All'ombra del cielo [HIATUS]

di betelgevse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alkaid ***
Capitolo 2: *** Mizar ***
Capitolo 3: *** Alioth ***
Capitolo 4: *** Megrez ***
Capitolo 5: *** Dubhe ***



Capitolo 1
*** Alkaid ***




Personalmente, non ho mai creduto a tutte quelle accuse fondate solo all’apparenza su basi teologiche: non che io sia un miscredente od un ateo, sia chiaro, ma penso sia giustificato dalla ragione pensare che angeli e demoni -ed altre creature sovrannaturali- non esistano.
Certo, nessuno mi avrebbe mai potuto garantire o confermare la loro esistenza senza ricevere un mio sguardo al culmine dello scetticismo o, nel peggiore dei casi, una risata miseramente trattenuta.
Eppure, nemmeno con qualche scorcio di dialettica perduta negli antri remoti del mio cervello, avrei potuto argomentare l’opposto non appena ne vidi uno, proprio di fronte ai miei occhi.
Una credenza medievale vuole che alla figura femminile siano associati il male, il peccato, la seduzione lussuriosa, l’incarnazione del demonio tentatore. E gli uomini di allora si sbagliavano, si sbagliavano eccome: il diavolo non era una ragazza leggiadra, una di quelle fanciulle che ispiravano i poeti stilnovistici, e nemmeno una donna voluttuosa, dedita alla frequentazione dei postriboli.
Il demonio era un uomo sui vent’anni con la pelle ambrata, i capelli raccolti, una miriade di lentiggini e gli occhi che riflettevano l’infinito cosmico e tutta la volta celeste. Se gli antichi avessero conosciuto Ryuuji Midorikawa, probabilmente avrebbero descritto Lucifero come una creatura che suonava l’organo di notte seguendo gli spartiti di Mozart, che leggeva solamente opere di autori classici e che alzava il mignolo quando beveva: un’immagine ben distante dall’essere immondo e bruto, simbolo di pura stoltezza e perdita della ragione a cui veniva associato.
Forse si erano accordati nell’inculcare nelle menti dei credenti l’idea di un demone empio ed immorale per proteggerli: se mi avessero insegnato sin dall’infanzia che Lucifero era più simile alla rappresentazione fornita da Cabanel ne “L’angelo caduto” piuttosto che a quella giottesca nella Cappella degli Scrovegni, sarei stato ben più contento nel sentirmi augurare l’inferno dopo la morte.
Non ho mai incontrato qualcuno che si accostasse a lui nell’aspetto, nei gesti, nei modi, nel portamento.

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Sono circa le tre del pomeriggio e mi sto recando a casa, dove Masaki probabilmente mi aspetta dopo essere tornato da scuola. Da quando ho divorziato dalla mia oramai ex-moglie, Masaki è stato costretto a vivere con me e non sembra particolarmente entusiasta di questa decisione: non credo di poter racimolare il coraggio sufficiente per dirgli che Reina ha trovato un nuovo compagno. Tutto quello che sono stato in grado di riferirgli è che si era trasferita per motivi di lavoro e che, magari, durante l’estate gli avrebbe fatto visita per salutarlo. Ed effettivamente così è successo dal primo anno di separazione: nel mese di luglio, puntuale come un orologio svizzero ed impeccabile come al solito, si presentava alla nostra porta e Masaki era al settimo cielo.
Sebbene abbia solo sei anni, Masaki è tutto fuorché ingenuo e prima o poi capirà da sé perché Reina non vive più con noi ed io non potrò far altro se non limitarmi ad annuire e dargli conferma.
Una volta rincasato, sospiro un “Sono tornato” più a me stesso che a mio figlio, e vedo quest’ultimo alzare il viso dal libro che stava leggendo per voltarsi verso di me.
“Ciao, papà”, mi dice tranquillo per poi alzarsi -o meglio, scendere- dalla sedia per raggiungermi mentre appoggio la mia valigetta sopra un mobile.
“Oggi andiamo al parco?”, mi chiede guardandomi dal basso, girandomi intorno e seguendomi in cucina. Onestamente le giornate al lavoro sono pesanti e tornare a casa è la mia unica soddisfazione quotidiana, ma non me la sento di deluderlo, per cui annuisco. Uno dei tanti problemi che ha portato l’assenza di Reina è proprio l’aumento del carico di lavoro: prima di licenziarsi, era la mia segretaria e condividevamo il medesimo ufficio oltre agli stessi impieghi. Adesso il posto è disponibile e, sebbene ci siano persone come Suzuno che insistono nel volerlo, far ripetere ad ogni candidato gli esami di qualifica ed il colloquio consumerebbe troppo tempo. Certo, Suzuno è testardo e sta studiando da più di un mese, ma non credo di voler aggiungere i temi di una cinquantina di impiegati a tutti i documenti che già mi tengono impegnato a tempo pieno.
Come di consueto, inizia a saltellare contento e non posso non lasciarmi sfuggire un sorriso nel vederlo così gaio. Ho dei plichi di fogli da revisionare, ma non credo sia un problema se, per una volta, mi azzardo a sistemarli in un ambiente che non sia l’ufficio di casa mia.
Ci rechiamo insieme nel piccolo angolo di paradiso di Masaki e, non appena adocchia qualcuno dei suoi compagni di classe, sfila rapidamente la sua mano dalla mia e lo guardo correre verso di loro. Probabilmente si erano messi d’accordo, ecco perché me l’aveva chiesto quando ero ancora sulla soglia di casa. Mi siedo tranquillamente sopra una panchina e prendo un paio di fogli dalla mia tracolla: tanto vale cominciare subito. Cerco di tenere d’occhio Masaki con ben poca parsimonia perché so che tende a diventare iperattivo vicino ai suoi coetanei, di conseguenza devo prestare maggior attenzione a lui per evitare situazioni spiacevoli. E, puntualmente, come leggo una riga di troppo non lo vedo già più.
Mi impongo di mantenere la calma per il mio medesimo bene e, sforzando un’espressione pacata, mi avvicino a Hikaru, probabilmente uno dei pochi compagni di classe di Masaki di cui mi ricordo il nome.
“Salve, signor Kira”, mi sorride con bontà infantile non appena lo raggiungo, lasciando a terra il pallone con cui stava giocando fino a pochi attimi prima.
“Ciao, Hikaru. Per caso hai visto dov’è finito Masaki?”, gli domando ricambiando il sorriso, piegandomi leggermente per non farlo sentire a disagio vista la differenza di altezza.
“Mhh... Forse è andato verso i campi da calcio insieme a Tenma”, ipotizza dopo averci pensato sopra per qualche istante, indicandomi subito dopo i suddetti campi con il dito.
“Ok, grazie mille”, lo saluto di nuovo per poi avviarmi verso di questi con il mio bagaglio di fogli appresso.
I campi sono di proprietà dell’oratorio e vi si può accedere in due modi: tramite un cancello dalle inferriate alte e decorate, oppure passando da una delle cappelle della chiesa. Il cancello era chiuso, per cui non vi era altra soluzione se non passare dalla chiesa stessa.
Camminando rasente alle aiuole in fiore e alle varie piante che tingono graziosamente il giardino di fronte all’edificio, mi avvio verso il portone principale e non sono in grado di ignorare i piccoli bagliori che si infrangono contro le vetrate ed i rosoni dall’interno, proiettando colori delicati sul lastricato di fronte alla struttura. Controllo per sicurezza il mio orologio da polso: sono le quattro. Che io sappia, non si tengono funzioni a quest’ora e, tecnicamente, non ci dovrebbe essere nessuno nella sede.
Non so giustificare quelle luci accese, specialmente perché il sole è fin troppo cocente oggi e quindi la luce naturale c’è ed in abbondanza. Procedendo verso la gradinata, spingo il portone in vetro ed entro. Mi guardo intorno per cercare Masaki ed assicurarmi dell’effettiva presenza di qualcuno che non sia io, ma non c’è nessuno. L’unica cosa che odo, a parte il mio respiro, è l’eco di qualche passo delicato a diversi metri sopra di me, accompagnati da altri passi sebbene affrettati e scoordinati.
L’unica spiegazione plausibile è che qualcuno, probabilmente del coro, debba provare qualche brano o, più fattibile, un collaboratore stia già organizzando la funzione delle sei. Il mio corpo si blocca non appena una melodia si diffonde con prepotenza nell’aria, sovrastando ogni rumore presente nell’intera struttura ed imponendosi con superiorità schiacciante sul silenzio religioso dell’ambiente. Le note di un organo a canne, posizionato su un apposito piano soprelevato, occupano lo spazio nella sua interezza e con soavità disarmante, altero nella sua limpidezza di suono e nella purezza musicale. C’è qualcosa di curioso quanto terrificante in quello spartito: mi è impedito qualsiasi movimento che non sia il voltarmi in direzione del suono per capire da dove nasca, chi lo produca, come si purifichi nell’aria. Mi riprendo fortunatamente dallo stato di trance in cui ero piombato involontariamente ed inconsciamente ed avanzo sulla navata principale per poter vedere oltre il parapetto del piano così da mirare quella che sembra essere l’unica persona presente, me escluso.
Ciò che scorgo a malapena, a causa dell’ombra generata dalla parete frontale che inghiotte completamente l’organo ed il piano, è una schiena magra, avvolta da un delicato completo grigio perla, e dei capelli verdi, raccolti ordinatamente in uno chignon alto. Il brano termina e vedo, per quanto mi sia concesso, quella persona girare il viso di lato, sorridendo mentre guarda in basso.
“Ancora, ancora! La suoni di nuovo, signore! Per favore!”, sento una voce vivace ed infantile esordire gioiosa, e vi riconosco il timbro e la cadenza di mio figlio. Quello che oramai identifico come un uomo solleva il bambino che gli stava parlando per farlo sedere sulle proprie gambe e, nel notare la zazzera di capelli cerulei, mi sembra palese che si tratti proprio di lui.
“Masaki!”, lo chiamo dal basso, tenendo lo sguardo ancorato su quelle due figure, “Sei là sopra?”.
Ambedue si girano verso di me ed il diretto interessato mi sorride, sporgendosi oltre la spalla dell’uomo per salutarmi.
“Ciao papà!”, mi dice contento come una Pasqua mentre agita la mano come per paura che non lo vedessi, “Hai sentito che bravo che è il signore a suonare?”.
La domanda mi si infrange addosso come una doccia gelida: come faceva un bambino come Masaki, che si era sempre mostrato timido, se non diffidente, con gli sconosciuti, ad essere così estroverso con qualcuno che, per quanto mi risultasse, non aveva mai visto in vita sua? Perché si trovava così a suo agio con qualcuno di nuovo, ignoto in ogni aspetto?
“Sì, ha suonato bene la Lacrimosa, ma ora dobbiamo andare”, cerco di tagliare corto mentre continuo a guardarlo, tentando di fargli capire di scendere da lassù il prima possibile. Mi guarda con evidente disappunto, ma scende docilmente dalle gambe dell’uomo che, voltandosi verso di me, mi rivolge il sorriso più enigmatico che abbia mai visto prima di sparire con mio figlio oltre una porta di legno vicino alle canne dell’organo.
Dopo un paio di minuti, entrambi mi raggiungono sulla navata ed usciamo dall’edificio. Lascio che Masaki corra davanti a noi come se volesse farci strada mentre io e l’organista lo seguiamo a passo moderato. Vedendolo da vicino, noto che è poco più basso di me e che, sebbene ne avessi avuto l’impressione già da quando si era voltato in chiesa, deve avere qualche problema agli occhi dato che li ha tenuti chiusi per tutto il tempo. Mi stupisce che non sia caduto nemmeno una volta dalle scale o che non abbia sbattuto da qualche parte siccome non ha nulla per aiutarsi come fanno le persone cieche.
Ritornati a giardinetto, Masaki si unisce ai suoi compagni e mi assicuro di ammonirlo a restare nel parco prima che se ne vada di nuovo, al che annuisce per poi raggiungerli. Ero in procinto di ripescare nuovamente i fogli dalla mia tracolla, ma una voce gentile e suadente mi ferma prima che possa muovermi.
“Lascerebbe da parte le carte d’ufficio per due chiacchiere?”, mi domanda l’uomo di prima, sorridendo con garbo mentre prende posto vicino a me sulla panchina dopo che gli ho fatto un cenno positivo con la testa. Solo in quel momento lo noto aprire gli occhi per una frazione di secondo per poi chiuderli di nuovo, giusto il tempo necessario per mettersi composto sulla seduta di legno.
“Mi perdoni per la mancanza di tatto”, premetto mentre lo guardo, incerto se domandarglielo o meno, “ma perché tiene gli occhi chiusi se può vedere? Non è pericoloso?”.
Lo vedo mordersi il labbro con titubanza e mi pento per averglielo chiesto: quasi certamente sarò risultato insensibile o sgarbato, ma non faccio in tempo a scusarmi per la domanda scomoda perché lui mi anticipa.
“Ad alcune persone fa impressione, per cui li tengo chiusi”, inizia a parlare mentre si torce le dita nervosamente, voltandosi verso di me -questa volta con gli occhi aperti-, “Dovrebbe vedere quanti genitori fanno scudo ai loro figli quando lo notano: non volevo spaventare Masaki”.
Noto solo in quel momento che non c’è la minima traccia di colore nei suoi occhi. Le pupille, tinte di un nero puro, occupano anche lo spazio in cui dovrebbero comparire le iridi, che sarebbero completamente assenti se non fosse per un alone mogano di un millimetro scarso.
“È aniridia”, mi precede prima che possa reagire, senza però calare le palpebre come avrebbe fatto fino a poco fa.
“Mi dispiace per quello che deve subire”, gli confido con tono mortificato. È struggente sapere che venga discriminato non solo per una condizione involontaria, ma soprattutto per una malattia: certe persone non hanno né rispetto, né umanità.
“Non si preoccupi, ogni tanto riesco ad utilizzare le lenti, anche se è difficile trovare un colore che copra il nero”, risponde con un sorriso gioviale e non mi sento di far altro se non ricambiare.
“Posso sapere il suo nome? Credo che prima abbiamo scordato le formalità come il presentarsi”, azzardo con un sorriso sereno, vedendolo annuire di buon grado subito dopo.
“Midorikawa Ryuuji”, mi porge la mano con garbo, accompagnando un sorriso ed il suo iconico sguardo indecifrabile al gesto.
“Kira Hiroto”, stringo gentilmente la sua mano nella mia, firmando così la nostra conoscenza.
“Kira?”, vedo nei suoi occhi un bagliore nuovo, un guizzo di curiosità, mentre rimugina sopra dei ricordi remoti e a me sconosciuti, “L’ho già sentito, ma mi sfugge dove”.
“Me lo farà sapere un’altra volta”, gli faccio cenno di non pensarci per poi sentirlo ridacchiare con voce tersa e cristallina mentre si lascia sfuggire un “Farai”, come per correggermi.
“Vada per il tu mutuale, allora”, annuisco con un sorriso mentre mi alzo dalla panchina insieme a lui nel vedere Masaki raggiungerci correndo, probabilmente dopo aver notato il cielo incupirsi.
Midorikawa fa per chiudere di nuovo gli occhi mentre mio figlio si avvicina, ma li riapre non appena gli do un colpetto leggero con la nocca contro il dorso della mano, facendogli capire di non preoccuparsi. Non credo ci siano parole per descrivere la gratitudine ed il sollievo che permeano il suo volto quando si volta per sorridermi.
“Papà, andiamo a casa?”, mi domanda Masaki mentre si aggrappa alla mia gamba, guardandomi con i suoi occhi pieni dal basso. Annuisco alle sue parole mentre porto una mano ad accarezzargli gentilmente i capelli, togliendo un paio di foglie che gli si erano impigliate tra le ciocche lunghe.
“Sarà meglio incamminarsi subito, temo che tra poco pioverà”, ci fa notare Midorikawa mentre volge lo sguardo verso il cielo tetro e le nuvole dense.
“Mh, sarà meglio avviarsi”, annuisco alla sua affermazione, guardandolo poi con un sorriso cordiale, “Allora alla prossima, Midorikawa”, lo saluto con un mezzo inchino mentre Masaki fa altrettanto, restando aggrappato alla mia gamba.
“Alla prossima”, ricambiando il gesto di cortesia, ci saluta entrambi con un cenno della mano per poi incamminarsi a sua volta per la sua strada. Prendo quindi Masaki per mano, percorrendo la strada in direzione opposta a quella dell’organista mentre la tracolla sbatte con insistenza contro il mio fianco ad ogni passo.
“Masaki, come mai sei andato proprio in chiesa?”, domando una volta sufficientemente distanti dal parco, “E poi perché non me l’hai detto?”.
Con la coda dell’occhio, lo noto alzare lo sguardo verso di me mentre accelera il ritmo dei suoi passi per starmi dietro, tornando subito dopo a guardare la strada pensieroso.
“Non lo so”, mi risponde dopo un po’ mentre inizia a delinearsi il profilo del grattacielo in cui viviamo, “Mi ricordava la mamma”.
Resto spiazzato di fronte alla sua affermazione, bloccandomi per un attimo dall’aprire la porta del condominio, tenendo la chiave saldamente premuta tra indice e pollice. Certo, io stesso avevo notato che Midorikawa non spiccava particolarmente per la mascolinità e che poteva benissimo essere scambiato per una donna a primo impatto, ma arrivare a dire che assomigliasse a Reina non mi sembrava concepibile. A partire dalla fisionomia facciale fino ad arrivare alla struttura corporea, l’unica somiglianza che ero in grado di trovare tra di loro erano i fianchi stretti: per verificare altre somiglianze in quanto ad attributi fisici, probabilmente avrei dovuto raggiungere il cosiddetto “punto di non-ritorno” -che tanto “di non-ritorno” non era- con Midorikawa e, onestamente, non è nei miei pensieri avere rapporti con uno sconosciuto. Certo, è innegabile che fosse un ragazzo curato e di bell’aspetto, ma al momento i miei pensieri sono indirizzati ad altro.
“E perché te la ricordava?”, decido di chiedere mentre fingo di aver avuto un crampo per giustificare la mia temporanea immobilità, aprendo subito dopo la porta.
“Mi ha preso in braccio come fa lei”, mi risponde sorridendo per poi avviarsi sulle scale. Fortunatamente nulla di ciò che pensavo: forse dovrei smetterla di dare troppo peso a tutto e dormire un po’ di più di notte.
“Coraggio, saliamo a cenare”, gli dico con un sorriso mentre lo guardo correre contento sulle rampe di granito.

