Eroi dell'Olimpo - Rivisitata

di platinum_rail
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Eroe Perduto ***
Capitolo 2: *** Corna come il Diavolo ***
Capitolo 3: *** Run Boy Run ***
Capitolo 4: *** Sangue nell'Acqua ***
Capitolo 5: *** Macchina da Guerra ***
Capitolo 6: *** Il Ladro di Fulmini ***
Capitolo 7: *** Il Marchio di Atena ***
Capitolo 8: *** Calamità ***
Capitolo 9: *** Sussurri nel Buio ***
Capitolo 10: *** Furia Cieca ***
Capitolo 11: *** Requiem ***
Capitolo 12: *** La Casa di Ade ***
Capitolo 13: *** Fiamme d'Inferno ***
Capitolo 14: *** Dinastia ***
Capitolo 15: *** L'imperfezione di un Eroe ***



Capitolo 1
*** L'Eroe Perduto ***


 

L'eroe perduto


-Ragazzi, solo a me quelli sembrano dei cavalli con le ali? -
All’inizio Piper pensò che Leo avesse davvero battuto la testa.
Poi la ragazza puntò lo sguardo in alto, e vide una sagoma candida che si avvicinava in volo da est.
Rimase a bocca aperta, quando riuscì a riconoscere due bianchissimi cavalli alati, che trainavano una biga a mezz’aria.
-I rinforzi! - esclamò Jason quasi meravigliato. -Hedge mi aveva detto che una squadra di prelevamento sarebbe venuta a prenderci. -
Il ragazzo, che sembrava essersi improvvisamente rianimato, si avviò a grandi falcate verso la fine del ponte.
Piper sussultò allarmata: -Jason?! –
-Venite! – urlò l’altro di rimando, ma senza voltarsi.
-Una squadra di prelevamento? - disse Leo, rimettendosi in piedi a fatica. - Non suona rassicurante. –
-Non sappiamo nemmeno dove vogliono portarci - aggiunse Piper a bassa voce, prima di voltarsi nuovamente verso il suo ragazzo, che ormai era a diversi metri da loro. -Jason, non è sicuro! -
Ma vedendo che l’altro non si sarebbe voltato, Piper si scambiò un’occhiata disarmata con Leo.
-Andiamo. – sospirò il ragazzo. -Cerchiamo quantomeno di restare insieme. –
Piper si morse nervosamente il labbro, prima di correre al seguito di Jason. Mentre si affrettava verso l’estremità del ponte, la ragazza si ritrovò suo malgrado ad osservare con timida ammirazione la biga che si avvicinava sempre di più a loro.
I cavalli spalancarono le lunghe ali per rallentare, e i muscoli forti ed eleganti si tesero sotto al manto candido prima che atterrassero pestando regalmente gli zoccoli sul vetro. La biga al loro seguito batté rumorosamente a terra con uno stridio.
Piper realizzò solo allora che c’erano due giovani a bordo del mezzo: una ragazza bionda, che scese dalla biga non appena questa toccò terra, e un ragazzo alto e dai capelli neri che invece rimase e tenere le redini dei pegasi.
Piper si bloccò al fianco di Jason, il quale non osò fare un'altro passo, ed entrambi mantennero lo sguardo puntato nervosamente sulla giovane che si era fermata a debita distanza di fronte a loro.
Piper pensò che fosse bellissima, con quel viso femminile e solenne. Aveva degli stupendi e riccissimi capelli biondi, e la pelle abbronzata dal sole. I suoi occhi grigi come l’argento esprimevano un’intelligenza e regalità invidiabili. Piper occhieggiò con ansia al pugnale che la ragazza portava sfacciatamente legato alla cintura.
-State bene? – chiese la sconosciuta con decisione, ma non sembrava ostile.
-Chi siete? – ribattè Leo, teso sulla difensiva.
La bionda fece per rispondere, ma in quel momento il ragazzo che era arrivato con lei li raggiunse.
Piper concentrò lo sguardo su di lui.
Era alto e muscoloso, con i capelli neri e la pelle bronzea, aveva gli occhi cerulei e cangianti come le acque del mare. Aveva un viso particolarmente ammaliante, dai lineamenti virili seppur affilati, e Piper si trovò quasi ipnotizzata dal suo sguardo.
Era probabilmente il ragazzo più bello che avesse mai visto dopo Jason.
Aveva però una cicatrice sull’occhio sinistro, che gli segnava la pelle dal sopracciglio fino alla guancia, e che senza intaccare l’iride risaltava però in rilievo, bianca come avorio.
Era un particolare che non aveva mai osservato su un ragazzo tanto giovane.
Il ragazzo sfoderò un ghigno spaventosamente simile al sorriso malizioso e furbesco che Piper aveva sempre visto dipinto sul viso di Leo.
-Io sono Percy. – si presentò lui. -E lei è Annabeth. Siamo venuti a prendervi, ci ha chiamato Hedge. –
-Il Coach è stato rapito. – disse Leo. -Da quelle nuvole diaboliche. -
-I venti. 
Piper si voltò a guardare Jason nell’istante in cui lui parlò, e non poté impedirsi di guardarlo con tristezza, frustrazione persino. Chi sei?
Annabeth puntò a sua volta gli occhi su di lui, e sembrava stupita nonostante il suo sguardo fosse rimasto inflessibile come acciaio.
-Quello è il loro nome latino. – precisò, ma senza cattiveria. -Che è successo? –
Jason si prese l’onere di raccontare, per la gioia di Piper, e lei rimase ad osservare i due ragazzi con attenzione.
Pensò che dovessero avere forse uno o due anni in più di loro, ed entrambi indossavano delle magliette arancioni sopra ai jeans slavati. Il ragazzo, Percy, aveva un fodero di pelle nera legato diagonalmente alla schiena, e l’elsa bronzea della spada che ci giaceva all’interno era visibile oltre la sua spalla.
Annabeth fu la prima a parlare una volta che Jason finì il racconto.
-Non vorrei suonare scortese, ma tu sei strano. –
Jason la guardò confuso, ma non ebbe tempo di protestare.
-Sì vedi, il Coach ci aveva detto di aver trovato solo due mezzosangue, e dalla descrizione tu non sei uno di quelli. E ti assicuro che uno che riesce a sconfiggere degli anemoi con tanta facilità non può essere un semidio che passa inosservato. Poi con questa storia della memoria e del latino… -
Piper non capì granché del discorso della ragazza, ma quel poco che comprese le fece ribollire il sangue nelle vene dall’indignazione.
-Ci hai appena dato dei mezzosangue?! –
Ma nessuno sembrò badare al suo commento.
Percy si avvicinò invece all’orecchio della bionda accanto a lui, gli occhi che studiavano attenti il cielo.
-Annabeth, dobbiamo portarli via. - disse il ragazzo, a voce abbastanza alta perché anche gli altri lo sentissero. -Stanno per tornare. -
Annabeth si voltò a guardarlo per un’istante, prima di annuire e voltarsi verso la biga.
Leo sembrava più confuso che mai: -Di che state parlando? Dove andate? –
Percy lo guardò, e Piper fece fatica e leggere la sua espressione.
-Ascoltatemi. – disse lui velocemente. -Dobbiamo portarvi al Campo Mezzosangue, dove saremo tutti al sicuro e dove potremo discutere di quanto successo. Non vi faremo del male, vi spiegheremo tutto e bla bla bla. –
Nessuno dei tre si mosse.
-Beh? Guardate che sta per crollarci il ponte sotto ai piedi. –
-Come possiamo sapere che quello che dici è la verità? – si fece avanti Jason.
-Non potete. – rispose il corvino sorridendo. -Ma con tutto il dovuto rispetto, non credo abbiate alternative migliori, o sbaglio? –

-Ragazzi, che sballo! –
Erano a bordo della biga in volo da forse ore, oppure solamente pochi minuti, Piper non avrebbe saputo deciderlo.
Leo sembrava l’unico a godersi il viaggio, sporto meravigliato a guardare le nuvole che sfrecciavano sotto di loro, mentre Piper, insieme a Jason, si era rannicchiata in un angolo con le ginocchia strette al petto.
Era spaventata, e così scossa dai recenti eventi da non riuscire a tranquillizzarsi nonostante la gentilezza di Annabeth e Percy.
-Potete ricordarci dove ci state portando? – chiese lei.
Percy era in piedi, appoggiato al bordo ricurvo della biga con Annabeth al fianco, e quando si voltò verso di lei sorrise.
-Al Campo Mezzosangue, un luogo sicuro per quelli come noi. – spiegò brevemente.
Aveva un accento particolare e piuttosto marcato, uno di quelli del nord. New York, forse.
-Vuoi dire semidei? – chiese improvvisamente Jason. -Per metà dei e per metà mortali? –
Piper lo guardò confusa, ma Jason non le rivolse che una veloce occhiata.
-Tu sai un sacco di cose eh? – gli rispose Percy. -Comunque, sì, per noi semidei. –
-Quindi mi state dicendo che mio padre è un dio? – chiese Leo. -Questa mi mancava oggi. –
Piper non seppe se l'amico fosse sarcastico oppure sinceramente poco impressionato dalla notizia. Lei stessa avrebbe trovato l'informazione assurda in qualunque altro momento, ma dopo tutto quello che aveva visto quel giorno le sembrava la cosa meno disturbante tra tutte.
Fece per parlare.
Ma si fermò, quando sentì un tuono rimbombare nel cielo con forza preoccupante, tanto che lo sentì riverberarle tra le ossa.
E subito dopo, un fulmine si schiantò sulla biga, mancandola di pochissimi centimetri. L'intero mezzo venne scosso e si inclinò pericolosamente verso sinistra. Piper scattò in piedi dallo spavento, ma rimase ad osservare quasi incantata il fuoco che ghermiva il legno.
-La ruota sinistra va a fuoco! – urlò Jason, prendendole il braccio e tirandola via dal lato sinistro della biga. Piper sentì il vento fischiarle dolorosamente nelle orecchie.
Si guardò alle spalle, e vide delle ombre scure nell’aria, gli stessi spiriti che li avevano attaccati prima. Eppure stavolta sembravano dei cavalli impalpabili che correvano col corpo percorso dall’elettricità di un fulmine.
-Ma prima erano… -
-Gli anemoi possono cambiare forma. – la informò Annabeth alle sue spalle. -Tenetevi stretti, sarà un atterraggio difficile. –
Piper si strinse al legno liscio del bordo della biga, accovacciandosi e nascondendo la testa quanto più riusciva.
Sentì Percy urlare qualcosa ai pegasi, e i cavalli alati scattarono verso il basso.
Piper non vide nulla per alcuni secondi.
Quando tornò la luce, alzò appena la testa, e vide sotto di loro una distesa di prati e colline, un grande lago che scintillava sotto al sole estivo e delle strade di pietra chiara che si snodavano dolcemente sulla terra.
Piper osservò a bocca aperta la valle che si estendeva sotto di loro, beandosi per un’istante dell’aria calda che le sferzava il viso.
Ma purtroppo dovette presto ricordarsi della biga che cigolava pericolosamente sotto ai suoi piedi, e in quell’istante si rese conto che i pegasi stavano faticando a tenerla in volo. Avrebbe voluto vomitare.
-Un ultimo sforzo ragazzi! Puntate al lago! – urlò Percy, e Piper pensò stranita che stesse di nuovo parlando ai pegasi. Ma sembrarono dargli ascolto, perché puntarono dritto verso l’acqua, ma senza riuscire a planare.
Poi Percy fece qualcosa che le fece mancare il fiato nei polmoni.
Il ragazzo sfilò con incredibile velocità la spada dal fodero che aveva sulla schiena, come se non avesse fatto altro nella sua vita, e con un movimento tanto fluido e rapido da essere difficile da seguire con lo sguardo tagliò i finimenti che legavano i pegasi alla biga.
Senza i due animali a sostenerli precipitarono verso il lago, veloci abbastanza per non uscirne vivi.
Piper urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Poi Percy tese un braccio davanti a sé e lei sentì un contraccolpo sotto di loro, qualcosa che bloccò la loro caduta.
Ci fu un secondo di silenzio, e lei aprì piano gli occhi. Quando osò sporgersi, vide un’enorme colonna d’acqua candida che li sosteneva avvolgendosi intorno ai lati della biga come un serpente, accompagnandoli verso il basso e sempre più vicini alla riva.
Piper si voltò a guardare Percy incredula: gli occhi del ragazzo brillavano.
Pochi minuti dopo la biga attraccò sulla sponda del lago, e Piper scese immediatamente, rassicurata dalla solidità del terreno sotto di lei.
Ma quando alzò gli occhi da terra, sussultò.
In pochi istanti, sulla riva si erano radunati una quarantina di ragazzi.
I più piccoli dovevano avere forse nove anni, i più grandi diciotto, e tutti portavano delle magliette arancioni addosso. Lei li osservò incredula.
-Percy, Annabeth! - un ragazzo con larco e faretra sulle spalle si fece largo in mezzo agli altri. -Vi avevo detto che potevate prendere in prestito la biga, non che potevate distruggermela!–
Piper sentì i suoi compagni avvicinarlesi alle spalle, ma non distolse gli occhi agitati dalla folla di fronte a sé.
-Scusa Will. – disse Percy avvicinandosi a lui con Annabeth al fianco. -Prometto che te la farò riparare. –
Il ragazzo in risposta sospirò con rassegnazione, occhieggiando a quello che rimaneva della biga.
Poi si voltò verso di lei, Jason e Leo, e sembrò sorpreso.
-Non pensavo fossero così grandi. Non siete mai stati riconosciuti? – chiese rivolgendosi direttamente a loro.
-Scusami? – chiese Leo.
-Vi ha chiesto se avete idea di chi sia il vostro genitore divino. – chiarì Percy. -Ma suppongo di no. – continuò, facendo scivolare la spada nel fodero che aveva sulla schiena.
Poi all’improvviso, tutti spalancarono gli occhi.
Piper seguì i loro sguardi, e si voltò verso di Leo. Lui li guardava incerto.
-Non ho fatto nulla stavolta. – disse, e Piper emise un gemito di sorpresa quando vide il simbolo di un martello che ardeva di fuoco vivo sopra la testa dell’amico.
-Cos’è, mi va a fuoco la testa? – chiese lui, e quando scosse il capo l’ologramma lo seguì ondeggiando.
Piper lo guardava con orrore, ma quando si voltò allarmata verso gli altri ragazzi vide che nessuno sembrava particolarmente preoccupato. Anzi, in molti sorridevano.
-Mi sbagliavo. – disse finalmente Percy. -Leo, sei stato riconosciuto da… -
-Vulcano. – concluse Jason, che guardava Leo come incantato. Il suo intervento catturò lo sguardo degli altri ragazzi, che si voltarono sorpresi verso di lui.
-Come lo sai? – chiese Annabeth.
La ragazza lo stava osservando con una nota di allarme nel suo sguardo, come se Jason la inquietasse.
Il ragazzo abbassò lo sguardo incerto.
-Io… non lo so. –
-Vulcano? – chiese Leo. -Non sono un fan di Star Trek. Qualcuno vorrebbe spiegarmi? –
Annabeth si voltò a guardarlo: -Vulcano è il suo nome romano. Ma noi lo chiamiamo Efesto, il dio dei fabbri e del fuoco. Ti ha appena riconosciuto come suo figlio. – spiegò lei.
Piper era ancora senza parole, ma presto la luce vermiglia sopra la testa di Leo si fece più fioca.
Il simbolo sparì, e il ragazzo sembrò rilassarsi: -Il dio di cosa scusate? –
Ci furono pochi secondi di silenzio, e Piper faticò a liberarsi della sua espressione sbalordita.
Dalla folla di ragazzi si levarono pochi mormorii, alcune lievi risate. Ma fu Percy il primo a muoversi, girandosi verso il ragazzo con l’arco:
-Will, porteresti Leo a fare un giro e poi alla Casa Nove? –
-Vorrei precisare di non essere un Vulcaniano. – si intromise Leo.
Will alzò gli occhi al cielo con un sorriso.
-Vieni Spock, ti faccio fare il tour. – disse mettendogli un braccio intorno alle spalle e guidandolo verso le capanne oltre la spiaggia. Prima di andarsene rivolse uno sguardo divertito a Percy.
Piper invece ebbe l’impulso di correre dietro a Leo, perchè era spaventata e stavano accadendo troppe cose assurde in troppo poco tempo. Non sapeva dove lo stavano portando, chi fossero quelle persone e che cosa stesse succedendo, ma non ebbe l’occasione di farsi avanti.
Perché Jason la precedette.
-Basta con i giochi. – esclamò lui, e tutti intorno a lui si tesero. La sua voce era stata così autoritaria e rabbiosa da farle rizzare i peli sulla nuca. -Voglio delle risposte. Che posto è questo? Perché siamo qui? Perché… -
-Risponderemo alle tue domande Jason. – si intromise Percy, avvicinandoglisi. Non sembrava minimamente turbato dal tono di Jason.
Sembrava così tranquillo e rilassato, eppure incredibilmente vigile allo stesso tempo.
Nessun parlò, in attesa di quello che il ragazzo dai capelli neri avrebbe detto. Piper realizzò che chiaramente, il capo là era Percy.
-Mi faresti vedere il braccio? – chiese lui a Jason, guardandolo dritto negli occhi.
Jason sostenne il suo sguardo per un attimo, stranito, prima di abbassare il suo e togliersi la felpa.
La maglietta a maniche corte che portava al di sotto gli lasciava scoperte le braccia muscolose, e Piper vide con stupore il tatuaggio che spiccava sulla pelle candida dell’avambraccio sinistro.
Non lo aveva mai visto prima, e questo le fece salire un groppo in gola. Credeva di conoscere Jason, eppure più quella giornata andava avanti più si rendeva conto di avere di fronte uno sconosciuto.
Il tatuaggio era composto da una dozzina di linee perfettamente dritte una sotto l’altra, con sopra il disegno stilizzato di un’aquila e quattro lettere: SPQR.
-Dove te lo sei fatto? – chiese Annabeth.
-Non me lo ricordo. – disse Jason di nuovo, guardandosi il braccio con lo stesso stupore degli altri. Nessuno parlò.
Percy si scambiò uno sguardo con Annabeth, e per un attimo non disse nulla. Poi tornò a concentrarsi su Jason.
-Va bene bel fusto, andiamo da Chirone. Magari lui può aiutarci. – disse Percy dandogli una pacca amichevole sulla spalla.
Poi il ragazzo si voltò verso Annabeth, e il suo sorriso sembrò in grado di illuminare l’intera valle.
Chinò appena la testa e le diede un bacio sulle labbra, facendola inevitabilmente sorridere.
-A dopo Sapientona. – mormorò, prima di fare cenno a Jason di seguirlo.
Quando Annabeth si voltò verso di lei, Piper vide che le brillavano gli occhi.
La ragazza le rivolse un sorriso astuto.
-Vieni Piper, ti faccio fare un giro. –
 
Il Campo Mezzosangue era uno dei posti più belli che Piper avesse mai visto.
Erano arrivate in cima ad una collina, e davanti a loro si stendeva una magnifica vallata, tracciata da candidi fiumi da strade serpeggianti fatte di pietre chiare e squadrate. C’era un’ampia distesa di boschi a nordovest, la spiaggia che dava sul mare ad est, e sotto di loro si stagliavano dei rigogliosi campi coltivati. Al centro della valle c’era una distesa di capanne disposte come l’omega dell’alfabeto greco, tutti edifici simili a dei templi greci che però differivano l’une delle altre nei colori e dettagli. Eretti intorno alle capanne riconobbe un’arena, diversi edifici molto trafficati e un anfiteatro, e nell’insieme le sembrava di osservare una piccola cittadina.
-Questo posto è bellissimo. – mormorò Piper.
-Ed è sicuro. – aggiunse Annabeth. -È celato agli occhi dei mortali, e i confini impediscono ai mostri come gli anemoi di entrare. –
La voce di Annabeth distrasse Piper dal paesaggio, e in quel momento si ricordò delle migliaia di domande che le giravano per la testa.
Aprì la bocca per parlare, ma non sapeva nemmeno da dove cominciare.
Annabeth rise, come se sapesse esattamente cosa stesse pensando:
-Puoi chiedermi quello che vuoi. Abbiamo tempo, tranquilla. –
E Piper non si contenne più.
-Perché ci avete portati qui? Come avete fatto a trovarci? –
-Il Coach Hedge non era lì con voi per caso. Lui è un satiro, un essere metà uomo e metà capra, e come tutti i satiri ci aiuta a trovare i semidei e a condurli qui. –
-Condurci qui… Perché per i semidei è obbligatorio restare qui? –
Annabeth sorrise come se la trovasse molto buffa. Le fece un cenno, e incominciarono la discesa verso le capanne.
-Beh, no. Questo posto per molti è un campo estivo protetto, dove possono allenarsi e stare insieme ai propri amici durante le vacanze. Per altri invece questa è la loro unica casa, il che capita spesso dato che molti di noi non hanno famiglia al di fuori di qui. –
-Perché? –
-Perché la vita di un semidio è incredibilmente difficile, e questo sono sicura tu lo sappia bene. Siamo diversi da tutti gli altri, soffriamo di dislessia e iperattività, e alcuni di noi sono così potenti da attirare i mostri ovunque vadano, e per questo spesso i nostri genitori mortali si sbarazzano di noi mandandoci in posti come la scuola dove tu, Leo e Jason eravate prima. –
Piper ammutolì. Si sentì improvvisamente compresa, come non le era mai successo prima. Era una sensazione inebriante.
Annabeth continuò: -Comunque, no, non sei costretta a restare qui. Questa non è una prigione. Però rimane un posto sicuro, dove nessun mostro può avvicinartisi e dove puoi vivere una vita fatta esattamente come una di noi. –
Piper annuì, quasi incantata dalle sue parole.
-Perché non era mai successo che un mostro mi attaccasse prima di oggi? –
-Perché i mostri percepiscono il nostro potere e il nostro odore. Più cresci, più e facile che ti notino e cerchino di ucciderti. –
Piper si rese improvvisamente conto di aver raggiunto il gruppo di capanne al centro del Campo. Annabeth l’aveva quasi stregata con le sue parole, tanto da farle dimenticare del mondo intorno a loro. Piper alzò lo sguardo sulle cabine che ormai aveva davanti. Stavano percorrendo la strada centrale, che si diramava e si snodava tra le case, ma loro continuarono a camminare in mezzo ad esse.
Erano così diverse l’una dall’altra, in una maniera così caotica eppure così piacevole alla vista.
-Ogni casa che vedi rappresenta un dio greco, ed è lì che suoi figli possono vivere. – spiegò Annabeth.
-Quindi mia madre dovrebbe essere una dea? –
Annabeth annuì con un sorriso: -Ho conosciuto pochi altri prendere la notizia con tanta tranquillità.
Piper non se lo spiegava, eppure suonava così giusto da non sembrarle nemmeno strano. Come se per la prima volta avesse trovato la risposta a tutte le stranezze che avevano disseminato la sua vita.
-E come farò a sapere chi è mia madre? –
-Ricordi la scenetta di Leo e del martello infuocato che gli è comparso sulla testa? Quello è il modo degli dei di riconoscere i loro figli, e sono sicura che entro stasera scopriremo l’identità di tua madre allo stesso modo. –
Piper non sapeva se esserne terrorizzata o eccitata.
-Tu sai di chi quale dio sei figlia? –
Non intendeva impicciarsi, ma fare domande ad Annabeth aveva un che di rassicurante, forse perché la ragazza sembrava darle sempre la risposta giusta con paziente chiarezza.
-Mia madre è Atena, dea della saggezza e della strategia in battaglia. – le rispose lei.
-E Percy? –
-Percy è un figlio di Poseidone. –
-Il dio del mare. – concluse Piper. Questo spiegava come era riuscito a controllare l’acqua del lago per non farli morire.
-Poseidone è uno degli dei maggiori, e perciò uno dei tre più potenti. – continuò Annabeth guidandola attraverso le capanne. -Insieme a lui lo sono Zeus e Ade. Secoli fa giurarono che non avrebbero più avuto figli con i mortali, perché nascevano dei semidei incredibilmente forti, con poteri incredibili e spesso pericolosi. –
Piper aggrottò la fronte: -Ma quindi...? –
-Percy e l’unico figlio di Poseidone della sua generazione. Ma non è stato solo suo padre a infrangere il giuramento. Thalia, una mia amica, è figlia di Zeus, e Nico è un figlio di Ade. Entrambi però non rimangono mai a lungo al campo quando vengono a farci visita. –
Piper annuì, prima di perdersi ad osservare con curiosità i semidei intorno a loro.
Vennero superate da una ragazza che camminava verso le stalle al fianco di un magnifico pegaso bianco, che la seguiva avanzando regalmente con le ali ripiegate sui fianchi. Incrociarono due ragazzi poco più piccoli di lei che stavano ridendo sguaiatamente, armati di spada e con gli elmi corinzi sottobraccio. Piper osservò molti altri ragazzi come loro che passeggiavano tra le capanne, alcuni portando addosso armature malamente allacciate e altri con le magliette arancioni del Campo. La ragazza inspirò a fondo l’odore inebriane di fragole, e si beò dell’aria impregnata dal rumore delle risate e delle chiacchierate a voce troppo alta.
Piper non aveva mai conosciuto un luogo così accogliente, e così familiare.
-Quindi… tu e Percy state insieme? – 
Ad Annabeth si illuminò il volto. I suoi capelli biondi brillavano come oro colato sotto alla luce del sole d’estate.
-Sì, da più di due anni ormai. – rispose allegramente la figlia di Atena.
-E vi conoscete da molto? – chiese Piper ancora.
-L’ho incontrato per le strade di New York quando avevamo sette anni. Io ero scappata di casa, e lui… - la figlia di Atena si fermò per un istante, e non continuò. -Ad ogni modo, siamo arrivati qui al Campo insieme. –
-Tutti quanti dovrebbero arrivare qui così giovani? –
-No, e per quanto voi siate comunque più grandi rispetto ai ragazzi che normalmente vengono per la prima volta, tendenzialmente i semidei arrivano qui intorno ai tredici anni. – rispose Annabeth. -Come ti ho detto, è l’età in cui iniziamo ad attirare i mostri. Ovviamente ci sono delle eccezioni a questa regola, come te o me. –.
-E da dove vengono questi mostri di cui parlate? –
Annabeth si voltò a guardarla, e sembrava indecisa sul risponderle. Ma l’incertezza nei suoi occhi svanì in un attimo.
-Vengono dal Tartaro, l’abisso da cui nascono tutti i mostri. Le nostre armi possono uccidere il loro corpo, ma la loro essenza è immortale. Possono passare giorni o anni prima che si riformino, ma tornano sempre. –
Piper rabbrividì. Quella mattina, dei mostri avevano attaccato lei e i suoi amici col solo obbiettivo di ucciderli. Scoprire che quella sarebbe stata solo la prima di tante altre la terrorizzava. Sembrava una vita dannata quella di un semidio.
Poi Annabeth la prese a braccetto con un gran sorriso: -Vieni dai, dobbiamo trovarti un’arma!-
 
Più tempo Jason passava al Campo, più si sentiva in punto di morte.
Percy lo aveva guidato in un breve giro del campo, ma Jason non riusciva a pensare ad altro se non al senso di orrore che provava. Perché c’era una voce nella sua testa che gli urlava di andarsene e di fuggire dalla terra del nemico. E non ricordare assolutamente nulla della sua vita non faceva altro che invogliarlo a seguire quel suo unico, disperato istinto.
Devo andarmene. Non dovrei essere qui.
E poi c’era Percy, che dal canto suo sembrava il ragazzo più tranquillo del mondo.
-Quindi non ricordi proprio nulla? – gli chiese il più grande ad un certo punto.
Jason quasi sobbalzò, distolto improvvisamente dai suoi pensieri. Si voltò di scatto verso Percy, e si tese ancora di più: gli occhi verdi del ragazzo sembrarono inchiodarlo sul posto.
-No, davvero io… -
-Ehi, non preoccuparti. -lo fermò Percy, rivolgendogli l’ennesimo sorriso storto. -Non ti sto dando del bugiardo, sono solo incuriosito. –
Jason annuì, la gola serrata, e tentò di darsi un contegno.
-Ho come… come delle sensazioni. Dei vaghi frammenti che però non sembrano avere alcun significato. – cercò di spiegare.
L’altro ragazzo lo guardò attentamente, ma non c’era diffidenza nei suoi occhi.
-Deve essere spaventoso. – gli disse solamente.
Precisamente, pensò Jason.
Cercò di sorridere al corvino al suo fianco, perché gli era riconoscente per la sua gentilezza, ma riuscì solo a fingere una lieve smorfia. Avrebbe voluto mostrarsi più forte, più sicuro di sé, ma si ritrovava incapace di domare l’ansia che gli attanagliava le membra.
E quando arrivarono di fronte alla casa, capì di aver oltrepassato il limite.
-Siamo arrivati. – annunciò Percy. -Questa è la Casa Grande. –
L’edificio non sembrava minaccioso.
Era solo una villa di quattro piani dipinta di bianco e con gli infissi scuri. Sul portico che la circondava c’erano tre sedie a sdraio, un tavolino da gioco e una sedia a rotelle vuota.
Ma Jason percepiva molto di più della piacevole facciata della casa.
Le finestre sembravano fissarlo come occhi malevoli. L’ingresso spalancato pareva pronto a inghiottirlo. In cima all’abbaino più alto del tetto, un’aquila di bronzo roteò nel vento e puntò dritta nella sua direzione, come per ordinargli di farsi indietro.
Jason indietreggiò d’istinto, così in fretta che rischiò di inciampare.
E Percy lo notò.
Il ragazzo infatti lo guardò preoccupato: -Ti senti bene? –
-Io non dovrei essere qui.- mormorò Jason in risposta.
Il corvino gli posò delicatamente una mano sulla spalla, guardandolo negli occhi.
-Jason, respira a fondo, ok? Il tuo cuore sembra sul punto di esplodere. –
Il biondino provò a seguire il suo consiglio, ma non riuscì a frenare l’occhiata stranita che rivolse all’altro.
-Come fai a dirlo? –
Percy gli rispose senza esitazione, ma il suo sguardo si fece improvvisamente illeggibile. Jason quasi temette di aver fatto la domanda sbagliata.
-Da come respiri. Che succede? –
Quando Jason lo guardò negli occhi, non poté evitare di guardare la cicatrice candida che gli solcava il lato sinistro del viso.
Chissà come se l’è fatta.
-Non lo so, ma sento di dovermene andare da qui. Non posso… non devo restare. -
-Jason. – lo fermò Percy. -Sei uno di noi, e nessuno qui ti farà del male. Hai perso la memoria, immagino sia normale sentirsi disorientato. Cerca di rilassarti, ok? Dopodiché noi entreremo, aspetteremo che Chirone torni dalla lezione di scherma e troveremo una soluzione al problema. –
Jason era combattuto. Percy sembrava così sincero, e fino ad ora lui ed Annabeth li avevano aiutati, ma allo stesso tempo non riusciva ad ignorare quella sensazione di pericolo che continuava ad attanagliarli le membra.
Eppure, la parte più razionale di lui gli ricordava che senza ricordi, senza nemmeno sapere chi fosse, lui non aveva idea di dove andare. Se fosse restato, forse avrebbe avuto una risposta alle sue domande. E in quel momento, decise di volere quelle risposte più di ogni altra cosa.
Fece quindi un cenno affermativo col capo, e Percy gli sorrise, scostandosi di poco da lui.
Gli occhi di Jason caddero su un particolare che non aveva ancora notato.
Percy aveva una collana legata al collo. Era una luminosa catena di bronzo dalla quale pendeva un medaglione dello stesso metallo e grande quanto una moneta, che portava il disegno di un pegaso impennato con le ali spalancate con in sovraimpressione tre lettere: CHB. Ai lati della moneta, infilate nella catenella, Jason contò nove perline di marmo bianco levigato, ognuna decorata da un simbolo diverso.
-Che cos’è? – chiese Jason.
Percy abbassò lo sguardo sul suo collo, e sorrise.
-Tutti quelli che arrivano qui ricevono il medaglione, come simbolo di appartenenza al campo. Anche voi ne avrete uno, probabilmente entro domani. – spiegò Percy. -E poi, per ogni estate passata qui, riceviamo una perlina. –
Nove perline, pensò Jason, nove anni.
Percy sfoderò un sorriso a trentadue denti: -Dai vieni, entriamo. –
Jason seguì cautamente Percy verso la Casa Grande, salendo i pochi gradini che portavano al portico e poi attraverso la porta già aperta.
Quando entrarono, si ritrovò in un accogliente salotto. Oltre l’entrata c’erano alcune sedie disposte intorno ad un tavolo di legno ingombro di fogli e armi di vario genere. Dall’altra parte della stanza vide un divano e una poltrona color crema posti di fronte ad un camino spento. Jason aggrottò le sopracciglia alla vista del vecchio videogioco di Pac-Man messo all’angolo della stanza. Alla sua sinistra c’erano invece delle scale che portavano ai piani superiori e alla cantina, ed una porta aperta che conduceva alle altre stanze del piano terra.
La stanza era così calda, profumava di vaniglia e noce moscata.
-Non mi aspettavo che fosse così… accogliente. –
Percy al suo fianco lo guardò ghignando.
Quando Jason si voltò a sua volta verso di lui, il suo sguardo venne catturato dal muro alle spalle del corvino. Ci si avvicinò. La parete era completamente ricoperta di fotografie e foglietti, alcune più grandi di altre o sovrapposte agli angoli. C’erano persino alcuni disegni, degli scarabocchi colorati che non potevano che essere frutto della mano di un bambino.
Una foto più grande delle altre catturò la sua attenzione, e ritraeva una ventina di ragazzi disposti in una fila disordinata. Avevano tutti circa la sua età, e ognuno sfoggiava degli enormi sorrisi o delle espressioni buffe. Riconobbe Percy ed Annabeth, in mezzo al gruppo, che sorridevano tanto da strizzare gli occhi. Il ragazzo sfoggiava una macchia di panna azzurra sulla guancia e un cono di carta dello stesso colore sulla testa.
-Quando è stata scattata? – chiese Jason d’istinto.
Percy gli si avvicinò: -L’estate scorsa. Stavamo festeggiando la fine della guerra. –
-La guerra dei Titani. – mormorò Jason, e ancora una volta non seppe da dove venisse quell’informazione.
Ma stavolta, Percy non chiese nulla: -Sì, quella. –
Lo sguardo di Jason venne catturato da un’altra foto.
In primo piano c’era un ragazzo di forse quattordici anni, un bel biondino con gli occhi azzurrissimi, che aveva le braccia piegate verso l’alto a stringere le gambe dei due bambini che gli sedevano sulle spalle. Il ragazzo sembrava barcollare appena sotto al loro peso, e il suo sguardo e il suo sorriso erano rivolti su di loro. I suoi occhi esprimevano un affetto tale da essere percepibile attraverso la fotografia.
A sedergli sulla spalla destra c'era una bambina dai corti capelli biondi e ricci, che sfoggiava una buffa espressione con gli occhi incrociati e la lingua di fuori.
L’altro era un bambino dai capelli neri che teneva appoggiato sulla spalla un lungo bastone di legno, e che osservava ridendo la bambina al suo fianco.
Avevano tutti i tre le maglie arancioni del campo, e sembravano sinceramente felici.
-Siete tu ed Annabeth? – disse Jason.
Percy annuì al suo fianco.
-E il ragazzo chi è? – chiese con onesta curiosità.
Sentì il figlio di Poseidone al suo fianco irrigidirsi: -Si chiamava Luke. – rispose solo, e Jason sospettò che non avesse parlato al passato casualmente.
L’ultima foto che riuscì a guardare era una sequenza di fototessere a striscia. C’erano Percy ed Annabeth, ancora bambini, lei seduta in braccio allo stesso quattordicenne della foto precedente. Percy invece era seduto in braccio ad una ragazza più grande, dai capelli neri e mal tagliati e gli occhi azzurri, che sorrideva guardando nell’obbiettivo. Il suo viso fece sgranare gli occhi a Jason, mentre un lampo gli attraversò la memoria.
-Lei...-
-Percy? – sentì chiamare da una voce maschile all’ingresso.
Jason si voltò di scatto, e vide un uomo entrare nel salotto su una sedia a rotelle. Aveva il viso gentile, i capelli ricci e castani che gli sfioravano le spalle e la barba curata.
L’uomo sorrise ad entrambi.
Ma quando il suo sguardo si focalizzò su Jason, spalancò gli occhi quasi con paura.
-Tu… -
Jason si voltò con ansia verso Percy, ma il ragazzo sembrava confuso quanto lui.
-Chirone… - incominciò il corvino. -Lui è Jason. Ha qualche problema di memoria, e speravo che potesse aiutarlo. –
Chirone cercò di ricomporsi, ma sembrava ancora irrequieto.
-Grazie Percy. – lo ringraziò lui. -Rachel è tornata, ti dispiacerebbe raggiungerla? –
Jason vide Percy guardare l’uomo incredulo, come se non credesse che gli avesse davvero chiesto di andarsene. Un secondo dopo però aveva completamente cambiato espressione, il suo sguardo tornò placido e ridente.
-Va bene. – disse solo, prima di sorridere a Jason e dargli una pacca amichevole sulla spalla.
Chirone sorrise dolcemente al ragazzo, guardandolo uscire: -E ti ricordo che oggi della tua classe di scherma mi sono preso carico io, ma non succederà una seconda volta. –
Percy sporse leggermente il labbro inferiore con finta tristezza, un’espressione buffa alla quale Chirone sorrise paterno.
Quando Percy fu uscito, l’uomo si voltò verso Jason, e ogni traccia di divertimento scomparve dai suoi occhi.
-Seguimi ragazzo. – gli ordinò. -Prendiamoci una limonata. –
 
Percy si avviò senza fretta verso le cabine.
Si godette pigramente l’aria tiepida e la calda luce del tardo pomeriggio che gli scaldavano la pelle. Le urla e le risate degli altri ragazzi erano suoni piacevolmente chiassosi, ma Percy se ne beava con malinconia. Perché lui vedeva oltre la tranquillità di quella calda giornata di fine estate.
Lui riusciva a vedere la pace che negli anni aveva con così tanta fatica costruito iniziare a sgretolarsi. Aveva vissuto troppo a lungo sotto il peso della Grande Profezia per non sapere quando una catastrofe ha inizio. E Jason, Piper e Leo erano solo l’inizio.
Venne distolto dai suoi pensieri quando Rose lo raggiunse correndo. Percy rise nel vedere la sua minuta figura che arrancava nello sforzo di trascinare una grossa spada rossa.
-Percy! –
-Rose! – la salutò di rimando il ragazzo fermandosi e arruffandole affettuosamente i corti capelli castani. -Vedo che hai rubato la spada a Clarisse… di nuovo. –
La ragazzina ridacchiò, portandosi l’indice alle labbra tese in un sorriso furbesco:
-Non dirglielo! È stato troppo forte, gliela ho presa da sotto al naso. Adesso la nascondo, scommetto che non la troverà mai. –
-Rose, sei una degna figlia di Ermes, ma non dovresti fare questi scherzi a Clarisse. La farai solo arrabbiare. E quando Clarisse si arrabbia dobbiamo patire tutti quanti. –
-Ma è così divertente! E poi lei è sempre così cattiva con me. –
-Forse perché continui a rubarle qualunque cosa sia in suo possesso. –
La bambina si morse il labbro, guardandolo con i suoi grandi occhi azzurri.
Percy si accovacciò davanti a lei.
-Facciamo così. – le disse portandosi vicino al suo orecchio e ghignando. -Riportala nell’arena, ma senza farti vedere. Clarisse si sentirà una tale sciocca quando crederà di averla dimenticata lì. –
Rose in risposta ridacchiò contenta, e diede un bacio sulla guancia al ragazzo prima di correre via.
Ma non andò lontano.
La ragazzina quasi andò a sbattere addosso Annabeth, che le si parò davanti con sguardo scherzoso. Piper al fianco della ragazza guardò Rose con un sorriso curioso.
-Rose! Se continui a baciare Percy in quel modo potrei incominciare a ingelosirmi. – le disse ridendo la figlia di Atena. -Quella è per sbaglio la spada di Clarisse? –
Rose rise: -La sto riportando all’arena! –
Annabeth le diede un buffetto sulla guancia, e lasciò che la bambina corresse via. Poi la ragazza si alzò il viso su Percy, e il ragazzo sentì il cuore scioglierglisi nel petto.
-Ehi Testa d’Alghe, Jason ti è scappato? –
Percy si avvicinò alle due ragazze, sorridendo gentilmente a Piper.
-No, ma Chirone voleva parlagli. –
Annabeth lo guardò confusa.
Lui ricambiò il suo sguardo, ma non disse niente. Lesse negli occhi della ragazza la stessa confusione che aveva provato lui quando il centauro gli aveva chiesto di andarsene, ma decisero di comune accordo che ne avrebbero discusso dopo.
Percy si voltò verso Piper, e la vide mordersi nervosamente il labbro.
-Chi è Chirone? Jason rappresenta un problema per voi? – chiese la ragazza.
Fu Annabeth a rispondere: -Chirone è il nostro direttore e insegnante. E per ora credo che Jason e la sua amnesia rappresentino un problema solo per Jason stesso. Tranquilla, troveremo una soluzione. –
Piper annuì, ma non sembrava convinta. La ragazza fece vagare lo sguardo intorno a sé per pochi istanti, assorta, prima che il suo sguardo si focalizzasse su qualcosa alla sua destra.
-Di chi sono quelle capanne? – chiese.
Percy si voltò, e sospirò. Erano le case più grandi, ed erano di marmo bianco, con grandi colonne e le porte in bronzo.
-Di Zeus ed Era. Il re e la regina degli dei. – rispose lui.
Piper si avvicinò ad esse, e immediatamente Percy di voltò verso Annabeth, indeciso se fermare la ragazza. Ma Annabeth alzò le spalle, come a dire che non importava, ed entrambi seguirono la ragazza. Percy non si trattenne dal dare un bacio sulla tempia alla figlia di Atena nel mentre.
-Sono vuote? – chiese Piper quando li vide raggiungerla.
Annabeth annuì: - Come ti ho detto, Zeus ha una sola figlia, Thalia, ma lei è diventata una delle Cacciatrici di Artemide. Era invece è la dea del matrimonio e ha figli solo con Zeus. – disse l’ultima frase con fastidio malcelato.
-Non ti sta simpatica deduco. –
Percy ghignò: -Oh, ad Annabeth assolutamente no. –
-Quindi nessuno entra mai qui? – chiese ancora Piper, e Annabeth la guardò dubbiosa.
-No, ma… -
-Allora penso che sarò la prima. – ribatté Piper, e spalancò le porte. Percy ed Annabeth non fecero in tempo a fermarla, perché era già entrata.
 
-Piper cosa fai? – le chiese Percy, seguendola preoccupato.
Lei non sapeva spiegarselo. Aveva una sensazione, come se entrare in quella casa fosse importante. E il terribile sogno che aveva avuto, sembrava collegato a quel posto.
Ma non appena ci mise piede, qualcosa dentro di lei le disse di aver avuto una pessima idea.
L’unica cosa che la rassicurava, era sapere che Annabeth e Percy erano dietro di lei.
Si ritrovò in un’ampia sala, dove un cerchio di colonne bianche circondavano la statua di marmo della dea, alta forse tre metri, che ritraeva una donna regale e magnifica vestita di una lunga tunica. La donna aveva un falco sulla spalla, e nella mano destra stringeva uno scettro che culminava in un fiore di loto. Nonostante il suo sguardo fosse scolpito nella nuda pietra bianca, Piper si sentiva osservata con tutta la sua freddezza.
Non c’erano letti, né finestre, né mobili, solo un fuoco che ardeva ai piedi della statua.
Prima che potesse fare un altro passo, Percy si bloccò bruscamente dietro di lei, e Piper sobbalzò, voltandosi.
Lo vide sporgersi a destra col corpo, ad osservare qualcosa dietro alle colonne, lo sguardo vigile e i muscoli tesi.
Poi vide il suo sguardo rilassarsi nella sorpresa: -Rachel?! –
Piper gli si avvicinò, e vide una ragazza accovacciata a terra voltarsi verso di loro. Aveva uno scialle nero avvolto sulla testa, che però fu veloce a sfilarsi.
Era una ragazza carina, con dei capelli ricci rossi come fuoco, gli occhi verdi illuminati di felicità e il viso ricoperto di lentiggini.
Piper pensò che dovesse avere diciassette anni, e nonostante il luogo era vestita con una semplice camicetta bianca e dei jeans macchiati di colore per dipingere.
-Ehi ragazzi! – disse correndo incontro a Percy e abbracciandolo così forte da farlo ridere, per poi girarsi verso Annabeth e fare lo stesso con un gran sorriso sulle labbra.
Piper era troppo scombussolata per dire qualcosa.
I tre parlarono per poco, scambiandosi battutine e prese in giro, finché Annabeth non si voltò verso Piper.
-Oh, che maleducata, scusa Piper. Rachel, lei è Piper, una mezzosangue che abbiamo salvato oggi. Piper, lei è Rachel Elizabeth Dare, il nostro oracolo. –
-Un oracolo? Predici il futuro? – chiese Piper.
Rachel sorrise, sfoggiando una fila di denti bianchi e perfettamente dritti:
-Diciamo che il futuro mi assale ogni tanto. Lo spirito dell’oracolo vive dentro di me, e quando ha voglia salta fuori e proclama le sue profezie. –
Piper sorrise insicura: -Ah, carino. –
Rachel ridacchiò: -Non ti preoccupare, sono la più innocua qua dentro. –
-Sei una semidea? –
-No, temo proprio di no. – rispose alzando gli occhi scherzosa.
Piper voleva chiederle cosa ci facesse lì, ma Annabeth, per fortuna, la precedette.
-Scusa Rachel ma che ci facevi qui? –
La ragazza perse il sorriso: -Una sensazione. E da quando gli dei sembrano scomparsi do sempre importanza ai miei istinti. –
-Scomparsi? – Piper li guardò sorpresa.
Percy la guardò a sua volta, e lei si sentì in soggezione sotto al suo sguardo.
Il ragazzo le rispose: -Gli dei non sono mai particolarmente presenti. E se lo sono, non porta mai nulla di buono. Ma è da quasi un mese che non si fanno vivi, ed è strano. Il Signor D, il nostro direttore, è il dio del vino ed è scomparso, e non riusciamo nemmeno a salire sull’Olimpo. –
-L’Olimpo? –
-Si, sull’Empire State Building. È li che si trova l’ingresso al Monte Olimpo. – continuò Annabeth.
Piper sorrise: -Certo, come ho potuto non pensarci. –
Rachel annuì con entusiasmo: -Annabeth aveva l’incarico di riprogettare e ricostruire l’Olimpo dopo l’ultima guerra.  E stavano andando alla grande, anche perché Annabeth ha un vero talento, soprattutto per i buffet… - 
-Ma poi l’Olimpo è caduto nel silenzio. – la interruppe Annabeth. -Nessuno entra e nessuno esce da lì. Nessun dio risponde alle nostre preghiere. –
-E questo è un problema, giusto? –
Annabeth annuì: -È anormale. Non sappiamo cosa è successo, ma quando stranezze simili accadono non significa mai nulla di buono.–
Piper guardò quei ragazzi, che l’avevano accolta e le stavano dando la possibilità di vivere come era nata per fare. Ebbe il desiderio di raccontargli dei suoi sogni, di quello che il mostro che popolava i suoi incubi le aveva chiesto di fare.
Ma non ne ebbe mai la possibilità.
Rachel si irrigidì, un bagliore verde si accese nei suoi occhi inghiottendone le pupille e iridi. Fu tutto così veloce che nessuno riuscì a fermarla.
La ragazza si gettò su di lei, stringendole le spalle, ma Piper era troppo terrorizzata per muoversi.
-Liberami. – disse l’Oracolo, ma non era la voce di Rachel. Sembrava quella di un’anziana donna, che parlava da un luogo molto lontano. -Liberami Piper McLean, o la terra ci inghiottirà, devi farlo prima del solstizio. –
Piper cercò di liberarsi dell’Oracolo, ma non ci riuscì. Vide Annabeth e Percy che cercavano di dividerle senza successo.
I nostri nemici si stanno risvegliando. Quello infuocato è soltanto il primo. Piegati al suo volere, e il loro re sorgerà, condannandoci tutti. Liberami! – urlò ancora la donna.
Piper alzò gli occhi, e le sembrò che la statua gigante della dea Era nella stanza la stesse guardando con quello sguardo freddo e crudele.
Cadde in ginocchio, e non vide più nulla.
 
