Credici, Lisbon, non è più solo un sogno di Mirty_92 (/viewuser.php?uid=73116)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Questione di vita o di morte ***
Capitolo 2: *** 2. La notte più lunga della mia vita, almeno finora ***
Capitolo 3: *** 3. Ci sono giorni che portano un sacco di sorprese o solo guai, dipende dai punti di vista ***
Capitolo 4: *** 4. Mai aggiungere altro ad un qualunque cosa ***
Capitolo 5: *** 5. Se devo proprio impazzire allora lui impazzirà con me ***
Capitolo 6: *** 6. Mai una volta che si possa riposare in santa pace ***
Capitolo 7: *** 7. Un piano semplice, poco legale e tutto andrà bene, insomma come al solito ***
Capitolo 8: *** 8. Coppia che vince non si cambia ***
Capitolo 9: *** 9.Il nostro paradiso blu ***
Capitolo 1 *** 1. Questione di vita o di morte ***
1. Questione di vita o di morte
Angolo
Mirty_92
Ciao a
tutti! Eccomi di nuovo qui contro ogni mia più assurda previsione con un’altra
storia su di un mentalista e una poliziotta. Questa fanfic si collocata tra la
fine della sesta e l’inizio della settimana stagione. Li abbiamo lasciati così,
con una dichiarazione struggente e un bacio da favola. E li abbiamo ritrovati
di nuovo al lavoro come coppia che sì, funziona bene come sempre. Ma in mezzo
cosa è accaduto? Se siete curiosi e se vi va, qui di seguito trovate la mia “versione
dei fatti”. Dovrebbe essere una storia di qualche capitolo, senza troppe
pretese.
Ed ora
a voi! Buona lettura!
A presto,
spero!
Mirty
1.
Questione
di vita o di morte
“Adesso sarà meglio che vada” gli sussurro
staccandomi a fatica dalle sue labbra, ancora decisamente scossa dagli eventi
così improvvisi non solo degli ultimi dieci minuti ma anche di quell’ultima
mezz’ora, o forse più.
Da quando ero scesa da quell’aereo, il
tempo si era come fermato. In una decina di secondi avevo voltato le spalle ad
una nuova proposta di vita per fare, come si dice spesso, un salto nel vuoto.
Ma per cosa? Perché il mio cervello rielaborava una sola, martellante domanda
che esigeva una risposta immediata e sincera da quell’imprevedibile del mio
consulente, nonché tasto dolente del mio cuore da quando avevo iniziato ad
uscire con Marcus. Era vero quello che Jane mi aveva detto? Lui mi amava sul
serio? Dovevo assolutamente saperlo.
Così, appunto una mezz’ora prima o giù di
lì, avevo finito di asciugare le lacrime di imbarazzo che rischiavano di
fermarmi, slacciato con gesti frenetici la cintura del sedile 12b, per poi
precipitarmi verso il portellone anteriore dell’aereo seguita da bisbiglii
eccitati di approvazione. Avevo sentito a mala pena ciò che mi diceva la
hostess per cercare di farmi tornare al mio posto perché ormai eravamo pronti
al decollo e l’unica cosa che mi ricordo nitidamente di aver fatto è stata
quella di mostrarle il mio distintivo dell’FBI e di averle fatto cenno di voler
scendere. E poi mi ero catapultata giù dalle scale come una pazza iniziando a
correre verso un ingresso qualunque che mi permettesse di riaccedere all’intero
dell’aeroporto. Il tutto seguita da due addetti aeroportuali che a stento
riuscivano a starmi dietro gridando chissà cosa per fermarmi. Non ce l’avevano
fatta, ovviamente. Una poliziotta come me non si ferma facilmente.
Una volta entrata di nuovo nei locali
dell’aeroporto il mio buon senso aveva ripreso il controllo della situazione e
cercato di fare mente locale sul da farsi. La guardia che era venuta a portare
via Jane dopo il suo folle gesto - perché diciamocelo, è stata davvero una
pazzia quello che ha fatto! – doveva sicuramente averlo messo sotto custodia
lì, da qualche parte. Avevo cominciato subito a vagliare le diverse indicazioni
ed ecco, sotto forma di un cartello blu, trovata la risposta: uffici di polizia
aeroportuale.
“Signorina, cosa crede di fare?” Ero
rimasta ferma un attimo di troppo e i due addetti all’imbarco passeggeri mi avevano
raggiunto. Avevano il fiatone e uno dei due era quasi piegato sulle ginocchia.
Non avevo potuto fare a meno di sorridere
appena e di sentirmi per un attimo in colpa per averli ridotti così.
“FBI” avevo risposto decisa, mostrando il
distintivo. Si erano paralizzati all’istante. “Tranquilli. Devo solo
raggiungere quell’idiota che è salito sull’aereo un momento fa e che è stato
giustamente riportato qui.”
I loro volti, già provati per lo sforzo, erano
diventati cerei alle mie parole.
“È un attentatore?” Mi guardavano con
tanto d’occhi. Ancora una volta mi era venuto da sorridere ma ero riuscita a
trattenermi. Avevo assunto un’espressione che speravo potesse rasserenarli
anche se dentro di me non riuscivo a smettere di pensare al gran casino che aveva
combinato Jane facendosi scambiare per un attentatore. Di questi tempi poi!
“No, è solo un idiota. Un consulente
dell’FBI. Ma ora devo proprio andare a prelevarlo. È da quella parte l’ufficio
di polizia, giusto?” Cercavo di far capire a quei poveretti che non dovevano
preoccuparsi. Loro avevano fatto il loro dovere e non erano mai stati in
pericolo.
“Sì, signorina… ehm… agente?”
“Agente Lisbon, sì. Va bene, grazie mille.
Ora potete tornare al vostro lavoro.”
Erano ancora un po’ scossi, l’avevo notato.
Ma io non avevo più tempo di dedicarmi a loro. Dovevo parlare con Jane, quel
genio!
“Se passa di qui arriverà in un attimo. La
posso accompagnare io direttamente dal capo della polizia. Venga.” L’uomo più
giovane mi aveva aperto la strada tra una folla che stava aspettando l’imbarco
e io l’avevo seguito. “Ci penso io, Frank. Tu riprenditi e poi torna in pista.”
E con un cenno del capo, aveva salutato il suo collega che iniziava a respirare
più regolarmente. Beh, gli avevo fatto fare decisamente una bella corsa, non
c’è che dire.
Ma dovevo tornare a concentrarmi sul mio
obiettivo: dovevo rivedere Jane.
Passando per dei locali di sicurezza eravamo
arrivati ad una piccola stanza dove un agente di polizia si trovava di guardia
alla porta. “Ehi, Todd, dov’è il capitano? Qui c’è l’agente Lisbon. Deve
parlare con lui per poter vedere quel folle che è salito ora sull’aereo per
Washington.” Poi a bassa voce con tono timoroso aveva aggiunto: “È dell’FBI.”
Il poliziotto di guardia mi aveva squadrata
ma non sembrava minimamente impressionato dal fatto che io fossi dell’FBI. Avevo
ricambiato lo sguardo, da dura. Pareva che comunque avesse capito la situazione.
“Aspettate qui.” Era ritornato in poco
tempo, seguito da un uomo corpulento dall’aspetto serio, il capitano.
“Mi pare mi abbiano detto che lei sia
dell’FBI.”
“Esattamente. Agente Lisbon. Devo vedere
l’uomo che avete in custodia. È qui?”
Guardava il mio distintivo come per
assicurarsi che non fosse un falso. Avevo alzato gli occhi al cielo cercando di
rimanere calma.
“E cosa vuole l’FBI da quell’uomo? Ha
violato le leggi sulla sicurezza aeroportuale. È sotto la nostra tutela.”
“Devo solo parlargli. È un collega, un
nostro consulente.”
“Consulente?”
Quante volte ancora avrei dovuto vedere
facce scettiche, perplesse o qualunque cosa di simile quando presentavo Jane
come consulente dell’FBI? Sempre, che domanda!
“Sì, esatto. Senta non vorrei essere
scortese ma dovrei proprio parlargli. Questo è il numero del mio capo, l’agente
supervisore Dennis Abbott. Lo chiami pure per controllare tutto ciò che le ho
detto se qualcosa non le torna, ma ora voglio vedere Jane.”
L’avevo preso in contropiede mentre si era
ritrovato praticamente con il mio telefono in mano con la voce Dennis Abbott
già selezionata nella rubrica dei contatti veloci.
“O-ok. Falla entrare, agente Anderson. E
lei può tornare al suo lavoro” fatto un cenno col capo all’addetto passeggeri, ancora
un po’ intimidito, avevo visto quest’ultimo allontanarsi gettandomi ancora
sguardi in tralice. “Mentre io mi accerto con questo agente Abbott.” Il
capitano cercava di riprendere una parvenza di controllo. Come lo capivo. In
fondo era lui che aveva autorità lì come capo della polizia. Non volevo fare la
superiore, solo che iniziavo proprio ad avere una certa urgenza di parlare con
Jane. Volevo vederlo.
“La ringrazio” avevo aggiunto prima di
seguire l’agente Anderson che mi aveva accompagnata lungo un corridoio fino ad
arrivare ad una stanza con un vetro dove aveva spiegato ad un collega che avevo
il permesso del capitano di poter vedere il prigioniero.
Ed eccolo lì: Patrick Jane.
“Immagino tu debba risolvere un altro
gran bel guaio.”
Ritorno al presente quando la voce di Jane
mi sussurra piano all’orecchio. Mi sorride complice e io non posso fare a meno
di alzare gli occhi al cielo.
“Mi sa proprio di sì. Devo almeno tentare.
Vedrò cosa posso fare. Alla peggio ti toccherà rimanere qui ancora per un po’.
Non ti farebbe male.”
“Suvvia, Lisbon. Non sono rimasto in
castigo abbastanza?” Ha ripreso a schernirmi, Jane. Ma un attimo prima, quando
ha voluto dimostrarmi con quel bacio che ci siamo
scambiati che le parole dette
sull’aereo erano vere, era più serio che mai. Cerco di rimanere lucida
nonostante stia sentendo l’adrenalina scorrere come un fiume in piena nelle mie
vene.
“Non saprei. Ti aggiornerò.” Gli sorrido
ed esco, mentre con la coda dell’occhio lo vedo rimettersi a sedere. Mi toccherà
portarlo all’ospedale per fargli controllare meglio la caviglia. Chissà come se
la sarà slogata. Dovrà spiegarmi anche questo ma per ora mi basta quello che ho
appena vissuto. Sì, perché l’essere stata baciata da Jane è stato speciale.
Semplicemente speciale. Era una cosa che il mio inconscio aspettava da tempo.
Sentivo che l’affinità tra di noi era arrivata ad una svolta. Prendere o
lasciare. All’inizio avevo lasciato. Non potevamo andare avanti così per sempre
e in un attacco di rabbia, sentendomi ancora una volta usata da lui, avevo
fatto chiamare un taxi per farmi portare all’aeroporto e, come se ciò non fosse
bastato, avevo persino accetto di sposare Marcus. Dannazione! Marcus! Gli avevo
promesso che una volta preso l’aereo l’avrei avvisato dell’orario previsto di
arrivo a Washington. Non l’avevo fatto perché quel maledetto aereo non l’avevo
preso ed ora il mio cellulare era ancora tra le mani del capitano di polizia. E
sì, anche per altri ovvi motivi non ero partita, d’accordo. Beh, Marcus capirà. Me lo ripeto
ancora dopo averlo già detto anche a Jane.
“Oh, Lisbon. Eccoti qui.”
Svoltato l’angolo mi ritrovo di fronte
Abbott e il suddetto capitano.
“Buonasera, capo.”
“Tutto ok?” Vedo Abbott che mi squadra ma
non pare sorpreso di vedermi lì, anzi. È soddisfazione quella che vedo nel suo
sguardo?
“Sì. Sono restata. Ho… diciamo… quasi
volutamente perso l’aereo.” Mi sento in dovere di dargli dei chiarimenti ma non
saprei da che parte iniziare. Arrossisco lievemente mentre Abbott mi scruta
curioso attraverso gli occhiali.
“Capisco.” Mi risparmia le spiegazioni
imbarazzanti. Per ora almeno. “Beh, visto che sei qui perché non accompagni tu Jane
all’ospedale. Il capitano Smith mi ha detto che si è slogato una caviglia in
circostanze che, a quanto ho letto nella deposizione di Jane, erano questione
di vita o di morte.” Cita queste ultime parole leggendole direttamente da
un fascicolo che tiene in mano. Questione di vita o di morte. Sbuffo
appena. Perché devi essere sempre così teatrale, Jane!
“Ecco il suo cellulare, agente Lisbon.” Il
capitano di polizia me lo rende. “Ha suonato un paio di volte con un prefisso
di Washington da quando me l’ha lasciato per contattare l’agente Abbott.”
Ecco, lo sapevo. Abbasso appena lo
sguardo. “La ringrazio.”
“Bene, io vado ad avvisare che il signor
Jane può essere rilasciato. Lo aspetti qui, agente Lisbon. Glielo faccio subito
portare. Agente Abbott, arrivederci. Spero che l’FBI la prossima volta non sia
più in situazioni di vita o di morte qui in aeroporto.”
Abbott assume un’espressione seria ma
nasconde un non so che di divertito. “Non si può mai sapere, capitano Smith.
Arrivederci.”
Rimango da sola con Abbott. “Tutto è bene
quel che finisce bene, Lisbon. Penso che tu ora debba chiamare Washington. Da
quello che ho capito, presumo tu voglia restare.”
“Sì, capo. Sempre che sia possibile.”
“Per un agente come te le eccezioni si
possono fare. Non ti preoccupare per l’aspetto burocratico del tuo
reinserimento in squadra. Penserò a tutto io. Tu per ora hai ancora la tua
settimana di congedo transitorio. Risolvi la tua situazione. Ci vediamo presto.
Ah, e dì a Jane che mi deve un favore.”
“Un favore, Abbott?” Ho lo sguardo
perplesso.
“Sì, Lisbon. Ho prestato la mia macchina a
Jane e lui l’ha tranquillamente abbandonata alla mercé di tutti di fronte
all’aeroporto. Per fortuna la sicurezza qui non è niente male. L’hanno
requisita. Ora andrò a reclamarla.” Alza le spalle e mi sorride.
“Il solito Jane.” Mi giustifico alzando
gli occhi al cielo ma lasciandomi sfuggire anche io un mezzo sorriso.
“E la questione di vita o di morte.”
Ormai non so più quale soglia di rossore
io abbia raggiunto. Dannazione, Jane! Questa me la paghi!
Il cellulare inizia a vibrare nella mia
mano e poi squilla. Per un attimo sono grata per questo diversivo che mi evita
di rispondere ad Abbott che ne approfitta per farmi un cenno di saluto,
rivolgermi un sorriso enigmatico e sparire oltre il corridoio.
Ora però guardo il telefono come se fosse
uno scorpione velenoso o qualcosa di simile. È Washington. È Marcus. Devo
rispondere. Chiudo gli occhi e premo il tasto verde.
“Teresa, a che punto sei? Devo organizzarmi
per venire a prenderti in aeroporto.” È allarmato, non seccato. Solo ansioso.
L’ho fatto stare in pensiero.
“Ciao Marcus. Ho avuto un contrattempo.”
Un contrattempo? Quello che è successo con Jane tu lo chiami un semplice
contrattempo? Suvvia, Teresa, qualcosa di meglio no? Cerco di zittire il mio
inconscio e riprendo a parlare.
“E sono dovuta restare qui.”
Dall’altra parte della cornetta sento uno
strano silenzio. Il respiro di Marcus è lieve, poco percettibile.
“Non verrai, vero? Non mi raggiungerai più
a Washington.”
L’ultima non è una domanda.È una considerazione. Un dato di fatto.
“Scusami.” Una lacrima mi sfugge
involontaria e mi riga la guancia. Sento che se gli avessi sparato al petto con
la mia pistola probabilmente gli avrei fatto meno male di quanto gliene sto
facendo ora. Ma adesso non posso più mentire. A me, a lui. Gli dovrei dare
delle spiegazioni. Sento che se le merita ma continuo a rimanere in silenzio.
“Capisco.” La voce di Marcus arriva alle
mie orecchie come se partisse da un baratro. Beh, Teresa, non avevi forse detto
a Jane che Marcus avrebbe capito? Hai indovinato. Sì, ho indovinato ma mi sento
uno schifo comunque. Continuo a non parlare.
“Teresa, dimmi solo una cosa. È Jane,
giusto?”
Mi ritrovo ad annuire al telefono non
capendo subito che lui non mi può vedere.
“Teresa?”
Mi riscuoto. “Sì, Marcus. È Jane.”
“D’accordo. Addio Teresa.”
La linea cade. Il persistente tu-tu-tu del
telefono mi rimbomba nelle orecchie. Una vigliacca. Ecco come mi sento. È stato
triste oltre ogni dire. Ma non potevo continuare a mentire. A me, a lui.
Passerà, dovrà passare.
“Agente Lisbon?”
Asciugo veloce quell’unica lacrima
traditrice e mi volto verso la voce che mi ha chiamata. E poi lo vedo: il mio
piccolo sole personale. E tutto pare improvvisamente più chiaro. Più bello e
sereno. Jane è aiutato a camminare dalla guardia che ci teneva d’occhio quando
lui mi ha baciato solo mezz’ora prima? – non ho più
davvero la cognizione del tempo, è un dato di fatto –.
“Oh, sì. Lo lasci pure. Lo aiuto io.”
Jane mi mette un braccio attorno alle
spalle mentre io lo sorreggo in vita. Per un attimo si lascia quasi sostenere a
peso morto da me ma poi, di fronte alla mia occhiataccia di rimprovero, mi
sorride e si sostiene meglio.
“Ce la fate?” La guardia pare preoccupata
anche se guardinga.
“Sì sì. L’agente Lisbon è una tosta, non
si preoccupi. E grazie per la sorveglianza.”
“Jane!” Non posso fare a meno di
ammonirlo.
“Che c’è? Che ho detto?”
“Guarda che se non la smetti ti lascio
ancora qui, ok?”
“Non penso che mi rivogliano, vero
Arthur?”
La guardia ora sembra terrorizzata. “No,
no, signor Jane. Vada pure. Lei è libero.”
Guardo entrambi stranita. Poi prima che la
mia pazienza possa essere messa a dura prova venendo a conoscenza di fatti
strani, decido di allontanarmi almeno dall’aeroporto. Per oggi, qualcuno
qui ha già procurato abbastanza guai.
Saluto la guardia e mi trascino, con Jane
sempre accollato a me a modi cozza sullo scoglio, fino all’uscita
dell’aeroporto.
“Chiamo un taxi. Reggiti un attimo.” Sfilo
veloce il telefono dalla tasca dove l’avevo riposto in fretta e furia dopo la
chiamata di Marcus per non farmi vedere da Jane. Sfortunatamente per me
l’elenco delle chiamate rapide rivela il prefisso di Washington. Guardo Jane di
sott’occhi e mi accorgo che mi sta guardando. L’ha notato. Avverto una leggera
tensione fra di noi ma è solo un attimo.
“Potresti far presto. La gamba sana inizia
a dare segni di cedimento, vorrei stendermi un po’”
Rimango a bocca aperta ma poi mi riprendo
subito.
“Certo che sei forte! Ti fai male in modo
sconsiderato e poi hai pure il coraggio di avanzare delle pretese.”
“Suvvia, Lisbon. Per favore, puoi chiamare
un taxi?” Mi guarda con uno sguardo talmente melenso e finto supplichevole che
mi strappa un sorriso.
“Ok, ma bada a ciò che dici o ti lascio in
ospedale e ad Austin rientri per conto tuo.” Cerco il numero del servizio taxi
della zona e attendo in linea. L’ultima volta che l’ho usato stavo scappando
infuriata da Jane verso un altro stato mentre ora sono qui, con Jane, e mi
sento bene. Stranamente bene, dopotutto. Mi sento al mio posto.
“In ospedale? Io non voglio andare in
ospedale. Sto bene. L’ospedale è per i malati e io non sono malato” protesta
quasi come un bambino.
Scuoto la testa e nel frattempo aspetto
che la signorina del servizio clienti mi dia conferma della disponibilità di un
taxi nella nostra zona. Ma proprio mentre mi stanno dicendo che ne arriverà uno
tra cinque minuti, ne accosta un altro poco distante da noi che scarica una
coppia di turisti. Jane attira subito l’attenzione dell’autista sbracciandosi e
finendo quasi a terra per via della foga. Io lo
riacciuffo in un attimo e gli evito che la sua bella faccia vada a spiaccicarsi
letteralmente - e non solo - sul
marciapiede. Lui si riprende e mi sorride, mi frega il telefono, ringrazia la
signorina parlando della tempestività del loro servizio e riaggancia. Poi mi
rende il telefono.