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Angolino della stella cadente(?):
Zauu lettore anonimo, grazie per essere arrivato fino a qua!
Io sono Chiara, sono nuova come scrittrice su EFP -la mia carriera di lettrice invece tradisce la mia data di iscrizione ihih- e spero di non triggerare troppo chiunque decida di leggere quello che stendo!
Questa è letteralmente la prima fanfiction che scrivo su questo sito -delle altre piattaforme e del mio passato incriminato non si parla qui (;`O´)- , per cui non martoriatemi troppo perché sennò piango dalla disperazione (ˊ̥̥̥̥̥ ³ ˋ̥̥̥̥̥).
Mi scuso in anticipo per gli eventuali strafalcioni grammaticali -rileggendo spesso non mi accorgo degli errori che faccio- o per le incongruenze nella trama -queste invece cerco sempre di tenerle d’occhio-.
Ora basta parlare di me ‘ché sono noiosa, parliamo della storia -egualmente tremenda, oserei aggiungere ahah-: per chi non l’avesse capito, i personaggi da tenere in considerazione sono quelli di Inazuma Eleven GO, di conseguenza quando parlo di Kira Hiroto non mi riferisco all’emo ricciolino di Ares, ma al fregno della quarta stagione.
Riguardo al rating ammetto di essermi trovata in difficoltà nella scelta perché *spoiler ma non della Casa di Carta* dovrebbe esserci un capitolo un po’ frizzante -come il tiro di Goujin-, ma devo ancora decidere se renderlo rosso o meno, per cui moderarlo: nel dubbio, fino ad allora rimarrà arancione.
In ogni caso, fatemi sapere cosa ne pensate come inizio perché io non sono assolutamente condizionata dal pensiero altrui e non ho affatto bisogno dell’approvazione di qualcuno per avere un minimo di fiducia in quello che faccio. Scherzi a parte, mi farebbe piacere se poteste lasciarmi qualche riga di recensione con eventuali impressioni, suggerimenti, correzioni o altro, o anche un messaggio privato: mi motivano parecchio e mi piace scambiare due parole con qualcuno ogni tanto.
Ovviamente non obbligo nessuno, per cui siete liberi anche di fare ghost reading ahah.
Prima che me ne dimentichi, tra poco dovrei finire anche la copertina per la storia e, se non dovessi riuscirci, mi assicurerò di aggiungere per lo meno i disegni dei personaggi (update: ho aggiunto la copertina!).
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitolo ミ✩

