole; poi, con una botta di coraggio, afferrò la mano di Nepper e annuì energicamente. Nepper, se possibile, avvampò ancora di più, ma non lo contraddisse. Diam sorrise, divertito, e fece loro le congratulazioni, ma la sua voce fu coperta da quella di IC, che le congratulazioni le urlò ancora più forte, tanto che IQ temeva che avrebbe fatto crollare la neve dagli alberi.
-Comunque, era pure ora. Ci avete girato attorno per mesi, era palese per tutti tranne che per voi stessi- disse Diam in tono scherzoso.
-Io non me ne ero accorto- intervenne IQ, accigliato.
-Sì, beh, tu non sei tanto sveglio per queste cose-. IQ stava per ribattere all’ingiuria, ma purtroppo per loro Nepper era arrivato ormai al limite di sopportazione.
-Okay, cazzo, lo avete voluto voi- esclamò, tirandosi su le maniche della felpa. -Venite qua, che vi faccio passare la voglia di scherzare!!
Cercò di balzare addosso a Diam e IQ, che scapparono via per non essere presi; a quel punto IC, Clara e Zell intervennero per fermarli, con il risultato che il bisticcio diventò ancora più rumoroso e caotico. Ma a Heat questo non importava. A lui piaceva che fossero rumorosi e caotici. Era decisamente più da loro. Rimasto in disparte, ripensò al momento in cui era arrivato al centro, impaurito e sperduto, senza conoscere nessuno. Allora non immaginava nemmeno di poter essere così felice, o che la sua storia l’avrebbe portato fin lì.
-Heat! Vieni a darmi una mano!- gridò Nepper, e subito dopo anche gli altri cominciarono a chiamarlo. Heat sorrise.
-Arrivo!- urlò in risposta, correndo verso le persone che chiamavano il suo nome. La sua storia era tutta contenuta lì, in quella parola. Heat.
 
 

**Angolo dell'autrice**
Questa oneshot, che era in cantiere da mesi, è stata gran parte della mia fatica del NaNoWriMo di quest'anno. Non è perfetta, ma ci ho messo tutto il cuore e spero che si senta nella lettura. Amo l'agency di Hokkaido quindi sono felice di aver scritto ancora su di loro! Di Heat e Nepper si sapeva veramente poco nella storia principale, ma ho sempre sperato di poter dire qualcosina in più; perciò, quando è nata l'idea di Alternative, era inevitabile che ci finissero dentro anche loro. Sono scivolata nel P.O.V. di Heat in modo piuttosto naturale, e credo sia per questo che novembre è andato così liscio. Sono grata a Inazuma Eleven perché, anche quando le cose vanno male, è sempre il mio porto sicuro.
Grazie a chi continua a seguire la storia e buone feste a tutti :)
Roby 

[Hagrid voice] tu sei una stufetta, Nepper

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