“Tutto apposto” continua a sorridermi. Non so
esattamente quante volte mi stia sorridendo in quel modo da quando l’ho rivisto
oggi, ma è qualcosa di diverso dal solito. Conosco il suo perenne sorriso da
anni ormai ma oggi è diverso. È come se, finalmente, mi sorrida davvero per la
prima volta.
“Vi posso aiutare?”
L’autista del taxi ha visto le condizioni
di Jane. “Slogatura? Vi porto all’ospedale?”
“Sì”
“No”
Inizia un gioco di sguardi. Io guardo in
cagnesco Jane, pronta a combattere per portarlo in ospedale. Lui mi guarda
disinvolto come se nulla fosse, sfidandolo quasi a contraddirlo. E l’autista ci
guarda stranito.
“Jane, devi farti vedere la caviglia. Se è
slogata dovranno farti una fasciatura e darti delle stampelle.”
“Io ho già la mia stampella” mi guarda
ghignando.
“Ah ah. Davvero spiritoso. Io non sono la
tua stampella. Forza, sali e non fare storie.” Tengo la portiera aperta e
l’autista, saggiamente, sentendo il mio tono autoritario, decide di non
intromettersi e si mette al posto di guida, pronto a partire aspettando
indicazioni.
Jane scuote la testa e si siede sul sedile
del passeggero. “Ok, d’accordo. Ma solo se mi prometti che dopo l’ospedale,
qualunque cosa mi dicano di fare, tu verrai con me in un posto. Prendere o
lasciare.”
Alzo gli occhi al cielo. E ti pareva che
non avesse in mente qualcosa?
Ma questa volta so perfettamente cosa
fare. Ho già lasciato una volta. Ora prendo e non lascio più.
“D’accordo. Come vuoi tu.” Faccio la finta
rassegnata. Mi siedo dietro e dico al taxista: “Ci porti all’ospedale più
vicino, grazie.”
“Subito, signorina.”
Guardo la strada di fronte a me mentre ci
allontaniamo dall’aeroporto e poi guardo lo specchietto. Incrocio per un attimo
lo sguardo scintillante di Jane che mi sorride. E io non posso fare a meno di
sorridergli di rimando. Sì, per l'ennesima volta.
To be continued...
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Capitolo 2 *** 2. La notte più lunga della mia vita, almeno finora ***
2. La notte più lunga della mia vita, almeno finora
2. La notte più
lunga della mia vita, almeno finora
Ok, ora so che ore sono ed è veramente
tardi. Sono le due di notte ormai. La stanchezza dell’intera giornata inizia a
pesarmi sulle spalle come un macigno e ho gli occhi che si chiudono ma sono
ancora qui, in una spoglia sala d’attesa del pronto soccorso dove ho lasciato
Jane circa venti minuti fa. Sfoglio svogliatamente un opuscoletto informativo
sui vari tipi di dolore, illustrato con delle divertenti vignette a fumetti. Ma
non ci sto prestando molta attenzione. Lo ammetto, sto solo cercando di non
addormentarmi.
“La signorina Lisbon? Teresa Lisbon?” Un’infermiera
dall’aria gentile mi sta chiamando.
“Eccomi.” Scatto in piedi, a rapporto.
Alle sue spalle vedo Jane che cerca
maldestramente di avanzare con le stampelle.
“Abbiamo visitato il signor Jane. Tutto
apposto. È una semplice slogatura. Un paio di giorni e sarà come nuovo. Nel
frattempo però raccomandiamo riposo assoluto. Sarebbe meglio non sforzare la
caviglia.”
“D’accordo, la ringrazio.”
“E di che. Dovere. Buona notte, signorina
Lisbon. Signor Jane, riposo assoluto e si rimetterà in fretta.”
Vedo Jane sfoderare uno dei suoi sorrisi
migliori e mi chiedo come quell’infermiera non si sia sciolta lì, ai suoi
piedi. Sono anche trafitta da una strana sensazione. Gelosia? No, non è
possibile. Non è da me. Eppure…
“Ehi, Lisbon, andiamo? Ricorda che hai
promesso che saresti venuta con me a qualunque condizione.”
“Non c’è bisogno di fare il saputello. Me
lo ricordo perfettamente, Jane.” Gli apro la porta d’uscita e finalmente siamo
fuori. Mi sembra di respirare davvero solo ora. Il cielo è scuro, immenso,
punteggiato qua e là da stelle piccole ma luminose.
“Puoi chiamare tu un taxi? Con queste
stampelle faccio un po’ fatica a fare altro.” Sembra quasi malizioso e lo
guardo di sott’occhi. Mi fissa con sguardo attento e mi sento arrossire. Mi
viene in mente il nostro bacio. Sono passate solo poche ore, non ne abbiamo più
parlato ma da quel momento siamo stati sempre insieme. Ed ora dove mi vuole
portare? Di sicuro non partiremo subito per Austin. È veramente molto tardi e
io, ribadisco, sono davvero molto stanca. Ma con Jane non si può mai sapere.
Il taxi arriva poco dopo. Sento a mala
pena che Jane gli dà delle indicazioni ma mi ha fatto allontanare apposta perché
“Altrimenti che sorpresa è?”, così mi ha detto.
Lascio cadere nel baule l’unico bagaglio a
mano che mi sono portata da quando siamo partiti alla volta di Miami per
seguire quello che doveva essere il mio ultimo caso all’FBI di Austin, caso che poi
si è rivelato tutto un trucchetto di Jane per chiedermi di non partire. Solo
ora mi accorgo che non ho più saputo nulla su come si sia concluso.
“Lisbon, ci sei?”
Jane mi chiama da dentro il taxi. Mi siedo
dietro, stavolta accanto a lui che, appoggiate le stampelle tra le gambe, mi
prende la mano. Sono un attimo impreparata a questo suo gesto e il mio cuore fa
una piccola capriola, mancando un battito.
“Rilassati. Non ti voglio mica sbranare.
Non ti sto portando in qualche luogo oscuro” sogghigna. “Non riuscirei a farla
franca in queste condizioni.” Le sue ultime parole mi sfiorano l’orecchio
sinistro e io deglutisco. Dannato, Jane! Che mi stai facendo?
Si allontana appena da me ma continua a
tenermi la mano mentre il suo sguardo si sposta sulla strada. Mi sembra di percepire
il suo sorriso giocoso. Rimango a fissarlo e anche così, nel buio, noto che è
affascinante da togliere il respiro. Sì, ora lo posso ammettere e penso davvero di poterlo dire
senza farmi troppi problemi. Mi ha detto che mi ama. È stato davvero
fantastico, o meglio, imbarazzante da morire all’inizio. Tutti quegli occhi che
mi guardavano! Ma poi il suo modo così semplice e titubante di parlarmi mi ha
letteralmente stretto il cuore in una morsa di tenerezza. E io provo le stesse
cose per lui. Mi sento la testa pesante mentre mi sembra di sentire ancora il
sapore delle sue labbra sulle mie. Sento la sua voce un po’ ovattata. “Lisbon,
svegliati. Siamo arrivati. Non posso portarti in braccio. È già bello che non
lo debba fare tu con me.”
Apro con fatica gli occhi. Noto che
l’autista mi ha aperto la portiera e tiene in mano il mio bagaglio. Riconosco
quell’ingresso. L’ho lasciato solo quella sera stessa. È l’hotel Uccello Blu.
Non ci posso credere. Siamo ancora qui. Io e Jane e nessun altro questa volta.
Vedo che lui mi raggiunge con due grandi balzi senza quasi far fatica ora. Come
è possibile che abbia già preso dimestichezza con quelle robe? È appena stato
dimesso, per l’amor del cielo!
Pago il tassista che se ne va
ringraziandoci e poi mi concedo un attimo per guardare Jane.
“Allora, bella addormentata, andiamo, ti
accompagno nella tua stanza.”
Mi precede tutto allegro e io non posso
far altro che seguirlo. “Jane, dubito che abbiano ancora delle stanze a
quest’ora.”
“Nah, non ti preoccupare. Non penso
abbiano dato via le nostre e poi, ce ne basterebbe anche solo una non trovi?”
Mi blocco un istante, stordita, mentre lui
scoppia a ridere. “Dai, Lisbon, tranquilla.”
Alla reception la signorina che fa il
turno di notte si accorda con Jane. Non so come ci sia riuscito ma,
effettivamente, una delle due stanze che lui aveva prenotato una settimana fa,
è ancora disponibile. Mentre prendiamo l’ascensore per raggiungerla in modo più
agevole per lui, mi confessa che è la sua stanza, quella dove si sono
presentate le assassine di Greta De Iorio. Il mio cervello si mette subito in
moto.
“Le assassine? Le avete prese? Raccontami
subito tutto!”
“Ehi, ehi… calmati. Non eri stanca morta,
bella addormentata?”
Non riesco a resistere e gli pizzico il
braccio.
“Ahi, e questo per cosa era? Cosa ho
fatto?” Mi guarda imbronciato e di fronte a quella sua espressione così buffa
non posso non ridacchiare. Mi precede ancora una volta e apre la porta della
sua stanza. Come ormai il giorno prima, rimango abbagliata dalla bellezza di
quelle camere. La sua è pressoché identica alla mia solo con colori diversi.
Noto però che sembra essere stata sistemata in fretta e furia.
Se è stato il luogo della cattura di due
assassine, beh, Jane deve essere stato davvero persuasivo per lasciarsela
consegnare. Avrà usato qualche trucchetto. Spero che l’indomani non mi toccherà
sistemare la faccenda con Abbott se solo non avessero finito di fare tutti i rilievi
del caso.
“Non ti preoccupare. Abbott ha chiuso il
caso. La stanza è tornata agibile praticamente da subito.”
Non posso fare a meno di sospirare. Li
becca sempre, tutti i miei pensieri. Ormai non gli chiedo più nemmeno come fa.
Sono un libro aperto per lui e non solo io per fortuna.
“Allora? Mi vuoi raccontare o no come è
andata?” Incrocio le gambe e mi sistemo meglio sulla poltrona, ora
perfettamente sveglia.
“Non ci penso neanche.” Si allontana e va
a sedersi sul letto, molla le stampelle a terra, si toglie l’unica scarpa che
indossa, e poi si lascia cadere a peso morto sul copriletto color sabbia.
E no, questo è troppo! Prima mi attira qui
con la storia della risoluzione del caso e poi non mi dice nemmeno una parola?
Non mi arrenderò stavolta. Mi precipito di fronte a lui, in piedi con le
braccia sui fianchi e le gambe divaricate. Lo guardo con superiorità e lo sfido
con lo sguardo. I suoi occhi azzurri si piantano nei miei occhi verdi e in lui
vedo una scintilla che mai avevo notato prima di allora. Desiderio? Sento la
mia salivazione azzerarsi e in un attimo ripenso al nostro bacio. Ne voglio un
altro, subito, ora. Dischiudo appena le labbra e vedo che i suoi occhi l’hanno
notato. È un attimo. Lui si rimette a sedere, mi afferra per una gamba e non so
come mi ritrovo sul letto, più o meno sdraiata accanto a lui. D’accordo Jane.
Giochi sporco. Vuoi continuare con i tuoi trucchetti ma giuro che ce la farò a
farmi raccontare la fine del caso. Diamo inizio alle danze. Cerco di sistemarmi
meglio girandomi su un fianco e fissando nuovamente i suoi occhi nei miei.
Anche lui si gira e mi sistema i capelli dietro l’orecchio. Una mossa lenta, studiata,
con la quale mi costringe ad avvicinare il mio volto al suo. Non mi nego.
Voglio quel bacio tanto quanto lui. Gliel’ho letto nello sguardo. Così le
nostre labbra si uniscono di nuovo, incastrandosi perfettamente come se non
avessero fatto altro in tutta la loro vita. I nostri respiri si fondono,
divengono via via più esigenti e io per un istante perdo la lucidità che mi ero
prefissata di mantenere pur di sapere tutto sul caso. Mi stacco appena e,
passando una mano tra i suoi capelli, avvicino il suo orecchio alle mie labbra.
“Allora, me lo dici come hai chiuso il caso?” Glielo sussurro soltanto ma dal
suo sospiro capisco che, sotto sotto, non sono riuscita a fregarlo. Se
l’aspettava, dopotutto. Si ricompone un attimo, si mette a sedere e vedo che è
pronto a negoziare.
“D’accordo, Lisbon. Facciamo un patto. Ci
rilassiamo un momento, tu fai una bella doccia mentre io ti aspetto qui e sai perfettamente
che non andrei da nessuna parte. Poi, se dopo la doccia vorrai ancora sapere
del caso, te lo racconterò. Ci stai?”
Faccio finta di pensarci un momento. Ho
paura che ci sia in ballo qualcos’altro. Sento però di aver davvero bisogno di
una doccia anche se ormai si sono fatte le 3. E se queste sono le sue
condizioni… beh, potrei cedere a patto di… “Ad una condizione” aggiungo.
“Non mi sarei aspettato niente di meno.”
Alza gli occhi al cielo, quasi esasperato.
“Andata per la tregua di rilassamento e la
doccia, ma dopo che mi avrai raccontato tutto mi devi promettere che riposeremo.
L’infermiera si è raccomandata, riposo assoluto. E non devi fare storie.” Patti
chiari, amicizia lunga. Mi pare si dica così. Anche se l’amicizia nel
nostro caso specifico, ora come ora, non è contemplata. E per fortuna,
aggiungerei!
“Ok, come vuoi tu!” Mi fa uno militaresco
cenno di assenso.
Scuoto il capo. Incorreggibile!
Decido di non perdere tempo. Mi precipito
in bagno e, senza nemmeno accorgermene, mi chiudo dentro a chiave. Oddio,
Teresa! Non avrai paura di Jane? Che ti succede? Mi appoggio un momento con la
schiena alla porta e respiro profondamente. Sono in una camera di un albergo di
lusso da sola con Jane. Ancora non ci credo! E stanotte, o quel che ne resterà,
dormirò con lui. Basta! Non voglio continuare ad assillarmi. Sembro una
quindicenne.
Accendo l’acqua della doccia e mi spoglio.
Subito il vapore inonda il locale bagno. C’è un ottimo sapone all’olio di argan
che avevo già provato prima della mancata cena di ieri. Rivivo per un attimo
quel momento in cui mi ero preparata per cenare con Jane. Mi ero sistemata con
cura. Non sapevo nemmeno io quale fosse il reale motivo. Continuavo solo a
ripetermi che era per via dell’ultimo caso che avrei seguito con lui. Ma forse,
già inconsciamente, pensavo ad altro. Mi rivedo con indosso quell’abito lungo,
leggero, rosa ciclamino che lui mi aveva fatto trovare in camera. Ecco un’altra
cosa che devo chiedergli. Cosa avesse avuto in mente per quella serata.
L’acqua calda continua a scorrere lenta
sul mio corpo e i miei nervi iniziano a rilassarsi. Sento l’adrenalina
abbandonarmi e un sorriso tranquillo fa capolino spontaneamente sulle mie
labbra. Tengo gli occhi chiusi e mi concentro solo sul rumore dell’acqua che
scorre. Quando ormai sento di essere completamente serena, esco dalla doccia e
mi avvolgo nell’accappatoio morbido dell’albergo. Mi metto anche un asciugamano a
modi turbante attorno ai capelli bagnati e guardo il mio riflesso
nell’enorme specchio sopra il lavandino. Sono semplicemente radiosa. Ho gli
occhi che mi brillano. Ed ora non ho più nemmeno sonno. Socchiudo la finestra e
una leggera brezza marina entra nel locale. Respiro a fondo. Sono pronta. Giro
la chiave nella toppa e uscendo mi avvicino in fretta al mio borsone da viaggio
per recuperare la biancheria che non mi sono nemmeno presa la briga di portare
nel bagno con me prima della doccia.
“Finalmente! Ce l’hai fatta! Ero quasi
convinto che fossi scappata dalla finestra. E non avrei nemmeno potuto
verificarlo perché ti eri chiusa dentro.”
La voce di Jane mi coglie alla sprovvista.
“Jane!”
“Sì?” Mi rivolge uno sguardo innocente da dietro
le mie spalle. Troppo vicino a me.
“Mi hai spaventata! Dovresti stare a
letto. Non ti fa bene sforzare l’altra gamba.”
Muove in aria le mani come per scacciare
una mosca molesta. “Ah, bazzecole.”
Lo guardo con aria di rimprovero, battendo
un piede a terra. “Non eravamo d’accordo così. Stai già venendo meno al patto?”
“Ah, no. Hai detto che avremmo riposato
solo dopo averti raccontato tutto del caso. Io, tecnicamente, non ti ho ancora
raccontato nulla.”
Accidenti, riesce sempre a fregarmi!
“Sì, ma…” cerco di protestare ma lui,
ancora una volta, mi stupisce. Mi prende la mano e mi riporta, saltellando sulla gamba sana,
verso il letto.
“Aspetta, Jane! Devo, io devo… cambiarmi.”
“Cambiarti?” mi guarda perplesso.
“Sì, devo mettermi qualcosa addosso. Capito
cosa intendo?” Sembro paranoica. Un sospettato sotto accusa. E, come se non
bastasse, avvampo. Questa cosa mi sta sfuggendo di mano. Non mi ero mai resa
conto di essere così predisposta ad arrossire. Oppure è colpa di Jane. Sì, deve
essere così. È sempre colpa di Jane.
“Beh, sempre tecnicamente, qualcosa
addosso ce l’hai già. Quell’accappatoio è morbido e ti sta bene. Per me puoi
anche stare così.” Alza le spalle e mi sorride. Sembra sincero ma lo so che sta
gongolando nel vedermi in difficoltà.
“Allora, vuoi che ti racconti o no del
caso?”
Non c’è nulla da fare. Sa sempre qual è la
mossa giusta. Non trattengo uno sbuffo di disappunto ma mi accomodo sul letto,
appoggiata alla testiera e incrocio fermamente gambe e braccia cercando di coprirmi
alla meglio con l’accappatoio.
Lui si sdraia accanto a me e solo ora lo
noto. Si è tolto giacca e gilet e se ne sta in camicia. Ha le maniche
arrotolate fino ai gomiti e la camicia gli esce disordinata dai pantaloni. Sembra
rilassato, non è da lui. Questo mi fa sorridere e, ovviamente, se ne accorge.
“Lo so che non è da me presentarmi così
sciatto ma è tardi. E poi qui ci sei solo tu. Confido nel fatto che non lo
sbandiererai ai quattro venti. Anche se quando ero un fuggiasco ero decisamente
messo peggio. Magari un giorno te lo dirò come andavo in giro.”
Non mi lascia più nemmeno il tempo di
replicare. “La smetteresti per un attimo di leggermi nella mente?” Sono un po’
infastidita.
“D’accordo, d’accordo. La smetto.” Alza le
mani in segno di resa.
“Avanti, sputa il rospo. Ti ascolto.”
“Beh, diciamo che avevi messo su un bel salottino
da thè qui dentro. Per fortuna c’erano Abbott e Cho pronti ad intervenire.”
“Pronti ad intervenire è un azzardo. Se tu
non te ne fossi andata ci saresti stata tu a proteggermi da tutta quella gente
armata.”
Alzo gli occhi al cielo. “Armata ma
innocua a quanto pare. Non mi sembravano pronti a spararti a bruciapelo. E poi
ricorda che sei stato tu a costringermi ad andarmene. Mi hai usata!”
“Ti ho già chiesto scusa per quello,
pensavo fossimo andati oltre.”
“Certo, certo. Hai sempre ragione tu.”
“Sì, sempre.” Improvvisamente Jane mi
blocca sul letto rotolandosi su di me ma reggendosi per non pesarmi addosso.
“Ehi, ma che stai facendo?” sgrano gli
occhi ma sono compiaciuta e lui lo nota.
“Pensavo che sarei stato più comodo a
pancia in giù.”
“Sopra di me?”
“È un esperimento il mio. Che ne pensi?”
Colgo una leggera titubanza nei suoi occhi
e, nonostante cerchi di essere spavaldo, ho avvertito anche una lieve
incertezza nella voce.
Forza Teresa! Adesso tocca a te!
Sfodero uno sguardo strano, quasi
malizioso e gli sorrido. “Per essere un esperimento la partenza non è niente
male.” Gli cingo le spalle con le mie braccia e sento l’accappatoio allentarsi.