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Capitolo 2
*** Mizar ***


Dopo cena, Masaki ha insistito per restare sveglio ancora un po' a guardare qualche cartone animato e l'ho accontentato. Mi dispiace non potergli far compagnia: era evidente che ci fosse rimasto male non appena gli ho detto che dovevo finire di lavorare, ma purtroppo devo dare priorità alle scartoffie sulla mia scrivania. Ora come ora, i minuti che trascorro nel mio ufficio paiono quasi eterni tanto da far valere un quarto d'ora come il suo quadruplo.
Avendo perso molte diottrie a causa della mia miopia, percepisco un accenno di emicrania ogni qual volta mi si incrocino gli occhi durante la lettura. Giusto per esplicitare l'ovvio: non accade così di rado.
Sono abbastanza sicuro -per non dire "quasi totalmente certo"- di aver letto tutti i fogli e di aver compreso il contenuto di meno di un decimo dei documenti. Stando a ciò che ho capito, per quanto scarno sia, ci sono diverse richieste di lavoro che dovrei curare personalmente domani insieme ai relativi colloqui. Prendo in mano uno degli ultimi fogli sparsi distrattamente sulla scrivania, sistemandomi gli occhiali sul ponte del naso mentre leggo con palese svogliatezza un paio di righe. Apparentemente domani si terrà il concorso per la posizione di segretario specializzato, nonché mio assistente. Fantastico, fremo di gioia al solo pensiero.
Magari Suzuno avrà la sua occasione dopo tutto questo tempo ed uscirà dallo sgabuzzino in cui lavora attualmente. Riflettendoci sopra, averlo come assistente non sarebbe un peccato: la principale qualità ricercata nei colloqui per questa posizione non né l'organizzazione, né la diplomazia come molti pensano, bensì il talento nella contabilità. Stando a quanto mi riferisce spesso Nagumo nei suoi resoconti e nelle chiacchiere alla macchinetta del caffè, Suzuno è dotato di abilità di calcolo eccezionali e gli rifilano tutti i conti per questo motivo. Un po' mi dispiace per lui, ma non nego di aver fatto lo stesso con Reina quando ancora lavorava con me. In ogni caso, devo apprestarmi a contattare un paio di rappresentanti di reparto per poter chiedere un aiuto nella supervisione della prova scritta: non credo assolutamente di poter seguire un candidato mentre fa dei calcoli a voce, nemmeno con tutta la buona volontà che ho in corpo.
Sento un suono fragile e delicato di nocche contro il legno della porta, e a quel punto mi alzo: probabilmente sarà Masaki che ha bisogno di qualcosa. Mio figlio è in piedi sull'uscio della porta e mi guarda dal basso con un'espressione stanca mentre tiene stretto un peluche con le braccia.
"Andiamo a nanna?", mi chiede con la voce impastata dal sonno mentre attende una mia risposta. Si volta poi verso l'orologio da muro presente nell'anticamera, indicandolo con un gesto debole della mano, "Sono le dieci, è tardi".
È struggente pensare che sia rimasto sveglio un'ora in più rispetto al solito per aspettare che avessi finito di lavorare. Sono grato al fatto che mi sia venuto a chiamare siccome, conoscendomi, sarei stato in grado di continuare a leggere fino all’alba. Così facendo, lui non dovrà restare sveglio e nemmeno io: due piccioni con una fava.
"Hai ragione, è tardi", annuisco con un sorriso mentre mi tolgo di occhiali, massaggiandomi le palpebre. Sento le vene sottili pulsare sotto la pelle per via dello sforzo e vengo travolto da un rapido senso di intorpidimento e sonnolenza non appena inizio ad esercitare una lieve pressione con le falangi distali. Meglio che vada anche io.
La pioggia fortunatamente non è peggiorata, anzi, scende pacata senza nemmeno fare troppo rumore: è quasi di compagnia. Seguo Masaki nella sua stanza in fondo al corridoio, guardandolo sgattaiolare rapidamente sotto alle coperte ancora in ordine mentre attende che io prenda un libro da leggergli.
“Che libro vuoi oggi?”, gli chiedo tranquillamente mentre sistemo un paio di quaderni sulla sua scrivania. Tale padre, tale figlio, no?
“Voglio uno di quelli nella tua camera”, mi dice con noncuranza mentre guarda la pioggia cadere sul panorama urbano: è un bene che non abbia le vertigini siccome molte pareti del nostro appartamento sono in vetro e viviamo all’ultimo piano di un grattacielo dall'altezza non indifferente.
"Masaki, quei libri non sono fatti per aiutare a dormire, semmai il contrario", faccio notare a mio figlio con una piccola risata, recuperando un libro di fiabe dal suo scaffale per poi andare a sedermi vicino a lui sul letto.
"E perché? Dopo come fai ad addormentarti?", domanda con evidente curiosità mentre resta voltato verso di me, scrutandomi con le sue iridi ambrate in attesa di una risposta. Non so come dirgli che, in realtà, non dormirei per nulla se non vi fossero quelle due o tre orette di puro crollo verso l'alba. Scommetto che, se glielo rivelassi, probabilmente resterebbe sveglio per vedere a che ore vado a dormire per poi chiedermi se può fare altrettanto perché, a detta sua, oramai è grande.
“Tranquillo, papà dorme comunque”, lo rassicuro accarezzandogli gentilmente i capelli, spostandogli un paio di ciocche dal viso per poi aprire il libro. Diverse parole scorrono sotto ai miei occhi mentre leggo con voce flebile per non disturbare Masaki, che nel frattempo si è messo comodo con qualche peluche tra le braccia. La mia mente divaga, parla per sé, non segue ciò che è scritto sulle pagine che, oramai, pronuncio quasi in maniera automatica senza visualizzarle davvero. Sento la testa leggera e la vista farsi debole da un occhio, come se si fosse appannato, e all’improvviso le lenti diventano un vincolo insostenibile.
“Papà”, biascica Masaki con la voce impastata dal sonno, tenendo a malapena sollevate le palpebre pesanti mentre mi indica il viso con un gesto debole, “L’occhio, ti sta succedendo di nuovo”.
Porto quindi una mano a levarmi gli occhiali e l’altra a coprirmi l’occhio sinistro, dedicando al bambino un sorriso gentile, “Grazie per avermi avvisato. Sarà meglio che vada a dormire anche io”.
Piegati gli occhiali ed inseriti nella tasca della camicia, mi alzo dal letto per mettere via il libro interrotto a metà e, subito dopo, congedarmi.
“Dormi con me?”, mi chiama un’altra volta, voltandosi verso di me prima che io possa uscire dalla porta.
Annuendo alle sue parole, mi ritiro per cambiarmi nella mia stanza e ne approfitto per ordinare un paio di documenti in una busta. Mentre inserisco la cartella nella mia valigetta, un plico di fogli scivola dalla scrivania e, secondo i dettami della fortuna del caso, si riversa a terra. Mi piego per raccoglierli e noto solo in quel momento che si tratta delle domande di ammissione esterne. Scorgo un paio di nomi sui fogli, ma non riesco a metterli a fuoco senza occhiali.
Senza darci troppo peso, mi dirigo nuovamente verso la stanza di Masaki e, finalmente, posso ritirarmi per dormire.

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Essendo il primo giorno di giugno, Masaki avrà più tempo libero del solito e si preoccuperà di meno della scuola. E questo è un ovvio problema, anche se si tratta di una settimana.
L’inizio del mese è stato inaugurato con un gradevole calcio nello stomaco che mi ha fatto cadere dal letto e, a giudicare dalle risate in sottofondo, Masaki deve essersi divertito fin troppo. Dopo colazione, ha iniziato a correre per casa dicendo che non aveva intenzione di cambiarsi, tanto meno di andare a scuola, e ho dovuto sollevarlo di peso per chiuderlo in bagno a lavarsi. Ora come ora, lo sto salutando dal cancello dell’istituto e sento delle fitte alla milza che vanno e vengono a loro piacimento. Fortunatamente ha incontrato un paio dei suoi amici e non è più imbronciato come prima.
Sento il telefono squillare mentre scendo nel parcheggio della mia azienda e, vedendo il nome di Reina sul contatto, alzo gli occhi al cielo: nel momento meno opportuno, come al solito.
“Pronto?”, rispondo con fare retorico mentre mi appresto a raggiungere l’ascensore, salutando un paio di impiegati che incrocio all’ingresso.
“Ciao Hiroto”, mi saluta fiaccamente, utilizzando il suo iconico tono piatto ed inespressivo, “Ti ricordi che tra un mese verrò a trovarvi, giusto?”.
“Sì, perché me lo chiedi?”, le domando incerto nel sentirmi porgere questo interrogativo: non mi sono mai dimenticato della data in cui si recava da noi, specialmente perché il suo arrivo cadeva sempre nello stesso giorno ogni anno. Non mi sembra di essermene scordato la scorsa volta e non credo nemmeno di aver combinato qualche guaio, per cui non capisco davvero dove voglia arrivare.
“Al momento stai frequentando qualcuno?”.
...cosa?
Resto in silenzio dopo aver udito con le mie medesime orecchie una delle tante frasi che non mi sarei mai aspettato di sentire da lei. Da quando abbiamo divorziato, non ha mai prestato troppa attenzione alla mia vita -era già tanto che mi chiedesse un “Come stai?” di cortesia- e si concentrava unicamente su Masaki. Non riesco a capacitarmi che mi abbia chiesto qualcosa del genere e spero vivamente non voglia propormi di tornare insieme in caso le rispondessi negativamente. Certo, nemmeno io so molto della sua vita privata siccome è restia nel chiedere e nel rispondere quando si tratta di questi argomenti, ma mi auguro in ogni caso che vada tutto bene tra lei ed il suo compagno.
“Hiroto? Perché non rispondi? Sei ancora qui?”, sento nuovamente la sua voce dopo qualche minuto di suono statico e silenzio, accorgendomi finalmente che magari ci stavo mettendo troppo a darle risposta.
“Sì, scusami, dovevo rispondere ad una chiamata in centralino. Comunque perché mi hai fatto una domanda del genere? Se devo essere sincero, non me l’aspettavo da te”, vuoto il sacco dopo averci riflettuto sopra per un altro paio di secondi e, onestamente, non so davvero cosa aspettarmi in risposta.
“Allora ti spiacerebbe se una mia amica venisse con me? Vorrei fartela conoscere”.
Ringrazio i cieli e l’ipotetica divinità che vi vive per aver incontrato Nagumo che, tenendo tra le braccia più risme da stampante, doveva recarsi agli uffici degli ultimi piani. Apparentemente intuisce chi sia la mia interlocutrice dall’espressione che ho mentre le parlo e, con voce seccata, mi richiama con un “Ma stai lavorando o sei al bar?!” abbastanza intenso per permettere a Reina di sentirlo in sottofondo.
“Scusami Reina, ti chiamerò più tardi, ora devo davvero scappare”, concludo brevemente, sentendola esitare per poi salutarmi e riattaccare.
“Grazie, Nagumo”, sospiro mentre metto via il telefono, massaggiandomi il setto nasale poco dopo e sollevando gli occhiali.
“Non pensavo ti chiamasse ancora”, mi confida mentre le porte dell’ascensore si aprono, ed entrambi scendiamo al penultimo piano. Farò le scale per arrivare al mio ufficio, ma un paio di rampe non mi farà male.
“Nemmeno io, specialmente per una sciocchezza come questa”, gli rispondo scuotendo la testa e sistemandomi il nasello degli occhiali con un gesto sciolto della mano.
“Bah, tu non sbatterci la testa sopra. Ci sentiamo dopo in pausa”, mi saluta una volta arrivato davanti al suo ufficio per poi sparire dentro di questo.
Nel tempo che mi rimane prima di indire l’esame scritto, ne approfitto per chiedermi quanto l’amica di Reina e Reina stessa siano disperate per venire a chiedermi una cosa del genere. Non credo di aver mai sentito di ex-coniugi con un rapporto simile a quello condiviso da me e lei che si chiamano per organizzare un appuntamento con i loro amici.
Dopo la rottura con lei non ho più frequentato nessuno: sia chiaro, non sono una di quelle persone che ragionano come i pinguini, ovvero “un solo partner per tutta la vita”, ma ho preferito dedicarmi interamente a Masaki ed al mio lavoro siccome devo sostenere entrambi da solo, senza contare le spese delle bollette. Ammetto umilmente che l’idea di comprare un’Audi R8 V10 sia stata in parte mia, ma Reina si è rifiutata di portarsela dietro, per cui c’è anche la tassa di lusso da pagare. L’unica cosa che mi auguro è che l’assistente sia disposto a dividere parte del lavoro: del resto, le sue mansioni si limitano a conti che occupano bene o male la mattinata.
Con questi pensieri in testa, mi reco all’aula magna dopo aver annunciato dal microfono del mio ufficio che sarebbero iniziati a breve gli scritti.
 