Leo adorava il Campo.
-Avrò anche io un’arma? – chiese non appena vide l’Arena.
Will lo guardò come se trovasse l’idea inquietante: -Considerando che sei un figlio di Efesto probabilmente potrai costruirtela tu stesso. –
-Ah, capito. Quindi, mi racconti un po’ di questo Efesto? –
-Beh, non c’è molto da dire. È il dio dei fabbri e del fuoco. –
Leo rabbrividì. Pensando a quello che era successo a sua madre, sembrava una battuta infelice.
-Uno dei ragazzi ha nominato una maledizione… - incominciò, guardando Will di sottecchi.
Il biondino sospirò in risposta:
-È una diceria, una crudele battuta dei figli di Ares. Da quando l’ultimo capogruppo della vostra casa è morto… la Casa di Efesto sta avendo degli incidenti. Nulla di grave, non preoccupartene troppo. -
-Morto? –
-Si, ma lascerò che siano i tuoi compagni a raccontarti la storia. –
-Chiaro. – sospirò Leo. -Maledizioni e morti… -
Quando arrivarono davanti alla casa di Efesto, Leo non poté non sorridere.
Come le altre case era costruita come un tempio greco, chiara nonostante le macchie di bruciatura scure e i pezzi di bronzo celeste sparpagliati davanti alla scalinata. La porta era circolare e di bronzo, tanto da assomigliare alla cassaforte di una banca.
L’interno era esattamente come Leo se lo sarebbe immaginato.
I letti erano ripiegati contro le pareti, e al centro della stanza c’era un braciere acceso. Una stanza adiacente era occupata da tavoli stracolmi di armi e strumenti da lavoro, con i muri tappezzati di quanti attrezzi Leo potesse immaginarsi.
C’erano delle scale che collegavano le stanze al secondo piano e al seminterrato, entrambe circolari e fatte di bronzo.
Gli ricordava l’officina di sua madre, ma scacciò il pensiero.
-Questo posto è fantastico. – disse con entusiasmo.
Gli rispose una voce alle sue spalle: -Ovviamente. –
Leo si voltò, e notò una tenda scostarsi da davanti uno dei letti in fondo alla stanza. C’era un ragazzo steso, che aveva il corpo completamente ingessato e la testa fasciata in modo che solo il viso graffiato e pieno di lividi fosse scoperto.
-Sono Jake Mason. Ti stringerei la mano, ma… - se presentò lui.
-Non ti disturbare. Io mi chiamo Leo. – gli rispose avvicinandoglisi.
Il ragazzo gli rispose con una smorfia simile ad un sorriso: -Beh, benvenuto nella Casa Nove.-
Will prese parola: -Avete un letto in più per Leo? –
Jake puntò lo sguardo sul diretto interessato. -Dipende se crede ai fantasmi. –
-Suppongo che dopo la giornata di oggi nulla possa sembrarmi più strano. –
Jake annuì soddisfatto: -Perfetto! Allora il letto di Beckendorf è tuo, ed è il migliore che abbiamo. –
Leo sentì Will irrigidirsi al suo fianco: -Jake sei sicuro? –
Jake sembrò non farci caso.
-Will, porta Leo alle fucine per favore. Gli altri sono là. – disse, poi rivolse un altro sorriso dolorante a Leo. -Ci vediamo dopo bello. – lo salutò, prima di richiudere la tendina.
Will sospirò: -Ciao Jake. Andiamo Leo, ti porto di tuoi compagni. –
Uscirono dalla casa a passo svelto, e Leo non poté frenare la sua curiosità.
-Beckendorf era il capogruppo che è morto vero? Per questo Jake mi ha chiesto se avevo paura dei fantasmi quando mi ha offerto il suo letto. –
L’altro annuì mesto.
-E come è successo? – continuò Leo. Forse era un tasto dolente per tutti, ma pensò che sapere di quel ragazzo gli fosse dovuto, dato che avrebbe dormito nel suo letto.
Will puntò lo sguardo davanti a sé. -Un’esplosione. Lui e Percy hanno distrutto una nave che trasportava un esercito di mostri, ma Beckendorf non è riuscito a scappare in tempo. –
Leo aveva notato che il nome di Percy sembrava comparire in molti dei discorsi che si facevano là.
-Quindi Beckendorf era, come Percy, uno molto popolare? –
-Era fantastico. – rispose Will. -È stato difficile per tutti quando è morto, soprattutto per Percy. Era uno dei suoi migliori amici. E Jake si è ritrovato capo di un’intera casa nel mezzo di una guerra, come me ed altri del resto. Poi, da dopo la guerra, la sfortuna sembra perseguitare i figli di Efesto, con macchine e automi che esplodono o impazziscono. I figli di Ares come sempre hanno colto la palla al balzo, e hanno iniziato a chiamarla la maledizione della casa Nove. E come vedi Jake è stato vittima di uno di questi incidenti… -
Leo annuì, ma non ebbe tempo di riflettere.
-Siamo arrivati Spock. – disse Will.
L’edificio sorgeva ai margini di un ruscello, con colonne di marmo bianco che costeggiavano le pareti annerite dal fumo, che usciva dai comignoli che sbucavano da un elaborato timpano greco, adornato di statue di dei e mostri.
Leo poteva sentire il rumore del fuoco che crepitava nei forni, dei martelli che picchiavano contro le incudini e il delle macchine accese.
Quando entrarono, tutti si fermarono a guardarli, molti asciugandosi il sudore dalla fronte.
-Ciao ragazzi. Avete un nuovo fratello. – iniziò Will. – Questo è Leo… -
Leo sorrise: -Valdez. –
In molti si avvicinarono a lui con dei caldi sorrisi e facendo un gran baccano, e tutti gli strinsero la mano nonostante fossero sporchi di fuliggine e olio. Ovviamente, a Leo non dispiacque. Notò però che quei ragazzi sembrassero stanchi e provati, tanto che molti di loro avevano delle ferite fasciate o dei gessi sulle braccia.
Will gli sorrise incoraggiante: -Ti lascio in mano a loro. Andrà tutto bene. – lo rassicurò prima di uscire.
Leo si voltò verso i suoi compagni, e solo una ragazza, Nyssa, era rimasta lì davanti a lui.
Era alta quanto lui, e portava dei pantaloncini neri e una canotta che lasciava scoperte le braccia muscolose. Aveva una bandana rossa che le teneva i capelli neri e corti lontano dal viso sporco ma sorridente.
-Wow. – esclamò Leo. -Spero sinceramente di non farti mai arrabbiare. –
Nyssa sorrise, prima di voltarsi e fargli cenno di seguirla. -Andiamo, ti faccio fare un giro. –
Lo guidò in un labirinto di stanze, forni e corridoi, dove molti ragazzi stavano costruendo armi e macchine di ogni tipo.
-Noi lavoriamo e costruiamo tutte le nostre armi qui. Le regole sono poche, cerca solo di non ammazzare nessuno di noi con quello che costruisci. – incominciò lei. -Devi sapere che i mostri si uccidono solo col bronzo celeste, una rarità che viene dall’Olimpo, ma qui ne abbiamo in quantità. –
-Bronzo celeste… - ripeté Leo, osservando un ragazzo che stava affilando un’ascia fatta di un bellissimo metallo che sembrava brillare nella penombra.
-Jake e Will mi hanno parlato della vostra maledizione… - iniziò Leo. Nyssa lo guardò con tristezza.
-Già. La realtà è che da dopo la guerra tutto quello che costruiamo diventa un problema. –
Arrivarono vicino a due ragazze, che stavano scrivendo appunti su una mappa del campo.
-Come questo. – spiegò, indicando il progetto di un drago meccanico di bronzo vicino alla mappa. Leo lo osservò con curiosità.
Dai disegni sembrava progettato per essere un drago sputafuoco a grandezza naturale, completamente costruito bronzo.
-Ci aiuta a proteggere il Campo, e Beckendorf era l’unico che poteva avvicinarglisi e controllarlo. Ma da quando è morto, il drago è scappato, e se ricompare è per fare a pezzi qualcosa. Tutti aspettano solo che lo distruggiamo e liberiamo il campo da questo pericolo.–
-Distruggerlo?! – Leo non si capacitava come si potesse voler distruggere un drago di bronzo.
-È diventato un problema, e senza Beckendorf nessuno può avvicinarglisi, dato che sputa fuoco verso chiunque si muova a meno di venti metri da lui. – spiegò con amarezza Nyssa, e Leo capì che nemmeno lei avrebbe ucciso una creazione tanto prodigiosa.
-Ma i figli di Efesto non sono resistenti al fuoco? Non sarebbe facile avvicinarglisi? – chiese, e Nyssa lo guardò con un barlume di divertimento.
-No, temo che nessun figlio di Efesto sia resistente al fuoco. – disse ridacchiando.
Poi si fece seria: -Insomma, sono esistiti molti anni fa dei nostri fratelli che lo fossero. Ma sono estremamente rari, e spesso hanno distrutto intere città e sono stati visti come sinonimo di disgrazia. –
E il cuore del ragazzo sembrò morirgli nel petto.
Ricordò l’incendio che uccise sua madre.
Ricordò sé stesso, un bambino di appena cinque anni, che guardava ammirato delle piccole fiamme danzare sul palmo della sua mano.
 
Prima ancora che la donna nascosta nel camino lo minacciasse di morte, Jason stava avendo una giornata a dir poco singolare.
Dopo cinque minuti dall’accaduto, Jason era ancora bloccato a fissare incredulo il fuoco che crepitava placido nel caminetto.
La donna incappucciata era apparsa pochi minuti prima dalle fiamme portando un mantello di capra sulle spalle e parlando con una voce debole ma irosa.
“La mia prigione si rafforza ogni ora che passa. Sono riuscita a portarti qui, ma ora mi resta poco tempo, e ancora meno potere. Questa potrebbe essere l’ultima volta che riesco a parlarti.”
“Trova la mia prigione. Liberami, o il loro re sorgerà dalla terra, e io sarò distrutta. E tu non recupererai mai la tua memoria.”
“Hai tempo fino al tramonto del solstizio, Jason. Quattro, brevi giorni. Non deludermi.”
E poi era scomparsa, lasciandolo sbigottito e confuso.
Chirone gli aveva detto che lui non avrebbe dovuto essere lì al Campo. Che lui apparteneva ad un altro luogo.
Ma non gli aveva rivelato nulla di più, nonostante avesse detto di conoscere il significato del tatuaggio che aveva sull’avambraccio.
-Jason. – lo richiamò Chirone, che era rimasto in silenzio fino a quel momento. -Tu sai chi era quella donna? –
Jason annuì: -Giunone. –
-Esatto. – confermò l’uomo. -Non conosco il motivo, ma da quello che ha detto lei ti ha mandato qui perché tu partissi per salvarla, e… -
In quell’istante, la porta si spalancò.
Percy entrò con Piper tra le braccia, la testa della ragazza che pendeva di lato. Dietro di lui c’era Annabeth a sostenere una ragazza dai capelli rossi che piangeva violentemente.
-Percy! – lo chiamò Chirone. -Che è successo?! -
Jason si alzò immediatamente, lo sguardo illuminato dall’orrore, e lasciò che Percy si avvicinasse e adagiasse Piper sul divano. Annabeth aiutò Rachel ad accasciarsi vicino al mobile, prima di correre nell’altra stanza.
Percy sembrava nervoso, e Jason ebbe quasi l’istinto di allontanarsi da lui, ma la vista di Piper così inerme lo fece rimanere lì accanto a lei.
-Qualcosa si è impossessato di Rachel, e qualunque cosa fosse si è messa a gridare contro Piper. Credo che sia sotto shock. – spiegò brevemente Percy, lasciando che Chirone poggiasse una mano sulla fronte della ragazza.
Il centauro annuì: -È in uno stato mentale molto fragile. Ma con un po’ di riposo starà bene.-
Jason guardò il viso pallido di Piper, e nemmeno le rassicurazioni dell’uomo lo fecero sentire meglio. L’aveva lasciata sola per poche ore, e già sembrava sul punto di morire.
Annabeth arrivò con una scatola piena di fasce e ampolle, porgendola a Chirone.
-Chirone, è stata una donna a impossessarsi di Piper. – disse con ansia, stringendosi al fianco di Percy. -Ha detto che doveva essere liberata da una prigione e che… -
-Doveva accadere entro il solstizio di inverno. – mormorò Jason.
Percy ed Annabeth lo guardarono sorpresi: -E tu come lo sai? – chiesero all’unisono.
Jason guardò il fuoco nel camino.
-Una donna è comparsa dalle fiamme, e ha detto la stessa frase a me. – si voltò verso di loro. -Credo fosse Giunone. –
-Chi?! – chiese Percy, ricevendo uno sguardo severo dalla sua ragazza.
-Sta parlando di Era. – chiarì Annabeth. -E potrebbe avere ragione. Era la sua voce quella con cui ha parlato Rachel, ed è successo nel suo tempio. –
Chirone non disse una parola.
-Se quello che dite è vero. – intervenne Percy. -Vuol dire che Era è imprigionata da qualche parte. E sapendo che è la regina degli dei… -
-Significa che qualcuno sta cercando di attaccare gli Olimpi. – concluse Annabeth.
Jason li guardò, stupito dalla loro intesa.
Annabeth alzò lo sguardo su di lui: - E dato che Era si è mostrata direttamente a te, significa anche che tu non sei un semidio qualunque. Sei arrivato qui per una ragione, ed essere senza memoria non è un caso. -
-Però perché usare le poche energie che le rimanevano per mandarmi qui, e per cancellarmi la memoria? – chiese nervosamente Jason.
-Avrà deciso che sei importante per la sua salvezza. Tu, insieme a Piper e Leo, probabilmente. – rispose Annabeth.
-Ma perché non ha chiamato gli altri dei per farsi aiutare? – chiese ancora il biondo.
Rachel parlò per la prima volta da quando era entrata. Sembrava ancora scossa, i suoi occhi erano gonfi e spalancati, rendendo la sua espressione quasi folle.  
-Gli dei hanno bisogno dei semidei per attuare il proprio volere sulla Terra. Il loro destino è sempre intrecciato al vostro. –
-Sì. – concordò Percy. -Ma non penso che si sarebbe disturbata a cancellare la memoria di un semidio e farlo arrivare fino a Piper e Leo perché noi lo trovassimo, solo per farsi salvare. C’è qualcosa di più… –
Il figlio di Poseidone si voltò verso Chirone, che stava facendo gocciolare il liquido di un’ampolla tra le labbra di Piper.
-E credo che lei Chirone ne sappia qualcosa. – concluse il ragazzo.
Chirone guardò Percy con quella che Jason pensò fosse tristezza, rammarico, come se mentire al ragazzo lo ferisse.
-Percy, perdonami figliolo, ma ho fatto un giuramento sullo Stige. –
Annabeth lo guardò stupita: -Non ci aveva mai… non ci aveva mai nascosto nulla, nemmeno sull’ultima Grande Profezia… -
-Vi lascio soli. – la interruppe Chirone. -Devo riflettere, prima di cena. Rachel, veglia su Piper finché non si sveglia, non dovrebbe succedere tra molto. –
L’uomo si voltò verso Annabeth e Percy: -Voi dovreste parlare con Jason. Mi dispiace ragazzi, ma è tutto quello che posso dirvi. – disse, prima di voltarsi e uscire dalla casa.
Percy sospirò, prima di voltarsi verso Jason.
-Facciamo un giro. Rachel, ti dispiace… - disse il figlio di Poseidone.
-No Percy, tranquillo. A dopo ragazzi. –
Jason seguì Percy ed Annabeth, uscendo dalla Casa Grande con la testa che gli lanciava fitte lancinanti.
Fuori il sole ormai stava calando, e il vento si era fatto più fresco.
Camminarono verso il padiglione a cielo aperto della mensa.
-Te la senti di dirci cosa ti ha detto Chirone quando eravate soli? – gli chiese Annabeth gentilmente.
Jason sospirò. Interpretare le parole del centauro sembrava impossibile persino a lui.
-Che io non appartengo a questo posto, e che la mia presenza qui è qualcosa che dovrebbe essere proibita, ma non ha aggiunto molto altro.–
Annabeth lo guardò incerta.
-Tu sai di cosa parla? –
Jason non poté ignorare l’insinuazione della ragazza.
-Non mento quando dico di aver perso la memoria. – sibilò, e si stupì del lieve ringhio che gli nacque nel retro della gola.
Annabeth lo guardò negli occhi, con uno sguardo impenetrabile come ferro, per poi annuire. -Perdonami Jason. Posso solo immaginare quanto sia difficile per te. –
Camminarono per poco in silenzio, finché Annabeth non prese parola.
-Che tu sia un semidio non è in discussione. – incominciò la ragazza. -Ma tu non sei come tutti gli altri ragazzi che arrivano qui. –
Annabeth rimase in silenzio per un secondo, lo sguardo concentrato, prima di voltarsi a guardare il ragazzo dai capelli biondi.
-Era ha detto di essere stata lei a mandarti qui, e di aver usato le ultime energie che possedeva per cancellarti la memoria. Significa che temeva che il tuo passato interferisse col tuo arrivo qui. –
Jason temette di essere ad un passo dall'avere un esaurimento nervoso.
-Quindi perché scegliere me? Perché mandare un ragazzo che non dovrebbe trovarsi qui? –
Percy ridacchiò al suo fianco, parlando per la prima volta da quando erano usciti dalla Casa Grande:
-Perché spesso quello che gli dei fanno sono stronzate. - rispose, e Jason vide Annabeth scoccargli un’occhiataccia nonostante stesse soffocando un sorriso.
Jason sorrise a sua volta. Percy iniziava a piacergli davvero.
-In ogni caso Jason, posso solo consigliarti di prepararti al peggio. – disse Annabeth sorridendogli.
-Non vedo l’ora. – disse lui con una risatina, e calò un piacevole silenzio tra loro.
Jason non riusciva però a trattenere il senso di smarrimento. Si era svegliato in un luogo che non conosceva, senza alcun ricordo di sé stesso, guidato solo dall’istinto e dagli eventi.
Eppure, ora che sapeva che la regina degli dei aveva bisogno del suo aiuto, sentiva di avere uno scopo. Forse non poteva contare sul suo passato per andare avanti, ma ora aveva un obbiettivo che gli avrebbe dato delle risposte, e avrebbe fatto qualunque cosa per averle.
-Verrò riconosciuto dal mio genitore divino stasera? – chiese.
Ormai erano arrivati al padiglione, dove già molti ragazzi erano riuniti intorno ai tavoli nella rumorosa e gioiosa atmosfera della mensa.
Annabeth diede un bacio sulle labbra a Percy, e dopo aver rivolto un sorriso incoraggiante a Jason andò a sedersi con i suoi fratelli.
-Speriamo di sì. –rispose finalmente Percy, gli occhi illuminati da un'astuta malizia. -Anche se non dovrebbe essere necessario. –
Jason lo guardò incredulo: -A cosa… -
Il ghigno sul viso di Percy si allargò:
-So riconoscere un figlio di Zeus quando ne vedo uno. –
 
Piper stava camminando con Rachel verso il falò.
Aveva dormito per tutta la durata della cena, e quando si era svegliata Rachel l’aveva fatta alzare per andare dagli altri.
Quando arrivò a quel tanto famoso falò, si trovò sotto ai gradoni in pietra chiara di un anfiteatro scolpito nel fianco di una collina. Davanti a lei, un grande braciere di pietra accudiva un grande fuoco.
Seduti sugli spalti c’erano invece un centinaio di ragazzi, e Piper riconobbe subito Annabeth e Jason seduti in prima fila, mentre Leo era seduto poco lontano insieme a quelli che dovevano essere gli altri figli di Efesto. Percy invece era seduto sui gradini appena dietro ad Annabeth e Jason, e rideva sguaiatamente insieme al satiro seduto vicino a lui.
C’erano dei ragazzi che ballavano malamente intorno al fuoco insieme ad altri satiri e semidei che saltellavano con loro suonando i flauti. Quasi tutti i presenti cantavano con loro, tra risate maltenute e passi di danza bizzarri. Era un’atmosfera leggera, di festa, e Piper non poté impedirsi di sorridere.
Rachel la invitò a sedersi con lei in alcuni dei posti liberi in prima fila.
Poco dopo, Piper vide con stupore un centauro correre verso di loro.
La parte inferiore equina era bianca e dalle forti zampe, mentre la parte superiore umana era quella di un uomo dalla barba curata e con dei ricci capelli castani, lunghi abbastanza da sfiorargli le spalle.
Il centauro trottò verso il braciere, mentre tutti i ragazzi tornavano a sedersi.
-Buonasera ragazzi. – tuonò, sollevando una lancia carica di marshmallow dal fuoco.
-Vorrei dare uno speciale benvenuto ai nostri nuovi arrivati. Io sono Chirone, direttore del campo, e mi solleva che siate arrivati a noi con tutte le membra al loro posto. Prima di goderci la serata vorrei… -
-Annunciare una partita a Caccia alla Bandiera? – gridò qualcuno.
-Pazienza ragazzi. Finché non avremo il drago sotto controllo, non ci saranno partite di Caccia alla Bandiera. – rispose il centauro. -Casa Nove, qualche novità? –
Piper si voltò verso il gruppo di Leo, che le sorrise facendo il gesto di mandarle un bacio.
Una ragazza da vicino a lui si alzò: -No ragazzi, mi dispiace, ci stiamo ancora lavorando. –
Dei mormorii infelici provennero dal resto dei semidei.
Chirone pestò lo zoccolo a terra, riportando l’attenzione dei ragazzi su di lui.
-Purtroppo, abbiamo questioni più urgenti di cui discutere. – incominciò Chirone.
Osservò brevemente i ragazzi seduti sugli spalti, e il suo sguardo indugiò su Rachel.
-Come sapete, nelle ultime settimane gli dei sono rimasti in silenzio. Oggi, Era ci ha comunicato che è stata rapita. –
La valle cadde nel silenzio più assoluto, pochi bisbigli risuonarono nell’aria. Il fuoco si tinse di blu, per qualche ragione.
Piper incrociò lo sguardo con Jason, che cercò di sorriderle.
Chirone si voltò verso Rachel, la quale non esitò ad alzarsi da di fianco a Piper e a raggiungere il centauro al centro. Tutti i semidei intorno a Piper sembrarono tendersi come corde di violino.
-Ho motivo di credere, che la Grande Profezia si stia avverando – disse solamente Rachel.
Scoppiò la baraonda.
Molti semidei si alzarono in piedi sconvolti, urlando improperi in greco antico e parlando con rabbia gli uni agli altri.
Gli unici che rimasero in silenzio furono Percy ed Annabeth. Piper li vide scambiarsi uno sguardo indecifrabile, prima che Percy si alzasse in piedi e si portasse accanto a Rachel e Chirone.
-Ragazzi! – disse, e non servì nemmeno che urlasse. Tutti si voltarono a guardarlo, abbassando la voce. -Ascoltiamo quello Rachel ha da dirci. –
Piper rimase sorpresa dalla facilità con cui il ragazzo aveva ristabilito la calma nell’anfiteatro.
Rachel infatti gli sorrise con gratitudine, prima di riprendere parola.
-Questa Grande Profezia è stata la mia prima predizione, lo scorso agosto, e recita così:
 
Sette mezzosangue alla chiamata risponderanno.
Fuoco o tempesta il mondo cader faranno…
 
Piper si voltò di scatto alla sua destra, quando vide Jason alzarsi improvvisamente in piedi con gli occhi spalancati.
— Ut cum spiritu postrema sacramentum dejuremus — recitò lui. — Et hostes ornamenta addent ad ianuam necem. –
Rachel lo osservò incredula. Tutti i ragazzi erano rimasti in silenzio, straniti.
-Hai appena concluso la profezia. – mormorò la ragazza dai capelli rossi. -Con l’ultimo fiato un giuramento si dovrà mantenere, e alle Porte della Morte, i nemici armati si dovran temere. Come conosci…? –
-Conosco questi versi… - il ragazzo si portò le mani alle tempie. -Io… non ricordo. -
-In latino! – cinguettò Drew, una figlia di Afrodite. -Bello e intelligente. –
Piper alzò gli occhi al cielo, mentre Jason tornò lentamente a sedersi con imbarazzo.
-Drew. – la riprese Annabeth, lo sguardo severo che bastò a far zittire la figlia di Afrodite.
Rachel sembrò riprendersi dalla sorpresa.
-Non sappiamo ancora nulla su cosa significhino i versi, ma sappiamo che Era va liberata. Abbiamo intenzione di condurre un’impresa per salvare la regina degli Dei. E questo necessita una profezia a parte. – disse ancora l’oracolo, prima di svenire.
Piper sobbalzò, ma nessuno sembrò sorpreso quanto lei.
Due ragazzi corsero a sorreggerla un attimo prima che cadesse, quasi se lo fossero aspettato, e la misero a sedere appoggiata al muretto di pietra che circondava il braciere.
Poi la ragazza spalancò gli occhi, che si illuminarono di un’abbagliante luce verde, le pupille scomparse. La sua bocca si aprì, e un vapore dello stesso colore dei suoi occhi le uscì dalla gola, prima che incominciasse a parlare con una voce che fece inorridire Piper.
 
Attento alla terra, figlio della saetta.
I sette verranno alla luce con i giganti e la loro vendetta.
Fucina e colomba la gabbia spezzeranno,
e con la furia di Era la morte scateneranno.
 
Pronunciata l’ultima parola, la ragazza si accasciò a terra, ma i due ragazzi furono di nuovo pronti a sostenerla. La portano in cima agli spalti, lasciando che riposasse.
Piper era incredula, pietrificata.
Ma prima che potesse parlare, Chirone si fece avanti pestando pesantemente gli zoccoli a terra.
-La profezia parla chiaro. – disse, e si voltò verso Jason. – Jason Grace, figlio di Zeus, tu condurrai l’impresa per salvare la regina degli dei. –
Jason spalancò gli occhi, e tra i mormorii di sorpresa il biondino lanciò uno sguardo a Percy. Piper non comprese il perché, ma il ragazzo, che era rimasto al fianco di Chirone, rivolse a Jason un piccolo sorriso di intesa.
-Jason, mostra la tua arma, proverà che sei il figlio del re degli dei. – ordinò il centauro.
Jason tirò fuori la moneta dalla tasca, alzandosi.
La lanciò in alto facendola roteare in aria, e quando atterrò nel suo palmo questa si allungò fino a diventare una lancia d’orata percorsa da fasci d’energia che si arrampicavano lungo l’asta.
Tutti trattennero il fiato, e Piper si alzò in piedi involontariamente.
Jason, il ragazzo che tanto le piaceva, ovviamente era un figlio di Zeus.
Dopo qualche secondo il ragazzo ritrasse l’arma, che tornò ad essere una moneta d’oro.
Le voci dei semidei intorno a lui si fecero più alte, mille domande si sollevavano nell’aria.
Annabeth si alzò, avvicinandosi a Percy al centro dell’anfiteatro.
-Calma ragazzi! – urlò la ragazza. -È deciso. Jason, il figlio della saetta, guiderà la spedizione. E secondo la profezia, un figlio di Efesto e un figlio di Afrodite andranno con lui. –
Leo si alzò in piedi così velocemente che Piper pensò che potesse cadere.
-Andrò io! – urlò Leo. -Sono un figlio di Efesto! – il suo sguardo speranzoso andò a Jason, che in risposta gli sorrise.
-Certo. Leo verrà con me in quanto mio amico e figlio di Efesto. –
Percy annuì, scambiandosi un breve cenno con Chirone.
-Perfetto. Ora, dei figli di Afrodite, chi… - disse il ragazzo, ma un bagliore proveniente dalla sua destra lo fermò.
Piper non si rese conto di essere lei a brillare finché il ragazzo non si voltò di scatto verso di lei. La ragazza si sentì come bruciare, e scattò in piedi d’istinto. Vide una luce rossa come il fuoco provenire dal suo corpo, e le prese il panico.
Ma quando pochi attimi dopo scomparve, le mancò il fiato.
I suoi vestiti larghi e mal ridotti si erano trasformati in uno stupendo abito bianco e lungo. Al suo fianco, pendeva il pugnale che quel giorno Annabeth le aveva lasciato scegliere, lucido e scintillante alla luce del fuoco. Se lo sfilò dal fodero, e quando vide il suo riflesso sulla lama non poté impedirsi di pensare di essere bellissima.
-Cos’è successo? – mormorò Piper, guardandosi nervosamente l’abito.
-Non può essere… - sentì Drew mormorare.
Annabeth sorrise, e le si avvicinò, prima di rivolgerle un breve inchino. Insieme a lei, tutti gli altri si inchinarono.
-Ave, Piper McLean. – disse Annabeth. -Figlia di Afrodite. –
 
Quella notte, Percy ebbe un incubo.
Era qualcosa che capitava più spesso di quanto gli piacesse ammettere, ma stavolta fu diverso.
Sognò di camminare tra delle strade in fiamme. Il cielo sopra di lui era oscurato dal fumo,  l’aria diventata irrespirabile tanto era carica di cenere e polvere.
Aveva la spada legata alla schiena, ma non portava né lo scudo né l’armatura.
E quando puntò lo sguardo di fronte a sé, il suo cuore perse un battito.
Si trovava nella valle del Campo Mezzosangue, in mezzo alle fiamme e a centinaia di cadaveri mutilati e sfigurati dal fuoco. C’era un’enorme faglia che spaccava la terra di fronte a lui, ma la cosa ancora peggiore fu sentire le grida perforanti che provenivano dalle sue spalle. Quando Percy si voltò, vide il fuoco che bruciava e devastava le capanne del Campo, e vide le sagome scure dei bambini che cadevano tra le lingue di fuoco urlando.
Il rumore della morte gli fischiava nelle orecchie, l’odore di sangue e carne bruciata gli fece venire il voltastomaco.
Percy Jackson, la guerra è iniziata.
Gli mormorò improvvisamente una voce lontana, stremata e indebolita come quella di una vecchia donna. Percy mantenne gli occhi fissi sulla distruzione che lo circondava, incatenati alla vista della sua casa annientata, della sua famiglia sterminata.
Una singola lacrima gli rigò la guancia.
Anche la tua missione incomincia stanotte. Devi andartene. Vai ad Ovest. Lupa ti troverà, e ti condurrà dai romani.
Il campo in fiamme scomparve.
Vide la baia di San Francisco, il mare brillava sotto alla calda luce del sole.
Vide un grande lupo grigio dagli occhi gialli, che ringhiava possente mostrando le zanne d’oro.
Devono credere che tu sia scomparso. Non dire a nessuno del tuo viaggio, vattene senza lasciare traccia. Te lo ordino io, Era, regina dell’Olimpo.
Vide una città bianca, con edifici maestosi e ragazzi che camminavano tra le strade reggendo armi dorate.
Vide un grande stendardo viola, con sopra le lettere SPQR ricamate in oro sotto ad un’aquila.
 
Si svegliò madido di sudore, gli occhi spalancati nel buio.
Per un secondo, non riuscì a respirare. Sentiva solo il mare infrangersi rabbioso sulla riva fuori dalla capanna.
Si tirò improvvisamente a sedere, colto dal panico.
In quel momento la luce a fianco del letto si accese, e Percy sobbalzò.
Annabeth accanto a lui lo guardava preoccupata, mentre si alzava tenendo la coperta contro il petto a coprirle la pelle nuda.
-Percy, stai bene? – mormorò lei, accarezzandogli il braccio.
Il figlio di Poseidone tentò di parlare, ma tutto ciò che riuscì a fare fu rimanere a guardarla in silenzio.
Era gli aveva appena ordinato di partire per un’impresa. Da solo.
Devono credere che tu sia scomparso. Non dire a nessuno del tuo viaggio, vattene senza lasciare traccia.
Avrebbe dovuto dire ad Annabeth di non preoccuparsi, di tornare a dormire. Avrebbe dovuto darle un bacio per poi andarsene senza che lei o nessun’altro lo sapesse.
Si immaginò la ragazza che si svegliava il giorno dopo, senza che lui fosse al suo fianco. La immaginò cercarlo ovunque per il campo, invano. La vide inginocchiata a terra, che piangeva.
Non poteva.
Le aveva fatto una promessa.
-Ho fatto un sogno. – mormorò alla fine.
-È tutto finito Percy… - cercò di confortarlo la ragazza.
Percy scosse la testa: -No, no. Era mi ha affidato una missione. –
Annabeth ammutolì, e si tese. Percy le prese delicatamente la mano.
-Ha detto che devo partire. Stanotte. Devo andare ad Ovest, e trovare una lupa con le zanne d’oro. - 
-Perché? Percy che… -
-Ha detto che mi avrebbe condotto ai Romani. – disse. -Ho visto una città Annabeth, c’erano ragazzi armati di spade e lance dorate, e reggevano uno stendardo viola con le lettere SPQR ricamate sopra. –
Annabeth abbassò lo sguardo, le sopracciglia corrugate dalla concentrazione.
-Come il tatuaggio di Jason. Quelle sono le lettere di Roma - concluse lei.  Gli occhi della ragazza si illuminarono: -Jason deve venire da lì. Ma perché… -
-Non lo so. So solo che Era vuole che io parta, e che vada là. –
Annabeth annuì. -Vengo con te. –
Percy sorrise amaramente.
-No Annabeth. Questa volta devo andare da solo. –
La ragazza lo guardò, e Percy vide qualcosa nel suo sguardo spezzarsi.
-Era mi ha detto di andarmene senza lasciare traccia. Dovevate pensare che fossi scomparso. – spiegò. -Annabeth, nessuno deve sapere del mio viaggio finché lei non sarà libera. –
La ragazza lo guardò con le lacrime agli occhi.
-Non potevo andarmene senza che tu sapessi che non ti avevo abbandonato. Ti prego amore, devi comportarti come se ti fossi svegliata senza trovarmi, devi fargli credere che io sia scomparso. –
La ragazza lo abbracciò di slancio, la testa nascosta nella sua spalla. Percy la strinse a sé con tutta la sua disperazione, con tutto il suo amore.
-Pensavo fosse finita… - mormorò la ragazza, e Percy chiuse gli occhi.
-Lo so. Andrà tutto bene Annie. –
Un’ora dopo, Percy era sulla spiaggia. Aveva uno zaino in spalla, e la spada nascosta nella tasca. Si sentiva così stanco, le sue palpebre gli sembravano pesanti come piombo.
Annabeth era davanti a lui, con solo una delle sue magliette addosso.
Percy pensò che fosse bellissima, nonostante avesse gli occhi pieni da lacrime. Ma più la guardava, più trovava la forza di partire
-Quando tornerai? – chiese la ragazza.
Percy abbassò lo sguardo, e le prese le mani tra le sue.
-Non posso saperlo. – la guardò negli occhi. -Io tornerò da te Annabeth, non importa quanto costerà. Manterrò la nostra promessa. -
Annabeth gli gettò le braccia al collo, e Percy pregò di poter rimanere lì, stretto a lei per il resto dei suoi giorni.
-Ti amo Sapientona. –
-Anche io Percy. So che tornerai. –


La mattina dopo, nessuno vide Annabeth o Percy a colazione.
Grover disse che sarebbe andato a tirarli fuori dalla Cabina di Poseidone. Trotterellò allegramente per le strade del Campo con un sorriso malizioso dipinto sul viso.
Ma quando arrivò davanti alla Casa Tre e aprì la porta, il suo sorriso morì mentre i suoi occhi si spalancavano.
Sull’unico letto nella stanza c’era Annabeth, seduta tra le lenzuola sfatte, che piangeva disperatamente fissando il vuoto. Le lacrime le scorrevano impietose e inarrestabili sulle guance, i suoi occhi erano rossi e gonfi come se piangesse da ore e cerchiati da profonde occhiaie violacee. Aveva le ginocchia sporche di terra, le scarpe ai piedi.
La ragazza voltò si voltò debolmente verso di lui, guardandolo con straziante disperazione.
-Percy...non c’è...- mormorò lei singhiozzando. Il satiro sentì la terra mancargli sotto agli zoccoli.
-Grover, non so dov'è... –

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Capitolo 2
*** Corna come il Diavolo ***


Corna come il Diavolo


Tutto sommato, la loro impresa fu un successo, pensò Jason.
Una consolazione momentanea ed effimera, considerando quello che li aspettava una volta tornati al Campo, ma se la fecero bastare.
Dopo essere stati catapultati dritti nella mensa per l’ora di cena, Jason, Piper e Leo si godettero una breve serata di festeggiamenti e riposo.
La mattina dopo, vennero chiamati alla riunione dei capigruppo, o anche nota come il Consiglio del Campo Mezzosangue.
E non era assolutamente come Jason avrebbe immaginato.
Erano nella sala ricreativa della Casa Grande, seduti intorno ad un tavolo da ping-pong e circondati da muri tappezzati da mappe, fogli pieni di appunti e progetti, insieme ad alcune fotografie ed una lavagnetta che fungeva da tabellone dei punti per i tornei.
Lui, Leo e Piper sedevano a capotavola, mentre gli altri capigruppo erano rimasti ai lati del tavolo. Solo Rachel e Chirone avevano preso posto all’estremità opposta rispetto a loro.
Clarisse sedeva con i piedi appoggiati sul tavolo, mentre Clovis accanto a lei dormiva scomposto. Travis Stoll teneva un accendino acceso sotto ad una pallina da ping-pong, mentre Will ne faceva ribalzare una sul tavolo usando distrattamente una racchetta.
Era tutto così disordinato e informale, ma Jason non poté impedirsi di sorridere.
Poi dalla porta comparve Annabeth.
Aveva i voluminosi capelli ricci legati in una coda alta e stretta, che suo malgrado non faceva che esporre la stanchezza che le gravava sul viso. Indossava un paio di jeans e una felpa blu di almeno tre taglie troppo grande, che la faceva sembrare così piccola, quasi adorabile.
Tutti quanti la salutarono con dei sorrisi incoraggianti e in molti, compresa Clarisse, si alzarono per abbracciarla prima che Annabeth prendesse posto accanto a Jason.
Il ragazzo si rese conto che al tavolo rimase un’unica sedia vuota, e pensò che probabilmente fosse quella di Percy. Nessuno aveva osato né usarla né spostarla, come se il figlio di Poseidone fosse solo in ritardo e lo stessero aspettando.
Jason venne distolto dai suoi pensieri quando Chirone si schiarì la voce.
-Ordine ragazzi, ordine. – li richiamò il centauro. -Clarisse, sveglia Clovis. Con gentilezza se possibile. Travis, spegni la pallina da ping-pong, grazie. –
Clarisse in risposta sorrise malignamente dando un sonoro colpo di stivale sulla testa di Clovis, e Will rubò la pallina a Travis con un velocissimo scatto della mano.
-Perfetto. Jason, Piper e Leo sono tornati vittoriosi dalla loro impresa, più o meno, e direi che è arrivato il momento di discutere di quanto accaduto. Ragazzi, vi dispiacerebbe raccontarci? –
Jason scambiò un breve sguardo con i suoi migliori amici, e ai loro cenni di incoraggiamento si alzò in piedi, cominciando a raccontare. Venne interrotto solo da Leo, che a volte contribuiva al suo racconto con battute e commenti sarcastici. La parte più difficile però, fu spiegare del suo passato.
-Era mi ha restituito la mia memoria. Esiste un altro campo, proprio come questo, ed io vengo da lì. Siamo come voi, tutti semidei, ma siamo figli degli dei di Roma. –
Cadde il silenzio. Alcuni ragazzi lo guardarono come se fosse pazzo, Annabeth non cambiò minimamente espressione e Clarisse ridacchiò.
-Ovviamente ci crediamo tutti. – rispose la figlia di Ares.
Piper si sporse in avanti: -Gli dei ci hanno tenuti separati per secoli perché siamo sempre stati nemici che hanno causato guerre spaventose. –
-Certo. E sentiamo, voi sareste diversi da noi perché…? –
Jason le rispose con ritrovata sicurezza:
-Siamo figli della forma più bellicosa, incline all’espansione, alla conquista e alla disciplina degli dei greci. –
Ci furono alcuni mormorii indistinti. Poi Will Solace prese parola:
-Quindi, perché dopo secoli di lontananza, Era ti avrebbe mandato qui? – 
Jason si voltò lentamente verso Annabeth, che lo guardava dal basso con le braccia conserte e gli occhi freddi e duri come acciaio.
-L’ho chiesto alla Regina degli Dei in persona. E lei mi ha detto che Annabeth conosceva la risposta alla domanda. – disse il figlio di Giove, un luccichio accusatorio negli occhi azzurri.
Tutti i ragazzi presenti si voltarono verso di lei, ma la ragazza in questione non distolse lo sguardo da lui. Jason pensò che facesse paura.
-Jason, di che parli? – chiese Chirone incerto.
-Era ha detto che nonostante non avrebbe dovuto, Annabeth era sempre stata a conoscenza del suo piano, dalla notte in cui Percy è scomparso. Aveva perfino capito da dove venissi, ma non l’ha rivelato. – mentre parlava, tutta la sua stanchezza e frustrazione gli montarono nelle viscere, rendendolo avventato. -Cos’altro ci nascondi Annabeth? Magari Percy è scomparso a causa tua, oppure… –
Annabeth reagì, improvvisa e veloce come un lampo.
La ragazza si alzò di scatto, senza avvertimento, sguainò il pugnale e lo piantò sul tavolo. Jason tolse la mano un secondo prima che la lama ci affondasse fino all’elsa.
Tutti intorno a loro sussultarono increduli, ma Annabeth mantenne gli occhi su Jason, rivolgendogli uno sguardo spaventosamente iroso. Aveva le dita ancora strette intorno all’elsa del pugnale.
-Attento a quello che dici Grace, soprattutto quando non sai di cosa parli. – sibilò.
Jason non disse nulla, gli occhi spalancati.
Annabeth gli riservò un’ultima micidiale occhiata, l’ammonimento chiaro nelle sue iridi tempestose, prima di voltarsi verso gli altri.
-È vero. Ho capito delle intenzioni di Era la notte che Percy è scomparso, e avevo anche intuito da dove Jason venisse.–
Clarisse la guardò con le sopracciglia aggrottate: -Come…? –
-Percy non è scomparso. – spiegò Annabeth. -Era gli apparve in sogno quella notte, e gli ordinò di partire ed andare ad Est, dove avrebbe trovato una lupa dalle zanne d’oro che lo avrebbe condotto dai Romani. Era voleva che Percy sembrasse scomparso. Io non avrei mai dovuto saperlo, come nessuno di noi. Ma Percy me lo disse, e mi fece giurare che non l’avrei rivelato a nessuno finché Jason non avesse ricordato del campo romano, perché sapeva di non poter permettere che il suo passato interferisse con la loro missione. –
Leo iniziò a picchiettare nervosamente le dita sul tavolo:
-Perciò Percy è andato al campo da cui viene Jason. –
-Esatto. – rispose Annabeth. -Ci pensai tutta la notte. Le lettere che Jason ha tatuate sul braccio, il fatto che parli latino e conosca gli dei con i loro nomi romani, sono tutti simboli che mi hanno indotto a credere che tu fossi uno dei figli di Roma di cui Era parlava. Allora ho capito. Lei voleva che greci e romani si unissero contro Gea, ma sapeva che non ci saremmo mai alleati dopo secoli di odio e guerre. Aveva bisogno che trovassimo un modo di andare d’accordo. – concluse la figlia di Atena.
Jason la guardò, un misto di ammirazione e sorpresa.
-Quindi ha mandato me qui, perché imparassi a fidarmi di voi. E ha mandato Percy al Campo Giove per conquistare la loro fiducia. – concluse Jason. -Ma perché cancellare i miei ricordi e non quelli di Percy? -
Tutti i ragazzi nella stanza abbassarono lo sguardo.
Annabeth sospirò.
-Tu non hai idea di che cosa Percy sia in grado fare. Senza i suoi ricordi, senza quello che ha imparato su sé stesso e su quanto distruttivo possa essere il suo potere, sarebbe stato un pericolo. – disse la ragazza, prima di alzare lo sguardo su Jason. -Una mina vagante pronta ad esplodere. –
-Quindi cosa farà? – chiese Piper. -Arriverà al Campo Giove annunciando di essere un semidio greco in cerca di alleati?–
-Lo uccideranno. – mormorò Jason. -Non ce la farà. -
Annabeth si strinse nelle spalle: -Deve farcela. –
 

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Capitolo 3
*** Run Boy Run ***