Questo mi provoca un brivido e non è decisamente per il freddo. Sento che anche
lui l’ha notato. Non mi devo fermare, non mi voglio fermare. Allora lo bacio. È
un bacio diverso da subito. Ce ne accorgiamo entrambi. È profondo, forte,
succulento. Il turbante cede immediatamente sotto la pressione delle sue mani e in un
momento sento le sue dita aggrovigliarsi attorno ai miei capelli ancora umidi per
avvicinare ancora di più la mia testa alla sua. Come se davvero fosse possibile,
solo per sentirmi più vicina. Sospiro e inarco la schiena involontariamente verso
il suo corpo ma qualcosa mi infastidisce. Il mio accappatoio è decisamente più
morbido dei suoi vestiti e, nonostante lo apprezzi davvero vestito in camicia e
pantaloni, adesso mi sembrano fuori luogo. Non posso credere a quello che sto
pensando. Voglio Jane. Lo voglio.
Interrompo un istante il bacio per mettere
in atto un piano contro la scomoda situazione dei suoi vestiti ma colgo una
leggera smorfia di dolore sul suo viso.
“Che c’è?”
“Ehm, nulla… solo una fitta. Penso tu
abbia inavvertitamente avvolto la mia caviglia malandata con la tua gamba. Non che
la cosa mi dispiaccia, Lisbon… però non sono riuscito a controllare il dolore.”
“Oh, Jane! Scusa, scusami tanto. Mi sono
completamente dimenticata della tua caviglia.” Cerco di mettermi seduta,
sciogliendo effettivamente le mie gambe aggrovigliate alle sue.
Lui si solleva appena sugli avambracci e riprende
a baciarmi con un ritmo più lento mentre la mia razionalità torna a poco a
poco.
“Jane” mugugno sulle sue labbra. “Jane
aspetta. È meglio se ci fermiamo. Devi rispettare il patto. Dopo il racconto
del caso avremmo dovuto riposare, ricordi?”
Mi guarda malizioso. “Mi pare che fino a
poco fa non ti importasse molto del patto, o mi sbaglio?”
“Oh, andiamo, Jane! Ok, sì… hai ragione…
ma ora me ne sono ricordata ed è per il tuo bene. Davvero.”
Guardo i suoi occhi che sono sicura essere
un riflesso dei miei. Brillano ma hanno ancora uno sprazzo di lucidità, lo vedo.
“Ok, va bene agente Lisbon. Per questa
volta rispetterò le regole.” Si riappropria della sua parte di letto ma nel farlo
mi attira a sé e mi cinge con le braccia. Mi ritrovo naturalmente con la testa
appoggiata al suo petto, i miei capelli sparpagliati sulla sua camicia che, mi
accorgo solo ora, ha un bottone o due di troppo slacciati nella parte alta. Gli
intravedo la canottiera e, ancora una volta, sento un brivido percorrermi la
spina dorsale. Lo guardo e mi sorride e io… fatico a mantenermi calma, lo
ammetto. Mi accoccolo come meglio posso tra le sue braccia, avvolgendolo con un
braccio al livello dell’addome ma soprattutto incurante del fatto che il mio
accappatoio si sta quasi aprendo, occupata come sono a non avvolgergli ancora
le gambe attorno alla caviglia slogata.
“Comoda?”
“Sì. E tu?”
“Direi di sì. Anche se con una visuale
così potrei faticare a riposarmi.”
Lo guardo dubbiosa e vedo che il suo
sguardo è fissato non troppo innocentemente sulla scollatura dell’accappatoio che
si è aperta parecchio rivelando parte dei miei seni.
“Accidenti, Jane!” Arrossisco e lo colpisco
con un piccolo pugno sulla spalla prima di tentare di coprirmi, anche se con
scarsi risultati visto che comunque non ho nessuna intenzione di abbandonare il
suo abbraccio.
“Ahi,
non essere crudele! Non ho detto nulla
di male in fondo. Ma non puoi tendere un’esca così
allettante e pretendere che
non ti dica nulla.” Ammicca e non mi lascia aggiungere altro
perché si sporge
appena per spegnere l’abatjour sul comodino dal suo lato del
letto. Curiosamente
non mi sono accorta che era l’unica fonte di luce rimasta nella
stanza da quando sono uscita dal bagno. Sto perdendo colpi, sto
abbassando la guardia. Sarà la stanchezza,
sarà l’eccitazione, sarà Jane. È sempre
colpa di Jane, alla fine.
Ora il buio ci avvolge tutto intorno. Mi stringe
ancora a sé e io mi aggrappo ancor più a lui. Sento che le sue labbra mi
sfiorano l’attaccatura dei capelli.
“Buonanotte, Teresa. E buon riposo.”
“Buonanotte, Patrick.” E stacco finalmente la spina.
Angolo Mirty_92
Ciao a tutti! Eccomi qui con il
secondo capitolo. Da paura! Nel senso che non pensavo di pubblicare così velocemente
ma le parole sono scaturite come un fiume in piena. Una sola considerazione
generale. Ho messo il rating arancione a questa fanfic ma mi sono accorta che è
la prima storia in assoluto che cercherò di scrivere con questo standard e,
onestamente, non so se ne sono capace e non so fino a che punto potrei
spingermi. Spero di essere in grado di gestire bene la situazione perché credo fermamente
che non serva descrivere chissà cosa per far emozionare un lettore. Ed essendo
io una lettrice abbastanza esigente, credetemi, mi rendo conto quanto possa
essere difficile parlare di scene piccanti ma soprattutto farlo bene.
Non so se riuscirò in questo
intento ma voglio comunque provarci. Fatemi sapere qualcosa se vi va, le
critiche costruttive sono sempre ben accette!
E con questo vi saluto!
A presto
Mirty
|
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Capitolo 3 *** 3. Ci sono giorni che portano un sacco di sorprese o solo guai, dipende dai punti di vista ***
3. Ci sono giorni che portano un sacco di sorprese o solo guai, dipende dai punti di vista
3. Ci sono giorni
che portano un sacco di sorprese o solo guai, dipende dai punti di vista
Corrugo la fronte e strizzo gli occhi
tenendoli ben chiusi. La luce mi dà fastidio. È improvvisamente diventata più
intesa e io odio essere svegliata così. Sono veramente contraria a quello che
tutti definisco il risveglio naturale prodotto dalla luce mattutina. La
luce mattutina è troppo forte ora. Voglio continuare a dormire. Una mano mi
accarezza leggera il viso. Partendo dall’orecchio delinea il contorno della mia
mascella ancora contratta per lo sforzo di combattere quel chiarore inatteso. Il
mio tentativo di difesa è inutile. Quando la mia mente, malgrado tutto,
riprende a ragionare, ricordo tutti gli avvenimenti della notte prima e i miei
tratti si rilassano automaticamente.
“Lo so che sei sveglia.”
La voce di Jane è poco più alta di un
sussurro, è attraente. È vellutata come la sua mano che continua a scorrere
languida su e giù sulla mia guancia arrivando fino al bordo delle mie labbra.
“Voglio dormire ancora un po’.” Al
contrario, la mia di voce è ancora impastata dal sonno. È roca, lamentosa e per
nulla sensuale.
“Vorrei lasciartelo fare ma non appena ti
dirò che ore sono ho paura che potresti spararmi.”
Mi sforzo, apro un occhio e lo vedo seduto
lì sul letto, accanto a me. È impeccabile, con una camicia celeste perfetta e i
capelli biondi un po’ più scuri del solito perché leggermente bagnati. Deve
essere appena uscito dalla doccia. I miei pensieri iniziano a diventare poco
casti in merito ad un Jane sotto la doccia, così, per meglio ritornare alla
realtà, apro anche l’altro occhio. Forse non è stata una brillante idea,
dopotutto. Perché ora che lo posso vedere in tutto il suo splendore i miei
pensieri si fanno sempre più peccaminosi. Ok, per colpa sua finirò all’inferno.
Non riuscirei a redimermi nemmeno dopo 100 anni di espiazione. È troppo bello,
troppo perfetto. Ed è qui per me.
“Che ore sono?”
“Quasi l’una del pomeriggio.”
Sgrano gli occhi. Non dormivo così tanto
da quanto? Un anno, forse due? Ah, no, ora ricordo… da quando ho iniziato a
lavorare per il CBI. Una vita fa.
“Ho pensato che potessi avere fame e ho
ordinato il pranzo. Ce lo porteranno in camera tra mezz’ora. Se vuoi renderti
presentabile ti aspetto di là, anche se per me non ne hai assolutamente
bisogno. Te l’ho già detto mi pare ma quell’accappatoio ti dona.”
Mi guardo con ancora indosso l’accappatoio
dalla sera prima e mi lascio sfuggire un sorrisetto malizioso mentre fingo di
sistemarlo meglio scoprendo invece - involontariamente certo! - una
parte della spalla destra. Lo guardo negli occhi per cogliere la sua reazione
ma il suo sorriso regge bene. Il suo sguardo è così convincente che spero solo
non mi stia ipnotizzando per farmi credere a qualunque cosa mi dica. Ma quando
sento le sue labbra posarsi decise sulle mie so che ho trovato un’apertura
nella porta della facciata del suo autocontrollo. Decido di continuare a
giocare un po’.
“Mi do una sistemata comunque” gli dico
umettandomi appena il labbro inferiore dopo aver interrotto con fatica il suo
bacio senza smettere di guardarlo negli occhi. Realizzo in quel momento che non
so se ho ancora vestiti puliti nel mio borsone. Non avevo calcolato di fermarmi
qui per più di due giorni al massimo e di certo non avevo pensato di
soggiornare in un hotel di lusso.
“Ah, nell’armadio troverai qualcosa da
poter indossare. Pantaloni e camicia per una donna non si adattano a questo
albergo. È un po’ come se fossimo in vacanza, dopotutto. Non ti pare?”
Non c’è niente da fare. È sempre un passo
avanti nella mia mente ma prima di uscire dalla camera mi guarda ghignando:
“Non volermene Lisbon, ma ho spiato nel tuo borsone per recuperare la mia
scarpa e ho visto che non avevi più né vestiti né… sì, insomma… altro.”
“Jane!” arrossisco capendo immediatamente
a cosa si riferisce quell’altro. Gli lancio un cuscino che però lui
schiva prontamente riparandosi dietro la porta. “Non si fruga nelle borse delle ragazze! Non te l’ha mai insegnato
nessuno?”
“Dovevo recuperare la mia scarpa. Te l’ho
detto. Non potevo andare in giro con una scarpa sì e una no. La caviglia si è
sgonfiata così le stampelle non mi servono più.”
Lo guardo di traverso e vedo che ai piedi
indossa entrambe le scarpe. “Sei proprio incorreggibile! Non venire a
lamentarti da me se stasera ti si sarà gonfiata di nuovo!”
“Non lo farò. Non sarà necessario.”
“Ah, convinto tu!”
“Ti aspetto in terrazza.” Si chiude la
porta alle spalle e mi lascia sola in camera.
Ok, Teresa, respira. È solo Jane
dopotutto. Solo e sempre Jane.
Guardo l’armadio e ritorno ad essere la
donna pratica di sempre, più o meno. Non ci posso quasi credere quando appesi a
delle grucce trovo uno, due, tre, quattro… accidenti… cinque vestiti nuovi
oltre ai tre che già avevo visto l’altra sera: quello verde, quello bianco e quello
rosa ciclamino. Jane è un pazzo. Mi ha praticamente rifatto il guardaroba! E
per cosa poi? Per un paio di giorni qui a Islamorada? O forse qualche giorno in
più? Non ne abbiamo neppure parlato. Beh, ci sarà tempo per tutto. Devo solo
ricordarmi di fare una lista di quello che gli voglio chiedere. Pare che le
cose da ricordare stiano aumentando.
Apro i cassetti e le sorprese non sono
finite. Oddio! Il mio primo istinto è quello di coprirmi gli occhi con le mani
ma poi come faccio a darmi una sistemata se non vedo cosa posso
indossare?
Ok, do una sbirciatina veloce. Biancheria
con colori sobri, mi pare. Mi lascio sfuggire un sospiro di sollievo. Conoscendo
i gusti di Jane quando ci aveva procurato gli abiti per dei travestimenti sotto
copertura poteva andare molto peggio.
Un completo bianco leggermente pizzato sulle
brasiliane, molto elegante. Due completi neri, uno a balconcino coordinato con
tanga in tulle e uno in raso. Tre completi con reggiseno a triangolo uno
celeste, uno rosa pallido e uno verde smeraldo. E poi quando penso di essermi
salvata, lo vedo. Sotto a tutti spunta un completo decisamente provocante,
rosso passione. Lo riconosco subito. È di una marca che mi piace molto e che
indossavo giusto ieri. Ieri? Divento rossa di vergogna e mi impongo di contare
fino a tre per non urlare il nome di Jane a squarciala gola anche perché in quel
preciso istante sento bussare alla porta della camera.
“È il pranzo che ha ordinato, signor Jane.
Dove glielo lascio?”
Non sento la risposta di Jane perché
prendo il primo completo che mi capita e afferrato il vestito più vicino a me mi
catapulto in bagno. Mi sciacquo in fretta il volto e l’acqua fresca mi dà
ristoro e mi fa calmare. Altra cosa da chiedere. Jane, come ti sei permesso di
spiare addirittura la marca della mia biancheria? Finirò per impazzire
con lui. Già lo so! Beh, ormai sono in ballo e decido di esserlo fino alla
fine. Se stare con Patrick, l’uomo che amo, mi costerà parte della salute
mentale che sono riuscita - suo malgrado e con grande fatica! - a conservare
fino ad ora, chiederò i danni al CBI perché è lì che l’ho conosciuto. Un
indennizzo statale non dovrebbe essere poi così male visto il soggetto in
questione. Dovrebbero capire.
Finisco per indossare il completo celeste e
sopra un vestito bianco con gonna svasata e maniche a tre quarti con la stampa
di grandi fiori blu. Mi lascia le spalle scoperte perché ha una scollatura a
sbuffo ma mi piace. Mi guardo nello specchio del bagno e decido che mi sta
bene. Accidenti a Jane e ai suoi gusti perfetti! Mi pettino veloce i capelli
che lasciati asciugare tutta la notte al naturale non sono un granché ma mi
rendono più semplice e un po’ meno autoritaria.
Sento di nuovo bussare ma stavolta è alla
porta del bagno.
“Lisbon ci sei? Ci hanno portato il
pranzo.”
Apro la porta e mi ritrovo Jane
praticamente ad un palmo dal naso. Vorrei puntargli subito l’indice contro per
iniziare a sfogare un po’ del mio sdegno ma mi fermo a guardarlo. La sua
espressione è davvero impagabile. Credo di averlo visto così solo pochissime
volte da quando lo conosco, forse solo una o due. Una mentre collaborava con
quell’arpia manipolatrice di Erika Flynn, la gatta morta che ci è sfuggita da
sotto il naso dopo aver commesso l’omicidio di suo marito e che è ancora
latitante chissà dove e l’altra quando interrogava Lorelei Martins per
estorcerle informazioni su Jhon il Rosso. In entrambi i casi il suo sguardo era
ammirato, profondamente colpito. E vedere ora che Patrick Jane è rimasto senza
parole di fronte a me mi lusinga e mi rende meno arrabbiata.
“Allora? Come sto? Come mi sta il vestito
che hai scelto?” Non riesco a fare a meno di sdrammatizzare, scherzando. Faccio
un giro su me stessa giusto per non rimanere anche io a fissarlo. Vedere Jane guardarmi in quel modo così
affascinato mi ha scombussolata. Quasi non riesco a crederci. Non riesco a
credere che stia accadendo tutto a me, a lui, a noi.
“Sei perfetta.” Lo vedo deglutire. L’ho
colpito, è evidente e ne sono compiaciuta. “Ottima scelta comunque. Era uno dei
vestiti che preferivo.” Mi fa l’occhiolino e pare essersi ripreso. Mi prende la
mano e mi porta in terrazza dove un tavolino è stato apparecchiato per due mentre
un paio di portate con un vino nel secchiello di ghiaccio sono state lasciate
su un carrello lì vicino. Mi allontana garbatamente la sedia e poi si siede di
fronte a me.
“Grazie. Cosa hai ordinato di buono? Sono
curiosa di vedere se il pranzo è all’altezza dei vestiti.”
“Li hai apprezzati allora.” Apre il vino bianco
e ne versa un po’ prima a me e poi a lui.
“Diciamo che gli ho dato un’occhiata
veloce. Ma non dovevi, Jane. Sono davvero tanti. Quanti giorni pensavi di
restare esattamente qui? Giusto per capire.”
Mi invita a prendere in mano il calice.
“Beh, pensavo potremmo rientrare ad Austin tra 4 o 5 giorni. Così avresti
ancora due giorni di tempo per sistemare le cose a casa prima di riprendere
servizio. Tu che ne dici?”
Sono sorpresa. Insomma lo so di avere una
settimana intera di congedo ma non mi aspettavo che Jane volesse trascorrerla
tutta con me. Sono emozionata.
“Lisbon? Il gatto ti ha mangiato la
lingua?”
“No, no. Ci sono. Sì, ecco. Per me va
bene. Non me l’aspettavo ma va bene. Se non ci sono problemi con la camera.”
“Non ce ne saranno, tranquilla. Allora
alla nostra settimana a Islamorada!” fa tintinnare il suo bicchiere contro il
mio, mi guarda felice e poi beve. Ho come la sensazione che l’avesse
pianificato da tempo. Forse era quello che aveva in mente per non farmi partire
per Washington. Ma decido di non chiedergli nulla. Almeno per ora. Adesso mi
voglio solo godere il momento.
“Alla nostra settimana a Islamorada” gli
faccio eco, ripetendo i suoi gesti.
E bravo Jane, mi hai proprio fregata!
“Lisbon, guarda. Prova questo.” Jane
spunta da dietro un manichino che esibisce un bikini davvero striminzito e mi
si avvicina con in mano un cappello bianco di paglia a tesa larga corredato da
un nastro di seta blu. In un attimo mi si illuminano gli occhi ma cerco di non
farlo notare. “Ma no, Jane! Dai, non mi serve un cappello! E poi mi hai già
comprato un sacco di cose. Non ti sembra di esagerare?”
“Che cosa ti fa pensare che voglia pagarti
anche questo?”
Arrossisco improvvisamente per la
vergogna. Come mi è venuto in mente di dire una cosa simile? Ma non voglio
demordere.
“Forse perché è stata tua l’idea di
entrare in questo bazar sulla spiaggia? Stavamo tranquillamente godendoci le onde
dell’oceano quando ti è venuta una voglia improvvisa di vedere qualche souvenir.
Ricordi?”
Alza le mani in segno di resa. “Ok, mi hai
beccato. Ma non esagero affatto perché è molto bello e poi ci sarà molto sole
in questi giorni. Ti serve un cappello per proteggerti. Non voglio ti prenda
un’insolazione.”
“È solo per questo che me lo vuoi
regalare?” lo guardo ambigua perché voglio che mi dica qualcosa in più. Lo so
che vuole che io gli faccia sempre delle domande. È sempre stato così fra noi.
Jane ha un ego talmente grande che gode del fatto che gli altri gli facciano
domande in modo che lui possa dare delle risposte che per la sua mente geniale
sono ovvie. Ma questa volta non mi aspetto una risposta ovvia. Mi aspetto una
confessione.
“Da quando sei diventata così brava a
estorcermi informazioni, agente Lisbon?” Si è avvicinato a me e sento che la
sua mano libera mi solletica appena il fianco.
“Da quando ho trovato un’apertura nella tua
facciata da duro, caro mio.” E glielo sussurro all’orecchio con tono basso,
languido.
“Un’apertura dici? E con cosa pensi di
poterla forzare?” Finge indifferenza ma la sua mano ora mi stringe il fianco in
un chiaro segno di avvicinarmi a lui, quasi in modo possessivo. Questo suo
gesto, per una frazione di secondo, mi manda fuori di testa mentre sento i
battiti del mio cuore aumentare improvvisamente.
“Quel cappello è l’ultimo della
collezione. Penso che le starà benissimo, signorina. Lo provi pure!”
Ci stacchiamo velocemente, colti alla
sprovvista dalla voce di un uomo dall’aria gioviale. Neanche fossimo stati
beccati a commettere atti osceni in luogo pubblico. Quell’uomo, che è
sicuramente il proprietario del bazar, non sa che cosa ha appena - fortunatamente
per lui - interrotto.
Jane si ricompone senza troppi problemi posandomi
il cappello in testa, leggermente reclinato su un lato mentre io rimango a
bocca aperta. Gestire questa cosa che sento ogni volta che Jane mi sta
così vicino, sta diventando un vero incubo.
