L'ombra del Gatto

di WhiteLight Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I segreti di Villa Agreste parte 1 ***
Capitolo 2: *** I segreti di Villa Agreste parte 2 ***
Capitolo 3: *** I segreti di Villa Agreste parte 3 ***
Capitolo 4: *** Riscoprendo gli amici - parte 1 ***
Capitolo 5: *** Riscoprendo gli amici parte 2 ***
Capitolo 6: *** Pezzi di un puzzle (1) ***
Capitolo 7: *** Pezzi di un puzzle (2) ***
Capitolo 8: *** Maestro Fu p. 1 ***
Capitolo 9: *** Maestro Fu (2) ***
Capitolo 10: *** L'oscuro ***
Capitolo 11: *** Le ombre di Villa Agreste (1) ***
Capitolo 12: *** Le ombre di Villa Agreste (2) ***
Capitolo 13: *** Le ombre di Villa Agreste (3) ***
Capitolo 14: *** La dimora dell'oscurità ***
Capitolo 15: *** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (1) ***
Capitolo 16: *** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (2) ***
Capitolo 17: *** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (3) ***
Capitolo 18: *** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (4) ***
Capitolo 19: *** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (5) ***



Capitolo 1
*** I segreti di Villa Agreste parte 1 ***


I SEGRETI DI VILLA AGRESTE - 1

Quando il notiziario mostrò ancora una volta le immagini dell’arresto di Gabriel Agreste, Marinette si morse il labbro e posò la spazzola sul divanetto, ignorando l’acqua dei capelli umidi che continuava a gocciolarle sulle spalle. Aveva visto innumerevoli volte quella scena, ripresa da decine di telecamere ed angolazioni diverse; le spalle rigide di Chat Noir arrivato un istante dopo che Gabriel era stato caricato sulla volante, il suo sguardo teso mentre osservava da sopra il tetto di Villa Agreste.

Aveva ricordi di quel momento solo grazie a ciò che aveva visto in televisione. Alzò il volume, poiché sapeva già che sarebbero passati a parlare della scomparsa di Adrien Agreste.

«E non c’è ancora alcuna notizia, invece, sulle sorti dell’unico figlio di Gabriel Agreste scomparso dal momento dell’arresto.» disse Nadja alla telecamera.

Marinette spense il monitor del computer, incapace di sopportare ancora una volta quelle parole e di ripensare a quanto, anche come Ladybug, era stata inutile. Non era neanche riuscita a partecipare allo scontro finale con Papillon, ricordò, e per quanto avesse cercato dai tetti per tutta Parigi, non aveva ancora idea di dove fosse Adrien, se stesse bene e se fosse al sicuro. Ripensò anche all’ultima volta che aveva visto Chat Noir, sospeso in aria e circondato da oscurità, prima che ripiombasse a terra e che perdesse anche lui.

«Riproveremo domani.» le disse Tikki. Era rimasta appollaiata sulla scrivania, silenziosa in attesa che lei fosse pronta per dormire, ed ora la guardava mogia, come se soffrisse di riflesso per ogni suo dubbio e tormento, ma Marinette era certa che non avrebbe mai potuto immaginare cosa stava provando.

Si sforzò di sorridere. «Certo.» rispose.

Sapeva che anche lei era preoccupata, lo vedeva nei suoi occhi e lo capiva grazie ai biscotti che aveva abbandonato nel piattino, ma non disse nulla.

Anche Tikki rimase in silenzio, all’inizio Marinette pensò che stesse riflettendo o che le stesse lasciando spazio per sentirsi meglio, ma poi il piccolo Kwami le fece un cenno, indicandole di guardare dietro di sé.

Marinette lo fece, scrutò oltre la finestra e strizzò gli occhi per inquadrare la sagoma scura che si stagliava nell’oscurità. Le luci di Parigi in lontananza rendevano la sua ombra netta contro il cielo, la penombra celava il suo volto. Sapeva che solo una persona sarebbe potuta essere in piedi su un tetto a quell’ora.

«Resta qui.» disse a Tikki.

Si avvicinò alla finestra e si sporse verso il vetro, sperando di essersi sbagliata, ma non c’era alcun dubbio che lui stesse guardando proprio verso di lei, allora salì sul soppalco e si arrampicò fuori, rimettendosi in piedi sul balcone. Chat Noir le venne incontro, scavalcando la ringhiera in ferro battuto e balzando sul balcone.

Marinette avrebbe voluto potergli dire qualcosa, sgridarlo per averla fatta preoccupare, prenderlo a pugni per il suo silenzio e tutto il resto, ma si trattenne.

Poi lui parlò. «Milady.» disse.

E Marinette trattenne il fiato, ma fu solo per qualche secondo. Almeno adesso aveva la risposta ad una delle domande che si era fatta negli ultimi giorni, anche se avrebbe dovuto essere ovvio. Era stato lui a riportarla a casa, dopo che era accaduto.

«Dove sei stato? Ti rendi conto di quanto fossi in pensiero?» gli domandò. Fece un passo verso di lui e sollevò un pugno, ma si trattenne dal colpirlo davvero, lui non replicò. «Chat Noir? Stai bene?»

Chat Noir sorrise, ma non era quel sogghigno sghembo che tanto gli si addiceva, né quella smorfia volontariamente seducente che spesso le riservava. Quel sorriso era inquietante e Marinette si domandò da dove provenisse.

Ricordò il tonfo del corpo di lui che sbatteva contro il pavimento del salone principale di Villa Agreste, le sue grida, il modo in cui l’aveva respinta subito dopo.

«Chat Noir?» domandò ancora.

Lui le afferrò il polso, la stretta era ferma, ma non al punto di farle male. Fece scivolare l’altra mano su per il braccio fino a sfiorarle il collo, poi premette i polpastrelli contro l’orecchino. Marinette sentì il cuore battere forte, rabbrividì per il vento freddo e provò a ritirare il braccio, ma lui strinse la presa per impedirle di farsi indietro.

«Sto bene.» le disse, il capo inclinato e gli occhi socchiusi. A Marinette parve che la stesse studiando ed il modo in cui la guardava non le piaceva affatto.

«Cosa ti è successo?» gli chiese.

L’artiglio le sfiorò il mento, Chat Noir fece schioccare la lingua e lo premette contro la giugulare con tanta forza che Marinette gemette per il dolore. Gli pestò il piede, la sorpresa di lui le permise di divincolarsi, il suo scatto per riprenderla le strappò un grido.

«Tikki!» esclamò. «Su le macchie!»

Qualunque cosa fosse successa, avrebbero avuto tempo di parlarne dopo essere riuscita a fermarlo o immobilizzarlo.



Qualche ora prima:

Marinette non aveva mai riflettuto su quanto poco sapesse, in realtà, di Adrien Agreste. Non aveva idea se avesse cugini, zii o nonni ancora in vita a cui avrebbe potuto chiedere di lui; questo la lasciava sospesa in un oblio di dubbi da cui non riusciva a riemergere.

Continuò a fissare il telefono, l’elenco di chiamate in uscita che erano rimaste senza risposta, il dito era ancora sospeso sul display per l’indecisione di riprovare.

«Dovrei chiamare Nino.» disse a Tikki. Forse a lui avrebbe risposto, ma di certo l’amico glielo avrebbe fatto sapere immediatamente, se fosse successo. E di certo lo aveva già chiamato anche lui decine di volte.

Tikki le sfiorò una guancia ed accennò un sorriso, ma nulla avrebbe potuto rassicurarla.

Il telefono vibrò tra le mani di Marinette, rispose e lo portò all’orecchio trattenendo il fiato. «Adrien!» esclamò, ma la voce dall’altra parte della cornetta non era la sua. I singhiozzi le impedirono di capire le parole spezzate, tornò a guardare il display, lesse il nome di Nadja Chamack e, con un rantolo riportò il telefono all’orecchio.

«Manon? Sei tu?» domandò. Aspettò che lei si calmasse, che prendesse fiato e che riuscisse a spiegarsi. Quando lei non lo fece, ricominciò a parlare. «Ascoltami, respira, dimmi cosa è successo.»

Manon ubbidì, la sentì inspirare forte.

«Mamma ha qualcosa di strano.» disse. Tirò su con il naso. «Vuole che andiamo a casa del signore che è stato arrestato.»

«Gabriel Agreste?» le chiese Marinette. Guardò Tikki, che le si affiancò attenta per ascoltare.

«Non ci voglio andare, Marinette. Mi fa tanta paura.»

Marinette cercò le parole giuste per rassicurarla. «Manon, il signor Agreste non è lì, adesso.»

Lei tirò su con il naso. «Lo so, è mamma che mi fa paura.»

Marinette sentì l’eco attutito di alcuni forti pugni contro una porta. «Manon, resta nascosta, sto arrivando.» disse.

Riagganciò, si trasformò e salì sul tetto. Dopo pochi secondi stava correndo sui tetti di Parigi e, salto dopo salto, si diresse verso casa della ragazzina. C’era stata poche volte, poiché di solito la signora Chamack portava Manon a casa sua, ma fu sufficiente perché sapesse esattamente dove andare. Atterrò sul balconcino e spalancò la porta a vetri, si guardò attorno, ma la casa era vuota.

«Manon!» chiamò. «Signora Chamack?»

Non ebbe risposta, cercò in ogni stanza e in ogni armadio finché non fu certa di essere arrivata troppo tardi. Pensò di essere fortunata, a sapere dove sarebbero andate. Tornò fuori e srotolò lo yo-yo, lanciandolo verso l’edificio di fronte ed usando uno dei camini per darsi lo slancio. Villa Agreste era a pochi isolati di distanza, probabilmente per arrivarci via terra ci avrebbe impiegato una buona mezz’ora, ma saltando di tetto in tetto le bastò qualche minuto. Si lasciò cadere direttamente oltre il cancello aperto, il nastro della polizia era stato fatto a pezzi ed ora era in parte preda del vento. Anche il portone principale era spalancato, ma oltre esso Ladybug non riusciva a vedere nessuno.

Salì i gradini con cautela e si fece largo oltre l’uscio, il silenzio irreale la circondò mentre si lasciava indietro il caos della città. Era come essere entrata in una bolla, oltre essa la vita continuava, ma lei non ne faceva più parte.

Aveva la testa leggera, le orecchie che fischiavano e le braccia pesanti abbandonate contro il fianco. La vista le si appannò, le palpebre erano ferme mentre tutto attorno la stanza si offuscava diventando nera metro dopo metro. Quasi perse l’equilibrio, oscillando per restare in piedi e quasi incapace di muovere gli occhi; le ginocchia tremarono, spingendola a piegarsi in avanti e ad inspirare per trattenere le vertigini.

Chi la rimise in piedi, quasi a forza, le provocò un sussulto. Strinse i pugni per difendersi, ma si trattenne prima di colpire Chat Noir in pieno volto. Il ragazzo si fece indietro solo per un istante, poi le sfiorò il braccio con un dito.

«Tutto bene?» le domandò.

Ladybug non seppe come rispondere, le vertigini erano sparite con la velocità con cui erano arrivate, riusciva di nuovo a sentire il rumore delle auto giù in strada, ma la confusione era rimasta assieme alla realizzazione ovattata di poter finalmente chiedere a Chat Noir cosa fosse successo la sera precedente.

«Hai consegnato Gabriel Agreste alla polizia.» gli disse. Avrebbe voluto scusarsi con lui per non esserci stata, ma lui la precedette.

«Ne riparliamo dopo, Insettina.» le disse con un sorriso.

Ladybug fu felice che lui non fosse arrabbiato, ripensò ai singhiozzi di Manon ed a quello che aveva detto su sua madre.

«Nadja Chamack è qui con sua figlia, qualcosa non va.» gli disse.

Come se fossero state chiamate, entrambe emersero dal corridoio strillando. Il suono acuto quasi perforò le orecchie, poi lei e Chat Noir dovettero difendersi.


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Capitolo 2
*** I segreti di Villa Agreste parte 2 ***


I SEGRETI DI VILLA AGRESTE - 2

Ladybug conosceva bene Chat Noir, il suo passo rapido sulle tegole dei tetti di Parigi, il suono della sua coda che sferzava l’aria, quello della sua risata che spezzava il silenzio della notte. Quello con cui non aveva familiarità, invece, era il timbro del suo ghigno divertito, quello che riecheggiava sotto il cielo nero mentre le dava la caccia tra camini ed antenne.

Ladybug scivolò di lato ed urtò contro un palo della luce, il bastone di Chat Noir colpì proprio il punto in cui era stata fino a poco prima. Si voltò, lanciò il suo yo-yo e afferrò un’estremità dall’arma di lui, Cercò di tirarlo verso di sé, ma il ragazzo era forte e non mollò la presa.

«Smettila, ti prego.» gli disse. Il filo che stringeva in mano tirava premeva dolorosamente contro la sua pelle.

Papillon era stato arrestato, non era possibile che ci fosse un’Akuma che fosse riuscito a sottometterlo ed a convincerlo a rivoltarsi contro di lei, ma allora cosa poteva essere successo?

Ogni volta che si era ritrovata a combatterlo mentre era sotto l’influsso di qualcuno, rifletté, Chat Noir aveva sempre mantenuto parte della sua personalità, ma in quel momento la guardava come se non la conoscesse, senza neanche l’ombra di quelle battutine idiote a cui negli anni si era abituata. E non le rispose.

Pensò che doveva prendere tempo per capire come risolvere la situazione, ma il filo dello yo-yo si allentò e Chat Noir corse verso di lei, la mano tesa per afferrarla. Eppure, prima che lui riuscisse ad avvolgere le mani attorno al suo polso, qualcun altro lo tirò indietro.

«Scusa, Chatikins, ma non posso lasciartelo fare.» disse l’altra ragazza.

Ad occhi strabuzzati, Ladybug ci mise alcuni secondi ad inquadrare la figura nella semioscurità, allora vide la nuova supereroina atterrare Chat Noir e trattenerlo con fin troppa facilità. Era come se, all’improvviso, il ragazzo si fosse arreso. Osservò la ragazza che lo teneva giù, il costume giallo e nero la faceva sembrare un’ape ed i suoi occhi azzurri scintillavano di orgoglio mentre le sorrideva.

«E tu chi sei?» le domandò Ladybug.

L’altra si alzò e Chat Noir fece lo stesso, scrollando il capo come per liberarsi di qualche pensiero indesiderato.

«Queen Bee al tuo servizio.» disse la ragazza. I suoi capelli biondi ondeggiarono lungo le spalle.

Le domande si affollarono nella testa di Ladybug, ma non sapeva in quale ordine fosse meglio esporle e allora esitò un momento di troppo.

«Non ti preoccupare, Ladybug.» disse Queen Bee. «Ho tutto sotto controllo. Porto il gattino al sicuro e torno a spiegarti. Ci vediamo tra un paio d’ore alla Torre Eiffel?»

Prima ancora che potesse rispondere, i due saltarono via e scomparvero alla sua vista, andando di tetto in tetto senza dire una sola parola.



Qualche ora prima:

La prima volta che Nadja cercò di afferrarla, Ladybug esitò, ritrovandosi stretta in un abbraccio indesiderato che la sbilanciò e la fece quasi finire per terra. Chat Noir, invece, evitò Manon agilmente e sguainò il bastone solo per trovarsi a tentennare a sua volta.

Colpire una persona normale era ben diverso dal colpire un’Akuma, Ladybug se ne rese conto nel momento stesso in cui sollevò lo yo-yo per attaccare; non poteva semplicemente usarlo per colpire Manon e Nadja, né intrappolarne una con il rischio che l’altra la attaccasse mentre era distratta. Le due non erano trasformate e non c’era un oggetto da distruggere e purificare, non sapeva cos’avrebbe dovuto fare per fermarle.

Si aggrappò alla ringhiera del piano superiore e diede uno strattone, Chat Noir la raggiunse sul corrimano subito dopo ed insieme tornarono a guardare Nadja e Manon. Le due ebbero solo un momento di esitazione, poi corsero verso le scale per salire dietro di loro.

«Se le chiudessimo qui dentro ed aspettassimo che si calmino?» domandò Chat Noir.

Marinette fu quasi tentata di approvare; forse un ospedale avrebbe saputo cosa fare, forse era un virus contagioso oppure una sorta di ipnosi, ma senza un parere di Maestro Fu non avrebbe potuto saperlo. Quando le due li ebbero quasi raggiunti, Ladybug e Chat Noir tornarono ancora al piano inferiore con un salto.

Di colpo, l’idea di uscire chiudendosi la porta alle spalle non fu più tanto folle, Ladybug fece una smorfia e si costrinse ad accettarlo; sarebbero potuti andare via in quel momento senza problemi e Manon e Nadja non avrebbero potuto impedirlo. Erano rimaste nel corridoio superiore, avevano raggiunto il culmine della scalinata, ma non erano andate oltre e continuavano a fissarli come se non fossero intenzionate a provare ancora a prenderli.

Ladybug si chiese cosa, in quella casa, avrebbe potuto usare contro di loro senza ferirle, se avrebbe potuto attirarle dentro una delle camere da letto e legarle, ma la sola idea di una di loro costretta nel letto di Adrien la ripugnava. Non fece in tempo a pensare al ragazzo, a domandarsi dove fosse e se stesse bene che Nadja e Manon iniziarono a tremare e sollevarono gli occhi al soffitto.

Le braccia si agitavano molli contro i loro fianchi, le dita erano contratte per chissà quale sforzo e le labbra dischiuse in un urlo senza volume.

Aveva già visto una cosa simile in qualche film dell’orrore, ma scacciò via quel pensiero. Qualcosa di oscuro scivolò sugli scalini davanti alle due, si allungò come se fosse liquido e si dissolse contro le mattonelle candide del pavimento. Nadja e Manon caddero subito dopo come bambole senza vita; era come se fino ad allora fossero state tenute in piedi da fili invisibili ed ora essi fossero stati tagliati.

Senza scambiarsi una parola, Ladybug e Chat Noir scattarono in avanti e tesero le braccia per afferrarle prima che sbattessero la testa; con la forza data dai costumi non fu un problema sorreggerle e nemmeno trasportarle fuori; lo fecero lentamente, per paura di ferirle e che potessero risvegliarsi e minacciarli ancora. Le trascinarono verso l’ingresso, quando furono oltre la porta Ladybug si sentì quasi al sicuro; lasciò Manon per terra e sollevò il viso per guardare Chat Noir.

«Dobbiamo parlare.» le disse il ragazzo. Il suo sguardo era velato, la mascella tesa.

«Di quello che è successo con Papillon, spero.» rispose lei. Si alzarono in piedi e rimasero uno di fronte all’altro, le braccia piegate ed i pugni premuti contro i fianchi.

Chat Noir le sorrise. «Esattamente di quello, mia signora.»

Ladybug sospirò. Era felice che l’avesse detto lui, perché altrimenti sarebbe stata costretta ad afferralo per le orecchie e costringerlo a fermarsi anche contro la sua volontà. Aveva una lunga lista di domande da fargli e non l’avrebbe lasciato andare finché non avesse avuto una risposta ad ognuna di esse.

Dischiuse le labbra per iniziare, ma lui la interruppe con un cenno. «Non qui.» le disse.

Mosse il capo verso il cancello, dove un cospicuo gruppo di persone si era raggruppato per assistere, Nadja e Manon, ai loro piedi, sembravano sul punto di riprendersi.

Ladybug si chinò verso di loro per controllare come stessero, per assicurarsi che nei loro occhi non vi fosse più quel vuoto che aveva visto prima, che l’oscurità si fosse davvero dissipata. Chat Noir, fermo davanti a lei, la lasciò fare.

Sembrava non avere lo stesso interesse per le due, il suo sguardo si perdeva lungo le pareti esterne della villa e lo sguardo gli si offuscò per chissà quale pensiero. Forse, pensò Ladybug, stava ricordando lo scontro con Papillon e ciò che aveva provato in quel momento, ma non avrebbe potuto saperlo finché lui non glielo avesse detto.

Ma, anche quando tornò a guardarla, Chat Noir rimase in silenzio. Il suo sorriso era spento, distratto, quasi una smorfia tirata. Ladybug avrebbe voluto tenergli la mano e fargli sapere che andava tutto bene, che avrebbero parlato e risolto insieme qualunque cosa. Prima che potesse farlo, però, qualcosa che lei non riuscì a vedere trascinò Chat Noir dentro casa ancora una volta e la grande porta si richiuse tra loro.

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Capitolo 3
*** I segreti di Villa Agreste parte 3 ***


I SEGRETI DI VILLA AGRESTE - 3

Grazie al costume giallo, Ladybug individuò Queen Bee quando era ancora a diverse decine di metri di distanza. Incrociò le braccia e la aspettò immobile, i piedi ben piantati sulla trave della torre e la mascella tesa.

Queen Bee atterrò proprio di fronte a lei, sorrise e spinse con una mano i capelli dietro la spalla. La sua coda di cavallo oscillò un paio di volte per conto proprio e poi iniziò a seguire la direzione del vento.

«Tutto a posto, Ladybug. Chat Noir è al sicuro.» disse.

Ladybug non era certa di potersi fidare di letto e Delle sue parole, ma dalla sua disavventura con Volpina aveva imparato ad essere prudente, nell’accusare le persone.

«È molto gentile da parte tua farmelo sapere.» sospirò, cercando le parole giuste. «Spero che non ti dispiaccia se ti chiedo chi ti abbia dato i poteri ed in che modo.»

Queen Bee sorrise, se possibile, ancora più ampiamente.

«È stato Chat Noir a darmi il Miraculous» spiegò. «Aveva bisogno di aiuto – come hai potuto vedere al momento non è al suo massimo – e io, modestamente, sono la sua più cara e vecchia amica fuori dal costume. La scelta era ovvia, non trovi?»

Ladybug sollevò un sopracciglio, parte di lei faticava a immaginare i due insieme; certo, c’era una buona dose di megalomania in entrambi, ma probabilmente quella ostentata da Chat Noir era più che altro una facciata. Queen Bee, invece, sembrava crederci davvero.

«Capisco.» le disse. «Come mai Chat Noir non ne ha prima parlato con me, però?»

Avrebbe voluto che fosse semplicemente una domanda per soddisfare una curiosità, ma la preoccupazione per il suo compagno era come una morsa che non la lasciava andare.

Queen Bee si fece seria. «Questa è la ragione per cui è venuto da me.» rivelò. «Qualcosa lo spinge ad essere aggressivo nei tuoi confronti, mi ha chiesto di impedirgli di farti del male.»

Mentre le parole facevano presa nel suo cervello, Ladybug osservò bene la ragazza. Ogni cenno di soddisfazione per essere diventata una supereroina era sparito, lasciando solo la preoccupazione nei suoi occhi. Forse poteva fidarsi.

«Come posso aiutarlo?» le domandò Ladybug.

Queen Bee scrollò le spalle. «Per quanto ne so è iniziato tutto a Villa Agreste, Chat Noir ha detto che probabilmente è la stessa cosa che aveva corrotto la signora Chamack e sua figlia.»

Ladybug si sforzò di ricordare, tutto era andato in discesa dopo che le due erano state abbandonate dalla qualunque cosa le avesse possedute, la risposta probabilmente era lì.

Forse Queen Bee era riuscita a intuire cosa stesse pensando, perché sollevò le mani e disse subito. «Lui ha chiesto di dirti di fare attenzione, di non tornare lì.»

Storse il naso, sapeva che Chat Noir si stava solo preoccupando per lei, ma se non l’avesse fatto non avrebbe saputo come aiutarlo, né cosa stava succedendo a casa di Gabriel Agreste. Se il suo intuito non la stava tradendo, doveva avere a che fare con ciò che era successo con Papillon. La scomparsa di Adrien, Chat Noir uscito di senno, ciò che era accaduto a Maestro Fu; doveva essere tutto collegato, ma a lei mancavano le informazioni per riunire i pezzi del puzzle.

«Non posso assicurarglielo.» concluse. «Ma digli che starò attenta.»

Lanciò il suo yo-yo in aria e abbandonò Queen Bee sulla torre; aveva bisogno di parlare con Tikki per decidere cosa fare.


Alcune ore prima:

Ladybug aveva sentito la forza misteriosa che la sfiorava e il rantolo di sorpresa di Chat Noir quando era stato tirato indietro; aveva esitato, poiché non aveva capito cosa fosse successo finché la porta di Villa Agreste non si era richiusa da sola davanti a lei. Solo allora si era riscossa ed era raggelata al pensiero di cosa sarebbe potuto essere.

Afferrò la maniglia e la tirò più forte che poteva, ma quella rimase ben piantata dov’era, pesante come un macigno ed immobile.

«Chat Noir!» gridò.

Batté i pugni contro la porta, tirò ancora, abbassò la maniglia di nuovo e continuo a provare finché non fu certa che non si sarebbe mossa. Strinse in mano lo yo-yo e, ignorando gli sguardi confusi e curiosi dei parigini attorno a lei, lo srotolò ed usò il tetto come appiglio per raggiungere la finestra più vicina.

Si aggrappò alle inferriate e si tenne in equilibrio per guardare cosa stesse succedendo, vide Chat Noir sospeso a mezz’aria, un vortice di ombre gli ruotava attorno, rendendolo quasi invisibile a causa del nero pece della tuta, ma Ladybug era certa che avrebbe riconosciuto quella zazzera bionda ovunque.

«Chat Noir!» gridò ancora, ma lui rimase immobile, il volto sollevato verso il soffitto e gli occhi spalancati.

Lo chiamò ancora, sperando che la sua voce riuscisse a risvegliarlo. La finestra tremava sotto la sua presa, ma non era a causa della sua stretta, l’aria vibrava gelida, il suo fiato appannò la finestra e le sue dita lasciarono la loro impronta sul vetro.

«Chat Noir!»

Le ombre vorticavano, scivolavano attorno al ragazzo svolazzando e tremando, oscurando tutto ciò che c’era nella stanza. Poi si fermarono, si dissolsero e, all’improvviso, Chat Noir cadde a terra.

Tutto si fermò, Ladybug trattenne il fiato per la paura che lui fosse morto, aspettò che si rialzasse, ma non accadde.

Quando si riscosse, Ladybug provò a dare un’altra spinta alla finestra e, inaspettatamente, quella si aprì. Entrò in casa e corse verso Chat Noir, si chinò su di lui e gli sfiorò il capo, poi si piegò e premette l’orecchio contro il suo petto per assicurarsi che il suo cuore battesse ancora e, una volta che si fu assicurata che fosse così, iniziò a scrollarlo per le spalle.

«Apri gli occhi, Gattino.» supplicò.

Lui lo fece dopo pochi secondi e ancora adesso sul pavimento freddo, le sorrise. «Mi sembra di essere appena uscito da un frullatore.» rivelò.

Ladybug sbuffò e si tirò su, dopo lo spavento che si era presa non aveva nessuna voglia di ascoltarlo fare battutine idiote, né di flirtare o fare qualunque altra cosa che non fosse sentirlo dire che stava bene e che non era successo nulla.

Lo aiutò ad alzarsi e rimase ferma a sorreggerlo finché non fu in grado di restare in equilibrio da solo, solo allora gli permise di allontanarsi. Chat Noir scrollò il capo e barcollò un istante, poi sbatté le palpebre e le sorrise.