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Ora come ora, mi trovo nella sala delle conferenze e sto correggendo le prove scritte insieme ad alcuni miei colleghi: la maggior parte di queste sono andate bene e molti dei risultati si avvicinano al punteggio massimo. Ho trovato anche la prova di Suzuno e, come previsto, per ora detiene il posto più alto in graduatoria con meno di cinque errori banali, probabilmente di distrazione.
“Kira”, mi chiama Nagumo dopo un po’, attirando la mia attenzione con uno schiocco di dita mentre tiene in mano il documento di una prova, “guarda un attimo questa”, e me lo porge.
Inizio a sfogliare le pagine con attenzione, controllando ogni singolo calcolo con meticolosità: non vi è un singolo errore, nemmeno una minima imprecisione. Oserei dire che, a parte la grafia, è identico al foglio delle correzioni.
“Allora qualcuno che ha raggiunto il massimo c’è”, constato con stupore mentre alzo gli occhi dai fogli privi di segni rossi e vedo Nagumo guardarmi con un sopracciglio alzato.
“È l’unica cosa che ti stupisce?”, mi chiede con un sopracciglio alzato, indicandomi di prendere l’ultima pagina, “Hai visto quanto ci ha messo?”.
Guardandolo confuso, prendo il foglio interessato e lo giro, capendo finalmente a cosa si riferisse.
“Trenta minuti”, leggo ad alta voce per poi guardare Nagumo che, puntualmente, mi risponde, “Vado a chiamarlo, se vuoi. Gli facciamo fare immediatamente il colloquio”.
Annuisco alla sua proposta e lo vedo prendere la prima pagina del documento, quella contenente tutte le credenziali del candidato, ed uscire.
Sono genuinamente stupito. Non mi aspettavo che qualcuno potesse compiere tutti questi calcoli in così poco tempo, senza contare che, stando a quanto appuntato vicino all’ora della consegna, non ha usato nemmeno una calcolatrice. Magari ha la sindrome del savant o, più probabile, possiede delle doti innate nell’ambito matematico. Dopo pochi minuti, Nagumo rientra nell’aula e mi fa cenno di seguirlo in corridoio.
“Gli ho telefonato e mi ha detto che sarà qui tra pochi minuti”, mi informa mentre andiamo a prendere qualcosa da bere, camminando per il piano oramai vuoto.
“Meglio così, almeno dopo possiamo prenderci una pausa”, oggi fortunatamente non mi si chiudono gli occhi in continuazione come al solito, anche se non ho preso nessun caffè a metà mattinata per poter seguire i colloqui e ridurre al minimo il tempo perso.
“A proposito, cosa ti stava dicendo la strega prima? Non ti ha mai chiamato una sola volta in quattro anni”, mi fa notare il mio collega una volta arrivati all’area bar del piano.
“Non saprei dirti nemmeno io, ma per una volta sembra essersi interessata alla mia vita a nome di un’amica”, rispondo tranquillo mentre Nagumo mi porge il mio caffè, al che lo ringrazio.
“Bah, fossi al tuo posto la manderei a quel paese: fai già tanto ospitando d’estate una persona che non ha mai ricambiato il favore e, per tutto questo tempo, non si è mai interessata di te o della tua vita, nemmeno per scambiare quattro chiacchiere”, so che Nagumo odia a morte Reina, anche prima che divorziassimo, ma comunque non posso non cogliere il lato veritiero delle sue parole.
“Penso che mi presenterò per cortesia, dopotutto è un’occasione più unica che rara: magari è la volta buona che mettiamo in chiaro le cose”, scrollo leggermente le spalle per poi bere, notando Nagumo alzare gli occhi al cielo.
“Cambiamo argomento. Non ho visto i candidati durante lo scritto perché mi stavo occupando dei colloqui, ma tu li hai supervisionati, giusto?”, chiedo al mio sottoposto con un accenno di curiosità nella voce, ricevendo in risposta un cenno positivo del capo.
“Il candidato che ha ottenuto il punteggio più alto com’era? Puoi darmi un indizio? Magari un segno particolare o qualcosa del genere”, non ho letto il nome sui documenti per mantenere la sorpresa fino al colloquio e, in parte, perché mi sono proprio dimenticato di controllarlo, ma vorrei avere una traccia con cui immaginarmelo.
“Un segno particolare, dici? Uhm...”, lo vedo riflettervi sopra per un po’, schioccando le dita non appena trova risposta, “Quando stavo girando tra i banchi all’inizio della prova, si è girato verso di me pensando che dovessi chiedergli qualcosa e ho notato che aveva gli occhi completamente ne-”.
“Allora non mi sbagliavo quando ho detto di aver già sentito il cognome Kira da qualche parte”.
Non credo di poter confondere la voce che sento e, puntualmente, mi volto.
“Buongiorno, Kira”, mi saluta cordialmente Midorikawa, al che faccio altrettanto. Al commento di Midorikawa, Nagumo pare confuso: probabilmente non se lo aspettava.
“Mh? Vi conoscete?”, domanda Nagumo mentre alterna lo sguardo tra me e lui, attendendo risposta da una delle due parti.
“Diciamo di sì”, annuisco alle sue parole, rivolgendomi poi al diretto interessato, “Allora, pronto per il colloquio?”.

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Angolino della stella cadente(?):
Un altro capitolo è andato, yee.
L’ho scritto un po’ di getto, per cui non ho prestato particolare attenzione a tipo,, nulla, ma prometto che farò una revisione minuziosa per assicurarmi che non ci siano errori - grammaticalmente e tramalmente(?) parlando.
Tra poco dovrei finire altre illustrazioni (se i miei compiti me lo permettono), per cui se può piacere come idea potrei aggiungerne una per capitolo.
Premetto che i miei disegni (tipo quello in copertina) vanno da bozze dei personaggi a scene vere e proprie, tipo fumetto, per cui devo cercare di stare attenta con quest’ultime per evitare spoiler.
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitolo ミ✩
 

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Capitolo 3
*** Alioth ***




Dire che il colloquio sia andato bene è uno sminuimento, una grave sottovalutazione.
Midorikawa si è chiaramente distinto per meriti in ambedue le fasi dell'esame, inutile negarlo.
Sarà comodo avere qualcuno di così autenticamente capace al mio fianco, forse anche meglio degli altri assistenti che ho avuto fino ad ora.
L'intenzione era quella di lasciargli una settimana di prova per valutare l'ambiente e le mansioni che gli sarebbe toccato svolgere in caso avesse accettato il posto di lavoro, ma ha preferito iniziare subito e firmare il contratto.

"Quindi? Lo conoscevi?", mi chiede Nagumo mentre mi guarda, appoggiandosi allo stipite della porta con le braccia incrociate. Dal suo tono deduco che sia abbastanza scocciato, probabilmente dopo aver notato che non stavo prestando attenzione a lui, bensì ai documenti sparsi alla rinfusa su tutto il mio piano di lavoro. 
Ogni tanto mi perdo nei miei pensieri, ma non ci posso far nulla quando capita.

"Mh? Ah, circa: ci siamo incontrati giusto ieri al parco", annuisco in risposta mentre finisco di sistemare un paio di scartoffie nei cassetti della mia scrivania, cercando di velocizzarmi per non farlo aspettare troppo a lungo: dopotutto attende sempre che io abbia finito il mio turno prima di uscire, per cui mi dispiacerebbe trattenerlo ulteriormente.
"Ho perso di vista Masaki e lui, fortunatamente, l'ha ritrovato. Più o meno", prendo la mia valigetta dopo aver finito di distribuire i fogli nei loro involucri e faccio per avviarmi alla porta con la giacca sottobraccio, ma mi blocco nel notare lo sguardo rigido di Nagumo.

"Come sarebbe a dire "Ho perso di vista Masaki"?".

Ecco, ci risiamo. 
Forse quell'informazione avrei dovuto tenerla per me: non riesco nemmeno a pensare ad una risposta perché il mio sottoposto ha già iniziato a tempestarmi di rimproveri per la mia grave disattenzione, iniziando ad elencarmi qualsiasi possibile conseguenza della mia mancanza, anche nelle probabilità più infime.
Un tempo lo faceva con Reina per darle fastidio siccome, giustamente, doveva farle notare che non poteva essere impeccabile in tutto ciò che faceva, in un modo o nell'altro.
Adesso che lei è andata via, ha dovuto cambiare vittima.
Oramai non do più nemmeno tanto peso a ciò che dice: certo, ha parzialmente ragione, ma mi avrà ripetuto le stesse cose un centinaio di volte se non di più.

"Mi stai ascoltando?", sbotta Nagumo mentre scendiamo le scale, notando che, per l'ennesima volta, non gli stavo concedendo un minimo di attenzione.
"Mi sono fermato a "poteva essere investito", poi tutto il resto non l'ho sentito", rispondo schiettamente e sistemo il colletto della mia camicia, raggiungendo a pari passo l'ingresso dell'edificio. Vedo il mio collega alzare gli occhi al cielo e sospirare per poi darmi un colpetto delicato sull'occipitale.

"Osi inveire così contro il tuo capo?", gli chiedo scherzosamente, lasciandomi scappare una risata non appena il mio interlocutore fa altrettanto.
"Sono dimesso, per cui "il mio capo" un paio di balle. A domani", risponde con la sua tipica risata rauca per poi salutarmi con un gesto sinuoso della mano, avviandosi verso Suzuno non appena lo adocchia alla fermata dell'autobus.

Nagumo è, quasi certamente, l'unico impiegato dell'azienda che conoscevo già antecedentemente alla sua domanda di ammissione: abbiamo studiato insieme alle superiori e, per un certo periodo, siamo stati coinquilini durante gli anni universitari.
Mi sono trasferito non appena sono entrato in azienda e lui è rimasto nello stesso appartamento, solo che ora ci vive con qualche suo amico di cui non ricordo il nome. Mi dispiace che il lavoro vincoli il nostro rapporto, ma fortunatamente Nagumo è molto incurante di questo aspetto, per cui si comporta senza troppi riguardi quando può.

Salito in macchina, mi dirigo verso la scuola di Masaki per poterlo portare a casa.
Mi sa che gli è tornato il malumore di stamattina -o il malumore in generale, conoscendolo- perché, come mi vede vicino al cancello, il suo viso si incupisce gradualmente, passo dopo passo.

"Tutto bene, Masaki? Successo qualcosa?", gli chiedo non appena mi raggiunge, prendendogli lo zaino per portarlo al suo posto mentre ci avviamo verso la macchina.
"Non voglio più andare a scuola", brontola a braccia conserte, precedendomi a falcate spedite sul marciapiede e tenendo la testa bassa.
"E perché?", certo, udire frasi del genere da lui non mi è nuovo, ma si è sempre trattato di lamentele occasionali durante l'ora dei compiti.
Lo vedo fermarsi di fronte a me, restando però di spalle. Scorgo della titubanza nel leggero tremolio delle sue spalle e nel suo più-o-meno esplicito rifiuto di girarsi. Volta leggermente il viso per scrutarmi con un occhio ambrato, velato e coperto dalle ciocche cerulee della sua frangia disordinata.
"Mi prometti che non lo dici a nessuno?"