Run Boy Run


Percy non riusciva a capire.
Erano tre giorni che veniva inseguito da quelle due gorgoni.
La prima volta che gli avevano sbarrato la strada le aveva uccise facilmente, facendole a pezzi con la spada. Eppure, dopo pochi secondi, avevano incominciato a riformarsi sotto i suoi occhi inorriditi.
Il giorno dopo le aveva investite con una macchina della polizia, e il giorno seguente le aveva dato fuoco. E ogni volta, due o tre ore dopo, le aveva avute nuovamente alle calcagna.
Perciò, non gli restava che scappare.
La mattina del 19 di giugno Percy aveva dovuto rinunciare all’idea di uccidere le due sorelle, e si era dato ad una fuga disperata. Da ore ormai correva con la spada spiegata stretta in mano, ed era troppo stanco persino per continuare a guardarsi costantemente alle spalle. Era sempre stato incredibilmente veloce ed era sempre riuscito a correre per distanze estreme, più di quanto qualunque mortale avrebbe potuto fare, ma non poteva reggere a quel ritmo per tutto quel tempo.
E ormai, la maledizione di Achille era l’unica cosa che lo salvava dalla morte.
Ma erano settimane che non dormiva più di tre ore al giorno e che mangiava quel poco che poteva rubare, e il suo corpo non avrebbe retto ancora a lungo.
Era arrivato in cima ad una collina quando fermò la sua corsa disperata per un attimo.
Sapeva di essere vicino alla fine del suo viaggio, ma sapeva anche che trovare il Campo Giove non sarebbe stato facile neppure ora che era così vicino.
Alla sua sinistra, colline dorate si spiegavano morbide verso l’entroterra, e alla sua destra le pianure di Berkeley e Oakland si stendevano verso ovest in un’ampia scacchiera di quartieri, popolati di diversi milioni di persone.
Più lontano, ad ovest, la baia di San Francisco scintillava sotto la nebbia, che lasciava scoperte solo le cime dei grattacieli e i piloni del Golden Gate.
Non era la prima volta che vedeva la città. Lui era già stato là quasi tre anni prima, insieme a Grover, Thalia e Zoe, quando stava cercando Annabeth.
Il pensiero gli fece stringere il cuore. Viaggiava da sei mesi, completamente da solo salvo per il periodo trascorso con Lupa e il suo branco, e la solitudine lo aveva prosciugato più di qualunque altra cosa. Voleva disperatamente avere i suoi migliori amici accanto, e ormai era l’unico pensiero che lo spingeva a continuare.
Sospirò pesantemente, e rafforzando la presa sulla spada riprese a correre, salendo fino ad affacciarsi sul versante occidentale.
Sotto di lui c’era uno strapiombo di forse una ventina di metri, e ancora più giù ai piedi della collina c’era l’autostrada diretta a Berkeley.
Lui non aveva altre vie di fuga, perchè era salito troppo in alto. E scendere era impossibile.
Il suo istinto però gli gridava di farlo.
Percepiva della magia provenire dal tunnel che la strada scavava nella roccia, e qualcosa gli diceva di essere nel posto giusto, solo troppo in alto.
Poi, una voce familiare lo fece trasalire:
-Eccoti qua! –
Percy si allontanò di soprassalto, e per poco non cadde dallo strapiombo.
Voltandosi si ritrovò davanti Steno, la gorgone che non aveva mai smesso di sorridergli e cercare di offrirgli degli stuzzichini da un vassoio di metallo.
La scacciò con un fendente: -Dov’è tua sorella? –
-Steno! – urlò la seconda gorgone, che comparve alla destra di Percy. -Dovevi ucciderlo! –
-Oh Euriale, è così un bel ragazzo, perché non possiamo catturarlo e basta? –
-No stupida, ha ucciso Medusa! Merita la sua stessa sorte! –
-In mia difesa. – disse Percy facendo un passo indietro, la spada tesa davanti a sé. -Lei ha cercato di trasformarmi in una statua da giardino. –
-Silenzio semidio. – sibilò Euriale. -La maledizione di Achille ti ha protetto fino ad ora, ma presto troveremo il tuo punto vulnerabile e morirai. La nostra padrona ci ricompenserà immensamente… -
Percy aggrottò le sopracciglia: -Di che padrona parli? –
Aveva bisogno di distrarle. Perchè aveva un’idea, la più stupida, disperata e ridicola che gli fosse mai venuta in mente, ma avrebbe dovuto farsela bastare.
La gorgone sibilò: -La divina Gea, ovviamente. Le sue armate sono già in marcia verso sud, e quando alla Festa della Fortuna si risveglierà distruggerà gli Olimpi e tutta la loro sudicia progenie. –
Gea. La dea primordiale che nelle ultime settimane aveva iniziato a sibilargli nella testa promettendogli morte e sofferenza. Se fosse stato una persona qualunque, avrebbe già perso il lume della ragione.
-E lei ha dimostrato un particolare interesse verso di te, a ragion veduta… - mormorò Steno, ed Euriale si voltò verso di lei per scoccarle un’occhiataccia.
Percy non attese oltre.
Veloce come un lampo afferrò il vassoio di Steno e menò un fendente alla testa di Euriale, mozzandogliela. Poi colpì la sorella con il vassoio facendola svenire.
Si voltò a guardare lo strapiombo, sospirando rassegnato. Dietro di sé, Euriale si stava già riformando dalla polvere.
-Fate che funzioni. – sussurò, prima di sedersi sul vassoio e lasciarsi scivolare giù dalla collina.
Fu un miracolo riuscire ad evitare l’autostrada.
E dopo pochi ma terrificanti attimi di caduta, si schiantò in mezzo a dei cespugli, oltre la rete che separava un quartiere abitato dalla strada. E per quanto avrebbe voluto rimanere lì e svenire esausto, puntò lo sguardo sulla collina e vide le due gorgoni che ne scendevano molto più velocemente e agilmente di lui.
Si alzò con un gemito.
Zoppicò fino alla rete, e non fu difficile passare attraverso uno dei tanti squarci. Si ritrovò sul bordo della strada, con diverse macchine che gli sfrecciavano davanti.
Il suo sguardo volò ai due tunnel che l’autostrada creava nella collina.
E gli venne quasi da piangere.
In mezzo alle due corsie, c’era una terza porta scavata nella roccia. Una porta metallica con due ragazzi in armatura a sorvegliarla.
Un sincero sorriso di sollievo gli si dipinse sulle labbra, le spalle gli si rilassarono.
Era arrivato. Finalmente, dopo due mesi di viaggio, aveva trovato il Campo Giove.
-Sei stato così bravo! –
Percy trasalì nuovamente. Accanto a lui, seduta contro la rete di ferro, c’era una vecchia donna il cui aspetto lo fece rabbrividire. I capelli grigi e crespi le scendevano lungo la spalla in una lercia treccia rovinata che le contornava il viso rugoso, sporco e graffiato.
Quando gli sorrise, e Percy contò solamente quattro denti.
Poi lo sguardo del ragazzo fu attirato dal bastone che la vecchia reggeva. Era in legno secco e scheggiato, ma la punta formava l’intricata forma di un fiore di loto.
I suoi occhi si accesero di ira.
-Era?! - sibilò.
La vecchia ridacchiò: -Oh caro, come sei perspicace. Io sono Giunone, per la precisione. E dobbiamo sbrigarci, stanno per raggiungerci. –
Percy si voltò, e vide le gorgoni in cima al tetto di un palazzo. Stavano indicando nella sua direzione, prima di scomparire.
-Ha perfettamente ragione. Addio, spero di non rivederla mai più. – disse lui, pronto ad attraversare l’autostrada di corsa e senza voltarsi.
La donna però tese con incredibile velocità le dita contorte a stringerli la caviglia. Percy si irrigidì, e si voltò perforandola con uno sguardo di pura indignazione.
La vecchia semplicemente sorrise: -Percy Jackson, quanto risentimento per una povera vecchietta. Vuoi davvero lasciarmi qui? Mi ucciderebbero, quelle orribili creature… -
Percy ghignò con scherno -Un vero peccato... -
Ma Era non sembrò scomporsi nemmeno allora: -Avanti, figlio di Nettuno. Portami con te al Campo Giove. Avrai bisogno di me. –
-E cosa dovrei farmene io di una dea vecchia e maleodorante, di grazia? –
-Oh, io garantirò per te. Ti sarà tutto più facile con la benedizione di Giunone. E poi un ragazzo di buon animo come te sicuramente è disposto a compiere una buona azione. –
Il figlio di Poseidone si voltò con ansia crescente verso l'entrata del Campo Giove.
Doveva arrivare là. Ad ogni costo.
E doveva tornare a casa. Da Annabeth.
-Come crede. Prego, mi segua. –
La vecchia rise, e il suono non fece che accrescere il fastidio che Percy provava.
-Ragazzo, non posso camminare in queste condizioni. – disse, sollevando i bordi distrutti della gonna. Aveva i piedi gonfi, rossi e pieni di tagli.
Il ragazzo le rivolse un'occhiataccia, ma non si oppose. Non che ne avesse il tempo.
Si chinò quindi a sollevare la dea tra le braccia, con un braccio stretto sotto alle sue ginocchia ossute e uno intorno alla sua vita.
Lei ridacchiò contenta, avvolgendogli le mani callose intorno al collo.
Percy, cercando di ignorare l’alito fetido della dea, attraversò la prima corsia.
I clacson gli fischiarono nelle orecchie, qualcuno gli urlò qualcosa che si perse nel vento.
Percy si voltò, e vide le gorgoni fermarsi bruscamente al margine dell’autostrada a pochi metri dietro di lui. Accelerò la sua corsa, sfrecciando tra le macchine nonostante il peso della vecchia donna tra le braccia.
Arrivò fino alla linea di mezzeria, e non si fermò. Continuò a correre verso la porta sul fianco della collina, e vide le due sentinelle muoversi nervosamente.
Erano due soldati in armatura con gli elmi a coprirgli il viso. Percy pensò che quella a destra dovesse essere una ragazza, per via del fisico minuto e i lunghi capelli ricci e castani che le spuntavano da sotto l’elmo. Sulla sinistra invece c’era un ragazzo, massiccio e con l’arco in mano.
Lo vide incoccare una freccia.
-Aspetta, fermo! – gli urlò Percy, ma il ragazzo non stava mirando a lui. La freccia si scagliò oltre la sua testa, e il figlio di Poseidone sentì una delle gorgoni gemere alle sue spalle.
Arrivò alla porta col fiato corto: -Grazie! – ansimò.
-Frank! – disse la ragazza rivolta al compagno. -Dobbiamo farli entrare! –
-La porta non le fermerà. – ridacchiò Era. -Avanti, Percy Jackson. Dobbiamo attraversare il tunnel e poi il fiume. –
-Percy Jackson? – ripetè la ragazza, sfilandosi l’elmo. Aveva la pelle scura, i capelli ricci e castani e gli occhi color dell’oro.  Sembrava più giovane di lui, forse sui tredici anni.
-Sì, piacere. – le sorrise nervosamente. -Possiamo andare? –
L’altro ragazzo, Frank, annuì aprendo la porta. -Avanti entrate. Hazel, andiamo. –
-Io le trattengo, voi andate. – disse sicura, la lancia puntata di fronte a sé.
-Hazel sei impazzita?! – protestò l’amico.
-Vai! – gli urlò lei.
Frank imprecò in latino, prima di fare cenno a Percy di seguirlo.
Il figlio di Poseidone si infilò nello stretto passaggio illuminato da alcune tremolanti lampadine sul soffitto, e corse al seguito di quel ragazzo di nome Frank.
Quando puntò lo sguardo davanti a sé, vide la lontana fine del tunnel, un minuscolo punto di luce calda.
D’un tratto, Hazel gridò alle loro spalle.
Percy si bloccò sul posto, e pensò di disfarsi di Era e correre in suo soccorso. Ma poi tutto il tunnel fu scosso da una frana. Percy sentì le gorgoni gridare, e la luce ormai lontana dell’entrata venne oscurata dalla polvere.
-Non dovremmo andare da lei? – chiese preoccupato.
-Oh, se la caverà… spero — rispose Frank. — È brava sottoterra. Andiamo! Siamo quasi arrivati. – li incitò.
Percy gemette, i muscoli stremati e tremanti che faticavano a reggerlo in piedi.
Un attimo dopo, furono inondati dalla luce del sole.
Percy si fermò, sbalordito. Sotto di loro si stendeva un’ampia vallata di colline e pianure verdi e rigogliose, contornata dal corso di un fiume limpido.
Gli ricordò il Campo Mezzosangue. Un mondo segreto, nascosto ai mortali, protetto dalla magia. Al centro sorgeva città bianca e maestosa, che cresceva intorno ad una grande piazza. Oltre questa, la valle era costellata da piccoli templi, anfiteatri e arene.
Sotto di loro, il fiume scorreva impetuoso.
-Beh… questo è il Campo Giove. – disse Frank con orgoglio.
Un'attimo dopo però, dietro di loro, Hazel irruppe alla luce del sole coperta di polvere e terra.
-Stanno arrivando. – disse stremata. -Le ho solo rallentate… Dobbiamo attraversare il fiume.–
Era si intromise, sorridendo a Percy con occhi adoranti:
-Oh sì, che idea fantastica. Non lasciare però che mi si bagno il vestito, ragazzo. –
Percy avrebbe voluto risponderle a tono, ma frenò la lingua appena in tempo.
Corsero giù dalla collina, verso il fiume, e Percy impedì alle gambe di cedergli solo grazie ad una ferrea forza di volontà.
Quando mise piede nel fiume, sentì la stanchezza scivolargli dalle membra, l’acqua lo fece sentire di nuovo vivo.
Quando arrivò alla sponda opposta, si fermò osservando nervosamente la fila di sentinelle che avanzò verso di loro.
Percy però si dovette voltare quando sentì Hazel gridare al suo fianco, e sussultò.
Frank era ancora in mezzo al fiume.
E inevitabilmente, le gorgoni lo raggiunsero, affondando gli artigli nelle spalle e facendolo gridare di dolore. Le sentinelle avevano le frecce incoccate, ma Percy sapeva che temevano di colpire il ragazzo.
Puntò quindi gli occhi sul fiume.
Sentì la sua forza piegata al suo volere, una sensazione così inebriante e fortificante che lo fece sorridere involontariamente.
L’acqua si sollevò improvvisamente intorno a Frank, e con precisione innaturale si abbatté sulle gorgoni strappandole via dal suo corpo.
Percy sentì i ragazzi dietro di lui arretrare gridando, ma non distolse lo sguardo dal fiume. I suoi occhi brillavano scuri e verdi come un mare in tempesta.
L’acqua si avvolse spietata sul corpo delle due creature e le portò in alto, muovendosi come un serpente che si innalza verso il cielo. Poi, con un movimento repertino, la colonna d’acqua si schiantò verso il basso, sbattendo fatalmente le gorgoni sul fondo del fiume.
I loro resti si dispersero nella corrente rabbiosa, il rumore dell’acqua che scorreva era l’unica cosa che rompeva il silenzio che era piombato tra i semidei.
Percy rimase immobile sulla riva, ancora stringendo la vecchia tra le braccia, e i suoi occhi si spensero.
Frank barcollò in avanti, lo sguardo incredulo fisso sul figlio di Poseidone. Nessuno fiatò, nemmeno quando Percy si voltò verso i romani alle sue spalle.
Le sentinelle erano state raggiunte da altre decine di ragazzi, che lo guardavano con gli occhi spalancati.
-Che viaggio incantevole! – esclamò gracchiante la vecchia tra le sue braccia, e Percy la guardò sprezzante.
Senza avvertimento, lasciò la presa su di lei aspettando con ansia di vederla cadere rovinosamente a terra.
Ma non appena il corpo debole della vecchia donna sfiorò il terreno, si trasformò.
Percy si allontanò trasalendo, guardandola risplendere mentre cresceva in una dea alta più di due metri che indossava un abito azzurro e una pelle di capra sulle spalle. Era bellissima, gli occhi solenni e il volto severo contornato dai lunghi capelli castani.
Tutti i romani si inginocchiarono immediatamente nonostante la sorpresa.
Hazel emise un gemito di stupore: -Giunone… -
Percy invece rimase l’unico in piedi, ma non aggiunse una parola.
La dea sorrise compiaciuta: -Romani, vi presento il figlio di Nettuno. Il suo destino è nelle vostre mani. Presto arriverà la Festa della Fortuna, e la Morte dovrà essere liberata prima di allora se vorrete vincere la battaglia che vi attende. So che non mi deluderete. – concluse, prima di scomparire.
I romani intorno a Percy si voltarono immediatamente verso di lui, gli sguardi increduli e le bocce spalancate. Nessunò fiatò. Percy invece osservò con cauta curiosità la folla di soldati, prima di voltarsi verso Hazel e Frank accanto a lui. Loro tentarono di sorridergli, ma i loro occhi tradivano il loro nervosismo.
Per un attimo, Percy ricordò le parole di Lupa.
Non possono sapere chi sei o da dove vieni. Ti ucciderebbero.
Poi, una ragazza si fece avanti dalla folla.
Era alta, dai capelli lunghi e scuri e gli occhi neri come ebano. Aveva indosso un’armatura e un mantello viola. Da come si muoveva, dal suo abbigliamento così appariscente e dal suo sguardo Percy capì che dovesse essere un capo.
Guardandola, giurò persino di averla già vista, ma non seppe né dove né quando.
-Un figlio di Nettuno, portatoci da Giunone. – disse con freddezza lei, studiandolo attentamente. -Qual è il tuo nome? –
Percy la guardò negli occhi: -Percy Jackson. –
Gli occhi della ragazza si illuminarono per un secondo di risentimento, o forse amarezza, ma riuscì a nasconderlo in fretta. Percy pensò di aver avuto ragione: aveva già incontrato quella ragazza, e dal suo sguardo non doveva essere stato in circostanze felici.
-Io sono Reyna, pretore della Dodicesima Legione. – rispose lei, lo sguardo severo.
Percy non aggiunse altro, e sentì le voci alle spalle di Reyna farsi più alte e concitate.
La ragazza dai capelli scuri si voltò alla sua destra.
-Hazel, portalo dentro. Voglio interrogarlo ai Principia. Poi potrà andare da Ottaviano. Sempre se non si rivelasse un nemico da uccidere. –
 
Quando arrivarono ai Principia, Percy rimase a bocca aperta.
Era un palazzo a due piani di marmo bianco con il portico colonnato, sorvegliato da dei Centurioni in armatura. Sopra la porta svettava un vessillo viola.
Il ragazzo pensò con un amaro sorriso che Annabeth avrebbe amato quel posto.
Reyna si voltò verso di lui. Hazel e Frank li avevano accompagnati fin lì, camminando al fianco di Percy in silenzio.
-Hazel, tu vieni con noi. Voglio sentire da te quello che è successo. – ordinò. -Tu Frank, vai in armeria. Ti chiamerò se necessario. –
Frank strabuzzò gli occhi: -Ma Reyna, Percy mi ha salvato la vita, vorrei… -
-Io vorrei invece ricordarti che hai già causato abbastanza problemi questa settimana. Per di più, sei ancora in probatio. – disse, guardandolo severa.
Il ragazzo arrossì fino alla punta delle orecchie, prima di congedarsi con un veloce cenno del capo.
Reyna non aggiunse altro.
Li guidò all’interno del palazzo, in una grande sala che si estendeva in lungo sotto ad un soffitto maestoso dove il mosaico di Romolo e Remo sotto la loro madre Lupa scintillava di mille colori. Il pavimento era di marmo levigato e i muri erano ricoperti di drappi di velluto rosso scuro. Al centro della stanza c’era un tavolo ingombro di pergamene, quaderni e computer e con solo due sedie dalla spalliera alta.
Al fianco di quest’ultime due levrieri di metallo sedevano immobili, uno d’oro e uno d’argento.
Reyna aggirò la scrivania e si sedette con grazia su una delle due sedie, mentre Hazel si fermò di fronte al tavolo.
Percy la imitò.
-Raccontami la tua storia, Percy Jackson. Ti avverto, se menti, i miei cani lo sapranno. E non gli piacciono i bugiardi. – disse Reyna, o meglio, ordinò.
Percy lanciò uno sguardo confuso alle due statue vicino ai troni.
In quel preciso istante, i levrieri si mossero, ringhiando e scuotendo la testa con gli occhi che luccicavano rossi come il sangue.
Percy non lo diede a vedere, ma questo lo innervosì. Doveva trovare un modo di compiacere Reyna e i suoi levrieri di metallo senza però firmare la sua condanna a morte.
Era sempre stato bravo a mentire, e nonostante non gli piacesse farlo sapeva di non avere altra scelta. Pregò solo che gli dei lo aiutassero.
Compi la tua missione. Solo allora potrai rivelarti.
Pensa a quello che è successo a Jason.
-Non ricordo nulla della mia vita. – mormorò. -Qualche mese fa mi sono svegliato in una villa romana distrutta, e Lupa mi ha trovato. Non sapevo chi fossi, da dove venissi o come fossi arrivato lì. Lupa ha lasciato che seguissi lei e il suo branco per alcune settimane, e mi ha insegnato tutto quello che sapeva. Mi ha detto che ero un semidio, un figlio del dio del mare, e che mi attendeva un lungo viaggio. Poi mi ha indicato la via per arrivare qui, al Campo Giove, dove disse che avrei trovato una legione da servire. –
Raccontò delle gorgoni, di come Giunone gli avesse chiesto di portarla in braccio fino a lì.
Mentre parlava, il ragazzo si ritrovò a riflettere sul fatto che quei mesi di viaggio fossero stati orribilmente simili ad un periodo della sua vita che avrebbe tanto voluto dimenticare.
Quando a sette anni era rimasto solo in mezzo ad una strada.
E negli ultimi due mesi, si era ricordato come ci si sentisse ad essere completamente da solo, a rubare per non patire la fame o il freddo, ad essere inseguiti costantemente da creature che saltavano fuori dal buio pronte ad ucciderlo.
Era stato difficile, ritornare a vivere in quel modo. Solamente che stavolta, non c'era più nulla del mondo mortale che potesse spaventarlo.
Quando finì di raccontare, ci fu un secondo di silenzio.
Reyna non aveva mai smesso di guardarlo.
-La tua memoria è cancellata del tutto?  - chiese lei.
-Mi rimangono pochi frammenti. – rispose lui incerto. -Ma sembrano non avere mai significato.-
I levrieri rimasero immobili. I loro occhi brillavano, ma non si mossero.
Percy pensò che forse gli dei lo stavano davvero aiutando, o che forse era stata pura fortuna. Suonava incredibile in entrambi i casi.
Reyna lo guardò per un secondo: -Gran parte di quello che dici è comune per un semidio. Ad un certo punto della nostra vita troviamo Lupa, che ci addestra e mette alla prova, e se decide che siamo degni del posto ci manda al Campo Giove per entrare nella legione. –
Percy annuì, senza mai distogliere lo sguardo dalla ragazza.
Reyna abbassò gli occhi: -Sei vecchio per essere una recluta. Ed è sospetto che un figlio di Nettuno con un’aura così potente sopravviva per tutti questi anni da solo e senza addestramento. –
Percy sorrise spontaneamente: -Già, dicono che puzzo. – rispose, strappando un lieve e breve sorriso alla ragazza dai capelli neri.
-Beh, i cani non ti hanno attaccato, perciò crederò alla tua storia. –
-Fantastico. – rispose lui con entusiasmo, ma Hazel gli lanciò un’occhiata di avvertimento.
Reyna riportò i suoi occhi di ossidiana su di lui: -Ma non posso ignorare che il tuo arrivo mi preoccupi. Un figlio di Nettuno che arriva ai nostri cancelli con la Regina degli Dei tra le braccia, e che uccide le sorelle di medusa con preoccupante facilità mi suona sospetto e pericoloso. I Lari poi ti chiamano graecus, e indossi strani simboli. Ad esempio, che significato ha quella collana che porti? – concluse.
Percy abbassò lo sguardo sulla collana che portava al collo. Una fitta di nostalgia gli trapassò il cuore, e non poté impedirsi di sfiorare il medaglione con la punta delle dita. Le perline di marmo tintinnarono lievemente al tocco.
-Non lo so. – mentì.
-E la tua spada? – aggiunse Reyna.
Percy la guardò con sorpresa, e sospetto. Non aveva mai tirato fuori la spada da quando era arrivato al Campo Giove.
Ma lo sguardo inflessibile della ragazza lo convinse a non opporre resistenza, e tirò fuori la penna dalla tasca dei jeans neri.
Tolse il tappo, e Vortice si spiegò magnifica e splendente, ed Hazel al suo fianco trasalì meravigliata.
Reyna invece la osservò cupamente, mentre si alzava e gli si avvicinava con cautela. I levrieri si rizzarono sulle quattro zampe, ringhiando.
Quando gli fu di fronte, Reyna tese le mani verso di lui, e Percy lasciò che reggesse la spada.
L’elsa era di un bronzo celeste più scuro ed opaco di quello che componeva la lama, la guardia era corta e l’impugnatura ad una mano e mezza scintillava tenuamente alla luce del sole. La lama a doppio taglio era invece liscia e vitrea, dalla forma a foglia di salice e di un bronzo celeste chiaro e quasi trasparente, che risplendeva come se emanasse luce propria.
-È un’arma stupenda. – mormorò Hazel. -Non avevo mai visto nulla del genere. –
-Io sì. – disse Reyna. – È antica, un modello greco. Questo metallo si chiama bronzo celeste.– aggiunse, tracciando con un dito il piatto della lama. – Per i mostri è mortale quanto il nostro oro imperiale, ma è perfino più raro. –
Percy lanciò uno sguardo al pugnale che Reyna aveva lasciato sul tavolo. La lama era d’oro.
Reyna distolse gli occhi dall’arma del ragazzo. -Quest’arma non appartiene a Roma. Come te del resto, anche perché sul tuo braccio… -
Percy aggrottò le sopracciglia, ma quando Reyna sollevò l’avambraccio lui ricordò.
Ricordò di aver intravisto il tatuaggio quando Jason era arrivato al Campo Mezzosangue, e di avergli chiesto di mostrarglielo. Come lui, Reyna aveva tatuate le lettere SPQR, ma invece di un’aquila aveva il simbolo di una spada e una torcia incrociate con sotto quattro linee parallele.
Percy rivolse il suo sguardo ad Hazel.
-Ce l’abbiamo tutti. – disse lei, mostrando il suo. -Tutti i membri a pieno titolo della legione ne hanno uno. –
Quindi era questa la storia di Jason. Lui era stato per anni un membro del Campo Giove.
Reyna gli ridiede la spada: -Ma tu invece no. Significa che non sei mai stato un membro di una legione. –
Percy annuì distrattamente, ma non poté ignorare come gli occhi di Hazel si fossero spalancati alle parole di Reyna.
-Se ha viaggiato per così tanto, forse ha visto Jason! – esclamò lei, prima di voltarsi verso Percy. -Hai mai incontrato nessuno come noi? Un ragazzo con la maglietta viola e… -
Percy si irrigidì appena, colto alla sprovvista, ma cercò di nasconderlo quanto meglio potesse.
-No, io… non ho mai incontrato nessuno come voi. Chi è Jason? – chiese.
Reyna in risposta rivolse un’occhiataccia alla più piccola.
-Jason è stato il mio collega, finché non è scomparso lo scorso ottobre. I pretori in una legione sono sempre due. –
Il figlio di Poseidone si ritrovò a provare compassione per lei. Guardava Reyna, e vedeva una ragazza sfinita e sola sotto il peso di un compito pensato per due. Si sentiva in colpa per aver nascosto ciò che lui sapeva su Jason, ma non poteva compromettere la sua posizione. Aveva una missione, e una volta compiuta il figlio di Giove sarebbe potuto tornare a casa.
-Era ha parlato di una battaglia imminente, e che per vincerla dovremo liberare la Morte. Reyna, significa che… - provò ad avvertirla lui, ma la ragazza lo fermò.
-So benissimo cosa ha detto la dea Giunone. – disse, precisando il nome latino della Regina degli Dei. -E non permetterò che altro panico si scateni nel campo, non appena dopo che un figlio di Nettuno è arrivato ai nostri cancelli. Perciò, non fatene parola. –
-Cosa importa che io sia un figlio di Nettuno? – chiese indignato il ragazzo.
-Hazel. – lo ignorò Reyna. -Portalo sulla Collina dei Templi, trova Ottaviano, e spiega a Percy del campo. –
-Si Reyna. – rispose Hazel, prima di avviarsi verso l’uscita.
Percy guardò Reyna per un'istante, ma decise di voltarsi e seguire Hazel senza aggiungere altro. Andandosene, sentì Reyna rilassarsi notevolmente alle sue spalle.
-Ah, Hazel. – la richiamò Reyna con gentilezza. -Tuo fratello è arrivato poco fa. Magari dopo vorrai andare a salutarlo.–
Alla più giovane si illuminarono gli occhi, e rivolse alla più grande uno splendido sorriso prima di uscire dal tempio quasi saltellando dalla gioia.
Percy ridacchiò alla vista.
Dopo il suo breve giro dell’accampamento e la vista della città poco lontano da loro, Percy si sentì meglio.
Pensò che dopotutto iniziasse ad apprezzare sinceramente il Campo Giove.
Almeno finché non conobbe Ottaviano.
 
Quando uscirono dal tempio di Giove dove Ottaviano li aveva accolti, Hazel era furiosa.
Ottaviano era una delle persone più ripugnanti e arroganti che lei avesse mai conosciuto, e nonostante avesse accettato Percy nella legione il suo poco velato ricatto l’aveva lasciata indignata.
Percy la seguì in silenzio, aspettando che le sue imprecazioni in latino cessassero.
-Quel tipo non diventerà davvero pretore, vero? – chiese il ragazzo.
-Chi può dirlo. È un discendente di Apollo apparentemente senza talento, eppure ha molti amici potenti, non conosce scrupoli ed è pericolosamente manipolativo. – ribatté velenosa.
Percy annuì al suo fianco, e Hazel si voltò a guardarlo.
Quel ragazzo emanava un’aura di potere impossibile da ignorare, e che nemmeno vicino a semidei come Jason o suo fratello aveva mai percepito. Eppure, ora, mentre camminava rilassato al suo fianco, Percy si comportava con umiltà e gentilezza.
Era un ragazzo buffo, curioso e piacevole.
Ed era indubbiamente anche incredibilmente bello, come un dio romano. Era alto, col viso dai bei lineamenti, aveva degli indomabili capelli neri, gli occhi verdi come il mare e un fisico asciutto e muscoloso che conservava però una piacevole eleganza. Hazel pensò anche che quel ragazzo dovesse aver passato anni a combattere. Lo provavano i pallidi e profondi segni che gli marchiavano la pelle in molti punti sul corpo.
E insieme a quelli, il figlio di Nettuno aveva una cicatrice sull’occhio sinistro, più evidente e profonda delle altre.
Gli attraversava la pelle dal sopracciglio fino a sotto lo zigomo senza intaccare l’iride, e nonostante fosse incredibilmente sottile risaltava incredibilmente sulla sua pelle bronzea.
Stava per chiedergli come se la fosse procurata, ma si trattenne appena in tempo.
-Quindi ora che sono stato approvato dal panda di pezza squarciato, che succede? –
Hazel rise: -Beh, stasera verrai annunciato come recluta, e verrai assegnato ad una delle Coorti. –
-Chiaro. E tu a quale appartieni? –
La domanda fece sorridere amaramente la ragazza: -Alla Quinta. Purtroppo, non è il posto migliore dove trovarsi. – rispose Hazel.
Percy aggrottò le sopracciglia: -Perché? –
-Godiamo di una pessima reputazione, e sembriamo perseguitati dalla sfortuna. Jason era riuscito a migliorare la nostra posizione, ma da quando è scomparso siamo precipitati di nuovo nell’ombra. – spiegò tristemente la ragazza.
-Capisco. È un peccato. – commentò il ragazzo sorridendole gentile.
Era un sorriso così sincero e dolce che Hazel non poté non fare lo stesso.
-Poi potremo andare a dormire? – chiese speranzoso Percy.
Hazel scosse divertita la testa: -Temo di no. Stasera ci saranno i ludi di guerra. – spiegò lei.
Il ragazzo la guardò confuso, perciò Hazel continuò: -Sono delle simulazioni di assedio, per allenarci a combattere in vere battaglie. –
Percy ridacchiò.
-Fantastico. – rispose. -Quindi adesso andiamo da tuo fratello? –
-Si! – rispose Hazel con entusiasmo. -È un po’ riservato, ma è fantastico una volta che lo conosci. –
 
Nico non aveva idea di quello che stava per succedergli.
Era di fronte al tempio di Plutone ad aspettare che Hazel arrivasse. Aveva la spada nera al fianco, e si godeva gli ultimi e caldi raggi di sole che gli scaldavano il viso. Era più alto, l’estate gli aveva fatto tornare il tono olivastro che aveva sempre avuto da bambino, i suoi folti capelli neri erano cresciuti e i suoi lineamenti erano maturati ancora.
Aveva un lieve sorriso dipinto sul viso.
-Ehi Nico! – si sentì chiamare da una voce familiare. -Ho portato un amico. –
Nico si voltò, il sorriso si fece ancora più grande, ma quando alzò lo sguardo quello gli morì sul viso, lasciando spazio all’incredulo panico che gli si dipinse negli occhi.
Accanto a sua sorella, bello come un dio e dallo sguardo timido, c’era Percy Jackson.
Nico ammutolì, incapace di contenere la sua sorpresa.
E questo ad Hazel non sfuggì:
-Nico… questo è Percy. È appena arrivato. – incominciò, stranita.
Percy sorrise verso di lui, lo sguardo curioso che lo studiava come se lo vedesse per la prima volta.
Nico si sentì la terra mancare sotto i piedi.
Che cosa gli era successo?
Hazel dal canto suo stava fissando Nico con preoccupazione, e probabilmente la ragazza decise di dover aggiungere qualcosa.
-Percy ha… perso la memoria, e pensavo che magari lo conoscessi. – spiegò lei, insicura, prima di voltarsi verso il figlio di Nettuno. -Percy, lui è mio fratello, Nico di Angelo. –
Nico cercò di ricomporsi, e tese la mano verso il ragazzo come avrebbe fatto con qualunque sconosciuto che gli veniva presentato.
-No, temo di non averti mai incontrato. Ma è un piacere conoscerti, Percy. – disse, fingendo una calma che non aveva.
Percy era sparito da mesi. E ora era arrivato nell’unico posto in cui non avrebbe mai dovuto mettere piede, e senza memoria.
Il figlio di Nettuno gli sorrise: -Il piacere è mio. – rispose, facendo un passo avanti e stringendogli la mano.
Un attimo dopo però, la sua espressione cambiò completamente.
Percy lo guardò con malizioso divertimento, l’angolo della bocca teso in un ghigno.
E gli fece l’occhiolino.
Nico sussultò, guardandolo basito.
Ma Percy semplicemente fece un passo indietro, il suo sorriso tornò timido e cordiale.
Nico sentì il cuore soffocargli nel petto, ma dovette nascondere quando sconcertato fosse. Quel gesto poteva significare qualcosa, oppure nulla.
Stava di fatto che se Percy avesse fatto un singolo passo falso, la sua vita avrebbe potuto essere in pericolo. E quella di Nico con la sua.
Non poteva permettersi un rischio simile.
-Mi... mi hanno raccontato che sei arrivato con Giunone in braccio. – disse Nico. -E mi hanno anche detto che vi ha avvisato dell’arrivo dell’esercito di Gea. –
Percy annuì: -Già. È per caso una qualche divinità super-potente che viene a cercare vendetta? –
Nico guardò il figlio di Nettuno dritto negli occhi: quel ragazzo era un attore straordinario.
-Sì. – rispose Hazel. -È rimasta assopita per anni, ma sconfiggere i Titani e far scomparire Saturno sembra averla risvegliata. Lei e i suoi figli, i Giganti, vogliono tornare a governare. E la sua vendetta si scaglierà su di noi e sugli dei.–
Nico non si rese conto dell'errore di Hazel in tempo per fermarla.
Quando la ragazza smise di parlare, Percy la guardò con pura indignazione:
-Sconfiggere i Titani? Far scomparire Saturno?! – chiese con sarcasmo, e Nico ne fu certo.
Percy non aveva perso la memoria. Il figlio di Poseidone ricordava bene quanto gli fosse costato uccidere Crono, e quello che Hazel aveva detto non poteva che sembrargli un'insulto. Ma chiaramente sapeva anche che se voleva rimanere al Campo Giove il suo passato doveva restare un segreto.
Perchè sei qui?
Hazel guardò Percy quasi con timore, e Nico non poteva biasimarla.
-Sì... insomma, l’estate scorsa abbiamo marciato sul monte Otri, e Jason ha sconfitto il Titano Crio, e Saturno si è poi ritirato di conseguenza. – disse la più giovane.
Percy sembrò rendersi conto dell’effetto che il suo sguardo stava avendo su Hazel, perché cercò di ammorbidirlo.
-Capisco. – disse lui.
-Ad ogni modo. – intervenne Nico. -Gea si sta risvegliando. Ma temo non sia il problema più grande. –
Percy lo guardò.
-Ti riferisci a quello che ha detto Era...cioè Giunone, riguardo alla Morte? –
Hazel annuì in risposta: -Sì. Ha detto che la Morte deve essere liberata, perché altrimenti… -
Ma non finì mai di parlare.
Perchè Frank li raggiunse correndo.
-Ehi ragazzi! – li salutò con un sorriso, prima di voltarsi verso il figlio di Ade con timidezza, ma senza timore. -Ciao Nico. –
-Ciao Frank. – lo salutò lui con un sorriso di cortesia.
-Reyna mi ha detto di venire a prendere Percy. – spiegò il ragazzone. -Ottaviano ti ha accettato? –
Il figlio di Poseidone annuì: -Sì. Ha sventrato il mio panda di peluche. –
Frank ridacchiò: -Ah sì, mi dispiace, lo fa con tutti. Comunque è fantastico, sei uno di noi ora! Vieni avanti, dobbiamo ripulirti prima di cena. –
Frank diede una pacca sulla spalla di Percy, pronto a guidarlo verso il campo.
Ma Nico si fece avanti:
-Ehi Frank, che ne dici se lo accompagno io alle terme? Vorrei fargli delle domande, forse riesco a rinfrescargli la memoria. – disse con un sorriso nervoso, a suo malgrado, prima di voltarsi verso Hazel. -Ci raggiungete tra mezz’ora? Così Frank accompagna Percy all’adunata e io e te parliamo? –
Hazel lo guardò stupita, ma annuì riuscendo a sorridere con dolcezza.
Nico rivolse ad entrambi i ragazzi un sorriso, prima di stringere la spalla di Percy e spingerlo a seguirlo verso le terme.
Camminò velocemente, senza guardare il figlio di Poseidone, ma sapeva benissimo che stava ghignando compiaciuto al suo fianco.
Poco lontano dalle terme, prese il ragazzo per il braccio e lo trascinò in un stretto vicolo a lato della strada.
Percy lo guardò, e aveva di nuovo quell’aria inconsapevole dipinta in faccia.
-Che diavolo ci fai qui?! – sibilò il figlio di Ade.
-Non so di cosa parli, ci conosciamo? – replicò il più grande, trattenendo a stento un sorriso.
Nico stesso fece fatica a mantenere la serietà, ma non permise al suo volto di ammorbidirsi.
-Non prenderti gioco di me Perseus Jackson, rispondimi. –
Lo sguardo di Percy si tinse di malizia.
-Potrei farti la stessa domanda, Nico. –
-No, tu non capisci. – replicò il figlio di Ade. -Scompari dalla faccia della terra di punto in bianco, e dopo sei mesi ti becco a zonzo per un campo di cui non dovresti nemmeno conoscere l’esistenza a raccontare di aver perso la memoria.–
-Sono un attore nato eh? –
-Percy! –
-Va bene, va bene. – rispose l’altro. -È stata Era a mandarmi qui. Sei mesi fa ha turbato la mia fragile tranquillità per dirmi di partire senza che nessuno lo sapesse, e di cercare Lupa così che mi guidasse qui. –
Nico lo guardò con crescente comprensione, il suo sguardo si fece più dolce.
-Questo perchè... –
-Per unire i due campi. Ha cancellato la memoria a Jason prima di spedirlo al Campo Mezzosangue, e ora il grande onore tocca a me.  –
Nico corrugò le sopracciglia: -Ma perché non cancellare anche a te la memoria? Perché stai solo fingendo di averla persa? –
-Lo sai perché, Nico.– rispose Percy guardandolo dritto negli occhi.
Nico annuì, abbassando lo sguardo con le guance lievemente arrossate.
Percy era il semidio più potente che avesse mai conosciuto, forse persino il più potente mai esistito. E anche il più pericoloso.
-Ora. – disse Percy, incrociando le braccia al petto. -Dove sei stato tu per tutto questo tempo? Dopo il mio compleanno, quando sei scomparso, ti ho cercato per…-
-Per due settimane. – lo interruppe Nico sorridendo lievemente. -Lo so. Me lo ha detto mio padre, dopo che ha dovuto minacciarti di incenerirti pur di impedirti di venirmi a cercare negli Inferi. –
Percy non disse nulla, continuando a guardarlo in attesa.
Il figlio di Ade sospirò: -Mi spiace Percy. Io… avevo bisogno di stare da solo, di viaggiare. –
Il più grande lo studiò attentamente, rimanendo in silenzio per un secondo.
-Ed è viaggiando che hai trovato questo posto? –
Nico lo guardò negli occhi, e per un secondo si perse a guardarlo.
-No. – disse infine. -Io so del Campo Giove grazie a mio padre. Me lo ha mostrato perché io potessi accompagnarci Hazel. Lui voleva che lei arrivasse qui e che venisse accettata, e nominandomi Ambasciatore di Plutone io avrei potuto garantirle l’accesso. –
-Ambasciatore di Plutone! – ripetè il figlio di Poseidone con un sorrisone. -Complimenti Nico. -
Il ragazzino sorrise divertito, prima di alzare lo sguardo, e si sentì la persona più felice del mondo nel vedere l'espressione di dolce divertimento del più grande.
-Mi sei mancato Nico. – gli disse Percy, abbracciandolo di slancio e con forza.
Nico spalancò gli occhi dalla sorpresa, ma sorrise ancora di più: -Anche tu Percy… -

Frank aspettò Percy fuori dalle terme.
Il ragazzo ne uscì con addosso una maglietta viola del campo e dei jeans neri, aveva i capelli ancora umidi e un gran sorriso sulle labbra.
Frank gli sorrise divertito: - Meglio? –
-Non ne hai idea. – rise Percy, camminandogli a fianco.
Frank annuì con un sorriso.
-Nico è riuscito ad aiutarti con la tua memoria? – gli chiese poi incuriosito.
Percy scosse la testa, ma non disse nulla.
Frank immaginò quanto dovesse essere difficile per lui, non sapere nemmeno chi fosse.
-Nico ha accennato qualcosa sul fatto che lui ed Hazel non piacciono agli altri… - chiese invece Percy.
Frank sospirò: -Non è che non piacciono. Solo che essendo figli di Plutone rendono nervosi un po’ tutti, soprattutto Nico. Però io penso che Plutone non sia male. Insomma, ai tempi dell’Antica Grecia, quando era conosciuto come Ade, era il dio della morte in assoluto e perciò spaventava le persone. Ma come dio romano, si è fatto più rispettabile, diventando il dio delle ricchezze della terra e di tutto ciò che ne esiste al di sotto. –
Percy abbassò lo sguardo pensieroso: -Ma non mi dire… - mormorò. -Senti, ma come fa un dio a diventare romano? –
Frank ci pensò per qualche secondo. -Per come la vedevano loro, i Romani hanno preso le cose migliori dei Greci e le hanno perfezionate. –
Quando guardò Percy, lo vide sorridere con amaro divertimento.
-Serve molta presunzione per pensarla così. – commentò, ma non aggiunse altro.
Frank annuì: -Senza dubbio. Ad ogni modo, alcuni credono che l’influenza greca esista ancora, come se fosse parte degli dei. – concluse.
-Capisco. – rispose il figlio di Nettuno.
Frank si mise le mani in tasca, e sobbalzò quando toccò le fialette fredde che ci teneva dentro. Osservò Percy, e prese un grosso respiro.
Dopotutto, quel ragazzo gli aveva salvato la vita, giù al fiume.
-Ho trovato due fialette nel fiume, dopo che hai ucciso le gorgoni. – incominciò, tirandole fuori dalla tasca. -Sono un bottino di guerra, e di conseguenza ti appartengono di diritto. – concluse porgendogliele.
Percy le guardò con particolare attenzione: -Il sangue delle gorgoni. Una fiala cura ogni male, l’altra è un veleno mortale. – mormorò.
Frank rimase quasi sorpreso che il semidio sapesse cose fossero, ma annuì.
Il figlio di Nettuno alzò gli occhi su Frank, e il ragazzo si ritrovò in soggezione sotto al suo sguardo così intenso.
-Tienile Frank. Tu o altri potreste averne più bisogno di me in futuro. – rispose con piccolo sorriso.
-Ma potresti recuperare i tuoi ricordi se riuscissimo a distinguerle! – ribatté Frank.
Percy scosse la testa: -Sarebbbe un motivo misero per usare una fiala che potrebbe salvare la vita di qualcuno nella battaglia che sta per arrivare. –
Frank lo guardò incredulo. Quel ragazzo aveva la possibilità di recuperare la sua memoria, ma sceglieva di lasciare la cura a lui per qualcuno che ne avrebbe avuto bisogno in futuro.
-Quindi non ricordi nulla? – gli chiese. -I tuoi amici, o la tua famiglia? –
Lo vide giocherellare involontariamente con la collana che portava al collo.
-Solo dei ricordi vaghi e immagini confuse. – rispose Percy.
-E la tua famiglia? Tua madre è una mortale? – chiese ancora.
Lo sguardo del figlio di Nettuno si fece scuro come un abisso.
- Mia madre è morta. – disse. -L’ha uccisa il mio patrigno quando avevo sette anni. –
Frank ammutolì.
Lo sguardo del ragazzo lo aveva spaventato.
-A-anche mia madre è morta. – rispose solo.
Ricordò il sorriso di sua madre, la casa dove viveva insieme a lei e sua nonna. Erano stati i giorni più felici della sua vita. Finché lei non era morta, e sua nonna gli aveva messo in mano il pezzo di legno su cui dipendeva la sua intera vita. Gli aveva detto che se quel pezzo avesse bruciato completamente lui sarebbe morto, e da allora si portava quella maledizione in tasca pregando gli dei che la fine dei suoi giorni non arrivasse presto quanto temeva.
Percy si voltò a guardarlo.
La sua espressione era mutata in pochi istanti, ed in quel momento esprimeva compassione, rispetto persino.
-Com’è successo? – chiese Percy.
-In guerra. – rispose Frank. -In Afghanistan. Era nell’esercito canadese. –
Percy annuì, e non fece altre domande, qualcosa per cui Frank gli fu grato.
Poi il figlio di Nettuno sorrise, un sorriso così radioso e contagioso da essere irresistibile.
-Adesso andiamo a mangiare? –
 
Dopo l’adunata, l’assegnazione di Percy alla Quinta Coorte e la cena, Frank stava marciando verso i ludi di guerra insieme ad Hazel e il figlio di Nettuno.
Avanzarono verso nord, al Campo Marzio, la porzione più ampia della vallata. Il terreno era irregolare, cosparso di crateri e vecchie trincee. All’estremità settentrionale del campo si stagliava il loro obiettivo. Gli ingegneri avevano costruito un forte in pietra con un portone in ferro a saracinesca, delle torri di guardia, baliste e cannoni ad acqua.
-Stavolta hanno fatto un buon lavoro. – borbottò Hazel. -Peggio per noi. –
-Scusa?! – sussurrò Percy. -Vorresti dirmi che hanno costruito quel forte soltanto oggi? –
Hazel rise. -I legionari sono addestrati, in caso di necessità, a ricostruire l’intero campo in pochi giorni. –
-E ogni sera attaccate un forte diverso? – chiese ancora il ragazzo.
-Non ogni sera. – disse Frank. -È solo uno dei diversi esercizi di addestramento. Abbiamo anche le corse con bighe, o le simulazioni di guerra con armi a proiettili avvelenati o con palle di fuoco. –
Hazel indicò il forte. -Lì dentro, la Prima e la Seconda Coorte tengono le loro insegne. Dobbiamo riuscire ad entrare e prenderle senza morire, e abbiamo vinto. –
Lo sguardo di Percy si illuminò. -Penso che mi piacerà. –
Frank sorrise al ragazzo. -Purtroppo, è più difficile di quello che sembra. Dobbiamo superare le baliste e i cannoni ad acqua sulle mura, affrontare i nemici all’interno, trovare le insegne e sconfiggere le guardie che le proteggono, il tutto senza dimenticarci delle nostre di insegne. E la nostra coorte è in competizione con le altre due coorti in attacco, dato che la coorte che cattura le insegne nemiche è quella che vince. –
Arrivarono al centro del Campo Marzio, e le tre coorti in attacco si disposero in altrettante fila. Frank alzò lo sguardo, vedendo Reyna in groppa al suo pegaso che volava sopra di loro.
Poi si voltò verso Percy per controllargli l’armatura, ma rimase stupito: ogni pezzo, fibbia e cinghia erano stati collocati nel punto giusto.
-Sei stato bravo. – commentò.
Percy lo guardò incerto: -Grazie… - disse, come se fosse sorpreso lui stesso.
Frank guardò poi la spada del ragazzo. Il figlio di Nettuno aveva legato la cinghia del fodero diagonalmente lungo la schiena, e nella guaina giaceva la sua spada di bronzo lucente. Nonostante la lama fosse celata dal fodero, persino l’elsa brillava tenue nel buio della notte
Percy lo guardò curioso: -Non possiamo usare armi vere? –
Frank si riscosse: -Certo, sì. Solo, non avevo mai visto una spada come la tua. –
Gwen e Dakota, i due centurioni della Quinta Coorte, richiamarono la loro attenzione. Spiegarono velocemente i compiti di ognuno, prima che Gwen si voltasse verso Frank ed Hazel.
-Frank, Hazel e Percy, fate quello che volete. Spiegate a Percy come funziona, e cercate di non farlo morire. – concluse, e Frank vide il ghigno che si formò sul viso di Percy.
Poi la ragazza si rivolse all’intero gruppo: -Vittoria alla Quinta! –
I ragazzi della corte le fecero eco senza entusiasmo, prima di rompere le fila.
Percy si voltò verso di loro: -Ci ha appena detto di fare quello che vogliamo? –
Hazel sospirò, ma non ne sembrava così felice:
-Un grande onore. –
-Approfittiamone! – le rispose il ragazzo con entusiasmo. -Ho un piano. –
Frank lo guardò incerto, e seguì col lo sguardo il dito che Percy puntò verso il forte.
-Avete parlato di cannoni ad acqua. Posso farli esplodere, e distruggere le mura. – spiegò, e a Frank si illuminarono gli occhi. -Se riusciamo ad arrivare abbastanza vicino, posso farlo e garantirci l’accesso prima di tutti gli altri. –
-Sarebbe incredibile… – sussurrò Frank, gli occhi che luccicavano di rinnovato interesse. -Il punto è arrivare sotto le mura senza essere fermati… -
Il ragazzo si voltò verso di Hazel con un enorme sorriso: -Tu puoi aiutarci Hazel! Puoi condurci sottoterra e trovare una strada per farci arrivare là! –
Hazel gli diede un debole schiaffo sul braccio: -Doveva essere un segreto Frank. – lo rimproverò, ma senza rabbia.
Lui la guardò con improvviso dispiacere, ma la ragazza sospirò sorridendogli, quel tipo di sorriso che sua madre gli rivolgeva quando faceva qualche pasticcio.
Percy li guardava confuso, e Hazel si voltò verso di lui.
-Quello di cui parla. – spiegò la ragazza a Percy. -È che sotto al Campo è pieno di vecchie trincee e tunnel segreti. Con i miei poteri posso trovarli, e condurci fin sotto le mura. –
Il ragazzo sorrise: -È fantastico! – disse guardando con entusiasmo in direzione del forte . -Allora facci strada. –
 