«Mi hai fatto preoccupare.» confessò.

L’immagine di lui sospeso tra le ombre non la abbandonava, aveva il dubbio che non l’avrebbe fatto per un bel po’ di tempo, ma avrebbe avuto modo di rimuginarci sopra una volta che fosse arrivata a casa. A impedirle di continuare a pensarci, fu la mano di Chat Noir che la spinse via all’improvviso. Tornò a guardarlo e scoprì che aveva il capo chino e le dita immerse tra i capelli, li tirava e stringeva come se provasse un dolore alla testa tanto forte da impedirgli di stare fermo. Provò ad avvicinarsi di nuovo, ma lui glielo impedì, perché arretrò e tese la mano tra loro per mantenere le distanze.

«Perdonami, Mia Signora» disse Chat Noir. «ma temo di dover andare, adesso.»

Le girò attorno e, prima che Ladybug potesse rendersene conto, aveva usato il bastone per spingersi fuori dalla finestra.
Ladybug rimase a fissare il frammento di cielo per alcuni secondi, prima di rendersi conto che lui non sarebbe tornato indietro.

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Capitolo 4
*** Riscoprendo gli amici - parte 1 ***


RISCOPRENDO GLI AMICI - 1

Poche ore dopo l’arreso di Gabriel Agreste:
A Chloe non erano mai interessati i problemi degli altri, neanche quelli di Sabrina, nonostante fosse la sua cosiddetta migliore amica. Per questo restò ancora una volta in silenzio, quando la ragazza le confessò le proprie preoccupazioni, e si concentrò su una ben più importante manicure. Ringraziò il cielo – per l’ennesima volta – di essersi fatta comprare da suo padre un paio di cuffie costose con microfonino per poter parlare al telefono e controllò che la curva dell’unghia del suo indice fosse perfetta, prima di posare la limetta sul tavolino accanto allo smalto.
«E così mia madre mi ha mandato a letto senza cena.» concluse Sabrina. «Aveva fatto anche il mio piatto preferito, ci credi? E io non ho potuto mangiarlo! È terribile.»
Terribile davvero, pensò Chloe, che la sua estetista di fiducia avesse dovuto rimandare il suo appuntamento all’ultimo minuto. Avrebbe dovuto fare più attenzione, scendendo le scale, e non sarebbe caduta e finita all’ospedale.
Quasi le parve di sentire il tonfo del suo corpo che atterrava sul pavimento, il rantolo di dolore per nulla femminile che le era sfuggito dalle labbra. Fu come essere presenti, pur senza vedere la scena. Batté le unghie sul tavolino, dove era rimasto anche il dischetto d’ovatta imbevuto di acetone che aveva usato per levarsi lo smalto precedente. Un secondo tonfo la riscosse, ma ora poteva essere certa che non fisse solo la sua immaginazione; c’era qualcuno, fuori, sul suo balcone.
Si alzò in piedi, il telefono era ancora premuto contro il suo orecchio, Sabrina continuava a parlare.
«Perdonami.» disse distrattamente. «Ti farò recapitare una porzione doppia domani sera, prometto, ma ora devo proprio andare.»
Riagganciò e lasciò cadere il telefono sul cuscino del divano; aveva abbandonato il suo paio di scarpe nuove sul pavimento, ne raccolse una e si premurò di brandire la scarpa in modo che potesse usarne il tacco come arma. Non fece in tempo neanche a raggiungere la porta, che quella si aprì da sola, mettendo in luce Chat Noir.
«Ho bisogno di un posto dove stare.» le disse il ragazzo.
Chloe sbuffo, la tentazione di lanciargli la scarpa contro fu grande, ma resistette e la lanciò di lato. «Vai giù ed entra dalla porta principale, idiota!» esclamò.
Poi si accorse della strana scatola che lui stringeva tra le mani e sollevò un sopracciglio incuriosita, aspettandosi una spiegazione.
«Dobbiamo parlare.» fu quello che Adrien, una volta tolta la maschera, disse come prima cosa.
Quel giorno, Chloe smise di pensare a Chat Noir come un eroe di serie B.

Dopo l’incontro tra Queen Bee e Ladybug:
Tornando a casa, Queen Bee scoprì che la sua camera d’albergo al Grand Paris era al buio. Cercò di scrutare attraverso l’oscurità per cercare Adrien al suo interno, prima di scendere dal cornicione su cui si era appollaiata ed attraversare il balcone. Dischiuse la porta scorrevole con attenzione e si detrasformò appena fu dentro. Grazie allo sfavillio che le riportò i suoi vestiti quotidiane, riuscì ad individuare l’amico sul divano, ma una volta tornata l’oscurità fu di nuovo ceca.
«Ho fatto.» disse con un sospiro. Sentì Pollen ronzarle attorno e cercò l’interruttore a tentoni; quando accese la luce Adrien si coprì gli occhi e si fece indietro. Incurante del fatto che potesse dargli fastidio, Chloe si accomodò al suo fianco. «Allora, sei rinsavito?» domandò.
Guardò Plagg, arricciò il naso all’odore del Camebmert su cui si era appisolato ed allungò il piede per allontanare il piattino da dov’era seduta. Attese da Adrien una risposta che non arrivò e chinò il capo, guardandolo di sbieco; era certa che incalzarlo non fosse una buona idea, non voleva deluderlo. Strinse le mani sulle ginocchia e sollevò le spalle, mettendosi ritta sul cuscino e scrutando le sagome delle sdraio sul balconcino.
«Posso chiamare il servizio in camera, se hai fame.» gli disse, anche se il carrello che aveva fatto portare prima di andare ad incontrare Ladybug era ancora quasi totalmente intatto ad appena pochi metri da loro. Si chiese cos’avrebbe potuto fare per aiutarlo, per convincerlo a fare almeno uno spuntino, ma era passato troppo tempo dall’ultima volta che Adrien aveva parlato davvero con lei ed ora non aveva idea di cosa potergli dire. Raggiunse il carrello e sollevò il coperchio del piatto principale; l’arrosto era intatto come immaginava; ancora tiepido e dall’aria invitante al fianco del purè di patate del suo chef di fiducia, ne prese una forchettata e lo assaporò contro la lingua per prendere tempo.
«Forse preferisci il dolce, ora che non c’è tuo padre a controllare la tua dieta.» disse. Si rese conto, con un istante di ritardo, che probabilmente era una delle cose peggiori che avrebbe potuto dirgli, anche se la torta al cioccolato era lì a fissarla e sembrava quasi chiederle di essere infilata a forza in bocca ad Adrien cucchiaiata dopo cucchiaiata. Sentì il ragazzo alzarsi e sorrise, pensando che forse non era stata poi così pessima.
La mano di Adrien si strinse attorno al suo polso, Chloe si sentì tirare indietro ed ebbe un sussulto. Quando si voltò, scoprì che Adrien le stava di fronte; i suoi occhi si affilarono e lui, a labbra strette, le soffiò contro minacciosamente. Guardarlo fu come guardare Chat Noir nel peggiore dei suoi momenti; con i denti scoperti e i capelli arruffati sulla fronte. Chloe agitò il braccio per crollarselo di dosso.
«Va bene, alcuni argomenti sono off-limits, ho capito.» disse, cercando di evitare di peggiorare le cose.
Lui non la lasciò andare, Pollen si avvicinò, Plagg invece no.
«Adrien, ascoltami.» disse. Prese un bel respiro e poggiò la mano su quella di lui, ignorando il formicolio causato dalla sua presa ferrea. «È tardi, tu sei stanco e affamato.»
Lo sentiva, che lui cercava di fermarsi; lo vedeva nel modo in cui il corpo era tirato indietro, invece di tendere verso di lei per bloccarla. «Ora ti farai un bel pisolino e domani farai una colazione abbondante. Poi, se vorrai, ne riparleremo.»
Lo riportò verso il divano, lui non fece obbiezioni, allora Chloe prese uno dei cuscini e lo mise contro il bracciolo perché lui potesse poggiarcisi sopra. Adrien si distese, solo allora Chloe riuscì a sciogliere la presa della sua mano e ad allontanarsi.
«Chloe.» disse lui prima che lei potesse voltarsi.
«Dimmi.»
Le sorrise, con gli occhi chiusi e le braccia avvolte contro il proprio petto a formare una croce. «Scusa. E grazie.»
Chloe sbuffò, invece di rispondere fece a Pollen un cenno per farsi seguire e la condusse ancora una volta fuori dal balcone. Si sporse oltre la balaustra e sospirò, restando a guardare Parigi per riflettere su ciò che stava succedendo.
«Che seccatura.» disse, dopo un poco, al piccolo Kwami che sei era appoggiato sulla pietra al suo fianco. Non si aspettava la risposta secca che ebbe dall’altra creatura che, a quanto pareva, aveva deciso di risvegliarsi e seguirle fuori.
«Se non vuoi aiutarci allora ti basta dirlo.» le riferì Plagg.
Chloe sussulto e si voltò; lo trovò a zampe incrociate, sospeso a mezz’aria con lo sguardo serio mentre la fissava severo. Fino a quel momento l’aveva visto solo mangiare e lamentarsi, ma avrebbe dovuto immaginare che in qualche modo tenesse ad Adrien, nonostante non lo rendesse palese fin da subito.
Lo spinse via con un dito. «Non ora, sgorbio.»
Non voleva abbandonare Adrien, ma sapeva che non avrebbe potuto fare molto, per un motivo o per un altro.
Rientrò in casa quatta quatta, Adrien sembrava già dormire, fece cenno ai due Kwami di fare attenzione e, con suo sollievo, loro rimasero in silenzio. L’amico non aveva fatto molto, da quando era lì, a parte stare seduto con la testa tra le mani e parlare con sé stesso, ma prima di ciò si era accertato che Chloe mettesse la scatola dei Miraculous in un posto sicuro. Lei l’aveva rinchiusa nella cassaforte, anche se era consapevole che Adrien sapeva dove fosse e Chat Noir avrebbe potuto benissimo polverizzarla in pochi secondi con un solo gesto. Inserì la combinazione e aprì lo sportello con cautela, restando ancora una volta ammirata dall’intaglio geometrico fatto sul legno. Dopo un lento sospiro, infilò le mani attraverso la porticina e la sollevò tra le mani. Se la posò in grembo, soppesandola mentre controllava che Adrien dormisse ancora. Lui non si era mosso, russava tranquillo. Per un momento, Chloe si trovò a sperare che stesse facendo dei bei sogni, poi si alzò, pronta per uscire. Plagg non la seguì.

Dopo l’attacco delle ombre a Villa Agreste:
Chloe non aveva neanche idea che Adrien fosse uscito, fino a cinque minuti prima che lui tornasse, ma quando accadde lei era sul balcone, a braccia incrociate, ad aspettarlo.
Lui si accasciò davanti a lei, sembrava tanto sofferente che quasi fu tentata di mettere da parte il suo astio e assicurarsi che stesse bene.
«Prima vieni a chiedere rifugio e poi sparisci senza avvertire. Complimenti.» gli disse.
Lui sollevò il capo, il volto era contorto in una smorfia, le labbra tirate, gli occhi stretti. Incrociava le mani sul petto come se ne avesse bisogno per restare tutto intero. Dischiuse le labbra per parlare, ma le parole non uscirono.
«Adrien.» sussurrò.
«La scatola.» le disse lui.
Chloe esitò.
«Dopo.» disse. «Prima spiegami cosa diavolo è successo e cos’era quella cosa che ti ha riportato dentro.» Adrien premette la fronte contro il pavimento, ma neanche questo riuscì a distrarla da ciò che aveva visto in televisione.
«Chloe,» insisté lui. «Devi farmi un enorme favore.»
Allora lo stette ad ascoltare.

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Capitolo 5
*** Riscoprendo gli amici parte 2 ***


RISCOPRENDO GLI AMICI - 2

Cercare di contattare Chat Noir tramite lo yo-yo fu inutile e provare a rintracciarlo per tutta Parigi correndo alla cieca lo sarebbe stato altrettanto, ma Ladybug rimase comunque ad osservare la sua città aggrappata alla guglia più alta della cattedrale di Notre Dame.

Senza il ragazzo e senza Akuma non era la stessa cosa, avrebbe voluto poter parlare con Tikki, ma lei era intrappolata all’interno dei suoi orecchini e lo sarebbe stata fino alla fine della sua trasformazione. Era sola e la sensazione non le piacque neanche un po’, se avesse saputo dove era finita la scatola del Maestro Fu, probabilmente avrebbe riportato il Miraculous della volpe ad Alya ed avrebbe approfittato delle sue doti da giornalista per le sue ricerche, ma così su due piedi non le era possibile. Sperava solo che l’amica si concentrasse su Adrien, in modo da lasciarle la possibilità di cercare Chat Noir senza distrazioni, ma la sua mente non poteva fare a meno di correre in continuazione a pensare al ragazzo che amava.

Eppure un’idea si risvegliò dentro di lei; quando era stata a Villa Agreste per cercare Nadja e Manon, appena il giorno prima, Chat Noir si era presentato puntuale come se non aspettasse altro, forse se ci fosse tornata l’avrebbe fatto ancora. Avrebbe potuto approfittarne per controllare che Adrien non fosse lì; non aveva nessuna idea di dove altro potesse essere. Una parte di lei sperò di non trovarlo, ma il pensiero di dove altro potesse essere e cosa l’avesse trattenuto dal rivolgersi agli agenti o a chiunque potesse aiutarlo non le avrebbe dato pace.

Se anche la polizia lo cercava senza riuscire a trovare tracce, probabilmente lei era la sua ultima speranza, l’idea di dare la priorità a Chat Noir venne accantonata in fretta, lui avrebbe saputo cavarsela e Queen Bee lo avrebbe aiutato.

Si voltò verso Villa Agreste, ma esitò, stringendo le mani sul bordo del tetto e strizzando gli occhi per metterla a fuoco da quella distanza. I rumori della città svanirono, soffocati dai suoi pensieri e dal freddo della pietra contro le sue mani. Si lasciò scivolare verso il cornicione e si rimise in piedi, una ciocca di capelli le scivolò sotto il naso solleticandolo, il fastidio la spinse a voltarsi perché il vento le arrivasse di fronte, fu allora che vide il ragazzo con la tutta verde che la osservava timidamente. Era fermo ad alcuni metri da lei, si lasciò squadrare, restando in attesa mentre lei si piegava sull’attenti alla ricerca di un qualunque accenno che la volesse attaccare.

Lui non lo fece, anzi sorrise. «Ciao.» le disse.

Ladybug storse il naso, ripensò ai vari paladini che aveva visto nel libro che aveva portato a Maestro Fu e riconobbe il Kwami che avrebbe potuto dar vita a quell’eroe, lo stesso che era stato del maestro stesso, l’uomo che non aveva idea di dove fosse finito.

«Chi sei? Cosa vuoi?» domandò.

Il ragazzo sollevò le mani ed arretrò, le parve intimorito, tutto il contrario di come pensava che sarebbe dovuto apparire un ladro di Miraculous.

«Non attaccarmi, signorina Ladybug!» esclamò lui. «Giuro che sono qui per aiutare, solo per questo.»

Avrebbe tanto voluto credergli, ma non aveva alcuna ragione per farlo. «Chi ti ha dato il Miraculous? Hai parlato con Maestro Fu?»

«Maestro chi?» Domandò lui. «No, Queen Bee mi ha chiesto di sostituire Chat Noir finché non starà meglio.» spiegò.

Ladybug allentò la presa sullo yo-yo e sospirò, la frustrazione si mescolò al sollievo, ma fu presto sostituita dall’ansia di sapere di più. «L’hai incontrato? Sta bene?» chiese.

Il nuovo eroe scrollò le spalle. «Non ho visto lui, solo lei. Ma ha detto che è stata un’idea di Chat Noir.» spiegò.

Ladybug annuì, era quasi certa che nessuno a Parigi sapesse di Queen Bee, a meno che non fosse stata lei a volerlo. «Mi dispiace se ho reagito in modo impulsivo.»

«Oh! Non preoccuparti.» disse l’altro. Sorrise ampiamente. «Sei una supereroina, devi stare attenta a chi lasci avvicinare e... Ehi! Sono un supereroe anche io!»

Lui sgranò gli occhi, era come se l’idea avesse fatto presa nella sua testa solo in quel momento, spiazzandolo. Ladybug rise della sua espressione stralunata.

«Sei un eroe.» confermò; pensando che una reazione simile non poteva essere parte di qualcuno che avesse rubato i Miraculous. La diffidenza la bloccava, ma si sforzò per non darlo a vedere; almeno avrebbe potuto decidere con calma come gestirlo.

Il ragazzo saltellò sul posto per l’emozione. «Aspetta solo che lo scopra la mia ragazza!»

Ladybug ebbe un sussulto e gli si avvicinò, la mano tesa per trattenerlo nel caso decidesse di correre a cercare la fidanzata proprio in quel momento.

«Non deve saperlo nessuno, potresti metterla in pericolo.» gli disse.

L’entusiasmo di lui scemò di colpo, il sorriso si spense, le spalle si rilassarono. «Nessuno? Ma proprio nessuno nessuno?»

«Nessuno Nessuno.» confermò Ladybug. «Non puoi essere certo che manterranno il segreto, oppure che non verranno akumatizzati e ti esporranno.»

Sperò che capisse, che lo accettasse e comprendesse, per quanto difficile potesse essere, ciò che comportava essere un eroe. Si domandò se Queen Bee sapesse chi era Chat Noir, poi se attraverso di lui fosse riuscita a capire chi era lei. Era stata abbastanza lontana da casa, la notte precedente, per non destare sospetti? Si chiese.

Il nuovo eroe annuì. «Sembrano buone ragioni.»

Gli sorrise. «Sono felice che tu la pensi così.»

In qualche modo le parve che l’avesse accettato più facilmente di quanto avesse fatto Chat Noir, visto che non osò chiederle chi fosse lei, né a presentarsi con il suo vero nome.

«Terrò il segreto.» le assicurò.

Il suo sorriso la calmò, Ladybug tornò a pensare di potersi fidare.

«Bene.» gli disse.

Poi lui sospirò e guardò Parigi dall’alto, le guance rosse per il freddo e le braccia larghe come se volesse stringere a sé quel panorama. «Allora, cosa faremo nel mio primo giorno da supereroe?»

Ladybug si drizzò e ripensò ad Adrien, se Chat Noir stava abbastanza bene da assicurarsi che qualcuno le coprisse le spalle probabilmente poteva smettere di preoccuparsi così tanto per lui e concentrarsi su qualcun altro.

«Propongo una missione speciale. Dobbiamo trovare un ragazzo scomparso, Adrien Agreste.» disse.

Il nuovo eroe ebbe un sussulto e si illuminò; avrebbe potuto essere considerato un compito inadatto ad un eroe, forse, ma lui sembrava apprezzarlo anche più del dovuto.

«Ottimo!» esclamò.

Si mise ritto sul posto, pronto ad ascoltare le sue istruzioni. A Ladybug sembrò quasi che non aspettasse altro, ma non seppe dire se riguardava la semplice idea di avere una missione o quella di poter salvare qualcuno che forse era in pericolo.

«Hai già scelto il tuo nome da eroe?» gli domandò, guidandolo giù per le guglie e fino alla strada.

Lui fu rapido a seguirla, non perse mai terreno mentre lei si spostava verso l’edificio accanto grazie al proprio yo-yo.

«Carapace.» rispose il ragazzo tra un salto e l’altro.

Si diressero verso Villa Agreste, Carapace non diede mai l’impressione di volerla superare o precedere, ma non rimase neanche abbastanza indietro da dare l’impressione che lei dovesse guidarlo. Probabilmente, dopo gli ultimi giorni, tutti a Parigi sapevano dove Papillon e suo figlio scomparso vivevano.

Mentre si muovevano di tetto in tetto molti si fermarono a fissarli, ma a Ladybug non importava. Si fermò solo quando si trovò sul tetto più vicino al retro della casa, da lì riusciva a vedere l’ampia vetrata della camera da letto di Adrien, ma anche strizzando gli occhi non riuscì a scorgere nessun movimento all’interno. Non si lasciò ingannare da quella calma esasperante, sapeva ciò che aveva visto.

«C’è qualcosa, lì dentro.» spiegò a Carapace. «Ha fatto qualcosa a Chat Noir, forse tiene prigioniero Adrien.»

Lui annuì.

Resasi conto di quanto la sua preoccupazione per un comune civile potesse risultare sospetta, si affrettò ad aggiungere: «Abbiamo spedito suo padre in prigione, io e Chat Noir siamo responsabili di ciò che può essergli accaduto.»

«Tecnicamente è stato Chat Noir» ribatté Carapace, che non sembrava affatto intenzionato a soffermarsi sulle sue premure.

Ladybug sbuffò, non aveva bisogno che glielo ricordassero, si sentiva già abbastanza in colpa, ma in qualche modo sapeva che il ragazzo non l’aveva detto per farglielo pesare. Probabilmente l’aveva fatto perché non si sentisse ancora responsabile.

«Andiamo.» disse, ma Carapace la trattenne.

«Giusto per chiarire, sappiamo che probabilmente sarà pericoloso ma stiamo per farlo comunque?» chiese.

Ladybug annuì. Le sarebbe piaciuto che la prima esperienza da eroe di lui non fosse così pericolosa, ma aveva bisogno di qualcuno che le guardasse le spalle e Carapace le era parsa un’ottima scelta. Chiunque Chat Noir avesse scelto per affiancarla era adatto al compito, perché anche non sapendo chi fosse, Ladybug si era subito sentita in sintonia con lui.

«Qualche altra indicazione, prima di andare?» le domandò Carapace.

Scosse il capo, insieme saltarono verso il cornicione, bastò solo spingere le finestre verso l’interno perché esse si aprissero, allora scivolarono dentro in silenzio e rimasero a guardarsi attorno. La stanza era in ordine, il letto rifatto e non si udiva volare una mosca. I loro respiri sembravano così rumorosi che Ladybug iniziò quasi a trattenerli per non farsi sentire. Cercò di capire se fossero soli in casa, se c’era qualche movimento proveniente dal bagno o dal corridoio.

Fu Carapace a rompere il silenzio.

«Adrien, Amico?» domandò.

Ladybug lo scrutò, temette che qualcosa li avesse sentiti, ma dopo i secondi di calma che seguirono iniziò a pensare che non ci fossero pericolo imminenti. Scoprì che avere un nuovo partner le piaceva, il modo in cui sembrava preoccupato per Adrien quasi quanto lo era lei le fece pensare che fidarsi era stata la scelta giusta, anche se l’intesa che aveva avuto con Chat Noir fin dal suo primo giorno era irripetibile.

Dischiuse la porta del bagno e ci sbirciò dentro, quasi aspettandosi di trovarvi Adrien pronto per fare una doccia o appena uscito dalla vasca, ma quello era vuoto. Nel corridoio avrebbe potuto esserci un segno, pensò mentre con Carapace passava sotto la rampa da skateboard per raggiungere la porta, ma avrebbe potuto nascondervisi anche qualunque altra cosa.

«Mi fai vedere dove è successo?» domandò Carapace. «Dove avete sconfitto Papillon.»

Ladybug deglutì, non era certa che sarebbe riuscita a ritrovarlo, partendo da quel punto della casa, ma provare non costava nulla.

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Capitolo 6
*** Pezzi di un puzzle (1) ***


PEZZI DI UN PUZZLE - 1

La finestra dell’antro di Papillon era chiusa; nessuno aveva osato portare via le sue farfalle ed il nastro della polizia era anche lì, attorno alla botola di accesso, ed era intatto. Ladybug lo strappò per muoversi nella stanza, mentre Carapace la guardava intimorito.

«Davvero possiamo? Non è un crimine?» domandò.

Scrollò le spalle. «Sono certa che faranno un’eccezione.» gli disse.

Trovò subito la macchia di sangue secco sul pavimento, accanto ad essa c’era un numero che la indicava come prova; Ladybug tremò al pensiero che attraverso esso avrebbero potuto rintracciarla, ma non poteva più farci nulla. Strinse il braccio a sé, premendo le dita sulla ferita come per ricordarsi che era stato tutto reale, e chinò il capo.

Carapace fu il primo ad avere il coraggio di rompere il silenzio, o forse semplicemente non si era reso conto di quanto essere lì la disturbasse.

«È qui che è successo?» domandò.

Ladybug annuì, cercando di riportare alla memoria un ricordo qualunque di ciò che era avvenuto in quella stanza.

«Chat Noir mi ha contattata per dirmi che aveva scoperto la vera identità di Papillon, siamo venuti qui per affrontarlo, speravo che negasse tutto e dimostrasse la sua innocenza, ma non l’ha fatto.» rivelò.

Inspirò, l’aria era fredda e sapeva di terra, forse perché proveniva dal giardino attraverso la finestra a cui ora mancava il vetro.

«Adrien era in casa, quando è successo?»

«Non lo so, può darsi. Non sembrava che ci fosse. Sinceramente ero così concentrata su Gabriel Agreste che non l’ho cercato quanto avrei dovuto. Chat Noir mi ha assicurato che sarebbe stato bene, però.»

Forse non avrebbe dovuto ascoltarlo, sarebbe stato meglio fermarsi a controllare prima di cercare Gabriel Agreste, ma non aveva avuto alcun motivo per non credergli, quando l’aveva detto, quindi si era fidata di lui. Solo in quel momento realizzò che avrebbe potuto essere lo sbaglio più grande della sua vita.

«Credi che lui stia bene?» domandò Carapace.

Ladybug sentì gli occhi pizzicare, la ferita al braccio pulsò per un istante come se fosse fresca, ma subito il dolore si acquietò tornando nell’angolo della mente da cui era sfuggito, soffocato dalla voglia di piangere e gridare per smorzare quella insistente sensazione di non essere all’altezza e di essere un fallimento.

«Non lo so!» sbottò. «Non so dove fosse e non so dove sia e mi dispiace! Questa è tutta colpa mia!»

Sentì le prime lacrime scivolarle giù per la guancia, le asciugò in fretta, sperando che Carapace non le notasse, ma probabilmente lui l’aveva già fatto.

«Non è colpa tua, potrebbe non esserlo mai. Di Gabriel, voglio dire del signor Agreste, probabilmente, ma non tua.» rispose lui, tendendo una mano come per volerla confortare.

Ladybug scosse il capo, consapevole che nessuna rassicurazione avrebbe potuto cambiare le cose o farla sentire meno in colpa. Il passato era passato, l’unica cosa che poteva fare era imparare dai suoi errori per evitare di rifarli e per questo doveva impedirsi di sottovalutarli e lasciarli scivolare via. «Avrei dovuto preoccuparmi di più di Adrien, però, ed assicurarmi che stesse bene.»

Carapace le si avvicinò, sorrise e le sfiorò un braccio. «Adrien sa badare a sé stesso e di sicuro non ti incolpa affatto per quello che è successo, né per non averlo trovato.»

Con un sospiro, Ladybug pensò che avrebbe voluto potergli credere. Avere Carapace lì con lei era bello, decise, quasi come avere al suo fianco Chat Noir, anche se lui sarebbe rimasto sempre unico ed insostituibile. Sorrise.

«Come lo sai?» domandò. Premette le labbra e le mordicchiò, sforzandosi di sorridere quel tanto bastava perché Carapace potesse intuire la sua gratitudine.