“Oh, come immaginavo. Si guardi allo
specchio, signorina.”
Mi giro appena per poter vedere il mio
riflesso nello specchio accanto a me ma con la coda dell’occhio guardo Jane.
“Sì, in effetti mi piace.” Ed è la verità.
Quel cappello mi piace davvero.
“Le sta divinamente. Se posso permettermi,
signorina…” vedo che guarda un attimo Jane in modo titubante e lui gli fa un
cenno d’assenso con un sorriso d’approvazione. Allora continua: “Lei è davvero
una bella donna. Penso che potrebbe starle bene anche un paio di occhiali da
sole. Ha degli occhi così chiari e intensi che vanno protetti bene. Islamorada
è un paradiso ma per goderselo bisogna essere attrezzati.”
Non c’è che dire. Quest’uomo sa
decisamente il fatto suo. Un venditore fino al midollo di quelli che riuscirebbero
a rifilare il latte persino alle mucche.
“Cosa ne dici di questi, Lisbon?” Vedo che
Jane ha deciso di assecondare le moine del proprietario. Non so per quale
motivo ma sembra tutto sotto controllo. Forse sono troppo sospettosa, dovrei
imparare a rilassarmi ogni tanto. Ha in mano un paio di grossi occhiali da sole
con le lenti molto scure e una montatura all’ultima moda. Da diva di Hollywood
in incognito.
“Beh, signore, me lo lasci dire ma lei ha
davvero un ottimo gusto.”
“Lo so, lo so. Grazie.”
Jane e la sua modestia.
Alzo gli occhi al cielo e li provo. Mi
scoccia un po’ ammetterlo ma Jane ci ha preso ancora una volta. Non sembro più
nemmeno io ma è strano come mi senta comunque a mio agio. Sarà colpa di
Jane. Sento a malapena il proprietario che si sta praticamente sprecando in
complimenti mentre Jane mi sussurra all’orecchio: “Sei bellissima. Ma
ammettilo, ci ho preso, non è così?”
Mi volto e gli do un misero colpetto al braccio
ma lui non si scompone minimante. Anzi continua a fissarmi e anche se porto gli
occhiali da sole sento il suo sguardo trafiggermi dentro. Non è necessario che gli
dica che ha ragione. Semplicemente lo sa.
Ma in questo preciso istante mi ritrovo a desiderare
di essere altrove con lui. Magari nella nostra camera d’albergo o in una di
quelle calette isolate e, presumo private, che abbiamo scorto prima camminando
sulla spiaggia.
“Lei, signore, non prende nulla?”
Ritorno al presente cercando di nascondere
un improvviso rossore che spero non si sia notato troppo. Maledetto, Jane!
“Credo che prenderò questi. Cosa ne
pensate?” e tira fuori da non so dove un paio di Ray-Ban alla Top Gun e li
indossa.
Ok, ho la testa decisamente nel pallone.
Per fortuna non stiamo lavorando a nessun caso altrimenti potrei non essere
lucida a sufficienza. Il sorriso di Jane è più che malizioso e anche se la
domanda l’ha formulata al plurale, la sua attenzione è dedicata totalmente a
me. Ma non voglio dargliela vinta così facilmente.
“Mmmm…” mi fingo pensierosa. “Non sei
decisamente Tom Cruise ma direi che ti puoi accontentare.”
Fa il finto offeso, lamentandosi:
“Potresti anche essere un po’ più gentile.”
Faccio spallucce e tolgo cappello e
occhiali. “Li prendo” e li porgo al gestore.
“Anche questi.” Jane gli dà i suoi Ray-Ban
e poi mi si avvicina. “Io e te facciamo i conti dopo.” Ha uno sguardo furbo
mentre si allontana per andare a pagare.
Saluto e decido di aspettarlo fuori.
Ho bisogno di aria. In quel piccolo bazar quasi non respiravo. O sarà stato per
Jane. È sempre colpa di Jane, in qualche modo.
Guardo il sole lontano che sta già calando
nell’oceano. L’acqua ha una miriade di colori e le onde sembrano diventate più
intense spinte dal desiderio di raggiungere la riva, come se volessero sfuggire
all’infinito per aggrapparsi a qualcosa. E tu, Teresa, a cosa vuoi aggrapparti
ora?
“Mi scusi, signorina. Mio fratello non ha
fatto apposta, non voleva…”
Un pallone da calcio mi ha colpita alla
gamba, non troppo forte direi ma tanto da riportarmi di nuovo con la testa su
quella spiaggia, lontano da certi pensieri, fuori dal bazar dove sto aspettando
Jane.
Una ragazzina di circa 13 anni con le
trecce lunghe e scure recupera il pallone ai miei piedi. Ha lo sguardo un po’mortificato
ma cerca di nasconderlo con un’espressione sicura, da adulta. Poco distante
vedo quello che deve essere suo fratello minore che non osa avvicinarsi.
“Oh, non preoccuparti. Non ci ho fatto
neanche caso” le sorrido incoraggiante. Mi sembra quasi di conoscere quella
ragazzina. Poi, improvvisamente, rivedo me stessa alla sua età. Lo stesso
sguardo quando uno dei miei fratelli combinava una marachella alla quale io poi
dovevo immancabilmente porre rimedio.
“Oh, la signorina Lisbon è una tosta. Ci vuole
ben altro per farle del male. Dì a tuo fratello che deve allenarsi di più se
vuole diventare un giocatore professionista ma che il suo destro non è niente
male.” Jane mi raggiunge e mi porge cappello e occhiali. Lui indossa già i suoi.
Sorride dolce alla ragazzina e fa un cenno di saluto al fratellino mentre mi avvolge
con un braccio la vita.
“Va-va bene. Grazie, signore. E mi scusi
ancora, signorina.” Si allontana velocemente forse incredula per il commento
strano di Jane e quando raggiunge suo fratello lo acchiappa per una spalla e lo
porta a giocare altrove ma vedo che gli sussurra qualcosa all’orecchio mentre
gli sorride.
“Hai insegnato anche tu a giocare a pallone
ai tuoi fratelli?”
Ci incamminiamo verso l’hotel e nonostante
non sia affatto stanca e sia ancora piuttosto presto per la cena, ho voglia di
tornare in camera. Certi pensieri poco casti hanno ricominciato a ronzarmi in mente.
Sarà che anche io tengo un braccio avvolto attorno alla vita di Jane. Dannazione
a lui!
“Ci ho provato ma ero più brava con il con
il calcio balilla. Penso di averli istruiti bene in quello anche se non sono
mai riusciti a battermi.” La mia voce trasuda orgoglio. Sì, è una cosa stupida,
ma mi è sempre piaciuto vincere.
“Davvero?”
“Sembri incredulo.”
“No, sono solo sorpreso. Ti facevo più una
da biliardo che da calcio balilla.”
Si ferma e mi osserva curioso. Mi sento un
attimo a disagio. “Ah, ho indovinato! Sei anche una da biliardo!”E improvvisamente scoppia a ridere.
“Ehi, ma che hai da ridere? Sì, so anche
giocare a biliardo. E molto bene. Cos’è, non ci credi? Vuoi scommettere?”
Jane smette di ridere. “Lisbon, sei
sicura di voler scommettere con me?”
“Certo!” Mi avvicino con il viso al suo e
a fior di labbra gli dico: “Qualunque cosa.”
È fatta. Mi prende per mano e aumenta il
passo. Non corre ancora e temo possa fargli male un po’ la caviglia ma adesso
non è questa la priorità. So esattamente dove mi sta portando e non ho alcuna
intenzione di tirarmi indietro.
To be continued…
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Capitolo 4 *** 4. Mai aggiungere altro ad un qualunque cosa ***
4
Mai aggiungere
altro ad un qualunque cosa
“Qualunque cosa, hai detto, giusto
agente Lisbon?”
Alzo gli occhi al cielo per tipo
l’ennesima volta. In quanto? Un quarto d’ora, forse? Io e Jane, come mi
aspettavo, siamo finiti in una delle quattro sale da biliardo che il nostro
hotel di lusso mette a disposizione per il divertimento dei suoi ospiti. L’atmosfera
soffusa dell’ormai scarsa luce del tramonto entra da una vetrata che dà sul
giardino interno dell’albergo. Fuori non c’è nessuno. È un giardino tranquillo
fatto solo per permettere ai giocatori più incalliti di uscire a prendere una
boccata d’aria tra una partita e l’altra. La porta della nostra sala da gioco è
chiusa. Un tavolo per ogni stanza da quanto ho capito, che Jane ha prenotato
per non so quante ore. La cena può aspettare. Non abbiamo nessuna fretta. La
classica luce bianca della lampada illumina il tavolo verde dove Jane ha già
posizionato nel triangolo tutte le palle da biliardo. Ora se ne sta con le
spalle appoggiate al tavolo facendo la punta con il gessetto alla sua stecca e
mi guarda in tralice aspettando la mia risposta.
“Ho detto qualunque cosa e aggiungo
purché sia legale, mi pare ovvio.”
“Hai già cominciato a battere in ritirata.
Cambi le condizioni.”
“Io non sto battendo in ritirata, Jane!
Sto definendo i termini della scommessa.”
“Mmmm… certo.”
“Cosa stai borbottando?” Mi avvicino a lui
che mi porge il gessetto.
“Nulla.” Ha sul viso una finta aria
innocente. “D’accordo Lisbon, quindi scommetti qualunque cosa purché sia
legale.”
Lo so che ha in mente qualcosa. Vuole
fregarmi forse. Ma voglio anche vedere fino a che punto è disposto a correre il
rischio. In realtà so perfettamente che per lui i confini sono solo nella
nostra testa e me l’ha già dimostrato parecchie volte. La più eclatante,
sicuramente, è quella per cui finire in galera per omicidio per lui non era
affatto un problema visto che aveva fatto la cosa giusta. Ma qui si tratta di un
altro tipo di scommessa… io so perfettamente cosa voglio ottenere da lui e so che
anche lui lo vuole, ma vorrei solo capire quanto ci metterà ad arrivarci.
Certo, ripensandoci forse sono stata io a mettergli un po’ i bastoni fra le
ruote ma adesso è acqua passata, o meglio è caviglia guarita. Almeno a
detta sua. Giocare questa partita è solo per rendere le cose più interessanti.
Perché l’attesa aumenta… devo concentrarmi.
“Esatto. Io sono pronta. Dimmi cosa
scommetti e iniziamo.”
“Ok, io scommetto…” Fa una pausa teatrale
fingendo di pensarci mentre fa una prova di tiro facendo scorrere la stecca sul
dorso della mano appoggiata al tavolo “…qualunque cosa.”
Lo guardo con aria di sufficienza. Lo
sapevo. Non sarò una mentalista ma lo conosco molto bene. Provocatorio ed
eccessivo. Il solito Jane.
“Andata.” Ci stringiamo la mano ma prima
che io possa andare a posizionare la palla bianca lui mi attira a sé e mi dà un
veloce bacio sulle labbra. “Buona fortuna.”
“Anche a te, ti servirà” e gli sorrido
maliziosa.
Dopo due ore siamo pari. Io ho vinto la
prima partita così lui si è intestardito lagnandosi come un dolce bambino e
dicendo che una sola partita non contava nulla, così ne abbiamo giocata
un’altra. Ovviamente la seconda l’ha vinta lui, ma per pochissimo. Ed ora siamo
qui. Ad un passo dal chiudere quest’ultima giocata. E tocca a me. Jane finge
indifferenza mentre si muove circospetto attorno al tavolo verde. Lo fa per
distrarmi ma io ho i nervi saldi. Adoro vincere e non sarà di certo lui a
battermi. D’altronde sono di Chicago e una donna di Chicago che si rispetti e
che ha cresciuto tre fratelli maschi non può perdere a biliardo. Senza contare
che anche mio padre era un bravo giocatore. Specie negli ultimi tempi quando,
oltre a bere, non era bravo per nient’altro che non fosse un po’ di gioco al
bar con gli amici.
Faccio un respiro profondo e mi estranio
da tutto. Vedo solo la palla bianca e la nera. Faccio scorrere lentamente la
stecca avanti e indietro per calibrare bene la potenza del tiro. Non è un tiro
difficile ma non devo comunque sottovalutarlo. Devo mettere la 8 in buca
d’angolo, proprio di fronte a dove Jane si è appena fermato. Socchiudo gli occhi
e gli lancio un’occhiataccia. Lui alza le mani come per scusarsi e si sposta
leggermente. Ritorno a concentrarmi sulla palla bianca. Un respiro, due
respiri… tac. Un colpo deciso, leggermente laterale e la bianca,
con forse un po’ troppo forza, va a colpire la nera facendola finire in buca
con un colpo sordo.
“Sì! Vittoria! Chi è la più brava, eh? Chi
è, Jane?” Lascio cadere la stecca sul tavolo oramai sgombro di palline e mi
porto saltellando felice di fronte a Jane che mi guarda sorridente senza
mostrare alcun segno di disappunto per la palese sconfitta.
“È stata solo fortuna, agente Lisbon.
D’altronde te l’avevo augurata io.”
“Ah, certo, certo. E ora mi dirai che mi
hai lasciata vincere, che il tiro era semplice, che bla…bla… bla… tutte storie,
bello mio! Ho vinto!” Gli do una pacca sulla spalla in modo cameratesco.
Per nulla intimidito dal mio fare forse
fin troppo entusiasta, mi stringe in vita, abbracciandomi.
“Sei veramente una dura, Lisbon. Ora vuoi
reclamare il tuo premio o hai troppa adrenalina in corpo?”
Sinceramente non aspettavo altro. Jane ha
perso la scommessa e quindi posso chiedergli qualunque cosa. Lego le mie
braccia alle sue spalle e inizio a baciarlo. Non riesco a trattenermi. Sarà
colpa dell’adrenalina, sarà colpa di Jane. Sì, tanto è sempre colpa di Jane.
Sento che mi stringe di più e non si tira di certo indietro. Anzi. Le sue mani
vagano sulla mia schiena e anche un po’ più giù. Mi sento arrossire. Con Jane
tutto è nuovo. Ed è così strano! Ci conosciamo da anni ormai ma prima di
ammettere quello che proviamo l’uno per l’altra siamo dovuti passare attraverso
serial killer, sensi di colpa, vendetta, dubbi, orgoglio, bugie. Niente è stato
semplice tra noi. Ma adesso siamo qui: io, lui, noi.
Jane si è staccato dalle mie labbra ed ora
sta scendendo lentamente sul mio collo. Sospiro. Un sospiro di piacere, intenso
e ben udibile. Lo avverto sorridere sulla mia pelle “Non sono così fuori
allenamento dopotutto.” No, non lo è. Ma
non glielo dico. Non voglio alimentare il suo ego e, comunque, gliel’ho già
confermato anche senza parlare. Dannazione!
Continua a baciarmi mentre io mi aggrappo
alla sua schiena e gli accarezzo quella massa di capelli ricci e biondi. In un
attimo mi solleva e mi mette seduta sul tavolo da gioco. Rimango stupita ma sto
perdendo lucidità ad ogni suo bacio che infuoca la mia pelle. Tutto attorno non
vedo più nulla di nitido, né il tavolino con accanto il minibar né tanto meno
le poltrone di pelle scura.
È tempo che faccia qualcosa anche io.
Lascio che le mie dita scorrano piano sul
suo torace e mano a mano che scendono percepisco Jane indugiare sempre di più
su ogni singolo bacio. Non posso fare a meno di sorridere mentre sta per
abbassarmi la scollatura arricciata del vestito che nelle nostre effusioni è
già scesa troppo, quasi a sfiorarmi i seni. Sono pronta a lasciarmi andare, ad
assaporare il gusto dolce della vittoria quando Jane, improvvisamente, si
ferma. Mi risistema le spalline e mi guarda sorridendo indietreggiando di un
passo. Devo avere uno sguardo allucinato. Un attimo prima stavo per varcare la
soglia del mio piccolo paradiso personale e un secondo dopo sono ritornata con
i piedi per terra. Perché? Sento le lacrime che mi pizzicano gli occhi ma non
voglio lasciarle uscire.
Non mi merito questo trattamento. Ho vinto
la scommessa. Avevi detto qualunque cosa, Jane! Perché mi fai questo?
“Lisbon, vieni. Andiamo in camera.” Mi fa
scendere dal tavolo, mi stringe in vita e mi lascio guidare alla porta.
“Io fossi in te mi sistemerei un po’
meglio la gonna o potrebbero pensare male.”
Ok, riprendo a respirare.
“E se ti stai chiedendo perché mi sono
interrotto è solo per rispettare la scommessa. Se avessi vinto tu, come è di
fatto accaduto, io ho detto che avrei fatto qualunque cosa ma in questo
caso, se ci beccassero qui, staremmo facendo un qualunque cosa che potrebbe
sfociare nell’illegalità. Sarebbe come ammettere che ho vinto io perché
contravverremmo alla tua precisazione.” Mima con le dita il gesto delle
virgolette e con voce in falsetto che dovrebbe imitare la mia dice “Scommetto
qualunque cosa purché sia legale.” Mi guarda in maniera ovvia. “Capisci
ora? Credo proprio che la polizia lo classificherebbe come reato di atti
osceni in luogo pubblico. Quindi è meglio fare questo qualunque cosa da
un’altra parte. Non credi?”
Dannazione, Jane! Ecco dove stava la
fregatura. È riuscito a rigirare la mia stessa clausola a suo vantaggio. Non mi
sta dicendo di no, ma, ancora una volta, sta tergiversando. Comunque non ho
paura. Lui mantiene le sue promesse.
“Jane, posso dirti solo una cosa?” gli
sorrido e fisso il mio sguardo nel suo. Sono esausta. Ha il potere di sfinirmi
in ogni situazione. Possibile che non abbia quasi mai torto in ciò che dice?
“Anche due.”
“Sei davvero un gran bastardo.” E stavolta
sono io a prenderlo per mano e a correre verso la nostra camera. Non lo lascerò
scappare. Non stanotte.
To be continued…
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Capitolo 5 *** 5. Se devo proprio impazzire allora lui impazzirà con me ***
ooo
5. Se devo proprio
impazzire allora lui impazzirà con me
Questo cocktail ghiacciato ai frutti
tropicali è davvero una bomba. L’ha ordinato Jane per me e, per l’ennesima
volta, non si è sbagliato. E non si è sbagliato neppure nel volermi regalare
questo cappello e questi occhiali. È una giornata calda oggi ed è perfetta per
prendere il sole. Non ci posso ancora credere. Io, Teresa Lisbon, mi sto
rilassando in costume da bagno su di un lettino a bordo piscina in un hotel di
lusso e, come se non bastasse, sono in compagnia dell’uomo che ho finalmente
ammesso di amare. Sto vivendo una situazione che mi sembra irreale, un sogno. Un
bellissimo sogno che ha i contorni ancora un po’ sfocati a dire il vero ma che
mi fa fluttuare almeno ad un metro da terra per la felicità. O forse anche due.
Sospiro appoggiandomi meglio allo
schienale della sdraio e mi ritrovo a puntare il mio sguardo protetto dagli
occhiali scuri verso il lato opposto della piscina. Jane ha praticamente
formato un miniclub improvvisandosi animatore turistico. È accerchiato da una
decina di bambinetti che lo schizzano e cercano di rubargli la palla mentre
lui, con i suoi soliti trucchetti, li stupisce sempre facendola ricomparire
ogni volta in posti diversi. Gli schiamazzi dei ragazzini sono allegri e i
genitori li osservano divertiti mentre l’animatrice si è resa disponibile come assistente
di Jane.
Lo guardo e non posso fare a meno di
pensare a quanto ci sappia fare con i bambini. Si vede che è stato padre. Un
sorriso radioso, che credo forse di non avergli mai visto prima, gli illumina
il viso e penso che sia perfetto mentre rivedo la notte appena trascorsa con
lui.
Chiudo a chiave la porta della suite ma
non prima di aver messo all’esterno sulla maniglia il cartello “Non disturbare”.
Jane nota il mio gesto e mi sorride poi mi
bacia bloccandomi completamente contro la porta chiusa. È un bacio intenso,
passionale, pieno di aspettative ed ora so che non mi voglio fermare. Ma un
campanello suona nella mia testa: una piccola porzione della mia razionalità
ancora attiva reclama la mia attenzione. Mi dice di volerlo stupire. Ho vinto
io la scommessa e voglio condurre il gioco. Lo trascino nella camera da letto
continuando a baciarlo e gli slaccio un bottone dopo l’altro della camicia con
gesti lenti e studiati. E poi cado sul letto sopra di lui. Ci stacchiamo e ci
guardiamo negli occhi per quelli che sembrano secoli. Mi concedo uno sguardo
veloce sul suo tonico torace senza la canottiera e avverto un fremito.