Frank non si era mai sentito così sicuro di sé in vita sua.
Hazel li condusse senza problemi attraverso i numerosi tunnel scavati nella terra, persino creandone alcuni quando si trovavano il passaggio sbarrato.
Percy aveva sguainato la spada, che gli illuminava il passaggio con la sua calda luce bronzea.
Hazel si fermò, girandosi verso di loro: -C’è un’apertura davanti a noi. Saremo a tre metri dalle mura. –
Percy la guardò ammirato: -È incredibile il dono che hai. – le disse, facendola arrossire.
Pochi secondi dopo sbucarono da una fossa, esattamente di fronte alle mura del forte. Frank si voltò, osservando con rabbia la Terza e la Quarta Coorte che rimanevano nelle retrovie ridendo della Quinta, che avanzava faticosamente in formazione.
Quando si voltò verso gli altri, vide gli occhi di Percy brillare irosi quanto i suoi.
-Vigliacchi. – sibilò il figlio di Nettuno, prima di puntare lo sguardo sui cannoni. -State pronti. Quando li farò esplodere crolleranno le mura orientali. Entrate voi per primi. –
Poi alzò una mano, e Frank sentì alcune sentinelle ridere sopra di loro.
-Con entrambe le braccia, idiota! –
Frank vide gli occhi di Percy brillare quando un sorriso sinistro si dipinse sulle sue labbra.
E i cannoni esplosero.
L’acqua scaraventò i difensori oltre le merlature, e l’esplosione si diramò tra le tubature che attraversavano le mura, distruggendole completamente. L’acqua si schiantò con forza innaturale contro le baliste e si insinuò nelle crepe tra le mura, facendole crollare.
Frank osservò sbalordito le mura distrutte a pochi metri da loro, come fecero tutte le altre coorti in attacco.
Ma si riprese velocemente, incoccando una freccia più pesante delle altre, pronto a lanciarla oltre le mura.
-Andate! – urlò ad Hazel e Percy.
Percy gli sorrise, la stretta sulla spada che si rafforzava. -Vai tu. È la tua festa, bello. –
Frank ricambiò il sorriso, e si fece strada oltre le macerie per poter entrare nel varco tra le mura.
Sentì dietro di lui Percy urlare alle Coorti: -Allora? Attaccate! –
Frank, girandosi, lo vide sollevare la spada, che brillò nel buio della notte.
Un grido di esultanza si levò dal campo di battaglia. Sentì l’elefante Annibale barrire, e il momento di gioia gli diede una determinazione che mai aveva sentito.
Saltò dentro al forte, e immediatamente si fece strada tra i difensori usando il suo pilum. Per la prima volta combatteva con tutta la determinazione e forza che aveva. Nessuno rimaneva in piedi a lungo dopo che aveva cercato di fermarlo.
Improvvisamente, Hazel gli comparve al fianco, così come Percy.
Si mossero come una squadra, quasi combattessero insieme da anni, con Annibale alle spalle e la Quinta Coorte che si riversò nel forte seguendo l’elefante, e in breve tempo tutti i difensori furono annientati.
Frank si voltò e vide la Terza e Quarta Coorte entrare nella breccia che Percy aveva creato.
-Non possiamo permettere che prendano le insegne. – urlò Frank.
Percy ghignò: -No. Sono nostre. –
Frank, Hazel e Percy continuarono ad avanzare, facendosi strada tra i nemici che cercavano invano di bloccarli.
Frank si fermò per un secondo, guardando sconcertato il figlio di Nettuno.
Il suo modo di combattere era completamente fuori dagli schemi, danzava intorno ai suoi nemici micidiale e veloce come nessun'altro che Frank avesse mai visto. Era inarrestabile, un demone della battaglia.
I suoi muscoli erano forti e fatti per resistere a lungo sotto sforzo, il suo corpo era veloce ed agile in ogni movimento, e i suoi occhi brillavano come se combattere lo eccitasse più di ogni altra cosa.
Ma poi, Frank sussultò, quando troppo tardi vide la freccia che uno dei soldati aveva scoccato contro Percy.
-Percy, attento! -
Ma il ragazzo non fece nulla per fermare la freccia.
La punta affilata si infranse contro il petto del ragazzo, spezzandosi e cadendo a terra senza ferirlo.
Percy sorrise quasi con sfida in direzione dell'arciere, che dall'alto delle mura sembrava impietrito, gli occhi spalancati e le dita tremanti sull'arco.
Frank era sconcertato, ma vide un ragazzo corrergli incontro con la spada alzata, e dovette concentrarsi su quello.
Continuò a correre ed avanzare verso il cuore della base.
Una volta che lui, Hazel e Percy entrarono, seppero di aver già vinto.
I difensori erano stati così sicuri di non vedere mai nessuno oltrepassare le mura che sedevano a terra, giocando a carte. Prendere i vessilli fu facile, e i tre salirono in groppa ad Annibale marciando fuori dal forte reggendo con orgoglio le insegne.
Arrivarono fino al centro del Campo Marzio, prima di smontare dall’animale ed essere circondati dalla Quinta Coorte che gridava esultante
Reyna atterrò con il pegaso in mezzo a loro. - Abbiamo un vincitore! — urlò, un sincero sorriso sul volto. -Adunata! Rendiamo gli onori! –
Ma i festeggiamenti non durarono a lungo.
-Aiuto! – gridò un ragazzo, e quando Frank si voltò vide che un soldato trasportava insieme ad un compagno una barella. Sopra, distesa su un fianco, c’era Gwen.
-Dei del cielo… - sussurrò, avvicinandosi e inginocchiandosi accanto a lei.
Aveva una lancia conficcata nella schiena, la cui punta spuntava dal suo petto attraverso l’armatura. Un medico corse verso di loro, e posò velocemente due dita sul collo della giovane. Alla fine, sollevò lo sguardo su Reyna e scosse la testa.
Reyna mantenne lo sguardo su Gwen, ma i suoi occhi tremavano irosi. - Ci sarà un’inchiesta. Chiunque sia stato, ha ucciso una nostra compagna con vigliaccheria. E questo non lo tollererò. –
Frank non capì subito cosa intendesse dire. Poi notò i segni incisi sull’asta di legno della lancia: COHORS I LEGIO XII. L’arma apparteneva alla Prima Coorte. E Gwen era stata colpita di spalle.
Con lo sguardo, Frank cercò Ottaviano. Quando lo trovò, vide che non aveva la lancia con sé. Stava per alzarsi e fare qualcosa di cui si sarebbe pentito, ma in quell’attimo Gwen sussultò al suo fianco.
Frank sobbalzò, il cuore che minacciava di uscirgli dal petto dallo spavento.
Tutti si fecero indietro tra urla e mormorii increduli.
Gwen aprì gli occhi, e le tornò il colore sul viso.
-Che c’è? —disse strizzando gli occhi. -Perché mi state guardando tutti? –
Alle spalle di Frank, il medico trasalì: -Impossibile. Era morta. –
Gwen cercò di mettersi a sedere, ma non ci riuscì. -Ero vicina ad un fiume, e un uomo che mi ha chiesto una moneta. Ma dietro di me c’era una porta aperta, e… me ne sono andata. Non capisco, io… -
Frank si voltò, e dietro di sé tutti quanti la osservavano inorriditi.
-Gwen…  - la richiamò Frank. -Non muoverti. Chiuderesti gli occhi? -
-Perché? Frank cosa…? –
-Andrà tutto bene. Solo, fidati di me. – mormorò cercando di controllare la voce tremante.
Gwen fece come le aveva chiesto.
Frank afferrò l’asta della lancia sotto la punta, ma sentiva di poter svenire: -Percy, Hazel, aiutatemi… -
Uno dei medici capì cosa stesse per fare. -Non farlo! - esclamò. -Potresti… -
-Cosa? - ribatté Hazel duramente. -Peggiorare le cose? –
Frank trasse un respiro profondo. -Tenetela ferma. Uno, due, tre! – disse, e con uno strattone, estrasse la lancia.
Gwen non ebbe alcuna reazione. Il sangue si fermò in fretta, e la ferita si rimarginò da sola.
Hazel guardò la scena con orrore: -Non è possibile… -
-Mi sento bene ragazzi, calma. - esclamò Gwen. -Non c’è bisogno di agitarsi tanto. –
Con l’aiuto di Frank e Percy, si rialzò. Frank vide Percy guardare Ottaviano dritto negli occhi, e con tanta rabbia da farlo arretrare.
-Gwen… - cominciò Hazel in tono gentile. -Non so come dirtelo, ma eri morta. -
-Scusa?! - La ragazza barcollò, appoggiandosi a Frank. Cercò lo squarcio nell’armatura, trasalendo. -Come posso essere qui…-
-Ottima domanda. — Reyna si voltò verso Nico, che osservava cupo la scena.
Nico alzò lo sguardo sulla ragazza, cogliendo la muta domanda che gli rivolse.
-Non so darti una risposta. Plutone non permette a nessuno di tornare dal suo regno. – rispose.
Reyna sembrava sul punto di ribattere.
Ma poi, si sentì un tuono scuotere il cielo, e la terra tremò sotto ai loro piedi.
Una voce si propagò per la valle come un tuono:
-La Morte sta perdendo il controllo. E questo è solo l’inizio… -
Percy al fianco di Frank si irrigidì: -Ares… - mormorò, ma Frank non ebbe tempo di chiedergli nulla.
Una colonna di fuoco si eresse di fronte a loro sprigionando un calore ustionante e accecando l’intera legione.
Quando tutti riuscirono ad aprire gli occhi abbagliati dalla luce improvvisa, videro un enorme soldato in uniforme mimetica di fronte a loro. Aveva i capelli nerissimi e molto corti, la cintura legata al fianco reggeva una quantità spaventosa di armi di ogni genere. I suoi occhi erano rossi come fuoco, senza pupille.
Tutti si fecero indietro, lasciando al cospetto del dio solamente Frank, Hazel e Percy. Frank avrebbe voluto arretrare insieme agli altri, ma una forza che non poteva contrastare lo bloccava sul posto.
E quella stessa forza lo fece inginocchiare, come tutti intorno a lui. Vide Percy accanto a lui guardare il dio con aria torva, prima di inginocchiarsi riluttante.
-Bravissimi. – commentò il dio. -Era da tempo non venivo al Campo Giove… - aggiunse assorto.
-Ad ogni modo! – tuonò poi sollevando le braccia. -Io sono Marte, protettore dell’impero e padre di Romolo e Remo. Vengo dall’Olimpo con un messaggio. Questa notte, una dei vostri centurioni è stata uccisa, ma è presto tornata in vita. Come lei, i mostri che ucciderete non faranno più ritorno al Tartaro. Questo, perché Thanatos è stato imprigionato, e le Porte della Morte sono state aperte ora che nessuno le governa più. Gea permette ai nostri nemici di entrare nel nostro mondo, e i Giganti, suoi figli, stanno guidando un esercito contro di voi, e che non potrete sconfiggere. Solo se libererete Thanatos dalle catene potrete sperare di vincere. –
Nessuno fiatò, nemmeno quando il dio smise di parlare.
Marte si guardò intorno. — Oh, potete alzarvi, adesso. Domande? – aggiunse.
Reyna si alzò incerta. Ottaviano la seguì strisciando penosamente nel tentativo di rimanere inchinato al cospetto del dio.
-Divino Marte, siamo onorati della vostra visita - esordì Reyna.
-Sbrigati ragazza, non ho molto tempo. - sbottò Marte.
-Lei sta dicendo che finché Thanatos sarà in catene nessuno potrà morire, nemmeno i nostri nemici? - chiese Reyna.
-Non tutti, non da subito — chiarì Marte. -Ma col tempo le barriere si indeboliranno ancora di più, e qualunque creatura ne prenderà vantaggio per tornare dal regno dei morti. I mostri diventeranno impossibili da uccidere, e perfino i mortali riusciranno a scampare alla morte. -
Ottaviano alzò la testa sfoggiando un orripilante sorriso di reverenza. -Mi scusi, divino e magnifico Marte, ma non sarebbe vantaggioso non poter più morire? –
-Non dire idiozie ragazzo! - tuonò Marte. -Massacri e carneficine senza fine e senza gloria? Nemici impossibili da uccidere? Ripugnante. -
-Ipocrita. – borbottò Percy.
Frank si voltò di scatto a guardarlo, temendo sinceramente che il ragazzo avesse perso il lume della ragione.
E quando la luce di fuoco negli occhi di Marte brillò con più forza, Frank temette anche per la vita di Percy.
-Il pivello! – urlò Marte con entusiasmo. -Attento Percy Jackson, ho già risparmiato la tua insolenza troppe volte perché tu possa permetterti quest’arroganza. -
Frank guardò Percy stranito, ma il viso del figlio di Nettuno era una maschera illeggibile.
-Non so di cosa parla. – rispose Percy velenosamente.
Marte lo guardò, prima di ridacchiare come se trovasse il figlio di Nettuno molto divertente: -Ah giusto, sei diventato lo smemorato del campo, che piacevoli circostanze. – disse ridendo.
-Lieto di causarle tanta ilarità. – rispose Percy, e Frank fu sicuro che stavolta il dio lo avrebbe fulminato.
Invece Marte sorrise, come se lui e Percy fossero due vecchi amici che si prendevano a male parole per scherzo.
-Ordino una grande ed eroica impresa! - annunciò il dio. -Tre di voi andranno a nord a cercare Thanatos, nella terra oltre gli dei. Lo libererete e il piano dei giganti andrà in fumo! Ma sappiate che Gea farà tutto ciò che è in suo potere per sbarrarvi il cammino, perciò dovrete aspettarvi un viaggio difficile. –
Ottaviano osò alzare lo sguardo sul dio. — Ehm… divino Marte, sono confuso. Un’impresa eroica necessita di una profezia, una poesia che ci guidi attraverso il viaggio… -
-Tu sei l’augure? - lo interruppe il dio.
-S-sì, mio signore. -
Marte si sfilò un foglio accartocciato dalla cintura. — Qualcuno ha una penna? – chiese, ma nessuno rispose.
Marte sbuffò: -Incredibile, duecento romani e nessuno ha una penna! Jackson, dammi la tua. – disse, e Frank si chiese come facesse a sapere della penna a sfera del figlio di Nettuno.
Percy toccò la punta della spada, e mentre si trasformava di nuovo in una penna la porse al dio.
-Ecco qua! — Marte finì di scrivere e lanciò il foglio ad Ottaviano. -Tieni la tua profezia. Facci quello che ti pare. – concluse, buttando Vortice verso Percy.
L’augure lesse il messaggio. — “Andate in Alaska. Trovate Thanatos e liberatelo. Tornate entro il tramonto del 24 giugno o morirete.”
-Precisamente. – dichiarò il dio. -Ora. Mio figlio, è stato il primo a superare le mura, e mi aspetto che riceva molte onorificenze. Hai fatto un ottimo lavoro ragazzo. – concluse puntando il dito su Frank.
Frank spalancò gli occhi.
Si sentì sul punto di svenire.
Era quello il dio di cui era figlio. Marte, il dio della guerra.
-Hai bisogno di un’arma migliore però. Buon compleanno figliolo, anche se in ritardo. – disse, prima di lanciargli uno degli enormi fucili che teneva alla cintura.
Frank temette di morire sotto il peso di quell’arma, ma quando gli cadde davanti ai piedi si trasformò in una lancia d’oro imperiale con la punta d’avorio.
Frank la prese tremando visibilmente, quasi aspettandosi che gli esplodesse tra le mani.
-Perfetto. Mio figlio, Frank Zhang, condurrà l’impresa. E con lui andranno il pivello, e la figlia di Plutone. – disse, indicando Hazel e Percy al suo fianco. -E non accetterò obiezioni su questo punto. –
Il cielo tuonò, e Marte alzò lo sguardo verso il cielo: -Bene, il mio tempo qui è terminato. Buona fortuna Romani. – disse, prima di svanire in una fiammata accecante.
Frank era incredulo, e terrorizzato, ma presto venne riportato alla realtà dagli insistenti mormorii che si sollevarono alle sue spalle.
Si voltò immediatamente verso Reyna, che lo guardò con fredda sorpresa: -Ave, Frank Zhang, figlio di Marte. – disse, alzando il braccio nel saluto romano.
L’intera legione seguì il suo esempio, ma lui voleva solo scomparire.
Si voltò verso Percy ed Hazel, ed entrambi cercarono di sorridergli con appoggio. Ma lui lesse l'ansia nei loro sguardi.
Suo padre lo stava mandando in Alaska. E Frank sapeva che questo equivaleva ad una condanna a morte.
 
Quando Percy uscì dal Senato la mattina dopo, aveva uno dei mal di testa più lancinanti degli ultimi mesi. E quando si sentì chiamare da Ottaviano dietro di sé, seppe che sarebbe peggiorato.
-Che altro vuoi da me Ottaviano? – chiese al limite dell’esasperazione.
L’augure ghignò: -Reyna ti vuole parlare ai Principia prima che partiate, e senza i tuoi due lacchè. –
-E come mai, di grazia? –
-Temo di non saperlo. Ma c’è una cosa che so. –rispose il ragazzo, avvicinandoglisi. -Che nessun greco o spia nemica sono mai sopravvissuti a lungo una volta messo piede a Roma. -
Percy nascose dietro una maschera impassibile quanto quelle parole lo avessero colpito.
-È stranamente coraggioso da parte tua insinuare una cosa simile su di me, dopo che hai quasi ucciso un centurione colpendolo alle spalle. – sibilò il figlio di Nettuno.
Ottaviano deglutì pesantemente, incapace di reggere lo sguardo del ragazzo:
-Attento Jackson, posso essere un nemico più pericoloso di quello che pensi. –
Percy ghignò facendo un passo verso di lui. Lo guardò con tutta la cattiveria di cui era capace.
-Oh, ma anche io posso. –
Non aggiunse altro, e si voltò verso i Principia.
Più camminava e più la rabbia gli faceva prudere le mani, e una volta arrivato al palazzo entrò come una furia.
Reyna era già lì, e lo guardò attentamente mentre il ragazzo si sedeva sullo sgabello dal lato opposto del tavolo rispetto a lei.
-Ottaviano ha detto qualcosa? – chiese la ragazza, inarcando un sopracciglio alla vista della malamente contenuta rabbia del ragazzo.
Percy cercò di tranquillizzarsi, ma quando parlò le sue parole erano cariche di odio: -Mi ha apertamente accusato di essere una spia greca. –
Reyna sorrise senza divertimento.
-Già. Lui crede che esistano ancora semidei figli degli dei greci, e che tu sia uno di loro mandato qui per spiarci. –
Percy la guardò: -E tu, cosa credi? –
-Credo che tu sia diverso da qualunque altro semidio io abbia mai incontrato, e che il tuo passato nasconda dei segreti che devono rimanere tali, almeno per il momento. –
Percy non riuscì ad impedirsi di giocherellare con la penna che celava la sua spada.
-E nonostante questo ti fidi di me? –
-Sei stato mandato da Giunone per salvarci. Io mi fido degli dei. –
Percy sorrise con amarezza, ma non aggiunse altro. Lui aveva smesso di fidarsi degli dei tanto tempo prima.
-Il campo è in grave pericolo. So che la vostra missione è già un grande fardello, ma ho un favore da chiederti per aiutarmi a salvarlo. – disse Reyna, sfilandosi l’anello che portava al dito e porgendolo al ragazzo. Era una fascia d’argento a forma di torcia e spada incrociate, lo stesso simbolo che portava sul braccio marchiato. -Sai che cos’è? –
Percy lo guardò incerto: -Il simbolo di tua...madre? La dea della… -
-Guerra, sì. Si chiama Bellona. – concluse Reyna. -Non ricordi di aver visto questo anello prima d’ora? Davvero non ricordi di mia sorella Hylla? –
Percy la guardò negli occhi di ossidiana con stupore.
Allora era vero, lui aveva già incontrato Reyna. Ma non riusciva a ricordare quando.
-No, io… - provò a dire.
-È successo quattro anni fa. – incominciò Reyna.
-Poco prima che arrivassi al campo. – disse Percy, e allo sguardo accigliato della ragazza indicò il suo braccio. -Hai quattro linee tatuate sul... –
Poi spalancò gli occhi. Quattro anni prima era partito per il Mare dei Mostri. Ricordò di essere approdato su una bellissima isola. Ricordò l'inebriante e ipnotica magia che impregnava l'aria, ricordò quando bella fosse Annabeth quel giorno. Ricordò tante ragazze vestite in abiti bianchi e con i capelli intrecciati di fili dorati, e ricordò una maga dall'abito celeste.
-L’isola di Circe. – mormorò, senza riuscire a frenarsi. -Io… - disse, ma finse di non ricordare altro. Non poteva permettersi un simile passo falso.
Reyna aspettò pochi istanti, come se sperasse che ricordasse altro, ma poi annuì: -Esatto. Io ero solo una bambina, ma so che parlasti con mia sorella. Prima che tu e la ragazza con cui eri arrivato, Annabeth, distruggeste la città. –
Percy la guardò. Spesso dimenticava della distruzione che si era lasciato alle spalle nella sua vita. Reyna era stata una delle tante vittime dei suoi trionfi.
-Mi dispiace Reyna. Non riesco a ricordarlo, ma se vi ho fatto del male, ti chiedo scusa. – mormorò, lo sguardo sinceramente colpevole.
-Non serve. Hai distrutto la mia casa una volta, è vero, ma quello che ora ti chiedo è di aiutarmi a salvarla. –
Percy annuì: -Cosa devo fare? –
-Sulla strada verso l’Alaska, vai a Seattle. Mia sorella vive lì, come regina delle Amazzoni. – incominciò Reyna. -Lei ti odia ancora, ma ti prego di tentare di convincerla a venire qui per aiutarci nella battaglia che ci aspetta. Se le amazzoni si unissero a noi potremmo sperare di vincere. – concluse, porgendo al ragazzo l’anello d’oro.
Percy lo prese, e lo infilò nella catenella che portava al collo: -La troverò. Farò il possibile per convincerla a sostenerci. – rispose con sicurezza.
Reyna annuì: -Vorrei discutere di un’ultima cosa. –
Percy la guardò in attesa, lo sguardo attento.
-Io temo molto Ottaviano, e adesso che Jason è scomparso ho paura che sarà facile per lui diventare pretore. Immagino tu capisca perchè questa possibilità mi terrorizzi. –
Percy la guardò mesto: -Tu sei una guerriera. Ma lui è l’oratore, e in politica è una qualità più potente di ogni altra cosa. Ti schiaccerebbe. –
Reyna lo guardò stupita.
-Hai ragione. Come avrai notato, Ottaviano è una persona avida e spregevole, e al comando io non riuscirei a fermarlo.–
Percy aggrottò le sopracciglia: -E io come rientro in tutto questo? –
-Ti ho osservato. Sei un figlio di Nettuno, e questo ha sempre spaventato noi Romani, ma hai lo sguardo e le cicatrici di un veterano esperto. Ho visto quanto pericoloso tu possa essere per i tuoi nemici, ma hai anche dimostrato di essere un grande guerriero, astuto e di buon animo, e questo ti renderebbe perfetto per governare al mio fianco. –
Percy sgranò gli occhi. Nonostante non avesse mai cercato il potere, sapeva di essere spesso stato la forza e la guida dei suoi compagni, soprattutto in battaglia. Non poteva negare di essere nato per quello.
E ancora una volta, gli veniva offerto quel ruolo.
Ma lui non apparteneva a quel luogo. Lui non poteva prendersi quella responsabilità. Non aveva il diritto di prendere il posto di Jason.
-Ma, Reyna... sono appena arrivato. Ci sono Frank ed Hazel che sono qui da molto più tempo, e probabilmente potresti trovare decine di migliori candidati rispetto a me. E Jason potrebbe essere ancora vivo. – provò a dirle.
Reyna scosse la testa: - Una figlia di Plutone così giovane non è adatta al ruolo, e Frank è troppo buono ed ingenuo. Ma se tornaste vincitori dalla tua missione potremmo salvare il campo. Tu saresti il capo ideale. Insieme, io e te, potremmo espandere i poteri di Roma. Potremmo radunare un esercito e trovare le Porte della Morte, e vincere contro Gea. In me troverai il sostegno di una compagna leale e affidabile. –
Percy si ritrovò ad arrossire.
Non era mai stato uno ingenuo, e colse il significato di compagna che Reyna intendeva dal modo in cui lo pronunciò suadente e con lo sguardo che luccicava.
-Sono lusingato dalla tua proposta Reyna. Ma ho già una ragazza. E non desidero diventare pretore. – disse con gentilezza.
Si aspettò il peggio.
Ma nonostante tutto, Reyna sorrise divertita: -Non credevo potesse esistere un romano capace di rifiutare una posizione di potere. Ma per quanto mi costi ammetterlo, sono disperata. Ottaviano sarebbe più un nemico che un compagno al comando, e non potrò guidare un’intera legione da sola ancora a lungo. – concluse con un velo di tristezza.
Percy la guardò, e provò compassione per lei. Lui era di natura una persona estremamente generosa e altruista, e quando guardava Reyna vedeva una persona con un disperato bisogno di aiuto. Non poteva ignorarlo.
-Posso prometterti che ci penserò Reyna. Davvero. –
Poi si alzò, seguito immediatamente dalla ragazza. Le sorrise incoraggiante, e tese una mano verso di lei:
-Farò tutto ciò che è in mio potere per salvarvi. E troverò tua sorella. Augurami buona fortuna. –
La ragazza sorrise in risposta, stringendogli la mano: -Buona fortuna, Percy Jackson. – gli rispose. -E grazie. -

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Capitolo 4
*** Sangue nell'Acqua ***


Quando c'è il Sangue nell'Acqua 

Percy non avrebbe mai dimenticato quella notte.
Era stata la più fredda che avesse mai dovuto patire, e correndo sotto a quel cielo buio e senza stelle Percy sentiva l’aria sferzargli dolorosamente gelida sul viso.
Il Minotauro li stava inseguendo da ore, o almeno così gli sembrava.
Davanti a sé, Annabeth e Luke correvano seguendo Grover, che li guidava, veloce e agile sulle sue zampe caprine, nella fitta boscaglia della collina. Thalia invece era alle sue spalle.
Corsero per troppo tempo, nella speranza di distanziare il mostro. Percy non sentiva più le gambe, non riusciva a incanalare abbastanza aria, e continuava ad andare avanti solo grazie ad una disperata forza di volontà e paura.
Erano solo dei ragazzini, deboli, stanchi e affamati, e il mostro li stava raggiungendo con facilità.
-Non fermatevi, ci siamo quasi! – urlò la voce tremante del satiro di fronte a loro.
Percy alzò lo sguardo, e vide un arco di pietra bianca stagliarsi in cima alla collina.
Era solamente ad una ventina di metri da loro.
Ma quando si voltò, vide il grande toro umanoide che li stava raggiundendo inarrestabile e spaventoso come un incubo, e seppe che non avrebbero mai raggiunto il Campo Mezzosangue in tempo.
Vide Thalia voltarsi a sua volta, seguendo lo sguardo del più piccolo.
E Percy la vide fermarsi.
-Thalia! – la chiamò con lo sguardo illuminato di orrida sorpresa.
La ragazza si parò davanti al mostro puntandogli la lancia contro, e la bestia si fermò puntando i suoi grandi occhi rossi sulla sua minuta figura. La ragazza scartò di lato quando lui cercò di colpirla, riuscendo a colpirgli il muso bovino. Ma la stanchezza e la ferita alla gamba la rendevano lenta.
Percy sentì Luke ed Annabeth che li chiamavano disperatamente, e corse verso Thalia per tirarla via da davanti al mostro.
Ma non fece mai in tempo.
Il Minotauro la fermò facilmente, stringendo il pugno umano intorno al corpo fragile della figlia di Zeus, e lei riuscì a strillare di dolore per pochi agghiaccianti secondi, prima che la scaraventasse contro un albero. La ragazza boccheggiò, ma quando colpì con la testa il duro tronco di legno ghiacciato cadde a terra con irreale silenzio.
Percy sgranò gli occhi, urlando il nome della ragazza ora ai piedi del grande albero di pino. Conosceva che faccia aveva la morte, ed era dipinta sul viso giovane e sporco di quella che per lui era diventata una sorella.
Calde lacrime di disperazione gli segnarono il viso lurido e scarno. Thalia era appena morta. E presto lui, Annabeth e Luke avrebbero conosciuto la stessa sorte.
Il Minotauro mugghiò ,e corse verso il bambino.
Percy si voltò verso di lui.
E per la prima volta fu tutto troppo. La morte di Thalia era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Tutta la rabbia, la paura, il dolore e la sofferenza che aveva accumulato in quegli anni diventarono troppo.
Voleva solo sopravvivere. Voleva a qualunque costo uccidere quella creatura, per impedirgli di fargli ancora del male.
Sentì qualcosa rompersi per sempre nella sua anima, il suo potere dilagò senza freni.
Il Minotauro si bloccò improvvisamente, a pochi metri da lui.
Percy percepiva ogni cosa. Percepiva il sangue della creatura che scorreva nel suo corpo liquido come acqua.
Bloccò il suo corso, impedì al suo cuore di battere ancora.
E il mostro gemette di dolore, si contorse innaturalmente piegato da un dolore che non poteva contrastare. Poi, il sangue spinse per uscire e ruppe le barriere di carne intorno a sé spaccando il Minotauro in pezzi.
Il mostro si dissolse, nel silenzio.
Tutto ciò che lasciò, ai piedi del bambino, fu un corno.
Percy cadde in ginocchio, gli occhi spalancati fissi su quello che rimaneva della creatura, mentre una singola lacrima gli segnò il viso sporco. Per pochi attimi, nulla accadde.
Poi alle sue spalle, con gentile lentezza, le radici del grande pino sotto il quale Thalia giaceva si avvolsero intorno al corpo senza vita della ragazza.
Percy si voltò di scatto, ma la osservò con rassegnata disperazione ed occhi pieni di dolore. Sentiva il cuore stretto da una morsa soffocante, la gola gli bruciava e non riusciva a respirare.
Annabeth singhiozzava alle sue spalle, e Luke aveva gli occhi lucidi e sgranati ancora puntati sul bambino. Il figlio di Ermes si voltò poi verso il corpo di Thalia ormai nascosto dalle spesse radici dell’albero, e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Ma era il più grande, e aveva due bambini di cui prendersi cura. Fu dunque il primo a riprendersi.
Corse verso Percy, sollevandolo gentilmente da terra e stringendoselo al fianco. Percy si aggrappò a lui, ed Annabeth lo imitò tenendo la mano a Luke. Grover camminò al fianco di Percy fino all’arco di pietra, lo sguardo ancora tremante di terrore. Nonostante tutto però, il satiro, il suo già migliore amico, gli rimase accanto.
Percy, quella notte, salvò Annabeth, Luke e Grover, dimostrando coraggio e resilienza, ma scoprendo una parte di sé stesso e del suo potere che non avrebbe mai voluto liberare. Un’energia che non sarebbe mai più riuscito a rincatenare, che aveva distrutto i suoi confini per sempre e che gli scorreva nel sangue senza più limiti.
Quando arrivarono entro i confini del Campo, Chirone corse all’arco di pietra seguito da appena una ventina di ragazzi, e guardò con angosciato dolore il quattordicenne che gli si avvicinava stringendo al suo fianco due bambini in lacrime. Li raggiunse, con passi cauti e lo sguardo gentile.
Ma poi, Percy alzò lo gli occhi su di lui, e Chirone involontariamente sussultò.
Un tridente, verde come il mare, verde come i suoi occhi, splendette sulla sua testa.
E il figlio di Poseidone pianse.

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Capitolo 5
*** Macchina da Guerra ***


Ho deciso di non riscrivere l'intero Figlio di Nettuno perchè avrei cambiato pochissimi aspetti e non ne valeva la pena. Il capitolo riprende dopo che Frank ed Hazel hanno sconfitto Alcione. Perciò tutti gli eventi antecedenti rimangono pressochè uguali al testo orginale. 
Se vi va, lasciate una piccola recensione. 
Buona lettura.

Macchina da Guerra

Frank smontò dalla groppa di Arion con un sospiro di sollievo.
Percy era ad aspettarli al margine del ghiacciaio appoggiato all’asta dell’aquila d’oro mentre osservava pigramente il mare, costellato da ciò che rimaneva della legione dopo il macello causato dallo stesso figlio di Poseidone.
Frank sorrise, e corse verso di lui seguito da Hazel.
Il figlio di Poseidone si voltò verso di loro sorridendo. I suoi occhi riflettevano lo stesso colore delle profonde acque blu dietro di lui.
-Ciao. – disse solo.
-Percy! Grazie agli dei sei vivo! – esclamò meravigliato.
Il ragazzo ghignò: -Hai visto? Anche se lasciatemelo dire, siete voi ad essere stati una bomba. –
-Ci onori. – rispose scherzosamente Hazel. -Nemmeno tu sei stato tanto male. -
-Già, peccato che sia come al solito lo sfigato di famiglia. – sbuffò il ragazzo nonostante stesse ridacchiando.
Frank aggrottò le sopracciglia: -Di che parli? –
Percy lo guardò fintamente offeso: -Anche io sono un figlio di Poseidone. Quindi, perché io non posso trasformarmi in quello che mi pare come fai tu? È profondamente ingiusto. –
Frank spalancò gli occhi e gli diede un pugno amichevole sulla spalla.
-Non permetterti di dirmi che è ingiusto, Percy Jackson. Tu puoi evocare terremoti, uragani e maremoti, perciò io ho il pieno diritto di trasformarmi in un maledettissimo elefante. – disse ridendo.
Percy rise a sua volta.
-Non vorrei rovinare il vostro scambio di talenti. – intervenne Hazel. -Ma il Campo Giove è sotto attacco e dovremmo davvero andare ad aiutarli. -
Percy annuì, raddrizzando la schiena.
-Sono riuscito a recuperare dal mare gran parte delle armi in oro imperiale della legione, insieme ad una biga. Se riuscissimo a metterci le armi sopra e farla trainare da Arion fino al Campo Giove, potrebbe fare la differenza. – disse indicando alla loro destra.
Frank si voltò confuso, ma quando vide la pila di armi scintillanti d'oro imperiale accanto ad una grande biga rimase a bocca aperta, e sentì un moto di speranza inondargli il cuore.
-Percy! Miei dei, ti bacerei! – esclamò, correndo verso il bottino di guerra.
Sentì il figlio di Poseidone ridere alle sue spalle.
Fecero il più in fretta possibile. Caricarono le armi sulla biga, e Percy legò con maestria i finimenti del mezzo ad Arion.
-Dite che riuscirà a trainare tutto questa roba con noi sopra? – chiese Frank.
Il cavallo nitrì, pestando gli zoccoli rabbiosamente. Percy lo guardò male, prima di chinarsi e raccogliere un pugnale inutilizzabile e porgerlo con sdegno all’animale, che lo addentò con la stessa facilità con cui avrebbe mangiato una mela.
-Mi hanno espulso per molto meno… - borbottò Percy, prima di seguire Frank a bordo della biga.
Il figlio di Marte dal canto suo, si godette quel breve istante di pace.
Avevano concluso la loro missione con successo, e questo significava una possibilità di vincere contro l’esercito di Polibote. Alla fine, tutto era andato meglio di quanto di fosse aspettato.
Osservò Percy mentre si sedeva davanti a lui, l’asta con l’aquila della legione al fianco, e Frank rimase a guardarlo per un istante: il figlio di Poseidone aveva chiuso gli occhi, e si era accasciato contro la lancia al suo fianco. Frank notò che la cicatrice che gli solcava il lato sinistro del viso era ancora più evidente ora che le guance del ragazzo erano arrossate dal freddo. Quando Frank gli aveva chiesto come se la fosse procurata, Percy gli aveva risposto freddamente: “Mi sono tagliato con un foglio di carta”
Una cosa su cui però Percy era stato sincero, era stato sul suo passato. Gli aveva raccontato ogni, singola cosa.
E se all’inizio Frank era rimasto sorpreso, quasi turbato dal suo racconto, ora si rendeva conto di non poter essere più felice di averlo incontrato.
Lui e Percy erano diventati ottimi amici, e Frank si fidava di lui più di chiunque altro, secondo solo ad Hazel. Insieme, loro tre, erano stati una squadra perfetta-
Dovette smettere di pensarci però, perché Percy gli schioccò le dita davanti agli occhi, ghignando. Frank non si era nemmeno conto che il ragazzo avesse aperto gli occhi.
-Sei pronto bello? Spero di sì, perché probabilmente non usciremo vivi da questo viaggio. – disse il figlio di Poseidone.
-Pregate che rimanga tutta intera la biga. – mormorò Hazel in risposta, prima di salire in groppa al cavallo e spronarlo a partire.
 
Ci misero quattro ore.
Quattro ore dall’Alaska fino alla baia di San Francisco, e per Percy fu il viaggio più doloroso della sua vita. Una volta arrivati infatti, scese zoppicando malamente dalla biga.
-Non rifacciamolo mai più. – commentò cercando di distendere i muscoli doloranti.
Ma quando si voltò verso la valle, trasalì.
-Ragazzi… - disse, e bastò quello per far voltare Hazel e Frank.
La Dodicesima Legione era radunata nel Campo Marzio in un disperato tentativo di proteggere la città. I Romani stavano soccombendo tra i fuochi e sotto le forze di centinaia di mostri urlanti che avanzavano con le armi sguainate e le fauci spalancate a mostrare le zanne sporche di sangue.
C’erano torri d’assedio e baliste che colpivano da entrambi gli eserciti, i semidei si scontravano senza forze contro un esercito che non sembrava conoscere fine. Polibote si stagliava enorme ed orripilante vicino all’acquedotto, circondato da alcuni semidei e da Reyna, che tentava di distrarlo a cavallo del suo pegaso.
Il cielo sopra di loro era oscurato dalle polveri e dal fumo, il sole filtrava debole e rosso come sangue tra le nubi.
-È troppo tardi… - sussurrò Hazel con orrore.
-No! – esclamò Percy voltandosi verso di lei. -La battaglia non è ancora finita. Dobbiamo portargli l’aquila e le armi. –
-Ma Arion è sfinito. – protestò Hazel.
Percy puntò lo sguardo alle sue spalle. Tyson gli aveva detto in sogno che sarebbe arrivato il più in fretta possibile, ma Percy sapeva che trovare Ella avrebbe richiesto tempo.
-Forse non… - provò a dire, prima che la terra sotto ai suoi piedi tremasse lievemente.
Alzò lo sguardo di scatto riportando gli occhi verso la boscaglia dietro di lui.
Un’enorme sagoma scura saltò fuori dagli alberi.
Ed Hazel gridò.
A correre verso di loro, c’era un pastore tedesco completamente nero e grande quanto un furgone, con gli occhi rossi come rubini che brillavano e la bocca aperta che mostrava le zanne di ossidiana.
-Un segugio infernale! – sobbalzò Frank, arretrando velocemente insieme ad Hazel.
Percy invece rimase dov’era.
Aveva un sorriso di pura gioia dipinto sul volto.
-Signora O’Leary! – esultò, prima che il cane gli saltasse addosso con un balzo, atterrandolo.
-Percy?! - lo richiamò Hazel, terrorizzata e forse allibita.
Il segugio infernale in risposta abbaiò così forte da far arretrare Arion.
E quando il cane spalancò le fauci a pochi centimetri dalla faccia del ragazzo, Frank alzò l'arco pronto a scagliare una freccia.
Ma dovette riabbassarlo, con la bocca spalancata.
Perchè il cane si mise scodinzolare, e a leccare il viso del figlio di Nettuno
-Signora! - la rimproverò giocosamente Percy senza riuscire a smettere di ridere -Ehi, anche io sono felice di vederti bella. –
Le accarezzò con energia il collo possente mentre cercava di alzarsi. Quando fu in piedi, quasi si appese al grosso muso della bestia cercando di abbracciarla.
-Ma guarda la mia bella cagnolona come è stata brava. – la lodò quasi stucchevolmente mentre il segugio scodinzolava e tendeva le labbra imitando un sorriso.
Quando Percy si voltò sorridendo, la prima cosa che vide fu l’espressione di puro orrore che Hazel aveva dipinta sul viso:
-Tu hai un… un segugio infernale che chiami Signora O’Leary? –
-Sì, il cane migliore che potessi trovare. Devi fartelo raccontare da… - rispose con iniziale entusiasmo, ma alla fine non concluse mai la frase.
Un nodo gli si formò in gola al pensiero di quello che stava per dire.
Devi fartelo raccontare da Nico.
No.
Nico era scomparso da quando era andato a cercare le Porte della Morte.
E Hazel forse non avrebbe mai potuto chiedere al ragazzo di raccontarle quella storia, perché forse Nico non sarebbe mai tornato.
La sola idea gli fece mancare il fiato in gola.
-Cani! – strillò una voce familiare, facendolo sussultare. Solo allora Percy notò la minuta figura di Ella appollaiata sulla schiena del segugio infernale. -La salute di cani e gatti con l’aloe vera, guida pratica per la cura. –
-Ella! Dov’è Tyson? – chiese ansioso. Pregò che non gli fosse successo nulla.
Non anche a lui.
Ella guardò verso la foresta: -Tyson si è preso cura di Ella. Dice che arriva. Tyson ha detto ad Ella di dirlo a Percy Jackson. Tyson sta bene. – disse senza mai riprendere fiato l’arpia.
Percy annuì, in parte rincuorato.
Prese un piccolo stendardo viola che prima era legato alla biga, e lo porse all’arpia: -Quando arriva Tyson, daglielo. Digli di metterlo addosso, così sapranno che è un nostro amico. –
Ella annuì con tanta forza che Percy pensò che le si sarebbe rotto il collo, ma le sorrise.
-Ok, ragazzi. – si voltò verso Hazel e Frank, che continuavano a guardarlo allibiti. -La Signora O’Leary può trasportare la biga, ma dobbiamo scendere in fretta. –
Hazel sembrò riscuotersi e annuì, correndo a slegare Arion dalla biga.
Frank aggrottò le sopracciglia: -Chi è Tyson? –
-È mio fratello, un ciclope. Doveva arrivare con la Signora O’Leary ed Ella, ma a quanto pare ci raggiungerà dopo. –  spiegò Percy, prendendo le corde sfilacciate che Hazel gli porgeva e correndo a legarle quanto meglio riuscì in un’imbragatura per il segugio infernale.
-Ah, va bene. Spero stia bene. – commentò solamente Frank. -Ella, tu resteresti qui, al sicuro? –
L’arpia svolazzò giù dalla groppa del cane: -Ella aspetta qui Tyson. Ella sta al sicuro. – rispose.
-Ok, perfetto. – disse Percy, prima di prendere dalla biga il fodero della sua spada e legarselo diagonalmente sul petto. Tirò poi fuori Vortice dalla tasca e le tolse il tappo lasciando che la lama si spiegasse, per poi infilarla nella guaina.
-Io porto giù la biga con la Signora O’Leary, voi andate con Arion. – concluse il figlio di Poseidone prendendo l’asta d’oro della legione e salendo agilmente sulla groppa del segugio infernale.
Frank annuì energicamente, prima di raggiungere Hazel che era già salita sulla groppa di Arion.
-Ci servirà un miracolo. – commentò lei. -Vai Arion! –
Il cavallo si impennò regalmente, prima di lanciarsi verso il Campo. Ora che era così sfinito, correva alla velocità di qualunque altro equino.
Percy ghignò, e si chinò vicino all’orecchio della Signora O’Leary con gli occhi che luccicavano di malizia fissi sulla valle.
-Movimentiamo un po’ le cose. – le mormorò, e il cane in risposta ringhiò mostrando le zanne nere, gli occhi a mandorla rossi come sangue vivo brillarono euforici e i suoi muscoli possenti si gonfiarono sotto al corto manto scuro.
Si lanciarono verso il Campo Marzio.
Percy aveva la spada legata alla schiena e l’aquila d'oro tenuta alta sopra di sé, e costeggiarono il perimetro del campo finché non entrarono nel vivo della battaglia sul margine occidentale del campo.
Guidò la Signora O’Leary fino ad Hazel e Frank, che si stavano battendo contro un’orda di ciclopi. Saltò giù dalla groppa del cane, e con la sola asta dell’aquila iniziò a seminare il panico tra i mostri.
Non ebbe pietà per nessuno, era una macchina da guerra fatta per uccidere.
Frank, accanto a lui, si voltò verso i loro compagni alle loro spalle, il distintivo da centurione e la Corona Muralis che scintillavano sul suo petto.
-Quinta Coorte! Prendete le vostre armi! – urlò.
Percy osservò con compassione i ragazzi ricoperti di terra e sangue, con i vestiti a brandelli e le armature rovinate, che si reggevano a malapena in piedi.
Sapeva esattamente come si sentivano.
Ma i loro sguardi sembrarono rianimarsi d'un tratto, le loro espressioni di stanca sorpresa si tramutarono gradualmente in pura euforia.
Un urlo si levò dalla Quinta Coorte, e il figlio di Poseidone si ritrovò a sorridere nonostante tutto.
Percy sollevò l'aquila d'oro oltre la sua testa, e la calò con forza sui finimenti che legavano il suo segugio infernale alla biga, spezzandoli.
Aiutò i suoi compagni a prendere le armi, e il loro improvviso moto di speranza lo contagiò.
La Signora O’Leary invece balzò immediatamente tra i mostri ringhiando con le fauci mortalmente spalancate mentre Percy tornava a guardare l'esercito nemico con pericolosa determinazione negli occhi.
Si voltò poi verso i suoi compagni, e alzò l'asta d'oro imperiale alta sopra di sé.
-Seguite l’aquila! – urlò Frank, sorridendo a Percy.
Il figlio di Poseidone ghignò nella sua direzione, prima di lanciarsi in avanti seguito dall’intera Quinta Coorte.
Sentiva i centurioni gridare alle sue spalle, vedeva fiumi di frecce e palle infuocate che gli sfrecciavano sopra la testa e si abbattevano sul nemico, e la malsana adrenalina della guerra gli illuminò gli occhi.
Si faceva strada tra i nemici con velocità ineguagliabile, era agile e inarrestabile mentre combatteva con l'aquila della legione come unica arma.
Aveva ormai due delle Coorti che lo seguivano facendo facevano a pezzi qualunque cosa trovassero sul loro cammino, e Percy si diresse verso Polibote.
Il gigante era contenuto da pochi ragazzi della Prima e Seconda Coorte, con Reyna che in groppa al suo pegaso gli volteggiava intorno cercando di rallentarlo usando una lancia. Erano tentativi vani, perchè Polibote era lento ma continuava ad avanzare.
Percy vide Reyna voltarsi verso di loro, prima che spalancasse gli occhi.
Vedere il ragazzo tornare vittorioso, con l’aquila in pugno e seguito dalla Quinta Coorte le fece nascere un enorme sorriso sul volto.
Polibote si voltò a sua volta, sgranando gli occhi: -Che diamine…?! –
Percy vide con la coda dell'occhio una furia che si era lanciata in picchiata su di lui. Si bloccò improvvisamente, e con un solo, preciso colpo le sbattè la lancia addosso. La furia cadde a terra, e prima che potesse provare a rialzarsi il ragazzo la trafisse con la punta della lancia.
Quando poi alzò gli occhi sul gigante di fronte a lui sentì l’asta impregnarsi di energia pura.
Per istinto la sollevò: -Dodicesima Legione Fulminata! –
Un tuono scosse la vallata, seguito da pochi istanti di irreale silenzio. L’aquila brillò di pura energia nella mano del figlio di Poseidone, e da essa scaturì un fulmine di straordinaria potenza che si diramò in centinaia di saette arcuatesi verso l’esercito di Polibote.
Nessun romano venne colpito, mentre decine di mostri vennero ridotti in polvere dall’energia dell’aquila.
Pochi secondi dopo, la linea centrale dell’esercito nemico era ridotta in cenere.
Polibote arretrò incredulo, gli occhi serpentini fissi sul figlio di Poseidone in mezzo al campo di battaglia.
-Per Roma! – urlò Reyna con un’eccitazione che Percy non le aveva mai visto negli occhi, e l’intera legione seguì il suo grido: -Roma! Roma! –
Percy puntò lo sguardo sul gigante, ma intorno a sé la felicità iniziava già a scemare. La battaglia non era ancora finita.
-Figlio di Nettuno! – tuonò Polibote. -Fatti avanti, vieni incontro al tuo destino! –
Percy inspirò profondamente.
Poi si voltò verso Dakota alle sue spalle, e gli porse l’aquila con un sorriso: -Proteggila, sei il centurione più anziano della Coorte. –
Il ragazzo sorrise meravigliato: -La porterò con onore. –
-Fratello! –
Percy si voltò, già sapendo da chi provenisse quella voce.
Il suo sorriso si allargò a dismisura quando vide Tyson corrergli incontro colpendo con la mazza qualunque mostro gli sbarrasse la strada.
-Tyson! Stai bene! – gli urlò, prima che il ciclope lo travolgesse stringendolo in un abbraccio soffocante.
-Ehi, anche io ti voglio bene. – soffiò Percy, che respirava a malapena.
Tyson lo lasciò, per colpire sulla testa un ciclope che li stava raggiungendo: -Brutto ciclope cattivo! –
Percy lo guardò con occhi scintillati, prima di voltarsi verso Hazel e Frank, che gli erano arrivati vicino.
-Tyson, Hazel, Frank, aiutate la Quinta Coorte. – ordinò il ragazzo. -Io ho un gigante da rispedire al Tartaro. –
Ma prima che potesse muovere un singolo passo, il suono possente di un corno risuonò nella valle.
Tutti sul campo di battaglia si fermarono, voltandosi a seguire il richiamo.
Un altro esercito comparve sul crinale.
Erano centinaia di figure femminili in armatura, alcune a cavallo, che stringevano lance, archi, spade e scudi.
Polibote rise, sollevando le braccia esultante.
-Osservate, Romani! La vostra disfatta è segnata! - urlò.
Percy guardò le centinaia di amazzoni con orrore, prima che i suoi muscoli si rilassassero stancamente e i suoi occhi si scurissero con rassegnazione.
Hylla non ce l'aveva fatta.
E non sapeva come avrebbero mai potuto contrastare due eserciti di quella portata.
Ma poi, dalla prima linea, una ragazza in groppa ad un magnifico stallone bianco si tolse l’elmo, rivelando i capelli neri e gli occhi scurissimi come ossidiana.
Percy si ritrovò a bocca aperta.
-La Regina Hylla! – esultò Hazel al suo fianco. -Ce l’ha fatta! –
-C'è l'ha fatta... – ripeté sorridendo il figlio di Poseidone.
-Amazzoni, attacchiamo! – urlò Hylla alzando la lancia -Aiutiamo mia sorella. –
Reyna invece si voltò verso Percy sorridendo raggiante. Lui le sorrise in risposta, prima di portare la mano oltre la sua spalla e sguainare Vortice.
Polibote osservava le amazzoni con sopresa, e il suo sguardo si indurì mentre digriganava i denti con rabbia.
-Romani, avanziamo! – urlò Reyna.
E i romani esultarono, rinnovati da una motivazione inebriante. A fianco della Amazzoni, si lanciarono contro l’esercito nemico senza esitare.
Percy avanzò verso Polibote, la spada stretta in pugno e gli occhi che brillavano, verdi come il mare.
-Sono qui. – urlò rivolto al gigante, il quale emise un ghigno raccapricciante.
-Il famoso Percy Jackson! – lo schernì. -Una leggenda tra gli immortali. Ma stai per conoscere la tua disfatta. Io sono nato per oppormi a Nettuno e alla sua progenie. L’acqua che ti risana e risponde ai tuoi comandi, io posso renderla mortale come veleno. –
Detto questo, il gigante infilò la mano nell’acqua che scorreva nell’acquedotto, e la scagliò contro il ragazzo.
Percy la vide trasformarsi in acido tra le mani di Polibote, ma non la fermò.
Lasciò che il liquido mortale gli si scontrasse sulla pelle, incapace di intaccarla. Il veleno scivolò a terra sfrigolando, ma la sua pelle rimase illesa.
Il gigante lo osservò incredulo: -Che cosa hai fatto?! –
Percy sorrise maligno, prima di correre verso di lui.
-La maledizione del piè veloce… - sibilò il gigante con disprezzo.
Scagliò la sua rete da gladiatore sul ragazzo, ma Percy era agile.
Scartò di lato, e con un movimento repentino della mano ordinò all’acqua che scorreva nell’acquedotto di scagliarsi contro gli occhi di Polibote.
Il gigante arretrò accecato per pochi secondi dall’acqua, ed era quanto bastasse a Percy.
Il semidio gli saltò addosso con inumana forza, e affondò la spada nella carne esposta del ventre fino all’elsa, prima di saltare indietro e allotanarsi velocemente.
Polibote ruggì dal dolore, ma Percy sapeva che non sarebbe bastato a fermarlo. Un colpo simile avrebbe ucciso qualunque altra creatura, eppure il gigante si riprese in fretta, guardandolo con un luccichio di cattiveria negli occhi.
-Sei bravo ragazzo, ma non vincerai. Ti colpirò finché non troverò il tuo unico punto debole, e nemmeno la tua insulsa maledizione greca ti salverà. –
Percy lo guardò attentamente, ed ebbe un’idea. Disperata e forse irrealizzabile, ma era un'idea.
Aveva bisogno di un dio.
-Beh, in tal caso, auguri! – urlò rivolto al gigante, prima di voltarsi e correre verso la città.
Potè immaginarsi Polibote strabuzzare gli occhi alle sue spalle: -Codardo! La tua morte sarà solo più dolorosa! – urlò a sua volta il gigante, prima di corrergli dietro pestando le zampe ricoperte di scaglie con tanta forza da far tremare il terreno.
Percy corse, superando i suoi amici e compagni, compresi Tyson e Frank.
-Percy hai bisogno di aiuto? – gli chiese stranito Tyson.
-Sto bene! – urlò il figlio di Poseidone continuando a correre.
Vide Frank guardarlo incerto, prima che si trasformasse in una donnola. Percy ebbe un secondo per chiedersi se l’amico fosse impazzito.
-Insulso mezzosangue! – gli gridò Polibote, ormai sempre più vicino.
Percy era incredibilmente veloce, persino per un semidio, ma sapeva che non l'avrebbe salvato.
Alzò gli occhi, vide i confini della città vicini, e una delle statue di Terminus che si ergeva a una ventina di metri da lui. Era una scultura completa del busto. Perfetta.
-Terminus! – urlò, e la statua spalancò gli occhi di pietra con indignazione.
-Percy Jackson, la mia città è in fiamme! È inaccettabile, fai qualcosa! –
-Ci sto provando, sa? –
Percy si fermò, sentiva di avere Polibote a pochi metri dietro di sé.
-Deve aiutarmi a uccidere il gigante! Solo un dio e un semidio insieme possono ucciderlo! –
Terminus si voltò con la metà superiore del corpo, occhieggiando verso Polibote.
-Devi bloccarlo se vuoi che io ti aiuti ad ucciderlo. Come vedi, non posso muovermi da qui. – commentò.
Percy lo guardò incredulo.
Ma Polibote era troppo vicino, e lo sentì ringhiare mentre gli correva incontro con il tridente puntato verso di lui.
Percy scartò di lato senza sapere cosa fare, lasciando che il gigante inciampasse nei suoi stessi passi. La battaglia era quasi giunta al termine, e vide alcuni ragazzi raggiungerli ad una decina di metri dai confini della città.
Polibote si voltò di nuovo verso di lui, e dell’acqua si sollevò rabbiosa da sotto la terra, radunandosi ai suoi piedi mentre diventava verde e fumante come veleno bollente.
-Continui a scappare! Ti farò pentire di essere nato ragazzino, distruggerò questa città con le mie mani e poi sarà il turno del tuo amato campo greco. – gli urlò il mostro.
Percy sentì il suo sguardo accendersi.
Non il Campo Mezzosangue.
Polibote doveva essere fermato, ucciso, e lui lo avrebbe fatto a qualunque costo.
Non poteva lasciare che il suo esercito distruggesse il Campo Giove, e non avrebbe mai permesso che nè Polibote nè chiunque altro arrivasse al Campo Mezzosangue. Terminus gli aveva detto di fermarlo, e il figlio di Poseidone alzò gli occhi irosi sul gigante: avrebbe fatto strisciare Polibote ai piedi del dio, e lo avrebbe fatto patire così tanto che si sarebbe pentito di aver messo piede fuori dal Tartaro.
Il gigante tornò all’attacco cercando di infilzarlo col tridente. Il ragazzo si mosse di lato col corpo, e bloccò l'arma di Polibote con Vortice. La spada emise un clangore assordante contro il metallo del tridente.
Ruotò il polso, districò la spada dalle sue punte, e tracciò un arco sopra di sé, colpendo il gigante al collo.
Polibote urlò e arretrò portandosi una mano alla gola ferita, ed in quel momento gli occhi del figlio di Poseidone si illuminarono pericolosamente.
Fu come se il tempo si fosse fermato per un istante.
Il gigante infatti si fermò sul posto come una statua, con gli occhi spalancati fissi sul ragazzo.
E poi, improvvisamente, si accasciò a terra urlando, il corpo scosso da spasmi mentre si contorceva innaturalmente.
-Non è possibile… - gridò con voce strozzata Polibote. -Sei un abominio! -
Percy non rispose, camminando all’indietro verso la statua di Terminus. I suoi passi erano leggeri ed eleganti, ma aveva la spada rossa di sangue stretta in mano e gli occhi che brillavano inquietantemente fissi sul gigante.
Una forza invisibile trascinò il corpo di Polibote verso il ragazzo, facendolo urlare di dolore sulla strada lastricata. Dell’icore dorato cominciò a scorrergli giù dal naso e dagli occhi, le sue ferite si slabbrarono e incominciarono a sanguinare copiosamente allargandosi come crepe sul vetro.
Percy si fermò, ormai al fianco della statua di Terminus, e il corpo del gigante continuò a strisciare pietosamente sul terreno fino ai piedi del dio.
-Prego Terminus. – sibilò Percy porgendogli Vortice, senza mai staccare gli occhi dal gigante rantolante. -È tutto suo. –
Terminus lo guardò per un secondo con sguardo indecifrabile, ma non aggiunse una parola. Strinse tra le dita la spada del ragazzo, e puntò gli occhi di pietra sul gigante.
-Fermati ragazzo… ti supplico… - gridò pietosamente il gigante, la pelle che sembrava ribollirgli e il sangue che gli usciva dagli occhi come dense lacrime d'oro.
Terminus pose fine a quella straziante immagine.
Si chinò con il torso, e piantò la spada sul petto del gigante ai suoi piedi. Una luce abbagliante si sprigionò dalla spada, prima che il gigante si disintegrasse tra urla di dolore.
Cadde la quiete nella valle.
Percy barcollò all'indietro, il respiro affannoso e le pupille che sfarfallarono, ma dovette lottare contro l'energia rabbiosa del suo potere. Si portò le mani alle tempie stringendosele gemendo, e la morsa al suo cuore scomparve quasi con riluttanza, Percy sentì l'energia tornare ad assopirsi dietro alle sue iridi e sganciarsi dal mondo intorno a lui.
Respirava pesantemente, e a poco a poco la luce nei suoi occhi si spense. Aveva il viso e il corpo sporchi di terra e sangue, la maglietta a brandelli, ma non aveva nessuna ferita sul corpo.
Si voltò lentamente verso i suoi compagni, vedendo che ormai erano tutti lì.
Reyna, Hazel e Frank lo guardavano increduli in prima fila.
Passarono pochi secondi di silenzio.
Poi, un improvviso grido di esultanza di levò dall’esercito di romani e amazzoni.
Hazel e Frank gli corsero in contro per primi, stritolandolo in un abbraccio soffocante al quale Percy si lasciò andare con gioia. Tutti gli altri semidei li seguirono pochi secondi dopo accerchiandosi intorno al figlio di Poseidone.
I romani incominciarono ad esultare: -Percy! Percy! -
Reyna fu la seconda ad abbracciarlo quasi stritolandolo, e Percy non poté impedirsi di ridere. Poi, quando la ragazzi si allontanò, gli altri ragazzi lo travolsero.
Prima che se ne rendesse conto, lo avevano sollevato su uno scudo, e le loro grida cambiarono.
-Pretore! Pretore! –
 