Le guance di lui si fecero rosse, lo vide arretrare e sollevare i palmi. «Oh! Beh... Dalle interviste sembra un tipo tosto... Ed è un tuo grande fan, quindi non potrebbe mai incolparti.»

Ladybug rise, anche se la cosa non la divertiva affatto.

«Certo.» sospirò. «Peccato che non sia così infallibile e coraggiosa come un supereroe dovrebbe essere.»

Si guardò attorno, dove le farfalle celavano parte delle macchie di sangue che imbrattavano il pavimento, tra la polvere e cocci di vetro. Il vento freddo entrava dalla vetrata in frantumi, ma il ferro battuto della decorazione era ancora intatto e sembrava quasi di essere in una cella dalle sbarre dall’aria particolarmente bizzarra.

Il vetro era all’interno, realizzò Ladybug, quindi l’esplosione doveva essere arrivata dall’esterno o qualcosa di simile. Ciò avrebbe potuto spiegare anche la ragione per cui non c’erano bruciature all’interno della stanza, ammesso che non si fosse trattato di qualcos’altro. Si piegò sulla macchia ormai secca di sangue, osservandone i contorni sbavati trattenendo la nausea.

«Cosa stiamo cercando?» le chiese Carapace.

Gli fu immensamente grata per aver interrotto il flusso dei suoi pensieri, si sollevò e tornò a guardarlo. «Qualcosa,» spiegò «qualunque cosa possa aiutarci a capire dove sia Adrien e magari anche cosa sia accaduto a Chat Noir.»

Carapace annuì. «Credi che suo padre gli abbia fatto del male? Ad Adrien, intendo.»

«Non lo so.» ammise con il cuore pesante. Strinse il pugno. «Ma voglio sperare che se ne sia andato di sua spontanea volontà.»


Marinette riemerse dall’incoscienza con fatica, forse solo grazie al dolore pungente

al braccio, e rimase ad aspettare che l’intontimento svanisse mentre quella era la sola cosa che sentiva.

Si sforzò di aprire un occhio, strizzando l’altro mentre cercava di abituarsi alla luce del sole. A quell’ora del mattino, almeno non le arrivava dritta in faccia come avrebbe fatto di lì a poche ore, ma disegnava la sagoma squadrata della sua botola sulla parete. Stropicciò un palmo sulla palpebra e trattenne uno sbadiglio, poi si rigirò su un fianco, tendendo il braccio dolorante verso lo sghembo quadrato di luce. Fu allora che vide la benda attraverso gli occhi pesanti; le ciglia rendevano quella e tutto il resto sfocato ed avrebbero continuato a farlo finché non fosse riuscita a svegliarsi abbastanza per sollevare le palpebre. Sussultò, fu improvvisamente sveglia, ma la luce continuò a darle fastidio anche mentre ripensava al pomeriggio precedente.

Si mise a sedere, ricordando che era stata faccia a faccia con Papillon, che l’aveva sfidato dopo che lui aveva ammesso la sua vera identità e l’aveva affrontato assieme a Chat Noir ma, con un rantolo, si rese conto che non aveva idea di come fosse andata a finire. Ricordava i primi colpi, le prime minacce, di essersi difesa dalle farfalle che le offuscavano la vista, poi nient’altro.

Sfiorò la benda con le dita e si morse il labbro. «Tikki.» disse.

La trovò tra le zampe del suo gatto di peluche, inerme, e la scosse con un dito per assicurarsi che stesse bene. Respirava, sembrava dormisse.

Tikki dischiuse le palpebre lentamente, la testolina le ricadde indietro quando la sollevò tra le mani per avvicinarla al volto. «Marinette.» disse.

Le sorrise. «Che è successo?»

Tikki sbatté gli occhi, sembrò pensarci per alcuni secondi, poi rispose: «Abbiamo affrontato Papillon?»

Il dubbio espresso in quelle parole fece gemere Marinette, che guardò il resto della sua stanza alla ricerca di un cenno o di un indizio. Sentì Tikki agitarsi sul proprio palmo.

«Marinette!» esclamò il piccolo Kwami. «I tuoi orecchini.»

Spostò Tikki su una mano e portò le dita all’orecchio; si ritrovò a premere i polpastrelli contro il lobo nudo, senza alcun segno del suo Miraculous. Sgranò gli occhi.

«No!»

Balzò in piedi, non c’era più nessuna traccia di sonno o intontimento; la paura e la preoccupazione avevano sostituito ogni cenno di qualunque altra cosa. Con un sospiro di sollievo, dopo appena pochi secondi di panico, trovò gli orecchini abbandonati sul proprio comodino, premuti uno contro l’altro come se chiunque li avesse poggiati lì avesse voluto essere sicuro che non scivolassero per terra.

Poggiò Tikki sulle ginocchia e li prese tra le dita, rimettendoli alle orecchie con un gesto meccanico.

«Credi che li abbia usati?» domandò Marinette.

Il pensiero le faceva inorridire al punto che quasi pensò di toglierli ancora, come se attraverso essi Papillon avrebbe potuto toccare anche lei, ma sapeva che averli addosso sarebbe stato più sicuro. Quello che non sapeva, però, era se Gabriel Agreste l’avesse vista detrasformata e se ora conoscesse la sua vera identità. Sarebbe andato a cercarla? Sarebbe dovuta fuggire e mettere al sicuro la propria famiglia?

No, decise. Se Gabriel Agreste avesse voluto farle del male gliene avrebbe già fatto, di certo non avrebbe permesso che tornasse a casa, né le avrebbe restituito gli orecchini. L’unica spiegazione logica a quello che le era successo quella mattina, era che Chat Noir fosse riuscito a sconfiggere Papillon da solo e poi l’avesse riportata a casa.

Scese in salotto ancora in pigiama, i suoi genitori la aspettavano e la colazione era pronta, ma lei non aveva fame. Sedette al tavolo, anche se i suoi occhi non si staccavano dallo schermo del televisore, dove sembrava stessero viaggiando le risposte a parte delle sue domande.

Gabriel Agreste era stato arrestato, Chat Noir aveva assistito personalmente alla scena, assicurandosi dall’altezza di uno dei tetti poco distanti che tutto andasse come previsto.

Il giornalista annunciò quasi con sollievo che Papillon aveva deciso volontariamente di consegnarsi alla giustizia.

Il braccio tornò a pulsare, sfiorò la benda chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare al riguardo.

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Capitolo 7
*** Pezzi di un puzzle (2) ***


PEZZI DI UN PUZZLE - 2

Una volta trasformato in Chat Noir, per Adrien aprire la cassaforte era stato facile; Chloe se n’era resa conto appena aveva rimesso piede in casa dopo la scuola e lo aveva trovato sul pavimento, circondato da Miraculous e dai pezzi della scatola che aveva probabilmente buttato per terra. Ci mise un istante a ricordare che, fondamentalmente, l’aveva chiusa lì dentro per nasconderla a suo padre e ai dipendenti dell’albergo e non ad Adrien stesso, eppure lui la guardava come se volesse metterle le mani al collo e strangolarla.

«Ne manca uno,» le disse. «quello della tartaruga. Cosa ne hai fatto?»

Chloe scrollò le spalle e lasciò cadere la cartella accanto alla porta; non si sarebbe abbassata a rispondere a tono ai capricci di qualcuno che probabilmente non sapeva neanche cosa stava facendo.

«Ho solo pensato che con te fuori gioco e me che ti faccio da balia Ladybug avesse bisogno di un altro assistente.» spiegò.

Chat Noir le andò incontro. «Non avevi alcun diritto di farlo. Cosa ti è preso? Pensavi che fosse una buona idea prendere un Miraculous a caso e darlo alla prima persona che hai incontrato? Chi ti assicura che non lo userà a sproposito come ha fatto mio padre? Potresti aver creato un nuovo supercattivo!»

Chloe deglutì, provò ad ignorare il tono dirompente della voce di lui, il modo in cui tutto, dalla posizione del suo corpo, alle sue parole, fino alla sua voce, lo facesse sembrare un predatore minaccioso, ma strinse i pugni e sostenne il suo sguardo.

«Ho preso un Miraculous a caso, sì, ma non l’ho dato ad una persona qualunque, puoi credermi.» disse. Aspettò che Chat Noir desse segno di essersi calmato, ma lui non lo fece. Pollen comparve nel suo campo visivo, come ad assicurarle che, nel caso l’avesse attaccata, non era sola, anche se ancora non si era abituata alla sua presenza e spesso dimenticava che in un modo o in un altro riusciva a seguirla dovunque. «Il Miraculous è in buone mani. Mi hai chiesto tu di impedirti di fare del male a Ladybug, sto solo facendo il mio dovere.»

Un lampo di luce verde accompagnò la comparsa di Adrien, il suo piccolo Kwami fece una smorfia e si allontanò da lui, ma rimase abbastanza vicino da poter intervenire, all’occorrenza.

«Ti giuro» disse Chloe con una smorfia «che approveresti totalmente chi lo ha ora.»

Adrien deglutì e premette le mani contro le tempie, il capo chino, le ginocchia piegate per lo sforzo. «Proteggere Ladybug dovrebbe essere compito mio; mio e di nessun altro.» disse.

Chloe si domandò se lo stava dicendo per convincersene o per ricordarsi che era così, non aveva idea di chi gli avesse dato quel compito o se l’avesse deciso da solo per via di quello che affermava di provare per la ragazza.

«Ma ora ha bisogno di qualcuno che la protegga da te.» gli ricordò.

Adrien scoprì il volto, gli occhi erano umidi. «Credi che non lo sappia?»

Chloe sospirò. «Credo che tu non sia in te e che dovresti calmarti.» gli disse.

Pareva che si fosse ripreso, che fosse riuscito a mettere da parte quella voce che aveva affermato di sentire negli ultimi giorni e trovato ancora la pace, almeno per un po’.

«Non posso calmarmi se non so se la persona che le guarderà le spalle sia degna di fiducia.»

«Adrien, guardami.» disse. Chloe pensò che avrebbe potuto avvicinarsi senza correre troppi rischi e lo fece. Gli sfiorò il braccio. «Hai voluto fidarti di me, allora fidati se ti dico che se ti dicessi chi ha il Miraculous tu approveresti in pieno la mia scelta.»

Adrien accennò un sorriso, Chloe quasi non avrebbe osato sperarlo.
«Chi è?» lo sentì chiedere.

Scosse il capo e sollevò l’indice. «Se te lo dicessi potrebbe essere in pericolo anche lui.»

Vide l’amico pensare a quello che aveva detto, sforzarsi di accettare ancora una volta che era così. Poi Adrien prese fiato e disse: «Chloe...»

«Dimmi.»

Il sorriso di lui, già tirato, si fece ancora più mesto. «Devi farmi un altro favore.»
Chloe pensò che avrebbe dovuto aspettarselo; Adrien avrebbe potuto essere nei guai, mezzo moribondo o qualunque altra cosa, ma avrebbe sempre e comunque messo da parte qualunque cosa lo affliggesse per poter aiutare gli altri a stare meglio.

«Di che si tratta?» gli domandò.

Adrien si chinò, raccolse alcuni dei Miraculous che erano rimasti per terra e ne aprì le scatole fino a trovare una collana con un ciondolo ricurvo bianco e arancione. Gliela porse. «Devi consegnare questo ad una persona e fare in modo che si unisca a Ladybug.»

Con un rantolo, Chloe la prese tra le mani. «Certo, ora sono anche un fattorino...»



Cercare di telefonare ad Adrien non era servito ed anche Chat Noir, ora Marinette ne era certa, la stava evitando. Nelle ultime ore la notizia dell’arresto di Gabriel Agreste era rimbalzata su ogni canale, giornale e stazione radio. Non ne poteva più, tutto quello che desiderava era poter sapere cosa fosse accaduto senza doversi affidare alle supposizioni dei giornalisti e dei fan. Chat Noir non aveva rilasciato dichiarazioni riguardo all’ultimo scontro, il signor Agreste non era raggiungibile dalla stampa.

Quando Ladybug si presentò in centrale e chiese di parlare con Papillon, la polizia la lasciò passare regalandole sorrisi e congratulazioni. Nonostante l’imbarazzo iniziale, fu immensamente grata che non le facessero domande a cui forse non avrebbe saputo rispondere.

Le chiesero di lasciare lo yo-yo all’ingresso e, nonostante non ne fosse entusiasta, obbedì. Solo pochi minuti dopo la invitarono a sedersi su una scomoda sedia traballante all’interno di una stanzetta priva di finestre; davanti a lei solo un tavolo sgombro e un’altra sedia. Vide la telecamera posta contro la parete, lo specchio dietro cui forse qualcuno sarebbe rimasto ad osservare; di certo lasciare che qualcuno usasse in quel modo la stanza degli interrogatori era inusuale, forse avrebbero cercato di carpire qualche informazione in più su ciò che aveva spinto Gabriel Agreste ad agire come aveva fatto, forse non avevano creduto alle ragioni che aveva esposto al momento dell’arresto, qualunque esse fossero.

Un agente che non conosceva accompagnò Gabriel nella stanza, non indossava il classico completo arancione che si era immaginata, come aveva visto innumerevoli volte nei film, ma il solito vestito elegante che aveva indossato il giorno precedente prima di trasformarsi in Papillon, leggermente sgualcito lungo i fianchi e sulle maniche.

Aspettò che l’uomo si sedesse, ma lui attese. L’agente lo scortò verso la sedia e lo ammanettò al tavolino, solo allora si allontanò e si sistemò accanto alla porta, in attesa.

Una volta che ebbe capito che non sarebbero rimasti davvero soli, Ladybug si rassegnò a non poter aspettare.

Osservò l’uomo che aveva davanti, scoprendo un duo di occhiaie ben marcate sotto i capelli spettinati. Il suo contegno, però, non pareva aver subito alcun colpo.

Fu lui a parlare per primo.

«Signorina Ladybug.» disse. Incrociò le mani davanti a sé, poggiandole sul tavolo per quanto gli permetteva la catena delle manette. «Immagino che lei sia qui per parlare di quello che è accaduto ieri.»

Ebbe l’impressione che se si fosse presentata da lui come aspirante stilista, al colloquio si sarebbe comportato allo stesso modo e si domandò se fosse un modo per darsi un tono o se fosse una sua naturale attitudine. Con sincero rammarico, realizzò che non avrebbe mai potuto immaginarlo nelle vesti di un padre e ripensò ad Adrien.

Annuì. «È così.»

Sbirciò in direzione dell’agente, gli occhi di lui erano fermi contro la parete di fronte, ma di sicuro avrebbe ascoltato ogni parola.

«Il suo braccio sta guarendo?» chiese Gabriel. «Sono davvero desolato per ciò che è accaduto.»

Si sfiorò la benda che le cingeva il braccio, quella che probabilmente Chat Noir le aveva messo prima di decidere di sparire dalla sua vista, pizzicava, nonostante non fosse poi così profonda, e bruciava a tratti a ritmo con il battere del proprio cuore. Si sforzò di dimenticare che non erano soli e fare ordine tra le decine di domande che le si affollavano in testa e premevano per essere poste.

«Perché?» domandò infine, scegliendo di restare immersa nel suo personaggio da supereroe. «Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che ha fatto... Perché si è arreso?»

L’espressione tesa di lui si sciolse, le dita si ammorbidirono le une contro le altre. Per alcuni secondi, Gabriel rimase in silenzio. «Per tutto questo tempo, per tutti questi anni, ho inseguito un sogno impossibile, convincendomi che ciò che avrei ottenuto sarebbe stato più di quello che ero effettivamente destinato ad avere. Non mi sono arreso, ho provato ed ho fallito.»

Ladybug si corrucciò. «Mi auguro che si trattasse di qualcosa per cui valesse la pena di mettere a rischio la vita delle persone che vivono a Parigi.» disse. Ripensò al momento in cui la guardia del corpo di Adrien era stata akumatizzata, quando lui si era lanciato dal tetto di un palazzo fiducioso del fatto che sarebbe riuscita ad afferrarlo prima di schiantarsi sull’asfalto della strada sottostante. «O la vita di suo figlio.»

Gabriel inclinò il capo, mal celando il suo senso di colpa, ma non disse nulla al riguardo.

«Lui sta bene?» domandò invece.

Ladybug si drizzò sulla sedia. «Adrien?» chiese. «Gli è successo qualcosa?»

Sotto lo sguardo dell’uomo, Ladybug ebbe la sensazione che avrebbe dovuto sapere di più. Che lui pensava che sapesse di più.
«Non ho visto suo figlio, ieri.» disse. Era vero; l’ultima volta che l’aveva visto era stato venerdì, ma non era necessario che lui lo sapesse. Poi ricordò di essersi svegliata senza orecchini, quindi ad un certo punto doveva averglieli tolti ed aveva potuto vederla a viso scoperto. Lui e Chat Noir conoscevano la sua vera identità, non c’era più alcun dubbio.

«Dove posso trovarlo?» gli domandò. Sperò che capisse che ciò che aveva fatto non avrebbe avuto conseguenze sull’amicizia sua e del ragazzo, ma realizzò anche che il suo parere non le importava più di tanto.

«Sinceramente.» disse Gabriel. «Avevo pensato che sarebbe stato con lei, adesso.»

Scosse il capo, non capendo perché avrebbe dovuto essere così. Si alzò; ogni altro dubbio era stato dimenticato. «Proverò a controllare a casa, allora.»

«Non sarà lì,» la informò Gabriel. «non dopo quello che è successo. Pensavo che si sarebbe rivolto a lei.»

La osservò come se la biasimasse per questo.

«Beh, non l’ha fatto.» ribatté Ladybug.

Si voltò e fece cenno all’agente di aprirle la porta, ma prima che potesse uscire sentì le ultime parole dell’uomo che una volta era stato il suo eroe.

«Trovalo, ti prego. Non lasciarlo da solo adesso.»

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Capitolo 8
*** Maestro Fu p. 1 ***


MAESTRO FU - 1

Nulla, neppure le migliori doti da detective che spesso l’avevano aiutata nelle sue operazioni di giornalismo, sembravano servire ad Alya per rintracciare Adrien. Il ragazzo sembrava sparito dalla faccia della terra.
Da quando si era iscritto alla scuola pubblica, aveva scoperto Alya, Adrien si era mosso in punta di piedi. Le cose personali che aveva lasciato in giro, escludendo i cartelloni pubblici ed i manifesti affissi per la strada, si potevano contare sulle dita di una mano. Ma il paio di cuffiette che aveva dimenticato a casa di Nino ed il quaderno di appunti che le aveva prestato all’inizio della settimana precedente non potevano esserle utili a ritrovarlo e in qualche modo qualcuno – forse lo stesso Adrien – aveva ripulito il suo armadietto dei suoi vestiti di ricambio per l’ora di ginnastica. La polizia, dopo quella scoperta, aveva iniziato a pensare che fosse scappato di casa, ma questo non aveva allentato la tensione riguardo la sua sorte.
Alya lanciò la propria cartella sul letto, le grida e gli schiamazzi delle sue sorelle arrivavano fastidiosi dal salotto, ma provare a dir loro di stare zitti avrebbe solo dato inizio ad una guerra che in quel momento non era certa di poter reggere.
Sedette con un sospiro ed accese il computer; a causa dell’arrivo della polizia al Collége aveva saltato il pranzo ed ora lo stomaco iniziava a brontolare, ma lo ignorò.
Poggiò il gomito sulla scrivania e spinse la schiena contro lo schienale, poi premette i dorsi delle dita contro le labbra e attese, lasciandosi incantare dopo poco dal cursore sul desktop.
Ora che Papillon era stato sconfitto forse Ladybug e Chat Noir sarebbero scomparsi senza che lei potesse farci nulla, lasciando che il Ladyblog diventasse una specie di memoriale delle loro imprese per un po’, finché forse sarebbe stato dimenticato dai più. Forse, si disse, avrebbe dovuto iniziare a pensare al suo prossimo scoop, alla prossima notizia che avrebbe potuto portarla alla ribalta nel mondo del giornalismo. Però, se avesse potuto scegliere tra il trovare Adrien sano e salvo nel silenzio o scoprire per prima che gli fosse successo qualcosa di terribile, avrebbe di certo scelto la prima opzione.
Ripensò a Ladybug, immaginando che in qualche modo lei avrebbe potuto trovarlo, anche se sapeva che probabilmente era troppo idilliaco pensare che fosse così. Ladybug non sapeva nulla di lui, a parte ciò che aveva scoperto nei momenti in cui era stato in pericolo, non avrebbe mai potuto immaginare cosa avesse scelto di fare nella sua situazione e dove si sarebbe diretto. Per lei che lo conosceva bene, invece, sarebbe stato diverso; non sarebbe stato Adrien Agreste il modello, né il figlio di un supercriminale.
Sollevò lo sguardo verso la finestra, Parigi era bella anche in pieno giorno e lei che aveva avuto l’onore di vederla anche dall’alto avrebbe potuto gridarlo a gran voce. Sospirò ancora, pensando che forse non avrebbe avuto l’occasione neanche di ringraziare Ladybug per averle dato la possibilità di diventare un supereroe e di vedere la città dall’alto dei suoi tetti.
Poi notò la familiare scatolina del Miraculous abbandonata sul suo davanzale e si ricredette, pensando che avrebbe avuto ancora una possibilità di rivederla.

Marinette sapeva che in due avrebbero trovato Adrien più facilmente, per questo dopo la sua visita in prigione aveva lasciato che Tikki riposasse alcuni minuti e si nutrisse, prima di ritrasformarsi e cercare di contattare Chat Noir come poteva. Lui non rispose, né riuscì a vederlo tra i tetti. All’inizio pensò che forse fosse impegnato, che avesse deciso che poteva prendersi un meritato riposto dopo l’impresa del giorno precedente, poi capì che stava perdendo tempo e realizzò che, con Papillon fuori dai piedi – e dopo aver avuto la certezza che lui conoscesse già la sua vera identità – non ci sarebbe stata più ragione di nascondersi. E Chat Noir aveva, probabilmente, raccolto il Miraculous della farfalla per riportarlo al guardiano, che avrebbe di sicuro saputo dove indirizzarla.
Si issò sul tetto sovrastante usando lo yo-yo, conosceva bene la strada e la percorse meccanicamente; dopo aver meditato sulla cosa, decise di detrasformarsi nel vicolo sul retro e presentarsi, da persona educata, dalla porta principale.
Quando arrivò davanti all’edificio, però, scoprì che qualcuno doveva essere arrivato prima di lei, perché una volante della polizia era ancora parcheggiata davanti al marciapiede di fronte ed un agente di polizia stava segnando il posto come scena del crimine con il nastro a strisce.
Rimase un istante a fissare la scena da lontano, ferma ad un passo dalla strada ed incerta su cosa fare di lì in poi, si domandò se fosse saggio domandare all’agente cosa fosse accaduto, ma prima che potesse decidere fu lui ad accorgersi di lei ed a farle un cenno.
«Qualche problema, signorina?» le domandò.
«I- io...» balbettò Marinette. Poi prese coraggio e gli chiese: «Ero qui per prendere appuntamento per un massaggio.»
L’agente sospirò. «Il proprietario è stato aggredito ieri sera sul tardi, temo che dovrai cercare un altro centro massaggi.»
Marinette sentì il cuore fermarsi, avvertì anche la preoccupazione di Tikki, che all’improvviso non riuscì più a stare ferma ed iniziò ad agitarsi all’interno della sua borsa.
«Sta bene?» chiese, sapendo che avrebbe voluto farlo Tikki stessa.
Vide l’agente finire di sistemare il nastro ed assicurarsi che la porta d’ingresso fosse ben chiusa, poi allontanarsi per raggiungere la volante.
«Fino a questa mattina era in prognosi riservata, sembra che il proiettile sia penetrato in profondità, non so dirti altro.»
Marinette annuì, si trattenne dal domandare in quale ospedale fosse ricoverato, spaventata dall’idea che potesse destare sospetti, e arretrò ben decisa a mescolarsi tra la gente di passaggio fino a quando l’agente non si fosse allontanato. Di norma la strada in cui si trovava il centro massaggi era poco frequentata, ma sembrava che quel pomeriggio tutti volessero dare un’occhiata e curiosare per controllare cosa fosse successo.
Si rifugiò nell’androne di un palazzo e sollevò la borsetta per avere Tikki all’altezza del suo volto. «Spero davvero che Maestro Fu stia bene.» le disse.
Lei non rispose, distratta com’era a sporgersi verso il centro massaggi per riuscire ad avere una piccola occhiata.
«Vuoi che andiamo a cercarlo?» le domandò.
Forse sarebbe stato strano se si fosse presentata lì come Marinette a chiedere di uno sconosciuto, magari lo sarebbe stato altrettanto se fosse stata Ladybug a chiedere di lui, ma forse in quel caso avrebbe potuto usare la scusa di voler indagare. Se avesse finto che ora che Papillon era stato sconfitto avrebbe avuto il tempo di occuparsi di crimini comuni la polizia le avrebbe creduto? Forse si sarebbero sentiti minacciati ed avrebbe solo peggiorato le cose.
«Oh, Marinette.» disse Tikki, attirando la sua attenzione. «Dobbiamo entrare lì.»
Con un singulto strozzato, Marinette si trattenne dal darle della matta. «Lì dentro? Dopo che c’è stata la polizia? Ma- ma- ma... È un’effrazione! Potrebbero scoprirci, arrestarci, condannarci alla sedia elettrica!» Tikki premette le zampette sul suo polso, il gesto ebbe un immediato effetto calmante.
«In Francia non condannano alla sedia elettrica.» disse. «E dobbiamo prendere i Miraculous e metterli al sicuro.»
Deglutì, ovviamente Tikki aveva ragione, ovviamente non aveva alcuna scelta, ovviamente se avesse provato a cercare Chat Noir per avere una bella infusione di coraggio non l’avrebbe trovato e si sarebbe preoccupata ancora di più.
Si decise ad agire, ma non voleva che la gente associasse Marinette all’aggressione più di quanto potesse già fare dopo la sua visita, allora si ritrasformò e salì sul tetto dell’edificio, dove cercò un lucernario che potesse portarla all’interno senza che nessuno la vedesse e, una volta che fu nel corridoio, tornò Marinette in modo che Tikki potesse guidarla.
Il Kwami la condusse nella stanza in cui già altre volte Fu l’aveva ospitata, dove tutto sembrava quasi in ordine, a parte la grossa macchia di sangue al centro del pavimento là dove il maestro doveva essere caduto. Marinette represse un conato e premette una mano sulla bocca, ispirando forte per ricomporsi e placare l’agitazione che si muoveva nel suo stomaco. Vomitare in una scena del crimine non sarebbe stato una cosa buona; avrebbe rischiato di contaminarla, oltre che di farsi scoprire lasciando tracce del suo DNA, ma quante erano le possibilità che fosse stato aggredito per caso? Lo avrebbe scoperto a breve.
Aggirò le targhette che la polizia aveva posato sul pavimento per contrassegnare gli indizi e numerare le macchie di sangue e seguì Tikki verso la parete opposta; il grammofono era riverso per terra, ne vedeva solo la base, quindi si sporse per assicurarsi che fosse ancora ben chiuso. Lo era, allora si fece forza infilò la mano nella borsetta per sollevarlo senza lasciare impronte. Fu Tikki a premere il tasto perché si aprisse e rivelasse la scatola dei Miraculous, ma l’interno era vuoto.