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Ammetto che il mio primo pensiero riguardante l'avere una famiglia risalga agli ultimi anni del liceo, quel periodo idilliaco della mia vita in cui ero felicemente fidanzato. Solo che, stando a quanto mi sembra di capire, la mia concezione di "famiglia" era ben distante da ciò che si è rivelata essere.

"Quindi, ricapitolando: ti sei addormentato dopo pranzo, hai fatto un brutto sogno e, dopo averlo raccontato ai tuoi amici, un bambino di un'altra sezione è andato a dire alla tua insegnante che ti stavi inventando tutto per spaventarli? E quel bambino si chiama... uh, Shindō?".

Credo sia passata mezz'ora da quando io e Masaki, una volta arrivati a casa, ci siamo seduti in soggiorno per parlare di qualunque flagello lo stesse affliggendo. Ovviamente Masaki è libero di esprimersi a parole sue, e forse è proprio per questo che non ho capito niente.
Quattro volte me l'ha raccontata e quattro volte non ho compreso un singolo nesso logico.
Apparentemente deve essere un linguaggio che solo i bambini capiscono, scoordinato e con la tendenza ad aggiungere informazioni e dettagli ogni volta che si deve narrare un fatto.

L'espressione di Masaki, mentre cerco di riassumere il tutto, sembra suggerirmi che sì, forse ho capito qualcosa, ma la speranza nei suoi occhi e la mia fiducia crollano non appena mi sente pronunciare il nome sbagliato. Gonfia le guance con l'infantilità caratteristica della sua età e la sua voce si fa leggermente più acuta per la frustrazione di avere un padre che non può comprendere -e che non comprenderà mai- i suoi problemi.
"No, no, no! Si chiama Kirino; Shindō è il suo amico, quello che piange sempre!", sbotta tutto rosso e quasi mi dispiace ridere per la sua espressione. Quasi.

"Non capisci proprio niente!".
Ah, le soddisfazioni di essere genitore.
"Grazie, Masaki, sei proprio un tesoro", rispondo con un sorriso tirato mentre mi massaggio una tempia: tanto vale cambiare argomento.
"Allora, sentiamo un po' che brutto sogno hai fatto", noto che tentenna per un attimo e recuperare il suo colorito naturale prima di rispondermi.

"Uhm... Eravamo al parco come ieri e stavo giocando con i miei amici sopra ad un albero finché, all'improvviso, il cielo è diventato grigio, ma davvero grigio!", è tenera l'enfasi che mette in ciò che racconta e nei gesti che compie con le mani mentre parla: sembra quasi che voglia rendere materiale e concreto ciò che descrive.

"Poi tutti sono spariti e sull'albero c'ero solo io. Mentre cercavo di scendere, ho visto una nuvola scura scura sopra i tetti e, non so come, ma dopo averla guardata mi sono ritrovato immediatamente dentro alla chiesa: era pieno di candele e tutti stavano lì ad ascoltare questa musica strana mentre il pianoforte con i tubi suonava da solo!", si ferma per cercare di ricordare altri dettagli e lo vedo indugiare per un attimo.

"E poi? Cos'è successo?", lo esorto a continuare prima che si perda tra i suoi pensieri come suole fare. Lo colgo nuovamente titubante, e quel punto alzo un sopracciglio.

"C'eri anche tu, eri vicino all'altare, ma quando ho provato a chiamarti non ti sei nemmeno girato e hai continuato a bisbigliare parole strane e incomprensibili davanti al tavolo dell'altare. 
Mi sono arrabbiato perché non mi rispondevi, così ti ho tirato un calcio alla gamba, però sei rimasto là con la tua faccia da pesce lesso a parlare da solo!", sbotta alla fine, facendo tingere nuovamente le sue guance di una curiosa sfumatura amaranto e rivolgendosi a me come se fossi la stessa persona che figuravo nei suoi sogni. 
Cercherò di ignorare la parte del pesce lesso, anche se mi è nuova.

"E si sono spaventati per questo?", mi sembra più che logico chiederglielo, sebbene non mi paia trattarsi di chissà quale fantasia tetra. Potrebbe mettere a disagio un bambino, non lo nego, ma fortunatamente non va a toccare i livelli angoscianti che avevo in mente.
"Mh? No, non per questo", scuote la testa in cenno di negazione, tornando poi a guardarmi con i suoi occhi pieni mentre mi parla, "Ad un certo punto hai smesso di parlare e qualcosa è uscito dal muro: sembrava una macchia scura ed era grandissima. Poi la macchia è diventata una persona, ma aveva delle ali enormi e delle corna così", appoggia le mani poco più alto delle orecchie e disegna due spirali, una per lato, tracciando la forma di quelle che sembrano le corna di un ariete.

"Poi una luce da fuori le vetrate ha illuminato quel mostro e vi siete messi tutt'e due a ripetere le stesse cose che stavi dicendo prima per conto tuo. Improvvisamente è diventato tutto buio, le persone nella chiesa sono sparite, il pavimento si è aperto sotto ai miei piedi e sono precipitato nel vuoto. L'ultima cosa che ricordo è quel mostro volare da me per prendermi e la musica di ieri, Lacricosa, risuonare in sottofondo, poi credo di essermi svegliato", conclude mentre fa ciondolare le gambe dal divano.

"A parte l'inquietudine, non vedo cosa potrebbe suscitare. Non mi pare così spaventoso", gli faccio notare mentre mi sistemo gli occhiali sul ponte del naso, appoggiando poi i gomiti sulle cosce e sostenendo la testa con le mani.
"Appunto!", conferma energicamente per poi battere le mani sulle ginocchia, tornando subito dopo con la schiena contro i cuscini del divano e le braccia conserte, "Voleva solo farmi sgridare, lo so!".

Stando a come parla, sembra convinto che questo Kirino lo detesti. Se c'è una cosa che so di per certo su di Masaki, è che tende a diventare davvero testardo quando vuole qualcosa, ecco perché sono certo che ora mi dirà-

"Domani non vado a scuola".

Purtroppo non c'è molto da fare, è difficile smuoverlo quando si impunta così, ed il miracolo avvenuto stamani, la mia cometa di Halley, sicuramente non si ripeterà una seconda volta.

"Lo sai che non puoi stare a casa da solo", gli ricordo non appena mi risponde, e attendo pazientemente la fatidica richiesta -più simile ad un'imposizione od un ordine- che suole farmi in questi casi e che, per pietà e buon cuore, gli ho sempre concesso dalla prima volta a questa parte.

"Allora vengo con te al lavoro".

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Il pomeriggio e la sera procedono lineari in termini di pratiche e carte d'ufficio; fortunatamente sono riuscito a convincere Masaki a fare quelle due o tre addizioni che gli hanno assegnato per compito. Anche se è il suo primo anno a scuola, qualcosa mi suggerisce che, da qui in avanti, sarà difficile fargli dedicare un po' di tempo alle mansioni scolastiche durante l'estate.

Spero che, crescendo, potrà liberarsi di tutto questo astio che riserva all'istruzione e, magari, capirà anche i veri motivi per cui si ritrova a dover studiare costantemente e passare le giornate davanti ad un banco e poi ad una scrivania.

In questo momento siamo in salotto: Masaki sta guardando la televisione dopo avermi cortesemente rifilato i suoi esercizi da correggere, ma per lo meno ha avuto la decenza di lasciarmi l'isola del divano. Una piccola parte, intendo.
Secondo la sua umile e rispettabile opinione, io non sono degno di sdraiarmi sul suo divano e, se proprio voglio usufruire del suo mobile, mi è consentito solamente sedermi perché tutti i cuscini sono occupati dai suoi pupazzi.

"Papà, io vado a dormire", mi comunica dopo un po', voltandosi verso di me mentre stiracchia le braccia verso l'alto, mugolando leggermente.
"Vieni qui un attimo prima di andare", gli faccio cenno di avvicinarsi, appoggiando poi i fogli sul tavolino di vetro davanti al divano. Lo vedo alzare un sopracciglio, evidentemente non è convinto delle mie intenzioni e non si fida, ma dopo poco si trascina fino all'altra estremità dell'isola, ovvero dove sono seduto io. 

Lo faccio sedere sulle mie gambe e sospiro: tanto vale mettere subito in chiaro le cose, non voglio che accada l'impensabile.
"Masaki", non c'è modo migliore di esprimere serietà se non appellarsi direttamente al proprio interlocutore, "chi lavora nell'ufficio di papà?".

"Beh, tu", mi risponde con tono ovvio, roteando gli occhi con fare sarcastico, "Non credevo fossi così stupido".
Mi mancava l'insulto degli ultimi dieci minuti.
"Papà ha un assistente?", domando di nuovo, al che mio figlio mi fa un cenno negativo con la testa.

"Da domani sì", gli spiego con calma, portando l'indice sulla sua bocca per fargli cenno di non parlare ancora, "Per cui ti sarei infinitamente grato se non facessi nulla che potesse spaventarlo".
"Quindi? Cosa dovrei fare?", mi guarda scocciato mentre incrocia le braccia al petto.
Apparentemente si sente privato della possibilità di fare ciò che vuole come d'abitudine.

"Cosa non devi fare", lo correggo con prontezza, alzando cinque dita mentre lo guardo con occhi fermi e serietà disarmante, e sembra capire anche lui che non accetterò la minima mancanza, "Non devi correre in giro, non devi gridare, non devi disturbare nessuno, non devi far perdere tempo né a me né a lui", abbasso le dita mentre elenco tutti i divieti attivi d'ora in poi, o meglio, finché e se mai Midorikawa si licenzierà in seguito a qualche esaurimento nervoso che potrebbe avere per colpa di Masaki.

"E soprattutto", tengo alzato solo il mignolo, porgendoglielo come fanno i suoi coetanei per sancire il nostro accordo, la parola data, "Non ti devi assolutamente avvicinare alla stampante. L'ultima volta che l'hai toccata abbiamo dovuto ricomprarla".
Masaki stringe il proprio mignolo al mio dopo qualche secondo di esitazione, lasciandosi scappare una risata mentre ricorda l'accaduto con un largo sorriso.