La Festa della Fortuna quella sera riportò felicità nel cuore del figlio di Poseidone.
Romani, Lari, Amazzoni e fauni erano tutti uniti nella mensa, circondati da risate, cibo e sollievo. C’erano stati molti feriti, ma molti erano già in grado di muoversi e festeggiare insieme agli altri.
Percy osservò con un sorriso tutte le coorti mescolate tra di loro, insieme ad amazzoni e fantasmi, tutti riuniti dall’aria di vittoria.
Percy cambiò posto così tante volte che ormai mangiava qualunque cosa trovasse ai tavoli.
Si sentì veramente sollevato per la prima volto dopo cinque mesi.
C’era un solo, unico pensiero che non riusciva a ignorare.
Non sapeva dove Nico fosse finito. Non sapeva nemmeno se fosse vivo.
L’ultima conversazione che aveva avuto con lui continuava a ronzargli in testa da quando Hazel gli aveva detto che il figlio di Ade era scomparso.
“Ti prego, non cacciarti nei guai” era stata l'ultima cosa che era riuscito a dirgli.
“Figurati, mica mi chiamo Percy Jackson.” gli aveva risposto Nico con un lieve sorriso dipinto sul viso, prima di sparire, inghiottito dalle ombre. 
Il ragazzo venne distolto dai suoi pensieri quando un gruppetto di amazzoni lo bloccò mentre si avviava verso il tavolo dove Frank ed Hazel festeggiavano con altri compagni.
Dopo poco che parlava con le quattro ragazze capì che doveva mettere in chiaro di avere già una ragazza. Non la presero male, ma quando se ne andarono lo baciarono a turno sulla guancia senza troppi complimenti facendolo arrossire.
Riuscì a raggiungere Hazel e Frank, e guardò divertito il ragazzo sfidare a braccio di ferro un ragazzo della Terza Coorte, entrambi spronati da altri semidei esultanti.
Poco dopo, Reyna si alzò per un breve discorso, seguita da Hylla che brindò alla loro vittoria.
-Vorremmo ringraziare i nostri tre eroi che hanno reso possibile questa alleanza tra Romani ed Amazzoni. Hazel, Frank, e Percy sono tornati vittoriosi dalla loro missione, e hanno reso possibile la disfatta del nemico! – disse Reyna con un sorriso, e tutta la sala esordì un applauso scrosciante e delle grida di esultanza.
Frank arrossì, ed Hazel, intenerita, gli diede un bacio sulla guancia. Percy sorrise alla scena.
-Percy Jackson! – lo chiamò Reyna, facendogli cenno di alzarsi.
Percy la raggiunse con un timido sorriso sulle labbra, e salutò entrambe le sorelle.
-Hai ucciso il gigante Polibote e salvato tutti noi. Sei stato innalzato a pretore sul campo di battaglia, e dall’intera legione. – disse Reyna, e Percy sentì i ragazzi intorno a loro esultare ancora più forte.
La ragazza gli sfilò la piastrina della probatio, e Percy guardò Ottaviano avvicinarsi con l’aria più contrariata e fintamente felice che avesse mai visto sulla faccia di chiunque.
L’augure gli prese il braccio con stizza, e passò la mano sul suo avambraccio, gridando: -Percy Jackson, figlio di Nettuno, primo anno di servizio! –
Percy guardò i simboli romani ardergli sulla pelle, e strinse i denti pur di non dare nessuna soddisfazione all'augure.
Un tridente, le lettere SPQR e una linea orizzontale apparvero sul suo avambraccio.
Reyna gli sorrise raggiante e gli allacciò sulle spalle un mantello viola, il simbolo di un pretore.
Poi lo abbracciò: -Grazie per tutto quello che hai fatto. – mormorò.
Percy le sorrise, prima che Hylla gli porgesse la mano con un ghigno.
-Io non ti ringrazierò. Ma in compenso, ho deciso di non ucciderti. – disse, e Percy le strinse la mano ridendo piano.
Un ultimo grido si levò dalla sala, e tutti tornarono a chiacchierare e ridere tra di loro, mentre Percy tornò a girare tra i tavoli ridendo e scherzando insieme agli altri.
In quel momento si sentì di nuovo parte di qualcosa, parte di una famiglia, dopo mesi passati da solo.
Dopo un po’, tornò a sedersi insieme a Tyson, che stava divorando panini al burro di arachidi ad una velocità spaventosa insieme ad Ella che sembrava guardarlo incantata.
-Ehi Tyson! – lo salutò stringendogli la spalla.
Il ciclope lo guardò, e il suo unico occhio castano si illuminò: -Fratello! Tieni, mangia un panino. –
Percy scosse la testa con un sorriso.
-Volevo ringraziarti per essere venuto a prendermi. E mi spiace di essere partito senza dirtelo. – gli disse.
Tyson fermò per un istante la sua abbuffata.
-Annabeth diceva che la dea antipatica ti ha costretto a partire. Tyson era molto preoccupato, e quindi è venuto a cercarti. Annabeth aveva detto che sarebbe stato pericoloso, ma a Tyson non importava. –
Percy sorrise lievemente, abbassando lo sguardo.
-Grazie Tyson. Non so cosa farei senza un fratello come te. -
-Sono felice che non sei morto. – rispose Tyson sorridendo enormemente. -Sei mancato molto a Tyson e gli altri. –
-Però siamo di nuovo insieme ora, vero campione? –
-Evvai! – esclamò il ciclope, sollevando il pugno in aria e facendo sussultare i ragazzi più vicini a loro. Percy si lasciò andare ad una risata sguaiata.
-Tyson è un eroe! – esordì Ella. -Tyson è bravo a combattere. Tyson è stato bravissimo. –
E Tyson fece una cosa che Percy non gli aveva mai visto fare.
Arrossì.
-Tyson! Il mio rubacuori… -
Il ciclope abbassò lo sguardo sorridendo timidamente: -Ella è carina… e Percy aveva chiesto di salvarla. – disse.
La serata continuò piacevolmente.
Percy, Hazel e Frank fecero anche un giro per la città illuminata dalle tante torce e piena di semidei di ogni età che si divertivano e festeggiavano. La città non si era veramente ripresa dalla battaglia, ma non c’erano più incendi e le macerie era state rimosse lasciando le strade pulite e sgombere.  
Terminus era ai confini, e si girò verso di loro con fare stranamente rilassato.
-I salvatori di Roma! – esultò, e i tre lo salutarono all’unisono.
La statua si voltò poi verso Percy, e il modo in cui lo guardò fece tendere il ragazzo sulla difensiva.
 -Sei un semidio pericoloso Percy Jackson. E quello di cui sei capace mi preoccupa, ma hai dimostrato grande coraggio, e lealtà verso i miei protetti. Per questo ti accolgo con felicità come pretore. –
Percy sorrise con riconoscenza, ma non nascose lo sguardo nervoso che rivolse al dio.
-Grazie Terminus. Non la deluderò. –
Terminus annuì: -Bene! Ma il tuo mantello pende di due centimetri a destra, farai meglio ad aggiustarlo. Julia! Dove sei? –
La bambina corse verso di loro da dietro il piedistallo sfoggiando un vestitino verde e un piatto d’oro. La bambina si fermò di fronte a Percy guardandolo con occhi scintillanti, mettendogli sotto il naso il piatto straripante di cappellini di carta colorati.
Percy si chinò alla sua altezza: -Ne posso prendere uno? – chiese con un sorriso, e Julia annuì solenne. Lui ne prese uno blu, prima di alzarsi e inchinarsi giocosamente davanti alla bambina.
Non in molti lo sapevano, ma avrebbe sempre desiderato avere una sorellina.
-Da grande diventerò Percy Jackson. – esordì la piccola, voltandosi verso Hazel e lasciando che lei scegliesse un cappellino.
La figlia di Plutone le scompigliò i capelli: -Un’ottima idea birbante. –
Frank si sporse a prendere un cappello a sua volta: -Ma potresti anche diventare Frank Zhang. Sarebbe uno sballo, te lo garantisco. –
Hazel gli diede uno scappellotto lieve sulla nuca, prima che si allontanassero lungo le vie della città. Lei e Frank si tenevano mano nella mano.
Percy invece si perse a guardare i fauni che ballavano e suonavano, i bambini che correvano per le strade e i più grandi che sedevano sui muretti e sulle panchine parlando animatamente.
Quel posto era meraviglioso, così intriso di vita e festa, e salvarlo lo aveva reso felice.
Eppure, più camminava insieme ad Hazel e Frank per quelle vie così splendidamente accoglienti, più pensava al Campo Mezzosangue.
Quella città era bella oltre ogni immaginazione, e offriva una vita che Percy aveva sempre sognato per sé ed Annabeth.
Ma più avanzava più sentiva la mancanza di casa sua.
Il Campo Giove gli era diventato caro, e avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere Hazel, Frank, Reyna e gli altri ragazzi lì. Ma la sua vera casa non era là.
E la sua famiglia lo stava aspettando.
-Ehi ragazzi, io vi saluto. Ci vediamo domattina. – li salutò abbracciandoli.
Hazel e Frank protestarono, ma Percy sapeva che avevano bisogno e meritavano del tempo da soli. Tornò quindi verso il campo.
La sua era una passeggiata tranquilla, ma non si diresse verso i dormitori.
Dopo qualche minuti infatti, si fermò vicino al Campo Marzio. C’erano poche lanterne ad illuminare la valle, ma era abbastanza perché riuscisse a vedere.
Si sedette ai piedi di una delle fortificazioni che costellavano il Campo, e in lontananza guardò sorridendo la Signora O’Leary che giocava con Annibale rincorrendosi e saltandosi addosso senza timore.
Lui invece appoggiò la schiena alla pietra dietro di sé, e si concentrò.
Ordinò all’acqua che impregnava la terra sotto di lui di salire, e ai suoi piedi si formò una piccola pozzanghera. Aveva imparato durante gli anni a piegare in modo elementare la Foschia al suo volere, e riusciva a compiere qualche trucchetto.
Uno di questi era creare un arcobaleno. Sopra lo specchio d’acqua, un piccolo arcobaleno comparve, e Percy estrasse una dracma dalla tasca. La gettò, e la vide affondare nella piccola pozzanghera.
-Oh, Iride, dea dell’arcobaleno, accetta la mia offerta. – mormorò. -Mostrami Annabeth Chase. –
La dracma scomparve, e Percy trattenne il respiro.
In tutti quei mesi passati lontano da casa aveva tentato migliaia di volte di parlarle, di contattare chiunque al Campo Mezzosangue, ma senza successo.
Pregò con tutto sé stesso che stavolta funzionasse.
E infatti, l’acqua sotto all’arcobaleno si alzò roteando, finché non raggiunse l’altezza del viso del ragazzo.
Un’immagine prese forma. E Percy sorrise come non aveva mai sorriso negli ultimi mesi.
Annabeth era seduta davanti ad una mappa del globo, e aveva alle spalle Piper, Jason e Leo, che la ascoltavano attenti. Stava parlando concentrata mentre tracciava le dita sul foglio con eleganza.
Aveva i capelli raccolti in una coda, i ricci definiti che le scendevano lungo le spalle voluminosi e splendenti come oro, e il suo viso era la cosa più bella che Percy potesse immaginare.
Il ragazzo sentì i suoi occhi inumidirsi dalla felicità.
Stava bene. L’amore della sua vita stava bene.
-Annabeth…? - la chiamò piano.
La ragazza alzò di scatto la testa, come fecero i ragazzi alle sue spalle. I suoi splendidi occhi grigi si sgranarono nella sorpresa, e si alzò in piedi con tanta velocità e violenza da spaventare gli altri vicino a lei.
-Percy?! – esclamò lei.
La ragazza sembrava faticare a respirare, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall'immagine del ragazzo.
-Ciao amore. – la salutò sorridendo, il desiderio di poterla toccare che gli graffiava il cuore.
Si rivolse agli altri, cercando di controllare la sua voce: -Ehi ragazzi, come va? –
Jason, Piper e Leo lo guardarono con dei crescenti sorrisi sulle labbra.
-Ehi amico! – lo salutò Leo.
Annabeth finalmente riuscì a sorridere davvero: -Santi numi, Percy stai bene?! –
Percy annuì con un sorriso felice: -Si Annie, sto bene. Abbiamo appena… - gli si illuminò lo sguardo. -Abbiamo vinto! Abbiamo liberato Thanatos e siamo riusciti ad uccidere Polibote e Alcione e a sconfiggere i loro eserciti. – disse con crescente entusiasmo.
Annabeth rise piano, la sorpresa rimpiazzata da una felicità senza fine.
-È fantastico! – esclamò Jason, prima che aggrottasse le sopracciglia. -È un mantello da pretore quello che hai addosso? –
E Percy si ricordò di essere un idiota.
-Oh sì... ma non preoccuparti, te lo restituisco appena torni. – disse ridendo nervosamente.
Annabeth lo guardò con orgoglio, e scosse la testa divertita:
-A proposito. Percy, noi partiremo stanotte. Leo ha costruito una nave da guerra, e arriveremo domani mattina. – disse la ragazza.
Percy emise un fischio di ammirazione: -Cercherò di convincerli a non fare fuoco. –
Annabeth sorrise, e Percy si perse nei suoi occhi.
-Allora a domani ragazzi. – li salutò. Poi guardò Annabeth. -A domani Sapientona, ti amo. –
Lei sorrise con un luccichio negli occhi.
-Anche io ti amo Testa d’Alghe. Aspettami senza combinare guai. –

Quella notte, Percy sognò di essere sulla sponda del Piccolo Tevere.
Accanto a lui, ad osservare l’acqua che scorreva placida davanti a loro, c’era Era.
La dea portava un lungo abito azzurro, e tra i suoi capelli castani splendeva una corona di fiori dorati.
Percy si allontanò bruscamente dalla donna, e lei gli rivolse uno sguardo indecifrabile.
-Ancora una volta sei riuscito a stupirmi, Percy Jackson. Hai concluso la tua missione anche meglio di quanto mi aspettassi, e ti ringrazio per questo. –
Percy la guardò con precaria tolleranza:
-È il minimo, dopo che ha rubato sette mesi della mia vita per una missione di una settimana. –
Era puntò gli occhi verso il sole con aria rilassata.
-Dimentico sempre quanto valga per voi mortali il tempo. Ad ogni modo, avevo bisogno prima che Jason, Piper e Leo mi liberassero dalla mia prigione.  –
-Ah, giusto, e ci sono pure riusciti. Che bella idea del... –
-Poi gli serviva tempo per costruire l’Argo II. E, se intendi, non potevo avere due galli nel pollaio a rovinare tutto il mio lavoro. –
Percy inspirò profondamente, gli occhi che scintillarono pericolosamente.
-Avanti, non guardarmi così. Non avevo molta scelta. Dopo la tua vittoria a Manhattan, e soprattutto dopo la piazzata che hai fatto sull’Olimpo, mio marito è rimasto ferito nell’orgoglio. –
-Perché io avevo ragione, e lui aveva torto. Immagino sia difficile per degli dei così presuntuosi rendersi conto che oltre ad essere subdoli e vigliacchi siete anche incapaci di difendere il vostro trono da soli. –
Era gli lanciò un’occhiata di avvertimento, ma Percy non si scompose.
-Attento, Percy Jackson. Comunque, Giove ora è convinto di dover dimostrare che non abbiamo bisogno di voi semidei per sconfiggere Gea. Si è rifiutato di chiedere il vostro aiuto, e mi ha costretta ad aggirare il suo ordine. –
-Non c’era bisogno che si disturbasse. Per una volta che Zeus aveva avuto la buona idea di lasciarci in pace, avrebbe potuto ascoltarlo. –
-Non scaricare su di me la frustrazione che provi verso il tuo destino. Io non posso cambiarlo, tanto quanto non puoi tu. – rispose la dea con un sorriso sarcastico.
Il ragazzo rimase in silenzio.
La dea volse lo sguardo al fiume senza smettere di sorridere.
-E ora gli eroi dell’Olimpo, i Sette della profezia, si riuniranno. Tu e Jason avete unito i due campi, e ora avete la possibilità di fermare Gea. – aggiunse la dea con entusiasmo.
Percy abbassò lo sguardo sull’acqua.
-Sembra troppo sicura del suo piano. Potremmo fallire, greci e romani potrebbero non riuscire collaborare. –
-Se così fosse, Gea ha già vinto. Ma sappi questo, figlio di Poseidone. La parte più difficile della tua impresa deve ancora arrivare, sarà piena di sofferenza e orrore più di quanto tu non possa immaginare, e sarà causata dalla persona che più ami a questo mondo. –
E Percy vide rosso.
Si piazzò di fronte alla dea, più vicino di quanto qualunque semidio si fosse mai permesso, e le rivolse uno sguardo di pura furia.
-Non osi. – sussurrò velenosamente. -A lei Annabeth non è mai piaciuta, e non sa nulla di lei. Io mi fido di lei più di chiunque altro. -
Era sorrise freddamente.
-Vedremo. Pensavo che avessi imparato la lezione, comunque, dato che l’ultima volta che ti sei fidato ciecamente di qualcuno hanno cercato di ucciderti. Quella cicatrice che hai sul viso dovrebbe ricordartelo. –
Percy a quel punto sfoderò Vortice, quasi meccanicamente, e la puntò alla gola della donna con le iridi che brillavano di pura ira.
La dea non si scompose.
-Buona fortuna, Percy Jackson. Ne avrai bisogno. – disse infine Era, prima che Percy si svegliasse.
 
Quella mattina, Percy, Hazel e Frank erano in città ancora prima dell’apertura del Senato. Si erano alzati presto, e avevano deciso di fare un giro per le strade di Nuova Roma.
Percy portava il mantello da pretore sulle spalle e una sottile armatura d’oro imperiale.
Il ragazzo raccontò di come si era messo in comunicazione con Annabeth e gli altri, e del loro imminente arrivo.
Quando finì il suo racconto, erano arrivati di fronte all’edifico del Senato, e Hazel e Frank si sedettero sul muretto della fontana che sorgeva nella piazza.
Per un secondo, i due lo guardarono senza dire nulla.
-Ricapitolando. – incominciò Hazel. – Tu stai dicendo che Jason, la tua ragazza e due altri semidei dal Campo Mezzosangue arriveranno in mattinata a bordo di una nave da guerra volante. –
Da come lo disse, sembrava davvero uno scherzo.
Percy però annuì.
-Sì. E a questo proposito… - disse, prima di alzarsi dal bordo della fontana su cui sedevano e mettersi davanti ai due amici. -Jason, Annabeth, Piper e Leo sono i primi quattro semidei che comporranno i Sette semidei della profezia. E io vorrei che voi veniste con me insieme a loro. –
Frank lo guardò sorpreso: -Sei sicuro Percy? Potresti scegliere chiunque qui, sei sicuro di volerci come parte dei Sette? –
Percy sorrise: -Se voi siete d’accordo, sì, vorrei la mia squadra con me. Dopotutto, siamo sopravvissuti insieme ai cannibali, al tè verde al germe di grano di Iride e alle chiappe azzurre dei giganti in Alaska. –
Frank ed Hazel risero a loro volta, prima di scambiarsi un breve sguardo.
-Siamo con te Percy. – disse la ragazza, sorridendogli incoraggiante.
Un suono di corni li interruppe in lontananza. I senatori arrivarono nel foro, con Reyna a capo della fila.
-Dobbiamo avvisarli della nave. – ricordò Frank. -Anche se temo faremo fatica a farci ascoltare. -
Percy annuì, sospirando, ed entrò nel Senato insieme ai suoi amici a testa alta.
 
-Io lo sapevo! – sbraitò Ottaviano. -L’avevo detto che era uno sporco greco, e nessuno mi ha creduto! Non possiamo fidarci di un nostro nemico! –
Percy era in quel posto da forse venti minuti, e la calma che stava così faticosamente cercando di mantenere si stava spezzando.
-Non ho forse dimostrato cieca lealtà e rispetto nei confronti di tutti voi? – replicò il figlio di Poseidone.
Ottaviano lo guardò con rabbia: -Ma questo non cambia i fatti! Sei un greco, perché mai dovremmo fidarci di te o dei tuoi amici? –
Percy aveva detto del piano di Giunone e della verità sul suo passato, della Profezia dei Sette e del Campo Mezzosangue. Disse di aver recuperato la memoria durante il loro viaggio, e che presto Jason insieme ad alcuni suoi amici sarebbe arrivato da loro.
Ovviamente, il suo racconto aveva messo i senatori in agitazione e Ottaviano lo aveva attaccato non appena aveva finito il suo racconto.
-Il campo è salvo, e sono stato il primo a congratularmi con i nostri eroi. Ma perché abbassare la guardia? Perché sfidare il fato, e fidarci di un manipolo di greci su una nave da guerra? – continuò Ottaviano.
-Un’ottima domanda. – disse Percy, alzandosi e raggiungendolo in mezzo alla sala.
Il mantello viola si gonfiò alle sue spalle, e il suo aspetto divino fece irrigidire l'augure.
Ottaviano lo guardò incredulo: -Io non… -
-Non hai partecipato all’impresa, lo so bene. E apprezzo da parte tua lasciare che sia io a spiegarmi, dato che io c’ero. –
Qualche senatore non riuscì a trattenere una lieve risata.
Percy lasciò scorrere gli occhi su tutti i presenti: -Gea sta tornando. Abbiamo sconfitto due dei giganti, suoi figli, ma questo non la fermerà. Lei risorgerà nell’antica terra degli dei, perciò questa nuova impresa ci porterà prima a Roma, e infine in Grecia. -
Percy vide molti nel Senato muoversi con agitazione.
-So bene che considerate noi greci vostri nemici. E so che in passato siamo sempre stati in guerra l’uno contro l’altro. Per questo gli dei ci hanno tenuti separati finora. – incominciò, ostentando sicurezza. -Ma questo deve cambiare. La Profezia dei Sette lo dimostra. Sette semidei, greci e romani, dovranno unirsi per chiudere le Porte della Morte e fermare Gea. –
Ottaviano si alzò di nuovo, un sorriso arrogante sul volto.
-L’ultimo pretore che cercò di interpretare la profezia fu colui che perse la nostra aquila. Perché dovremmo credere a te? –
Percy si voltò lentamente, e lo guardò con il fuoco negli occhi.
-Ma sono stato io a riportare suddetta aquila a voi, e sono stato sempre io ad uccidere Polibote. E non verrò messo in discussione da un gracile discendente di Apollo il cui unico talento è distruggere pupazzi per bambini. - sibilò maligno. -Persino due delle vostre più importanti divinità sono comparse dopo secoli per avvertirvi. Hai da ridire anche su questo? Vuoi davvero sfidare persino i tuoi amati dei?! –
Ottaviano non resse il suo sguardo, ammutolendo, e i senatori rimasero in rispettoso silenzio.
Reyna si alzò alle spalle di Percy: -Io mi fido della sua parola. Ci ha restituito la nostra aquila e il nostro onore. E greco o meno, nessuno potrà negare sul fatto che abbia combattuto come un vero eroe romano, uccidendo Polibote. –
In molti annuirono, e nessuno osò contraddirla.
-Ma devi capire, Percy. – aggiunse la ragazza voltandosi verso di lui. -Che i greci sono noti per i loro inganni. Possiamo davvero fidarci, e cooperare con loro, nonostante i secoli di odio? –
Percy, senza pensarci, sfiorò con dita leggere la collana che portava al collo.
-La realtà è che abbiamo già cooperato, ma nessuno di noi se ne è reso conto.-
Reyna lo guardò incerta, e il ragazzo continuò: -Voi avete combattuto sul Monte Otri, e avete creduto che dopo la sconfitta di Crio, Crono si fosse semplicemente ritirato. Ma c’eravamo noi, non più di quaranta semidei del Campo Mezzosangue, a combattere contro il suo esercito a Manhattan. Sono stato io a ucciderlo. –
Reyna sgranò gli occhi, e indietreggiò così velocemente da rischiare di inciampare.
-Cosa?! –
-Sto mettendo a dura prova la vostra fiducia, lo so. – esclamò Percy, rivolto a tutto il Senato. -Ma ho dimostrato lealtà e onestà nei vostri confronti. Hazel e Frank hanno accettato di seguirmi in questa impresa contro Gea. Jason arriverà insieme ad altri tre compagni del Campo Mezzosangue. Io vi chiedo solo di lasciarli atterrare, di ascoltarli. –
Reyna lo guardò indecisa, scombussolata.
Percy invece la guardò implorante: -Ti prego Reyna. Non siamo vostri nemici, e Jason lo confermerà. Non te ne pentirai, lo giuro sulla mia vita. –
Ottaviano rise con scherno: -Lo giuri sulla tua vita?! -
Ma nessuno potè ribattere, perchè un soldato irruppe nel Senato, senza fiato.
-Pretori! Scusate, ma… c’è una nave che vuole atterrare. -
Tutti alzarono gli occhi sul tetto distrutto del Senato, e una trireme greca apparve tra le nuvole. Il silenzio cadde nella stanza, mentre tutti guardavano increduli la nave che solcava il cielo.
-Pretori! Quali sono i vostri ordini? – chiese urlando ansioso il soldato.
Ottaviano fu il primo a riscuotersi, e spalancò gli occhi: -Non serve nemmeno chiederlo! Dobbiamo attaccarli, sono stati condotti qui da quel greco! – disse puntando il dito su Percy.
Nella sala le voci si alzarono, in molti si misero a discutere tra di loro e ogni traccia di calma scomparve dalla sala. Questo, finché Reyna non si alzò in piedi.
-Silenzio! – esclamò la ragazza. -Percy è un pretore a pieno titolo, e mi fido della sua parola. Lasciate che atterrino, ma rimanete pronti in caso facciano qualche passo falso. Questi sono i nostri ordini. La riunione si conclude qui. –
I Senatori si affrettarono fuori dalla stanza tra mormorii e imprecazioni.
Ottaviano si voltò ad osservare il figlio di Poseidone, l'odio che impregnava il suo viso, ma Percy sostenne il suo sguardo con occhi inespressivi.
L'augure sembrò quasi ringhiare, prima di voltarsi e correre verso l'uscita.
Il figlio di Poseidone rimase a guardarlo per un secondo, prima di voltarsi verso Reyna.
La ragazza era rimasta ferma, lo sguardo puntato verso il cielo dove la nave si era fermata, e nemmeno quando parlò distolse gli occhi da là.
-Spero davvero che tu abbia ragione, Percy. Perché se dovesse succedere qualcosa, non importerà quanto potente tu sia: non sopravvivrai all’ira della legione. –

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Capitolo 6
*** Il Ladro di Fulmini ***


Il ladro di fulmini

Annabeth aveva capito del tradimento di Luke nel momento in cui Grover rischiò di essere trascinato nel Tartaro dalle scarpe alate che il figlio di Ermes aveva regalato a Percy.
Percy lo realizzò con orrore quando Grover si strappò le scarpe di dosso, e il ricordo del sorriso di Luke quando gliele porse in dono gli balenò davanti agli occhi.
-Come ha potuto fare una cosa simile… - mormorò Annabeth poche ore dopo.
Grover dormiva al loro fianco per una breve sosta, e Percy seduto accanto a lei annuì con gli occhi vacui persi nel nulla.
Non si era mai sentito così male.
Non aveva mai conosciuto il tradimento. E in quel momento veniva da una delle persone di cui si fidava più al mondo.
Annabeth si strinse a lui: - Ci ha abbandonati. Alla fine, se ne vanno tutti. –
Percy si era voltato improvvisamente a guardarla. I suoi occhi brillavano nell’oscurità degli inferi, verdi come il mare.
-Non è vero, Annabeth. Non importa cosa accadrà, o se le cose andranno male, ricorda che avremo sempre l'un l'altra. Io, non ti lascerò mai. –
Annabeth lo aveva guardato con occhi vacui. -Percy... - cercò di parlare. -Ho paura. -
-Non devi Annabeth. Noi non dovremo mai temere nulla. - mormorò lui. -Perchè saremo insieme. Lo giuro sullo Stige. -

Quando tornarono a casa dalla missione, corsero alla capanna di Ermes. Il letto di Luke era immacolato, il suo zaino era scomparso. Si guardarono con ansia crescente, prima di correre verso l’arco di pietra all’entrata del campo.
Luke lo aveva appena varcato, e stava per scendere la collina.
-Luke! – lo richiamò Percy.
Il figlio di Ermes si voltò con gli occhi freddi come ghiaccio, la spada al fianco.
-Non tornerò indietro. – disse senza emozione.
Annabeth fece un passo verso di lui: -Luke, non è ancora troppo tardi. Puoi ancora fare la scelta giusta. –
-Ho già fatto la mia scelta. –
Percy sentì una morsa di rabbia stringergli lo stomaco: -Cercando di uccidermi. –
Luke abbassò lo sguardo. Non riusciva nemmeno a guardarli in faccia.
-Percy, mi dispiace, ma sono stato costretto. Io voglio... io ho bisogno, che Crono si risvegli, e tu eri il prezzo da pagare. – rispose.
E il figlio di Poseidone si sentì così spiazzato che riuscì solo a pensare che una pugnalata al cuore gli avrebbe fatto meno male.
Annabeth al suo fianco sussultò, gli occhi spalancati.
-Come puoi… - sibilò lei.
-Venite con me! – replicò il figlio di Ermes, con improvviso entusiasmo. -Insieme, combatteremo al fianco di Crono contro gli Olimpi. Avremo la nostra vendetta, potremo vivere finalmente liberi dalla loro avidità e dal loro egoismo. –
-Stai tradendo la tua famiglia... – sibilò Percy, la spada stretta in pugno.
Luke spalancò gli occhi: -Non è vero Percy! Non dobbiamo nulla agli dei, per noi loro non ci sono mai stati! E voi lo sapete! –
-Ma eravamo noi la tua famiglia! – urlò Annabeth.
Percy abbassò lo sguardo, la presa sulla spada che si rafforzava.
Odiava gli dei. E odiava suo padre, con tutto il cuore. Perché quello che gli aveva causato era imperdonabile.
Ma in quel momento, odiò Luke più di ogni altra cosa.
Lo odiava perché per lui avrebbe dato la vita, e lui invece lo aveva pugnalato alle spalle.
Non ci fu nessun avvertimento, nessuna esitazione.
Percy si gettò su Luke, sguainando la spada troppo velocemente perchè il ragazzo potesse fermarlo e lo attaccò senza pietà.
Annabeth fece per seguirlo, ma in quel momento un enorme scorpione grande quanto un cane sbucò dalla terra e attaccò la ragazza.
Percy non si fermò nemmeno allora. Era accecato dall’odio, si muoveva veloce, preciso, con il solo scopo di uccidere.
Insieme a Chirone, era stato Luke a insegnargli a combattere con la spada. Per triste ironia l'allievo ormai aveva superato il maestro.
Percy riuscì a disarmarlo incrociando le loro spade, ruotando poi il polso e ferendo la mano del figlio di Ermes. Lo colpì con forza alla tempia col pomello della spada, tanto da farlo cadere con la faccia a terra.
Luke era vulnerabile, con la schiena esposta e disarmato.
Vederlo così, affievolì la sua furia cieca.
Con qualunque altro avversario, Percy avrebbe calato la spada su di lui senza aspettare un secondo di più.
Ma con Luke era diverso. Esitò.
E questo firmò la sua disfatta.
Luke fu veloce, agguantò la sua spada da terra e si alzò tracciando sopra di sé un arco con il taglio della lama.
Percy non fece in tempo a parare il colpo.
La spada gli infierì con crudele precisione un taglio obliquo sull’occhio sinistro, e il ragazzo urlò di dolore.
Il figlio di Ermes gli strappò la spada dalle mani senza fatica, e gli colpì di taglio la gamba. Percy gemette nonostante non riuscisse a respirare, cadendo in ginocchio, e Luke lo spinse rabbiosamente a terra prima di puntargli la lama al petto.
Percy cercò di strisciare lontano da lui, ma aveva gli occhi serrati e la mano premuta sull’occhio sinistro. Sentiva il sangue scorrergli copioso tra le dita e lungo la guancia, sentiva Annabeth gridare il suo nome a pochi metri da loro.
Riuscì ad aprire a fatica l’occhio destro, e desiderò non averlo mai fatto.
Luke lo guardava con uno sguardo così rabbioso, freddo e spietato che Percy sentì il cuore soffocargli nel petto.
-Uccidimi, avanti… - sibilò pietosamente, il sangue che usciva dalla ferita all’occhio gli bagnò le labbra e i denti.
Sentì la pressione della spada farsi più forte sul suo petto, ma non distolse mai gli occhi dal viso di Luke.
E lo vide.
Vide qualcosa nei suoi occhi azzurri spezzarsi, lasciandoli inondare di paura. Il figlio di Ermes si voltò nervosamente verso Annabeth, prima di riportare lo sguardo su di lui.
Gettò a terra Vortice, e corse via.
Percy cercò di alzarsi e seguirlo, ma aveva la vista offuscata, gli girava la testa e sentiva di poter vomitare.
Rotolò di fianco, puntando le ginocchia a terra e cercando di sollevarsi col braccio destro.
Cercò di mettere a fuoco Annabeth, e la vide correre verso di lui. Alle sue spalle, lo scorpione era scomparso.
-Annabeth… - gemette, sentendola inginocchiarsi al suo fianco.
-Miei dei, Percy! - sussultò lei, aiutandolo ad alzarsi. Percy si appoggiò a lei in precario equilibrio con la gamba che gli lanciava fitte lancinanti.
-Stai bene? – le chiese in un sussurro dolorante. Provò a guardarla, ma la sua vista si faceva sempre più fioca.
La sentì singhiozzare al suo fianco: -Sì, ti prego resisti. – lo supplicò.
Quando arrivarono più vicini alla valle, Annabeth urlò, chiedendo aiuto.
Da quel momento Percy ricordò solo delle urla concitate, vide Grover corrergli incontro e aiutare Annabeth a sorreggerlo prima di trascinarlo verso la Casa Grande.
Quando si risvegliò in infermeria, vide Annabeth piangere silenziosamente accanto al suo letto con lo sguardo puntato oltre la finestra.
Non c'era solo tristezza nel suo sguardo. C'era tanta rabbia, tanta delusione, persino una luce vendicativa.
E nonostante fosse distrutta, Percy pensò che fosse bellissima con quello sguardo di acciaio.
Il ragazzo la richiamò alla realtà, e sorrise debolmente quando lei gli saltò al collo e lo abbracciò. Percy la strinse con tutta la forza che aveva.
Erano insieme. Era questo che contava.