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Capitolo 9
*** Maestro Fu (2) ***


MAESTRO FU - 2

Rena Rouge atterrò poco distante dal Collége Sant Dupioint, incerta sul da farsi. Tutte le volte che Ladybug aveva avuto bisogno del suo aiuto le aveva consegnato il Miraculous della volpe personalmente, c’era sempre stato un pericolo imminente al termine del quale era tornata a riprenderselo, per questo ora si trovava totalmente spiazzata. Papillon era in prigione, aveva presunto che il suo Miraculous ora fosse al sicuro nelle mani di chiunque avesse il compito di custodire i Kwami e tutto il resto, ma se non fosse stato così e ora fosse stato qualcun altro a vestire i panni della farfalla? Se ci fosse stato un Akuma che lei non era ancora riuscita a trovare e per questo Ladybug e Chat Noir ora avevano bisogno del suo aiuto?
Portò il flauto alle labbra, chiedendosi se fosse il caso di materializzare un qualche messaggio nel cielo che potesse richiamare i due e permettere loro di trovarla. Magari una sorta di Batsegnale avrebbe potuto aiutarla, ma avrebbe anche rischiato di attirare su di lei l’attenzione di potenziali nemici.
Mentre i suoi pensieri correvano a briglia sciolta, una figura ammantata di verde entrò nel suo campo visivo. Correva verso la Torre Eiffel, non sembrava averla vista e accanto ad essa non riuscì a scorgere nessun supereroe.
Deve essere lui, si disse, partendo all’inseguimento.
Lui sembrava distratto, forse troppo preso dalla sua maligna missione per accorgersi di lei, tanto che riuscì ad avvicinarsi al punto che avrebbe potuto afferrarlo e stenderlo senza problemi. Così fece, afferrandolo alle spalle – ignorando il suo rantolo di sorpresa – e spingendolo a terra con una ginocchiata al fianco. Ruotò su sé stessa e si rimise in piedi, strinse i pugni e divaricò le gambe, aspettando una reazione che non arrivò. Il ragazzo rimase steso per terra, gli occhi sgranati puntati contro di lei.
«Ragazzi! Che colpo tremendo!» esclamò.
Rena Rouge inclinò il capo, confusa, ma ondeggiò sulle ginocchia ben decisa a non mostrarsi esitante. «Alzati, chiunque tu sia, e dimmi cosa hai fatto a Ladybug e Chat Noir!»
Il ragazzo parve non capire, si mise a sedere e strofinò la mano sul punto su cui l’aveva colpito. «Si può sapere di cosa diavolo stai parlando?» le domandò.
«Sveglia!» fece Rena Rouge «I due supereroi di Parigi, i nostri grandi paladini!»
«So chi sono.» la interruppe lui. «Queen Bee mi ha dato il Miraculous per aiutare Ladybug fino a quando Chat Noir starà meglio.»
Rena Rouge si mise ritta sul posto e premette le braccia contro il proprio fianco; nessuno le aveva detto nulla al riguardo, nessuno si era preoccupato di farle sapere che c’era un nuovo eroe in città; era stato davvero poco carino, nei suoi confronti.
«Spiega.» ordinò indispettita.
L’altro eroe si rimise in piedi e si fermò davanti a lei, in bilico sul bordo del tetto piatto. «Chat Noir ha qualche problema, non so quale, e Queen Bee si sta occupando di lui.» spiegò. «Intanto io faccio da spalla a Ladybug mentre anche lei cerca di capire cosa sia successo.»
Rena Rouge sbuffò, pensando che quel tizio già non le piaceva, pronto com’era a fare di tutto per entrare nelle grazie di Ladybug. «Sono io la spalla, qui. Tu sei solo un novellino.»
Il ragazzo non sembrò prendersela più di tanto. «Ha due spalle, possiamo aiutarla entrambi.» disse.
Ma questo a Rena Rouge non importava, si domandò cosa avesse fatto lui per essere scelto, perché fin da subito gli avessero dato il Miraculous con tutte le intenzioni – almeno da quello che sembrava – di lasciarglielo a tempo indeterminato mentre a lei non era mai stato concesso.
«Ascolta, non mi importa se ti dà fastidio o se ti senti minacciata.» le disse il ragazzo. «Sono qui solo per aiutare e per cercare il mio amico, ok?» le disse.
La curiosità ebbe la meglio sull’astio, Rena Rouge non resistette dal domandare: «Quale amico?»
«Adrien Agreste.» rispose il ragazzo.
Per Alya, fu come sentire scattare qualcosa nella testa. La realizzazione successiva, inaspettatamente, fu la più stupida che avrebbe potuto avere: non aveva neanche chiesto al ragazzo quale fosse il nome da supereroe che aveva scelto.

Adrien decise di rimanere sul balcone di Marinette per alcuni minuti, approfittandone per riposarsi e nutrire il suo Kwami. La testa era piena di pensieri spiacevoli, dalla consapevolezza che suo padre fosse Papillon alla preoccupazione per Marinette che, al piano inferiore, non aveva ancora ripreso i sensi. Le domande che iniziavano ad affollare la sua mente erano numerose; cosa avrebbe fatto ora che il suo ultimo genitore era finito in prigione? Come avrebbe giustificato con Ladybug ciò che aveva fatto dopo che lei aveva perso i sensi? Avrebbe dovuto chiamare un dottore per assicurarsi che Marinette stesse bene o poteva stare tranquillo con le medicazioni improvvisate che le aveva fatto lui stesso? Cosa le avrebbe detto rivedendola? Come le avrebbe detto che sapeva?
Scosse il capo, cercando di non pensarci, si era già premurato di assicurarsi che l’arresto di suo padre andasse liscio, prima di tornare a vegliare su Marinette. Non riguardava la consapevolezza di non avere più un posto dove stare, un posto in cui potersi sentire al sicuro, ma la necessità di sapere che la persona che per lui era più importante stesse bene. Dopo il primo shock iniziale, la consapevolezza che sotto la maschera di Ladybug ci fosse la semplice, seppur fantastica Marinette, lo aveva spiazzato, ma ora realizzava ogni secondo di più che non avrebbe voluto che fosse altrimenti.
Strinse la spilla della farfalla tra le dita, avvertiva bene il suo peso contro il palmo, non vedeva l’ora di sbarazzarsene, ma Plagg non gli aveva ancora detto cosa doveva farne, impegnato com’era a mangiare il suo Camembert.
Adrien tornò a fissare il piccolo Nooroo che respirava piano, l’aveva lasciato sul tavolino in ferro battuto, spaventato dal pensiero che anche solo la sua presa potesse ferirlo, ma ora iniziava a domandarsi se anche a lui, dopo quello che aveva passato, non servissero cure migliori di quelle che poteva offrirgli lui. Il pensiero lo portò a domandarsi se quella sera non avesse fatto più danni che altro, tra Papillon e Ladybug, ma ormai non avrebbe potuto rimediare.
«Non sta morendo, vero?» domandò a Plagg. Il pancino del Kwami si sollevava e riabbassava ritmicamente, Adrien quasi temeva che da un momento all’altro smettesse di respirare. Ripensò al Kwami di Ladybug che, solo poche ore prima, aveva tenuto sul palmo e cullato a sé mentre era più o meno nelle stesse condizioni. O almeno era quello che gli era parso; forse aveva sbagliato a pensare che la sua fosse solo stanchezza derivata da quello che era accaduto, forse avrebbe dovuto fare di più anche per lei.
Si sporse verso il lucernario e tentò di scorgere Marinette e Tikki – come Plagg aveva detto che si chiamava – nella semioscurità.
«Tikki starà bene,» gli disse Plagg. «è Nooroo che mi preoccupa. Dovresti portarlo dal guardiano.»
Adrien annuì, lanciò un’altra occhiata all’interno della stanza da letto, per niente favorevole all’idea di allontanarsi, ma si fece forza e, con un sospiro stanco, attese che Plagg mandasse giù l’ultimo pezzo di camembert.
«Pronto.» gli disse il Kwami.
Adrien annuì. «Fuori gli artigli!»
Attraversò la città nascosto nell’ombra dei camini e delle tettoie, sfruttò i momenti in cui le nuvole smorzavano la luce della luna solo per abitudine. Il calore di Nooroo premuto contro il suo petto dalla chiusura del taschino lo accompagnò per tutto il viaggio, assieme al freddo della sera che preannunciava l’arrivo dell’inverno.
Seguire le indicazioni di Plagg fu più facile di quanto avrebbe immaginato, quando atterrò davanti alla bottega del massaggiatore si domandò quante volte Ladybug avesse fatto la stessa cosa e quante volte fosse stata senza maschera e se, sapendo prima dove cercare il guardiano, avrebbe potuto incrociarla. Si domandò se sarebbe riuscito a capire che fosse lei o se avrebbe considerato l’incontrare Marinette lì solo una coincidenza.
Bussò alla porta, certo che con tutto il trambusto che c’era stato in città quella sera il guardiano fosse sveglio. Forse li stava aspettando da ore, chissà se l’avrebbe sgridato per non essere arrivato prima?
Si preparò a bussare, il suono del colpo di pistola rimbombò per tutto il quartiere un istante prima che le sue nocche toccassero il portone. Il rumore era arrivato dall’interno, ne era certo, allora Chat Noir si decise a spalancare la porta con un calcio e si fece strada in corridoio. In fondo al corridoio c’era solo una stanza illuminata, qualcuno già gli stava correndo incontro, ma nonostante la sua visione notturna riuscì a scorgerne solo la sagoma tozza. Esitò, ciò diede all’uomo il modo di urtargli addosso e sbilanciarlo. Chat Noir sbatté contro la parete e si voltò, pronto ad inseguirlo e domandargli chi fosse e cosa volesse, ma il suo udito captò un gemito dall’interno della stanza illuminata, allora decise che informarsi sulla salute del guardiano fosse più importante.
Quando entrò nella stanza trovò l’uomo riverso per terra, lui lo cercò con gli occhi tendendo la mano e Chat Noir, prontamente, la strinse tra le sue.
«Adrien.» disse, con voce rotta. Tossì sangue, premeva il palmo contro lo stomaco, dove probabilmente era stato colpito. Il sangue sgorgava implacabile, allargandosi in una pozza che avrebbe a breve reso il pavimento scivoloso. «Prendi la scatola.»
Chat Noir esitò, il Kwami verde del guardiano gli svolazzò davanti al volto, allargando le braccia forse per attirare la sua attenzione.
«La scatola.» gli disse. «Da questa parte!»
Lo vide volare verso il mobile che stava addossato alla parete, premere un tasto che aprì il cassetto segreto del grammofono e rivelare la scatola dall’aria vecchia e preziosa. Non ebbe tempo di ammirare gli intagli e le decorazioni rosse che la avvolgevano, il Kwami lo invitò a prenderla. Obbedì e la strinse al petto con attenzione.
Chat Noir deglutì. «Ma Nooroo? Non sta bene, io non so come aiutarlo...»
Si udirono delle sirene in lontananza, Chat Noir non seppe dire se fossero dirette proprio lì; forse qualcuno aveva visto l’aggressore uscire ed aveva chiamato la polizia, forse era semplicemente una coincidenza, in ogni caso avrebbe preferito non scoprirlo troppo presto.
«Il- Il libro...» disse, la voce ridotta ad un sussurro.
«Papillon aveva un libro sui Miraculous.» spiegò il Wayzz. «Lì ci sono i rimedi per curare noi Kwami.»
«Devo andare a prenderlo.» realizzò allora Chat Noir.
Il guardiano strinse la presa su di lui come se volesse trattenerlo, provò a rialzarsi, ma ricadde indietro con un gemito di dolore. «Casa tua è pericolosa, non ci tornare.» gli raccomandò.
«Allora come faccio?» domandò Chat Noir.
Wayzz lasciò la stanza per alcuni secondi, tornò da lui con un mucchio di fotocopie spillate e gliele fece cadere tra le mani. «Qui c’è tutto quello che può servirti.»
Chat Noir riconobbe la prima pagina, l’aveva vista nel libro che mesi prima aveva rubato a suo padre, e ringraziò il cielo che il Guardiano avesse inserito diversi appunti a bordo pagina o attorno alle figure, ma non era certo che sarebbe stato all’altezza. Da quando era iniziata la sua avventura, forse per la prima volta tutte le aspettative erano riposte su di lui invece che su Ladybug.
Le sirene erano sempre più vicine, Duusuu lo spinse verso il corridoio. «Non puoi farti trovare qui.» gli disse. «Wayzz, vai con lui.» disse il guardiano. Tese il proprio Miraculous perché lo afferrasse, Chat Noir lo fece. «Ma Maestro... Chi si occuperà di te?» domandò il Kwami.
«Tenervi al sicuro è la cosa più importante.» disse lui, poi chiuse gli occhi.

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Capitolo 10
*** L'oscuro ***


L’OSCURO

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Adrien si ritrovò a fissare Marinette ed a realizzare quanto fosse realmente bella. Si concentrò sui riflessi dei suoi capelli sotto la luce del primo mattino, si rammaricò di essere troppo lontano per distinguere le lentiggini che le ricoprivano il naso e le guance e si domandò se la smorfia imbronciata in cui erano contratte le sue labbra fosse colpa sua.
Aveva ancora stampati in mente gli occhi strabuzzati di lei quando l’aveva aggredita, il modo in cui era fuggita spaventata mentre come Chat Noir aveva cercato di ucciderla. Se si concentrava poteva sentire ancora il calore della sua pelle sotto le dita così come era stato quando le aveva stretto le mani attorno al collo, il rimbombo del suo cuore impazzito dalla paura. Strinse i pugni, desideroso di dimenticare quel momento e di mettere da parte il pensiero di aver fatto del male ad una delle persone più importanti della sua vita, ma gli era impossibile, specialmente grazie a quella sensazione che si muoveva serpeggiando nel suo stomaco, quella sensazione che gli sussurrava di raggiungere Marinette e torcerle il collo prima che potesse rendersene conto.
Adrien scosse il capo e deglutì, ma nulla pareva riuscire a sopprimere quel pensiero che si faceva ogni minuto più spazio nella sua testa.
Vide Alya uscire da scuola e sollevò una mano per tirare il cappuccio della felpa giù sulla fronte, così che non potesse riconoscerlo. Marinette aveva il capo chino ed era distratta, ma Alya si guardò immediatamente attorno in cerca di volti conosciuti; salutò alcuni compagni di scuola che le passarono accanto e poi raggiunse l’amica e la strinse in un abbraccio.
Per un momento Adrien ebbe il dubbio che Marinette le avesse raccontato cosa era successo, si sporse verso la gradinata, tendendosi per ascoltare cosa si stessero dicendo, sentì una fitta al petto al pensiero che potesse aver scelto lei come confidente, che le avesse detto tutto quando si era rifiutata di farlo con Chat Noir, ma lei scosse il capo e sorrise, affermando:
«Ho solo dormito poco, tutto qui.»
Il chiacchiericcio degli altri studenti che lasciavano l’edificio coprì il resto della spiegazione, ma ora Adrien non poteva fare a meno di immaginarsi Marinette che si girava nel letto preoccupata dall’idea che lui potesse tornare ad aggredirla mentre dormiva.
Quando anche Nino uscì dalla scuola, Alya lo raggiunse e Marinette ne approfittò per scivolare via indisturbata. Adrien sentì Plagg muoversi nella sua tasca e sospirò.
«Ok,» disse il kwami. «Ora che l’hai vista possiamo andare, l’hai promesso.»
Ma qualcosa impedì ad Adrien di farlo, sentiva il bisogno fisico di andare più vicino che poteva a Marinette, i suoi piedi si mossero da soli su per le scale ed oltre l’ingresso, esitò mentre Marinette saliva per raggiungere la loro classe, dandole il tempo di distanziarlo abbastanza da non essere notato, poi le corse dietro passando in mezzo a decine di ragazzi distratti che parvero non degnarlo di un solo sguardo.
Quando raggiunse Marinette lei era già nell’aula e gli dava le spalle. Era china sulla scrivania, cercava qualcosa sotto di essa. Adrien entrò a sua volta, richiuse la porta dietro di sé e lasciò cadere il cappuccio sulle spalle, all’improvviso furono solo loro due ed i loro kwami e, inaspettatamente, quando Marinette sollevò lo sguardo su di lui, parve illuminarsi.
Adrien deglutì, la vista delle gote di lei che arrossivano gli provocò un fremito che corse dal petto alle braccia e poi raggiunse la punta delle dita, si morse il labbro e pensò a cosa dire, ma fu lei a parlare per prima.
«Adrien!» esclamò. «Dov’eri finito? Ti ho cercato... Ti abbiamo cercato dovunque!»
Gli corse incontro, ma mise un piede in fallo ed incespicò quasi rischiando di ruzzolargli addosso. Qualcosa nel vederla così preoccupata per lui fece scaldare il cuore ad Adrien, il pensiero di qualcuno che lo stesse aspettando e che volesse sapere di lui era come un bicchiere di acqua fresca bevuto dopo giorni di sete e deserto, ma non bastava a offuscare quella necessità perversa che vibrava dentro di lui.
Marinette lo raggiunse e si fermò ad un passo da lui, abbastanza vicina perché lui potesse piegare il gomito ed afferrarle un polso per trattenerla contro di sé.
«Adrien?» chiamò allora lei, gli occhi strabuzzati e lucidi, le ciglia scure e lunghe a cui Adrien fino ad allora non aveva mai fatto caso. Ora che era abbastanza vicino da poter vedere ogni singola lentiggine di lei, poteva sentire sul petto il suo respiro pesante ed il suo profumo che lo stordiva.
«Stai bene?» domandò ancora Marinette.
Fece scivolare una mano oltre il suo polso, desideroso di sentire appieno il suo calore. Sapeva che avrebbe dovuto risponderle, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dalle sue labbra rosee ed il pensiero che solo chinandosi avrebbe potuto baciarla gli fece dimenticare ogni parola che conosceva. Premette le dita contro il suo palmo bollente, trovando ciò che probabilmente lei era tornata a prendere. Riconobbe il taglierino al tatto, glielo sfilò di mano e fece scorrere la punta del pollice sul bordo seghettato dell’involucro in plastica della lama. Le dita di Marinette gli sfiorarono il dorso della mano, le pupille nere si dilatarono al punto da permettergli di vedervi dentro il riflesso dei propri occhi. E poi c’era il suo respiro, un miscuglio di menta e zucchero che gli fece tremare le gambe e bruciare le orecchie più di quanto avesse fatto qualunque altra cosa nella sua vita. Le labbra rosse erano dischiuse, se si fosse piegato verso di lei avrebbe potuto facilmente poggiarvi sopra le proprie, allora avrebbe scoperto che sapore avessero i baci di Marinette. I baci di Ladybug.
Strinse la presa sul taglierino, premette il pollice sulla leva per guidare la lama all’esterno, fu allora che sentì Plagg spingerlo indietro con forza e quasi perse l’equilibrio. Urtò il fianco contro la cattedra e Marinette, stordita, fissò ad occhi spalancati sia lui che il kwami.
«Vai!» le disse Plagg. «Corri!»
E lei obbedì, girandogli attorno e correndo verso la porta, la maglia chiazzata di sangue.
Adrien guardò il taglierino sporco che stringeva in mano, rendendosi contro solo in quel momento di ciò che aveva fatto.

Ladybug si arrampicò su per il cornicione, trattiene il fiato nell’issarsi su per il davanzale e sbuffò nel prendere lo slancio con la gamba per scavalcarlo.
Una volta che ebbe messo il piede dall'altra parte usò la caviglia per trascinarsi all'interno e, con un ultimo movimento di braccia, si lasciò cadere nella stanza. Una volta dentro, ancora stesa a pancia in su, chiuse gli occhi e inspirò profondamente per riprendere fiato. Sentiva la tenda sopra di lei si agitarsi violentemente a causa del vento che soffiava dall’esterno, ma non ebbe la forza di alzarsi e fermarla, impegnata com’era a premere la mano contro la ferita aperta.
Tese un braccio, sfiorò il lembo inferiore della stoffa leggera e sospirò, nel sentirla che le sfiorava le dita sfuggendo alla sua presa.
Qualcuno rise di lei, Ladybug sussultò e si spostò su un fianco ad occhi spalancati, trovò subito la figura nella penombra. Apparentemente, Chat Noir non aveva neanche provato a nascondersi e lei era stata sciocca, distratta ed ingenua a pensare che non l’avrebbe ritrovata così facilmente.
Sì alzò con tanta fretta da non riuscire ad evitare lo spigolo della finestra, quello le premette sul braccio, ma non scalfì la tuta magica.
«Cosa ci fai qui?» chiese.
Lui sorrideva, perfino nel buio riusciva a scorgere il velo di malizia all'interno dei suoi occhi. Stringeva ancora la lama tra le dita, inclinò il capo come per studiarla; solo dopo alcuni secondi Ladybug lo vide andarle incontro.
«Ascoltami,» disse «qualunque cosa ci sia che non va la possiamo sistemare. Non devi farlo per forza.»
Ma lui sorrideva ancora e in quel sorriso lei vide tutto ciò che non avrebbe mai voluto vedere in lui.
Chat Noir non le rispose, invece si avvicinò sempre di più e Ladybug si sforzò di non muoversi anche se sentiva le gambe tremare. Era stanca di correre via da lui, stanca di non potergli parlare e, ancora di più, non riusciva ad accettare che lui volesse farle del male. Tenne gli occhi fissi sul coltello, pronta a reagire al primo cenno che volesse colpirla ancora.
«Chat Noir, non lo fare. So che tu non sei questo, qualunque cosa sia successa possiamo risolverlo insieme.» disse ancora.
Ma lui ancora non le rispose, ancora le si avvicinava, ancora stringeva le dita attorno all’elsa della sua arma improvvisata. Era un semplice coltello da cucina, pensò Ladybug, forse l'aveva trovato addirittura nella sua, di cucina.
Pensò per un momento ai suoi genitori, alla possibilità che lui avesse potuto aver fatto loro del male.
«Chat Noir,» gli disse un’altra volta. «lascia che ti aiuti.»
Fece un passo in avanti, le mani tese pronte ad afferrare il polso di lui per impedirgli di colpirla col coltello, ma lui non mosse subito quel braccio, invece la afferrò con l'altra mano e la costrinse a ruotare su sé stessa e, solo dopo infilò la lama nel suo fianco, proprio accanto al punto dove l’aveva colpita l’ultima volta.


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Capitolo 11
*** Le ombre di Villa Agreste (1) ***


LE OMBRE DI VILLA AGRESTE - 1

Marinette richiuse la porta dello stanzino dietro di sé e si piegò sulle ginocchia trattenendo il fiato. Il cuore le batteva forte, si appoggiò contro la mensola e tese l’orecchio, sperando di non sentire i passi di Adrien. La testa ronzava, il volto di Adrien che spalancava le labbra dopo aver realizzato ciò che aveva fatto non voleva lasciare la sua mente. Era rimasto fisso lì e occupava tutto il suo campo visivo ogni volta che chiudeva le palpebre. Tutto ciò che di lei non era impegnato a ricordare quel dettaglio era ancora impegnato a rifiutare l’idea che Adrien fosse Chat Noir.

Con una mano premuta contro il braccio dolorante si abbandonò contro la parete alle sue spalle, tra le dita sentiva di nuovo il sangue che scorreva dalla ferita ora riaperta.

Scosse il capo e trattenne le lacrime, Tikki volò nella penombra e si sollevò per prenderle il volto tra le zampette.

«Non può essere lui...» sussurrò Marinette. «Lui... Lui è Adrien, se fosse stato lui l’avrei capito.»

Tikki distolse lo sguardo dal suo, esitò prima di tornare a guardarla.

«Marinette...» disse.

Allora Marinette non riuscì più a trattenere le lacrime. «Lo sapevi, tu l’hai sempre saputo e non me l’hai mai detto.»

La realizzazione la colpì come un macigno, la consapevolezza del tradimento la fece vacillare e lei dovette afferrare il bordo di una mensola per tenersi in equilibrio, le dita sfiorarono un flacone di candeggina e lei rabbrividì.

«Perché non me l’hai mai detto?» le domandò.

Poi domandò a sé stessa cosa sarebbe cambiato se lei l’avesse fatto, tutto il tempo che era andato sprecato a causa di un segreto che lei stessa era stata così ostinata a voler mantenere. Immaginò come sarebbe potuta essere la rivelazione, se avesse assecondato le richieste di Chat Noir. Forse ci sarebbero stati abbracci, baci, coccole e cene romantiche in cima ai tetti di Parigi, forse lui le avrebbe baciato la mano come faceva sempre quando era Ladybug, ma non ci sarebbero state maschere tra loro. Forse avrebbe visto gli occhi di Adrien illuminarsi nel vederla proprio come aveva sempre immaginato facessero gli occhi deli innamorati.

Spinse via Tikki e si asciugò le lacrime. Forse, semplicemente, lui avrebbe cambiato idea e deciso che non valeva la pena di rincorrere Ladybug perché non gli piaceva abbastanza colei che si nascondeva sotto quella maschera.


Il giorno dell’arresto di Papillon

La voce di Gabriel Agreste fu un sussurro, quando lo chiamò.

«Adrien...»

Ma il ragazzo non gli rispose, raccolse da terra gli orecchini della coccinella ed il suo kwami e si allontanò da lui assieme a Plagg.

«Mi dispiace.» disse Gabriel. Era rimasto nell’angolo, quasi nascosto dalla penombra portata dalle prime ore della sera. Oltre la vetrata a rosone il cielo stava perdendo i toni dell’arancio e del rosa per dare spazio al blu della notte, le prime stelle iniziavano ad essere visibili nel cielo, anche se offuscate dalle luci della città.

Adrien distolse lo sguardo dal cielo e lo portò al pavimento, Marinette giaceva supina ad occhi chiusi, uno dei codini scombinato e l’altro totalmente sciolto. Adrien si chinò e poggiò Tikki al suo fianco, le passò un dito sulla fronte per liberarla dai capelli umidi e mise una mano dietro la sua nuca per sollevarla da terra. Quasi tremava, quando la strinse a sé e premette la sua guancia contro il proprio petto. Le baciò la testa, dando le spalle al suo padre.

«Non mi interessa.» gli disse. «Ti avevo detto di non farlo, che era un errore, ma tu non mi hai ascoltato, non mi ascolti mai.»

Attese una replica che non arrivò, forse per la prima volta suo padre era rimasto senza parole.

Sbuffò. «Devo portare Marinette a casa, posso fidarmi del fatto che resterai qui?»

Gabriel sospirò. «Sì.»

Adrien lasciò scivolare gli orecchini nella tasca della camicia, scambiò un’occhiata con Plagg, che si era accovacciato affianco a Tikki e poi si trasformò. Si disse che suo padre non aveva ragione di mentirgli e fuggire, che poteva fidarsi delle sue parole, che dopo ciò che era successo forse tutto era finito, o sarebbe potuto esserlo se non fosse stato per le Ombre.