“Mi aspetteresti un attimo?” È proprio la
mia voce quella che sento? Quasi non ci credo che sono riuscita a dire una cosa
simile. Voglio ancora aspettare? No, ma voglio farlo impazzire e voglio
impazzire con lui. Noto un lampo di sorpresa nei suoi occhi ma mi fa cenno di
fare pure ciò che voglio. Gli poso un bacio leggero sulle labbra e mi sollevo
da lui. “Chiudi gli occhi per un minuto e aspettami qui.”
“Non so cosa tu voglia fare ma non ho
intenzione di andare da nessuna parte, credimi.” Me lo dice come se la cosa
fosse ovvia, sempre con una nota di scherno nella voce.
Ho un piano. Mi assicuro che non sbirci e
mi allontano velocemente verso l’armadio recuperando un completo di quelli che
mi ha regalato lui. So esattamente quale mettere.
Corro in bagno e in un attimo
mi libero del vestito e sostituisco il primo completo con il secondo. Quello
della mia marca preferita. Quello rosso passione. Incredibile come Jane ci
abbia preso anche sulla taglia o forse ha semplicemente spiato i miei vecchi
completi. Non mi guardo allo specchio. Saprò come mi sta quando mi vedrò
riflessa nei suoi occhi. Prendo al volo il mio accappatoio e lo indosso.
Jane è ancora sul letto. Seduto,
praticamente come l’ho lasciato, ad eccezione delle scarpe abbandonate in un
angolo assieme ai miei sandali.
“Il minuto è passato” mi dice. “Ora apro
gli occhi, Lisbon. Che tu sia pronta o no.”
E li apre davvero. Perfetto. Mi avvicino
piano e lascio che l’accappatoio scivoli a terra. Alzo il mio sguardo e fisso i
suoi occhi azzurri: iridi più scure e intense, pupille dilatate. Ecco, era
quello che volevo vedere.
“Niente male il completo. Vorrei conoscere
la persona che ha così buon gusto.” Cerca di fare il disinvolto ma, questa
volta, la sua voce lo tradisce. L’ho impressionato. Gli sorrido maliziosa e
cerco di sfruttare al meglio questa situazione di vantaggio sedendomi a
cavalcioni sulle sue gambe e scuotendo appena la testa: i capelli mi finiscano tutti
sulla schiena lasciando libera la scollatura. Mi sporgo con il petto
leggermente in avanti in modo che i miei seni sfiorino il suo torace e non
smetto di fissare i miei occhi nei suoi che, noto con piacere, avevano
indugiato un po’ verso il basso.
“E una volta conosciuta questa persona,
cosa gli diresti?”
Inizio a sfilargli una manica della
camicia mentre gli bacio la spalla e lascio scorrere la lingua seguendo la
linea del suo collo. Sento che cerca di rimanere calmo.
“Gli direi grazie. Grazie perché ti ha resa
più magnifica di quanto io avessi mai potuto immaginare.”
Mi fermo all’improvviso. Quello che ho
percepito nella sua voce mi ha lasciata senza fiato. È stato disarmante. Non ci
posso credere. È stato sincero! Come sull’aereo.
“Jane?”
Lui mi fissa e vedo i suoi occhi scurirsi
ancora di più. E poi, come se nulla fosse, inverte le nostre posizioni e si
libera della camicia che finisce a terra.
Succede tutto così velocemente che il mio
cervello si spegne e lascio che sia la passione a guidarmi. Non abbiamo bisogno
di parole. Basta trucchetti, basta inganni, basta dubbi. Cadono le ultime difese
fra noi mentre ci baciamo con trasporto, il mio reggiseno e le mie mutandine
volano praticamente sul comò insieme ai sui pantaloni e ai suoi boxer.
E poi è solo paradiso. Anzi no, è inferno
perché mi fa impazzire e sento che lui vuole impazzire con me. Un attimo prima
eravamo io e lui e un attimo dopo siamo finalmente un noi. Un noi di cui avevo
quasi perso la speranza, un noi al quale avevo quasi voltato le spalle. Un noi
che, in fin dei conti, mi rendo conto, aspettavo da tutta la vita.
“Ehi, bambini, che ne dite di andare a
chiedere a quella signorina laggiù con il costume verde se vuole fare un bel
bagno con noi?”
“Sììììì!”
Ritorno al presente e vede un nugolo di
ragazzini correre sul bordo vasca e urlare allegri, seguiti dagli sguardi apprensivi
dei genitori. Mi ritrovo praticamente attorniata da tante manine che cercano di
farmi alzare a forza dalla sdraio.
“Ok, ok. Vi ascolto, ma non parlate tutti
insieme. Ditemi cosa posso fare per voi” sorrido e faccio finta di non capire.
“Patrick ha detto che devi venire con noi,
signorina.”
“No, Jason! Patrick ha detto di chiederle
se vuole venire a fare un bagno con noi.”
“E io che ho detto, Ellie?”
“Tu l’hai praticamente obbligata. Non si
fa così.” La ragazzina di nome Ellie ammonisce con lo sguardo il bambinetto
piccolo e biondo che le sta accanto. Probabilmente è il suo fratellino.
“Ma io…” Jason mette il broncio ma non
riesce a finire perché viene interrotto.
“Oh, andiamo! Che importa come ce lo ha detto
Patrick. Signorina, viene con noi in piscina?” Un ragazzetto tra i più
grandicelli, senza farsi troppi scrupoli e con un fare da grande interviene
prima che i due, più piccoli di lui, inizino a bisticciare fra loro.
“Ok, bambini, non litigate, va bene? Vengo
con voi.”
Si alza un coro entusiasta di “Evviva” e
di “Yuppi” e in un attimo mi sento quasi trasportare dalla forza d’inerzia di
quel gruppetto scalmanato quando qualcuno mi agguanta da dietro e mi solleva
dalla vita. Delle risate divertite risuonano tutt’attorno a me, cappello e
occhiali volano via mentre faccio appena in tempo a chiudere la bocca per poi
ritrovarmi dopo un tuffo sott’acqua in piscina. Le braccia che mi avvolgono non
mi fanno male. È un abbraccio rassicurante quello che sento e che mi lascia
riemergere per riprendere fiato.
Mi volto a guardare il mio assalitore
e sbuffo un po’ indispettita. “Maledizione, Jane! Mi hai spaventata!”
Lui non si scompone minimamente mentre mi
tiene sempre le braccia allacciate in vita. “Smettila, lo so benissimo che te
l’aspettavi. Anzi, dovresti ringraziarmi per averti salvata da quelle piccole
pesti. Lo so che stavi già perdendo la pazienza.”
“Non è vero!” protesto. “E poi li hai
mandati tu a prelevarmi dal mio stato di pace e tranquillità.”
“Perché ti stavi annoiando e avevi voglia
di stare con me. Dì la verità?”
Rimango zitta un secondo di troppo e lui
mi sorride trionfante.
“Lo so che ti sono mancato. Non c’è
bisogno che tu me lo dica.”
E senza aggiungere altro mi bacia. Io mi
irrigidisco un attimo prima di staccarmi e guardarmi attorno imbarazzata ma dei
bambini non c’è nemmeno l’ombra. Scorgo la figura dell’animatrice che svolta
l’angolo prima di sparire mentre anche diversi genitori hanno lasciato le loro
postazioni di vedetta sui lettini ora vuoti.
“È ora di pranzo. L’animazione è finita.
Ma se alla piccola e dolce Teresa va bene aspettare ancora un po’, io posso
rimanere qui a tenerle compagnia.”
Porto le mani ad afferrare i suoi capelli
bagnati e mi ritrovo con la punta del naso a sfiorare la sua. Siamo occhi negli
occhi e sono sicura che le mie pupille si stanno dilatando. Sento un improvviso
desiderio che mi fa fremere fra le sue braccia mentre allaccio con disinvoltura
le mie gambe al suo bacino. Sono un’agente dell’FBI e non ho mai detto di
essere una santa e, onestamente, con un Jane così chi lo sarebbe? “Sarei molto
contenta se mi tenessi compagnia. Sai, laggiù da sola sotto l’ombrellone mi
sentivo un po’ abbandonata” ammetto, fingendo di lamentarmi.
“Allora devo rimediare.”
E senza aggiungere altro mi bacia, ancora
e ancora. Ci lasciamo cullare dalle acque calme della piscina e potremmo non
smettere mai ma mi accorgo che non possiamo andare oltre. Almeno non lì.
“Lo so, Lisbon. Una brava agente come te
non può fare certe cose in una piscina. D’accordo. Dammi un momento e ce ne
andiamo a pranzo.”
Mi stacco appena da lui senza fargli
presente che potrebbe anche smetterla di leggermi nella mente. Insomma, vorrei
che ogni tanto i miei pensieri rimanessero privati!
Ma preferisco uscirmene con stile. Non possiamo
sempre discutere su di lui che mi entra in testa. Il tempo può essere impiegato
in modo migliore. E questo lo so per certo. Quindi lo bacio ancora una volta e
poi con due bracciate raggiungo la scaletta della piscina ed esco. Mi metto un
po’ in mostra ma lo faccio di proposito. Se lo merita! Solo per punzecchiarlo
un po’. Sorrido soddisfatta mentre recupero il cappello, gli occhiali da sole e
la borsa da spiaggia e guardo di sott’occhi Jane che ancora non è uscito dalla
piscina.
“Allora? Che aspetti? Devo chiamare l’FBI
per farti uscire di lì?” Sono provocatoria ma mi piace.
“Ah, ah… spiritosa. Vai in camera. Tra
cinque minuti ti raggiungo.”
Sono palesemente appagata dalla piega che
ha preso la situazione e so perfettamente perché Jane ha bisogno di tempo prima
di uscire dalla piscina. Me ne sono resa conto benissimo quando stavo lì aggrappata
a lui. Ma nonostante non sia più una ragazzina non riesco a non arrossire come
se fossi alla mia prima volta. Maledizione! Sto scoprendo un Jane che tante
volte avevo immaginato ma che avevo sempre cercato di scacciare dalla mia mente
per non illudermi inutilmente. Vedere che invece la realtà è dieci, anzi che
dico, cento volte meglio e che la mia vicinanza gli fa un certo effetto…
beh, mi fa semplicemente gongolare di gioia anche se l’imbarazzo è duro a
morire.
“Hai detto cinque minuti, Jane. Se ritardi
ti chiudo fuori.” Gli faccio l’occhiolino e mi allontano avvolgendomi in un
pareo per asciugarmi almeno un po’. L’ennesimo regalo di Jane. Ok, appena
rientra in camera dovremo fare quattro chiacchiere anche su tutti questi
regali. Se solo riusciremo a parlare…
To be continued…
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Capitolo 6 *** 6. Mai una volta che si possa riposare in santa pace ***
6. Mai una volta che si possa riposare in santa pace
6. Mai una volta che si possa riposare in
santa pace
“Oh, signor Jane! Benvenuto! La stavo
aspettando!” Il proprietario del bazar sulla spiaggia dove io e Jane abbiamo
fatto acquisti il giorno prima ci viene incontro. Jane ha proposto di cenare
fuori in un locale con terrazza vista oceano che, a quanto pare, appartiene
allo stesso signore cordiale e allegro che ora ci sorride riconoscente.
“Buonasera, Leonardo. Te l’ho detto che
saremmo venuti. Devi scusarci ma ieri sera abbiamo avuto un contrattempo…” Jane
mi guarda facendomi l’occhiolino e cingendomi la vita mentre io faccio vagare
il mio sguardo sul ristornate cercando di mostrarmi indifferente per nascondere
un sorriso e un improvviso rossore. Definire un contrattempo quello che c’è
stato fra di noi direi che è riduttivo se non addirittura inappropriato. Dovrei
farlo presente a Jane.
“Sai, il primo giorno di vacanza, la
stanchezza del viaggio…” cerca di minimizzare con noncuranza.
“Certo, signor Jane. Non si preoccupi. L’importante
è che siate qui ora. Le ho riservato il nostro tavolo migliore, per lei e la
signorina…”
“Ah sì, Leonardo, ti presento la signorina
Teresa Lisbon.” Poi sottovoce con uno sguardo complice aggiunge: “Agente
speciale dell’FBI.”
Con un’occhiata interrogativa fulmino Jane.
Che bisogno c’era di dirgli che sono dell’FBI? Sono in vacanza, dopotutto. Ok,
congedo temporaneo, ma per una volta mi piacerebbe essere solo la signorina
Lisbon.
“Molto piacere, agente Lisbon. Davvero
molto piacere.”
“Piacere mio, signor Leonardo.” Ecco, appunto.
Sono subito diventata l’agente Lisbon.
Mi stringe la mano forse in modo un po’
troppo entusiasta. Mi pare strano. C’è qualcosa che non mi convince ma prima di
poter aggiungere altro, Jane mi invita a seguire Leonardo verso il tavolo che è
ci è stato riservato. Si trova all’angolo della terrazza, è illuminato da una
candela sul tavolo posta accanto ad un vasetto con una sola rosa bianca. È una
composizione così fine nella sua semplicità che quasi mi emoziono. Accidenti,
non pensavo di essere così sentimentale! O forse sarà la serata. La luna è già
alta nel cielo; è luna piena e il fruscio delle onde che si infrangono sulla
spiaggia sono un sottofondo perfetto.
“Allora signori, vi lascio la lista e se
permettete vi vorrei offrire un aperitivo della casa. È davvero ottimo, credetemi.”
“Oh, ti crediamo eccome, Leonardo. Tu che
ne dici, Lisbon? Ci lasciamo tentare dall’aperitivo?”
Jane mi guarda sorridente.
“Sì, perché no!”
“Ottimo! Allora ve lo faccio portare
subito.”
Leonardo si allontana veloce in mezzo agli
altri tavoli tutti occupati. A quanto pare il locale ha un giro di clienti
niente male. Rivolgo la mia attenzione a Jane che sta sfogliando con interesse
il menù.
“Jane?”
“Dimmi.” Non alza lo sguardo mentre si
accomoda meglio sulla sedia, con le gambe incrociate.
“Devo per caso sapere qualcosa?” Mi sporgo
appena sul tavolo verso di lui. Meglio non tergiversare quando c’è di mezzo
Jane. C’è qualcosa che non va. Lo sento.
“In merito a?” Jane mi guarda perplesso.
“In merito al signor Leonardo e a questa
serata.” A volte, anzi, diciamo pure spesso e volentieri, parlare con Jane è
esasperante. Bisogna fargli mille domande per estorcergli anche le informazioni
più banali, come quando si cerca di estorcere una confessione ad un bambino
trovato con le mani già sporche di marmellata.
“Non credo ci sia molto da dire. Quando ho
pagato i nostri acquisti al bazar l’altro giorno, il signor Leonardo, nel
parlare, mi ha detto che aveva un ristornate così gli ho detto che ti ci avrei
portata. A quanto pare fanno un ottimo pescado qui. È la specialità della casa.
Credo che prenderò quello. Tu potresti prendere altro e poi ce lo dividiamo. Che
ne dici?”
“Jane?” lo guardo un po’spazientita.
Lui alza gli occhi al cielo. “D’accordo,
Lisbon. C’è un motivo se ti ho portata qui oltre che per la cena, ma posso
dirtelo a fine serata? Vorrei godermi questa magnifica luna.
A te non piace?”
Non vorrei lasciar cadere il discorso così
presto ma con un gesto inaspettato Jane mi prende la mano destra e se la porta
alle labbra. Inizia a baciarmi piano il dorso della mano mentre i suoi occhi
azzurri si fissano nei miei e mi chiedono di lasciar perdere le troppe domande,
per ora. Gli faccio un mezzo sorriso e sbatto le palpebre, giusto per essere
sicura che non mi abbia ipnotizzata. D’accordo, Jane. Acconsento. Ma solo per
ora.
“Sì, in effetti è molto bella.
“Ecco l’aperitivo della casa, signori.”
Una cameriera molto professionale ci ha
appena raggiunti con un vassoio di stuzzichini di mare tra i più variegati e
due cocktail dai colori sgargianti. Mi sento un attimo in imbarazzo quando noto
che la cameriera, nell’appoggiare i nostri bicchieri, ha indugiato un attimo di
troppo sulla mia mano in quella di Jane. Insomma, non c’è niente di strano in
questo ma mi sento ancora un po’ a disagio a mostrarmi in pubblico in
atteggiamenti da coppia. Non sono mai stata una donna espansiva nel mostrare i
miei sentimenti e forse anche il fatto di come sia cambiata la mia situazione
sentimentale in soli 3 giorni, passando da Marcus a Jane, mi lascia un po’
titubante. O forse è solo colpa di Jane. Ma sì, è sempre colpa di
Jane, dopotutto.
“Io mangerei qualcosa, no? Sembra tutto così
invitante.”
Jane ha già addentato una tartina e io lo
seguo a ruota. Ho deciso che mi voglio godere la serata. Tutto il resto può
aspettare.
“Ma davvero sei riuscito a cavartela
così?”
Sono sbalordita. Di certo dopo così tanti
anni che conosco Jane non dovrei più stupirmi di nulla, specie delle sue
capacità di ottimo bugiardo ma le cose, ovviamente, non vanno così.
Jane ha appena finito di raccontarmi un
aneddoto buffo di quando era solo un ragazzino e viveva ancora al circo
itinerante con suo padre.
“Sì, gli ho detto che ero sonnambulo.
D’altra parte erano le tre di notte. Mi sembrava una buona bugia.”
“Ma tuo padre e gli altri ti hanno
creduto?”
“Diciamo che stavo già affinando la mia particolare
tecnica di relazioni interpersonali. E quale modo migliore di sperimentarne
l’efficacia se non sui parenti e sulle persone che ti conoscono meglio al
mondo? E sì, ci hanno creduto.” Fa spallucce come se quello che mi ha appena
detto fosse la prassi. Spero per lui invece, che quello che ha dichiarato di
provare per me sia davvero la verità, altrimenti una bella pallottola nel fondo
schiena non gliela toglierà nessuno.
Scuoto la testa e mi concedo una mezza
risata. “Scusa Jane, ma mi fa ridere immaginare te che porti a spasso Desy
l’elefante nel cuore della notte lungo una strada parallela all’autostrada solo
perché volevi liberarla.”
“Beh, ero un ragazzino sensibile! Desy ama
le mele, se ti ricordi, e io pensavo che oltre l’autostrada ne avrei trovato un
campo pieno per poterla rendere felice. Ero in buona fede, dopotutto.”
“Certo! Come no!”
Non posso non ridere. E Jane si unisce a
me.
Abbiamo quasi finito anche il nostro dolce
e ci guardiamo negli occhi mentre accetto un ultimo boccone di cheesecake al
cioccolato direttamente dalla sua forchetta. In modo malizioso mi pulisco il
labbro inferiore con la lingua ma lui non dice nulla. Non smette di sorridermi.
La cena è stata davvero superba: pescado e
grigliata di carne. E il vino ha contribuito a rendere l’atmosfera spumeggiante
e intima. Mi sono ritrovata naturalmente a raccontare alcune cose divertenti
della mia infanzia che avevo quasi del tutto rimosso. Ricordi sepolti sotto un
cumulo di macerie dolorose collegate alla morte di mia madre e a quella
successiva di mio padre.
Poi anche Jane mi ha raccontato stralci
della sua vita da circense, per lo più fatti strampalati e assurdi come lui a
spasso di notte con Desy l’elefante quando aveva solo 11 anni. Nemmeno lui deve
avere moltissimi ricordi felici nella sua infanzia ed è per questo che sono
contenta che abbia deciso di condividere con me quello strambo episodio.
Vedo che Jane si guarda in giro.
Dev’essere parecchio tardi perché il locale è quasi vuoto. Come se fosse stato
attratto dallo sguardo di Jane, Leonardo compare magicamente nel nostro campo
visivo e ci si avvicina con un gran sorriso.
“Signori, tutto bene?”
“Tutto davvero ottimo, Leonardo.”
“Sì, direi perfetto” mi aggiungo a Jane
nei complimenti.
“Sono contento. L’approvazione dei clienti
è sempre la miglior soddisfazione per un ristoratore.”
“E per un venditore” continuo ricordando
il suo modo di fare al bazar.
“Anche” arrossisce appena e poi noto che guarda
Jane di sott’occhi.
“Ok, Lisbon. Visto che hai menzionato
l’argomento direi che è ora di sollevare Leonardo da un grosso peso.”