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Angolino della stella cadente(?):
Heyla, sono tornata con un nuovo (e sudato) capitolo!
Mi ci voleva proprio un po' di slice of life, specialmente in questo periodo≧('▽`)≦
Mi scuso in anticipo per chiunque dovesse annoiarsi per via delle scene troppo lunghe o dei particolari "inutili" come potrebbe essere un bambino che parla dei propri sogni, ma la mia mente ragiona molto in maniera cinematografica e, riguardo il mondo onirico, mi limito ad invitare i lettori a tenere a mente questa particolarità: è uno strumentopolo che potrebbe tornarvi utile più tardi ( ͡> ͜ʖ ͡°)ノ
Ultimamente sono piena fino al collo con i compiti, ma dopo settimana prossima avrò molto più tempo libero e potrò dedicarmi appieno (circa) alla stesura dei prossimi capitoli per la gioia di alcuni e l'angoscia di altri.
A proposito, spero sia piaciuta l'illustrazione di Masaki che ho messo all'inizio del capitolo: ho intenzione di metterne una per capitolo, oppure ogni due capitoli, così ci saranno anche le figure oltre ai papiri ( ᐛ )و
Anticipo già che mi sto abilitando alla revisione completa (grammatica, punteggiatura, format) di ogni capitolo, per cui se non vedrete degli aggiornamenti per un bel po' sapete il perché( '•̥̥̥ω•̥̥̥' )
Scherzi a parte, mi farebbe piacere ricevere qualche commento, anche solo per restare in contatto con le due anime pie che leggono lmao.
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitoloミ✩

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Capitolo 4
*** Megrez ***


"Papà, possiamo fermarci lì?"
"No"
"E lì?"
"No"
"Uffa, ma io ho fame"

Sono circa venti minuti che siamo chiusi in macchina, il tutto a causa del proverbiale traffico delle otto.
Masaki si sta annoiando parecchio, motivo per il quale ha deciso di tartassare la mia povera anima pia: mi sta chiedendo continuamente di andare a mangiare da qualche parte dall'inizio dell'imbottigliamento. E pensare che ha fatto colazione meno di mezz'ora fa.

"Hai già mangiato e ti sei pure lavato i denti", ci tengo a ricordargli mentre tamburello le dita sul volante, attendendo pazientemente che la colonna di auto proceda, "Potrai prendere qualcosa intorno alle dieci se proprio non riesci ad aspettare fino a mezzogiorno".

"Ma io ho fame adesso", puntualizza Masaki mentre sbatte le mani sulle ginocchia, visibilmente frustrato, "Voglio andare a mangiare".
"Non possiamo, siamo in mezzo alla strada", non credo che se ne sia accorto siccome continua a tenere lo sguardo incollato ai due o tre luoghi di ristoro che, di tanto in tanto, fanno la loro comparsa a lato della strada. E, se non guarda quelli, come minimo starà giocando con il mio telefono.
 
“Voglio la mamma”, sbuffa imbronciato mentre preme insistentemente sullo schermo dell’apparecchio, probabilmente in cerca del suo contatto nella rubrica, “Posso chiamarla?”.
“Va bene, ma non passarmela”, vorrei evitare di perdere punti dalla patente per via del telefono: l’altro giorno sono stato fortunato e non ho incrociato nessun membro della polizia, ma questa volta credo sia improbabile siccome siamo molto vicini al centro abitato.
 
Sorridendomi contento, lo vedo pigiare un’ultima volta qualche tasto per poi accostare il telefono all’orecchio, facendo ciondolare le gambe dal sedile mentre attende pazientemente che qualcuno risponda dall’altro lato. Dopo un paio di squilli ed un cortese -con palese sarcasmo- “Cosa vuoi?”, Reina si fa viva e Masaki la saluta contento.
 
Non me la sento di ascoltare la loro conversazione, specialmente perché mi sembrerebbe di origliare, per cui faccio cenno a Masaki di mettersi gli auricolari per non essere disturbato.
Ogni qualvolta Reina venga a farci visita durante l’estate, non trascorro mai tempo con lei siccome preferisce dedicarsi interamente a Masaki: di conseguenza, è più facile ignorarla piuttosto che interagire con lei. Considerato il suo carattere, poi, è meglio non interagire a prescindere.
 
Dopo diversi minuti, la colonna inizia ad avanzare ed usciamo dalla sopracitata strada, resa sempre più angusta dallo scorrere del tempo.
 
Una volta raggiunto il parcheggio dell’azienda, vedo Masaki guardarmi titubante per poi porgermi il telefono con la chiamata ancora aperta.
”Ha detto che deve dirti qualcosa”, sussurra per non farsi sentire dall’altro lato della linea, guardandomi dispiaciuto nel ricordarsi che gli avevo espressamente chiesto di non passarmela.
 
“Dille di chiamarmi tra una decina di minuti sul telefono dell’ufficio, ok?”, gli faccio cenno di non pensarci, dandogli una carezza delicata sulla testa per poi dedicargli un sorriso, “Coraggio, dobbiamo andare a timbrare il cartellino”.
 
Masaki ricambia il sorriso e torna a parlare con Reina, tenendomi per mano mentre entriamo insieme nella struttura. Saluto un paio di impiegati alla reception e firmo qualche documento all’ingresso, sempre tenendo Masaki al mio fianco per non perderlo tra il via vai mattutino di dipendenti; Suzuno, documenti sottobraccio e ampie falcate anziché passi, mi chiama prima che possiamo salire sull’ascensore.
 
“Signor Kira, ho revisionato personalmente i resoconti del mese scorso e ho stampato più copie per non perdere i dati”, mi comunica con il suo solito tono piatto e serio, da cui riesco però a cogliere una nota di compiacenza, “Questi documenti sono i suoi e questa è la copia da depositare nell’archivio. La prego di firmarli non appena arriverà in ufficio”.
 
Se c’è una caratteristica di Suzuno che non so se apprezzare o meno, credo sia proprio la sua dedizione: in inglese, il termine adatto a descriverlo è, senza alcun dubbio, workaholic. Il problema, però, è che noi altri non siamo ossessionati dal nostro lavoro, per cui è sempre una sorpresa incappare in questi suoi atteggiamenti particolari, se così si possono definire.
 
“Oh, grazie mille, li compilerò subito. Vedo che sei di buon umore oggi, a cosa si deve questa stranezza?”, domando sorridendogli cortesemente mentre prendo i fogli che mi porge, lasciandovi cadere l’occhio con distrazione.
“Oh, nulla di che, mi sarò svegliato con il piede giusto”, scrolla le spalle con noncuranza per poi volgere la sua attenzione verso Masaki, il quale si nasconde dietro alla mia gamba.
 
Non ha mai avuto problemi a parlare con i miei impiegati -con Nagumo, per esempio, resta volentieri-, ma Suzuno l’ha terrorizzato dal loro primo incontro: per la precisione, dal momento in cui gli disse che mangiava bambini a colazione.
 
“Lui cosa ci fa qui? Deve timbrare le carte?”, domanda il mio collega con un sorrisetto, sporgendosi leggermente oltre la mia spalla per cercare di guardare Masaki, che continua a spostarsi per sfuggire ai suoi occhi.
“No, semplicemente non aveva voglia di andare a scuola. Vero, Masaki?”, domando a mio figlio mentre questo affonda il viso contro il mio fianco, bofonchiando un “Sì” quasi inudibile.
“Allora vi lascio andare in ufficio. A più tardi”, con un mezzo inchino di cortesia, Suzuno si congeda per poi avviarsi verso uno degli uffici del piano terra.
“È... è andato via?”, mi domanda Masaki con voce tremante, continuando a premere il viso contro la mia giacca.
“Sì, non ti preoccupare”, gli do una piccola pacca sulla schiena per incoraggiarlo a staccarsi e ci incamminiamo subito dopo verso l’ascensore.
 
Fortunatamente non incontriamo altri impiegati durante il nostro tragitto, fatta eccezione per Saginuma, un caporeparto dei piani alti, che ne approfitta per ricordarmi che non ho ancora controllato tutta la posta inoltrata da lui stesso settimana scorsa. A parte questo incontro, non vi sono altre interruzioni.
 
A pochi passi dalla fine del corridoio, sento delle risate provenire dal mio ufficio e noto che la porta è stata lasciata aperta, il che è strano siccome mi assicuro sempre che sia chiusa prima di uscire.
“Cosa sta succedendo?”, domando confuso una volta entrato nella stanza: vi trovo Nagumo, appoggiato allo stipite della porta con la schiena mentre ride istericamente, e Midorikawa, quest’ultimo al telefono con un’espressione accigliata.
 
“Mh? Ah, buongiorno, Kira”, mi saluta Nagumo tra una risata e l’altra, asciugandosi un occhio con il pollice per poi riprendere a ridere.
Non appena tento di chiedergli spiegazioni, lui mi precede prontamente ed indica il mio segretario con un cenno della testa, facendomi segno di ascoltare mentre cerca di tenere a bada il suo sfogo per non farsi sentire.
 
“Le ho già ripetuto una decina di volte che non può chiamare il numero privato dell’ufficio a nome di un singolo, a maggior ragione senza nemmeno aver prenotato un colloquio né simili”, vedo Midorikawa massaggiarsi le palpebre con l’indice e il pollice, scuotendo la testa con rassegnazione di tanto in tanto mentre cerca di trattenere la calma. A giudicare da ciò che dice, sembra che questa persona sia piuttosto testarda ed abbia già telefonato più volte.
 
Eppure non capisco cosa ci sia di così divertente da causare le risate omeriche di Nagumo. Quest’ultimo, nel notare la mia confusione, si sforza di biascicare un “Ascolta meglio”, e decido di seguire il suo consiglio.
 
A parte quella di Midorikawa, riesco a udire, per quanto possibile, un’altra voce, appartenente al suo interlocutore. Una voce di donna.
 
Non sono in grado di distinguerla appieno, ma ne avverto il timbro e la cadenza.
Una donna dalla voce femminile e decisa, probabilmente sopra gli ottanta decibel, che chiama con insistenza, senza curarsi delle circostanze.
 
“Reina ti ucciderà”, Nagumo si asciuga l’ennesima lacrima per poi darmi un colpo leggero sulla spalla, quasi d’incoraggiamento, per poi rivolgersi a Masaki.
Mentre lascio che parlino, mi avvicino alla scrivania di Midorikawa.
 
Con un cenno della mano, gli faccio capire che non deve insistere oltre, che parlare con Reina è impossibile, e gli sfilo cortesemente il telefono dalla mano, attendendo un attimo di quiete dell’altro lato della linea per poter cercare di farla ragionare.
 
Spendo un quarto d’ora solido nel tentare di chiarire il malinteso. Eventualmente, Reina cede e riattacca dopo essersi congedata.
 
“Scusala, a volte tende ad essere testarda e irascibile, ma non è una cattiva persona. Mi dispiace per il disagio che ti ha causato”, è la prima frase che rivolgo a Midorikawa dopo il termine della chiamata.
 
“Non si preoccupi, è comprensibile”, mi risponde con un piccolo sorriso, annuendo alle mie parole mentre sistema la cornetta del telefono al suo posto.
 
“Solitamente è calma da far paura, quindi questi sfoghi sorprendono anche me”, gli confido con sincerità, approfittandone per lasciare sulla sua scrivania la copia da archivio del documento di Suzuno.
 
“Beh, come si dice: acqua cheta rompe i ponti”, sorride con gentilezza mentre prende tra le mani il foglio, iniziando a leggerlo attentamente.
Non penso di averlo mai notato prima, forse per via della sua carnagione bronzea e della mia mancata attenzione, ma il suo viso è tempestato di una marea di lentiggini fitte, soprattutto sulle guance.
 
Par quasi più giovane di quanto non lo sia anagraficamente, in particolar modo se le macchie vengono unite ai suoi occhi che, per ironia della sorte, sono riempiti dalla condizione delle pupille e ricordano pressappoco quelli di un cerbiatto.
 