Scacciò quei pensieri e sollevò la spalla, questo fece finire la testa di Marinette sotto il suo mento, allora il suo respiro gli iniziò a solleticare il collo e lui fremette a quella sensazione.

«Tornerò a controllare.» disse a suo padre, voltandosi a guardarlo. Non aveva davvero voglia di rivederlo, ma voleva essere certo che la polizia lo portasse via.

Uscì dal covo di Papillon e scese in giardino, si assicurò che Tikki fosse ben incastrata tra lui e Marinette e si arrampicò sul tetto. Esitò un solo istante prima di saltare sul successivo.

Correre sui tetti non gli era mai parso così difficile e poco esaltante, il peso di Marinette svenuta tra le braccia non era confortante quanto avrebbe voluto che fosse e prima di accorgersene furono sul tetto della panetteria. La botola sul pavimento era aperta, probabilmente da quando lei l’aveva raggiunto ore prima per parlare di Papillon e di quello che avrebbero fatto con lui, ed Adrien prestò la massima attenzione nel calarsi sul letto senza fare del male alla ragazza.

La posò sul materasso con cautela, lasciando scivolare la sua testa sul cuscino con tutta la dolcezza di cui era capace e si detrasformò, restando immobile al suo capezzale. Strinse i pugni, ripensando a quello che avrebbe potuto fare per evitare che lei si ferisse, a quanto era stato stupido ed inutile quel pomeriggio. Rifacendo brevemente due conti su quello che era accaduto, nulla e nessuno avrebbe potuto convincerlo che non fosse colpa sua.

Spostò Tikki dal materasso su cui era scivolata al comodino e posò al suo fianco gli orecchini.

«Sento le rotelle della tua testa che girano perfino da qui.» gli disse Plagg.

Adrien sollevò un sopracciglio, non gli piaceva lo sguardo del kwami; era abituato a occhiate seccate, supplicanti, indispettite, ma era la prima volta che leggeva il biasimo nei suoi occhi, che sentiva che aveva da dirgli qualcosa che non gli sarebbe piaciuto sentire.

«Avrei dovuto impedire a mio padre di colpirla.» disse. «E non avrei dovuto ascoltarlo, dopo.»

Plagg scosse il capo. «No, non farlo. Non pensarlo e non rimuginarci sopra, hai fatto quello che pensavi fosse giusto in quel momento e vedrai che Marinette e Tikki staranno bene; mangiamoci su mentre riposano.»

Adrien storse il naso e tornò a guardare l’amica, non voleva lasciarla lì, le sfiorò una guancia con il dorso della mano e si chinò su di lei.

«Adrien!» lo chiamò Plagg. «Ascoltami; ho fame e sono stanco, hai promesso che saresti tornato a controllare tuo padre, ma se non vuoi farlo va bene. Trovami solo un po’ di formaggio.»

Il ragazzo sbuffò. «No, andiamo.» disse. Premette le labbra sulla fronte di Marinette e strofinò il naso tra i suoi capelli per inspirarne il profumo.

«Mi dispiace, prometto che rimedierò.». Poi si costrinse a ritrasformarsi e se ne andò.

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Capitolo 12
*** Le ombre di Villa Agreste (2) ***


LE OMBRE DI VILLA AGRESTE - 2

Ladybug si sporse oltre la porta del ripostiglio del bidello e guardò cauta il corridoio. Sembrava che il campo fosse libero, allora uscì silenziosamente e si diresse verso le scale in punta di piedi. Avrebbe voluto poter parlare con Maestro Fu, ma sapeva che sarebbero state solo lei e Tikki, da sole contro qualunque cosa fosse accaduta a Chat Noir, che era Adrien Agreste. Ancora non riusciva a credere che fosse vero, a tutte le volte che il ragazzo le aveva dichiarato il suo amore e lei l’aveva liquidato senza troppe esitazioni, ma non aveva tempo per pensarci e crogiolarsi nel pentimento. Si sporse oltre la balaustra e guardò verso l’atrio ormai vuoto. Stava quasi per tirare un sospiro di sollievo quando scorse l’ombra di Chat Noir con la coda dell’occhio.

Non era sicura di dove si fosse nascosto nell’attesa che lei uscisse dal nascondiglio, forse aveva sempre saputo dove fosse grazie ai suoi sensi sviluppati, ma questo non aveva assolutamente alcuna importanza. «Mi dispiace.» gli disse. «Qualunque cosa io abbia fatto per spingerti a comportarti così, mi dispiace.» Lui scosse il capo.

«Non hai fatto assolutamente nulla.» le disse. «Ma devi andare.»

Aveva ancora il taglierino aperto in mano, la lama era ancora imbrattata di sangue.

Marinette portò una mano al fianco, la pelle bruciò contraendosi in una fitta di dolore sotto le sue dita e lei si domandò quando fosse successo.

«Perché stai facendo questo?» gli domandò. Lasciò che lui si avvicinasse, il cuore le batteva forte ma la sua mente continuava a ripeterle che lui era il suo Chat Noir, che non le avrebbe mai fatto del male di sua volontà. «Chi ti sta costringendo?»

Gli occhi di Chat Noir si strinsero quando fu a poche decine di centimetri da lei, Ladybug lo vide sollevare una mano pronto a colpirla e si fece di lato appena in tempo perché i suoi artigli colpissero la ringhiera invece che lei.

Lanciò lo yo-yo e si issò fuori dalla sua traiettoria, saltando sul tetto. «Combattilo, so che puoi farlo!» gli disse.

Lui le saltò dietro, ma al contrario di lei non esitò sul bordo del cornicione, così Ladybug scivolò sulle tegole e rischiò di finire giù in strada. Cercò di tornare verso il culmine del tetto, ma mise un piede in fallo e cadde giù sotto gli occhi attoniti degli studenti appena usciti da scuola. Lanciò ancora lo yo-yo e vi rimase appesa, i sospiri sollevati dei passanti le rimbombarono in testa e quasi sospirò di sollievo. Poi Chat Noir si affacciò dal cornicione e guardò giù. Ladybug sganciò lo yo-yo e percorse in caduta libera i pochi metri che la separavano da terra, usando quei pochi istanti per voltarsi ed atterrare sul ginocchio. Attorno a lei decine di ragazzi puntarono gli occhi sgranati verso di loro. Confusi ed ansanti, alcuni di loro si guardarono attorno, forse in cerca di un’akuma, forse solo per capire se stesse arrivando qualcuno a prestare soccorso.

In una frazione di secondo Chat Noir si accucciò sul tetto, Marinette lanciò ancora lo yo-yo ed ancora lasciò che il suo filo si trascinasse via. Chat Noir atterrò sul marciapiede, proprio dove lei era stata appena un istante prima, con gli artigli sguainati.

Ladybug corse di tetto in tetto, non si azzardò a voltarsi per controllare se Chat Noir le fosse ancora alle calcagna, ma si domandò perché fosse tornato a cercarla proprio in quel momento, perché non era rimasto nell’ombra e perché, se Papillon lo stava controllando, non l’avesse ancora fatto evadere. A meno che non l’avesse fatto mentre lei era a scuola e semplicemente non le fosse ancora arrivata la notizia. Forse voleva prima liberarsi di lei.

Non si accorse di essersi fermata finché non sentì Chat Noir afferrarla alle spalle e spingerla a terra, la guancia urtò contro una tegola e lei gemette avvertendola bruciare.

«Adrien, ti prego, non farlo.» supplicò.

Chat Noir le spinse il capo contro la superficie del tetto e la tenne inchiodata lì, Ladybug tentò di divincolarsi, ma la presa di lui sulle sue braccia glielo impedì.

«Tu non sei così, tu non faresti mai del male a nessuno.» gli disse.

Ma lui non rispose e non allentò la presa, ringhiò ed il suo petto vibrò contro la schiena di Ladybug.

«Adrien.» provò ancora. «Io mi fido di te, so che non mi farai del male.»

Sperò di avere ragione, le dita di lui premettero forte contro la sua pelle, era certa che gli artigli avrebbero lasciato la loro impronta anche attraverso il costume magico. Quando lui allentò una mano e la sollevò pensò di essere riuscita a farlo rinsavire, ma poi lui esclamò:

«Cataclisma!»

Il cuore di Ladybug si fermò e lei strinse gli occhi, trattenne le lacrime mentre aspettava che lui la disintegrasse, realizzò che avrebbero finalmente scoperto cosa sarebbe successo nell’usare quel colpo contro qualcosa di vivo ed aspettò di sentire il palmo di lui premere contro la sua schiena.

Attese il dolore, il buio della morte o qualunque cosa venisse dopo, ma avvertì solo uno scossone e l’altra mano di Chat Noir si allentò, lui venne sbalzato di lato e Ladybug scivolò lungo le tegole, Rena Rouge la bloccò prima che potesse finire giù in strada.

Si voltò a cercare Chat Noir e scoprì Carapace immobile tra loro, lo scudo sollevato pronto a difenderle. Chat Noir, inaspettatamente, si voltò e corse via.

Quando ebbe ripreso fiato, Ladybug strinse la mano di Rena Rouge ed aspettò che lei la sollevasse, il cuore le batteva ancora forte nel petto e la sensazione di essere sull’orlo di un precipizio non la abbandonava. Era stordita, i pensieri le si affollavano confusamente in testa, mentre era ancora incredula nell’accettare che Rena Rouge e Carapace fossero davvero arrivati a salvarla al momento giusto. Il pensiero che fosse successo qualcosa a Maestro Fu e che lei non sarebbe stata in grado di trovarlo le rimbalzò in testa, assieme alla consapevolezza che qualcuno aveva lo scrigno dei Miraculous e continuava a seminarli in giro.

«Chi te l’ha dato?» domandò all’amica. «Il Miraculous, intendo.»

Rena Rouge sgranò gli occhi, le sfiorò il braccio e la sorresse per aiutarla a mantenere l’equilibrio e Ladybug inspirò forte per riprendere fiato.

«Pensavo che me l’avessi lasciato tu.» le disse. «Posso restituirlo, se vuoi.»

Ladybug scosse il capo. «Tienilo, sento che avremo bisogno di più eroi possibili.»



Il giorno dell’arresto di Gabriel Agreste:

I poliziotti sciamavano tutto attorno a Villa Agreste e Chat Noir, in attesa sul tetto dell’edificio di fronte, Chat Noir scorse subito in mezzo a loro la sagoma di suo padre.

Gabriel Agreste camminava a capo chino, le manette già gli bloccavano le mani dietro la schiena, le spalle cadenti esprimevano tutta la sua rassegnazione. L’agente lo condusse verso la volante, giornalisti e cameramen li seguirono passo dopo passo e le loro domande arrivavano alle orecchie di Chat Noir come fossero un chiacchiericcio indistinto. Tra i primi accorsi c’era Nadja Chamack, che tendeva il microfono verso il redento Papillon.

Chat Noir scese a terra, i giornalisti corsero verso di lui proprio mentre l’agente spingeva suo padre nella volante. Rimase da solo, i microfoni e le telecamere puntati contro, la gola secca per l’incapacità di trovare qualcosa da dire. Quasi non sentiva ciò che gli stavano chiedendo.

«Chat Noir, come avete scoperto che a nascondersi sotto le spoglie di Papillon c’era Gabriel Agreste?» «Avete pianificato l’attacco, tu e Ladybug?»

«Lei dov’è, adesso?»

«Avete già pensato a cosa farete adesso?»

«Adrien Agreste sa già quello che è successo?»

Dischiuse le labbra, ma nessuna parola abbandonò le sue labbra. La realizzazione di quali fossero le conseguenze dell’arresto di suo padre lo raggiunse solo in quel momento e, guardando verso casa sua, capì che ora nulla sarebbe stato come prima. Il posto in cui aveva vissuto era diventato una scena del crimine e sede di un fenomeno paranormale a cui non si era ancora fermato a pensare, non era certo di voler tornare dentro anche solo per prendere le proprie cose, questo rendeva ufficiale il fatto che non avesse più un posto dove dormire.

Almeno, si disse, fuori dalla maschera la stampa non avrebbe avuto idea di dove trovarlo.

L’agente Roger si fece spazio tra i giornalisti a bracciate, ordinando loro di calmarsi e di dargli un po’ di spazio e, quando lo raggiunse, gli sorrise.

«Bel lavoro.» gli disse e si sistemò il cappello. «Ti dispiace venire in centrale e raccontarci in breve come è andata?»

Chat Noir sorrise, lieto che questo gli desse la scusa perfetta per defilarsi, e si lasciò alle spalle decine di facce curiose e deluse dietro microfoni e videocamere.

L’agente Roger non lo guidò verso la volante in cui avevano caricato suo padre, ma verso quella parcheggiata immediatamente dietro. Invece di aprirgli lo sportello posteriore gli aprì quello anteriore dalla parte del passeggero e lo invitò a salire. Chat Noir notò che l’uomo continuava a guardare verso la casa, ma quando si girò a sua volta non trovò nulla.

«Vi raggiungo.» disse l’agente Roger, e diede le chiavi al collega che aveva accanto.

L’uomo annuì e fece come gli aveva detto; salì in macchina e mise in moto.


Mezz’ora dopo, alla centrale, Chat Noir raccontò di come Papillon aveva colpito Ladybug facendole perdere i sensi e di come, subito dopo, l’aveva costretto a dargli i suoi orecchini. Non era esattamente la verità, ma era la cosa più vicina ad essa che potesse dire loro. Poi avrebbe parlato con Ladybug al riguardo e con lei avrebbe deciso cosa fare.

Quando gli diedero il permesso di vedere suo padre scoprì con rammarico di non avere nulla da dirgli, quindi rimase in piedi nella sala degli interrogatori e stette in silenzio finché non fu lui a parlare.

«Avrebbe dovuto funzionare.» disse l’uomo, seduto composto sulla sedia di ferro, le mani costrette sul tavolo dalle manette.

«Ma non l’ha fatto.» gli ricordò.

«Potremmo riprovare.» gli propose suo padre.

A Chat Noir parve che quasi sorridesse, forse in un vano tentativo di ispirargli fiducia, ma lui scosse il capo. «Non avrei dovuto ascoltarti, specialmente dopo quello che hai fatto a Ladybug.»

Ricordò il suo gemito di dolore, il modo in cui era caduta a terra ed aveva perso i sensi prima che lui potesse rendersene conto. «Lei starà bene.» insistette lui.

«Non importa, tu l’hai ferita ed io ti ho permesso di farlo. Non accadrà di nuovo, non tollererò che tu ti avvicini più a lei finché sarò vivo.» gli disse. Digrignò i denti, quasi gli soffiò contro, sentì ogni pelo del suo corpo rizzarsi mentre si sporgeva verso di lui a denti scoperti. «Mai più, sono stato chiaro?»

Gabriel non rispose, ma Chat Noir non se ne preoccupò, perché preferì dargli le spalle ed andarsene. Aveva cose più importanti a cui pensare, come la spilla della farfalla che sarebbe stata premuta contro il suo petto una volta che si fosse detrasformato, bloccata sulla stoffa del taschino interno della camicia.

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Capitolo 13
*** Le ombre di Villa Agreste (3) ***


LE OMBRE DI VILLA AGRESTE - 3

Carapace le raggiunse tra le guglie di Notre Dame, là dove già una volta aveva incontrato Ladybug, ed era solo.

«Non l’hai fermato?» gli domandò Rena Rouge fissandolo a braccia incrociate.

Ladybug si era seduta accanto ad uno dei gargoyle, la mano premuta contro il fianco per nascondere alla vista dei due amici il sangue che ancora imbrattava il suo costume nonostante il suo flusso si fosse fermato.

Ancora non riusciva a capire perché Chat Noir non fosse tornato ad attaccarla subito, perché avesse aspettato e si fosse presentato da lei come Adrien. Forse contava di coglierla di sorpresa, in quel modo, ma allora avrebbe potuto farlo benissimo anche la notte precedente, mentre tentava inutilmente di prendere sonno.

«Ladybug?» domandò Carapace, distogliendola dai suoi pensieri. «Tutto bene?»

Lei sospirò e si sforzò di sorridere, anche se aveva appena scoperto di aver sempre conosciuto il ragazzo che vestiva i panni del suo compagno di squadra, anche se l’amore della sua vita aveva appena provato a ucciderla - per la seconda volta - e voleva solo sparire o infilarsi sotto le coperte per piangere fino a prosciugarsi. Da dove erano riusciva a vedere Villa Agreste, sembrava una casa normale in una normale strada di Parigi e in una giornata normale, ma lei sapeva bene che ormai non era più così.

«A Chat Noir è successo qualcosa, l’altro giorno.» disse.

Rena Rouge annuì.

«Cosa può averlo portato a volerti morta?» domandò.

Ladybug scrollò le spalle. «Non lo so, ma è iniziato tutto a Villa Agreste, Nadja Chamack ha portato lì sua figlia contro la sua volontà e lei era terrorizzata, io e Chat Noir ci siamo tornati per salvarla e dopo – quando eravamo fuori e pensavamo di aver risolto – qualcosa ha riportato lui dentro.»

«Qualcosa tipo cosa?» chiese Carapace.

«Qualcosa di oscuro che deve essersi liberato durante lo scontro con Papillon, ne sono certa. Se solo capissi cosa...»

Rena Rouge si portò due dita al mento e strinse gli occhi, il vento le agitò i capelli mentre rifletteva. «Dobbiamo ripercorrere i passi di ciò che è accaduto quel giorno.» realizzò.

Ladybug si morse il labbro, ripensare alla mattina in cui si era svegliata a casa sua ed aveva trovato gli orecchini posati sul comodino era ogni volta come sentire la terra venire a mancare sotto i piedi.

«C’è un problema, però.» disse all’amica. «Durante lo scontro finale con Papillon sono stata ferita ed ho perso i sensi, non ricordo nulla di quello che è successo fino al mattino dopo.»

Rena Rouge sbatté gli occhi ed annuì, Carapace approfittò di quel momento per farsi più vicino.

«Qualunque sia la causa è successo nel lasso di tempo in cui sei stata svenuta.»

Ladybug tornò a pensare al fatto che Chat Noir avesse dovuto affrontare Papillon senza di lei, ma per la prima volta poté davvero capire cosa comportava ciò. Adrien Agreste aveva affrontato suo padre, l’aveva sconfitto e l’aveva riportata a casa, prima di scomparire nel nulla. Dove aveva dormito? Chi si era occupato di lui e l’aveva aiutato a curare le sue ferite emotive? Adrien si era ritrovato all’improvviso senza una famiglia.

Con il cuore spezzato ed un groppo in gola, Marinette si ripromise che gli avrebbe dato tutto l’amore ed il calore umano che avrebbe potuto una volta che fosse riuscita a liberarlo dalla possessione ed a riportarlo a vivere alla luce del giorno. Ovviamente, se lui non avesse voluto restare con lei, se ne sarebbe fatta una ragione e l’avrebbe lasciato andare.

«Purtroppo l’unico che sa come sono andate le cose è proprio Chat Noir.» disse.

«E il signor Agreste.» concluse Carapace.

Ladybug alzò lo sguardo e lo fissò, si rese conto di aver escluso a priori la possibilità di poterlo chiedere direttamente a lui, forse perché non era certa di potersi fidare di lui. Ma non si trattava più di Papillon e Chat Noir; ora il problema riguardava Adrien e Gabriel Agreste e, per quanto l’uomo potesse essere freddo, distante e con tendenze da supercattivo, voleva continuare a pensare che amasse ancora profondamente suo figlio. Ora sarebbe stato necessari capire se lui conoscesse o no la vera identità di lui.

Quando si era svegliata, rifletté, non aveva avuto gli orecchini alle orecchie, quindi probabilmente ad un certo punto Papillon era riuscito a rubarle il Miraculous mentre era inerme. Poteva dare per scontato che fosse riuscito a prendere anche quello di Adrien, smascherandolo?

E poi, forse, lui era riuscito a farlo ragionare, a convincerlo a restituire i Miraculous prima di riportarla a casa. Con un sussulto del proprio cuore, Marinette provò ad immaginare il ragazzo che la sollevava tra le braccia ed attraversava Parigi stringendola a sé per riportarla al sicuro in camera sua, che la posava sul letto e le rimboccava le coperte con affetto. Scrollò il capo per liberarsi di quei pensieri frivoli.

No, pensò, se Adrien ora era posseduto allora Papillon doveva di certo essere riuscito a fare qualcosa, prima che il ragazzo riuscisse a fermarlo ed a consegnarlo alla giustizia. Deglutì per calmare il conato di vomito che le era balzato in gola al pensiero di Adrien che, da solo, cercava di affrontare inutilmente suo padre e decise che non c’era scelta.

«Bene allora.» disse. «Se non potremo parlare con Chat Noir lo faremo con il signor Agreste.»

Si morse l’interno del labbro, non aveva davvero voglia di farlo, ma non c’era scelta. Se così avrebbe potuto aiutare Adrien se ne sarebbe fatta una ragione. Era solo infinitamente grata che con lei ci fossero Carapace e Rena Rouge, mentre si domandava dove fossero Chat Noir e Queen Bee in quel momento e se lei si stesse occupando adeguatamente di lui.

Ladybug fu la prima a saltare giù dal tetto, usando un solo braccio oscillante per mantenersi in equilibrio, mentre cercava di muovere l’altro il meno possibile per fare in modo che la ferita bruciasse il meno possibile. Sperò che il costume magico risolvesse la cosa per lei, che il taglio appena fatto da Adrien riuscisse a guarire prima di sera.

Si chiese se Adrien, all’inizio, l’avesse evitata perché si era sentito messo da parte; non sarebbe certo stata la prima volta che accadeva, e immaginò che, forse, se lui avesse conosciuto la sua identità già da prima dello scontro finale, si sarebbe rifugiato in camera sua quella stessa sera. Se fosse accaduto, lei ne era certa, non l’avrebbe più lasciato andare.

Nei giorni precedenti Parigi era stata tranquilla, ma ora che tre supereroi scorrazzavano alla luce del giorno sui tetti tutti sembrarono prenderlo come un cattivo segno. Molti alzavano gli occhi e si guardavano attorno, come se si aspettassero di vedere saltare fuori qualche supercattivo all’improvviso, altri abbandonavano la strada per rifugiarsi all’interno degli esercizi commerciali più vicini. Un paio di poliziotti portarono alle labbra la radiotrasmittente e comunicarono qualcosa ai colleghi.

Presto furono davanti alla stazione di polizia, saltarono direttamente sul marciapiede per evitare di intasare il traffico e, al loro arrivo, i due agenti che erano fermi sull’uscio sobbalzarono e portarono la mano alla cintura, posando le dita sulla pistola. Dopo aver capito chi avevano di fronte, sospirarono e si rilassarono.

Con un sorriso mesto, Ladybug si domandò se fosse il caso di chiedere loro scusa per averli spaventati.

All’oscuro dei suoi dubbi, Carapace sollevò il volto verso uno dei due e sorrise. «Salve, Amico – agente – vorremmo sapere se sarebbe possibile parlare con il padre di Adrien. Il signor Agreste, intendo. Possiamo parlare con il signor Agreste?»

Ladybug gli lanciò un’occhiata, poteva vedere il sorriso intenerito di Rena Rouge oltre la spalla di Carapace, mentre la ragazza lo osservava a braccia incrociate.

Lo sguardo cupo dell’agente le fece pensare che gli avrebbero detto di no, che forse in qualche modo l’incontro con Gabriel Agreste del giorno precedente fosse stato un’eccezione, che ora nessuno di loro avrebbe potuto incontrarlo. E intanto per strada altre persone rallentavano per osservare, dozzine di volti si fissavano su di loro con curiosità. Qualcuno sollevò il telefono per scattar loro qualche foto, ma Ladybug non volle perdere tempo a preoccuparsene.

L’agente le lanciò un’occhiata come a chiederle conferma, le sopracciglia corrucciate e le labbra tirate.

«Sarebbe davvero di grande aiuto.» gli disse allora Ladybug, cercando di usare il tono più caldo possibile.

Lui annuì e scambiò un’occhiata con il proprio collega, che allora si fece da parte ed indicò loro di entrare nell’anticamera.

Ladybug precedette Carapace e Rena Rouge e sorrise a chi era all’interno. Il ragazzo fece loro un cenno dall’altra parte del vetro e premette il pulsante. La porta principale della centrale si aprì con uno scatto e, oltre essa, l’Agente Roger pareva aspettarli.

«Seguitemi, prego.» disse.


Il giorno dell'arresto di Gabriel Agreste:

L’agente Roger guidò Chat Noir verso la volante posteggiata dietro quella in cui avevano fatto salire Gabriel Agreste, gli aprì lo sportello lo anteriore dalla parte del passeggero e lo invitò a salire. Lanciò una prima occhiata verso la casa, avrebbe dovuto essere un modo per assicurarsi facilmente che sarebbe andato tutto bene, ma qualcosa si mosse appena dietro una delle finestre del piano terra e, con un sussulto, gli venne il dubbio che non sarebbe stato così facile. Sbatté gli occhi, diede uno sguardo rapido a Chat Noir e poi tornò a prestare attenzione all'interno della casa.

Tornato a osservare il ragazzo che aveva davanti si domandò quanti anni prese avere, non poteva essere che di poco più grande rispetto a sua figlia ed il modo in cui si voltò anche lui, l'espressione un misto di preoccupazione e confusione che lo intenerì. Come aveva potuto, comunque, un ragazzo così giovane sopportare il peso così grande di essere un supereroe? In che modo gli adulti che avrebbero dovuto proteggerlo si erano lasciati sfuggire quali rischi corresse ogni giorno? E per quanto riguardava ladybug?

La figura alla finestra era sparita, ma ciò che era accaduto quel giorno, finale a parte, era ancora troppo poco chiaro.

«Vi raggiungo.» disse l'agente Roger ai colleghi. Passò le chiavi dell'auto all'uomo che aveva accanto, deciso a liberare Chat Noir almeno del peso di controllare se davvero ci fosse qualcosa dentro la casa. Si allontanò, andando dritto verso il portone dell'ingresso appena sigillato e si piegò per passare sotto il nastro. All'interno non era rimasto più nessuno, né c'era traccia di segnalazioni della polizia. L'agente si grattò il capo e lanciò una rapida occhiata in ogni angolo, ma non riuscì a scorgere le tracce del passaggio dei suoi colleghi se non nei pochi oggetti d'arredamento che erano stati leggermente spostati dalla loro posizione originale.

Se ne sarebbe andato, se non avesse avvertito un brivido corrergli lungo la schiena, ed esitò nel provare a convincersi che fosse solo autosuggestione. Era stato solo un momento di distrazione, durante il quale aveva permesso la sua mente di lasciarsi trascinare dopo che gli occhi gli avevano giocato un brutto scherzo, decise, ma bastò per convincerlo a restare, ad esitare in cerca di qualcos'altro. Si fece avanti nella stanza, abbandonando la la relativa sicurezza che l'esterno poteva garantirgli grazie alla presenza dei colleghi, ma non cambiò nulla. Quella sensazione era ancora lì, aggrappata lui, e non dava alcun cenno di volerlo lasciare andare.