Guardo entrambi un po’ confusa mentre
Leonardo, su invito di Jane, prende una sedia e si sistema tra noi.
“Su su, Leonardo. Racconta pure tutto
all’agente Lisbon. Io ti farò da testimone.” Jane lo incoraggia con un sorriso
mentre io assumo, quasi involontariamente, un’aria guardinga e professionale.
Ho la vaga idea che ci sia in ballo qualcosa di grosso.
Leonardo sospira, mi guarda e inizia a
raccontare.
“Sa, agente Lisbon, io non vorrei darle
dei fastidi ma il signor Jane mi ha assicurato che voi avreste potuto aiutarmi
e in effetti mi trovo proprio in un casino.”
Come supponevo. Le premesse non sono delle
migliori. Cerco di non far vedere il mio nervosismo.
“Non si preoccupi, Leonardo. Se Jane le ha
detto così sono sicura che potremo fare qualcosa per lei. Mi racconti tutto.”
A volte penso che il governo mi paghi
troppo poco per il lavoro che svolgo. Se non fosse che io amo il mio lavoro,
per il quale sono anche piuttosto portata, penso che l’avrei già lasciato da un
pezzo. Mai un attimo di pace. Poche vacanze e problemi di ogni sorta. Come
questo del signor Leonardo. Com’è che l’ha definito? Un casino? Sì, beh,
io aggiungerei un gran bel casino.
In sostanza il signor Leonardo si è
ritrovato immischiato in qualcosa di grosso. Cinque anni fa sua moglie si è
ammalata e da allora sta facendo delle cure mediche piuttosto costose.
All’inizio i soldi c’erano, il ristornate andava bene e le cure facevano ben
sperare in una guarigione piuttosto celere. Poi i problemi di salute sono
aumentati, i soldi hanno cominciato a scarseggiare e le sole entrate del
ristorante non bastavano più. Un giorno, il figlio di Leonardo, che a quanto ci
ha detto lavora per una multinazionale straniera con sede in Brasile, ha
proposto al padre di prendere in gestione il bazar sulla spiaggia. Era di
proprietà di questa presunta multinazionale che aveva bisogno di un uomo fidato
della zona per gestire il negozietto per turisti. Leonardo ha accettato perché
ormai era disposto a tutto e aveva pensato che gestire il bazar di giorno e il
ristornate di sera non sarebbe stato un problema, anzi una vera opportunità
venuta dal cielo in un momento difficile. Ovviamente non aveva fatto i conti
con le regole di gestione imposte dalla multinazionale: la più strana
era quella che si dovessero pagare gli acquisti solo con carta di credito. E
qui è entrato in gioco Jane e il nostro acquisto di ieri. Jane ha infatti
scoperto che Leonardo stava tentando di clonargli la carta di credito ma
siccome aveva letto la paura sul suo volto quando era stato colto sul fatto,
aveva pensato di rivelargli che io e lui lavoriamo per l’FBI e che avremmo
potuto fare qualcosa per lui se avesse deciso di collaborare o confessare.
E così ora sappiamo che Leonardo è
costretto a clonare le carte per conto di terzi per riuscire a prendere un po’
di soldi. Aveva provato a ribellarsi una volta ma il risultato era stato che, accidentalmente,
una parte del ristornate era stata devastata da alcuni presunti vandali
della zona. In più non aveva più notizie del figlio da circa un mese ma non
poteva denunciarne la scomparsa perché gli era stato inviato un chiaro
messaggio di non parlare altrimenti il figlio avrebbe fatto una brutta fine.
Lui doveva solo continuare ancora per un po’ il suo sporco lavoro al bazar e in
cambio avrebbe rivisto il figlio, prima o poi. Insomma con la moglie che sta
male, il figlio scomparso, le due figlie che lo aiutano a mandare avanti il
ristorante e il giro losco di affari del bazar, Leonardo è proprio arrivato al
limite.
“Allora, agente Lisbon, riuscirete a fare
qualcosa per me? In fondo ho collaborato, non è così?” e guarda Jane speranzoso.
Jane gli mette una mano sulla spalla. “Non
ti preoccupare, Leonardo. L’agente Lisbon è la migliore e quando lavora con me
lo è ancora di più.” Mi fa un occhiolino per fermare il mio sguardo
inceneritore.
“Vedremo cosa possiamo fare, signor
Leonardo. E cercherò di farle avere meno ripercussioni possibili.”
“Grazie, grazie davvero.” Il pover’uomo ha
le lacrime agli occhi.
Incrocio per un attimo lo sguardo di Jane
che ricambia tranquillo.
Ok, addio pace e tranquillità. Bentornato
lavoro di routine.
To be continued…
Angolo Mirty_92:
Buonasera a tutti! Presentato un nuovo
capitolo! Che ne dite? Doveva pur succedere qualcosa di improvviso o no? Movimentiamo
un po’ la storia, dopotutto una “piccola indagine” non scombussolerà di certo
la trama che noi tutti conosciamo della settima stagione. Almeno questo è il
mio obiettivo visto che la storia si inserisce nell’arco temporale tra la
penultima e l’ultima stagione. Questa è solo una parentesi.
Spero vi sia piaciuta.
Alla prossima,
Mirty
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Capitolo 7 *** 7. Un piano semplice, poco legale e tutto andrà bene, insomma come al solito ***
7. Un piano semplice, poco legale e tutto andrà bene, insomma come al solito
7. Un piano semplice, poco legale e tutto andrà bene, insomma come al solito
Mi sveglio ed è ancora notte fonda. Sento
che mi si è addormentato il braccio sinistro stretto in una strana
posizione tra me e la schiena di Jane. Cerco di levarlo quanto basta perché il
sangue riprenda a scorrere normalmente e al contempo tento di non svegliare lui
che riposa tranquillo. Ma poi si muove appena e quando sposto il braccio,
immancabilmente, si gira. Socchiude gli occhi e mi guarda sonnacchioso.
“Scusa, non volevo svegliarti. Avevo il
braccio addormentato. Torniamo a dormire.” Le mie parole sono un sussurro
soffocato sotto le lenzuola.
“Le braccia non si addormentano, ricordi?
Chissà perché si dice così” mi dice sorridendomi e avvolgendomi in un tenero abbraccio.
Io mi accoccolo meglio fra le sue braccia e sospiro.
“Hai appena pensato a Leonardo, vero?”
Beccata. Come sempre. Neanche il tempo di
riprendere sonno che il racconto di quella sera mi ha attraversato la mente. Dannato
sospiro! O dannato Jane, che mi legge sempre come se fossi un libro aperto.
Rientrati in hotel non ne avevamo più
parlato. Ero rimasta pensierosa e Jane non aveva detto nulla al riguardo. Forse
pensava di avermi rovinato la settimana di congedo. Ma, d’altra parte, Jane
aveva scoperto, del tutto casualmente, una cosa decisamente illecita e non
poteva non rivelarmela. L’avrei scoperto comunque, prima o poi. Mi lascio
sfuggire un mezzo sorriso mentre alzo gli occhi su di lui.
“Non proprio pensando a lui, più alla
situazione generale. Sarà difficile aiutarlo senza portare avanti un’indagine
ufficiale. La cosa migliore sarebbe che lo dicessi alle autorità locali e che
se ne occupassero loro.”
“E pensi che i suoi ricattatori non lo
scoprirebbero subito?”
“Forse no e mi sembra la cosa più
ragionevole da fare.”
“Davvero lo pensi, Lisbon? Pensi che io e
te non riusciremmo da soli ad aiutare quel poveretto?”
“Forse sì, ma…”
Posa un dito sulle mie labbra e scuote la
testa. “Niente forse e niente ma… ce ne occuperemo noi. Domani
però, adesso vorrei preoccuparmi di altro.”
E detto da uno che potrebbe aver accidentalmente
incasinato il nostro idilliaco soggiorno a Islamorada scoprendo un affare losco
di contraffazione, beh, è tutto dire! Ma mi trattengo dal farglielo presente
quando scorgo una scintilla maliziosa attraversare i suoi occhi azzurri. Un
tenue chiarore lunare che entra dalla finestra del terrazzo illumina appena i
contorni del suo viso, mettendo in evidenza gli zigomi increspati da un sorriso
sornione.
“E di cosa vorresti preoccuparti, in piena
notte e in un letto d’albergo, per di più?” Ho il suo stesso identico sorriso
sulle labbra. Inizio a far scorrere lentamente la mano sotto la maglia del suo
pigiama giusto per sentire la sua pelle liscia diventare pelle d’oca al
passaggio del mio tocco leggero.
Prendo l’iniziativa e mi giro, posizionandomi
sopra di lui.
“Di questo.” E subito coglie l’occasione
per prendermi il viso tra le mani e per baciarmi con passione. Io afferro
d’istinto i suoi capelli mentre il mio battito accelera immediatamente e il
respiro si fa più affannoso.
Continuiamo a baciarci con trasporto mentre
le sue mani ora si occupano di togliermi la canottiera che finisce chissà dove
tra le lenzuola. Mi sistemo meglio a cavalcioni su di lui e lascio che mi guardi
in quella mezza penombra che profuma di passione e sospiri. Profuma di me,
Teresa, e di lui, Patrick. Profuma di noi. Poi gli sorrido, gli tolgo la maglia
e faccio finta di coprirmi. Ed è allora che lui gioca sporco. Inizia a farmi il
solletico ai fianchi e sulla pancia e io mi piego in due. Cerco di trattenere
le risate per non svegliare tutto l’albergo mentre provo a respingere i suoi
subdoli attacchi, ma Jane ottiene il suo scopo. Lascio andare la sua maglietta
scoprendo di nuovo i seni che lui inizia a baciare. Una scarica di passione mi
attraversa la spina dorsale e mi inarco lasciandolo fare. E ci sa fare, non c’è
dubbio alcuno! Anche se, ovviamente, non glielo dico. Non voglio alimentare il suo
ego.
Non mi accorgo nemmeno di non avere più
indosso neanche i pantaloncini del pigiama e le mutandine: ha fatto tutto lui.
E in attimo lo sento. Siamo di nuovo uniti, lui dentro di me e io che mi spingo
sopra di lui per sentirlo sempre di più. Le sue mani sono impegnate a tenermi i
fianchi mentre insieme ondeggiamo di piacere come le onde dell’oceano che ora,
nel silenzio della stanza, rimbombano come un eco lontano. Dopo un tempo che
sembra non finire mai i nostri sospiri si spezzano all’unisono e si ritrovano
in un bacio lento che è preludio di un torpore paradisiaco e ristoratore. Sento
l’eccitazione scemare poco per volta mentre il battito del mio cuore ritorna costante
e i miei occhi si chiudono assecondando il sonno interrotto poco prima. L’ultima
cosa che vedo è Jane che mi sorride.
È già mattina inoltrata quando ci
risvegliamo. Sento che Jane mi accarezza piano i capelli.
“Buongiorno” mi sussurra all’orecchio mentre
mi posa un leggero bacio sulla guancia.
Ha un aspetto sereno e presumo che il mio
non sia da meno. Sto così bene con lui che ho quasi paura. Ho paura che tutto
possa finire all’improvviso, non so esattamente perché. Ma cerco di conservare
quella beatitudine che sento quando lui mi sta accanto.
“Buongiorno.”
“Dormito bene?” mi chiede con una punta di
ironia nella voce.
“Direi di sì. A parte che mi sono
svegliata nel bel mezzo della notte e qualcuno mi ha fatto i dispetti”
metto un piccolo broncio mentre assottiglio lo sguardo nello scrutarlo.
“Dispetti? Che genere di dispetti?” Ha
un’aria fintamente innocente che mi fa impazzire mentre si mette a sedere
appoggiandosi alla testiera del letto, pronto ad ascoltarmi.
“Solletico. Per poco non morivo soffocata
nel trattenere le risate.”
“Ma non mi dire! Pensa che io non ho
sentito nessuna risata. Ero convinto di aver ascoltato dei gemiti, piuttosto.”
Gli tiro addosso il mio cuscino che si
stampa sul suo ghigno canzonatorio.
“Ehi, cosa ho detto? È questa la
ricompensa per aver dichiarato il vero? Dopo per forza che la gente mente!”
Riemerge appena dal bordo del cuscino e indaga: “Ma poi quel qualcuno si
è fatto perdonare?”
Ok, d’accordo. Alzo gli occhi al cielo e
gli faccio un cenno affermativo mentre non posso fare a meno di arrossire al
ricordo del modo in cui questo qualcuno si è fatto perdonare.
Allora si riavvicina a me e mi bacia. Non
è esattamente il bacio dolce e fugace che mi aspettavo perché in un attimo mi
pare di perdere nuovamente il controllo della situazione. Le mie mani volano
tra i suoi capelli ma per fortuna mia, questa volta è lui che mi frena.
“Devo farmi perdonare ancora per
qualcosa?” mi guarda fintamente perplesso staccandosi appena da me.
“Ne avresti di cose da farti perdonare.”
Non riesco a credere a ciò che ho detto. Ho meglio, a come l’ho detto. Il mio
tono è suadente e audace al tempo stesso. Ma poi la razionalità prevale. È un
nuovo giorno e non possiamo passarlo tutto quanto a letto. Anche se sarebbe
allettante, devo ammetterlo. Quasi non mi riconosco. Con Jane sto perdendo
tutti i miei freni inibitori. Devo riacquistare un po’ di buon senso e decenza.
Insomma, Teresa, sei o non sei una donna adulta e indipendente? Non posso
davvero pensare di non poter resistere un po’ senza dover necessariamente
saltare addosso al mio uomo. Oddio, il mio uomo. Non posso credere a
quello che la mia mente ha appena partorito.
“Lo so che sono irresistibile, Lisbon, ma
vorrei ricordati che abbiamo un caso da risolvere. E prima lo risolviamo e
prima, sicuramente, avrò qualcos’altro per cui farmi perdonare.”
Lo centro di nuovo con il mio cuscino.
“Accidenti! Devi trovare un modo migliore
per sfogarti.”
“Ringrazia che sia solo un cuscino, Jane.”
“In effetti non hai tutti i torti. Ah, se
vuoi farti una doccia fai prima tu. Che ne dici se facciamo colazione in uno di
quei bar sulla spiaggia?”
“Per me va bene. Così iniziamo a pensare a
cosa fare sul caso di Leonardo.”
Mi alzo dandogli le spalle e, tirandomi
dietro il lenzuolo, vado verso il bagno. Con la coda dell’occhio vedo che
percorre il mio corpo seguendone la silhouette con uno sguardo ammirato.
Sorrido e mi chiudo in bagno. Diciamo che non sono solo io ad avere problemi di
autocontrollo quando sto con lui anche se, decisamente, devo migliorare nel
mostrare un po’ meno la mia disponibilità. Ecco tutto.
Mezz’ora dopo siamo entrambi puliti,
profumati e, baciati dal sole, ce ne stiamo seduti ad un tavolino di un bar
sulla spiaggia sorseggiando io una tazzina di caffè e Jane il suo solito thè.
“Allora il tuo piano sarebbe tutto qui? Convincere qualcuno della multinazionale a venire direttamente a controllare i
suoi affari ammettendo bellamente di essere a capo della falsificazione delle
carte per opera di Leonardo?”
“Non sminuire così il mio piano. Detto in
questo modo lo fa apparire brutto.” Jane si lamenta come un bambino.
“Beh, ma è quello che mi hai appena
detto.”
“Ok, è il fine ultimo. Ma sicuramente
verrà un pesce piccolo a controllare gli affari. E lui ci porterà, se non
direttamente al pesce grosso, almeno a ritrovare il figlio di Leonardo. Penso
sia la priorità al momento.”
“Non siamo equipaggiati per investigare su
un presunto rapimento, Jane!”
“Perché presunto?”
“Perché, ci pensavo prima, non sappiamo
nulla del figlio di Leonardo. Nulla di più di quello che ci ha detto suo padre.
Potrebbe essere coinvolto anche lui in questo raggiro altrimenti perché avrebbe
proposto al padre di gestire il bazar? E poi non ti pare strano che Leonardo
non sappia nulla su questa multinazionale per cui lavora il figlio?”
“Tutte domande lecite, Lisbon, ma secondo
me il ragazzo non è colpevole dell’inganno. Tutt’al più gli si può imputare la
colpa dell’essere un sempliciotto, un po’ ingenuo, ecco.”
“E cosa te lo fa affermare con sicurezza?”
Jane alza le spalle noncurante. “Ho visto
una foto della famiglia di Leonardo dietro il bancone del ristornate, ieri
sera. E si vede. È un bravo ragazzo che si è fatto fregare, alla grande devo
ammetterlo, ma non è un delinquente.”
Scuoto il capo. È vero che Jane nel
guardare le persone ha un acume particolare ma a volte mi mette ancora in crisi
il fatto che riesca a capire le cose solo guardando delle semplici realtà di
vita quotidiana. Una foto. Rimango comunque perplessa anche se, ovviamente, non
posso fare a meno di fidarmi.
“Grazie, Lisbon.”
“Di cosa?”
“Che ti fidi ancora una volta di me, del
mio giudizio.”
Gli do un pizzicotto sul braccio destro.
“Smettila di rispondere ai miei pensieri. Non fare sempre il saccente!”
“D’accordo, d’accordo." Mi si avvicina e
mi sussurra all’orecchio: “Mi farò perdonare. Segnalo nella tua lista.”
Vorrei davvero tirargli un pugno perché mi
ha fatto imbarazzare, di nuovo, come tante altre volte. Ma decido di andare
oltre.
“Ok, quindi il ragazzo non è coinvolto.
Come pensi di far venire il pesce piccolo nella nostra rete?”
“Per
questo devo consultarmi con Leonardo. Avrò bisogno di ottenere
qualche dettaglio in più. Andiamo.”
Per pranzo siamo ancora fuori, al
ristorante Perla del Mare di Leonardo. L’uomo è più che entusiasta di
rivederci e non solo perché siamo fonte di guadagno per i suoi affari
gastronomici. Il suo umore però oscilla tra la determinazione nell’uscire da
questa brutta situazione, la riverenza per l’FBI e il terrore per quello che
potrebbe accadere a lui e alla sua famiglia. Comprensibile, dopotutto.
Iniziamo
così a parlare con Leonardo. Veniamo a conoscenza che se ogni
due settimane non raggiunge un numero minimo di carte clonate, qualcuno si presenta
a ricordargli che la posta in gioco era, prima il suo ristornate e ora,
direttamente suo figlio. E a questo qualcuno non interessa se ci sono
stati pochi clienti da truffare: certi criminali non sono decisamente
magnanimi.
Il fato ha voluto che, in queste due ultime
settimane, il numero minimo non sia stato raggiunto. Sempre il fato – ma comincio
a pensare che il destino in fatto di casi impegnativi da risolvere ce l’abbia
un po’ con me in questo ultimo periodo – ha stabilito che le due settimane scadranno
proprio domani – sì esatto, domani. –
Siamo sicuri che non si tratti di sfiga
nera? Per fortuna non credo al malocchio! Altrimenti...
Jane procede nello spiegargli il piano. In
sostanza, Leonardo non dovrà fare altro che aspettare al negozio che qualcuno
si presenti.
Non ha mai capito come, ma chi controlla
tutto, sa esattamente quante carte vengono clonate. Leonardo ci ha detto che
non ha mai trovato telecamere e Jane è convinto del fatto che non ci siano perché,
altrimenti, si sarebbe già presentato qualcuno quando Leonardo aveva restituito
la carta a Jane senza avergliela clonata. Un errore da dilettante, l’ha chiamato
Jane, il fatto di non aver messo telecamere, oppure il bazar è una fonte
redditizia talmente periferica di questa multinazionale fantasma che i grandi
capi non hanno ritenuto necessaria una simile sorveglianza. Il che mi mette
ancora una pulce nell’orecchio riguardo il coinvolgimento del figlio di
Leonardo, Kevin. Ma sull’onestà del ragazzo, Jane è pronto a metterci la mano
sul fuoco. Domani Jane si fingerà un cliente e sarà nel negozio con Leonardo ad
aspettare che compaia il tramite della grande società. Poi interverrò io,
naturalmente.
È un piano abbastanza semplice. Jane è
sicuro che il pesce piccolo abboccherà e io, malgrado tutto, mi fido di lui.
“Non so davvero come ringraziarvi, agente
Lisbon… signor Jane… io…”
Leonardo è sudato e agitato.
Il mio tono è professionale anche se l’indagine
non è ufficiale: il poliziotto che è in me non si riposa mai. “Aspetti a
ringraziarci, signor Leonardo. Prima vediamo come andrà domani.”