Anche i suoi lineamenti sono delicati, quasi femminei: dalla fisionomia alle forme del corpo, trasuda leggiadria e gentilezza. Il suo sguardo è candido proprio come il suo parlato, e le labbra rosee, di un piacevole volume, non tradiscono ciò che pensa.
 
Persino la sua voce è caratterizzata da una soavità modesta, e pare baciare dolcemente l’aria ad ogni sillaba.
 
Distolgo lo sguardo per non essere colto nello scrutare il suo volto, decidendo quindi di accomodarmi alla mia scrivania e ricordare a Nagumo che no, non riceverà la busta paga a fine mese se continua a perdere tempo per giocare con mio figlio.
 
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“Questo cos’è?”
“È una fattura”
“E questo?”
“È un bilancio aggregato”
”E questo?”
”È un evidenziatore”
 
Non so con quale pazienza connaturata Midorikawa stia rispondendo a tutte le domande di Masaki, nate puramente dalla sua indole infantile e curiosa.
Certo, avevamo stabilito delle regole ieri sera, ma io ho osato pronunciare quelle fatidiche parole, per cui lui ha visto subito un varco da cui passare, uno squarcio nella placidità e monotonia della vita d’ufficio che, se superato, gli avrebbe garantito un quantitativo drasticamente inferiore di noia.
 
Suddette parole sono state “Midorikawa, se ha terminato, può pure dedicarsi ad altro”.
 
Masaki, furbo com’è, ne ha approfittato per avvicinarsi alla sua scrivania e iniziare a parlare, in alternativa a chiedergli quale fosse il nome di qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione.
Sono passati circa tre quarti d’ora da quando ha iniziato e non accenna a smettere.
Fortunatamente, il mio segretario non sembra infastidito, anzi, risponde volentieri a tutti i quesiti che gli pone.
 
“Ti va di disegnare un po’, Masaki?”, gli domanda con voce melodica ed un sorriso cordiale, porgendogli nel frattempo un foglio da stampante ed una matita.
Masaki annuisce contento, piegandosi poco dopo con la schiena sul foglio mentre  Midorikawa riprende a scrivere i suoi calcoli sul registro bancario, spostandosi di tanto in tanto qualche ciocca dietro all’orecchio.
 
Anche solo vederli come esterno scaturisce un senso di armonia e dolcezza maternali.

Masaki non è mai stato così tranquillo con qualcuno, nemmeno con me, ma sembra genuinamente più controllato in questo momento, anche se in modo innaturale.
 
Ne approfitto per dare un occhiata all’orario e constato che è ora di pranzo: pochi secondi dopo, infatti, si sente la campanella di ogni piano tintinnare, indicando agli impiegati di interrompere il loro lavoro.
 
“Mh? Si mangia di già?”, domanda confuso Masaki mentre alza il viso dal suo foglio, guardandosi intorno come per cercare appigli e risposte.
”Sì, è mezzogiorno. Non dicevi mica di aver fame, stamattina?”, gli ricordo mentre mi alzo dalla mia scrivania, spegnendo il computer e cacciando un paio di fogli in fondo ai cassetti prima di uscire.
 
“Il tempo vola”, mi risponde con una linguaccia mentre scende dalle gambe di Midorikawa, il quale si alza a sua volta poco dopo.
”Sai già cosa vuoi mangiare, Masaki?”, chiede il mio segretario mentre sistema il suo blazer grigio perlato, camminando a pari passo con mio figlio.
”Uhm...”, Masaki ci pensa sopra mentre ci avviamo verso l’ascensore e incontriamo Nagumo salire le scale, probabilmente per venire a chiamarmi.
 
Mentre il caporeparto ci raggiunge dai gradini, sento Midorikawa picchiettarmi gentilmente nella spalla con l’indice, chiedendomi in maniera implicita di girarmi. Prima di parlare, fa cenno con la testa verso Nagumo e Masaki, i quali, nel frattempo, erano saliti sull’ascensore e ci stavano salutando con la mano. Ricambiamo il gesto poco prima che spariscano ai piani di sotto.
 
“Dovevi dirmi qualcosa?”, gli domando mentre mi volto verso di lui, dedicandogli la mia più completa attenzione. Lo vedo donarmi uno dei suoi soliti sorrisi impossibili da decriptare per poi porgermi un foglio piegato a metà.
A giudicare dalle piegature grezze e imprecise, deve trattarsi del foglio su cui stava disegnando Masaki mentre eravamo in ufficio.
 
“Penso che debba tenerlo tu”, mi dice sorridendo, al che lo prendo tra le mani per poi aprirlo: vi sono ritratte solo due figure, in cui riconosco le fattezze mie e di mio figlio, con diversi fiori intorno.
 
“Non... non ha mai disegnato cose del genere”, mi limito a commentare, continuando a tenere lo sguardo fisso sulle linee calcate che marchiano il foglio.
Solitamente si limita a disegnare animali, oppure oggetti che attirano la sua attenzione, e l’unica volta in cui ha provato a ritrarre la nostra famiglia c’era ancora Reina.
 
Non appena alzo il viso dal disegno, incontro le pupille piene di Midorikawa e questi mi precede prima che possa parlare di nuovo.
“Non è particolarmente affettuoso?”, domanda piegando leggermente di lato la testa, attendendo pazientemente la mia risposta.
”No, nemmeno con sua madre”, non vedo motivo di nasconderglielo siccome dovrò lavorare con lui nello stesso ufficio per più di sei ore al giorno: eventualmente sarebbe emerso l’argomento, ma preferisco che accada il prima possibile. Non mi piace tenere segreti, e poi Midorikawa mi sembra una persona affidabile quanto aurea.
 
“Allora le conviene sfruttare appieno questo periodo finché Masaki è tenero, così non avrà rimpianti”, mi suggerisce con l’ennesimo sorriso indecifrabile, facendomi cenno con il capo di seguirlo verso l’ascensore che, nel frattempo, è tornato al nostro piano.
 
Non si piange sul latte versato”.
 
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Angolino della stella cadente(?):

Oof, un altro capitolo è andato!
Ihih spero non vi dispiaccia una narrazione così “cinematografica” come la mia, ma almeno potrete cogliere tutto dei personaggi, dei loro rapporti, del loro passato e dell’ambiente che li circonda.
Vorrei ringraziare calorosamente i miei beta readers, presenti sul sito o meno, che ritagliano sempre un po’ di tempo per aiutarmi: davvero, il mio è un grazie sentito.
Questo capitolo è un po’ più lungo degli altri, ma poco importa perché non sarà la prima volta in cui sforerò il limite di parole da me imposto.
Se trovate qualche aborto grammaticale, non esitate a farmelo notare, mi raccomando!
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitoloミ✩
 

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Capitolo 5
*** Dubhe ***


Dopo la nostra breve chiacchierata, Midorikawa ed io prendiamo l'ascensore e ci avviamo verso la sala da pranzo per unirci agli altri impiegati. Una volta raggiunto il piano interessato, noto Masaki che, seduto vicino a Nagumo, si sbraccia per chiamarmi.

"Se desidera, posso restare in fila io", propone il mio segretario dopo aver notato il bambino a sua volta, sorridendo all'enfasi che dimostra.
"Mh? No, non si preoccupi. E poi l'attesa non dura così tanto: Masaki può aspettare", gli faccio cenno di non pensarci per poi girarmi verso mio figlio, indicandogli di restare tranquillo.

"È davvero vivace", sento Midorikawa commentare mentre prende un vassoio, appoggiandovi sopra le varie stoviglie. Non è la prima volta volta che lo noto, ma i suoi movimenti, caratterizzati da gesti sinuosi dei polsi, sono contraddistinti da una certa eleganza e trasmettono un senso di leggerezza.

Non capisco il perché -è davvero fuori dalla mia portata-, eppure, ogni qualvolta in cui Midorikawa sia nei paraggi, non posso fare altro se non ritrovarmi costretto a guardarlo.
Ho come l'impressione che ci sia qualcosa di magnetico legato a lui e alla sua figura, ma non riesco a spiegarmi cosa possa essere.

Par quasi che i miei occhi vengano trascinati su di lui indipendentemente dal mio volere, e questa mia mancanza, oltre a mettere me a disagio, credo potrebbe percepirla anche lui nel momento in cui dovesse accorgersene in primo luogo. Contando che lavoriamo a stretto contatto, sarebbe problematico per entrambi.

L'attrazione non è fittizia, bensì una forza fisica, quasi come il riflesso naturale di chiudere gli occhi o farsi scudo con le mani quando vi è un eccesso di luce.

Ma tutto questo non è naturale.

"Si sente poco bene?", la voce del soggetto dei miei pensieri mi desta da questi ultimi, facendomi sbattere le palpebre un paio di volte per poi annuire, tentando di riprendermi dall'intorpidimento conseguente alla mia distrazione.

"No, non è niente, stavo solo riflettendo su una cosa. Scusi se l'ho fatta preoccupare", gli sorrido con impaccio mentre mi affianco a lui per prelevare i piatti, al che ricambia il sorriso e mi intima di non dare troppo peso alla questione.

Finito di prendere i piatti, ci dirigiamo entrambi verso il tavolo con gli altri impiegati e prendiamo posto vicino a Masaki, in piedi sulla sua sedia con noncuranza, che cerca di scompigliare i capelli di Nagumo mentre lui parla.

"Ben arrivato, signor Kira", mi saluta cortesemente Suzuno, abbozzando un sorriso e chinando di poco il capo in segno di rispetto. Faccio per ricambiare il saluto, ma l'atteggiamento dell'impiegato non passa inosservato a Nagumo.

"Cos'è quel sorrisetto? È ancora per la storia di ieri, vero?", gli chiede prontamente il rosso mentre aggrotta le sopracciglia, facendo cenno a Masaki di fermarsi per un attimo.
"Può darsi, chi lo sa", si limita a rispondergli Suzuno, bevendo senza curarsi troppo di lui.
"Credo di aver perso qualche pezzo... Potreste chiarire di cosa state parlando?", mi sembra più che logico domandarlo a questo punto, soprattutto perché non mi pare di essere l'unico a non comprendere appieno la situazione.

Suzuno esorta Nagumo a parlare con un altro sorrisetto, e quest'ultimo inizia a spiegare dopo aver alzato platealmente gli occhi al cielo, "Ieri sera ho discusso con Haisuke e ci siamo lasciati: come se non bastasse, Suzuno sta continuando a rinfacciarmi questa storia non solo come se fosse colpa mia, ma sostenendo che potrà dormire più tranquillo e senza rumori molesti in sottofondo, come se facessimo chissà cosa".
"Tu lo dici scherzando, ma io ho dormito bene ieri sera", gli fa notare con noncuranza il diretto interessato, sistemandosi una ciocca della frangia per non farla cadere sugli occhi.

"Ma perché dovrebbero infastidirlo? Non ricordavo vivesse con te", stando alle mie memorie, Nagumo vive da diversi anni con due dei suoi amici universitari -Netsuha e Atsuishi se non mi ricordo male, ambedue suoi compagni di corso- e Suzuno abita a diversi isolati dal suo condominio.