Si voltò, in quella casa aveva abitato Papillon, che si era macchiato di numerosi crimini infilandosi nelle menti di innocenti, era ovvio che in qualche modo portasse i segni delle loro sofferenze interiori. Qualunque cosa fosse ciò che sentiva non avrebbe avuto alcuna possibilità di affrontarla da solo. Ma avrebbe aspettato per parlare con ladybug e Chat Noir, così nel frattempo i due avrebbero potuto riprendersi al meglio da quella giornata e godersi un po' di meritato riposo.

Non si accorse, nell'avviarsi verso l'uscita, dell'Ombra che scivolò fuori da sotto il divano e, silenziosa, sul pavimento si muoveva serpeggiando verso di lui.



***

Lo so, questo aggiornamento arriva con un enorme ritardo e per questo volevo scusarmi in particolare con Princess_Shiho, Cathy Earnshaw, Mergana, Alcor (Ma con te mica tanto xD), Laviestar e _Chibitalia_ che in questi mesi hanno scelto di impiegare un po’ del loro tempo per farmi sapere cosa ne pensano di questa storia e, senza neanche saperlo, mi hanno fatto tornare la voglia di continuarla quando pensavo di lasciarla a favore di altri progetti che sento più miei. Ci tenevo che sapeste che le vostre parole sono state la mia motivazione e spero mi farete sapere ancora cosa ne pensate.

Mi piacerebbe anche avere altri pareri, ovviamente, magari su cosa pensate della piega che stanno prendendo gli eventi, ma soprattutto mi piacerebbe che mi faceste notare quando le cose sono poco chiare, in modo che io possa rimediare.

Che ne dite, cosa pensate che succederà da qui in poi? Cosa pensate che sia successo a Villa Agreste? Pensate che ci sarà un lieto fine o che la cosa che si nasconde dentro Adrien riuscirà a portarlo ad uccidere Marinette, che lui si è appena reso conto di amare?

Oppure avete in mente altre domande che non sono tra queste, a cui volete trovare risposta?

A presto, baci <3

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Capitolo 14
*** La dimora dell'oscurità ***


LA DIMORA DELL’OSCURITÀ

Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

L’agente Roger lasciò Villa Agreste con espressione vacua, passo tra i pochi colleghi rimasti senza destare alcun sospetto e, superando il blocco della polizia, percorse il resto della strada che aveva davanti a sé in silenzio. Procedette a passo di marcia, mettendo meccanicamente un piede dietro l’altro, le braccia immobili contro i fianchi e le dita abbandonate a sfiorare il pantalone della divisa.

Nessuno lo fermò, nessuno gli domandò nulla e nel frenetico vivere tipico della metropoli nessuno fece caso al suo sguardo spento e privo di vita.

«Scusi, mi sa dire in che direzione è Notre Dame?» gli domandò un turista di mezz’età, quella che probabilmente era la moglie stretta a braccetto.

L’agente Roger li superò senza neppure notare le loro espressioni perplesse e contrariate, quel poco di lui che riusciva a rendersi conto di ciò che stava facendo non poté che lasciarseli indietro ricordando solo vagamente le loro sagome ed i loro capelli ingrigiti dal tempo.

Non si fermò ai semafori pedonali, poiché ciò che lo controllava non sapeva cosa fossero, né si preoccupò di evitare di andare addosso ai passanti. La direzione in cui doveva andare gli era tanto chiara che gli pareva essere dipinta nell’aria, ondeggiante e scintillante, prepotente e incantevole.

Quanto fu arrivato, dopo poco più di tre quarti d’ora di cammino, dischiuse la porta dell’edificio senza annunciarsi, quasi sorprendendo il vecchio che stava nel corridoio.

Estrasse la pistola dalla fondina, prese la mira e sparò prima che l’uomo potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo.

Maestro Fu crollò a terra con un rantolo, la macchia di sangue iniziò ad allargarsi attorno a lui subito dopo. L’agente Roger, comandato dall’ombra che in quel momento lo possedeva, se ne andò.

***

Ladybug precedette Carapace e Rena Rouge e sorrise all’agente all’interno. Il ragazzo fece loro un cenno dall’altra parte del vetro e premette il pulsante. La porta principale della centrale si aprì con uno scatto e, oltre essa, l’agente Roger pareva aspettarli.

I lo seguirono, Attraversarono la sala d’aspetto passando davanti alle poche persone che sedevano in attesa, e l’uomo li condusse lungo il corridoio che Ladybug aveva già percorso una volta e poi fino alla stanza in cui aveva parlato con Gabriel.

Richiusa la porta dietro di loro osservarono la stanza, attorno al tavolo c’erano solo tre sedie, ma comunque né Ladybug né gli altri avevano intenzione di sedersi. Ladybug incrociò le braccia, l’agente era ancora sulla porta, la mano alla pistola, li osservava con sguardo fisso, senza sbattere le palpebre e senza muovere un solo muscolo.

«Tutto bene?» gli domandò Rena Rouge, ma lui non aveva occhi che per Ladybug.

Non le rispose, non si voltò a guardarla, non diede segno di aver visto né lei né Carapace. Estrasse la pistola e la puntò verso Ladybug, che sgranò gli occhi.

Il colpo partì prima che potesse rendersene conto, tanto veloce che non vide neppure il proiettile. Ma vide la scia verde di Carapace che si parava davanti a lei, sentì le sue mani che la spingevano via, la schiena che urtava contro la parete alle sue spalle.

Gemette, la vista le si offuscò ed il mondo si fece nero per alcuni secondi. La testa pulsò ripetutamente e le gambe le tremarono mentre provava a tirarsi su, quando riuscì a tornare a mettere a fuoco ciò che aveva davanti scoprì Carapace che teneva lo scudo sollevato per difenderla. Rena Rouge suonò il suo flauto, così che un’altra versione di Ladybug potesse esistere al centro della stanza. Ora che Carapace impediva all’agente Roger di vederla, l’attenzione dell’uomo era tutta per l’illusione. I proiettili la attraversarono, rimbalzarono contro la parete e, quando finirono, l’agente Roger continuò a premere il grilletto come se non se ne fosse accorto.

Ladybug era ancora stordita, quando gli altri poliziotti irruppero nella stanza e lo immobilizzarono, disarmandolo, bloccandogli le mani dietro la schiena e costringendolo a terra.



Chloe tornò nella sua camera d’albergo a denti stretti e passi svelti, nessuno era riuscito a rallentarla o a farsi dire cosa fosse accaduto, a farsi spiegare perché non fosse a scuola. Lei aveva un solo pensiero in testa: trovare Adrien e domandargli perché girasse la voce che Chat Noir avesse affrontato Ladybug a pochi metri dalla scuola.

Quando spalancò la porta della sua camera, trovò l’amico in ginocchio, la schiena china sull’enorme libro con cui si era presentato a casa sua solo poche sere prima ed il cellulare posato accanto al proprio piede. Plagg, invece se ne stava seduto sul bracciolo del divano poco distante e, nonostante la grossa fetta di camembert che aveva davanti, continuava ad osservare il suo portatore con occhi tristi.

«Allora? Cosa mi sono persa?» domandò Chloe.

Il ragazzo non si voltò, girò pagina per continuare a cercare qualcosa su quel vecchio libro, le spalle tremanti.

«Ehi, guarda che sto parlando con te.» insistette.

Si avvicinò al ragazzo, si chiese se fosse il caso di fargli capire che era lì dandogli una spintarella con la punta del piede, ma si fermò dopo aver caricato il colpo e sospirò per sforzarsi di mantenere la calma. Invece, si costrinse a sedersi accanto al ragazzo e posargli una mano sul braccio.

«Adrien?» domandò.

Lui sollevò il capo, era pallido, aveva gli occhi lucidi e la mano che non stringeva l’angolo del foglio da voltare stretta a pugno così forte da tremare.

Chloe deglutì; non lo aveva più visto così sconvolto da quando aveva saputo che sua madre non sarebbe più tornata a casa.

«Ne vuoi parlare?» gli domandò, anche se non aveva poi così tanta voglia di ascoltarlo. Eppure, lo sapeva, se c’era anche solo la possibilità che lui potesse lasciarsi sfuggire di poter essere una minaccia anche per lei, si disse che sarebbe stato meglio scoprirlo al più presto.

«C’è questa cosa, nella mia testa...» disse Adrien. «È così carica d’odio e vuole così tanto ferire Ladybug...»

Chloe sbuffò; anche nella disperazione e durante quel tentativo di porre resistenza alla qualunque cosa stesse cercando di prendere il controllo su di lui Adrien riusciva a lasciare comunque trapelare tutta la sua devozione verso quella ragazza ed il suo desiderio di restare sempre al suo fianco e mai contro di lei.

«Ho paura che non riuscirò a resistere molto, che la prossima volta non arriverà nessuno a salvarla e ad impedirmi di ucciderla.»

La voce del ragazzo si spezzò sulle ultime parole, le dita che stringevano il foglio si contrassero in uno spasmo mentre lui chinava ancora una volta il capo.

«Dovresti riposare.» gli disse Chloe. «Da quando sei qui non ti ho visto dormire una sola volta, come pretendi di resistergli se non avrai neanche la forza di reggerti in piedi?»

Lo afferrò per un braccio, ma lui la spinse via. Traballando, Choe riprese l’equilibrio e scorse con la coda dell’occhio Pollen che la affiancava e si preparava a difenderla nel caso qualcosa andasse storto.

«Tu non puoi capire.» disse Adrien.

Chloe sapeva che aveva ragione, neanche una settimana prima avrebbe gridato a gran voce di essere la persona che conosceva meglio Adrien, che loro due erano uguali, oppure che erano destinati a stare insieme per il resto della loro vita. Da quando aveva scoperto di Chat Noir, però, aveva capito che non era così e forse, probabilmente, iniziava a pensare che Adrien potesse non piacerle più quanto prima. Era tutta colpa dello Chat Noir che era in lui, si disse, che portava a galla lo spirito da sempliciotto impulsivo che probabilmente aveva nascosto fin troppo bene nel corso degli anni. Per non parlare, poi, del suo bisogno ossessivo di trovare un modo per non fare del male a Ladybug.

«Magari non posso capire, o magari un po’ sì, ma questo ora non è importante, perché se tu ora non dormi sono sicura che le occhiaie saranno l’ultimo dei tuoi problemi.» gli disse. Lo afferrò per il colletto, pronta a tirarlo su a forza, ma lui le diede una manata e la allontanò.

«Non ho tempo per dormire!» le disse, alzandosi in piedi. Plagg lo raggiunse e lo afferrò per l’orlo della camicia stropicciata, pronto a trattenerlo se avesse deciso di provare ad aggredirla, Pollen si parò tra loro per fare a Chloe da scudo.

Lei, invece, dopo un istante di esitazione inspirò forte e tornò calma.

«Potrebbe prendere il controllo in ogni momento.» spiegò Adrien con voce rotta ed il capo chino. «Non posso fare di nuovo del male a Marinette. Non posso.»

«Marinette?» domandò Chloe, il cuore che le mancava un battito al pensiero di ciò che significava sentirgli dire quel nome.

Adrien si strofinò una mano dietro la nuca e tornò a guardare il libro. «Devo liberarmi di questa cosa.» «Marinette?» chiese ancora Chloe, ma lui già non la ascoltava più, probabilmente non si era neanche reso conto di aver detto il suo nome.

Chloe strinse i denti, mentre lui e Plagg tornavano a occuparsi del libro, e strinse gli occhi. Guardò oltre il vetro della propria finestra, nella direzione in cui sapeva essere la scuola e la panetteria su cui Marinette Dupain-Cheng viveva. Ovviamente doveva essere lei ed ovviamente lui si era innamorato di lei. Stupida Coccinella fortunata.

Non disse altro, mentre aspettava che Adrien tornasse a sistemarsi sul divano e si addormentasse. Diverse ore dopo, a fatica, prese sonno anche lei.



La pelle di Marinette è calda sotto le dita di Adrien, la sensazione del cuore di lei che palpita sotto i polpastrelli piacevole come non avrebbe mai potuto immaginare. Ma è lo sguardo della ragazza, che più lo riempie di gioia e di sollievo; quei due grandi occhi azzurri sgranati così pieni di dolore e terrore mentre lei resta senza fiato, mentre i capillari esplodono nel bulbo oculare a causa della mancanza di ossigeno. Adrien sorride, mentre le dita di lei affondano nella pelle del suo braccio, mentre le sue unghie gli graffiano il polso e lei cerca di aggrapparsi a qualcosa per toglierselo di dosso e fargli allentare la presa. Ma lui non molla ed anche quei graffi lo fanno sorridere; quell’ultimo tentativo disperato di aggrapparsi alla vita che vorrebbe durasse il più possibile.

Le dita di Marinette si contraggono, lei strizza gli occhi inondati di lacrime e rantola. Quello che potrebbe essere il suo ultimo respiro sfiora il dorso delle mani di Adrien mentre lui sente il cuore di lei rallentare sotto i polpastrelli. Passano pochi secondi, prima che Marinette si accasci senza vita contro il camino di mattoni e lui la lasci andare.

Non ha il tempo di restare a guardarla cadere giù dal tetto, anche se non aspetta altro che il cadavere rotoli giù in strada. Chat Noir si china su sé stesso e Ladybug è sotto di lui, ha il costume strappato, sta urlando e lui non vuole assolutamente che smetta, quindi affonda gli artigli nella sua coscia, lacerandole di netto un pezzo di pelle. Ladybug strilla e lo colpisce, piega un braccio davanti al viso per parare un ceffone che non riesce a fermare mentre con l’altro braccio cerca di spingerlo via. Un altro colpo di artigli arriva abbastanza a fondo da farle piegare la schiena indietro per il dolore e Chat Noir sorride e le morde il collo. Ladybug piange e grida, sempre più debole mentre lui la inchioda a terra, e Chat Noir gioisce per il modo in cui solo lui può costringerla ad arrendersi. La sente piangere e non gli importa, finché all’improvviso si sente precipitare e si sveglia.

Adrien sentì le lacrime sulle guance, seppe che Plagg era sveglio subito, poiché vide i suoi occhi risplendere del riflesso delle luci provenienti dall’esterno. Chloe dormiva profondamente nel suo letto, non sembrava essersi accorta di nulla.

Con un sospiro, Adrien si scrollò di dosso la coperta e si alzò barcollando dal divano per raggiungere il bagno.

Una volta lì accese la luce e, con un sussulto, notò che Plagg l’aveva seguito.

«Cosa mi sta succedendo?» domandò al Kwami. «Perché questi sogni? Perché tutto quest’odio? Io non le farei mai del male. Mai. Piuttosto morirei...»

Aprì il rubinetto e raccolse una manciata d’acqua, se la gettò in faccia con tutta la forza che riuscì a trovare in quel momento, poi rimase a fissare nello specchio il proprio volto scavato, la matassa ingarbugliata che erano diventati i suoi capelli, le occhiaie scure che preferiva di gran lunga a quelle visioni oscure di cui non riusciva a liberarsi.

Ripensò per un istante al cellulare che aveva lasciato, spento, sul tavolino accanto al divano, alla possibilità di telefonare a Marinette per assicurarsi che stesse bene, a quanto sarebbe stato bello poter sentire la sua voce anche solo attraverso la cornetta. Forse, se avesse optato per una chiamata anonima e poi riagganciato non sarebbe successo nulla.

Poi ripensò al sogno che aveva fatto. Sarebbe stata davvero al sicuro, se la cosa che aveva dentro avesse sentito la sua voce? Avrebbe potuto guardare almeno le sue foto senza temere che la furia omicida si risvegliasse?

«Come faccio a farlo smettere?» domandò ancora a Plagg.



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Capitolo 15
*** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (1) ***


15
IL GIORNO IN CUI PAPILLON FU SCONFITTO - 1


Ogni parola degli agenti rimbombò contro il suo cranio ripetutamente, cercò di ignorarle, nonostante quasi tutte le domande fossero dirette a lei. Tra una pulsazione e l’altra, mentre un giovane premeva una garza sulla ferita di Carapace, realizzò che le stavano chiedendo se volesse andare in ospedale.

Scosse il capo, era certa che per tornare in sé le sarebbe bastato un po’ di riposo, ma non poteva dire lo stesso per Carapace.

«Pensate a lui.» suggerì, indicando l’amico con un cenno.

«È solo un graffio.» ribatté il ragazzo. La garza era ormai intrisa di sangue, ma dalla sua espressione poteva vedere benissimo che stava trattenendo il dolore.

«Dovresti farti controllare da un medico.» lo rimbeccò Rena Rouge, ma lui scosse il capo.

«Non c’è tempo, dobbiamo parlare con Gabriel Agreste.» le rispose lui.

Ladybug era totalmente d’accordo, nonostante anche lei fosse preoccupata per il ragazzo. Prese tra le mani la borsa con il ghiaccio che una donna in divisa le porgeva e le lasciò quella già usata, poi la premette contro la nuca con uno sbuffo.

«Per quello c’è tempo.» disse loro il commissario.

Era un uomo robusto, alto, standogli accanto Ladybug si sentiva quasi oppressa. Abituata com’era ad avere l’idea geniale ed entrare in azione subito dopo, la consapevolezza di dover rendere conto a tutte quelle persone la spiazzava.

Alla fine riuscì a convincerli di stare bene, un’ambulanza li raggiunse e medicò Carapace sul posto e, neanche mezz’ora dopo, Gabriel Agreste entrò nella stanza accompagnato dal commissario e fu ancora una volta ammanettato al tavolo.

Una volta sedutosi, l’uomo li scrutò con attenzione uno alla volta e, solo dopo aver regalato a Ladybug uno sguardo di sufficienza, le disse: «Immagino che non abbia ancora trovato mio figlio.»

Accanto a lei, Rena Rouge ebbe un fremito, ma Ladybug non si lasciò distrarre. Lo sguardo dell’uomo la inchiodava sul posto, quasi pareva che mirasse a farla sentire in colpa per questo, come se la fuga di Adrien fosse stata colpa sua. Scacciò questo pensiero, ricordandosi che era stato lo stesso Gabriel Agreste a dare il via alla lunga serie di eventi che li aveva portati fino a quel punto.

Invece che cogliere la provocazione, Ladybug si sporse verso di lui. Accantonò la preoccupazione per l’amico spingendola in un angolo e, con uno sbuffo, ribatté di rimando: «Inizio a pensare che sia andato il più lontano possibile da lei, non lo biasimo. O forse è solo rimasto bloccato in casa, preda di quelle cose che pullulano lì. A proposito, cosa c’è in quella casa? Come ci è arrivata?» domandò.

Il signor Agreste impallidì e s’irrigidì sulla sedia, anche Carapace e Rena Rouge lo fissavano, ma loro rimasero in silenzio.

Ci vollero alcuni minuti perché l’uomo si ricomponesse, perché si decidesse a parlare. Ladybug lo vide lanciare un’occhiata agli amici, il naso arricciato e le sopracciglia corrugate, il volto sollevato come per innalzarsi rispetto a loro.

«Sono fantasmi.» rispose alla fine.

«Fantasmi?» gli domandò. Incrociò le braccia, inclinò il capo, tentò di fargli capire con un’occhiataccia che era il momento di parlare, che lei e gli altri aspettavano solo che lo facesse.

Invece lui domandò: «Davvero Chat Noir non ve lo ha detto?»

Quasi sorrise, nel chiederlo, ma tornò subito serio e si spinse gli occhiali su per il naso.

«Non ho parlato con Chat Noir!» sbottò Ladybug. Strinse i pugni, le sue stesse parole le rimbombarono in testa. «Quelle tue ombre... Quei tuoi fantasmi lo hanno preso, non so cosa gli abbiano fatto, ma da allora lui è sparito.»

«Da dove vengono?» domandò Rena Rouge.

Il signor Agreste chinò il capo. Esitò, prima di rispondere a quell’ultima domanda.


Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

Chat Noir sollevò il volto di Ladybug, tenendole il capo sul palmo per spingere il suo viso contro il proprio collo. Sentì il suo respiro leggero sulla propria pelle, nonostante la situazione, la sua vicinanza gli provocò un brivido. Alzò lo sguardo verso suo padre, ora non aveva più alcuna ragione di stare attento a ciò che faceva o diceva.

«Restituiscili!» ordinò. Poi osservò a denti stretti mentre l’uomo si rigirava gli orecchini tra le dita e li ammirava, sorridendo compiaciuto.

«Ho fatto in modo che non si facesse troppo male,» disse lui. «si riprenderà presto.»

«Non mi importa» replicò Chat Noir. «Non avevi alcun diritto! Cosa ti sei messo in testa?»

«Ti spiegherò tutto.» rispose lui, il tono calmo quasi a rimarcare quanto avesse tutto sotto controllo, quanto le cose stessero andando esattamente come lui voleva. «Devi solo darmi anche il tuo anello.»

Fece per avvicinarsi, ma Chat Noir scosse il capo e premette ulteriormente Marinette contro di sé. Non poteva credere che fosse davvero lei, si sentiva uno stupido per non averlo capito prima, ma non aveva spazio né tempo per quei pensieri, poiché ora era solo davanti a Papillon ed avrebbe dovuto combattere per sé stesso ed anche per Marinette.

Gli occhi di Papillon si posarono su di lui, tranquilli e quasi limpidi, pervasi da una pace in cui Chat Noir non riusciva a trovare conforto.

«Ora che siamo solo io e te possiamo parlarne, è una faccenda di famiglia.» spiegò l’uomo.

«Quale famiglia?» Chiese allora Chat Noir, il cuore che doleva nel petto e gli occhi che pizzicavano. Tutto quello che desiderava era fuggire e nascondersi da suo padre e dal mondo, ma aveva le gambe che tremavano, una Marinette svenuta stretta tra le braccia e una missione da portare a termine. «Noi non siamo più una famiglia, non dopo quello che hai fatto.»

«Adrien», sussurrò Gabriel. «Credimi se ti dico che avevo una buona ragione per fare quello che ho fatto.»

Adrien spostò per un solo momento lo sguardo su Tikki, avrebbe voluto che riaprisse gli occhi, che gli dicesse cosa fare, come convincere Papillon a tacere, come sopprimere quello sconforto che lo stava travolgendo togliendogli ogni speranza.

«Non c'è una sola ragione al mondo che potresti darmi, che potrebbe farmi pensare che non sei una persona orribile.» disse a Papillon, riversando tutta la sua rabbia in quelle parole, cercando di renderla la sua forza invece che permettergli di sopraffarlo.

«Lo sto facendo per tua madre.» gli spiegò l'uomo allora.

Chat Noir spalanco gli occhi, i capelli di Marinette gli sfioravano la guancia, il braccio di lei, realizzò solo in quel momento, sanguinava.

«Mamma è morta.» disse a suo padre.

«Ma i Miraculous la possono riportare in vita.» gli rispose lui.

E quelle parole, accompagnate dal sorriso che si aprì sul volto di lui, lo colpirono frantumando anche quello che restava del muro di rabbia e incredulità che stava cercando di costruire tutto attorno a sé. Sotto la maschera del Gatto Nero Adrien non sapeva più distinguere la speranza dalla tristezza e dalla pena che provava per suo padre. Per un momento non fu in grado di trovare la propria voce.

«I morti non possono tornare in vita, stai inseguendo un sogno impossibile.» disse poi, cercando di credere davvero che fosse la verità e che non lo fosse al tempo stesso.

«Ti assicuro di no.» gli disse suo padre.

Fece un altro passo verso di lui, soltanto uno, e Chat Noir si disse che non gli importava, che non gli avrebbe permesso di convincerlo di aver ragione neanche se si fosse comportato nel modo più affabile e paterno possibile. Suo padre non era mai stato affabile, l'aveva sempre trovato superfluo. Il solo fatto che in quel momento aveva provato ad esserlo, realizzò solo dopo, avrebbe dovuto essere un segnale di avvertimento.

«Lo saprei se i Miraculous avessero questo potere.» disse.

Papillon scosse il capo. «Pensi davvero che te l'avrebbero detto, se fosse stato così? I Miraculous non sono stati creati per essere usati da ragazzini che giocano a fare i supereroi, no. Lo scopo di Miraculous è molto più grande; loro regolano l'energia dell'universo, possono fare praticamente tutto. In questo caso l'unione del potere del Miraculous della Coccinella e di quello del Gatto Nero dona ad una persona talmente tanto poter da poter risvegliare i morti. Apre il portale verso l’Aldilà, per permettere all’anima di una persona di tornare da questa parte.»

«Non puoi pensare che non ci siano conseguenze.» disse Chat Noir.

Papillon sciolse la propria trasformazione e, per una volta, Chat Noir lo vide quasi umano, con i capelli ingrigiti dal tempo e due occhiaie profonde che fino a poco prima la maschera aveva coperto alla perfezione.

«Non voglio fare del male né a te né alla tua amica, Voglio solo che torniamo ad essere una famiglia, che Emily sia di nuovo con noi perché ammettilo, senza di lei non è lo stesso e questo lo sai anche tu.» spiegò Gabriel. «Qualunque prezzo ci sia da pagare, sono sicuro che tu sappia che ne vale la pena, per tua madre.» Si fermò, rimase in attesa, gli lascio il tempo di soppesare le sue parole e si chinò per raccogliere Tikki da terra.

Nel vederlo sollevarla tra i palmi aperti Chat Noir si sporse in avanti, pronto ad ordinargli di lasciar andare anche lei, ma lui non le fece del male, invece tese la mano verso di lui e gliela porse lasciando che la prendesse e la stringesse a sé assieme alla sua portatrice.

«Come vedi non voglio fare del male a nessuno, ma per poter parlare con te dovevo fare in modo che lei non ci sentisse.»

Adrien posò Tikki sul collo di Marinette, in modo che restando incastrata tra lui e la spalla di lei non rischiasse di scivolare giù, e rifletté sulle parole dell’uomo che aveva davanti, quasi faticando a riconoscerlo. Continuava a ripetersi che non era possibile riportare indietro i morti, che era e sarebbe stato sempre contro natura, che qualunque tipo di magia buona non avrebbe potuto sopportare che le leggi del mondo venissero sovvertite. Ma ripensò anche ai segreti, al fatto che non aveva mai potuto dire a Ladybug quale fosse la sua vera identità, a come lei non avesse mai dimostrato di voler conoscere la sua. A come spesso lei era conoscenza di molte più cose rispetto a lui, riguardo ai Miraculous.

«Perché non mi hanno detto che si poteva fare una cosa simile?» domandò, quasi a sé stesso, mentre il cuore gli si sgretolava quasi nel petto.

«Lei probabilmente non lo sa.» disse suo padre facendo un cenno verso Marinette. Ma fu una magra consolazione, per Adrien, che durò poco anche perché l’uomo proseguì. «Probabilmente invece il guardiano che custodiva tutti i Miraculous è troppo legato alle vecchie regole e non vuole infrangerle.»

Mentre tutti i dubbi venivano messi da parte da una nuova consapevolezza, Chat Noir prese fiato.

Rimase a fissarlo, Chat Noir non distolse lo sguardo dal suo e cercò di scorgere nei suoi occhi qualcosa che potesse ispirargli fiducia. Era sempre stato troppo ingenuo, Ladybug glielo aveva fatto notare quando si erano scontrati con Volpina, quindi non era certo di potersi fidare delle proprie scelte, ma sarebbe stato disposto a rischiare di credere ad una bugia, per sua madre?

Deglutì.

«Lo puoi fare davvero?» chiese ancora.