“Andrà tutto bene, Lisbon. Non mettergli
paura inutilmente.” Il sorriso di Jane è così incoraggiante che convincerebbe
anche i sassi e Leonardo smette di tremare.
“Jane, dobbiamo comunque procedere con
cautela.” Poi mi rivolgo di nuovo a Leonardo. “Questa non è un’indagine ufficiale
e quindi lei capisce che quando prenderemo l’uomo in questione potrebbe non
essere così facile trattenerlo il tempo necessario per fargli rivelare tutto, se
non metteremo al corrente la polizia locale che dovrà tenerlo in custodia.”
“Ma il signor Jane mi ha assicurato che ci
avreste pensato solo voi.” Lo vedo fremere per l’ansia.
“Il signor Jane…” e gli lancio un’occhiataccia.
“è un consulente dell’FBI e sulle questioni burocratiche non ha voce in
capitolo. Io, per fortuna, rappresento pienamente la legge. Le assicuro che
fermeremo l’uomo, ma non posso ammanettarlo e tenerlo relegato nel suo negozio finché
non ci dirà dov’è suo figlio. Non è legale, capisce?”
“Invece sì, Lisbon!”
Guardo Jane sconcertata. “Come hai detto?”
“Aspetta, mi spiego meglio. So che non è
legale ma faremo esattamente come hai detto. Lo costringeremo a parlare e in
cambio gli concederemo di non essere consegnato alla polizia locale. Un finto
accordo che poi ci porterà anche ad indagare sulla società per cui lavora. Devo
ammetterlo, Lisbon, questa volta ti sei davvero superata!”
“Jane! Non puoi manipolare così le mie
parole! Sai esattamente che non possiamo farlo! Siamo anche in un altro Stato,
io sono in congedo temporaneo e rischieremmo davvero grosso!”
“E sarebbe forse la prima volta?” Un
sorriso sfacciato fa capolino sulle sue labbra.
Io non ho più parole. Davvero! Non riuscirò
mai a frenare i piani di Jane. A pensarci bene non sono riuscita a fermarlo
nell’uccidere John il Rosso, come posso pensare di fermarlo in questo semplice
piano di sequestro di persona – perché, legalmente, se tutto
andasse secondo il piano di Jane sarebbe proprio questo che metteremmo in atto –?
Cerco di dire qualcosa ma le parole
proprio non vogliono uscire.
“Tutto apposto, Leonardo. L’agente Lisbon
si occuperà della burocrazia e entro domani sapremo dove sta tuo figlio.” Jane
abbraccia con fare cameratesco Leonardo mentre io ancora non riesco ad
articolare nulla.
“Adesso direi che potremmo mangiare
qualcosa. Più tardi andremo al negozio e ti spiegherò che atteggiamento dovrai
tenere con l’uomo che arriverà. Non ti preoccupare. Andrà tutto bene!”
Tutto è stato stabilito. Chiudo la porta
della nostra suite e vado a sedermi in terrazza. Abbiamo pranzato talmente
tardi che ora a sentire solo nominare la parola cibo mi viene la nausea.
O forse è solo per l’ansia di quello che accadrà domani. Chiudo gli occhi e
lascio ciondolare la testa oltre lo schienale della sedia. Ok, con Jane
e per Jane ho fatto di peggio. Cos’è allora che mi preoccupa tanto? Il fatto
di agire noi due da soli, forse? No, so che siamo una bella coppia. Siamo stati
partner per anni e ora il fatto di essere uniti anche per altro mi fa sentire
ancora più sicura di lui, di noi. Ma comunque ho degli scrupoli. So di stare
agendo per smascherare dei criminali ma ho l’impressione che sotto questa
multinazionale di cui anche oggi Leonardo non ha saputo dirci molto si possa
nascondere qualcosa di molto grosso. Sarà difficile rendere legale un arresto,
se mai ce la faremo, fatto da un agente dell’FBI in congedo temporaneo. Gli avvocati
ci massacreranno. Ma sto già correndo troppo. Una cosa alla volta. Prima dobbiamo
vedere l’uomo e convincerlo a parlare.
Sussulto appena quando le mani di Jane si
posano sulle mie spalle e iniziano a farmi un lento massaggio.
“Perché così tesa, Lisbon? Andrà tutto
bene.”
“Se lo dici tu.”
“È per caso sarcasmo quello che sento?”
“Nooooo, Jane.”
Smette di massaggiarmi le spalle e si
mette accovacciato di fronte a me. Apro gli occhi e mi ritrovo a fissare i suoi.
Sono così sicuri che paiono di un azzurro più scuro.
“Teresa, fidati. Tutto andrà come
previsto. Non permetterò che la tua carriera vada a rotoli per un mio capriccio.
So quello che faccio. Abbiamo affrontato cose peggiori.”
Mi accarezza piano le mani disegnando sul
dorso dei cerchi immaginari con i suoi pollici. Non so come ma inizio a rilassarmi
e a sentirmi stanca. Spero per lui che non stia cercando di ipnotizzarmi,
sarebbe la volta buona che lo ammazzo sul serio. Riuscirei dove persino John il
Rosso ha fallito. Ma in fondo io non lo voglio morto, Jane. Lo voglio qui,
accanto a me. E adesso so cosa mi preoccupa. Il fatto che lui domani si esporrà
ad un eventuale pericolo. Lo ha sempre fatto ma adesso qualcosa è cambiato. Non
voglio perderlo ora che l’ho appena cominciato a vivere sul serio. Non lo
permetterò. E, anche se da sola, lo proteggerò come e più di prima.
“Andiamo a letto. Domani dovremo essere in
perfetta forma. Dobbiamo acchiappare un truffatore e i truffatori sono difficili
da prendere, non credi?” Ride di nascosto prendendomi per mano e
accompagnandomi in camera.
Gli sorrido. “Sì, hai ragione. Quella dei
truffatori è proprio una brutta razza.”
Ed io, Teresa Lisbon, lo so perfettamente.
To be continued...
Angolo Mirty_92
Ciao a tutti e bentornati se siete
riusciti ad arrivare alla fine di questo capitolo.
Beh, cosa ne pensate?
Vorrei dire solo due cose. La prima è che
spero di non essere stata troppo OOC nel descrivere l’intimità dei
protagonisti. Sto cercando davvero di mantenerli il più originali possibili ma
visto che non ci è mai stato mostrato davvero nulla nella serie, devo per forza
immaginare. Qualche peccaminosità me la concedete, vero? Siate buoni!
La seconda cosa è che mi auguro sia interessante
anche la trama in sé e non isulsa da lapidazione.
Spero vi sia piaciuto il seguito. E grazie
per essere passati!
A presto!
Mirty
|
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Capitolo 8 *** 8. Coppia che vince non si cambia ***
8. Coppia che vince non si cambia
8. Coppia che
vince non si cambia
Si va in scena. Sono quasi le sei del
pomeriggio e manca poco alla chiusura del negozio di Leonardo. Jane è l’unico
cliente rimasto, si aggira tranquillo per il bazar fingendo di interessarsi
agli articoli esposti. Io sono nascosta in un camerino e sbircio appena da
dietro la tendina lurida. Lo vedo mentre spulcia fra le camice da uomo appese
alle grucce su un espositore. Sono
brutte quelle camice, devo ammetterlo. Vedo che ne solleva una e la osserva con
fare critico. È a mezze maniche, rossa, con dei fiori hawaiani rosa. Si scosta
appena con la camicia in mano e, cogliendo il mio sguardo, mi fa un cenno come
a chiedermi cosa ne penso. Devo subito ricredermi: non sono solo brutte quelle
camice, sono davvero orribili! Non trattengo una faccia disgustata e lui fa
spallucce rimettendola a posto. Per fortuna in generale ha gusti migliori. Non
credo di averglielo mai detto ma il suo modo di vestire sempre così elegante mi
fa impazzire. In positivo, s’intende.
Teresa, basta pensare a Jane! Concentrati!
Tra non molto sarò costretta a tenere
sotto controllo un’azione di polizia non legale. Devo evitare sparatorie,
spargimenti di sangue e tutto quello che potrebbe seguirne. In pratica devo
controllare il solito casino ordito da Jane per risolvere un caso. E spero
vivamente che, per una volta, non ci siano morti di mezzo.
Leonardo inizia ad essere nervoso, dietro
il bancone, vicino alla cassa. Jane era sicuro che il pesce piccolo sarebbe arrivato
solo a fine giornata. Meno traffico, meno testimoni. E pare che Jane abbia
avuto ragione, come sempre. Infatti per tutto il giorno non si è visto nessuno
di strano. Io e lui abbiamo fatto un pic-nic sulla spiaggia e ci siamo goduti
il via vai di turisti mentre guardavamo le onde dell’oceano seduti al molo.
Avevamo sempre un occhio sul bazar ma tutto è rimasto tranquillo.
Ormai ci siamo. Me lo conferma una scarica
di adrenalina che precede l’inizio dei soliti folli piani di Jane.
Improvvisamente i sonagli alla porta
tintinnano e indicano l’ingresso di qualcuno. Jane si nasconde velocemente
dietro un manichino mentre io porto istintivamente una mano alla pistola che
tengo al sicuro in una enorme borsa di paglia. Un’idea di Jane, ovviamente. Non
mi ha nemmeno permesso di indossare i miei soliti abiti che lui definisce da
sbirra, questo perché avrei dato troppo nell’occhio vestita a quel modo su
una spiaggia per tutto il giorno. Ma io mi chiedo, cos’hanno di così sbagliato
i miei vestiti da lavoro? Cioè sono all’FBI, dannazione! È ovvio che sia
richiesto un certo marchio di professionalità e decoro. E solo perché una si
veste con camicia e pantaloni anche quando è in giro non deve necessariamente
essere etichettata come una poliziotta. Ma Jane ha un modo tutto suo di
scegliere i vestiti per le coperture, lo so bene. Così mentre do un’occhiata al
tipo basso con un cappello da baseball che è appena entrato, mi ritrovo anche a
maledire mentalmente Jane perché indosso un altro dei suoi vestiti: gonna
morbida appena sopra il ginocchio, mezze maniche e color albicocca tenue. Lo
strozzerò appena sarà finita tutta questa storia. Lo giuro!
L’uomo è guardingo e si avvicina al
bancone. Deve essere lui il nostro obiettivo. Vedo Leonardo impallidire e, con
uno sforzo immane, rimanere calmo riuscendo a non cercare con lo sguardo Jane o
me. Questo farebbe saltare completamente la copertura.
“Salve, Leonardo. Che cosa hai per me?”
L’uomo ha un accento strano. Sembra portoghese.
Perfetto, la multinazionale ha una sede in Brasile, il fatto che il pesce
piccolo abbia l’accento portoghese non è un male. Potrebbe servirci in seguito.
“Oh, salve. Io ho queste.” Leonardo va
dritto al sodo come Jane gli ha detto di fare. Trema appena e da un cassetto
nascosto sotto il bancone estrae un mazzo di una dozzina di carte di credito clonate
che sparpaglia sul bancone.
L’uomo rimane zitto per un attimo, con
calma si mette a raggrupparle facendone un mazzetto nella sua mano e poi scuote
il capo. “Tutto qui?” Ha una voce calma, dura.
Leonardo, al contrario, non ha più un filo
di voce. Annuisce appena e una gocciolina di sudore gli spunta alla tempia.
Dannazione! Non credo riuscirà a fingere
ancora a lungo. Jane gli ha spiegato come controllarsi ma i nervi del
pover’uomo sono al limite. Credo proprio che mi toccherà intervenire prima del
previsto. Do un’occhiata veloce a Jane che, come sospettavo, ha già lasciato il
suo nascondiglio. Si è sicuramente accorto anche lui che Leonardo è un pessimo
attore. Devo stare pronta.
“Non sono affatto soddisfatto di te,
Leonardo.”
“Lei ha ragione, signore, ma questa è
bassa stagione qui. I turisti arriveranno a frotte ma solo tra un mese.”
L’uomo, con un ghigno cattivo, afferra il
colletto della camicia di Leonardo e avvicina con prepotenza il suo viso al proprio
costringendolo a protendersi in malo modo sul bancone. A Leonardo sfugge un
gemito di terrore.
“Non mi importa nulla se è bassa stagione.
Né a me né tantomeno a tuo figlio, non sei d’accordo?” La voce è bassa ma
perentoria, senza la minima traccia di pietà.
Un fracasso improvviso fa trasalire l’uomo
che con un gesto veloce estrae un coltello dalla tasca posteriore dei jeans,
lasciando però andare istintivamente Leonardo per mettersi in posizione di
difesa nella direzione dalla quale è giunto il rumore.
È il diversivo. È
Jane. Ci siamo. Ora tocca a noi.
Eccolo che emerge da dietro un espositore
di souvenir mettendo in bella vista le mani che reggono una un portafoto e
l’altra una boccia di vetro di quelle con la neve con i paesaggi in miniatura
all’interno. Che razza di oggetti a scelto? Scuoto appena il capo.
“Oh, scusate. Non volevo disturbarvi. Ero
indeciso su quale dei due prendere come souvenir e mentre facevo una conta con
una filastrocca ho inavvertitamente urtato una mensola. Ripagherò il danno, signore,
non si preoccupi.”
Il nostro pesce piccolo rimane sempre
sull’attenti.
Jane ha una finta aria desolata con cui
tenta di scusarsi con Leonardo ma poi fa cadere il suo sguardo sul coltello e
il terrore gli si imprime sul volto. È davvero un ottimo attore, non c’è che
dire. Se non lo conoscessi così bene, direi che è spaventato sul serio. Ma sa
che ci sono io a proteggergli le spalle.
“Ehi, perché lei ha un coltello?” Jane fa
il finto tonto.
“Non si impicci e non le farò nulla.” Con
un ghigno strafottente e un’occhiata veloce a Jane, il nostro criminale capisce
che non tutto è perduto. A quanto pare non ritiene Jane un ostacolo all’altezza
di poterlo ostacolare. Sposta il coltello da una mano all’altra quasi fosse una
palla da baseball e fa guizzare il suo sguardo su entrambi gli uomini. Ci siamo
quasi. Sta abbassando la guardia.
“Ho un conto in sospeso da regolare con il
mio vecchio amico Leonardo e se lei farà finta di nulla e collaborerà, non le
succederà niente.”
Jane posa lentamente gli oggetti che ha in
mano e poi sgancia la bomba.
“Ehi, ma quelle cosa sono? Carte di
credito?”
Quando il nostro pesce piccolo aveva preso
il coltello aveva anche lasciato cadere le carte che ora sono sparpagliate a
terra tra lui e Jane.
Per un momento i due si guardano negli
occhi. “Non mi vorrete dire che avete rubato quelle carte?” Falsamente
scandalizzato, Jane si finge anche impaurito.
Ottimo. Il nostro uomo prorompe in un’altisonante
risata. “Lei forse non è così ingenuo come pensavo ma deciderò cosa fare di
entrambi. Ora, Leonardo, vai a chiudere l’ingresso, senza fare scherzi, sai
cosa intendo, mentre io aspetterò qui con il signor…?”
“Jane… Patrick Jane…”
“Bene, signor Jane. Potrei darle io
qualche dritta su cosa comprare come souvenir e nel frattempo mi dia la sua
carta.”
Jane nega con la testa, sempre fingendosi
impaurito.
“Non vuole? Guardi che gliela ridiamo. Leonardo
la passerà velocemente sotto uno scanner e poi lei avrà di nuovo la sua carta. Non
si deve preoccupare. È la prassi.”
L’uomo ha raccolto tutto il suo bottino da
terra senza smettere un attimo di tenere Jane sotto tiro con il coltello. Per fortuna
non ha una pistola altrimenti la cosa potrebbe sfociare davvero in tragedia. Evidentemente
è un criminale dei bassi fondi. Abituato alla strada e alle risse. Il che
depone a nostro favore nella riuscita dell’operazione. Con una pistola ho più
possibilità di riuscire ad intimorirlo se solo non prende un ostaggio.
Leonardo, dopo aver trafficato un po’ con
la chiusura dell’ingresso, ritorna al bancone sempre più cereo. Mi chiedo come sia
riuscito a cavarsela con quell’uomo le volte precedenti, senza sostegno alcuno.
Ritorno a concentrarmi sulla scena.
“Bene, Leonardo. A quanto pare abbiamo decisamente
un problema. Devo decidere cosa fare di te e del signor Jane che non vuole
acquistare nulla in questo splendido negozietto.”
“Se posso, io avrei una proposta da farle.”
Jane ora si sistema la giacca e ogni traccia di paura è scomparsa. Il suo
atteggiamento è rilassato ed è pronto ad entrare nel vivo del gioco. Spero in
bene.
L’uomo, appoggiato al bancone, lo guarda e
ride. “Lei avrebbe una proposta da fare a me? E quale sarebbe?”
“Beh, lei lascia in pace Leonardo, dà a me
quelle carte clonate e in cambio noi non la consegneremo alla polizia locale.”
Un guizzò di paura brilla per un attimo
negli occhi del criminale quando si vede spiattellare da Jane la storia delle
carte clonate e della polizia. Forse è decisamente un pesce troppo piccolo quello
con cui abbiamo a che fare. Spero solo che, stimolato nel modo giusto,
ci possa portare a ritrovare il figlio di Leonardo.
Riprende una parvenza di autocontrollo e
si rigira il coltello tra le mani. “Chi le ha detto che queste carte sono
clonate?”
“Lei, quando mi ha chiesto la mia per
passarla in uno scanner. Non sarò un genio dell’informatica ma mi pare che
quell’aggeggio che si usa per pagare con la carta non si chiami affatto così.”
L’uomo sorride appena in risposta al
sorriso tranquillo di Jane. “A quanto pare è meno ingenuo di quel che sembrava
ad una prima occhiata. Beh, questo mi faciliterà sul da farsi con lei.”
“Ehm, Lisbon? È il
momento.”
Jane da una finta occhiata oltre le spalle
dell’uomo che si gira colto alla sprovvista mentre io, con un balzo, mi fiondo
accanto a Jane e mi frappongo tra loro facendo da scudo tra Leonardo e Jane e
il malvivente. Gli punto addosso la pistola mentre lui è ancora girato di
spalle.
“Lasci andare il coltello immediatamente e
metta le mani sulla testa. Poi si volti lentamente e avrà salva la vita.” Forse
ho un po’ esagerato. Ma non mi importa.
“Ok, ok. Farò come dice.”
L’uomo lascia cadere a terra il coltello e
si gira con le mani in alto. Ha ceduto troppo facilmente. C’è qualcosa che non
va. Lo tengo sotto tiro e facendolo stendere a terra lo ammanetto. Sento un
sospiro rumoroso di sollievo venire da Leonardo che ritorna finalmente a
respirare. Mentre guardo Jane che pare preoccupato. Lo so a cosa sta pensando. Anche
lui pensa che sia stato troppo semplice.
“Jane e ora? Potrebbe avere un complice
fuori.”
“No, niente complice. Guarda come trema. Ora,
caro il mio signor clonatore di carte,” gli si avvicina mentre io lo
spingo a forza su una sedia li vicino “lei ci dirà dove trovare il figlio di
Leonardo e in cambio non la consegneremo alla polizia.”
“Ma voi chi siete?”
“Lui lo conosci già e io sono l’agente
Lisbon, FBI.” Gli mostro il distintivo che estraggo dalla borsa di paglia. Devo
sforzarmi di non arrossire quando quell’uomo mi guarda quasi incredulo. Di certo
non gli era mai capitato di vedere un agente vestito a quel modo. Vedo Jane
ridere sotto i baffi e godersi la scena. Jane, questa me la paghi! Comunque il
nostro uomo guarda meglio il distintivo e non ha dubbi. Non è decisamente falso
come le sue carte e poi io lo tengo ancora sotto tiro con la pistola.
“Ok, ok. Si calmi signora… ehm… agente… io
posso spiegare tutto.”
Jane si accovaccia di fronte a lui. “Allora
parli.”
In meno di dieci minuti il nostro pesce
piccolo ci dice ciò di cui abbiamo bisogno. A quanto pare Kevin è sempre stato
in un vecchio edificio abbandonato appena fuori dal centro della città. L’uomo
che abbiamo preso si chiama Pablo. È così spaventato all’idea di andare in
galera che non si chiede nemmeno se tutto quello che stiamo facendo sia legale.
L’FBI rappresentato da me, anche se in vesti a dir poco inusuali, l’ha davvero
intimorito. Adesso però devo mettermi in contatto con la polizia locale per
verificare che davvero Kevin si trovi dove ci è stato detto. Pablo protesta dicendo
che gli avevamo promesso niente polizia ma, considerando che ha a che fare con i
federali, si zittisce subito.