Poche ore dopo, andò al molo, da solo, cercando un po’ di pace nell’acqua del mare che si muoveva placida sotto di lui.
E poi, all'improvviso, sentì qualcosa avvicinarsi alle sue spalle.
Percy si voltò trasalendo, e si alzò di scatto pronto a tirare fuori la spada dalla tasca, il corpo teso pronto a scattare nonostante avesse i riflessi lenti, l'occhio destro stanco e che faticava a vedere con chiarezza.
Ma quando a fatica riuscì a mettere a fuoco il viso di chi che aveva davanti, si paralizzò.
Davanti a sé, vide il riflesso adulto di sé stesso.
Sentì la gola serrarglisi.
-Ciao Percy. – disse l'uomo.
Percy non riuscì a rispondere.
Arretrò di un passo, l'occhio destro spalancato in un tumulto di emozioni contrastanti.
Era la prima volta che vedeva suo padre.
-Perché sei qui? – chiese con rabbia, stupore, incertezza.
Poseidone lo guardò quasi mortificato:
-Volevo congratularmi per la tua vittoria. So che hai restituito la folgore a Zeus, e persino che lui si è quasi scusato con te. – disse con un piccolo sorriso.
-Grazie. – mormorò il ragazzo. -Ora puoi andartene. –
Non c'era stata nessuna vittoria.
Luke se ne era andato. Lo aveva tradito.
Poseidone gli si avvicinò, ma ancora una volta Percy fece un passo indietro.
-Percy, capisco che tu sia arrabbiato con me per quello che ti è successo. So che hai avuto la possibilità di rivedere tua madre, quando sei sceso negli Inferi, e vorrei solo che sapessi… -
-Non osare nominarla. – lo interruppe iroso il ragazzo. Il suo occhio sano tremò pericolosamente. -Era tutto ciò che avevo, e hai lasciato che me la portassero via.–
L'immagine del fantasma di sua madre gli gelò il sangue. Ricordò quello che aveva visto nel regno di Ade, il sorriso triste della donna, i suoi occhi languidi, il suo viso freddo e spettrale.
Era stato Poseidone a permettere che la sua splendida madre diventasse così. Era per colpa sua se Percy l'aveva persa.
Poseidone sospirò.
-Percy, io amavo tua madre con tutto il cuore, ma non potevo… -
Percy sentì il sangue ribollirgli nelle vene: -Non l’amavi! Se avessi davvero amato mia madre, non l’avresti lasciata sola con un bambino che attirava creature mostruose alla sua porta, costringendola a vivere con un uomo dall’anima marcia pur di proteggermi. Se davvero l’avessi amata, non avresti permesso che morisse per mano di quell'insulso mortale! E se avessi amato me, non mi avresti lasciato per mesi in mezzo ad una strada brulicante di mostri. –
Per la prima volta, Percy si avvicinò al padre, e il mare alle sue spalle si gonfiò aggressivo e tempestoso. Il cielo quasi sembrò oscurarsi sopra di loro.
-Ero completamente da solo. E ogni, singola notte, ti ho pregato perchè mi portassi via da quell’orrore. Ma tu non c'eri.– sibilò il ragazzo con voce spezzata.
Il dio lo guardò con profondo dolore. Posò una mano sulla spalla del ragazzo, abbassando il viso all’altezza dei suoi occhi.
Percy tentò di scostarsi, ma lo fece con poca convinzione. Una parte di lui, voleva davvero credere che a suo padre importasse di lui.
-Percy, è raccapricciante quello a cui sei dovuto sopravvivere. – disse il dio con voce lenta e cullante. -Ma sappi che se avessi potuto, avrei impedito che succedesse. Spero che un giorno potrai perdonarmi. Per ora, sappi che sono fiero di te. –
Poi scomparve, come se non fosse mai esistito. Percy guardò il mare scontrarsi rabbiosamente sul molo, alimentato da tutta la sua rabbia e frustrazione.
Quando quella sera si tolse le bende dall’occhio sinistro, si guardò allo specchio.
Una cicatrice gli solcava obliqua la pelle sopra all’occhio fino alla guancia, sottile e ben rimarginata dall’ambrosia. Ma nonostante questo rimaneva in rilievo e crudelmente evidente, bianca come avorio.
E poi, per un istante, non vide più sé stesso nello specchio.
Il volto di Luke si sovrappose al suo riflesso, ma la cicatrice che gli solcava il viso rimaneva identica alla sua.
-Ora siete uguali. -

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Capitolo 7
*** Il Marchio di Atena ***


Il Marchio di Atena

Annabeth era in piedi sul ponte della nave, con le braccia incrociate e lo sguardo di rassegnata sopportazione puntato sull’enorme scultura di pietra davanti a loro.
Jason lo aveva presentato come Terminus, il dio dei confini, il quale gli aveva sbarrato la strada strepitando istericamente. Annabeth si chiese per quanto ancora avrebbe continuato a strillare.
-Andatevene! – urlò il dio, agitando il busto privo di braccia e strabuzzando gli occhi di pietra.
Annabeth si voltò verso Jason col sopracciglio alzato.
Il figlio di Giove osservava l’enorme statua nervosamente, nonostante la postura fiera e il mantello viola che si gonfiava alle sue spalle.
-Terminus, sono miei amici, vogliamo solo… - provò a dire il ragazzo.
-Atterrare? Scordatelo, non lascerò mai che una nave da guerra tocchi il suolo della mia città, va contro ogni regola e buonsenso. – ribatté il dio. -Ti ricordavo più sveglio ragazzo. -
-Ma… - provò a ribattere Jason, ma Annabeth smise di ascoltarlo.
I suoi occhi d’acciaio si posarono sulla città sotto di loro, e lo vide.
Vide Percy camminare velocemente verso la piazza, lo sguardo puntato in alto sulla nave e un enorme sorriso a splendergli sul viso.
Annabeth sentì tutti i suoi muscoli rilassarsi mentre i suoi occhi si spalancavano e un sorriso si dipingeva sulle sue labbra.
-E se scendessimo senza che la nave tocchi terra? – esclamò la ragazza con rinnovato entusiasmo, attirando gli occhi di pietra del dio su di lei.
-Cosa staresti suggerendo, ragazza? –
Annabeth sorrise gentilmente e con ammaliante accondiscendenza.
-Non vuole che vengano introdotte armi nella sua città. Allora la nave rimarrà sospesa qui, e scenderemo solamente noi. –
Il dio la guardò assottigliando gli occhi: -Una figlia di Atena…–
Annabeth ignorò volontariamente il tono sprezzante con cui Terminus parlò. Era così felice che nemmeno il suo orgoglio l’avrebbe distolta dal pensiero di Percy a solo una quindicina di metri sotto di loro.
-Dimenticando la sua immotivata scortesia, penso che la mia idea saprebbe accontentare tutti. Lei non avrebbe nessun’arma introdotta in città, e noi potremmo scendere per parlare con Reyna. – rispose Annabeth. -Veniamo in pace, e ci adatteremo alle sue regole, in rispetto per lei e per la sua città. –
Terminus era pronto a ribattere, ma Jason fece un passo avanti, portandosi al fianco della figlia di Atena.
-Annabeth ha ragione. Non farei mai nulla per minacciare la mia stessa casa. Giuro che non causeremo guai. – disse il ragazzo.
Annabeth mantenne lo sguardo regale sul dio.
Terminus lanciò un’occhiata alla ragazza, prima di raddrizzare la schiena scolpita nella pietra:
-Bene. In questo caso, la vostra nave rimarrà qui, e voi potrete scendere lasciando a bordo qualunque tipo di arma. Figlia di Atena, hai il permesso di scendere insieme ai tuoi compagni. Ma sappiate che basterà un solo passo falso per costringermi ad uccidervi. -
Annabeth ghignò, gli occhi nuovamente illuminati di pura gioia.
Quando scesero nel foro, Annabeth era in testa e si fermò ai margini meridionali, dove centinaia di semidei si radunarono intorno a loro.
La ragazza osservò con stupore i bambini che si sporgevano curiosi, gli anziani che li osservavano attenti e i ragazzi più giovani che si mantenevano in prima fila a proteggere le intere famiglie alle loro spalle.
Poi, davanti a loro, i semidei fecero largo ad una ragazza in armatura e mantello viola. Aveva uno sguardo solenne e severo, i capelli scuri, gli occhi nerissimi e le movenze di una vera comandante: Reyna.
Jason l’aveva descritta bene.
Il figlio di Giove, Leo e Piper fecero un passo avanti, disponendosi a ventaglio intorno ad Annabeth.
La figlia di Atena rivolse a loro un sorriso incoraggiante. Era felice di averli al suo fianco in quel momento.
Quando la ragazza ebbe Reyna di fronte le rivolse un piccolo sorriso, ma i suoi occhi grigi rimasero impenetrabili e duri come ferro.
-Ti ringrazio per averci permesso di atterrare. Io mi chiamo Annabeth. – si presentò la figlia di Atena, il mento alto e i capelli mossi dal vento caldo che le soffiava tra i ricci biondi.
Reyna le rivolse un sorriso di cortesia: -Siete i benvenuti. Io sono Reyna. – disse, prima di voltarsi verso Jason. Il suo sorriso rimase gentile e contenuto, ma erano i suoi occhi a brillare. -Bentornato a casa Jason. –
-Annabeth! -
Annabeth sentì chiamare il suo nome. Il suo sguardo saettò sulla folla.
Percy si fece indelicatamente strada tra i semidei correndo, prima di stagliarsi ai margini della folla, regale e magnifico come un re.
Annabeth sentì gli occhi inumidirsi, e le mancò il fiato in gola.
Il ragazzo stava sorridendo, le labbra tese nel suo solito ghigno malizioso, e suoi occhi scintillavano come l'acqua limpida del mare sotto al sole.
Portava il mantello viola da Pretore e una sottile armatura d'oro imperiale.
Era alto, forte e bello esattamente come Annabeth lo ricordava.
L'aveva ritrovato. E la stava aspettando.
Reyna la stava guardando invece con incertezza, ma Annabeth aveva già dimenticato qualunque altra cosa, offuscata dall’immagine del ragazzo a pochi metri da lei.
Si lanciò in avanti, e Percy corse verso di lei nello stesso istante.
I semidei romani si agitarono intorno a loro cercando le armi che non avevano, ma lei non riuscì a preoccuparsene.
Annabeth si lasciò sfuggire una risata, e quando fu a pochi passi dal ragazzo si scontrò contro il suo corpo, alzandosi in punta di piedi e allacciandogli le braccia al collo.
Percy le strinse possessivamente la vita, prima di chinarsi e seppellire il viso nell’incavo della sua spalla.
Annabeth rise con gli occhi serrati, incapace di contenere la gioia che provava.
Percy profumava come la brezza del mare, il suo corpo era forte e caldo sotto alle sue dita.
-Oh Annabeth… - sussurrò il ragazzo sulla sua pelle, e la ragazza voltò goffamente il capo cercando le sue labbra.
Si baciarono disordinatamente, ma con così tanto desiderio ed euforia che Annabeth pregò di poter rimanere lì in quell’attimo e passarci il resto dei suoi giorni.
Era tutto come prima.
-Ti amo, ti amo, ti amo… - mormorò Percy al settimo cielo, portandosi a pochi millimetri dal volto della figlia di Atena.
Annabeth aveva gli occhi che brillavano: -Ti amo. – ripeté la ragazza.
Lo guardò, sorridendo. Era bello da togliere il fiato.
Poi Annabeth si riabbassò, scostandosi di poco dal ragazzo.
Rivederlo le aveva ricordato quanto avesse sofferto senza di lui, di quanto per tutto quel tempo non aveva mai saputo dove fosse e se stesse bene, e di quanto ogni giorno avrebbe voluto svegliarsi da quell'incubo e scoprire che lui non se ne era mai andato.
Quel pensiero le fece stringere le viscere in una morsa di rabbia rovente, e il suo sorriso si affievolì, ma Percy non fece in tempo a rendersene conto.
Perché Annabeth gli tirò uno schiaffo.
-Ehi! – sobbalzò il ragazzo, portandosi una mano sulla guancia offesa e ritraendosi.
Intorno a loro, i romani trasalirono.
Annabeth lo guardò con lo sguardo più rabbioso che potesse fingere.
-Non rifarmi mai più una cosa del genere, Testa d’Alghe – lo redarguì.
Il ragazzo ridacchiò, rivolgendole un’altro dei suoi ghigni sghembi e maliziosi, di quelli che aveva avuto fin da bambino.
-Come se fossi sparito per una gita di piacere, eh Annie? – le rispose il ragazzo.
Annabeth gli rivolse un'occhiataccia nonostante gli occhi le scintillassero, per poi porgergli la mano con finta stizza.
Percy intrecciò le dita con le sue, prima di seguirla verso Reyna e gli altri.
Il ragazzo le diede una spallata giocosa.
Percy arrivò a Piper, Jason e Leo, abbracciandoli velocemente.
-Sono felice di rivedervi ragazzi. – disse con un sorriso gentile, senza mai allontanarsi da Annabeth.
Reyna li guardò con uno sguardo indecifrabile, prima voltarsi verso la folla di semidei:
-Lo spettacolo è finito! – esclamò, e a poco a poco la piazza si svuotò. Le risate dei bambini svanirono, i mormorii si fecero sempre più lontani.
Solo i centurioni rimasero, raggiungendoli in mezzo al foro.
Annabeth notò in particolare due ragazzi che si avvicinarono a loro fino a fermarsi al fianco di Percy.
Il figlio di Poseidone sorrise ai due, rassicurante, e Annabeth fece lo stesso quando li vide osservarla.
Erano più giovani di loro, il ragazzo era grande e grosso, col viso dai lineamenti asiatici, mentre la ragazza era minuta e con la pelle scura, sfoggiava degli occhi gialli come oro e dei capelli scuri e riccissimi.
Lei sembrava però particolarmente turbata, con lo sguardo puntato insistentemente in direzione di Leo e Piper. Annabeth pensò che fosse quasi spaventata, ma non ne capiva il motivo.
-Bene… - incominciò Jason. -Sì, sono felice di essere tornato. – disse, prima di presentare Piper e Leo a Reyna. Entrambi rivolsero un timido sorriso alla ragazza, e solo Leo osò un segno della pace in saluto.
Fu Percy a presentare i due ragazzi al suo fianco, Hazel e Frank.
-Immagino che ci sia molto di cui parlare. - incominciò Reyna. -Prepareremo un banchetto. Dakota, avverti gli spiriti delle cucine. -
-Reyna?! – strepitò un ragazzo dai capelli biondi, facendosi strada tra i Centurioni. Era esile, e aveva i lineamenti del viso eleganti, ma i suoi occhi avevano una luce velenosa.
-Non possiamo permettere a questi intrusi di entrare nel campo! Metteranno a rischio la nostra sicurezza!–
Annabeth sentì Percy irrigidirsi al suo fianco.
-Bada a come parli di loro, Ottaviano. – sibilò il figlio di Poseidone. -Sono vostri ospiti, e come tali meritano rispetto. –
Ottaviano si voltò verso di lui, e nonostante l’atteggiamento arrogante Annabeth vide che non riusciva a guardare Percy negli occhi.
-Sei pretore da meno di un giorno Jackson, non… -
-E tu sei solamente l’augure. Torna a bruciare i tuoi orsacchiotti, qui parlano gli adulti. – ribatté Percy.
Annabeth vide Reyna soffocare a malapena un sorriso.
-Calma ragazzi. Allestiremo il pranzo qui, nel foro. Avete i vostri ordini. – concluse allora la ragazza dai capelli scuri, guardando con particolare intensità Ottaviano.
L’augure rivolse a Percy un’occhiata di puro odio, prima di squadrare Annabeth con preoccupante attenzione. Poi si allontanò.
La figlia di Atena si voltò verso Percy: -Mi sembra di capire che qualcuno ti abbia messo i bastoni tra le ruote ultimamente? –
Percy sorrise amaro: -Se parli di Ottaviano, sì. Ma i romani sono veramente brave persone, puoi fidarti di loro. – rispose infine, dandole un bacio sulla tempia.
Ma Annabeth si irrigidì. Una risata le sussurrò nella testa, come un sibilo vago, e si sentì gelare la pelle della nuca.
Si voltò improvvisamente. Ma alle sue spalle non c’era nulla.
La risata scomparve, lasciandola a chiedersi se fosse mai esistita. Eppure, quella raccapricciante sensazione di gelo continuò ad avvolgerle il collo.
Percy la guardò stranito: -Annabeth, tutto bene? –
La ragazza si voltò verso di lui, e nonostante il senso di pericolo che le gelava il sangue, il viso del ragazzo le ricordò quanto fosse grata di riaverlo accanto.
Perchè non c’era nulla che lei e Percy non potevano risolvere, e non c’era nulla che l’avrebbe spaventata più dell’essere lontana da lui.
-Sì, tranquillo. Andrà tutto bene. – rispose con un piccolo sorriso.
-Andiamo! – li incitò Reyna, e quando Annabeth la guardò la vide osservare Jason con intensità. -Parleremo meglio a pranzo.–
 
Poco dopo, Annabeth era seduta davanti ad un tavolo imbandito in mezzo al foro.
Aveva Percy al suo fianco, e intorno alla tavolata c’era il resto dell’equipaggio dell’Argo II, Hazel, Frank, Reyna e perfino Ottaviano.
Il profumo di cibo le fece gorgogliare lo stomaco, e sorrise alzando gli occhi al cielo quando vide Percy gettarsi famelico sul suo cheeseburger.
Si ritrovò presto ad osservare incantata la città piena di vita poco lontana da loro, dove i bambini si rincorrevano per le strade e i più grandi passeggiavano chiacchierando. C’erano anziani con le borse della spesa in mano, ragazzi con libri e quaderni tra le braccia, gruppi di amici che ridevano seduti all’ombra dei portici.
E non riuscì nemmeno risentirsi, quando Percy le bisbigliò all’orecchio:
-Dobbiamo fare un giro a Nuova Roma, io e te. È veramente incredibile. –
Annabeth sapeva che quel posto era così ammaliante perché rappresentava uno dei loro desideri più grandi: trovare una città sicura, dove potevano vivere come ragazzi normali, dove poter studiare e trovare un lavoro, e dove poter avere una famiglia tutta loro.
-Certo. – rispose la ragazza.
Reyna propose un brindisi, prima che i romani e l’equipaggio di Annabeth cominciassero a raccontare delle rispettive imprese.
Jason raccontò del suo arrivo al Campo Mezzosangue, senza memoria, e di come insieme a Piper e Leo aveva salvato Era dalla sua prigionia nella Casa del Lupo.
-È impossibile! – si intromise Ottaviano. -Quello è il nostro luogo più sacro! Se dei giganti ci avessero imprigionato una dea, sicuramente… -
-L’avrebbero distrutta. – lo interruppe Piper. -E poi avrebbero dato la colpa a ai Greci, così che scoppiasse una guerra tra noi. Ora lascia che Jason finisca. –
Ottaviano provò a replicare, ma l’effetto della lingua ammaliatrice lo costrinse a rimanere in silenzio.
-È stato così che abbiamo saputo di Gea e del suo risveglio— riprese Jason. — È ancora mezzo addormentata, ma è lei a liberare i mostri dal Tartaro e a far risorgere i giganti. Il loro re Porfirio ha detto che si stava ritirando in Grecia. Vuole risvegliare Gea e distruggere gli dei. –
Percy annuì guardando Jason con un sorriso complice.
-Complimenti ragazzi! Tu, Grace, sei una sorpresa continua. - esordì, prima di raccontare la sua parte della storia.
Disse di essersi svegliato senza memoria alla Casa del Lupo, e raccontò di come arrivato al Campo Giove fosse partito con Frank ed Hazel per l’Alaska.
Annabeth osservò preoccupata i Romani al tavolo irrigidirsi, quando Percy raccontò sbrigativamente della sconfitta di Polibote. Disse solo che con l’aiuto di Terminus lo aveva ucciso, ma Annabeth vide come le espressioni di Reyna e gli altri rasentassero la paura.
Quando finì di raccontare della loro impresa e della battaglia, Jason gli diede una pacca sulla spalla:
-Wow, non c’è da stupirsi che ti abbiano nominato pretore. –
Ottaviano sbuffò: -E ora ne abbiamo tre. Bisognerà liberarsi di uno in esubero. – borbottò velenoso.
Percy gli rivolse uno dei suoi ghigni pericolosamente maliziosi:
-Che peccato! – esclamò con teatrale entusiasmo. -È così piacevole poter essere in tre a ordinarti di chiudere il becco. –
Ottaviano ammutolì indignato, mentre Percy si scambiava un cinque con Jason.
Il ragazzo rivolse al biondino un gran sorriso: -Quindi saresti tu il famoso fratellino di Thalia? Amico, non vi assomigliate per niente. -
Jason sorrise appena: -Già, ho notato. L’ho incontrata quando eravamo in missione, lei ti stava cercando. Era molto preoccupata. –
Il sorriso sul viso di Percy si affievolì e i suoi occhi si scurirono: -Sta bene? –
-Sì, certo. – lo rassicurò Jason.
-Percy, Annabeth! –
Annabeth si voltò, sentendosi chiamare, e vide Tyson correre verso di loro. Sorrise felice al ciclope, ma non per molto. Sembrava nervoso, e appollaiata sulla sua spalla c’era l’arpia più magra che avesse mai visto.
Aveva i capelli e le piume rosse come fuoco, la pelle pallida, e il viso emaciato aveva un’eleganza rara per una della sua specie.
-Ella non sta bene… - mormorò il ciclope. -Ha paura delle navi. –
-Niente navi. Il Titanic, una tragedia impossibile. - ripeté Ella.
Poi la creatura si voltò verso Annabeth, e la guardò dritta negli occhi. -Sfortuna. Eccola lì. La figlia della Saggezza da sola camminerà… -
-Ella! – Frank si alzò di scatto. -Forse non è il momento… -
-Il marchio di Atena su Roma brucerà — continuò Ella, le mani portate a coprirsi le orecchie e la voce che si faceva più alta. -Il respiro dell’angelo che ha la chiave dell’eterna morte, i gemelli soffocheranno, se lo vorrà la sorte. La rovina dei giganti si erge pallida e dorata, e sarà vinta col dolore in una prigione intricata. –
Il silenzio piombò sulla tavolata.
Annabeth guardava l’arpia inorridita. Aveva cercato disperatamente di non pensarci, ma ripensò al litigio con sua madre, ai suoi spaventosi incubi che l’avevano fatta rimanere sveglia la notte, e le parole dell’arpia le scavarono nel cuore come un coltello.
La moneta che aveva in tasca sembrava rovente.
Percy fu il primo ad agire.
-Ho un’idea ragazzi. – disse alzandosi con quanta più tranquillità riuscisse a fingere. -Tyson, tu ed Ella fatevi un giro, magari… -
-Quella era una profezia. – sibilò Ottaviano con gli occhi spalancati.
Hazel sorrise nervosamente dall'altra parte del tavolo:
-Ma no, Ella legge tantissimo, sarà una sciocchezza letta in qualche favola. - ribattè con forzata ilarità.
Annabeth si voltò verso Percy, interrogativa, e quando lui la guardò il suo sguardo pregava aiuto.
-Non mentitemi. – disse Ottaviano con più convinzione. -Quel pollo ha appena recitato una profezia. –
La figlia di Atena si guardò intorno, e vide Frank, Hazel e Percy scambiarsi delle occhiate impaurite. C’era qualcosa a che vedere con quell’arpia che loro stavano nascondendo, e intuì che se Ottaviano lo avesse scoperto loro tre sarebbero finiti nei guai.
-Dici, Ottaviano? – intervenne la bionda. -Non so qui, ma da noi le arpie hanno a malapena il cervello per fare le pulizie e cacciare a letto chi beccano in giro dopo il coprifuoco. A te invece predicono il futuro?  –
Ottaviano balbettò qualcosa, e una nervosa risata generale si alzò dalla tavolata.
Percy si rivolse a Tyson, e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio.
Il ciclope annuì: -Certo fratello. A dopo ragazzi! – esclamò con enfasi, prima di voltarsi e allontanarsi con Ella che gli abbracciava il collo.
Annabeth si sporse sul tavolo, mentre Percy si risedeva accanto a lei.
Dovevano discutere di altri problemi, e la ragazza voleva disperatamente distogliere l’attenzione dal siparietto appena avvenuto.
-Vorrei parlare della Grande Profezia. Sono abbastanza sicura che anche voi la conosciate, vero? – disse Annabeth rivolta a Reyna.
La ragazza annuì: -Noi la chiamiamo “Profezia dei Sette”. Ottaviano, la reciteresti? – rispose lei.
Ottaviano si voltò verso Annabeth, e il suo ghigno le fece ribrezzo.
Il suo intervento sull’esibizione di Ella non doveva essergli piaciuto, e la ragazza lo guardò con disgusto quando il ragazzo posò i suoi occhi su di lei con maligno interesse.
-Sono sicuro che una figlia di Atena la ricordi meglio di me… nonostante tutto. – sibilò, e Annabeth stavolta era pronta a reagire.
Sapeva esattamente a cosa si riferisse Ottaviano, Jason l'aveva avvertita sulla reputazione di Atena a Roma. E non permetteva a nessuno di metterle i piedi in testa.
Ma Percy fu più veloce di lei, e guardò Ottaviano con insostenibile severità: -Attento Ottaviano. – disse, l’ammonimento chiaro nelle sue iridi.
Ma l’augure stavolta non sembrò abbastanza turbato da fermarsi:
-Non preoccuparti Jackson, tollereremo il fatto che la tua ragazza sia figlia di una dea tanto...–
-Basta. – si intromise Reyna. -Non importa di chi sia figlia Annabeth. È venuta qui in pace. –
Annabeth si voltò a guardarla con gratitudine, ma Reyna non ricambiò. La figlia di Atena vide la ragazza squadrarla con rispetto, eppure c’era una sorta di amarezza nei suoi occhi di ossidiana, quasi invidia.
-E poi, Percy mi ha raccontato grandi cose di te. – disse infine la ragazza dai capelli scuri.
Percy al fianco di Annabeth le lanciò un’occhiata ansiosa di sottecchi, e lei, con il cuore che si stringeva, capì.
Reyna ci aveva provato con Percy.
E lui l’aveva rifiutata. L'aveva rifiutata per lei.
Ancora una volta, il ragazzo aveva scelto lei sopra chiunque altro.
Sotto al tavolo, Annabeth gli accarezzò la mano, prima di sorridere morbidamente verso Reyna:
-Ti ringrazio. Comunque, concorderete che i nemici armati alle Porte della Morte di cui parla siamo noi. Greci e Romani. –
Hazel giocherellò distrattamente con quello che sembrava un rubino, prima di stringerlo in mano e nasconderlo. -Mio fratello Nico è andato a cercarle. Ma non è mai tornato. -
-Nico Di Angelo? — domandò Annabeth stupita. -È tuo fratello? -
Hazel annuì, e Annabeth fu tentata di farle altre migliaia di domande, ma contenne la sua curiosità.
-Scusa, dicevi? – disse sorridendo alla più giovane
-È scomparso. E temo che gli sia successo qualcosa mentre andava a cercare le Porte. – rispose Hazel
-Lo troveremo. - promise Percy con decisione. -Thanatos ci ha detto che avremmo avuto entrambe le risposte a Roma. E andando là saremo anche vicini alla Grecia. E in ogni caso, dobbiamo assolutamente chiudere quelle porte. Ora che Thanatos è libero dalle catene i mostri possono essere uccisi, ma se quelle rimangono aperte torneranno ogni volta. -
Reyna prese al volo una mela da un vassoio di passaggio. -Il viaggio che state proponendo è molto insidioso. Solo un pazzo si avventurerebbe nel Mediterraneo. -
-Siamo quelli giusti allora! – esordì con entusiasmo Leo - Siamo tutti dei mentecatti. E la mia nave è di ultimissima generazione, saremo in una botte di ferro. –
Annabeth annuì: -E come dice la Grande Profezia, saranno sette mezzosangue a partire, Greci e Romani insieme. Per i Greci ci siamo io, Piper, Leo, e Percy. -
-E per i Romani abbiamo Jason, Hazel e Frank. - continuò Percy.
-Scusate?! — Ottaviano scattò in piedi. -È inaudito, non accetteremo questa cosa senza una riunione del Senato e un’accurata strategia. -
Reyna sospirò: -Temo che Ottaviano abbia ragione. Questa missione è forse la più importante dell’ultimo secolo, e non possiamo ordinarla senza l’approvazione del Senato. –
Ottaviano sorrise compiaciuto: -Precisamente. Per non parlare di quella nave, necessita un’attenta ispezione se volete che dei nostri legionari ci navighino. -
Leo si voltò a guardarlo con un enorme sorriso: -Ti posso far fare un giro! La adorerai, e se ti comporterai bene ti concederò l’onore di indossare il capellino da capitano. -
Ottaviano sembrava indignato: -Attento a come… -
-Perfetto, ottima idea. - approvò Reyna. -Ottaviano andrà con Leo per controllare che la nave sia sicura. -
-Non dirai sul serio. – sibilò Ottaviano, ma dovette rilassare le spalle allo sguardo della ragazza. -Va bene. Come vuoi. -
Jason si voltò verso Reyna: -Io vorrei invece portare Piper a fare un giro prima della seduta. Ti dispiace…? –
L’espressione di Reyna si fece fredda come ghiaccio, e Annabeth si chiese se davvero Jason non si rendesse conto dell’affetto e interesse che Reyna provava per lui.
La figlia di Bellona rispose a Jason senza sbilanciarsi.
-Certo. Andate pure. –
Percy sorrise: -Anche Annabeth deve vedere la città! – disse, facendo per alzarsi.
-Certo, le faccio fare io il giro. – aggiunse Reyna con tranquillità, tirandosi in piedi.
Percy la guardò come se gli avesse appena tirato uno schiaffo.
-Scusami? –
Reyna sorrise gentilmente verso la figlia di Atena: -Mi piacerebbe parlarle. E da sola, se non ti dispiace. Pretore.  –
Percy rivolse a Reyna uno sguardo indignato, ma c’era un chiaro avvertimento nelle sue iridi.
Fai come vuoi. Ma se succede qualcosa ad Annabeth ti riterrò personalmente responsabile.
-Come credi. –
Annabeth si voltò verso di lui e lo guardò rassicurante, prima che Reyna congedasse tutti.
La figlia di Atena vide Leo prendere Ottaviano sottobraccio, dirigendosi verso la nave.
Ma quando lo sguardo del figlio di Efesto incrociò il suo, lei sobbalzò. Gli occhi scuri del ragazzo brillarono, diventando gialli e freddi come oro, e un ghigno sinistro si formò sulle sue labbra. Ma un istante dopo, quell’espressione scomparve dal volto di Leo, come un’allucinazione.
Una pugnalata fredda come ghiaccio le trapassò la nuca, e un senso di terrore le pervase le membra.
-Percy? – lo richiamò senza distogliere lo sguardo da Leo. -Andresti con Leo e Ottaviano? –
Percy la guardò con incomprensione, e Annabeth sperò che lui capisse quanto preoccupata fosse.
Il ragazzo seguì il suo sguardo puntando gli occhi sul figlio di Efesto, e sembrò intendere.
-Va bene, certo. – rispose, prima di sporgersi verso il suo viso.
-Stai attenta. - mormorò il ragazzo al suo orecchio, e la ragazza annuì respirando profondamente.
Poi Percy la baciò velocemente, correndo a seguire Leo e Ottaviano.
Annabeth rimase a guardarlo per un istante. Si fidava di Percy più di chiunque altro, ma pregò che non gli succedesse nulla.
Poi si voltò verso Reyna, la quale le rivolse un piccolo sorriso.
-Andiamo Annabeth. Abbiamo molto di cui parlare. –
 
Annabeth non nascose il suo stupore quando camminarono per le strade di Nuova Roma.
-È magnifica. – commentò la ragazza.
Reyna annuì: -È vero. Molti semidei rimangono qui, dopo aver servito nella legione, per studiare e laurearsi. Alcuni poi se ne vanno, ma come vedi tanti altri restano per potersi costruire una famiglia, e crescere i propri figli al sicuro. –
-Non credevo esistesse un posto simile. – mormorò Annabeth, gli occhi che scintillavano.
-Anche Percy ne sembrava interessato. – commentò la ragazza dai capelli scuri, e Annabeth sorrise dolcemente.
Reyna le offrì una cioccolata calda, e nonostante il caldo Annabeth l’accettò con piacere. La ragazza la guidò fino in cima ad una collinetta, e si fermarono sul bordo della terrazza di marmo che dava sulla città.
-Di cosa volevi parlarmi? – chiese Annabeth, voltandosi verso di lei.
Reyna la guardò dritta negli occhi.
-Vorrei che mi raccontassi la verità. Ho sulle spalle il destino e la sicurezza di un’intera città, e non riesco a fidarmi di una figlia di Venere con la voce intrisa di stregoneria, e per quanto mi uccida pensarlo, nemmeno di Jason – disse con amarezza Reyna, e Annabeth si ritrovò a provare compassione per lei.
Vedeva nei suoi occhi quanto affetto provasse per Jason, e capiva cosa significasse per lei aspettarlo per mesi, senza nemmeno sapere se fosse vivo, per poi vederlo tornare per mano ad un’altra ragazza.
Annabeth aveva visto lei stessa quanto Jason si fosse affezionato a Piper e al Campo Mezzosangue, e capiva bene quanto Reyna potesse sentirsi tradita.
-Nemmeno di quello che ti ha raccontato Percy ti fidi? – chiese lei.
Reyna sorrise: -Percy ha dimostrato grande lealtà verso di noi, e ha salvato la nostra città. Ma io so che ha mentito sulla sua memoria, e nonostante avesse le sue ragioni non riesco a dimenticarlo. Il fatto che ci abbia ingannato con così tanta facilità mi turba.–
Annabeth fece per annuire, ma due levrieri di metallo corsero verso di loro. La figlia di Atena si tese, ma non l’attaccarono. Si sedettero docilmente al fianco di Reyna, nonostante i loro occhi rossi come sangue fossero puntati attenti su di lei.
-Oh. – disse Reyna accarezzandoli per un istante. -Loro sono Aurum e Argentum, i miei cani. Non preoccuparti, ci faranno solo compagnia. –
Annabeth li guardò incerta, ma riportò lo sguardo su Reyna.
Le raccontò di quando scappò di casa, perché suo padre faceva tutto ciò che era in suo potere per dimenticarsi della sua esistenza. Lui aveva amato Atena con tutto sé stesso e lei gliela ricordava così dolorosamente da non riuscire a sopportarlo.
Le raccontò di aver incontrato Percy in mezzo alle strade di New York, e dopo pochi giorni anche Luke e Thalia. Le raccontò di come arrivarono al Campo Mezzosangue, delle loro imprese e avventure.
-Sai, noi al Campo Mezzosangue non siamo più di un paio di centinaia, e questo solo da pochi mesi. Prima non contavamo più di ottanta ragazzi. E poi, qualche mese fa, al campo sono arrivati Leo, Piper, e Jason. Jason si era ritrovato insieme a loro dal nulla, senza ricordi. Quella stessa notte, Era ha ordinato a Percy di andarsene. Di trovare Lupa, perché lo conducesse qui al Campo Giove. Voleva che Percy vi aiutasse, per conquistare la vostra fiducia e rispetto, così che noi potessimo unirci. –
-Quindi non ha mai davvero perso la memoria. – ripeté Reyna.
Annabeth sospirò: -No. Sapeva che se aveste scoperto delle sue origini lo avreste ucciso. E questo avrebbe firmato la nostra condanna. -
Reyna si rigirò l’anello che portava al dito, assorta.
-E tu credi che l’unione dei campi funzionerà? Dopo secoli di odio e guerre? – chiese la ragazza.
Annabeth puntò lo sguardo sull’Argo II: -Deve funzionare. Altrimenti Gea ha vinto ancora prima di incominciare la battaglia.–
Reyna la guardò: -Sembri sincera. E ti ammiro. Ma se volete partire per le antiche terre, devi sapere una cosa. –
Annabeth annuì, appoggiandosi al bordo della terrazza.
Reyna sembrava turbata quando parlò: — C’è una vecchia leggenda che i pretori del Campo Giove si tramandano da secoli. Dice che finché l’antico torto non sarà raddrizzato, Greci e Romani non vivranno mai in pace. Questo torto, è incentrato su Atena, e su un grande tesoro che apparteneva a lei… -
Poi un boato scosse la vallata.
Annabeth vide con orrore la balista di babordo dell’Argo II scagliare una bomba di fuoco greco sulla città.

Quando Annabeth e Reyna raggiunsero il foro, era scoppiato il caos.
L’Argo II aveva smesso di fare fuoco, ma un colpo era stato sufficiente. I Romani erano furiosi, lanciavano qualunque cosa avessero tra le mani contro la nave.
Piper e Jason erano stati circondati, il mantello da pretore del ragazzo era stato ridotto a brandelli. Cercavano di difendersi come meglio potevano, ma presto o tardi sarebbero stati sopraffatti.
-Merda... – sussultò Reyna al suo fianco. Annabeth al suo fianco seguì il suo sguardo, e vide i Legionari armati che stavano correndo verso il foro.
-Peggiorerà. – mormorò la figlia di Atena.
Reyna sbuffò al suo fianco: -Odio il mio lavoro. – disse, prima di correre versi i legionari con i levrieri di metallo a seguirla.
Annabeth si guardò intorno disperatamente, il fiato corto. 
-Percy! – chiamò, ma non riusciva a vederlo.
Due Romani cercarono di afferrarla, ma lei li vide con la coda dell'occhio avvicinarsi e li schivò prontamente, prima di lanciarsi in una corsa disperata in mezzo al disastro, verso la nave.
In molti cercarono di fermarla, senza successo, ma Annabeth non potè ad evitare tutte le sassate che le lanciavano contro, ritrovandosi presto le braccia e le gambe piene di lividi e tagli.
Ma alla fine riuscì ad arrivare fino alla scaletta, e finalmente vide Percy.
Lo vide lanciarsi oltre il bordo della nave, e atterrare sulle ginocchia esattamente accanto a lei.
La ragazza ebbe appena il tempo di vedere il sorriso di sollievo del ragazzo, prima che lui l'abbracciasse, stringendola a sé.
Annabeth capì subito perchè.
La figlia di Atena avvertì una scossa di potere irradiarsi sotto i suoi piedi ancora prima che la terra incominciasse a tremare.
E il terremoto scosse il suolo con forza, facendo cadere a terra tutti i semidei radunati nel foro. Solo lei e Percy erano risparmiati dalla furia della terra che il ragazzo aveva scatenato.
La terra tremava con rabbia contenuta, e tutti i ragazzi nella piazza si voltarono a fatica, con paura e stupore, a guardare il figlio di Poseidone.
-Sto cercando di prendere tempo. – disse il ragazzo, gli occhi che brillavano di potere. -Dobbiamo andarcene, subito.–
-Che è successo?! – chiese la figlia di Atena.
-Leo è stato posseduto da qualcosa. – rispose il ragazzo. -I suoi occhi sono diventati gialli, e si è messo a ridere in maniera raccapricciante, prima di fare fuoco sulla città. –
Annabeth non chiese altro.
-Dobbiamo andare. – concordò la ragazza. -E dobbiamo tirare Jason e Piper via da quel massacro. –
Percy annuì: -Raggiungiamo Hazel e Frank. – disse solo, e perfettamente in sincronia si gettarono in mezzo alla massa.
Il terremoto cessò, e i romani si rimisero in piedi a fatica, molti doloranti e con la pelle graffiata o tumefatta, ancora più arrabbiati di prima.
Annabeth e Percy sgusciarono scaltri e veloci tra i semidei romani schivando i loro tentativi di bloccarli, puntando verso la fontana dove Hazel e Frank si erano arrampicati per ripararsi dagli attacchi dei compagni.
Percy li chiamò, e quando raggiunsero la fontana il ragazzo ordinò all’acqua di abbattersi sui romani infuriati per riuscire a salire sul bordo.
-Ragazzi, dobbiamo andare. Venite? – disse Annabeth.
Frank ed Hazel annuirono con decisione, nonostante sembrassero terrorizzati.
-Certo che veniamo. – disse la più giovane. -Come facciamo? –
Percy scaraventò un’altra ondata d’acqua contro l’esercito romano, scagliandoli indietro ad una manciata di metri.
-Frank, puoi andare a prendere Piper e Jason? – chiese, e Annabeth lo guardò stranita.
Frank però sembrò non battere ciglio: -Sì certo. Ci vediamo sulla nave. – disse, prima di scendere dalla fontana e correre verso gli altri.
-Io proverò a distrarli. – disse Hazel, prima di fischiare.
Un magnifico stallone si materializzò dal nulla accanto alla fontana, i muscoli possenti che si gonfiavano sotto al corto mantello color nocciola. Aveva una sella sulla schiena, dalla quale pendeva una spada della cavalleria.
-Mandatemi un Messaggio-Iride quando vi sarete allontanati di qui. – disse la più giovane, prima di saltare in groppa al cavallo e sfrecciare tra i legionari spargendo il panico.
Annabeth si voltò verso il centro del foro, e sussultò.
Jason pregava ai suoi compagni di fermarsi, urlando e cercando di proteggere Piper dalla sassata che gli stavano infierendo i romani. Questo finché un mattone non lo colpì esattamente in fronte, facendolo svenire a terra.
Annabeth sgranò gli occhi, ma il terrore scomparve quando vide un enorme drago levarsi dalla folla. La creatura era grigia come argento, con le ali enormi e la corazza impenetrabile.
-È Frank. – la rassicurò Percy. -Un ragazzo di talento. –
Il drago si alzò in volo, e allungò le zampe posteriori afferrando Jason e Piper, prima di librarsi in aria sempre più in alto.
-Ma non mi dire. – rispose Annabeth, prima di correre verso la nave.
Percy la seguì, e grazie ad Hazel che distraeva gli altri riuscirono a raggiungere la scaletta.
Ottaviano aveva incominciato a scendere lungo di essa tempo prima, e ormai era arrivato agli ultimi pioli. Percy lo prese per il colletto della toga trascinandolo giù a terra impietoso.
Annabeth incominciò ad arrampicarsi.
Percy, alle sue spalle, vide Ottaviano impugnare un coltello che teneva nascosto sotto la toga, e sguainò Vortice così velocemente che l’augure lo realizzò solo quando la punta minacciava di affondargli nella carne tenera della gola.
-Non ci provare. – intimò il figlio di Poseidone.
Ottaviano lo guardò con rabbia. -Pagherai con la vita il tuo tradimento. Vi troveremo, tu e la tua sgualdrina non avrete scampo. –
Percy alzò gli occhi al cielo, tirandogli un calcio al volto così forte da rompergli il naso.
Poi si voltò e incominciò a salire la scaletta velocemente. Lui ed Annabeth riuscirono ad arrivare per miracolo sul ponte.
La ragazza si prese un secondo per osservare avvilita il sartiame in fiamme e la vela di trinchetto strappata a metà.
Hedge sembrava scomparso, ma Leo era accasciato inerme sulla balista con le pupille rovesciate.
-Gli ho dato un colpo in testa. – disse Percy. -Non è morto, promesso. –
Sopra le loro teste il drago grigio ruggì, ed adagiò Piper e Jason sul ponte con quanta più delicatezza avesse, prima di ritrasformarsi nella sua forma umana e cadere malamente sul legno della nave.
Frank si guardò intorno: -Ci siamo. -
Annabeth annuì, correndo verso il timone senza aspettare un attimo di più. Afferrò la cloche, e la tirò verso di sé con forza.
La nave si impennò a prua ad un’angolatura terrificante, le funi di ormeggio vennero strappate da terra e loro schizzarono verso il cielo azzurro.
 

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Capitolo 8
*** Calamità ***



Calamità

 Leo aveva lo sguardo basso, incapace di sostenere quello di chiunque altro sulla nave. Era appoggiato all’albero maestro con una borsa del ghiaccio premuta sulla nuca, e Annabeth gli si era accovacciata davanti e lo guardava con quello sguardo solenne e attento che Leo non riusciva mai a sostenere. Frank era in piedi vicino a loro, e lo guardava con più curiosità che rancore.
-Mi racconteresti cosa è successo, esattamente? – gli chiese Annabeth.
-È complicato… - mormorò lui. -Era come se avessi perso completamente controllo su me stesso, come se potessi solamente guardarmi mentre facevo fuoco sulla città. –
Hedge stava borbottando mentre girava per la nave con un secchio d’acqua in mano, incaricato di spegnere tutti i focolai rimasti.
Leo lo sentì lamentarsi dicendo: -Abbiamo finalmente ritrovato Jackson, e mandano me a spegnere il fuoco. –
Annabeth sospirò, prima di scivolare accanto a lui e sedersi al suo fianco.
Leo alzò lo sguardo di lei stupito, e per un istante si perse a guardarla: la ragazza aveva la maglietta del Campo Mezzosangue addosso, dei pantaloncini corti di jeans e i ricci biondi sciolti lungo la schiena. Era incredibilmente bella, ma il suo sguardo la rendeva troppo intimidatoria perché Leo osasse guardarla un secondo di più.
-Percy è abbastanza sicuro che tu sia stato posseduto. E da quello che hai raccontato tu, potrebbe essere l’unica spiegazione. – disse lei, e con una dolcezza che Leo non si aspettava.
-Sì ma da cosa? –
-Non lo sappiamo. – rispose Annabeth. -Ma qualunque cosa fosse potrebbe tornare. –
Leo stava per chiederle come riuscisse ad essere così tranquilla mentre lui invece stava per avere un crollo nervoso, ma Percy urlò da sottocoperta:
-Annabeth, avremmo bisogno di te! –
Leo si tese come una molla, sobbalzando sul posto.
Vi prego, fate che stia bene.
Fece per tirarsi in piedi, ma Annabeth gli posò una mano sul petto.
-Resta qui, vado io. – gli disse, e come sempre Leo non riuscì a contraddirla.
La ragazza si alzò, sorridendogli gentilmente quando lo vide guardarla con tanta angoscia.
-Non preoccuparti, sta bene. Sai meglio di me che ci vorrebbe molto più di un mattone per metterlo in pericolo di vita. – gli disse sorridendo, prima di correre via.
Leo si accasciò di nuovo contro all’albero maestro, la testa che gli lanciava fitte allucinanti ogni volta che respirava.
Dopo pochi istanti si ricordò della presenza silenziosa eppure stranamente confortante di Frank, e Leo aprì gli occhi per osservarlo.
Il ragazzo lo stava osservando con curiosità, e nonostante Leo avesse appena bombardato la sua casa lui sembrava piuttosto calmo.
Frank gli si avvicinò lentamente: -Ehi. Per caso ti chiami Sammy, di secondo nome magari? – fu la prima cosa che gli chiese.
Leo lo guardò perplesso: -Non mi sembra proprio. Perché, scusa? –
-Niente, non preoccuparti. – rispose frettolosamente l’altro ragazzo. -Comunque, mi spiace che tu sia stato posseduto. Deve essere stato spaventoso. –
Leo lo guardò sorpreso, e le sue labbra si tesero automaticamente in un sorriso.
-Già, non parliamone mai più. – commentò ridacchiando, ma poi un’altra scarica di dolore gli attraversò il cranio facendolo gemere e costringendolo a serrare gli occhi.
Frank davanti a lui sembrò preoccuparsi.
-Cosa ti è successo per ridurti così? –
Domanda sbagliata, pensò Leo.
Ricordava di aver lanciato solo due colpi di fuoco greco, prima che Percy gli si gettasse addosso. Ricordava di aver cercato di spingerlo via, ma il ragazzo aveva una mole e forza che lui non avrebbe mai potuto contrastare. Il figlio di Poseidone gli aveva senza troppo sforzo afferrato la nuca e gli aveva sbattuto la testa contro la balista.
La testa gli fece ancora più male al solo pensiero.
- È stato Percy, quando mi ha fermato dal bombardare ulteriormente la città. – spiegò, cercando di alzarsi.
Non fu difficile come aveva creduto, ma stare in piedi non fece che peggiorare la sensazione di avere centinaia di chiodi piantati nel cervello.
-Dai vieni, chiediamo a Festus come è messa la nave. – disse al figlio di Marte avviandosi verso prua.
Frank lo guardò stranito, ma lo seguì comunque.
-Chi è Festus? –
Leo sorrise appena, avanzando lentamente e tenendosi il ghiaccio premuto sulla nuca.
-Il mio drago di bronzo. Dovevi vederlo quando era ancora tutto intero, era veramente magnifico. Ma abbiamo avuto un incidente, e sono riuscito a salvare solo la testa che ho messo come polena. – spiegò.
Frank annuì come se la cosa non lo stupisse.
Quando arrivarono a prua, il drago voltò la testa a cento ottanta gradi, osservandoli con i suoi scintillanti occhi rossi e sbuffando fumo dal naso di metallo.
Leo gli posò una mano sul muso, godendo del calore del bronzo celeste che gli rivestiva il corpo e sorrise quando il drago emise un gorgoglio di apprezzamento.
Festus emise poi un’altra serie di cigolii, e Leo annuì grave.
-Capito. Grazie Festus. – rispose, e quando si voltò verso Frank lo vide osservarlo incredulo.
-Festus dice che Hazel è qua sotto, ci sta seguendo a cavallo. – disse cercando di suonare rassicurante. -Dobbiamo atterrare per riparare la nave, e Festus ha trovato tutto ciò che ci occorre per le riparazioni al Great Salt Lake, perciò… -
-Hazel sta bene quindi? – chiese l’altro semidio improvvisamente agitato.
Leo sogghignò: -Sì, non preoccuparti. È la tua ragazza? –
Il ragazzone annuì e, in profondo contrasto con il suo portamento, riuscì ad arrossire. Se Leo fosse stato appena più in confidenza, gli avrebbe strizzato le guance.
Ma non ebbe modo di dire altro, perché sentì le scale cigolare alle sue spalle.
Percy ed Annabeth risalirono sopraccoperta parlandosi a bassa voce, e Leo si affrettò verso di loro buttando a terra il ghiaccio.
-Ehi! Come sta Jason? Sta… –
Si bloccò sul posto però, ammutolendo, quando Percy alzò lo sguardo su di lui.
Leo deglutì pesantemente.
Il figlio di Poseidone sembrava arrabbiato, e i suoi soli occhi fecero nascere in lui l’istinto di allontanarsi da lì il più in fretta possibile.
-Sì, sta bene. Ora sta riposando, c’è Piper a tenerlo d’occhio. – rispose Annabeth. -Immagino che la nave avrà bisogno di riparazioni, giusto Leo? –
Leo annuì abbassando gli occhi: -Sì. Tutto ciò che ci serve è al… al Great Salt Lake. E insomma, menomale, dato che possiamo permetterci un solo atterraggio. –
Frank al suo fianco annuì.
-Il drago di Leo ha detto che Hazel ci sta seguendo con Arion, è appena sotto di noi. Potrei scendere ed avvertirla. – propose.
-Buona idea. – commentò Percy facendo un passo avanti, e Leo se lo ritrovò a meno di un metro di distanza.
Il figlio di Poseidone mantenne gli occhi su di lui, e Leo desiderò solo poter scomparire.
-Qualunque cosa ti abbia posseduto potrebbe tornare. – disse con calma il più grande. -Perciò, se ti capita di sentirti strano, dillo. –
Leo annuì vigorosamente, azzardandosi ad alzare lo sguardo su Percy, e tutta la sua angoscia scomparve.  
Il ragazzo gli rivolse un ghigno, prima di tendere la mano verso di lui.
-Mi spiace per la botta in testa. –
 
Quando arrivarono alla meta, l’atterraggio non danneggiò ulteriormente la nave solo grazie a Percy.
Le acque del lago lambirono i lati della nave rallentandola gentilmente, accompagnando il suo atterraggio finché non rimase a dondolare lievemente nel mezzo del lago.
Con un potente ronzio le eliche aeree assunsero la loro forma nautica. Tre file di remi meccanici si tuffarono in acqua spingendo la nave in avanti.
-Grazie amico. – disse Leo rivolto a Percy. -Ottimo lavoro Festus! Portaci alla riva meridionale. –
Hedge al loro fianco sbuffò: -Jackson, il tuo atterraggio mancava completamente di pericolo e dolore. –
Percy sorrise a Leo, prima di guardare il satiro con un’espressione piacevolmente divertita.
Diede poi una pacca sulla spalla al figlio di Efesto, prima di dileguarsi sottocoperta.
Un secondo dopo, Hazel comparve sul ponte della nave. Scese dal cavallo con eleganza, sfilandosi l’elmo e svelando la cascata di ricci castani che le contornarono il bel viso.
Leo rimase leggermente a bocca aperta.
-Ma siamo in mezzo a un lago! – esclamò Leo, cercando di concentrarsi su quello e non su di lei. -Quel coso vola? –
Il cavallo nitrì pestando gli zoccoli sul legno.
Hazel sorrise: -No, però può correre su qualunque superficie. Perfino l’acqua, o le pareti verticali. – rispose, prima di fermarsi ad osservare il ragazzo.
Leo si sentì a disagio sotto lo sguardo della ragazza. Sembrava nervosa, ma lo guardava con una strana intensità, come se cercasse disperatamente qualcosa nei suoi occhi.
I suoi occhi dorati erano belli come pochi altri Leo avesse mai visto.
-Va tutto… bene? – chiese insicuro il ragazzo, e questo sembrò far riscuotere la ragazza.
-Oh, sì scusa. È solo che assomigli molto ad una persona che conoscevo… - disse con triste sorriso. -Mi faresti vedere la nave? Sono tanto curiosa. –
Il figlio di Efesto annuì con esagerata convinzione, prima di condurre entrambi sottocoperta.
Aveva costruito la nave come un’antica trireme greca, solo due volte più grande. Il motore magico si trovava nel ponte inferiore, insieme alla cambusa, all’infermeria e ad una scuderia.  Alla fine del giro Leo la guidò attraverso un lungo corridoio, su cui si affacciavano otto cabine, una per ognuno dei semidei e per il Coach, finchè non arrivarono alla mensa dove Frank, Annabeth e Percy si erano accomodati.
Percy si era seduto a capotavola, ed Annabeth aveva trascinato una delle poltroncine il più vicino possibile a lui. Si era sporta verso il ragazzo appoggiando la testa sulla sua spalla, mentre lui le stringeva la vita con una mano e le accarezzava la gamba con l’altra.
Il figlio di Poseidone aveva però lo sguardo puntato sui muri intorno a lui, ad osservare con nostalgia le vivide immagini del Campo Mezzosangue che le pareti mostravano.
Leo poté solo immaginare come si dovesse sentire il ragazzo.
Anche Frank osservava le pareti incantate stancamente, seduto accanto a loro.
Li raggiunsero.
-Siamo atterrati. – commentò Annabeth. -Ora che facciamo? –
-Potremmo cercare di capire la profezia che ha recitato Ella? – propose Frank.
Annabeth aggrottò la fronte: -Quindi era davvero una profezia. –
Hazel annuì: -Ella ha un talento. Tutto ciò che legge lo impara perfettamente a memoria. L’abbiamo trovata quando siamo partiti per l’Alaska, e pensiamo che in un punto imprecisato del suo passato abbia letto i Libri Sibillini. –
-Eh?! – disse Leo.
-Sono dei libri romani che contengono tutte le profezie mai recitate, e si pensava fossero andati distrutti. Ma Ella li deve aver letti, e imparati a memoria. –
Percy annuì grave: -È molto sensibile. E Ottaviano farebbe qualunque cosa per mettere le mani su quei libri, e non potevo permettere che Ella finisse tra le sue grinfie. – disse, prima di abbassare lo sguardo. -Comunque, ho detto a Tyson di portarla al Campo Mezzosangue. –
Annabeth sospirò, senza mai allontanarsi dal ragazzo o alzare la testa dalla sua spalla.
-Lasciate la profezia a me. Per ora dovremmo preoccuparci delle condizioni della nave. –
Leo si raddrizzò sulla sua sedia come una molla:
-Abbiamo bisogno di catrame, calce, e bronzo celeste. Il catrame possiamo trovarlo facilmente in città, mentre il resto si trova in una piccola isola in mezzo al lago, secondo Festus. -
-Perfetto. – disse Annabeth. -Possiamo andare a coppie, faremo più in fretta. –
Tutti al tavolo asserirono senza particolare entusiasmo.
 