Suo padre annuì, allora lui chinò il capo per soffermarsi a guardare Marinette un’ultima volta. Quando si sarebbe svegliata non sarebbe stato più come prima. Scostò la mano per raggiungere l’anello e se lo sfilò dal dito, lo scintillio provocato dalla trasformazione si rifletté sulle guance della ragazza tra le sue braccia. Porse il Miraculous a suo padre, poi cercò lo sguardo di Plagg, appena comparso al suo fianco.

«Ragazzo, cosa stai facendo?» domandò il kwami.

Gli impedì di sfrecciare contro suo padre per provare a riprendere l’anello e lo strinse a sé, bloccandolo con una mano contro il petto.

«Lascialo fare.» supplicò. «È per mia madre.»

Plagg non protestò, non quanto si aspettava che avrebbe fatto, ma si limitò a guardarlo, lo sguardo cupo. «Ne sei sicuro? Sappi che non funzionerà. Non può funzionare.»

Adrien scosse il capo, vide nel volto di suo padre quella stessa speranza che di certo doveva essere riflessa nel suo.

«Funzionerà.» promise l’uomo.

Plagg scosse il capo, scivolò al fianco di Tikki e le sfiorò il muso. «Lei non ti perdonerà per questo.» disse. «Probabilmente nessuna delle due lo farà.»

«Non potrà avercela con me per aver voluto riportare indietro mia madre.» replicò Adrien.

«Per averci provato ed aver fallito.» rettificò Plagg. «Quello che state per aprire non è semplicemente un portale per il regno dei morti, ma quello per il regno in cui è intrappolato chi è morto a causa di un Miraculous. Non avete idea di dove state per infilarvi.»

Adrien non gli rispose, ora suo padre gli dava le spalle e anche da lì poteva percepire l’intensità dell’energia dei due Miraculous che stringeva tra le dita, una parte di lui era già stata sommersa dai dubbi, essi riuscirono in poco tempo a spazzare via tutta la speranza che l’aveva animato in quei pochi, lunghissimi secondi.

E fu la voce di Plagg a riscuoterlo con forza quando ordinò, rivolto verso suo padre: «Non osare indossare quegli orecchini.»

«Non lo farò.» rispose lui.

Invece premette insieme i due Miraculous, il suo Kwami gli era accanto, gli consegnò la propria spilla e lasciò che si allontanasse. Poi Nooroo li raggiunse a sua volta.

Allora rimasero in attesa, chini verso il pavimento, i volti sollevati e gli occhi sgranati, Adrien già immerso in un vortice di senso di colpa che neppure il calore di Marinette contro la sua pelle riusciva a placare.

Con i tre Miraculous posati sul palmo delle mani, Garbriel Agreste recitò una formula a mezza voce, i tre gioielli si fusero in uno diventando un anello luminescente che l’uomo infilò al dito. La formula, le cui parole Adrien non fu in grado di comprendere, proseguì come una litania per diversi minuti prima che accadesse effettivamente qualcosa. Dapprima parve solo un calo di energia, la luce nella stanza si fece scarsa, come se una nuvola avesse nascosto il sole, ma non c’era alcun sole da oscurare, all’esterno. Per un momento l’unica luce fu quella dell’anello al dito di suo padre ed Adrien strinse Marinette ed i tre Kwami a sé come se quell’oscurità potesse portarglieli via.

«Papà, non credo che stia funzionando.» disse. Era oscurità, buio, qualcosa che mai e poi mai avrebbe potuto essere associato a qualcosa di buono. Era un errore.

Gabriel scosse il capo. «Funzionerà.»

L’oscurità si mosse come se fosse viva, gli scivolò addosso ricoprendolo di un freddo pungente che lo spinse a premere ancora di più Marinette contro il proprio corpo.

«Papà! Richiudilo!» supplicò.

Qualcosa stava succedendo, ma non vedeva nessun portale, nessun cenno di sua madre. Adrien pensò in fretta, posò Marinette sul pavimento e la scavalcò, correndo verso suo padre; lui ancora recitava la formula, ebbe appena il tempo di accorgersi di lui e sgranare gli occhi, prima che Adrien gli afferrasse il polso e gli sfilasse l’anello dal dito.

L’oscurità divenne subito meno intensa, ma non svanì del tutto.

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Capitolo 16
*** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (2) ***


16
IL GIORNO IN CUI PAPILLON FU SCONFITTO - 2


«Cosa c’è oltre il varco che lei ha aperto?» domandò Rena Rouge.

«Anime, ovviamente, di chi è morto a causa di un Miraculous. Anime di vecchi portatori che hanno fallito la loro missione, di posseduti dall’energia del Miraculous.»

«Una di quelle anime ha preso possesso del corpo di Chat Noir.» realizzò Ladybug. «Come lo liberiamo?» «Non so come.» confessò il signor Agreste. «Non credevo neppure che gli spiriti potessero uscire da soli dal varco, sarebbe dovuta venirne fuori solo lei.»

Rena Rouge sbatté una mano sul tavolo, la mascella era serrata mentre si sporgeva in avanti come per attirare l’attenzione dell’uomo. Lui le lanciò solo una rapida occhiata, così lei fu costretta a chinarsi ancora di più ed a fissarlo dritto in faccia.

«Lei?» domandò. Poi scosse il capo. «Non importa. Perché proprio Chat Noir?»

Ladybug inspirò, anche lei voleva saperlo, ma sentiva che se l’uomo l’avesse costretta a richiederglielo l’avrebbe colpito dritto in faccia, tanto le mani le fremevano.

«Ci deve essere per forza una ragione?» chiese il signor Agreste. «Magari si trovava solo nel posto sbagliato al momento sbagliato.»

«Cosa vuole da lui?» domandò Carapace.

«Coloro che hanno avuto un Miraculous dovevano compiere una missione, ovviamente. Il fatto che siano morti solitamente significa che non sono riusciti a compiere la loro missione.»

Ladybug rimase a fissarlo, con lei anche Carapace e Rena Rouge. Realizzò che, probabilmente, lo spirito che possedeva Chat Noir stava soltanto cercando di portare a termine la sua missione. Questo non la consolò affatto.

Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

Adrien trattenne il fiato mentre bussava alla porta dello studio di suo padre, la mano era ancora sospesa quando lo sentì rispondergli di raggiungerlo dentro e, come il figlio educato qual era, abbassò la maniglia lentamente ed entrò nella stanza con cautela. Rimase sull’uscio in silenzio.

Gabriel Agreste aveva ancora il capo chino, teneva il pennello tra le dita ferme mentre dava gli ultimi tocchi di colore a chissà quale nuovo disegno per la sua prossima collezione. Ci mise un po’ a decidersi a sollevare lo sguardo verso di lui, allora Adrien trattenne un sussulto ed agitò le dita, le braccia strette contro i fianchi nel tentativo di non lasciarsi trascinare troppo dalla speranza.

Vide suo padre intingere il pennello nell’acqua, solo dopo sollevare lo sguardo e prestargli davvero attenzione.

«Sì?» chiese, lo sguardo distratto che pareva non vederlo davvero.

Adrien strofinò le mani una contro l’altra e deglutì, sorrise.

«Nino ha invitato me, Marinette ed Alya ad andare al cinema insieme, questa sera.» disse. Fece una pausa, cercando le parole per porre nel migliore di modi domanda, ma suo padre non glielo permise.

«Non puoi uscire.» rispose. Poi chinò ancora il capo, riprese il pennello e lo agitò nell’acqua. Non disse altro, nessuna motivazione sensata in cui Adrien avrebbe potuto sperare, nessuna ragione che avrebbe potuto dare un senso a quel no così repentino.

A volte Adrien pensava che suo padre gli negasse di fare ciò che amava solo per semplice dispetto. Rimasto immobile con le labbra dischiuse, sentì la speranza che lo abbandonava, si costrinse a non replicare, conscio che non ci avrebbe guadagnato nulla.

Suo padre sollevò una mano, gli fece cenno di andare senza neppure guardarlo. Obbedì, si allontanò e percorse a grandi falcate il corridoio fino alla sua stanza. Non si preoccupò di non sbattere la porta della sua camera da letto, una volta dentro; dubitava che suo padre se ne sarebbe accorto, concentrato com’era ad ignorare lui e tutto il resto del mondo. Non era un mistero che per lui il’universo svanisse, mentre lavorava.

Fu quando fu certo di essere da solo, con solamente Plagg che potesse sentirlo, che Adrien lasciò andare il controllo in cui si era costretto fino a quel momento. Grugnì, trasformò quel verso in un grido soffocato e tirò un calcio al bordo del proprio divano, sapeva che il suo Kwami lo stava fissando, probabilmente aspettando che si calmasse per poter dire qualcosa, ma non voleva ascoltare né le sue parole né quelle di nessun altro. Voleva uscire a divertirsi, vedere i suoi amici, comportarsi come un ragazzo normale, essere libero da quella prigione soffocante che casa sua diventava ogni giorno di più. A volte, lo aveva scoperto solo da qualche mese, il pensiero di dover rientrare dopo una semplice giornata scolastica o dopo essere riuscito a guadagnarsi un pomeriggio da dedicare a Nino o a Marinette, gli faceva quasi mancare il fiato.

Strinse tra le dita il Miraculous e lo girò sulla pelle, saggiò la calma che il contatto con quello gli dava e sollevò il capo, ringraziando per l’ennesima volta il cielo che gli fosse stato fatto il dono di diventare Chat Noir per poter fuggire da quella vita. Si sentiva banale, quasi un cliché, a immaginarlo come la sua salvezza, ma non poteva fare altrimenti. A volte aveva la sensazione che l’anello e Plagg fossero l’unica cosa che lo tenesse in piedi.

«Adrien.» disse Plagg.

Adrien non sapeva se volesse aggiungere altro, approfittò del suo silenzio per sbuffare e colpì il portapenne con il palmo, rovesciando penne e matite sulla scrivania.

«Lo odio quando fa così.» disse a denti stretti.

Un paio di profondi respiri dopo si sentiva meglio, ma non ancora libero da quella voglia di fuggire e urlare contro il padre che gli era rimasta bloccata in gola, opprimente e gonfia abbastanza da rendergli difficile respirare.

«Vorrei che capisse.» disse. «Vorrei che si rendesse conto che non sono un bambino, che altri genitori pagherebbero per avere un figlio obbediente come me. Vorrei che la smettesse di essere così... Così...» «Dovresti dirglielo.» propose Plagg.

Adrien annuì. «Ho sempre fatto tutto ciò che mi ha chiesto, compiti, lezioni di materie assurde, servizi fotografici agli orari più improbabili, non dovrebbe essere un problema avere il permesso di uscire ogni tanto.»

Con un cenno, Plagg gli si fece vicino.

«Non dovrebbe.»ripetè Adrien, scuotendo il capo.

Plagg annuì ancora. «Dovrebbe capirlo, lui.»

«Dovrebbe.»continuò Adrien.

«Ma non lo fa.» gli ricordò Plagg.

Adrien sedette sul bordo del letto, si chinò in avanti e posò i polsi sulle ginocchia. «Vorrei poterglielo far capire. Vorrei poterglielo dire.»

«Potresti farlo, forse dovresti.» suggerì allora il kwami.

Adrien si fermò a guardarlo, gli occhi sgranati, le labbra dischiuse mentre tratteneva il fiato.

«Peggiorerebbe le cose.» sussurrò poi. Chinò il capo e stette ad osservare il pavimento, con gli anni ne conosceva a memoria ogni sfumatura, anche se questo non serviva e non sarebbe mai servito a nulla.

«Potrebbe decidere di ritirarti da scuola.» ipotizzò Plagg.

«Non glielo permetterò, dovessi scappare di casa ogni mattina per andarci.» dichiarò Adrien. Non si sarebbe arreso in silenzio, non gli avrebbe lasciato dettare ancora le regole sulla sua vita, anche se era ancora costretto a muoversi in punta di piedi.

«Vado a dirgli che io ci vado lo stesso.» dichiarò, alzandosi in piedi. «che se vuole che continui a fare quello che dice dovrà darmi più libertà.»

«Evviva.» disse Plagg, ma nelle sue parole non c’era entusiasmo; sembrava anzi essere già passato oltre ed aver dimenticato il motivo della rabbia di Adrien.

Adrien non se la prese, sapeva che la volubilità di Plagg non era cattiveria, che comunque teneva a lui. A volte aveva l’impressione che il Kwami tenesse alla sua felicità più di quanto non facesse suo padre. Prese un altro respiro e lasciò la stanza, ripercorrendo a ritroso il corridoio fino allo studio di suo padre. Non sapeva se Plagg lo stesse seguendo, probabilmente no, ma non si fermò a guardarsi indietro per controllare. Questa volta, quando fu davanti alla porta, non bussò e non attese di ricevere il permesso di entrare, ma strinse la mano sulla maniglia ed aprì.

Non si aspettava che avrebbe trovato un Kwami che fluttuava davanti al volto del padre, né che avrebbe capito subito a quale Miraculous fosse legato. Notò appena gli occhi sgranati dell’uomo che aveva davanti, perché il cuore si fermò e il mondo si fece ovattato. Si voltò e corse via, dritto verso la sua camera, sapendo che lì Plagg lo stava aspettando. Ricordò le parole di Ladybug, quella volta che gli aveva espresso i suoi dubbi sull’identità di Papillon. Lei era sempre stata un passo avanti a tutto, anche se avrebbe tanto voluto poterle dire ancora una volta che si sbagliava.

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Capitolo 17
*** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (3) ***


17
IL GIORNO IN CUI PAPILLON FU SCONFITTO - 3


Marinette sospirò e scostò la borsetta sul fianco, sentiva Alya frugare tra i libri sugli scaffali della biblioteca scolastica, non sapeva cosa stesse cercando, ma era troppo concentrata a scrutare i titoli sui dorsi di quelli che aveva davanti, per preoccuparsene.

Era nella sezione che conteneva i volumi che avevano a che fare con l’occulto, ma perlopiù si trattava dii narrativa fantasy e horror, nulla che potesse esserle utile per capire come salvare Chat Noir dallo spirito che aveva deciso di abitare il suo corpo. Uno dei volumi, una raccolta di racconti sui fantasmi, era appena sopra la sua testa, quando tese la mano per afferrarlo le sue dita sfiorarono quelle di Nino, protese verso lo stesso libro.

«Scusa.» dissero nello stesso momento.

Nino ridacchiò. «Allora... Fantasmi, eh?»

Marinette annuì.

«Cercavo qualcosa che potesse mettermi un po’ i brividi.» disse, anche se non era affatto vero. «Prendilo pure, se ti interessa.» aggiunse poi.

Anche se probabilmente era il libro più in tema che avessero a scuola, era certa che non ci fosse nulla che potesse servirle, all’interno. Con un sospiro, lasciò che Nino aprisse il libro e, mentre lui iniziava a sfogliarlo freneticamente, ancora in piedi accanto allo scaffale, si allontanò a mani vuote.»


Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

Chat Noir corse rifiutandosi di fermarsi, si lasciò alle spalle Villa Agreste e si perse sui tetti di Parigi, procedendo senza sapere dove stesse andando.

Stringeva il bastone tra le dita, aspettando una risposta di Ladybug; il messaggio che le aveva mandato era stato breve, forse anche sgrammaticato, ma non gli importava. Non riusciva a pensare ad altro che a ciò che aveva visto nello studio di suo padre. Sperava che lui non lo stesse seguendo, sperava che non sapesse dove cercarlo e che almeno per un altro po' sarebbe stato al sicuro.

Quando vide Ladybug, all'inizio pensò di stare sognando; lei era lì ferma a fissarlo e Chat Noir la raggiunse e dischiuse le labbra senza riuscire a dire nulla. Fu lei a parlargli per prima, avvicinandosi e sfiorandogli il braccio come per assicurarsi che stesse bene.

«Chat Noir, che è successo?» domandò.

Forse, penso Chat Noir, era stato anche meno chiaro di quanto aveva pensato. Lanciò un'occhiata alle proprie spalle, non sembrava che Gabriel Agreste fosse vicino. Magari, pensò, non si è neanche accorto di essere stato visto. In fondo era stato veloce; era entrato, aveva visto il kwami ed era fuggito di corsa. Forse non sarebbe successo nulla di male. Poi realizzò che il fatto che suo padre fosse Papillon avrebbe distrutto comunque tutto.

«L’ho trovato.» disse a Ladybug.

Lei si corrucciò, inclinò il capo, Chat Noir lesse nei suoi occhi la confusione e nella curva delle sue labbra la perplessità.

«Chi?» gli domandò.

Chat Noir si morse l'interno della guancia, distolse lo sguardo e per un istante pensò che non voleva più che lei conoscesse la sua identità. Cosa avrebbe pensato di lui? Cosa avrebbe detto o fatto una volta che avesse scoperto chi era? L'avrebbe ancora guardato allo stesso modo e si sarebbe fidata comunque di lui? Si disse che la conosceva bene, che la sua opinione di lui non sarebbe cambiata solo a causa dell’identità di Papillon, ma per quanto riguardava Parigi? Sarebbe mai riuscito a tornare a camminare in mezzo alla gente sapendo che ogni persona che incontrava rivedeva in lui l'eredità di un uomo che aveva fatto loro tanto male? Era disposto a scoprirlo?

Si chiese se avrebbe avuto l'opportunità di ritirarsi, se avrebbe mai potuto perdonarsi se l’avesse fatto. Avrebbe potuto scegliere di lasciare andare suo padre pur di continuare con la sua solita vita, ma ne sarebbe valsa la pena? Era il momento di decidere, realizzò, il momento in cui avrebbe tracciato le basi per il suo futuro, un futuro che avrebbe potuto essere controverso, pericoloso ma di certo mai e in alcun modo totalmente felice, perché in qualunque modo sarebbe andata, l’identità di Papillon aveva comunque sconvolto il suo mondo e nulla sarebbe più potuto tornare come prima.

Si fece forza, non sapeva più cosa voleva, se mantenere la sua facciata da eroe e parlare oppure lasciar correre, ma Ladybug ancora lo fissava e aspettava pazientemente una risposta.

«Papillon...» disse Chat Noir, biascicando le lettere al punto che lui stesso si domandò se avesse davvero detto il suo nome, ma Ladybug capi lo stesso, sgranò gli occhi e si sporse verso di lui.

«Davvero?» chiese.

Annui, lei scosse il capo.

«Non è possibile... come... cosa?»

Sì fermo ed inspirò, forse prendendo tempo per riordinare i pensieri, e per un istante si guardò attorno. Quando si ricompose sfiorò il suo braccio.

«Come l'hai scoperto?» Domandò.

Chat Noir evitò il suo sguardo, non era ancora pronto a farglielo sapere, a conoscere la sua reazione alla scoperta della sua identità.

«Non chiedermelo...» supplicò. «Non posso dirtelo, ma ti assicuro che ho ragione... Che tu avevi ragione...»

Ladybug spalancò le braccia, era palese la richiesta muta di avere un chiarimento.

Chat Noir prese una boccata d’aria, l’ultima prima che la sua vita così come la conosceva svanisse. «Gabriel Agreste.»

Ladybug sorrise, forse pensando ad uno scherzo.

«Non può essere.» disse. «Abbiamo già controllato, abbiamo visto quando è stato akumizzato; c'eravamo anche noi.»

Chat Noir si morse il labbro, ricordando quel giorno.

«Ti giuro, Mia Signora, che questa volta ho le prove. L'ho visto parlare con il suo kwami, non c'è assolutamente alcun dubbio.»

Ladybug ondeggiò sul posto. «Ma non può essere...»

Adrien avrebbe davvero voluto che avesse ragione. «Milady... Ladybug... Ti fidi di me?» domandò.

Lei non esitò un solo istante, prima di rispondergli.

«Certo che mi fido.» disse.

Pochi minuti dopo, senza bisogno che tra loro ci fossero altre parole, Chat Noir guidò Ladybug verso casa sua. Lei rimase sempre alcuni passi indietro, forse persa in qualche pensiero che non voleva condividere con lui, ma la cosa non gli dispiaceva affatto. Stava ancora metabolizzando, non voleva dover già dare spiegazioni e, anzi, per quanto lo riguardava avrebbe potuto evitare l'argomento anche per sempre.

Il profilo di Villa Agreste fu visibile fin troppo presto, le grandi vetrate riflettevano la luce del sole, quasi accecandoli. Aveva sempre pensato, specialmente negli ultimi anni, che avrebbe preferito vivere in qualunque posto che non fosse in quella grande casa vuota, ma per la prima volta realizzò quanto fosse legato a quel posto e a quanto non potesse più farne a meno anche se era dimora di centinaia di pensieri e ricordi tristi.

Quella casa, in fondo, era anche la casa in cui aveva vissuto con sua madre; c'erano anche i suoi ricordi, quei pochi che gli erano rimasti di lei e che non erano stati soffocati dal dolore portato dalla sua dalla sua scomparsa ed aveva sempre pensato che forse, un giorno, se mai avesse deciso di tornare, la villa sarebbe potuta tornare a essere un posto felice. Anche quella speranza scemò subito, poiché nessun posto che avesse visto la perversione di Papillon sarebbe potuto essere un posto felice.

Si fermò sul bordo del muretto, incapace di andare oltre. Se ora avesse affrontato suo padre, tutto sarebbe cambiato. Ladybug si fermò con lui, aspettò in silenzio, Chat Noir la scoprì ad osservarlo di sottecchi, probabilmente ancora confusa dal suo comportamento, ma non trovò il coraggio di girarsi per guardarla. Temette ciò che avrebbe potuto leggere nei suoi occhi.

Non voleva che Ladybug sapesse tutto ciò che conosceva di Papillon e della sua identità segreta, quindi lascio che fosse lei ad andare avanti, lanciando lo yo-yo e aggrappandosi a uno dei cornicioni per volteggiare fino alla finestra più vicina; con un rantolo rammarico, realizzò che si trattava della sua camera da letto. Segui la ragazza, non poteva fare altrimenti; non l'avrebbe lasciata da sola con suo padre senza sapere se sarebbe stata al sicuro, ciò che sarebbe successo di lì in poi era un’incognita.

Una volta oltre il davanzale trovò Ladybug che si guardava attorno a pochi passi dal suo letto, aveva lasciato i libri di scuola abbandonati sul cuscino, prima di andare a chiedere a suo padre se potesse uscire con gli amici, e quelli erano rimasti lì, ancora aperti sull’ultimo esercizio di matematica che aveva svolto. Deglutì.

«Credi che Adrien sia in casa?» chiese Ladybug.

Sentirla pronunciare il suo nome gli fece mancare un battito, ma ignorò comunque la preoccupazione che aveva percepito dalle sue parole.

La vide sporgersi verso l’ingresso del bagno e sbirciarci dentro per controllare che non fosse lì, avrebbe voluto poterle dire che era al sicuro e che stava bene, per quanto gli era possibile, ma non poteva farlo e non voleva nemmeno.

«Adrien Agreste starà bene.» promise e le fece cenno di seguirlo procedendo verso il corridoio.

Sperò di non essere costretto a ripeterlo, perché non ci credeva neanche lui.

«Era nel suo ufficio.» le disse. «Parlava con il suo kwami »

Sperò che non gli chiedesse come l’avesse scoperto e perché, per quale ragione fosse finito lì proprio in quel momento. Sperò che Ladybug desse per scontato che sapeva dove era lo studio di Gabriel Agreste solo perché l'aveva trovato per caso l'ultima volta che erano stati lì.

Lei non fece altre domande.


Ad ogni passo percorso nel corridoio si sentiva più allo scoperto, inerme, impreparato ad affrontare suo padre. Ladybug era sempre al tuo fianco, silenziosa e in attesa che succedesse qualcosa, qualunque cosa fosse, avvertiva la sua preoccupazione quasi come fosse la propria. Quando vide la porta dell'ufficio di suo padre esitò, quasi pensò di lasciare andare avanti l'amica e aspettare in disparte, ma allo stesso tempo non voleva che lei si esponesse da sola, quindi poggiò la mano sulla maniglia e la abbassò dischiudendo la porta. Suo padre dava loro le spalle, guardava fuori dalla finestra, per un momento fu come se non li avesse notati, poi si voltò e Chat Noir realizzò, con un tremito, non era stupito di vederli lì.

«Buongiorno.» disse loro. «Come posso esservi utile?» Domandò.

«Salve.» disse Ladybug, la voce le tremava, notò Chat Noir, raramente l'aveva vista così esitante.

Lui sembrava aspettare una risposta alla sua domanda, sorrideva, ma quello che si apriva sul suo volto era più un ghigno. Forse, pensò Chat Noir, lo aveva solo immaginato; non era possibile che lui sapesse che stavano per arrivare, o forse sì? Non era stato attento, non si era neanche preoccupato di esserlo, era scappato e basta pensando che l'unica cosa che voleva era che quella storia finisse. L'aveva visto, realizzò, e non aveva provato a fermarlo quando era scappato via. Sapeva che stavano arrivando, e li aveva aspettati lì.

«Basta con i giochetti.» gli disse, facendosi avanti e parandosi tra lui e Ladybug. Non avrebbe permesso che lei pagasse per un suo errore, non finché fosse stato in vita. «Sappiamo che sei Papillon, ti ho visto parlare con il tuo kwami.»

«Ma davvero?» chiese suo padre. Teneva il voto sollevato e guardava in basso per poterlo vedere, il suo sorriso ora era apertamente divertito e nei suoi occhi c'era uno scintillio che non avrebbe mai voluto scorgervi.

Se prima aveva sperato di essersi sbagliato, ora Chat Noir poteva dire per certo di essere caduto in una trappola.

«E tu» disse lui «cosa ci facevi qui? Forse dovrei chiamare la polizia per invasione di proprietà privata?» Lo guardò, poi scrutò anche Ladybug come alla ricerca di qualche reazione o debolezza.

Anche Chat Noir guardò con la coda degli occhi Ladybug, lei faceva scorrere lo sguardo tra l'uomo che avevano davanti e lui. Aveva gli occhi sgranati, sembrava confusa, forse ancora incredula vista l'assenza di una negazione. Il fatto che Gabriel Agreste stesse aggirando la domanda poteva essere, probabilmente, equiparato ad una confessione.

«O forse avevi altre ragioni per essere qui?» gli domandò il padre.

Chat Noir deglutì, sapeva, dal modo in cui lo stava guardando, che sapeva chi era. Chiaramente voleva che lo sapesse anche lui.

«Signor Agreste... Lei non è Papillon, vero?» chiese Ladybug.

Chat Noir la sentì avvicinarsi a lui, sfiorargli il braccio, forse in cerca di sicurezza. Non sapeva perché l'idea che proprio lui fosse Papillon potesse sconvolgerla tanto.

«Lo sa, signorina, io glielo avevo detto.» disse lui. «Fare il supereroe è un gioco pericoloso, quasi impossibile per due ragazzi della vostra età. Non avete l'esperienza, la maturità per capire davvero ciò che vi succede attorno, per riconoscere chi vi è amico e chi no e per intuire quando qualcuno è contro di voi.» Ladybug scosse il capo. «No, non può essere. Non lei...»

«Perché non io?» chiese lui «Cosa ho io meno degli altri? Prima che proviate reagire, prima che vi facciate male, è il momento che mi date i vostri Miraculous, finalmente. Vi assicuro che ne farò buon uso.»