Dopo poco una volante della polizia di
Islamorada si presenta al negozio di Leonardo, lui li fa entrare mentre io
spiego la situazione.
L’agente in servizio, Gary Mitchell, ha
già mandato una pattuglia a controllare il capannone che ci è stato indicato come
luogo di reclusione di Kevin. Uno dei suoi prende in custodia Pablo e lo scorta
fino alla sua macchina.
“Agente Lisbon, era da un po’ che
credevamo si svolgessero affari loschi dietro questo bazar.” Mitchell guarda di
sott’occhi Leonardo che abbassa la testa, intimorito e frustrato. Farò di tutto
per fargli ottenere l’immunità per la sua collaborazione.
“E adesso avrete l’uomo che confesserà
tutto.”
“Avete solo la punta dell’iceberg, agente
Mitchell. Scommetto che Pablo fa parte della piccola criminalità locale e che
quindi sia stato assoldato per tenere sotto controllo il signor Leonardo da
qualcuno che probabilmente non avrà mai neanche visto” interviene Jane.
“E lei chi sarebbe? E come fa a dirlo?”
“Ah, Patrick Jane, piacere. Consulente dell’FBI.
E gli dico questo perché ho notato che quando ha visto Pablo lo ha, come dire,
riconosciuto. Presumo che già lo tenevate d’occhio o che, per lo meno, sospettavate
di lui.”
Mitchell dirige uno sguardo incredulo
prima su Jane e poi su di me. Jane sorride mentre io faccio spallucce. “È un
consulente” ribadisco.
“Sì, in effetti abbiamo già avuto modo di
ospitare Pablo nella nostra prigione locale. Ma credo che questa volta ci
resterà più a lungo.”
“A meno che non gli proporrete un buon accordo.
È stato piuttosto mansueto nel collaborare. Ha una finta facciata da duro ma
credo che abbia avuto un passato difficile. È ancora giovane e potrebbe cambiare
direzione se pressato a dovere. Capisce cosa intendo?”
Io ho capito al volo, forse l’agente Mitchell
un po’ meno. Mi accingo ad essere più esplicativa di Jane.
“Il signor Jane pensa che potrebbe essere
una buona fonte di informazioni per farvi scoprire un traffico illecito di
carte clonate e di chissà cos’altro ma, se posso darle un consiglio, agente
Mitchell, lasci che mi metta in contatto con la sede dell’FBI di Miami e che il
caso passi a loro. Le assicuro che la storia è più torbida di quanto sembra.”
Mitchell corruga un attimo la fronte: è indeciso
se prendere sul serio le parole di un’agente dell’FBI in vestitino color
albicocca. Lo so che è così, lo vedo nel suo sguardo. Dopotutto qualcosa ho pur
imparato da Jane in tutti questi anni. Maledetto Jane e il suo vestito di
copertura!
“Ok, agente Lisbon. Faccia pure. Rimango a
sua disposizione. E per il signor Leonardo come la mettiamo?”
Fissiamo tutti e tre Leonardo che, ancora
dietro il bancone si tormenta le mani sul suo destino e su quello del figlio.
“Agente Mitchell. Abbiamo trovato il
ragazzo nel magazzino. Kevin. Lo stanno portando all’ospedale ma sta bene. Si rimetterà.
È solo un po’ provato dalla prigionia.” Un poliziotto ci informa su quando gli
è stato appena comunicato dalla voltante.
Leonardo fa un sospiro di sollievo. “Se
dovrò andare in prigione per complicità in clonazione di carte di credito, sconterò
la mia pena. Ma l’importante è che ora mio figlio stia bene. Posso andare a
vederlo?”
È ammirevole l’amore di un padre verso suo
figlio. L’agente Mitchell tenta di mantenere una maschera di austero controllo
ma acconsente alla richiesta di Leonardo che viene scortato dal poliziotto fuori
dal negozio.
“Ah, signor Jane, agente Lisbon… grazie,
di tutto. Davvero!”
Io e Jane gli sorridiamo.
“Non preoccuparti, Leonardo. Andrà tutto
bene.” Jane gli fa l’occhiolino prima di essere ricambiato con un sorriso
riconoscente.
Io e Jane siamo seduti al bar dell’hotel a
bordo piscina. Lui beve un thè mentre io mi concedo una birra. Finalmente si è
conclusa quella che si è decisamente rivelata una lunga giornata. Dopo l’uscita
di scena del signor Leonardo, ho contattato Abbott. L’ho tenuto al telefono
mezz’ora per spiegargli l’intera situazione e so che ora lui dovrà affrontare
un po’ di grane per il fatto che io abbia condotto un’azione di polizia pur
essendo in congedo, ma so che se la caverà. Io e Jane abbiamo appena iniziato a
smantellare qualcosa di grosso che ora sarà un problema della sede dell’FBI di
Miami. Insomma, tutto è bene quel che finisce bene.
“Io non direi proprio così.”
Guardo Jane incuriosita.
“Cosa? Io non ho detto nulla.”
“Ma stavi pensando che, nonostante tutto,
la situazione si è conclusa per il meglio e che ora l’FBI di Miami farà la sua
parte.”
“Ok, stavo pensando quello, te lo concedo.”
Non posso non alzare gli occhi al cielo mentre butto giù un sorso di birra. “E
comunque con cosa non sei d’accordo con me?”
“Beh, diciamo che il detto tutto è bene
quel che finisce bene è riduttivo. Io aggiungerei coppia che vince non
si cambia. Cosa ne dici?”
Deglutisco e arrossisco. Ha ragione, lo
so.
“Credo proprio di sì, anche se hai
qualcosa di cui farti perdonare.” Il mio sguardo indugia un po’ troppo su di
lui mentre la mia arrabbiatura per avermi costretta all’umiliazione di fermare
un criminale vestita come se fossi Alice nel paese delle Meraviglie, scoppia
come se fosse una bolla di sapone. Ma poi, visto che lui conosce perfettamente
il modo con cui deve farsi perdonare, improvviso un broncio risentito. Voglio,
anzi, pretendo che lui si faccia perdonare.
Incrocio le gambe mentre la gonna dell’ennesimo
vestitino - questa volta di un color lillà – scivola leggermente di lato
scoprendomi un po’ troppo la coscia. Vedo Jane che si sistema meglio sulla sedia
ma so che non gli è sfuggito nulla. Allora sorrido.
“Di cosa dovrei farmi perdonare di
preciso?” cerca di essere disinvolto mentre sorseggia il suo thè a piccoli
sorsi.
“Se non mi ricordo male dovevi farti
perdonare perché fai sempre il saccente leggendomi nella mente senza permesso. Cosa
che hai fatto anche poco fa. E poi io aggiungerei anche che mi hai
fatto fare un arresto vestita in modo improbabile.”
“Ah, tutto qui? Pensavo peggio” si sporge
sulla sedia e mi si avvicina. “Ma la vuoi sapere la verità, Lisbon?”
Cerco
di rimanere calma anche se era da un
po’ che non mi stava più così vicino a quel modo.
Mi era mancato. L’adrenalina della giornata di oggi è
stata di certo prodotta e impiegata in altro modo.
“Sarebbe?”
Lascia scivolare lentamente e con non
curanza una mano sulla mia coscia appena scoperta.
“Mi piace troppo vederti vestita così.”
So di essere arrossita all’inverosimile. Glielo
leggo negli occhi e il suo sorriso si allarga ancora di più.
“O-ok… g-grazie… ma domani ho intenzione di
ampliare il mio guardaroba con dei pantaloncini. Non vorrei essere etichettata
come la donna dai mille vestiti. E tu mi accompagnerai a fare shopping.”
“D’accordo, agente Lisbon. Così sarò perdonato?”
“Neanche per idea! Lo sai benissimo come
farti perdonare.” E, spavalda come non mai, lo prendo per mano e lo trascino
con me fino alla nostra suite. Domani so per certo che ne combinerà un’altra
delle sue e dovrà farsi perdonare di nuovo. Ma per oggi voglio riscuotere il
mio credito.
To be continued...
Angolo Mirty_92
Buonsalve a tutti voi!
Il caso è risolto. O meglio, il piano è
stato messo in atto e il caso vero e proprio sarà affidato ad altri. Non volevo
che la vacanza dei nostri protagonisti fosse troppo thriller anche perché all’inizio
della settimana stagione Lisbon dice a Jane che è "ora di tornare nel mondo
reale." Per cui ho pensato che non dovesse essere successo chissà cosa nel
periodo di congedo di Lisbon. Solo un piccolo “casuccio” giusto per la trama
della long. Spero vi sia piaciuto e… a presto!
Mirty
|
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Capitolo 9 *** 9.Il nostro paradiso blu ***
kkk
Angolo
Mirty_92
Ben ritrovati
a tutti. Mi prendo qui un piccolo spazietto per dire due parole.
Ultimo
capitolo? Non lo so ancora.
In
realtà forse penso si possa aggiungere qualcosina per potersi agganciare meglio
all’inizio della settima stagione ma, come ho già detto, non ho ancora deciso
per cui, per il momento, contrassegnerò la fic come completa.
Per il
resto vi dico solo che mi è piaciuto molto scrivere questo capitolo, anche se
molto breve, soprattutto per la parte introspettiva finale che mi sembra possa descrivere
al meglio il carattere dell’amore sincero tra Jane e Lisbon.
Beh,
è un mio punto di vista, naturalmente.
Spero
che lo apprezziate tanto quanto me.
Buona
lettura e… alla prossima,
Mirty
9. Il nostro paradiso
blu
Sento qualcosa di morbido e leggero che mi
accarezza il viso. Non riesco a trattenere un sorriso quando realizzo che sono le
labbra di Jane che stanno percorrendo ogni singolo centimetro della mia guancia
destra depositandovi dei tenui baci. Apro appena gli occhi e noto che è ancora
buio intorno a noi.
“Buongiorno.” La sua voce è un sussurro
accattivante appena accennato.
Mi rigiro fra le sue braccia e mi perdo
nei suoi occhi rimanendo imbambolata. Accidenti a Jane! Non so come faccia ma
su di me, in questi momenti, ha un effetto devastante. Eppure non è la prima
notte che passiamo insieme. Anzi, questa è stata l'ultima, almeno lo è qui a
Islamorada, ma spero che questo idillio durerà anche quando saremo rientrati ad
Austin. Che strano! Non ne abbiamo ancora parlato.
“Tutto bene? Mi sembri pensierosa.” Jane
mi guarda curioso. Strano che non abbia capito a cosa sto pensando. O forse fa
solo finta di non averlo capito.
“Tutto ok. Ma che ore sono? È ancora
buio.”
“In effetti manca ancora un po’ all’alba
ma siccome è il nostro ultimo giorno qui volevo farti una sorpresa.”
Mi scappa un sospiro di rammarico. È
davvero il nostro ultimo giorno qui. Improvvisamente non mi va più di tornare a
casa.
“Una sorpresa prima dell’alba?”
“Sì, avanti, pigrona. Andiamo!” Mi fa alzare
e mi accorgo di opporre ben poca resistenza. Ho ancora sonno e il motivo è
colpa di Jane. Cos’è che continuo a ripetere? Che è sempre colpa di
Jane? Beh, sì! È davvero sempre colpa sua. È lui che ha sempre uno o più
motivi per farsi perdonare. Anche se poi lo sa fare piuttosto bene, devo
ammetterlo. Ma ora, svegliata prima dell’alba, è normale che abbia ancora
sonno, avendo dormito poco, giusto?
“Oh, dove mi porti Jane?”
“Te l’ho detto. È una sorpresa. Prendi
questa.” Mi lancia una sua camicia mentre lui ha già indossato un paio di
pantaloni e si sta allacciando una camicia nuova.
“E cosa dovrei farmene, scusa?” Me la
rigiro fra le mani e mi accorgo che è la stessa che gli ho sfilato la sera
prima. Un improvviso rossore tradisce i miei pensieri sulla nostra ultima notte
insieme. È un ricordo così intimo e passionale che ancora mi fa scorrere un
brivido di piacere.
Jane se n’è accorto perché lo vedo cercare
di nascondere un sorriso ma decide di non dire nulla. Torno a concentrarmi
sulla camicia.
“Devi indossarla. Non hai detto tu che sei
stanca di andare in giro con i vestiti che ti ho comprato? Una camicia non è un
vestito.” Mi risponde con un’alzata di spalle e ha quel tono dell’ovvio che mi
irrita, ma non abbastanza da farmi innervosire. Almeno non ora perché, devo
ammetterlo, il fatto che voglia farmi una sorpresa mi incuriosisce tanto quanto
mi spaventa, in realtà. Sono un mix di sentimenti contrastanti, me ne rendo
conto. Ma con Jane è sempre stato così. È il suo modo di fare che finirà per
mandarmi in pappa il cervello. Ma non posso farne a meno.
“Dai, Lisbon. Non farti pregare. Sbrigati
o tutto l’albergo ti vedrà uscire con indosso solo una camicia. È questo che
vuoi?”
Sgrano gli occhi di fronte alla sua aria scherzosa.
“Stai scherzando, spero.”
È
già pronto sulla porta. Beh, non che a lui serva molto per essere pronto e
perfetto, aggiungerei. E poi chissà da quanto tempo è che è sveglio a
progettare quello che ora vuole fare.
“No, sono serissimo.”
“Jane! Ma andiamo! Non posso andarmene in
giro così!” Non posso non protestare. D’accordo che non voglio più mettere un
vestito ma non posso uscire solo con una camicia che mi copra l’intimo e per di
più una sua camicia anche se è grande – per mia fortuna – e mi arriva a
coprire buona parte del sedere – per una volta sono contenta di non essere una
stangona come Van Pelt – . Ma è comunque indecente! Sono un’agente dell’FBI,
insomma! Ho una dignità da salvaguardare! Mentre lui è così… così… impeccabile.
“Suvvia, Lisbon. Facciamo questa pazzia. È
il nostro ultimo giorno qui. Fidati di me.”
Ecco, la sua famosa frase. Fidati di me.
Quando dice così non promette nulla di buono.
Faccio finta di pensarci e alzo gli occhi
al cielo ma in realtà ho già deciso. Mi sono fidata in passato, mi fido ora e
mi fiderò ancora e ancora di lui in futuro.
“Oh, d’accordo Jane. Arrivo.” Sbuffo
esasperata mentre copro la mia biancheria intima nera indossando la camicia
bianca di Jane. Cerco di abbottonarla in fretta prima che lui mi prenda la mano
e, con fare circospetto e silenzioso, mi fa uscire dalla stanza.
Corriamo in punta di piedi lungo il corridoio e
poi giù dalle scale. C’è ancora il ragazzo che fa il turno di notte alla
reception. Maledizione! Mi fermo di botto e per un attimo Jane non mi strappa
il braccio. Ancora mi teneva la mano.
Mi guarda perplesso.
“Che hai, Lisbon?” sussurra piano.
“C’è il ragazzo della reception. Che
facciamo? Ci vedrà!”
Sorride e scuote il capo. “Marcelo non si
accorgerà neanche di noi. Andiamo.”
Mi stringe la mano incoraggiante e proprio
mentre riprendiamo a camminare, Marcelo – così l’ha chiamato Jane – si gira per
prendere chissà cosa alle sue spalle.
Tre falcate veloci di Jane, cinque dei
miei passi e siamo fuori. Poi, improvvisamente euforica per non essere stata
scoperta, inizio a correre come se fossi una bambina di 5 anni. E quel che è
peggio è che sono io questa volta a trascinarmi dietro Jane. Percorriamo tutto
il sentiero lastricato fino all’ingresso del resort e poi faccio un salto
lasciandomi quasi sfuggire un urletto di esultanza.
Jane mi guarda e non smette di sorridermi.
“Ti sei divertita, agente Lisbon?”
Cerco di ricompormi un momento notando che
la camicia nella corsa si è sollevata lasciando scoperto un po’ troppo.
“Mi sono solo lasciata prendere un po’ la
mano” cerco di giustificare il mio atteggiamento infantile. Accidenti, non so
cosa mi sia preso.
Jane si avvicina fino a poggiare la sua
fronte sulla mia. “Io penso che ogni tanto non sia male, lasciarsi un po’
andare. Con me non devi trattenerti, lo sai.”
“Perché me lo rinfaccerai a vita, vero?”
lo guardo sospettosa.
“Esatto, agente Lisbon” ridacchia mentre
gli sferro un piccolo pugno sulla spalla. Dannato, Jane!
“Ahi. Sempre questo brutto vizio di
colpirmi quando dico la verità.”
Sbuffo ma gli sorrido.
“Dai, andiamo o la mia sorpresa sarà
rovinata se aspettiamo ancora un po’.”
Siamo arrivati, finalmente. Io e Jane siamo
sbucati in una caletta appartata poco lontana dal nostro resort. Privata,
presumibilmente, perché mi ha costretta a passare tra cespugli di rose ed eucalipti,
scavalcando cancelletti chiusi. Mi sono trattenuta dall’imprecare quando mi
districavo tra gli arbusti mentre la sua camicia si impigliava ovunque. Per
fortuna il cielo andava a poco a poco schiarendosi e iniziavo decisamente a
vedere meglio. Il sole non è ancora sorto e ora Jane se ne sta in piedi sulla
spiaggia, non troppo vicino alle onde dell’oceano con lo sguardo rivolto verso
l’orizzonte.
Senza dire nulla mi avvicino a lui.
Improvvisamente un ricordo mi attraversa la
mente con una chiarezza disarmante: un tramonto, Jane che si ferma per guardarlo
ed io lì, accanto a lui proprio come ora. Solo in un tempo diverso e con una disposizione
d’animo tutt’altro che tranquilla. Era la sera dell’incontro stabilito da Jane
con i possibili John il Rosso. Allora lui mi aveva giocata per l’ennesima volta,
facendomi credere di aver accettato il fatto che io stessi con lui quando
avrebbe incontrato i sospettati. Ma poi mi aveva abbandonata di fronte a quel
tramonto bellissimo dopo avermi ringraziato per tutto quello che avevo fatto
per lui in tutti i nostri anni di conoscenza. Mi ero emozionata quando mi aveva
detto che io non avevo idea di quello che avevo significato per lui. Parecchie volte,
dopo allora, mi sono chiesta se Jane fosse stato davvero sincero quel giorno e
solo ora, mentre vedo che il sole rosso fuoco emerge improvviso dal nulla colorando
le acque lontane dell’oceano, sono certa che sì, a modo suo, era stato sincero.
Cauto, forse timoroso perché stava svelando qualcosa di sé che lo avrebbe reso
più vulnerabile in un momento tanto delicato e pericoloso, ma sincero come solo
con me sa di poter essere. Perché con me sa di poter essere sé stesso.
“A cosa pensi?” mi si è avvicinato piano e
mi ha cinto la vita con un braccio attirandomi a sé. Appoggio la mia testa alla
sua spalla.
“A te” e sono sincera.
Mi alza il mento tra pollice e indice e mi
fissa. Ricambio lo sguardo e lascio che mi legga dentro. Lo so che ha capito. Lo
so che sa quale ricordo la mia mente ha appena rievocato. E il fatto che sia un’alba
e non un tramonto che ora stiamo condividendo insieme è più significativo che
mai. Quel tramonto era segno che tutto stava per finire mentre questa è l’alba
di quello che, spero per me e per lui, sarà l’inizio di una nuova vita. Insieme.
Mi bacia dolcemente, piano, lasciandomi il
tempo di assaporarlo davvero. Senza alcuna fretta e senza smettere di baciarci
scivoliamo lentamente sulla sabbia e lascio che lui si stenda sopra di me. Questa
volta non ha nulla di cui farsi perdonare e io non ho vinto alcuna scommessa. Non
voglio condurre il gioco perché questo non è mai stato un vero gioco per me o
per lui. Questo momento è per noi un semplice trovarsi mentre prima architettavamo
modi di scoprirci amanti per rimediare ad imbarazzanti anni di finta amicizia e
di troppa paura per lasciarci andare davvero ai nostri sentimenti più profondi.
La passione della nostra prima volta è scemata lasciando spazio a qualcosa di
più grande, profondo e maturo. Lasciando spazio al nostro essere finalmente
noi. E mentre le onde dell’oceano lambiscono appena i nostri piedi nudi, prima
di abbandonarmi alla realtà dei nostri dolci sospiri, mi ritrovo a pensare che
questo non è un sogno. Questo è il nostro paradiso blu. *
*Il titolo e la parte conclusiva sono volutamente
e ovviamente un riferimento all’episodio 6x09, Il mio paradiso blu.
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