"Mh? Si è trasferito a casa nostra da qualche mese per provare a convivere con qualcuno, anche se avrebbe potuto rivolgersi ai suoi amici, ammesso che ne abbia, anziché a noi", commenta il rosso per poi riprendere a fulminare Suzuno con lo sguardo e viceversa, "Pensavo di avertelo detto".

"È probabile che mi sia uscito di mente. In ogni caso, non vi manca un po' di spazio? Dopotutto siete in quattro", prima che possa finire la frase, Nagumo mi precede e risponde.

"Infatti lo spazio manca, ecco perché, a mio avviso, potrebbe tornarsene nel suo appartamento", Suzuno alza gli occhi al cielo, sospirando alle sue parole con finto sconforto, "Netsuha si lamentava già da prima, per cui ora che siamo aumentati è anche peggio - ed io condivido appieno. Ad Atsuishi va bene che resti, ma lo dice solo perché non deve condividere la camera con lui e, quando litiga con Netsuha, Suzuno gli dà sempre ragione".

"O Atsuishi ha sempre ragione a tutti gli effetti, o Netsuha è semplicemente stupido. Guarda caso, sei tu a difenderlo", come viene implicato che Nagumo non sia tanto differente dal suo amico, inizio a temere quale sarà lo svolgimento di questa conversazione.

E, come da copione, iniziano a discutere. Se c'è una cosa che ho imparato a mie spese, è senza dubbio che nessuno si deve intromettere nei loro battibecchi siccome c'è il rischio che si protraggano anche per giorni. Per ora, il record è di una settimana di frecciatine e silenzi testardi.

Saginuma, seduto di fronte ai due litiganti, alza puntualmente gli occhi al cielo per poi riprendere a mangiare, cercando di ignorare la loro presenza anche quando provano a chiamarlo in causa per difendere una parte o appoggiare l'altra. Seguendo il suo esempio, gli altri impiegati agiscono di conseguenza.

"Papà, chi è Haisuke?", mi domanda sottovoce Masaki mentre si sposta sulle mie gambe, probabilmente riluttante a seguire il loro scambio di insulti.
"La fidanzata di Nagumo, ma adesso non stanno più insieme", gli spiego tranquillamente con tono morbido, lasciandolo libero di mangiare il mio riso nel frattempo, "È quella ragazza con i capelli arancioni che ogni tanto veniva a casa nostra insieme a lui e ti preparava sempre dei dolci, non te la ricordi?".

Probabilmente a Masaki non importa così tanto di ciò che gli sto dicendo siccome sembra più interessato al mio riso, che ha pian piano finito.
Si limita ad annuire per poi appoggiarsi con la schiena contro al mio petto, chiudendo gli occhi per potersi riposare. Mangiare, ora come ora, pare quasi un'impresa.

"Masaki", sento la voce morbida di Midorikawa chiamarlo, al che schiude un occhio come per fargli intuire che lo sta ascoltando, diversamente da ciò che la sua posizione attuale possa suggerire, "Vuoi mangiare anche il mio riso?".

Le pupille di mio figlio sembrano illuminarsi a quell'offerta tanto invitante, ma piega all'indietro la testa per osservare la mia espressione, cercando di leggere una risposta nel mio viso.
Scuoto la testa per dirgli di no e lui, siccome ripone una grande considerazione nella mia opinione, si volta verso Midorikawa e annuisce, confermando con un "Sì" brioso.

Scuoto la testa con rammarico mentre Masaki scende dalle mie gambe per potersi spostare verso il suo piatto, ma percepisco il mio assistente picchiettarmi nel fianco e farmi un cenno con il mento verso il mio vassoio, mantenendo comunque lo sguardo sul bambino che mangia.

Intuisco che l'abbia fatto per permettermi di finire quel che resta del mio pranzo e distrarre mio figlio allo stesso tempo, al che non posso far altro se non ringraziarlo mentalmente.

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È passato un quarto d'ora solido da quando abbiamo finito di mangiare e Masaki ha iniziato ad assillarmi dal momento in cui ha messo piede in ufficio. Capisco che l'ambiente, dopo un po' di tempo, possa diventare pesante e l'attesa insostenibile, però lui sta facendo quello che vuole da stamattina e non vedo perché debba lamentarsi così tanto.

"Voglio andare al parco".
L'avrò sentito una dozzina di volte in pochi secondi, ma già so che non riuscirò a concentrarmi di questo passo.

"Ci andremo dopo", tento di invogliare Masaki a sperare nell'ipotetica realizzazione della sua umile richiesta nell'arco di qualche ora, ma non sembra del tutto convinto, motivo per il quale sta continuando a camminare per l'ufficio in cerca di qualcosa che possa intrattenerlo.

"Signor Kira", Midorikawa mi chiama dalla sua scrivania ed io alzo lo sguardo dallo schermo del computer, "Ho finito di compilare tutte le copie dei bilanci. Ha bisogno che le prenda qualche documento dall'archivio?".
"No, per il momento non mi serve nulla, grazie", lo ringrazio con un cenno di cortesia del capo, ritornando poi a focalizzarmi sulla posta a cui rispondere.

Il mio assistente si alza dalla sua postazione per poi avviarsi verso la porta dell'ufficio con le carte sottobraccio: per un momento, mi pare di vederlo lanciare un'occhiata a Masaki e dedicargli uno dei suoi soliti sorrisi indecifrabili, ma credo sia solo un'impressione dovuta all'inefficienza della coda del mio occhio.

Dopo pochi minuti dalla sua assenza, noto mio figlio perdere gradualmente l'energia che sprizzava fino a qualche istante fa e avvicinarsi al divanetto, sdraiandosi poi sopra di questo ad occhi chiusi.

"Sei stanco, Masaki?", gli chiedo mentre mi sistemo gli occhiali sul ponte del naso, interrompendomi nuovamente dal mio impiego per potermi voltare verso di lui.
"Sì", annuisce quieto per poi rannicchiarsi su se stesso, volgendomi le spalle e assopendosi poco dopo.

Come riporto lo sguardo sulla casella di posta, aggrotto le sopracciglia e mi fermo con le dita sulla tastiera: non ha mai voluto dormire di sua spontanea volontà dopo i pasti, senza contare che, a pranzo, non ha mangiato chissà quanto. Com'è possibile che lo stesso bambino che si lamentava poco fa di voler uscire a giocare sia così spossato tutto d'un tratto?

Conoscendo Masaki, non è da lui avere cali del genere, specialmente nel periodo dell'anno che più lo rende contento. È piuttosto singolare come probabilità, ma non voglio sbatterci contro la testa per troppo tempo perché non sarebbe assolutamente producente.

Mentre mio figlio dorme beatamente sul divanetto, Midorikawa fa il suo ingresso nell'ufficio con un sorriso delicato e qualche plico tra le braccia.
Masaki, rigirandosi per l'ennesima volta nel sonno, aggrotta le sopracciglia e si stringe ulteriormente su di sé.

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Sospiro mentre mi lascio andare sulla sedia da ufficio, tenendo gli occhiali per il nasello dopo essermeli tolti. Un'altra giornata di lavoro è terminata.
Fortunatamente, dopo averne lette più di un centinaio, non dovrò più sentir parlare di email per almeno una settimana.

"Vuole che le porti un caffè?", mi domanda Midorikawa mentre piega della carta per Masaki, che ha ripreso a fare i suoi scarabocchi subito dopo essersi svegliato, "Dopotutto non ha fatto una pausa né prima, né dopo pranzo".

"No, non si preoccupi: la giornata oramai è finita", faccio un cenno di negazione con la testa mentre mi siedo compostamente, rimettendomi le lenti e approfittandone per sistemare le carte rimaste sulla mia scrivania da stamattina, smistandole nei vari cassetti.

Midorikawa annuisce alle mie parole con un piccolo sorriso, riprendendo a piegare i fogli per Masaki. Dopo una decina di minuti, mentre ci apprestiamo ad uscire, il mio assistente rompe il silenzio di nuovo, "Avete intenzione di partecipare alle giornate in famiglia della scuola? Ho sentito che ci saranno diverse attività, ad esempio una gara di torte".

"No, tanto papà non sa cucinare", risponde prontamente Masaki, camminando di fronte a noi verso l'ascensore e premendo il tasto di richiamo, "potrebbe bruciare persino l'acqua".

Aggrotto leggermente le sopracciglia al suo affronto diretto e noto Midorikawa soffocare una risata divertita. Si riprende con rapidità, forse per non offendermi, e scuote leggermente la testa per non pensarci, mantenendo però un sorriso cordiale.

"Fino alla bara sempre s'impara. Hai mai sentito questo proverbio, Masaki?", gli chiede tranquillamente mentre entriamo nell'ascensore, indicando poi a mio figlio il tasto da premere per raggiungere il piano terra.

Il diretto interessato scuote la testa, alzando poi il viso per guardarlo mentre, con un sorriso più vivido, Midorikawa gli spiega il significato del detto a lui ignoto.
"Vuol dire che non si smette mai di imparare e, chi lo sa, magari potreste vincere proprio voi la competizione".

Masaki sembra riflettervi sopra per un attimo e considerare la sua, o meglio, la nostra partecipazione. Si volta quindi verso di me, aggrappandosi al profilo della mia gamba con ambedue le mani e appoggiando il mento contro al mio fianco.

"Partecipiamo anche noi? Per favore!", per fortuna che, fino a pochi secondi fa, ero completamente impedito in ambito culinario, a detta sua. Non so a quale riconoscimento ambisca, soprattutto perché è improbabile che ce ne siano, ma spero vivamente che non si faccia false speranze siccome non sono nemmeno sicuro di potermi classificare.

"Va bene", annuisco con riluttanza alla supplica di Masaki, il cui viso si illumina immediatamente e, staccatosi da me, inizia a palpitare contento.
Raggiunto il piano terra, passiamo a timbrare vicino alla reception e salutiamo diversi impiegati - tra cui Nagumo e Suzuno, che stanno ancora discutendo.

"Mi fa piacere sapere che parteciperete anche voi", commenta Midorikawa con un sorriso una volta fuori, soffermandoci di fronte all'ingresso dell'edificio.
"Non sperate troppo nella vittoria, però. Io e mio nipote abbiamo sempre vinto quando andava ancora all'asilo, e se è vero che piove sempre sul bagnato, allora io e Hikaru collezioneremo l'ennesimo trionfo", afferma con un sorriso sicuro, porgendo a Masaki i fogli che aveva dimenticato in ufficio per poi congedarsi.

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Angolino della stella cadente(?):
Heyla, a quanto pare non sono morta!
Mi scuso sinceramente per l'inattività, ma ho avuto probabilmente le peggiori settimane scolastiche in quanto a impegni e consegne. Però hey, adesso dovrei esserci! ◟(๑•͈ᴗ•͈)◞
Non ho fatto nessuna illustrazione siccome sono piombata in un bell'artblock, ma prometto che la aggiungerò appena l'avrò finita (o iniziata).
Sto considerando di fare un Q&A relativo alla trama e ai personaggi, ma se avete qualche domanda da pormi prima che io lo organizzi potete pure chiedere (tanto mangio solo i bambini). ( ᵘ ᵕ ᵘ ⁎)
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitolo ミ✩

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