***

Ciao, so che non lascio spesso note e mi scuso per questo, ma di solito avendo i capitoli già pronti preferisco concentrare tutte le mie energie nell’ultima e più fondamentale revisione. A proposito di questo volevo confessare che oltre questo capitolo ne ho scritti solo altri due ed essendo in un periodo molto impegnato temo che sia il caso per me di diminuire le fanfiction da portare avanti. Questa storia non mi sta dando le soddisfazioni che speravo mi desse in fatto di interazione con i lettori, quindi probabilmente andrà in pausa per un po’, nella migliore delle ipotesi.

Spero che possiate perdonarmi. Ci vediamo al prossimo capitolo.

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Capitolo 18
*** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (4) ***


18
IL GIORNO IN CUI PAPILLON FU SCONFITTO - 4


Queen Bee si trasformò subito dopo che ebbe capito ciò che era accaduto. Le immagini di Chat Noir che cercava di uccidere Ladybug erano ormai diventate virali, non c'era una sola rete televisiva che non le avesse mandate in onda almeno una volta, né qualcuno che non ne stesse parlando giù in strada. Ladybug stava bene, lo sapevano tutti, grazie a Carapace e Rena Rouge, e nessuno si stava preoccupando di Chat Noir se non per chiedersi cosa l’avesse portato a reagire in quel modo.

Lei, però, sapeva bene che quell’attacco non era stato volontario, sapeva che ovunque fosse andato a rintanarsi probabilmente stava peggio di Ladybug, che aveva bisogno di conforto e, probabilmente, di due ceffoni ben assestati che lo costringessero a smettere di autocommiserarsi.

Trovò l'amico sul tetto del vecchio cinema, quando il sole era ormai quasi tramontato, accucciato nella penombra, abbastanza in alto perché nessuno dalla strada potesse vederlo. Era seduto sulle tegole, con le gambe strette tra le braccia. Aveva la fronte premuta sulle ginocchia, le orecchie basse e la coda immobile dietro la schiena. Il vento agitava i suoi capelli già scompigliati, lui non dava cenno di accorgersene, né diede segno di notare il suo arrivo.

Chat Noir non sollevò lo sguardo neppure quando le suole delle scarpe di Queen Bee scricchiolarono contro le tegole del tetto, così lei ebbe tutto il tempo di avvicinarsi e pensare a cosa dire prima che lui muovesse il capo.

Queen Bee rimase in piedi, le braccia incrociate dietro la schiena, un ginocchio piegato e la punta della scarpa che poggiava sul tetto mentre muoveva la caviglia riflettendo sul da farsi.

«Ladybug sta bene.», disse come prima cosa, era probabilmente questo ciò che lo preoccupava di più, tutti sapevano quanto Chat Noir tenesse a Ladybug, tutti avrebbero potuto intuire che avrebbe sofferto se le fosse successo qualcosa.

Il ragazzo sollevò il volto, scoprendo gli occhi arrossati. «Non sarebbe dovuto succedere.» disse.

Queen Bee sbuffò. «Non è colpa tua, non potevi controllarlo.»

Aspettò che lui ribattesse, ma lui si limitò a scuotere il capo ed a nascondere il volto tra le braccia ancora una volta, se Papillon fosse stato ancora libero, rifletté, probabilmente avrebbe inviato decine di Akuma solo per lui. Subito dopo questo pensiero ricordò chi era, però, Papillon, e se da una parte le piaceva pensare che Gabriel Agreste non avrebbe mai fatto questo a suo figlio dall’altra realizzò che non poteva esserne certa, che in fondo non lo conosceva così bene per poterlo dire con certezza.

Si chinò al fianco di Chat Noir e tese un braccio verso di lui, gli posò una mano sulla spalla.

«Non puoi capire,» le disse lui. «Sarebbe stata al sicuro se non ci fossi stato io.»

«Ma non potevi impedire che la cosa che hai dentro prendesse il controllo e la andasse a cercare.» ribatté Queen Bee.

«Sono stato io ad andare a cercarla.» rispose Chat Noir allora. «Io che sono andato a scuola, che mi sono avvicinato per vederla, pensavo che se fossi rimasto abbastanza lontano sarei riuscito a non perdere il controllo.»

Lui batté il pugno al suo fianco, a Queen Bee parve di vedere per un istante l’energia oscura che lo avvolgeva e si chiese se solo il suo umore potesse scatenare il cataclisma. Solo dopo le parole dell’amico fecero presa nella sua testa e realizzò che era ancora in sé quando aveva deciso di andare a scuola per vedere Ladybug, che quindi aveva perso il controllo solo dopo, quando ormai era quasi certo che non sarebbe successo.

E, come se la sua testa avesse deciso da sola di scegliere l’ordine delle priorità di ciò che fosse più importante capire per primo, come ultima cosa realizzò che questo significava che Ladybug frequentava la loro stessa scuola, che forse l’aveva incontrata nei corridoi durante l’anno scolastico, che forse le aveva parlato e così anche Adrien, prima che sapesse che era proprio lei sotto la maschera.

«Vieni a casa con me.» disse a Chat Noir. «Ti faccio portare una cioccolata calda.»

Lui scosse il capo. «Ti farò del male, non voglio farti del male.»

«Non me ne farai.» lo rassicurò Queen Bee sollevando lo sguardo per l’esasperazione. Non le piaceva vedere l’amico in quel modo, se fosse stato chiunque altro probabilmente l’avrebbe già lasciato lì, dopo avergli ricordato senza troppi giri di parole che se non si fosse deciso a darsi una mossa allora avrebbe potuto benissimo andare a buttarsi nella Senna e liberare Parigi dalla sua inutile e depressa presenza, ma si trattava di Adrien e per lui sarebbe stata disposta a sopportare.

Chat Noir rimase in silenzio ancora qualche secondo, poi si voltò a guardarla, le guance arrossate. «Davvero Marinette sta bene?» chiese.

«Marinette?» domandò Chloe. Ripensò a quella mattina, a quando, nonostante fosse stata vista entrare a scuola prima di tutti, la ragazza era scomparsa per ore, per poi ricomparire solo dopo la pausa pranzo assieme a Nino ed Alya. A pensarci si sentiva stupida a non esserci arrivata prima, visti i codini che aveva sempre avuto in comune con Ladybug e tutto il resto.

«Stava bene, a pomeriggio è stata in biblioteca con Alya e Nino e camminava sulle sue gambe.»

Chat Noir sospirò, le orecchie gli si sollevarono tremolanti rizzandosi per un momento sulla testa. «Che sollievo.»

Queen Bee strinse i denti, dentro era un subbuglio di emozioni, ammirazione e fastidio si mescolavano a rabbia e orgoglio. Non poteva credere che fosse proprio lei, né che fosse per lei quello sguardo adorante di Chat Noir, che non poteva fare a meno di vedere riflesso in quell’immagine di Adrien che aveva in testa. Strinse i pugni. «Andiamo.» disse ancora.



Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

Chat Noir strinse i denti, chinò il capo, strinse tra le mani il bastone, pronto a combattere. Anche Ladybug, ora, era sull'attenti. La sentiva rigida, pronta a dare il meglio di sé nella battaglia finale, anche se ancora esitante.

«A suo figlio non piacerebbe sapere quello che sta facendo qui.» la sentì dire a suo padre.

Non sfuggì l'occhiata che l’uomo le lanciò in risposta, forse si stava domandando se lei sapesse chi fosse, forse si stava preparando a dirglielo lui, per spiazzarla e riuscire a sopraffarla. Non glielo avrebbe permesso. Rimase all’erta, mentre Gabriel Agreste si avvicinava a piccoli passi. «Allora,» disse Gabriel. Tese la mano verso di loro, il palmo aperto e sollevato in attesa che loro consegnassero il Miraculous. Nessuno dei due si mosse, allora lui fece un passo ancora e, prima che arrivasse troppo vicino, Chat Noir sollevò il bastone e gli colpì il polso, respingendolo.

Non osare, pensò.

«No!» gridò Ladybug.

Se Adrien si aspettava che suo padre avrebbe reagito con contegno e si sarebbe dimostrato indispettito dal loro comportamento e dal fatto che loro stessero facendo resistenza, si sbagliava di grosso, perché lui sollevò gli occhi al cielo quasi rassegnato e sospirò. Fu il gesto più plateale che Adrien gli avesse mai visto fare, mezzo momento prima che lui si sfilasse il fazzoletto al collo. Allora notò la spilla che vi era celata sotto, e fu certo che era stata nascosta lì da sempre. Era il Miraculous della farfalla, di riflesso contrasse le dita, il pensiero di allungare il braccio e afferrarlo fu forte, ma si trattenne. In quello stesso momento, suo padre sollevò una mano e si trasformò. Il lampo di luce viola che lo circondò li accecò per un istante, fu costretto a distogliere lo sguardo per non restare abbagliato e, anche dopo che la luce si fu dissipata e che suo padre aveva lasciato il posto a Papillon, Chat Noir avvertiva ancora dei piccoli bagliori che gli rendevano lo spazio attorno confuso.

«Non farlo.» supplicò. Ma la voce uscì tanto flebile che dubitò di essere riuscito a pronunciare quelle parole. Scosse il capo come per riscuotersi da quei pensieri e si voltò verso Ladybug alla ricerca di qualche indicazione. Sperò che lei potesse dirgli cosa fare, che avesse già una soluzione; il timore di non essere in grado di affrontare suo padre fu grande fu grande.

«Mia signora.» disse.

Lei lo fissò, le labbra ancora dischiuse per lo sgomento, occhi gli occhi coperti da una mano.

«Tu.» disse Papillon, che Chat Noir non riusciva più a riconoscere come il proprio padre, «Fidati di me, è per il meglio, se sapessi perché lo sto facendo anche tu mi appoggeresti.

«Che significa?» chiese Ladybug.

Chat Noir non diede il tempo a Papillon di rispondere, afferrò Ladybug per il fianco, la strinse a sé e prese le distanze. Gli sarebbe piaciuto poter mettere tra loro e suo padre una distanza infinita.

«Ragazzino testardo.» disse Papillon allora, sollevò il bastone, Chat Noir penso che l’avrebbe usato per colpirli, per un attimo dimenticò chi si nascondeva sotto la maschera, alzò un braccio a sua volta per respingere il colpo, ma quello non arrivò mai.

Vi furono, invece, uno sciame di falene che, arrivando loro alle spalle, invasero la stanza battendo le ali e sfiorandoli per raggiungere Papillon. Lo avvolsero e lo celarono alla loro vista. Pochi secondi dopo si dissipano disperdendosi nell'aria e, quando ciò accade, Papillon era sparito, tutto ciò che rimase e che Chat Noir poter vedere fu il ritratto di sua madre appeso alla parete.

Se ci fosse stato un momento adatto a defilarsi e sparire dalla faccia della terra, Adrien era convinto che sarebbe stato quello; gli sarebbe bastato poco per voltarsi uscire dalla porta e attraversare Parigi lasciandosi tutto alle spalle e tutti, ma non lo fece. Era troppo impegnato a cercare di metabolizzare e trarre conforto dalla presenza di Ladybug al suo fianco ed a voler pensare che, ancora una volta, se fosse stato con lei sarebbe andato tutto bene. Comunque fossero andate le cose Ladybug non l'avrebbe abbandonato, si ripete, nonostante avesse chiarito che non ricambiava i suoi sentimenti quanto lui sperava che facesse. Come avrebbe potuto prevedere, Ladybug si era già ripresa dallo shock, o se ancora aveva dei pensieri per la testa era particolarmente brava a nasconderli. Sperava di poter dire la stessa cosa di sé stesso.

«Andiamo,» gli disse a un soffio dall'orecchio, «sono sicura che non sia andato lontano, i suoi poteri non comprendono il teletrasporto.»

Annuì, mentre lei si sporgeva in avanti e si avvicinava al punto in cui da cui lui era scomparso si piegano entrambi sul pavimento e Ladybug premette le mani sulle mattonelle.

«Qui c'è qualcosa.» disse, «forse una botola.»

Chat Noir sospirò, ecco un'altra cosa che non sapeva di casa sua e di suo padre. Ormai poteva dire di non averlo conosciuto affatto.

Sollevò lo sguardo, incapace di sostenere quello dell'amica. Nei suoi occhi erano evidenti impazienza, ansia, anche un pizzico di accettazione.

«Ci siamo.» gli disse lei, «È il momento della Battaglia finale, dopo saremo finalmente liberi, noi e Parigi.» Poi lei gli sfiorò un braccio e aspettò che lui tornasse a guardarla.

«Tutto bene?» gli domandò, «So che è tanto da scoprire così all'improvviso, ma non potevamo sperare di meglio.

«Già, certo.» disse Chat Noir.

«Dopo, continuò Ladybug, «potremmo fare un ultimo giro di Parigi come supereroi prima di ritirarci. Non saremo più succubi di queste identità segrete.»

Avrebbe dovuto essere confortante, probabilmente lei stava dicendo ciò che avrebbe voluto che le dicessero, ma proprio lui che aveva sempre desiderato conoscere la sua identità con tutta l’anima ora aveva cambiato idea. Suo padre gli avrebbe lasciato una brutta eredità e lui non aveva modo di evitarlo. «Andiamo.» lo incoraggiò Ladybug. E la sua voce, che era sempre stata così confortante per lui, per una volta lo stava spingendo nell'unico posto da cui avrebbe voluto fuggire.

Posò una mano accanto a quella di lei sul pavimento, là dove due mattonelle non combaciavano alla perfezione. Dove Era palese che ci fosse un passaggio segreto, misero entrambi i palmi sul marmo e vi premettero sopra i polpastrelli.

Chat Noir si sarebbe aspettato che accadesse qualcosa, che vi fosse uno scatto e la botola si aprisse, invece non successe proprio nulla e loro rimasero lì, in attesa, inutilmente.

Alzati gli occhi incrociò l’immagine di sua madre, immobile in quel sorriso che gli aveva regalato ogni giorno dalla sua scomparsa, così confortante eppure così non reale. La raggiunse, non seppe neanche perché, per un momento si chiese cosa avrebbe voluto, cosa avrebbe detto nel sapere che le due persone che più amava stavano per scontrarsi. Non seppe di aver sollevato le mani finché non sfiorò il dipinto, trovando i bottoni che avrebbero attivato l’ascensore.

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Capitolo 19
*** Il giorno in cui Papillon fu sconfitto (5) ***


19
IL GIORNO IN CUI PAPILLON FU SCONFITTO - 5


Marinette scrisse per l’ennesima volta la voce “esorcismo” sul quaderno, non credeva che le potesse essere utile, né sapeva se un rito tradizione avrebbe davvero funzionato, ma era l’unica cosa che in quel momento aveva in mente e nonostante ciò non sapeva da dove cominciare. L’intera mattinata era trascorsa in silenzio, né lei né Alya avevano proferito parola, neppure quando avrebbero potuto lamentarsi insieme di quanto fossero difficili gli esercizi di matematica. Marinette realizzò solo all’ora di pranzo quanto il comportamento dell’amica quel giorno fosse stato insolito e si ripromise di rimediare alla sua mancanza al più presto, ma in quel momento la sua priorità era Chat Noir, l’unica cosa che avrebbe potuto distrarla, anche se solo per un po’, era la possibilità di trovare indizi su dove si trovasse Adrien, ma fino a quel momento voleva restare concentrata. Parte di lei continuava ad essere convinta che il ragazzo fosse rimasto bloccato in casa, nonostante quello che la polizia continuava a dire ai giornalisti.

Quando arrivò l’ora di pranzo e la campanella suonò molti dei compagni di classe uscirono dall’aula schiamazzando e urtandosi tra loro senza guardarsi indietro, in classe rimasero solo Alya, Nino e Rose, che finì con calma di mettere via le sue cose e fece loro un cenno di saluto prima di imboccare la porta come gli altri. Marinette era talmente immersa nei suoi pensieri che si accorse che Chloe la stava fissando solo quando sollevò il voltò per sgranchirsi il collo.

Allora la vide sbuffare e, al contrario di ciò che si sarebbe aspettata, incrociare le braccia senza dire nulla.

Sbatté le palpebre, Chloe non era mai stata sottile riguardo a quello che pensava delle persone ed era ben più facile che dicesse loro in faccia quello che le stava passando per la testa, piuttosto che restasse a lanciare occhiate simili.

Marinette inclinò il capo, cercando di capire cosa potesse significare o almeno per darle un segno di averla notata, ma Chloe si limitò ad arricciare il naso in una smorfia di disgusto e poi distolse lo sguardo solo per un secondo, agitando il capo quel tanto che bastava per fare oscillare la coda di cavallo dietro di sé. Poi tornò a guardarla, le braccia incrociate e le mani strette all’altezza dei gomiti.

«Si può sapere cosa c’è?» domandò allora Marinette. Non aveva tempo per preoccuparsi di decifrare messaggi in codice, allora lasciò cadere la penna sul quaderno e si alzò in piedi. «Si può sapere cosa vuoi?»

Chloe si abbandonò contro la sedia. «Sto cercando di capire come tu possa essere così anonima e poi fare quello che fai.»

«Nessuno è davvero anonimo, Chloe, abbiamo tutti i nostri punti di forza.» ribatté.

Ma lei non sembrava convinta, ancora la fissava con sufficienza da sotto le ciglia cariche di mascara.

«Tu non lo meriti.» la sentì dire.

«Come?» domandò.

Chloe sbuffò ancora. «Adrien. Non meriti lui e quello che prova per te.»

Marinette sbatté gli occhi, le gote accaldate mentre metabolizzava l’idea che la ragazza fosse convinta che lui fosse innamorato di lei.

«Che stai dicendo? Lui non prova nulla per me.» ribatté.

Chloe gonfiò le guance, batté il pugno sulla scrivania, era forse una delle poche volte in cui Marinette poteva dire di averle visto perdere davvero il controllo in modo diverso da un capriccio.

«Lo metti ancora in dubbio? Dopo tutte le volte che ha rischiato la vita per te durante gli scontri contro le Akuma?»

L’unico che avesse mai rischiato la vita per lei, realizzò Marinette, era Chat Noir. Chat Noir che la evitava da quando le ombre l’avevano preso, che aveva consegnato alla giustizia Papillon da solo, che non si era fermato a spiegarle come fosse finito lo scontro, ma che l’aveva riportata a casa e medicata mentre era priva di sensi. Chat Noir con i suoi capelli biondi, gli occhi verdi ed il sorriso sbarazzino. Chat Noir che aveva cercato di farle capire di essere innamorato di lei in ogni modo. Chloe parlava di Adrien come se fosse lui.

Sentì una mano sfiorarle la spalla e si voltò, trovando Alya in piedi al suo fianco.

«Sei Ladybug.» disse, gli occhi sgranati.

Dischiuse le labbra per negare, ma prima che potesse farlo Chloe si alzò e lasciò la stanza, lasciando lei, Alya e Nino da soli. Sospirò, il fiato corto e il cuore che le batteva forte nel petto, colse la domanda negli occhi di Nino, ma invece che sviarlo, improvvisamente travolta dalla stanchezza, gli rispose con un cenno del capo. Ebbe l’impressione che nulla l’avesse mai svuotata tanto quanto quella confessione.

Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

«Stringiti a me.» disse Chat Noir a Ladybug, trascinandola con sé nel punto in cui Papillon era scomparso. La la afferrò per la vita e la premette contro di sé, intenzionato a non perdere la presa o lasciarle scelta. Strizzò gli occhi, avvertendo le mattonelle muoversi sotto i loro piedi. La pedana cominciò a scendere mentre i due, aggrappati l’uno all’altra, si tenevano in equilibrio per non entrare in contatto con le pareti di pietra che avvolgevano quel piccolo passaggio angusto.

Chat Noir riaprì gli occhi solo quando avvertì l’aria attorno a loro cambiare. Non aveva mai provato a immaginare come fosse il covo di Papillon, ma in un certo senso trovò perfetto, nella sua ovvietà, il fatto che fosse pieno di farfalle lucenti pronte a divenire Akuma.

Non vide suo padre in tempo, però, e lui lo colse di sorpresa strappandogli dalle braccia Ladybug.

Le farfalle arrivano subito dopo, si aggrapparono ai suoi capelli, alle sue orecchie, quasi come se cercassero di spingerlo indietro e tenerlo impegnato.

Sentì Ladybug sussultare alcuni metri più in là, avrebbe voluto raggiungerla, aiutarla, riuscire a vedere dove fosse Papillon in quel momento per poterlo colpire e costringerlo a richiamare le sue farfalle. Tese una mano verso la compagna, piegò l'altro braccio per ripararsi gli occhi e con le palpebre semichiuse cerco di avanzare attraverso quel frullare d’ali insistente. Agitò la mano, colpì le farfalle più vicine spingendole via, ma più ne allontanava più sembravano arrivarne altre.

Da dove venivano? Erano sempre state lì? Come aveva fatto a non accorgersene in tutto quel tempo? forse era solo stato troppo distratto per poter notare ciò che gli accadeva attorno, oppure suo padre era semplicemente stato troppo bravo a nascondersi.

«Ladybug!» disse.

La senti chiamarlo a sua volta.

«Arrivo!» le rispose.

Non riusciva a pensare di affrontare suo padre, ma tutto quello che aveva in mente era proteggere lei da lui. Una nuvola più consistente di farfalle gli avvolse il capo, fu allora che senti Ladybug strillare. Con una manata più decisa usò il bastone per colpire tutte le farfalle che poteva, cerco l'amica con lo sguardo e la trovò, a suo parere, troppo vicina Papillon. Scattò in avanti per raggiungerla, mentre l'uomo tendeva ancora la mano verso di lei, che tirò fuori il suo yo-yo e lo fece roteare davanti a sé per usarlo come scudo. La vide indietreggiare.

«Smettila! gli ordinò Chat Noir. Fu quasi tentato di chiamarlo papà, pur di provare a convincerlo a dargli ascolto, ma il timore della reazione che avrebbe avuto Ladybug e glielo impedì.

Lanciò il bastone contro l’uomo e quello si conficcò nel pavimento davanti a Ladybug, lei ne approfitto per fare un salto indietro; le farfalle ancora la assediavano ma avevano lasciato uno spazio libero là dove lo yo-yo roteava.

«Dobbiamo prendere la sua spilla!» la sentì dire.

Sapeva che aveva ragione, che non aveva bisogno di combattere il suo padre se fosse riuscito a togliergli il Miraculous. Una volta che fosse rimasto senza sarebbe stato un semplice umano facile da costringere alla resa e mandare in prigione. Annuì, anche se non era certo che lei potesse vederlo. Avanzò verso di loro, ma tentennò quando vide Papillon piegarsi in avanti e prendere il suo bastone.

Strizzò gli occhi, come avrebbe fatto adesso a riprenderselo? Poteva contare sul fatto che essendo suo figlio non gli avrebbe fatto del male se si fosse avvicinato? Quanto sarebbe stato difficile, per lui, sfilargli il Miraculous dal dito? Certo sarebbe stato meno facile che strappare una collana dal collo di una persona.

Si diede lo slancio, puntando dritto contro di lui, ma proprio in quel momento lo vede voltarsi e rilanciargli il suo bastone. Non se l'aspettava, quindi sollevò le braccia per difendersi e lo afferrò malamente dopo che gli ebbe colpito il gomito. Lo fece roteare in mano ed esclamò: «Smettila, non capisco cosa vuoi ottenere, ma qualunque cosa sia non puoi permetterti di andare in giro ad utilizzare la gente per riuscirci!

«Non diresti così se sapessi la verità.» ribatté l’uomo.

Ladybug approfittò di quel momento di distrazione per farsi avanti, gli afferrò il polso con lo yoyo.

«Chat Noir!» chiamò.

Allora lui si sporse in avanti, quasi riuscì a sfiorare la spilla, ma suo padre lo spinse via facendolo finire per terra e rigirò la mano per afferrare il filo dello yo-yo di ladybug strattonandola e costringendola ad avvicinarsi. Poi piegò l’altro braccio e le strinse la mano attorno al collo.

«Ora, ragazzo», disse Papillon. «Forse è il momento di renderti partecipe, allora vedrai che tutto andrà bene e tu potrai capire.»

Chat Noir deglutì col cuore in gola, fece un passo in avanti ma le farfalle sciamarono in gruppo verso le sue caviglie e gli fecero perdere lo slancio, per quanto il ragazzo provasse ad affrontarle e ad attraversare quell’ostacolo era peggio che cercare di nuotare controcorrente.

Ladybug strinse le mani al polso di Papillon, cercando di fargli allentare la presa, gli occhi sottili, spaventati, i capelli impigliati nelle dita dell’uomo che la stava strangolando, le labbra dischiuse nel tentativo di catturare più aria possibile.

«Lasciala andare!» gridò Chat Noir.

«Di lei non mi importa.» replicò Papillon.

«Allora ti prego, lasciala andare!» supplicò ancora, la voce rotta e le lacrime intrappolate nell’angolo dell’occhio.

Papillon non allentò la presa, Ladybug iniziò ad agitarsi, a sbattere i pugni, mentre Chat Noir si tendeva verso di lei e veniva prontamente respinto indietro dalle farfalle.

Poi Chat Noir smise di cercare di attraversare il muro di farfalle, richiamò invece il suo cataclisma e lo usò contro di loro, ignorando con un senso di nausea l’ansia ed il senso di disgusto che derivava dal suono di quelle ali che sfrigolavano e crepitavano a contatto con la sua energia distruttiva. Le farfalle più vicine morirono così, le altre si scostarono quel tanto che bastava per aprirgli un varco.

Fu quello il momento in cui Ladybug smise di lottare, in cui Papillon allungò le dita e le sfilò gli orecchini, quando Chat Noir fu abbastanza vicino l’uomo gli gettò addosso la ragazza e, prima che potesse rendersene conto, aveva teso le braccia per afferrarla.

La luce della trasformazione si esaurì proprio mentre la ragazza rimbalzava contro il suo petto, e si ritrovò a stringere a sé, protettivo, Marinette Dupain-Cheng.

Chat Noir si lasciò cadere in ginocchio, Papillon aveva preso entrambi gli orecchini, il Kwami della coccinella, inerme quanto la portatrice del suo Miraculous, giaceva inerme a pochi metri da loro.



Ciao, ci tenevo a chiedervi come state, spero davvero che stiate bene e che stiate riuscendo a passare questa quarantena senza soffrirne troppo. Spero che, in ogni caso, questo capitolo vi abbia fatto passare una piacevole mezz’ora.
Purtroppo avevo scritto questa parte di fanfiction già da un po’ e, a causa di diversi impegni di studio, probabilmente non la continuerò almeno per un po’. Può darsi che ve lo avessi già accennato, ho una memoria terribile, nel dubbio io ve lo scrivo comunque.
Vi ringrazio per essere arrivati a questo punto, vi ricordo che la fanfiction è anche su Wattpad, che sulla mia pagina Instagram (WhiteLight_Girl) trovate diverse Fanart di Miraculous e altro e vi invito, se ne avete voglia, a supportare la mia scrittura con un commento e/condividendo le mie fanfiction a coloro a cui potrebbero interessare. Spero di risentirvi presto, non posso che augurarvi di stare bene, ora più che mai <3

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