Piper sentì tutta l’angoscia e la paura scivolarle dal corpo quando Jason si svegliò.
Era rimasta al suo fianco da ormai ore, aspettando con ansia che riprendesse coscienza. Si perse ad osservarlo, beandosi del suo splendido volto rilassato dal sonno. Tese una mano ad accarezzargli i capelli color dell’oro, scostandoglieli dalla fronte, facendo scendere poi le dita a sfiorargli la linea della mascella.
Nonostante il suo non fosse che un tocco quasi impercettibile, Jason spalancò gli occhi all’improvviso.
-Jason! – sussultò Piper, e prima ancora che il ragazzo potesse metterla a fuoco lei gli gettò le braccia al collo ridendo.
Il ragazzo sembrò riprendersi dopo pochi istanti, perché rispose all’abbraccio dandole un bacio sulla guancia.
-Ehi Pips. – la salutò con voce roca.
-Oh dei, grazie al cielo stai bene. – mormorò la ragazza.
Vennero interrotti da un tonfo sopraccoperta, e poco dopo davanti alla porta comparve Percy, che si fermò di fronte all’entrata reggendo stretto al petto un enorme barile maleodorante. Aveva la maglietta e il viso macchiati di nero, ma sorrise comunque in modo quasi abbagliante.
-Ehi Jason! Ciao Piper. – li salutò, e alle sue spalle comparve Annabeth.
-Bentornato tra noi, Jason. – commentò la ragazza sorridendo, sfoggiando anche lei la faccia e i capelli sporchi di quel liquido nero e appiccicoso.
Frank si sporse a sua volta nella stanza rivolgendo ai due un piccolo sorriso.
Piper li guardò ridacchiando: -Catrame? –
Annabeth alzò gli occhi al cielo ridendo in risposta.
-Non parlarmene. –
Poi fu il turno di Hazel e di Leo di arrivare, e Piper li sentì precipitarsi giù per le scale col fiatone prima di ammassarsi insieme agli altri davanti alla porta dell’infermeria.
-Ah bene, ci siamo tutti. – disse Leo guardandosi intorno. -Dobbiamo andarcene in fretta, delle ninfe rabbiose ci hanno inseguito. –
Fece appena in tempo a dirlo, che la nave si inclinò bruscamente sul fianco. Percy rischiò di rovesciare il barile.
-Come sarebbe a dire che delle ninfe rabbiose vi hanno seguito? – esclamò Annabeth cercando di mantenere l’equilibrio.
Hazel sorrise furbamente: -Leo le ha sedotte e poi ingannate. –
Tutti gli altri si scambiarono degli sguardi perplessi, finché la nave non venne nuovamente scossa.
Percy sospirò, prima di passare il barile al figlio di Marte di fianco a lui:
-Va bene. Vado io. -
Frank barcollò sotto al peso del secchio che il ragazzo gli mollò improvvisamente tra le braccia, ma seguì Leo che lo incitava a seguirlo in sala macchine con Annabeth al seguito.
Hazel presto si congedò con una sfumatura verdognola in volto, e Piper rimase a reggersi alle sponde del letto di Jason per non rotolare a terra.
Dal ponte poteva sentire Percy urlare al Coach di tacere e un secondo dopo rivolgersi alle ninfe con ammaliante dolcezza. Le onde si infrangevano contro lo scafo, mentre dalla sala macchine arrivavano dei rumori assordanti.
Sembrarono passare ore, prima che la nave si risollevasse in aria riportando calma e soprattutto silenzio.
Leo riemerse dalla sala macchine esultando, con Annabeth e Frank che lo seguivano sgranchendosi la schiena. Erano lerci, ma sorridevano.
-Doccia! – urlò Annabeth, correndo verso il bagno. -Ci vediamo a cena. -
 
Quando furono tutti insieme per la cena, Piper non si sentì felice quanto avrebbe sperato.
Hedge era rimasto al timone, lasciando loro sette da soli per la prima volta.
Piper aveva creduto che la cosa l’avrebbe resa felice, ma vederli riuniti in un posto solo non faceva che rammentarle che la profezia si stava avverando.
Non bisognava più aspettare che Leo terminasse la nave. Erano finiti i giorni sereni al Campo Mezzosangue, a fingere che il futuro fosse ancora lontano. Ormai erano salpati, e con i Romani assetati di vendetta alle spalle. E nelle antiche terre, la loro destinazione, c’erano i giganti ad aspettarli insieme a Gea. E, a meno che non avessero concluso con successo quell’impresa eroica, il mondo sarebbe stato distrutto.
La ragazza si rese conto che il suo sentimento sembrava condiviso, ma anche che l’elettricità nella stanza non stava aiutando.
Piper sospettava che fosse a causa di Jason e Percy, da quando avevano entrambi cercato di sedersi sulla stessa sedia a capotavola. Dalle dita di Jason erano volate scintille e Percy lo aveva guardato dritto negli occhi sorridendo maliziosamente, come se trovasse il tentativo di Jason adorabile, e patetico.
Annabeth aveva osservato la scena quasi allibita, prima di farsi strada tra i due e accomodarsi lei stessa a capotavola.
-Non ci pensate nemmeno. – aveva intimato quando i due l’avevano guardata sorpresi.
La cena incominciò.
-Quindi, ora che si fa? – chiese Leo, addentando un pezzo di pizza. -Ho dato un’aggiustata ai danni più gravi, ma prima di attraversare l’Atlantico devo riparare ancora parecchie cose. –
Percy stava trangugiando una fetta di torta completamente blu quando prese parola.
-Frank ha visto delle aquile sopra a Salt Lake City. Dobbiamo allontanarci quanto più possibile dai Romani. –
-E dobbiamo sbrigarci. – concordò Hazel. -Nemesi ha detto a me e Leo che abbiamo sei giorni prima che Nico muoia e Roma venga rasa al suolo. –
-Intendi la vera Roma? – chiese Jason, e la ragazza annuì.
Piper sospirò, prendendo coraggio: -A questo proposito… ho visto delle immagini nel mio pugnale. –
Tutti si bloccarono a guardarla in silenziosa attesa. Percy fu l’unico a continuare a mangiare nonostante stesse mantenendo gli occhi su di lei.
-Ecco… c’erano due giganti, gemelli. –
Annabeth annuì con lo sguardo corrucciato.
-Come diceva la profezia di Ella. Devo capirne i versi al più presto. –
Percy smise improvvisamente di mangiare, e quando guardò la sua ragazza Piper si rese conto che c’era tristezza nei suoi occhi.
-La figlia della Saggezza da sola camminerà. – recitò il figlio di Poseidone. -Giunone mi ha detto che tua madre ti avrebbe dato un compito, e che… -
Tutti aspettarono che continuasse, ma quando Piper vide la scintilla di rabbia nei suoi occhi decise di non chiedere altro. Anche Annabeth gli rivolse uno sguardo preoccupato, ma nemmeno lei lo spinse a continuare.
-Credo abbia a che fare col Marchio di Atena che brucerà su Roma. Al Campo, Reyna mi ha detto di una antica leggenda, che parla di un torto che i Romani fecero ai Greci e che causò l’odio eterno tra le due potenze. Il torto aveva a che vedere con un tesoro, e con Atena, ma Reyna non è riuscita a dire altro. – disse la figlia di Atena.
Leo ed Hazel si guardarono automaticamente, qualcosa di impressionante contando che si conoscevano da mezza giornata.
-Anche Nemesi ha nominato un antico torto che doveva essere raddrizzato. – aggiunse Hazel, pensierosa.
Percy annuì, prima di volarsi verso Jason.
-Tu sei stato pretore insieme a Reyna per anni. Ne hai mai sentito parlare? –
Jason guardò Percy per un istante, per poi concentrarsi sul suo piatto.
-Io…non saprei. Non ne sono sicuro. –
Piper lo guardò confusa dalla chiara bugia. Percy rimase ad osservare il figlio di Giove per pochi secondi, ma contrariamente a quello che Piper avrebbe predetto il ragazzo non incalzò il biondino.
-Stai bene? – gli chiese invece Percy.
Jason alzò gli occhi sul ragazzo sorpreso, come se non si aspettasse che il figlio di Poseidone potesse preoccuparsi per lui.
-Sì… sì, grazie. – rispose, e il corvino gli sorrise lievemente.
-Poco male. – commentò poi Leo. -Dove atterriamo quindi? –
Piper ripensò alla visione nel suo pugnale, all’uomo vestito di viola.
-Vi andrebbe il Kansas? –
 
La mattina dopo, Piper venne svegliata dalle urla del Coach Hedge.
-Siete senza pudore! – lo sentì gridare, gli zoccoli che sbattevano duramente frenetici sul legno del corridoio.
Piper gemette, prima di tirarsi a sedere sbadigliando. Qualcuno bussò alla porta.
-Avanti. – borbottò la ragazza, e Leo fece capolino.
-Ehi, raggio di sole. – la salutò. -Bello il pigiama dei Power Rangers. –
La ragazza si stropicciò gli occhi: -Non sono Power Rangers, sono aquile. – rispose, alzandosi lentamente dal letto con le palpebre che faticavano a restare aperte.
-Perché il Coach Hedge sta sbraitando di prima mattina? – chiese.
Leo sfoderò un enorme sorriso: -Ha trovato Annabeth e Percy nello stesso letto. Non ti dico che spasso. –
Piper sorrise divertita, e in quello stesso istante sentì il satiro urlare: -Chirone fa finta da anni di non vedere che fate queste zozzerie, ma se vi pesco di nuovo a dormire insieme ci vengo io a stare nello stesso letto con te, Jackson! -
Leo scosse la testa ridendo e appoggiandosi allo stipite della porta: -Comunque stiamo per atterrare, quindi magari dovresti renderti presentabile e venire su. –
Il Coach comparve alle sue spalle, aveva la mazza da baseball stretta in mano.
-Valdez! – gli urlò contro, facendolo sobbalzare. -Ho già esaurito la pazienza per colpa di quegli svergognati di là, sparisci dalla stanza di McLean prima che ti colpisca. –
Leo la guardò fintamente impaurito, prima di dileguarsi con il Coach al seguito.
Quando Piper finì di lavarsi e vestirsi, agguantò una ciambella dalla mensa e si diresse sul ponte. Erano tutti lì, a guardare il campo di girasoli su cui stavano atterrando.
Percy era seduto sul bordo della nave con tranquillità, e aveva un braccio posato sulle spalle di Annabeth. Fu il primo ad accorgersi di lei, e le sorrise.
Era raggiante, con addosso la maglia del Campo Mezzosangue e la collana del campo a svettare sulla sua pelle bronzea. Annabeth aveva il suo stesso sguardo brillante, e sorrise a sua volta nel vederla arrivare.
-Finalmente! – la salutò, rubandole un morso dalla ciambella. -Qual è il piano signorina McLean? –
Piper ridacchiò, colpendole con un lieve schiaffo la mano.
-Dobbiamo andare all’autostrada — disse Piper. — Starei cercando un cartello con su scritto TOPEKA 50. –
Leo annuì disegnando un cerchio con il telecomando: -Dovremmo esserci vicini. Cosa dovresti trovarci là? –
Piper spiegò dell’uomo vestito di viola, con un calice in mano e i tralci di vite sul cappello che aveva visto nel suo pugnale.
-Sembrerebbe il Signor D. – mormorò Percy, sorridendo con sarcasmo. -Lo abbiamo finalmente ritrovato. –
-Chi? – chiese Jason.
-Sta parlando di Dioniso. O Bacco, per i Romani. – spiegò Annabeth.
Jason annuì: -Bacco non è male. Gli ho fatto un favore una volta. –
-Perfetto. – disse Leo. -Divertitevi. Io rimango qui a riparare il tutto. Annabeth, resteresti a darmi una mano? Sei l’unico vero cervello che abbiamo. –
Annabeth si voltò verso Percy rivolgendogli un sorriso di scuse: -Ha ragione, è meglio se lo aiuto. –
-Tornerò da te. – disse il ragazzo, baciandole la guancia. -Promesso. –
Piper li guardò adorante. Erano una coppia invidiabile.
Frank ed Hazel si offrirono di perlustrare la zona, la ragazza a cavallo e il figlio di Marte in forma di uccello.
-Allora rimaniamo noi tre. – disse Piper, guardando Percy e Jason.
Il figlio di Poseidone scese dal bordo della nave: -Perfetto allora, a te il comando Piper. Speriamo che Jason vada più d’accordo col Signor D. di quanto non faccia io. –
 
Camminarono in mezzo ai campi per un’ora prima di raggiungere l’autostrada.
Piper era in testa, seguita alle spalle dai due ragazzi. Percy aveva la spada infilata nel fodero che aveva legato diagonalmente sulla schiena, e Jason teneva il gladius al fianco. Entrambi sembravano perfettamente a proprio agio con le armi in vista e a portata di mano.
Quando sbucarono sulla strada, un cartellone pubblicitario gli indicò che la prima uscita per Topeka era a sessantacinque chilometri.
-Bene. – esordì Percy con sarcasmo. -Mancano solo quindici chilometri. –
Jason si guardò intorno: -E non c’è l’ombra di una macchina. – disse avvilito.
Piper gli rivolse un’occhiata perplessa. Sperò che il suo ragazzo non avesse davvero avuto l’idea di fare autostop.
-Però potrei chiamare un amico per farci dare un passaggio. – continuò il figlio di Giove.
Percy accanto a lui ghignò, inarcando le sopracciglia: -Ah si? Anche io potrei. –
-Allora vediamo chi arriva prima. – lo incalzò Jason, prima di fischiare.
Piper si voltò incuriosita verso Percy, vedendolo chiudere gli occhi.
Per un momento, si fermò a guardarlo.
Insieme ad Annabeth, Percy Jackson era stato il primo semidio del Campo Mezzosangue che lei avesse mai conosciuto. E nonostante fossero stati loro a portarla al campo, lei aveva trascorso con Percy un solo giorno prima che lui partisse.
In quel momento, rifletté sul ragazzo per la prima volta.
Percy le era piaciuto fin dall’inizio. Era divertente, gentile, un ragazzo che sembrava pronto a fare qualunque cosa per gli altri.
Ma c’era qualcosa in lui, dietro a quel bellissimo ragazzo dal sorriso da piantagrane, qualcosa che Piper temeva.
Dopotutto, Percy di per sé sapeva essere incredibilmente intimidatorio. Bastava il suo sguardo quando era serio, così tumultuoso ed impenetrabile, a farla irrigidire.
Ma la cosa che metteva Piper veramente a disagio, era quanto stargli accanto le ricordasse avere di fronte un dio. La figlia di Afrodite aveva sempre percepito la potenza antica e incommensurabile che irradiavano gli dei, qualcosa che spesso l’aveva fatta arretrare di fronte a loro, e con Percy era la stessa cosa.
Lui era un mortale che sprigionava la stessa energia di un dio, un semidio che combatteva come un demonio, scatenava terremoti e controllava le acque.
Ovunque Piper mettesse piede, il suo nome lo precedeva. Tutti lo consideravano una leggenda, un eroe tra i mortali, il semidio più potente che avesse mai camminato sulla terra.
E Piper quasi temeva di scoprire il perché.
Un tuono scosse la vallata, distraendola dai suoi pensieri.
Jason sorrise: -Sta arrivando. –
-Troppo tardi, bello. – rispose Percy, indicando ad est.
Piper sgranò gli occhi, vedendo la magnifica creatura nera che stava calando in picchiata verso di loro. Rimase a bocca aperta.
Il grande pegaso spalancò le ali per atterrare di fronte a loro, e pestando gli zoccoli sull’asfalto nitrì maestoso.
Era completamente nero, dalle enormi ali piumate fino alle forti zampe.
Aveva la criniera corta e il muso come quello dei cavalli arabi, gli occhi affilati, i muscoli possenti che si gonfiavano sotto al manto corto e lucido.
La creatura si avvicinò a Percy, e scalpitando gli spinse ripetutamente la testa contro al petto.
Percy rise, accarezzandogli il collo. -Ehi, Blackjack. – disse, e quando l’animale si voltò verso di loro il ragazzo sorrise. -Loro sono Piper e Jason. -
l cavallo alato nitrì di nuovo, e Percy lo guardò ridendo giocosamente:
-Magari dopo bello. –
Piper ricordò di quando Percy aveva parlato ai pegasi che avevano trainato la loro biga fino al Campo Mezzosangue il giorno che arrivarono. Si avvicinò interessata:
-Non avevo mai visto un pegaso nero. Cosa ti ha chiesto? –
-Delle ciambelle, come sempre. –
Improvvisamente, l’aria si fece gelida.
Un fulmine si schiantò vicino a loro, e un piccolo ciclone si creò intorno ad esso. Un istante dopo, assunse la forma di un cavallo: uno stallone fatto di vapore e percorso dall’elettricità.
-Tempesta! – lo chiamò Jason con un sorriso.
Il cavallo scosse la testa prima di impennarsi nitrendo facendo arretrare Blackjack nervosamente.
Percy accarezzò il collo del pegaso per tranquillizzarlo, prima di rivolgere un’occhiata impressionata a Jason.
-Complimenti Grace. -
Il ragazzo sorrise, quasi timidamente: -Accetta di aiutarmi ogni tanto, dopo che abbiamo fatto amicizia durante la nostra impresa alla Casa del Lupo. –
Percy gli sorrise genuinamente, prima di montare sul suo pegaso con maestria. Piper guardò Tempesta, incerta, ma non rifiutò la mano che Jason le porse.
Sfrecciarono lungo la strada, e in pochi minuti furono a destinazione.
Percy atterrò esattamente al loro fianco con Blackjack, scrutando attentamente la vallata.
Il pegaso nero nitrì.
-Già. – replicò Percy. -Il tizio del vino non si vede. –
-Tizio del vino?! – tuonò una voce dai campi.
I due cavalli si voltarono così velocemente che Piper si spaventò. Dal campo di frumento comparve un uomo, esattamente quello che aveva visto in sogno.
Un trentenne con la maglia viola e le guance arrossate, i capelli ricci e castani nascosti sotto al capello percorso da tralci di vite.
-Di grazia, chi sareste voi per permettervi di chiamarmi il… tizio del vino? – disse indignato, strascicando le parole. -Io sono Bacco, il magnifico. –
Percy incitò il pegaso ad avanzare verso il dio, e Piper vide i suoi occhi scintillare.
-Che carino Signor D., è dimagrito! – esultò con un ghigno.
Il dio lo guardò con gli occhi assottigliati, come se non riuscisse a vederlo bene:
-Chi saresti tu? Vi ha mandato Cerere? –
-No, mai sentito parlare di questa Cece. – rispose Percy.
-Cerere. – lo corresse Jason. -La dea dell’agricoltura. Voi la chiamate Demetra. –
Il figlio di Giove rivolse al dio un cenno rispettoso del capo: -Si ricorda di me, divino Bacco? Le ho dato una mano col leopardo scomparso a Sonoma. –
Bacco dal canto suo lo guardò senza particolare interesse.
-Vagamente. Allora, dov’è Cerere? Dovevamo incontrarci per discutere della guerra vegetale. Sapete, con Gea e tutto, le piantagioni stanno morendo e dobbiamo prepararci alla battaglia. –
Percy trattenne malamente una risata: -La guerra… vegetale? –
Il dio lo guardò quasi ringhiando, e Piper si rese conto che il dio sembrava in vena di attaccar briga tanto quanto Percy.
-Si ragazzino. – sibilò l’uomo. - Anche la tua arroganza mi sembra familiare, ti ho mai incontrato? –
Percy non rispose, probabilmente decidendo che fosse la cosa migliore, e si voltò verso Jason e Piper.
La ragazza si fece avanti, smontando dal cavallo.
-Divino Bacco, siamo venuti in cerca del suo prezioso aiuto. – disse, e nonostante non lo avesse fatto apposta la sua voce era impregnata di magia.
Il dio infatti la guardò con curiosità:
-Sei brava con le parole ragazza. E sembri educata, a differenza di quel Perry lì. –
Piper vide l’uomo puntare a Percy, e lei si voltò confusa verso l’amico, ma lui si era appoggiato con rassegnazione al collo del pegaso, la testa adagiata sulle braccia conserte. Le fece cenno di non preoccuparsi.
-Ehm… grazie. Senta, siamo in missione, e io ho avuto una visione che riguardava lei, divino Bacco. – incominciò la ragazza, parlando della loro storia, del motivo del loro viaggio, quello che Nemesi gli aveva detto sulla distruzione di Roma, e della sua visione dove Bacco le offriva un calice.
-Non ti offrirò nessun calice signorina, Giove mi ha proibito di offrire alcolici ai minori. Ma riguardo ai giganti, li conosco bene. C’ero anche io a combattere nella Prima Guerra dei Giganti. –
-Impressionante… - mormorò Percy, guardando il dio con un sorrisino.
Bacco lo guardò con una luce violacea negli occhi: -Lo ero! Combattei a fianco di quell’altro figlio di Giove, Ernesto, contro due dei giganti. –
-Parla di Ercole? – suggerì Jason educatamente.
-Sì lui. Uccidemmo i gemelli Efialte e Oto. –
Piper sussultò, lo sguardo illuminato dalla realizzazione.
-Ma certo! – esclamò la figlia di Afrodite. -Lei fa parte della nostra impresa! –
Bacco la guardò scettico e sorridendo per la prima volta, ma lei sospettò che fosse un sorriso di scherno.
-Non pensarci nemmeno ragazza. Io non sono più un semidio, e queste imprese eroiche non sono più affar mio. –
-Piper parla del fatto che i giganti si possono uccidere solo da un dio e da un eroe, insieme. – si intromise Percy, improvvisamente pacato. -E visto che i due gemelli ci aspettano a Roma, che per la cronaca vogliono distruggere, potremmo fermarli grazie al suo aiuto. –
Bacco lo guardò irritato: -Il mio aiuto ha un costo: un tributo adeguato. –
-Cosa intende per adeguato? – lo incalzò il figlio di Poseidone.
-Nulla che tu ti possa permettere. – rispose il dio. –Ma vi darò un consiglio. Forco è un figlio di Gea, ma ha sempre odiato sua madre e i suoi fratelli. Lo troverete ad Atlanta, lui vi aiuterà, forse. Cercate l’acqua salata. –
-Acqua salata. Ad Atlanta. – ripeté Percy. -È sicuro di essere completamente sobrio? –
-Sì ragazzino insolente. – ribatté Bacco.
Poi il dio alzò gli occhi verso il cielo, all’improvviso. Piper fece lo stesso, ma non vide nulla. Un’improvvisa angoscia le serrò però il cuore, quando il dio sospirò.
-Qualcosa non va. Devo andare. – mormorò il dio quasi sovrappensiero. -E voi dovreste fare lo stesso. –
Jason sgranò gli occhi: -Cosa…? –
-Non è da Cerere fare tardi. Dovete andarvene, marmocchi. – fu tutto ciò che disse il dio, prima che il suo corpo incominciasse a scintillare.
-Aspetti! – lo richiamò Jason, ma era tardi.
Il dio scomparve in un bagliore di luce.
Piper guardò incredula il punto in cui pochi secondi prima c’era Bacco. Ma nonostante il suo sgomento, il peggio doveva ancora arrivare.
Il vento si sollevò improvvisamente, troppo freddo per un caldo giorno d’estate.
Piper si voltò allarmata, e vide che Percy si guardava intorno con gli occhi spalancati. Sembrava inorridito.
-Dobbiamo andarcene subito. – mormorò il figlio di Poseidone. -Lei… -
“È troppo tardi” replicò la voce di una donna.
Piper sobbalzò, e un brivido gelido le attraversò la schiena come un proiettile. Percepì il potere di Gea scorrere sotto il suolo e vibrare freddo nell’aria. Percy e Jason scesero da cavallo, e si avvicinarono entrambi a lei fermandosi al suo fianco. La ragazza li sentì estrarre le spade.
“I bambini degli dei, così belli e potenti, ma anche così pericolosamente fragili…” mormorò ancora la dea, con voce calda eppure raccapricciante all’udito. “Facciamo un gioco, vi va? Ho bisogno del sangue di un semidio, e di una semidea. Piper, scegli quale dei tuoi accompagnatori morirà con te. Odio gli sprechi.”
-Fatti avanti Gea! Smettila di nasconderti dietro ai tuoi stupidi giochi. – urlò Jason.
Una risata giunse alle loro orecchie: “Che caratterino, come ci si aspetta da un figlio di Giove. Ma anche Percy Jackson ha un fascino che non riesco ad ignorare. Se non sceglierai, Piper, lo farò io.”
Piper sentiva il cuore martellargli nel petto, sentì una frustrazione bruciante serrarle la gola.
-Tu sei pazza! – urlò.
Gea in risposta ridacchiò vaga nel vento.
E Jason, alle spalle di Piper, boccheggiò.
La figlia di Afrodite si voltò spaventata, e vide il ragazzo serrare gli occhi mentre il corpo gli si irrigidiva.
-Jason? – lo chiamò incerta, orripilata.
Il ragazzo sembrò rilassarsi.
Ma poi sollevò di scatto gli occhi su di lei, e Piper inorridì nel vederli brillare gialli come oro massiccio. Il suo sguardo era freddo e calmo come la morte.
-No… - mormorò spaventata, arretrando. -Percy… -
Jason fece per fare un passo avanti, con un inquietante ghigno sul viso.
Ma Percy le si parò davanti, frapponendosi tra loro, e puntò la spada verso Jason.
-Gea, vattene. – sibilò, la sua voce suonò così perentoria che Piper si chiese se anche lui possedesse un dono simile alla lingua ammaliatrice.
Jason ghignò con scherno, i suoi occhi brillarono.
-Non sai nemmeno chi hai davanti. – pronunciò il ragazzo con una voce che non gli apparteneva. Era sdoppiata e rimbombante, come se fossero diverse persone a parlare allo stesso momento. Diverse persone con voci sibilanti e orride all’udito.
-Chi siete? – chiese Piper.
-Siamo gli eidolon, spiriti degli Inferi. Non hai voluto scegliere, figlia di Afrodite, hai deciso di lasciare a noi il divertimento. –
E in quell’attimo, Percy urlò di dolore.
Non perse la presa sulla spada, ma si portò la mano sinistra alla testa e vacillò pericolosamente.
Piper si allontanò da lui spaventata, lo sguardo disperato che saettava dal ragazzo a Jason.
Ma il figlio di Giove semplicemente ghignò, e si accanì su Percy. Sguainò la spada, la sollevò sopra la sua testa, e balzò sul il figlio di Poseidone pronto a calarla su di lui.
Ma non ci riuscì.
Percy scartò di lato all’ultimo, con gli occhi ancora serrati ed il corpo tremante ma i riflessi sorprendentemente pronti.
Ma alla fine smise di lottare contro la forza degli spiriti, e dovette aprire gli occhi mostrando le iridi che scintillavano dorate.
Jason si voltò con rabbia, e si lanciò di nuovo verso il figlio di Poseidone.
Piper corse, cercando di mettersi in mezzo, ma Percy la spinse di lato facendola sbattere dolorosamente sul ciglio della strada. Piper rimase a terra, a guardarli impotente.
E lo scontro incominciò.
Jason attaccava Percy con straordinaria velocità, menando un colpo dietro l’altro con inarrestabile violenza. Piper per un istante temette che Percy sarebbe morto in pochi secondi.
Ma il figlio di Poseidone smise presto di limitarsi a parare i colpi. E fu allora che la ragazza capì che Jason non aveva speranza contro di lui.
Il Percy incominciò ad attaccare Jason con tale rapidità da essere difficile da seguire con lo sguardo. Gli danzava attorno agile e letale, quasi come se giocasse con lui.
Jason era veloce, ma Percy lo era di più.
Jason era scaltro, ma Percy più di lui.
La tecnica sua tecnica era ineguagliabile. Sembrava nato per combattere con la spada.
Le loro lame si incrociarono, e fu lì che Percy sorrise con un ghigno raccapricciante. Ruotò il polso, ruppe la guardia del figlio di Giove, e spinse la lama in avanti a ferirgli di taglio la pelle del fianco.
Jason lasciò andare la spada d’istinto, e Percy non attese oltre.
Con una mossa rapida della gamba lo spinse a terra, raccolse il gladio d’oro imperiale e incrociò entrambe le spade contro la gola delicata del ragazzo.
Piper boccheggiò. -Fermi! – urlò disperata.
Percy si voltò verso di lei improvvisamente, e il suo sguardo parve sorpreso, ma nonostante questo ghignò. La cicatrice che gli attraversava il viso si tese all’angolo delle labbra.
-Povera figlia di Afrodite… - sibilò il ragazzo con cattiveria. -Come speri di… -
Un tuono scosse il cielo. Gli occhi di Jason scintillavano.
-Jason no! – tentò di fermarlo Piper.
Ma, nonostante ciò, un fulmine si schiantò sul corpo di Percy facendolo volare a diversi metri da Jason.
Piper si portò le mani tremanti a coprirle la bocca: un fulmine simile avrebbe disintegrato qualunque cosa. Eppure, Percy si rimise in piedi facilmente. La maglietta era stata ridotta a pezzi e i capelli erano sparati in tutte le direzioni, ma il suo corpo non aveva nemmeno un graffio.
E sembrava furioso.
I suoi occhi brillarono pericolosamente, puntati su Jason, e Piper ebbe paura alla sola vista del suo sguardo.
Da lì, tutto degenerò in pochi istanti.
Piper percepì il potere del figlio di Poseidone irradiarsi verso di loro e lo sentì pugnarlarla attraverso la pelle come un coltello.
La ragazza spalancò la bocca, cercando di respirare, ma sembrava che la gola le si fosse stretta in un nodo. Sentì il sangue gelarlesi nelle vene, e il suo cuore smise improvvisamente di battere lanciandole una fitta lancinante attraverso le membra.
Per istinto cercò di portarsi la mano al petto, ma non c'era nulla che potesse fare.
Stava morendo, lentamente e nel modo più doloroso che potesse immaginare.
Ebbe paura come poche altre volte in vita sua.
Ma improvvisamente, il figlio di Poseidone indietreggiò serrando gli occhi, e gemette di dolore:
-Piper! –
La ragazza sentì il potere del ragazzo ritrarsi improvvisamente, il suo corpo si rilassò, tornò a respirare, il dolore scomparve.
Alzò gli occhi su Percy, guardandolo con ansia nonostante il profondo sollievo che provava.
-Percy... cosa... -
-Ti prego, digli di andarsene… - sibilò il ragazzo stringendosi le tempie. -I miei poteri… vi uccideranno. –
Piper guardò Jason, che inginocchiato a terra osservava Percy con quegli occhi gialli che ora però sembravano incerti, quasi impauriti.
E la ragazza temette per la vita di entrambi.
-Eidolon, andatevene! – urlò, e stavolta la lingua ammaliatrice investì entrambi i ragazzi come un fiume in piena. Tutta la sua paura alimentò la magia rendendola potente come poche altre volte.
Entrambi si voltarono immediatamente a guardarla con riverente attenzione.
-Vi ordino di andarvene di qui. – disse con la stessa determinazione. -E di non tornare. –
-Non tornare… - mormorò Percy, la sua voce che si mischiava a quella degli spiriti.
-Giuratelo sullo Stige! – urlò la ragazza. -Giuratelo! –
Jason abbassò lo sguardo, la fronte aggrottata e la voce che gli uscì quasi forzata:
-Lo giuriamo… -
Percy gemette, rovesciando le pupille:
-Sullo Stige. –
Poi caddero a terra, privi di sensi. Cadde il silenzio sulla vallata, il vento tornò caldo e l’aria smise di opprimerla.
Piper rimase per pochi secondi ad osservare i due ragazzi a terra con la gola soffocata dalla tensione.
Erano stati ad un soffio dall’uccidersi a vicenda. E lei era stata ad un soffio dal vedere il suo ragazzo morire insieme a lei.
Sentì un tocco gentile sulla spalla che la fece trasalire, e voltandosi si ritrovò faccia a faccia con un pegaso nero.
Blackjack la guardava con quei grandi occhi neri, se possibile con apprensione, le ali ripiegate sui fianchi. Poi il cavallo si affrettò al fianco di Percy, e Piper corse verso Jason.
La ragazza cercò di svegliarlo, senza successo. Ma non si lasciò prendere dal panico. Jason respirava, il suo battito era regolare. Stava bene.
Si voltò quindi verso Percy, e vide Blackjack spingere il muso sul viso del ragazzo.
Percy sobbalzò, improvvisamente, spalancando gli occhi e tirandosi a sedere con uno scatto. Guardò il suo pegaso all’inizio con paura, ma quando il pegaso scalpitò con quella che sembrava felicità il ragazzo si rilassò, accarezzandogli il muso.
Poi si alzò, e si voltò verso Piper. La raggiunse veloce.
-Sta bene? – chiese, e Piper lesse molta ansia nella sua voce.
-Sì… è solo svenuto. – mormorò la ragazza.
Percy rilassò le spalle, e le rivolse un piccolo sorriso: -Grazie per averci fermato. Sei stata fantastica. –
Piper lo guardò grata e ricambiò il sorriso con sincero sollievo.
Percy trascinò Jason fino a Blackjack, che si inginocchiò sulle zampe anteriori per aiutarli. Poi il ragazzo salì in groppa dopo di Piper, e volarono fino all’Argo II.
Quando atterrarono, tutti gli altri corsero sul ponte.
Frank e Piper portarono Jason in infermeria, e Annabeth corse ad abbracciare Percy non appena il ragazzo smontò stancamente dal pegaso.
-E lui da dove esce? – chiese Hazel, guardando con incanto il grande pegaso.
-E Blackjack. – mormorò Percy, stringendosi alla sua ragazza. -Il mio pegaso. –
Il figlio di Poseidone si voltò poi verso Leo.
-Bacco ci ha detto di fare rotta per Atlanta. – spiegò, e senza aspettare un secondo di più il figlio di Efesto corse ai comandi.
Annabeth, Hazel e Percy scesero quindi in infermeria, dove Jason si era già svegliato.
-Ehi, saetta. – lo salutò Percy. -Come ti senti? –
Jason lo guardò con un sorrisino: -Ho il mal di testa più forte degli ultimi due anni. –
Percy ridacchiò, scivolando debolmente a sedersi su una sedia.
-Che cos’è successo? – chiese Annabeth.
Piper si voltò verso Percy, e quando lui si rese conto dello sguardo della ragazza su di lui iniziò a raccontare.
Non fu una spiegazione dettagliata, ma l’aspetto sfinito del ragazzo bastava per giustificarlo.
Quando finì di parlare, Annabeth sospirò.
-Quindi gli stessi spiriti che hanno posseduto Leo sono tornati. – disse lei.
-Non succederà più. – ribatté Percy. -Piper gli ha fatto giurare sullo Stige che se ne sarebbero andati per sempre. –
Piper arrossì, suo malgrado, e il rossore sulle guance aumentò quando Annabeth le lanciò un’occhiata impressionata.
-Bravissima Piper. – la adulò posandole una mano sul braccio.
Quando Piper le rivolse un debole sorriso, la ragazza riportò la sua attenzione su Percy.
-Che ti è successo alla maglietta? –
Percy ghignò: -Il figlio di Giove mi ha fulminato. –
Jason si sollevò a sedere, guardandolo con le sopracciglia aggrottate:
-Percy mi spiace, davvero. Ma quel fulmine avrebbe dovuto carbonizzarti, e tu non hai nemmeno un graffio... –
-Pensavo che lo sapessero tutti. – lo interruppe Percy con un sorriso amaro. -È grazie alla maledizione di Achille. –
Piper lo guardò attentamente: -Parli dell'invincibilità? Hai fatto il bagno nello Stige?–
-Esatto. Chiunque sopravviva al fiume diventa impossibile da ferire, esattamente come Achille. – spiegò il ragazzo.
Jason lo guardò con strano interesse: -Ma hai un punto debole, giusto? –
Percy in risposta annuì, ma non aggiunse altro.
Piper invece guardò la cicatrice che gli solcava l'occhio e la guancia, tutti i tagli bianchi che gli attraversavano la pelle delle braccia e delle spalle, e un dubbio naque nella sua mente.
-Come puoi essere impossibile da ferire, e avere quelle cicatrici? - chiese la ragazza.
Percy la guardò con tale intensità da farle abbassare lo sguardo.
-Ho questa maledizione da meno di un anno. - disse.
Cadde il silenzio nella stanza, finchè Annabeth non prese parola.
-Quegli spiriti… sono riusciti ad usare anche i tuoi di poteri? – chiese rivolta a Percy.
Piper osservò sospettosamente lo sguardo così nervoso della ragazza.
-Ci hanno provato. Ma Piper li ha fermati in tempo. – disse lui.
Piper sapeva che non era la verità. Se Percy non fosse riuscito a sottrarsi al loro potere per qualche istante, lei sarebbe morta.
E ancora in quel momento, non riusciva a capire che cosa avesse fatto Percy per portarla ad un passo dalla morte senza toccarla, senza terremoti, e senza acqua.
Jason cercò di alleggerire la tensione: -Sarebbe potuta andare peggio se ci fossero stati oceani nel Kansas. –
Percy fu l'unico a sorridere, e senza divertimento, prima di alzarsi.
-Bene, io vado a lavarmi. Ci vediamo in mensa tra un quarto d’ora. –
 
Dopo cena, Jason aspettò Piper sul ponte.
La ragazza aveva voluto parlare con Annabeth, e lui era rimasto a godersi l’aria piacevolmente fresca della sera.
La sentì arrivare alle sue spalle poco dopo, nonostante lei avesse cercato di camminare silenziosamente in punta di piedi.
-Ehi Pip. – la salutò quando lei gli coprì scherzosamente gli occhi.
-Ciao. – rispose la ragazza scoccandogli un bacio sulle labbra.
Jason la guardò. La luce plumbea della sera le illuminava splendidamente il volto.
-Vorrei ringraziarti. Mi hai salvato, di nuovo. – disse, avvolgendole la vita con le braccia.
Piper sorrise appena, ma sembrava turbata.
Jason si abbassò di poco cercando di guardarla negli occhi nonostante lei tenesse lo sguardo basso.
-Che c’è? – le chiese dolcemente.
-Hai rischiato di morire. – mormorò la ragazza.
Jason la guardò incerto: -Sì, siamo stati posseduti da degli spiriti degli Inferi. Senza di te avremmo potuto morire entrambi. –
Piper scosse la testa, e puntò gli occhi su di lui. C’era una profonda tristezza nelle sue iridi.
-Ho voluto parlare con Annabeth per questo. Se non avessi scacciato quegli spiriti, ed ero ad un passo dal non farcela, tu saresti… - la ragazza non riuscì a finire, perché le si spezzò la voce.
Jason cominciò a capire.
-Pensi che non avrei potuto fermare Percy? – chiese, una punta di fastidio nella sua voce.
Piper non riusciva a sostenere il suo sguardo.
-Annabeth mi ha detto una cosa. – mormorò la ragazza. -Percy ha un potere che non avremmo mai potuto contrastare, e che gli eidolon hanno usato. Se Percy non si fosse ribellato, saremmo morti. –
-Di che parli Piper? – chiese Jason. -Cos’è questo potere che sembra terrorizzare tutti? Cos’è che lo rende così potente, perfino in confronto a me? Se parli della maledizione di Achille…–
La ragazza sorrise amaramente. Jason riusciva spesso a mettere da parte quel lato di lui, ma era estremamente competitivo. Soprattutto con Percy.
-No. Parlo del suo potere sull’acqua. –
-Piper, non c’era nemmeno… -
-Il suo controllo su di essa sembra non avere limiti. Annabeth ha detto che può piegare al suo volere qualunque tipo di liquido. Persino il sangue. –
Jason tacque. Sembrava inorridito.
-Non è possibile. –
-Capisci perché mi sono spaventata così tanto? Se quegli spiriti fossero riusciti ad usare questa sua capacità, ci avrebbero uccisi senza nemmeno doverci sfiorare. – disse Piper, e sentì parte della tensione nelle sue ossa allentarsi.
Dirlo ad alta voce le fece sentire il cuore meno pesante.
Jason la guardò, e sembrò capire.
-Ma se può davvero uccidere qualunque cosa semplicemente usando il suo stesso sangue… - provò a dire con incertezza.
Piper sorrise amaramente: -So cosa stai pensando, l’ho chiesto anche io. Ma Annabeth dice che è una parte del suo potere che perfino Percy teme. Per riuscire a fare una cosa simile deve perdere il controllo sulla sua energia, e lasciare che il suo potere dilaghi senza freni. –
Jason la abbracciò, e si chiese cosa fosse successo a quel ragazzo per sbloccare in lui un potere così pericoloso e distruttivo.
-Hai paura di lui? – chiese Jason.
Piper scosse energicamente la testa contro al suo petto: -No. È un buon amico. E non possiamo permetterci diffidenze tra di noi. –
Jason annuì. Anche lui sapeva che lui e Percy sarebbero potuti diventare veramente amici.
-Ci hai salvati tutti Piper. Dovresti essere orgogliosa di te, tanto quanto lo sono io. –

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Capitolo 9
*** Sussurri nel Buio ***


Sussurri nel Buio

Percy cercò di trattenere una piccola risata.
Quella sera aveva aspettato che Hedge si addormentasse, prima di sgusciare fuori dalla sua stanza e raggiungere quella di Annabeth.
Pensava di trovarla dentro camera sua, ma invece la vide aspettarlo davanti alla porta con un sorrisino.
-Finalmente Testa d’Alghe, pensavo ti fossi addormentato. – bisbigliò la ragazza, prima di prenderlo per mano e condurlo attraverso il corridoio.
-Dove mi stai portando? – le chiese il ragazzo ridacchiando.
-Ti piacerà. – lo rassicurò lei.
Camminarono silenziosamente fino alle scale che conducevano al secondo ponte, e lo attraversarono fino alla poppa della nave. Annabeth si fermò davanti ad una porta di legno a due battenti, e la aprì rivelando un’ampia scuderia immacolata.
L’aria era tiepida, le luci soffuse, la stanza profumava di legno e fieno.
Un’immagine gli balenò davanti al viso, il ricordo di una notte fredda come il ghiaccio e del calore di una piccola stalla nel bel mezzo della campagna.
Percy guardò curioso gli stalli vuoti sul lato sinistro della stanza, e il suo sguardo si fermò sul centro del pavimento dove svettava un grande pannello trasparente. Si avvicinò ad esso, guardando lo scuro paesaggio della notte che scorreva sotto di loro, con le sue campagne buie e le strade illuminate che serpeggiavano tra le colline morbide.
Annabeth prese una coperta e la stese su parte del vetro.
-Vieni, splendore. – lo invitò la ragazza con un sorrisino, sedendosi sulla coperta.
Percy la imitò, e le diede un piccolo bacio ghignando contro le sue labbra.
La ragazza si strinse a lui, avvolgendogli la vita col braccio e accoccolandosi contro la sua spalla, e Percy le circondò le spalle con un braccio.
-Sai, queste porte si aprono. – lo informò la ragazza, ridendo della sua espressione improvvisamente preoccupata. -Per permettere ai pegasi di entrare facilmente. –
Percy deglutì: -Non credi che siamo sopravvissuti a troppe disgrazie per morire cadendo dal fondo di una nave? Non suona né eroico né dignitoso. –
Annabeth gli rivolse un’occhiata giocosa: -Non succederà, promesso. –
Rimasero in silenzio per pochi istanti, a godersi il calore l’uno dell’altra. Finché Annabeth non sollevò lo sguardo su di lui.
-Sai cosa mi ricorda questo posto? – chiese lei.
Percy non dovette nemmeno pensarci.
-Quella fattoria fuori città dove ti ho trovata. Quando ti ho conosciuta. – mormorò con un sorriso. -Eri così piccola e infreddolita, tutta nascosta dal giaccone. -
Annabeth sorrise dolcemente: -Esatto. È per questo che è il mio posto preferito sulla nave. –
-Sono passati quasi dieci anni. Avevamo sette anni Annabeth, riesci a crederci? – commentò il ragazzo.
-No. E guarda fin dove siamo arrivati. – rispose Annabeth con un sorriso, e Percy la guardò incantato.
A volte ripensava alla bambina che aveva incontrato quella notte, con i capelli ricci malamente tagliati all’altezza del mento e i grandi occhi grigi impauriti che scintillavano però di determinazione, e coraggio. Ripensava al suo viso morbido e infantile, alle lentiggini che le costellano il naso e alla sua parlantina sorprendente per una bambina di quell’età.
E dopo tutti quegli anni, era cresciuta diventando una splendida ragazza.
Bella e forte come una vera regina, dallo sguardo che esprimeva regalità ed intelligenza e che era persino seducente nella sua intensità. I suoi occhi dal taglio affilato davano eleganza al suo volto già mozzafiato, i capelli le scendevano biondi come oro lungo le spalle in ricci stretti e definiti. Il suo corpo era stato modellato dagli anni di allenamento, riuscendo a conservare delle forme generose e femminili.
Era intelligente, ambiziosa e ammaliante. Una ragazza che avrebbe potuto ottenere tutto ciò che voleva.
-Sei incredibile Annabeth. – mormorò il ragazzo. -Non so cosa farei senza di te. –
La ragazza gli sorrise, baciandolo.
-Vorrei dirti che mi sei mancato. Ma non credo che basti. –
Percy annuì, poggiando la fronte su quella di lei e chiudendo gli occhi per qualche secondo.
Annabeth era parte di lui. Per dieci anni aveva sempre avuto lei accanto, e lei era rimasta con lui anche quando nessun’altro lo aveva fatto. Erano cresciuti insieme, compagni e complici in tutto. Erano stati migliori amici per anni, finché non si erano innamorati.
Percy le aveva goffamente chiesto di mettersi con lui il giorno del suo quattordicesimo compleanno, sulle rive del lago del campo. Annabeth gli aveva timidamente risposto di sì, prima che Thalia, Beckendorf, Clarisse e i fratelli Stoll li trascinassero al molo e li gettassero nel lago.
Percy ancora sorrideva al ricordo.
Ma bastò un battito di ciglia, per vedere lo sguardo di Annabeth farsi scuro e addolorato.
Il ghigno sul viso del ragazzo scomparve.
-Ehi, che c’è? – chiese dolcemente.
Annabeth avevo gli occhi puntati sul pannello di vetro, e Percy aspettò con pazienza che incominciasse a parlare, accarezzandole la spalla con la punta delle dita.
La figlia di Atena sospirò: -Abbiamo solo sedici anni. E non abbiamo mai smesso di combattere. Mi sento così stanca.  –
Percy appoggiò la guancia contro la testa della ragazza. Sapeva esattamente di cosa stesse parlando.
-Avevo accettato l’idea di rinunciare agli anni migliori della mia vita pur di vincere nella Guerra dei Titani, perché credevo che ci avrebbe garantito la pace. E invece siamo qui, di nuovo in guerra. – disse ancora la ragazza, e Percy la abbracciò con più forza. -A volte ho paura che non smetteremo mai di combattere, che il nostro destino sia quello di sopravvivere finché non troveremo un nemico che non saremo in grado di sconfiggere. –
-Oh Annabeth, lo capisco, davvero… -
La ragazza si strinse a lui seppellendo il viso nell’incavo della sua spalla, e Percy le accarezzò con dolcezza la nuca.
-Ma ti ho fatto una promessa. Non dovrai temere nulla, finché saremo insieme. – sussurrò.
Annabeth sembrò calmarsi.
Parlarono ancora, Annabeth raccontò di sua madre e della moneta che le aveva dato insieme al compito di trovare e seguire il Marchio di Atena.
Percy le raccontò del suo sogno, dei due giganti gemelli che avevano parlato di una statua perduta.
-Quindi è a quello che conduce il Marchio di Atena. – mormorò Annabeth sorpresa. -Ad una statua. -
-Questa storia non mi piace. – borbottò il ragazzo. -Tua madre ti sta chiedendo di seguire una strada che ha portato alla morte di centinaia di tuoi fratelli. Dove porta quel marchio, Annabeth? Cosa c’è laggiù, oltre a quella statua? –
La ragazza sospirò: -Non lo so ancora. Ma lo scopriremo. –
Percy la guardò per un istante, prima di abbassare lo sguardo sulle loro mani unite.
-Va bene Sapientona. – disse, sorridendo. -Ti amo. –
Annabeth lo guardò adorante: -Ti amo anche io Testa d’Alghe. –
 
La mattina dopo Percy venne svegliato da Frank.
-Oh, voi due siete in un mare di guai... -
Il figlio di Poseidone sobbalzò, e il suo sguardo assonnato saettò verso l’entrata.
Frank era sulla soglia delle scuderie, e sembrava terrorizzato più di quanto Percy non l’avesse mai visto.
-Ehi Frank. – lo salutò stiracchiandosi.
Il figlio di Marte però non riusciva a guardarlo in faccia. Era arrossito, e si guardava nervosamente le scarpe.
Solo in quel momento Percy si rese conto di essere completamente nudo, con solo la coperta a coprirgli il corpo dal fianco in giù. Imprecò tra i denti, e spinse la coperta a coprire la schiena di Annabeth che sembrava ancora dormire.
-Scusa Frank. – mormorò imbarazzato, sorridendogli timidamente.
Il ragazzo non li guardò nemmeno: -Vi stiamo cercando da mezz’ora. Credevamo vi avessero rapiti… -
Annabeth al suo fianco si svegliò, ma lei non reagì bene quanto Percy. Quando realizzò di avere Frank davanti, si bloccò come impietrita.
-Frank?! – squittì, rossa fino alle orecchie.
Frank deglutì, e indietreggiò.
-Appena siete pronti venite in mensa, io dico agli altri che state bene. – disse gentilmente il ragazzo, prima di andarsene girando sui tacchi.
Percy guardò Annabeth con un ghigno: -E dobbiamo ancora sentire il Coach. –
La ragazza gli colpì la testa col cuscino, prima di ricominciare a vestirsi.
-Ehi! Tanto da del pervertito solo a me. –
 
Il loro viaggio continuò.
Arrivarono ad Atlanta, dove Percy, Frank e il Coach Hedge trovarono Forco. Riuscirono a racimolare qualche informazione, e fuggendo dall’aquario dove lo avevano trovato raggiunsero la nave con una destinazione: Charleston.
Erano a meno di mezz’ora dalla città, ed erano tutti riuniti sul ponte.
Percy sapeva che Annabeth non era felice di parlarne, ma dovette riferire ai compagni di quello che Forco gli aveva rivelato.
-Non sono sicuro a che cosa si riferisca. – mentì il figlio di Poseidone. -Ma Forco ha detto che per trovarlo esiste una mappa, che è stata nascosta a Charleston. –
Annabeth era al suo fianco, e sembrava tesa. Teneva la mano nella tasca dell’enorme felpa rossa che aveva addosso sopra i pantaloncini di jeans, e Percy sapeva che stava stringendo la moneta maledetta che Atena le aveva dato.
La ragazza sospirò: -Si riferiva al Marchio di Atena. –
Piper la guardò curiosa: -Cos’è di preciso questo Marchio? -
-E coma una guida, una strada che conduce a quello che ha segnato la guerra eterna tra Greci e Romani. – rispose Annabeth.
Hazel annuì pensierosa: -La rovina dei giganti. –
Annabeth ricordava bene quello che Percy le aveva detto la sera prima, nelle scuderie. Nel suo sogno i giganti gemelli parlavano di una statua, e questo non faceva altro che inquietarla ancora di più. Ma Percy non parlò del suo sogno, e nemmeno della statua.
Gliene fu grata.
Annabeth fece scorrere lo sguardo sui suoi compagni: -Quindi facciamo rotta per Charleston. Troviamo questa mappa, e poi salpiamo per Roma. –
Jason annuì, ma sembrava turbato: -Io… ci sono già stato a Charleston. Ero con Reyna, stavamo cercando delle armi d’oro nascoste nel museo della Guerra Civile in città. –
Percy lo guardò attentamente: -Quindi hai qualche idea dove cercare questa mappa? –
-Non esattamente. Ma le guerre civili sono state combattute tra semidei Greci e Romani, e quel museo è pieno di reperti. Una mappa simile potrebbe essere stata nascosta lì. E poi… -
Jason sembrò esitare, e Piper lo incalzò: -C’è un altro posto? –
Il figlio di Giove la guardò incerto: -Reyna vide un fantasma nel Battery, il giardino che costeggia il porto, una ragazza. Ebbe un presentimento, e disse che sarebbe andata a parlarci, da sola. E parlarono, ma Reyna non mi disse mai cosa le avesse detto il fantasma. Non si è più comportata allo stesso modo con me da allora. –
Annabeth lo guardò pensierosa.
-Va bene. Allora ci dividiamo in due gruppi. –
Il figlio di Giove annuì: -Io posso andare al museo. Me lo ricordo bene. –
-Io vengo con te! – esclamò Leo. -Quel posto deve essere incredibile, è una vita che vorrei visitarlo. –
Jason gli sorrise, prima di voltarsi verso Frank: -Anche tu dovresti venire. Ci farebbe comodo un figlio di Marte laggiù. –
Frank annuì, a disagio. Incominciò a giocherellare con la trappola cinese che aveva recuperato all’acquario.
Dopo qualche secondo, non riusciva ancora a liberarsi.
Leo non perse l’occasione: -Ma come Frank, è facilissimo. Se però proprio non ci riesci,  possiamo tagliarti le dita, sono sicuro che il Coach non vedrebbe l’ora. –
Gli altri ridacchiarono, ma Frank non gliela diede vinta. Con una smorfia di concentrazione, scomparve. La trappola cinese cadde a terra, accanto ad un pitone reale che sibilava mostrando i denti.
Leo impallidì e rise nervosamente: -Complimenti amico. Una soluzione geniale per liberarsi dalle trappole cinesi. –
I ragazzi intorno a loro risero, e le risate aumentarono quando il serpente si sporse minaccioso verso il figlio di Efesto sibilando e facendo scattare la testa in avanti.
-Frank, l’aspetto da pitone non ti si addice. Ti prego, stammi lontano. –
Il ragazzo si ritrasformò, e si sedette guardando Leo con espressione soddisfatta nonostante fosse arrossito un po’.
Hazel cercò di smettere di ridere: -Noi ragazze possiamo andare dal fantasma. Se Reyna si è avvicinata senza di te, magari è perché lo spirito non voleva aver a che fare con un uomo. –
Annabeth annuì con ancora il sorriso sulle labbra, ma prima che potesse dire qualcosa Piper spalancò gli occhi.
La figlia di Atena la guardò stranita: -Piper… stai bene? –
L’amica si voltò a guardare Percy, e sembrava spaventata. Lo guardava con una intensità disturbante.
-Deve venire anche Percy. – disse.
Percy la guardò incredulo: -Piper ti senti bene? –
Annabeth non sembrava meno turbata di lui: -Perché dici così? –
Piper continuava a guardare il figlio di Poseidone, che però la guardò con altrettanta seppur mite intensità. Piper presto sembrò riscuotersi, e distolse gli occhi arrossendo.
-Ho… una sensazione. Credo davvero che Percy debba venire con noi. –
Percy la guardò incerto per un secondo, prima di annuire. Non potevano permettersi diffidenze tra di loro.
-D’accordo. Allora è deciso. – rispose il ragazzo ostentando calma e sicurezza.
Era preoccupato, ovviamente. Sapeva bene che i semidei avevano intuizioni e delle percezioni spesso azzeccate, ma questo non significava che avrebbero portato a nulla di buono.
La mattina dopo atterrarono a Charleston sotto ad un bel cielo sereno, e lasciarono il Coach Hedge sulla nave prima di dividersi.
Percy ed Annabeth camminavano mano nella mano accanto a Piper ed Hazel. Charleston era incredibilmente graziosa, e raggiungere il Battery fu piacevole.
-Quindi noi stiamo cercando uno spirito qualunque? – chiese Piper, guardandosi intorno.
Annabeth sospirò: -Jason avrebbe potuto essere più specifico. Noi sappiamo solo che è una... -
-Ragazze. – le richiamò Percy, lo sguardo puntato dall’altra parte della strada. -Credo che sia laggiù. –
Annabeth si voltò, e vide appoggiata al parapetto che dava sul mare una donna. La sua immagine era sfuggente, impalpabile, ma sembrava splendere.
-Quello non è un fantasma. – disse Hazel. -Gli spiriti… -
Percy la precedette: -Gli spiriti non splendono così tanto. –
La figlia di Plutone lo guardò incredula: -Come… -
Ma si interruppe, quando vide Piper guardare la donna con aria stralunata e incamminarsi verso di lei senza aggiungere una parola.
Annabeth se ne rese conto solo quando una delle carrozze rischiò di investire la ragazza.
-Piper?! – sibilò la figlia di Atena cercando di richiamarla.
Hazel sospirò: -Andiamo a prenderla. – disse, e con più attenzione di Piper attraversò la strada seguita da Percy ed Annabeth.
I tre si accostarono a Piper, che si era fermata come incantata a pochi metri dallo spirito della donna.
Annabeth concordò che quello non fosse un fantasma nell’esatto momento in cui la vide voltarsi.
Era bellissima, nonostante la sua immagine continuasse a mutare sotto alla luce del sole.
I suoi capelli continuavano a cambiare sfumatura, il suo viso sembrava, se possibile, affilato eppure morbido allo stesso tempo, e i suoi occhi erano prima azzurri, poi verdi e persino neri.
Annabeth osservò rapita il suo grande abito di seta azzurro, che le stringeva il busto e si allargava in un’ampia gonna in stile ottocentesco, e per un secondo provò un profondo senso di invidia. Quella donna era perfetta come lei non avrebbe mai potuto essere, nel suo volubile aspetto e nella sua postura sensuale ed elegante.
Quando la donna la guardò, Annabeth vide i suoi occhi smettere di mutare e invece riflettere lo stesso colore del mare alle sue spalle. Erano verdi, profondi e screziati di blu, un colore che lei conosceva bene. Capì immediatamente chi avessero davvero davanti.
Ma Percy la precedette:
-Afrodite? – mormorò stupito.
La donna sorrise splendidamente, rilassando le spalle e stringendosi le mani quasi a contenere il suo entusiasmo.
-Percy! Ragazze! Vi stavo aspettando. – esclamò lei. 
Hazel indietreggiò appena, ma nessun’altro si mosse. Piper osservava sua madre con rassegnazione, mentre Percy la guardava con diffidenza.
Il ragazzo si sporse verso Annabeth e senza distogliere lo sguardo dalla dea le bisbigliò all’orecchio: -Ti assomiglia ogni volta di più, è quasi inquietante. -
Afrodite non smise di sorridere: -Sono così felice di vedervi sani e salvi. –
-Che onore. – borbottò Percy, ma la dea non perse il sorriso, anzi, guardò il ragazzo con una luce di divertimento e malizia negli occhi.
-Ho sempre adorato il tuo caratterino, figlio di Poseidone. – lo adulò con giulivo entusiasmo. -Ad ogni modo, vi invito a prendere un tè con me. Seguitemi. - concluse prima di sporgersi con eleganza per prendere Percy a braccetto.
Annabeth la guardò trascinarle via il ragazzo con indignazione, ma cercò di frenare la lingua quando Percy le rivolse un’occhiata divertita. La figlia di Atena seguì la donna insieme ad Hazel e Piper fino ad un piccolo gazebo, sotto il quale un tavolino di legno bianco era imbandito di panini, pasticcini e torte, tazzine e piattini di porcellana.
La dea si accomodò con stupefacente grazia, e con postura impeccabile incominciò a servire tè e cibo senza versare una goccia o lasciarsi sfuggire una briciola.
Annabeth si sedette accanto a Percy con la schiena dritta e le braccia incrociate sul tavolo. Aveva lo sguardo apparentemente rilassato, ma in realtà stava osservando con attenzione ogni movimento della dea.
Dal canto suo, Afrodite sembrava al settimo cielo:
-È fantastico che siate venute a farmi visita. Charleston è splendida, il luogo perfetto per una chiacchierata tra donne insieme al loro accompagnatore. –
Percy, dalla sua posizione rilassata con le braccia incrociate, si voltò improvvisamente a guardarla.
-Io sarei qui come accompagnatore? –
Afrodite si lasciò sfuggire un’elegante ma seducente risata guardandolo da sotto le lunghe ciglia.
-Ma certo! Ho detto io a Piper ti farti venire con loro. E poi, volevo parlare con te di una questione che solo la dea dell’amore può affrontare con la dovuta serietà. – rispose la dea sorseggiando il suo tè.
-Ah, quindi eri tu… - mormorò Piper, ma non aggiunse altro.
Annabeth invece si scambiò con Percy uno sguardo preoccupato.
-Di cosa… -
-Oh Annabeth, sei diventata splendida! Bella e intelligente, una combinazione irresistibile – la interruppe la dea adulandola.
Annabeth tacque per un istante, incerta su come continuare.
Piper si schiarì la voce: -Mamma, pensavamo avessi qualcosa di importante da dirci. –
Afrodite però non sembrava preoccupata.
-Piper cara, quanta fretta. Dopo tutte le disgrazie degli ultimi giorni vi farebbe bene un momento di svago, non credete? Hazel avanti, assaggia questi pasticcini, sono i migliori d’America. –
Annabeth e Piper si scambiarono uno sguardo avvilito, mentre Percy, dal canto suo, si rilassò sullo schienale della sua sedia incrociando le braccia muscolose.
Il ragazzo si intromise: -Scusi Afrodite, sono sicuro che le sue paste meritino tutte le attenzioni possibili, ma credo che Piper abbia ragione. -
La dea sospirò, senza perdere il sorriso:
-Come desiderate allora. – asserì quindi educatamente Afrodite, portandosi con impeccabile grazia un acino d’uva alle labbra.  -Il successo della vostra missione è l’unica speranza che abbiamo contro Gea, ma temo che la parte facile finirà presto. –
-Come se potesse andare peggio. – commentò Piper.
Afrodite le rivolse uno sguardo compassionevole:
-Oh Piper, eppure è così. Percy ed Annabeth sanno bene quanto non ci sia limite al peggio in guerra. –
In un istante, l’espressione di Percy si fece dura come pietra, e lui ed Annabeth rivolsero ad Afrodite un’occhiata di ammonimento che non ammetteva repliche, ma senza aprire bocca.
La dea dal canto suo sembrava divertirsi un mondo.
-Ad ogni modo, per ora dovreste preoccuparvi di Roma e dei due giganti che minacciano di distruggerla. Oh, ovviamente tu Annabeth hai ben altro a cui pensare, come il problema con tua madre. –
La figlia di Atena per poco non spezzò il manico della tazza tra le sue stesse mani. Percy le poggiò con delicatezza una mano sulla spalla in un gesto di conforto.
Piper ed Hazel invece si voltarono verso Annabeth con curiosa sorpresa.
-Che cos’è successo con tua madre Annabeth? – chiese Piper.
La figlia di Atena non si scompose, lo sguardo altero che scintillava.
-Atena soffre della scissione tra greci e romani più di qualunque altro dio. Odia Roma e i suoi figli, perché l’hanno indegnamente spogliata di gran parte dei suoi titoli e poteri. Il mio collaborare con il Campo Giove non le è piaciuto. –
Afrodite la guardò profondamente divertita:
-Ma è molto più di un disaccordo tra madre e figlia. Vedete, Annabeth ha preferito non parlarne, ma la aspetta un compito terribile. Tutti i figli di Atena più potenti della storia hanno intrapreso il suo stesso viaggio, ma nessuno è mai tornato. –
Hazel guardava Afrodite incredula, prima di voltarsi verso Annabeth: -Annabeth di cosa parla? –
-Del Marchio di Atena. È un mio compito, devo seguirlo e trovare quello a cui conduce. – rispose la ragazza. -Alla statua di Atena che i romani rubarono e nascosero secoli fa. –
Piper guardò Annabeth incredula: -Tu sapevi esattamente cosa fosse quel marchio di cui tutti si preoccupavano e non ce l’hai detto?  –
Percy era rimasto in silenzio fino ad allora, ma quando vide Afrodite sorridere soddisfatta nel vedere lo stupore della sua stessa figlia si intromise.
-Piper, credo sia meglio parlarne dopo. – disse il ragazzo con gentilezza.
Piper però sgranò ancora di più gli occhi: -Tu lo sapevi? – trasalì rivolta al figlio di Poseidone. -Vuoi dirmi che nessuno dei due si è disturbato a dirci una cosa così importante? –
Percy aprì la bocca per parlare, ma la dea al suo fianco lo precedette.
-Oh Piper, certo che lo sapeva. Non esiste nulla che loro non sappiano l’uno dell’altra. –
Annabeth guardò Piper mortificata, mentre Percy si voltò verso Afrodite con un sopracciglio alzato:
-Ma lei da che parte sta? -
-Percy, io sono la dea dell’amore, dovresti conoscermi. Ma non preoccuparti, io vi adoro. Siete tutti delle storie così belle! –
Piper scosse la testa, massaggiandosi con due dita il ponte del naso:
-Dunque, parlavamo di questa missione sul Marchio di Atena perché…? –
Afrodite voltò lo sguardo verso l’orizzonte, dove il mare sembrava fondersi col cielo.
-Perché io posso dirvi dove trovare una mappa, che potrà aiutare Annabeth nel suo viaggio. La lasciarono qui dei figli di Atena, e quantomeno ti metterà sulla giusta strada. –
Annabeth si accigliò: -Lei ce l’ha? –
La dea ridacchiò: -Oh no, sarebbe troppo semplice. Si trova a Fort Sumter, anche se forse avrete dei problemi ad entrare… -
Tutti guardarono la donna interrogativi, ma Hazel colse qualcosa che la fece trasalire.
-Ragazzi… - mormorò, il dito puntato verso il cielo ad ovest di loro.
Tutti i semidei al tavolo si voltarono nella direzione indicata dalla ragazza, e con orrore Percy vide delle aquile romane volare verso di loro a seguito di una biga trainata da due pegasi.
-I Romani! - mormorò Annabeth. -Dobbiamo andarcene. –
Afrodite sorrise con furbizia: -Direi proprio di sì. È stato un piacere ragazzi, vi consiglio di sbrigarvi. –
Le ragazze si alzarono di scatto, pronte a correre verso la nave. Ma quando Percy si alzò, la dea lo bloccò stringendoli con delicatezza il braccio.
-Non tu, figlio di Poseidone. – disse, guadagnandosi delle occhiate basite da parte del ragazzo e delle semidee al suo fianco. -Io e te dobbiamo ancora parlare. –
Percy la guardò incredulo. Ma dopotutto, qualunque cosa avesse da dirgli la dea dell'amore, avrebbe voluto saperlo.
Si voltò verso Annabeth, che guardava la dea con preoccupazione, forse persino fastidio.
-Voi andate alla nave, veloci. Vi raggiungo appena posso. – disse guardando le sue amiche.
Annabeth sospirò, sguainando il pugnale: -Stai attento Testa d’Alghe. –
Percy le sorrise: -Lo farò. –
Il ragazzo rimase a guardare le ragazze correre veloci per la strada dirette verso la nave, prima di voltarsi verso la dea dell’amore.
-Di cosa vuole parlarmi? –
Afrodite sospirò, accarezzando il manico della teiera: -Per quanto possa sembrarti incredibile, mi dispiace che un ragazzo con un’anima bella come la tua debba vivere una realtà così terrificante. –
Percy lasciò che continuasse, senza dire nulla. Il suo sguardo era mite come il mare oltre il parapetto.
-Ma non posso cambiare il tuo destino. Posso solo avvertirti. – disse guardandolo dritto negli occhi. -Io comprendo la bellezza e la forza dell’amore che ti lega ad Annabeth più di chiunque altro. Eppure, so anche quanto pericoloso possa essere. –
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia: -Cosa intende con… -
Afrodite lo fermò alzando una mano: -So che per lei faresti qualunque cosa. E anche Gea lo sa. –
Percy si bloccò, lo sguardo improvvisamente duro e illeggibile.   
-Lei ti teme più di chiunque altro, perfino più di noi Olimpi. Sa che tu hai il potere di salvare il mondo intero, ma sa anche come potresti essere in grado di distruggerlo. –
Afrodite lo guardava con grave serietà. Sembrava impietosita da lui.
- Ti ha osservato. E ti assicuro che farà tutto ciò che è in suo potere per usare il tuo stesso amore contro di te. –
Percy nascose la sua paura dietro ad una maschera illeggibile: -Non capisco… -
Afrodite scosse la testa:
-Non puoi capire. Non ora. Ma devi sapere che lei tenterà di manipolarti, di portarti dalla sua parte, e se non ci riuscirà farà leva sulla tua vera debolezza. Le basterà usare Annabeth, e tu perderai il controllo. Raderai al suolo tutto ciò che ti circonda, e lei avrà vinto. –
-Non sono così potente. Non ho il potere di distruggere l’Olimpo. –
Afrodite sorrise tristemente: -Ed è qui che sbagli. –
Percy la guardò attento: -Allora perché non mi uccidete? Se sono così pericoloso perfino per voi immortali, perché sono ancora vivo? –
La dea dell’amore rise piano: -Siamo più umani di quello che credi. E rimani la nostra arma migliore. –
Percy avrebbe reagito con scherno fino a qualche mese prima, ma stavolta non rispose. Le sue parole gli scivolarono addosso.
-Cosa devo fare? Ora che mi ha detto questo, cosa posso fare? –
Percy aveva gli occhi puntati sulla dea, il suo sguardo era illeggibile tanto erano contrastanti le emozioni che esprimeva, e non riusciva a pensare lucidamente.
-Non posso dirti altro. Io raggiungerei le tue compagne, e in fretta, se fossi in te. – disse la donna.
Percy si sentiva confuso, spaventato, ma si costrinse a riprendersi.
Si alzò lentamente, e guardò Afrodite per l’ultima volta.
-Grazie. – disse solo, pronto ad andarsene.
-Buona fortuna Percy Jackson. È stato un onore. – lo salutò lei, prima di congedarlo con un lento cenno della mano.
Percy esitò per un secondo, ma poi si voltò, e corse più veloce che poteva verso la sua nave.
Non riuscì a dimenticarsi delle parole della dea, e della sensazione di terrore che gli avevano causato. In quel momento voleva solo trovare Annabeth, voleva solo vedere che stava bene.
Corse, veloce come nessun mortale avrebbe potuto, seguendo la riva del mare e senza mai fermarsi. Dopo poco, vide sulla strada davanti a sé una scena che gli fece ribollire il sangue nelle vene.
Di fronte a lui, ad una decina di metri di distanza, c’erano Hazel, Piper ed Annabeth, che erano state bloccate da quattro dei romani. Uno di loro era Ottaviano.
Non smise di correre.
Due dei soldati puntavano le armi contro Piper ed Hazel, ma Annabeth era trattenuta dall’augure stesso e da un ragazzo alto e robusto che le puntava un coltello alla gola.
Ottaviano le teneva le braccia dietro la schiena, aveva il viso accostato al suo collo e le stava mormorando qualcosa all’orecchio con un sorriso lascivo. Aveva una mano appoggiata sul suo fianco.
Percy non ci vide più dalla rabbia.
Il mare si mosse insieme alla sua ira rispondendo ai suoi comandi. Un’onda spaventosamente grande si sollevò improvvisamente dalla baia e si schiantò con violenta precisione sui legionari che trattenevano Hazel e Piper, e sul ragazzone che teneva il coltello alla gola di Annabeth.
L’acqua si ritrasse, trascinandoli spietatamente in mare.
Ottaviano alzò lo sguardo incredulo, ma non fece in tempo a realizzare cosa fosse successo.
Perché Percy lo raggiunse con velocità inumana, e gli fu addosso scaraventandolo lontano da Annabeth. Non sguainò nemmeno la spada.
Il ragazzo barcollò cercando di restare in piedi, ancora incredulo e incapace di capire cosa stesse succedendo, ma Percy non ebbe pietà di lui. Lo massacrò di botte, lo colpiva con tutta la forza che aveva mentre il ragazzo cercava invano di indietreggiare e difendersi.
Presto Ottaviano cadde a terra, e Percy gli assestò un calcio dritto nello stomaco che gli fece sputare sangue.
-Devi starle lontano. – gli ringhiò contro.
Avrebbe ccontinuato, se Annabeth, Piper ed Hazel non lo avessero fermato.
-Percy basta! – gli gridò Annabeth, che insieme alle altre cercava di tirarlo lontano da Ottaviano.
Percy lo lasciò andare, e lo guardò agonizzare a terra. L’augure aveva il viso pieno di sangue, gonfio e tumefatto tanto da non sembrare il suo.
-Jackson… - mormorò con spregio.
Percy avrebbe voluto prenderlo ancora a calci, ma Hazel gli posò una mano sul braccio.
-Percy, andiamo. – disse guardandolo con gentilezza. -Ne arriveranno altri. –
Percy prese un profondo respiro, annuendo.
-State bene? – chiese, guardando con particolare intensità Annabeth.
Tutte annuirono, e la figlia di Atena gli sorrise dolcemente: -Grazie per essere arrivato. –
Percy le accarezzò una guancia cercando di sorridere, mentre le parole di Afrodite gli ronzavano in testa.
Ottaviano rantolò a terra: -Aiutatemi! – urlò con quanta più forza potesse.
Percy prese un profondo respiro. Gli si avvicinò in poche falcate, lo sollevò con facilità per il bavero della maglietta e senza sforzo lo trascinò per la strada prima di gettarlo in mare. Ottaviano cadde insieme ai suoi compagni che annaspavano nell’acqua.
Hazel sembrava preoccupata: -Non vorrei annegassero… - mormorò.
-Tranquilla, ho ordinato all’acqua di tenerli a galla ma senza lasciarli uscire. – rispose Percy avviandosi verso la nave insieme alle compagne. Annabteh gli strinse il braccio sinistro mentre camminava al suo fianco.
Piper sorrise: -Che carino. –
Raggiunsero velocemente l’Argo II, e Annabeth corse subito al timone.
Percy alzò lo sguardo, e vide delle aquile romane che volteggiavano in cerchio sopra di loro. Festus sputava fuoco ogni volta che cercavano di avvicinarsi, ma Percy sapeva che presto ne sarebbero arrivate altre.
Il figlio di Poseidone si voltò verso Piper: -Dobbiamo avvertire gli altri di tornare. –
La ragazza annuì: -Gli mando un messaggio Iride! – esclamò fiondandosi di sotto.
Annabeth stava armeggiando con i comandi, e sembrava in difficoltà.
-Percy, noi dobbiamo far partire la nave! – gli gridò.
Il ragazzo annuì, e chiuse semplicemente gli occhi aprendo le mani.
Il suo potere pervase il corpo della nave come pura energia, le cime si mossero da sole liberando la nave dal molo e le vele si spiegarono.
Annabeth riuscì a mettere in moto la nave, e grazie ad entrambi si staccò dal molo e si diresse verso il mare aperto. I remi si spiegarono facendo un gran rumore e spinsero la nave verso l’isola dove si trovava Fort Sumter. Viaggiavano a velocità incredibile, grazie alla potenza della nave e al mare che Percy controllava per aiutarli a solcare l’acqua sarebbero arrivati all’isola nel giro di una dozzina di minuti.
Piper emerse da sottocoperta: -Jason e gli altri stanno arrivando! – urlò.
Percy le sorrise grato, ma perse presto l’ottimismo quando puntò gli occhi verso l’orizzonte.
Diverse aquile romane stavano volando verso Fort Sumter, e su ognuna almeno un semidio romano armato fino ai denti urlava pronto allo scontro. Erano troppi.
Ma Hazel lo riscosse.
-Eccoli, sono laggiù! Frank! – chiamò la più giovane, indicando un’enorme aquila che volava dalla città verso di loro e che reggeva tra le zampe un Leo strepitante. Il figlio di Efesto stava gridando terrorizzato cercando di reggersi mentre alle sue spalle Jason li seguiva volando.
Percy non riuscì a trattenere una risata.
-È adorabile! – esclamò. -Sembra un Superman biondo. Perché non avevo ancora visto questo spettacolo? –
Annabeth gli arrivò da dietro dandogli uno scappellotto sulla nuca.
-Non è il momento Percy. – lo rimproverò.
Frank planò sulla nave buttando Leo sul ponte, e Jason calò a bordo subito dopo di loro.
-Andiamocene! – gridò il figlio di Giove. – Non possiamo affrontarli! –
Annabeth al fianco di Percy scosse la testa.
-Non possiamo andarcene senza quella mappa. Devo assolutamente raggiungere quel forte, è lì che si trova. –  disse con decisione la ragazza, prima di voltarsi verso il suo ragazzo. -Riuscite a coprirmi? –
Percy la guardò per un istante. -Vengo con te. Ti guardo le spalle. –
-D’accordo. – rispose subito la ragazza. -Qualcuno aiuti Percy, gli altri rimangano qui. Non lasciate che si impadroniscano della nave. -
Jason si fece avanti: -Vengo io. Frank, ti unisci a noi?  – suggerì il ragazzo, e il figlio di Marte annuì prontamente.
Percy guardò la riva dell’isola ormai a pochi metri da loro, e annuì:
-Va bene. Stai attenta Sapientona. Non vorrei scomodarmi e venirti a salvare. –
Annabeth alzò gli occhi al cielo sorridendo, prima di baciarlo.
-Per carità. –

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Capitolo 10
*** Furia Cieca ***


Furia Cieca 

La battaglia a Fort Sumter fu un successo per i sette.
Annabeth se ne andò insieme alla sua tanto agognata mappa, e fecero rotta per le Colonne d’Ercole.
Quando Jason e Piper scesero dalla nave per conferire con lo stesso Ercole, Percy rimase insieme agli altri a bordo.
Erano tutti pigramente appoggiati alla balaustra con lo sguardo puntato sulla riva.
Era una splendida giornata, il sole alto e caldo era contrastato dalla brezza fresca del mare.
-Dite che resteremo qui per molto? – chiese Leo.
Annabeth era accanto a Percy, e sospirò:
-Non saprei. Possiamo solo sperare che Ercole sia di buon umore. –
Il figlio di Poseidone mantenne lo sguardo sui due ragazzi, che ormai erano quasi al cospetto di Ercole, con un ghigno sulle labbra.
E in quell’istante, nonostante tutti i suoi amici fossero intorno a lui radunati al parapetto, il ragazzo sentì una debolissima risata femminile dietro di sé.
Si voltò improvvisamente, pronto ad attaccare qualunque creatura fosse salita sulla nave.
Ma rimase impietrito.
Alle sue spalle, inginocchiata sul ponte, c’era una donna che stava sfogliando un libro con uno splendido e dolce sorriso sulle labbra. I capelli le scendevano lungo la schiena in morbide onde castane, aveva gli occhi blu che scintillavano di felicità sotto alle lunghe ciglia scure.
Era così reale, così bella, così familiare.
Percy sentì il suo cuore soffocargli nel petto.
-Mamma… -
Annabeth si voltò verso di lui improvvisamente, guardandolo incredula. Seguì il suo sguardo, ma non vide nulla. Anche gli altri ragazzi si voltarono verso di lui.
Annabeth fu la prima a dire qualcosa, e deglutì incerta: -Percy, stai… -
Ma Percy non la sentì.
Non riusciva a parlare.
Sally Jackson stava facendo scorrere le lunghe ed eleganti dita sulle pagine illustrate del libro e muovendo le labbra come se stesse parlando ma non avesse la voce per emettere alcun suono. A volte il suo sguardo si puntava su qualcosa al suo fianco, e spesso in quei momenti il suo sorriso si faceva ancora più splendido. Ma non c’era nulla accanto alla donna.
Il figlio di Poseidone la guardava con dolorante incanto, ma inevitabilmente si tese sulla difensiva.
Sua madre era morta. Non poteva essere lì. Non avrebbe dovuto essere lì.
Percy fece un passo avanti, vigile e teso pronto ad essere attaccato, ma proprio in quell’istante la donna alzò lo sguardo su di lui. 
E Percy sussultò.
-Il mio bambino… - mormorò la donna con occhi languidi. -Vieni a leggere con me.  Come facevamo una volta… –
Percy la guardava quasi inorridito, mentre lei gli porgeva il libro chiuso. Sua madre gli rivolse un sorriso dolce che però le fece luccicare gli occhi di astuto divertimento.
Era lo stesso sguardo che Percy aveva sempre avuto. La stessa luce furbesca e maliziosa che spesso contrastava con la sua espressione gentile.
Sulla copertina del libro c’erano i disegni e le immagini di strane creature che venivano combattute da uomini possenti armati di spade, archi e scudi, circondati dal mare in tempesta e dal cielo scuro e percorso dai fulmini.
Era il libro di mitologia che lei gli leggeva quando era bambino. Quando gli diceva che lui era come quegli eroi, destinato ad una vita grandiosa come la loro, figlio di un dio potente come lo erano loro.
Percy guardò il libro teso verso di lui, e nonostante il terrore che lo bloccava sul posto si scoprì incapace di sottrarsi al desiderio di sporgersi ad afferrarlo.
Tese la mano verso l'oggetto.
Ma quando le sue dita toccarono la gelida pelle del libro, sentì una fitta lancinante alla testa.
Boccheggiò, serrando gli occhi e ritraendosi.
Ma quando li riaprì non era più sulla nave. Il sole era scomparso, si trovava nel buio più totale. L’aria intorno a lui era arida e quasi graffiante, c’era odore di cenere e polvere.
Percy si irrigidì, bloccato sul posto dal panico della cecità che gli serrò la gola.
Qualunque cosa sarebbe potuta sbucare dal buio e lui non l’avrebbe mai potuta vedere, e questo gli fece rizzare i peli sulla nuca.
E poi, dal nulla, si accese un fuoco, che nacque ruggendo da un braciere circolare accanto a lui.
Percy si allontanò di soprassalto, e si rese conto in quell’istante di avere la spada in mano. Le fiamme illuminarono la stanza di pietra dove si trovava, rivelandone le pareti circolari e spoglie. Non c’erano né finestre né porte.
Percy cercò di controllare il suo respiro, e portò la spada davanti a sé pronto per difendersi.
Una raccapricciante risata femminile si levò intorno a lui, e Percy si voltò di scatto.
Con orrore, vide che non c’era nessuno.
-Percy Jackson… -
Percy sentì la voce di donna sibilargli nell’orecchio, e si guardò freneticamente intorno.
Aveva i muscoli tesi e pronti a scattare al minimo movimento, ma il suo viso divenne una maschera inespressiva. Qualunque cosa lo avesse trascinato là, non avrebbe trovato paura o incertezza nel suo sguardo.
-Chi sei? – chiese lui, cercando attentamente con lo sguardo la donna che aveva parlato.
-Io sono Lissa. – sibilò la voce in risposta, debole ma lancinante all’udito.
Percy riuscì a percepirla, nonostante non riuscisse a vederla. La sentì strisciargli alle spalle, sentiva il suo sguardo puntato su di lui.
Lissa sospirò predatoria, in quel momento più vicino a lui di prima:
-Sei così bello… Il tuo potere è così inebriante. –
Percy sentì qualcosa sfiorargli il viso, e si scostò bruscamente puntando la spada davanti a sé con un movimento repentino.
-Stammi lontano. – ringhiò, ma la donna semplicemente rise nel nulla.
-Perdonami. – rispose la dea. -È che hai tutta questa forza, tutta questa rabbia… il tuo sangue ha la potenza e l’odore del mare che tanto mi manca vedere. -
Percy sentì un tocco fantasma alla base della schiena, sul suo unico punto vulnerabile, e spalancò gli occhi. Si voltò con improvvisa paura nelle iridi.
-Che cosa vuoi da me? – sibilò il semidio.
Sentì lo spirito della dea scivolargli accanto con una risata, prima di percepirla allontanarsi ancora.
-Non preoccuparti piccolo dio, non ti farò del male. Per ora… -
In quel momento, Percy riuscì a vederla per una frazione di secondo.
Sul lato opposto della stanza, oltre il braciere, scorse la figura sfuggente di una giovane donna vestita di nero, dai lunghi capelli neri e dalla pelle grigia e scura come carbone. Le sue iridi rosse erano puntate su di lui e bruciavano di fuoco vivo.
Ma dopo un battito di ciglia la sua immagine scomparve.
Percy non riuscì a dimenticarsi della sua espressione folle.
-Sei un fantasma? – chiese lui.
Un’altra risata riecheggiò tra le mura. Le fiamme alle spalle del ragazzo ruggirono, illuminandogli il viso.
-Io sono la dea della rabbia. – mormorò la donna. -La dea dell’odio, del risentimento, della furia cieca. –
Percy si guardava intorno cercandola con gli occhi. E finalmente, nonostante non riuscisse a vederla, la percepì fermarsi. Era davanti a lui, il fuoco proiettava sulla parete la sua ombra femminile senza corpo.
La dea ridacchiò: -È stata una così fortuita coincidenza che passaste qui per le colonne d’Ercole. Sai, io lo conosco molto bene e da molto tempo... - disse, rimanendo lontana da lui. -Ma non sono qui per lui. Io sono qui perché voglio farti una proposta. –
Percy guardò l’ombra della donna duramente, raddrizzando la schiena.
Un sospetto si fece strada nella sua mente.
Lei tenterà di manipolarti, di portarti dalla sua parte.
Quando lui non rispose, Lissa continuò: -Se continuerai la tua impresa, soffrirai più di quanto tu non abbia mai fatto. Io posso salvarti, se solo me lo permetterai. –
Percy ghignò con amarezza, gli occhi che scintillavano alla luce del fuoco. Non abbassò la guardia.
-Tu non hai idea di quello a cui sono già sopravvissuto. –
-Oh, ti sbagli. – sussurrò la dea. -Io percepisco tutto il tuo rancore, tutto il dolore che cerchi di dimenticare. –
Percy riuscì a vederla per la seconda volta, esattamente di fronte a lui. La donna gli sorrise, mostrando degli orripilanti denti affilati e appuntiti. Poi la sua immagine tremolò, e scomparve di nuovo.
-So cosa vuoi. So che è stata Gea a mandarti qui. – sibilò il ragazzo.
-Gea mi ha liberata dalla tirannia di Era, è vero, ma ho scelto io di venire qui. Ti sta usando, ma sa quanto pericoloso tu possa essere e appena potrà farà qualsiasi cosa pur di ucciderti. Anche quella sciocca di Afrodite te lo ha detto. Io però voglio darti la possibilità di unirti a noi, e di poter davvero salvare le persone che ami. Non è forse l’unico motivo per cui sei partito? –
Percy spalancò gli occhi, quasi con indignazione: -Non cercare di manipolarmi! – esclamò il ragazzo.
La dea ridacchiò ancora: -Al contrario. Io cerco di aiutarti a lasciarti andare a quello stesso odio che pensi ti stia rovinando. Ma se solo smettessi di sopprimerlo, troveresti la vera libertà. Comprenderesti chi è veramente il tuo nemico. Potresti salvare chi ami di più al mondo. –
Percy serrò la mascella: -Non sai di cosa parli. –
La dea si mostrò di nuovo, e stavolta lo guardò con spaventosa ira negli occhi.
-Io sono la rabbia! – ringhiò lei. -Tu temi me e le emozioni che rappresento più della morte!–
Percy si irrigidì sorpreso dalla sua improvvisa aggressività, e la guardò con attento timore.
Il fuoco si gonfiò alle sue spalle, e sentì la donna respirare profondamente.
Infine, Lissa sembrò placarsi: -Perché proseguire questo viaggio? Non è altro che un disperato tentativo di salvare la tua famiglia, ma siete tutti destinati ad essere vittime dell’Olimpo. –
Percy si lasciò sfuggire un ghigno infelice: -Come se…-
Ma Lissa lo interruppe: -Esattamente come lo è stato Luke. Una vittima come tutti i tuoi compagni e amici che hai perso. Una vittima come tua madre. -
Il figlio di Poseidone assottigliò lo sguardo: -Non osare. – sibilò.
Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, la rabbia bruciargli la gola come lava.
Sapeva che la dea stesse cercando di manipolarlo, di usare il suo stesso rancore per farlo impazzire. Aveva cercato di impedirlo, ma le sue parole erano fatte per alimentare il suo odio bruciante che da anni cercava di controllare.
La dea sembrò sorridere nell’ombra: -È per colpa di Poseidone se tua madre è morta, e lo sai. Se non vi avesse abbandonati per colpa della sua vigliaccheria ed egoismo, la donna che hai visto sul ponte della vostra nave sarebbe ancora viva, tua madre sarebbe ancora con te. E invece gli dei ti hanno abbandonato in mezzo ad una strada, dove hai dovuto difenderti con le unghie e con i denti pur di salvarti dai loro stessi nemici. Eri un bambino innocente, e da allora vieni costantemente braccato da creature mostruose pronte a farti a pezzi, e solo perché sei nato da un dio. –
Percy si tese nel sentirla scivolargli accanto, e serrò la mascella: -Sono passati anni. Sono mille volte più forte. –
Ma Lissa non si fermò: -Sono passati anni, ma anche adesso hai solamente sedici anni. E hai le mani sporche e macchiate dal sangue di tutti quelli che hai ucciso. Ovunque tu sia andato, ti sei lasciato alle spalle morte e distruzione. Gli dei ti hanno rovinato, ti hanno costretto a diventare un assassino, un guerriero senza pietà che ha ucciso centinaia di mostri, semidei, e persino amici... e per cosa? Per la mera illusione di poter salvare le persone che ami–
Percy la sentiva intorno a sé, sentiva la sua voce perforagli il cuore e stuzzicare la sua ira.
Provava odio, risentimento, e colpa.
Aveva così tante emozioni a premergli nel cuore che sentiva di poter scoppiare. I suoi occhi brillarono nella penombra con così tanta intensità da far tremare le iridi.
Si sentiva rovinato, smarrito, vulnerabile.
-Ho salvato la mia casa e la mia famiglia! Abbiamo vinto una guerra! Io ho sconfitto Crono e smantellato il suo esercito! –
Lissa sospirò con teatrale tristezza, la sua voce che risuonava nella stanza senza che il ragazzo potesse vederla. La sentì avvicinarglisi, e di nuovo sentì un gelido tocco sul suo punto vulnerabile.
-E per cosa? Ora sei di nuovo qui, in guerra, e nonostante tu abbia sacrificato tutto ciò che contava per sconfiggere i Titani non è bastato. Nulla basterà mai, sei condannato a questa vita finchè non troverai un nemico che non sarai in grado di sconfiggere. –
Percy si voltò frenetico alla ricerca della donna tenendo la spada alta, una ormai malcelata paura negli occhi.
Si sentiva così vulnerabile, così debole.
Voleva solo poterla vedere, poterla attaccare per impedirle di fargli del male.
Ma Lissa era spietata e intoccabile come le emozioni che rappresentava:
-Tu sai che finché gli dei regneranno, i loro nemici si innalzeranno dalla terra in cerca di vendetta e sarete voi a pagarne il prezzo. Loro non hanno mai perso nulla. Tu invece perderai tutto. –
-Ora basta! – urlò Percy, e l’intera stanza tremò. Le crepe si diramarono come serpenti sulla pietra, il fuoco venne scosso e minacciò di spegnersi.
Percy sentì le parole della donna insinuarsi nella sua testa, scavando nel suo cuore.
-Si...lasciati andare. Questo è quello che sei davvero. -
Percy urlò, e il terremoto scosse le pareti con ancora più forza, la polvere e la sabbia si mossero nell’aria, ma Lissa non sembrò nemmeno intimorita.
Lei riapparve davanti a lui, nonostante la furia del ragazzo che minacciava di distruggere la stanza, ma stavolta non sorrideva. Lo stava solamente guardando con quegli allarmanti occhi di fuoco.
-Tu combatti per i tuoi compagni, per la ragazza ti cui ti sei innamorato. Ma la tua è una battaglia persa in partenza. Perché siete stati condannati alla guerra e alla morte dal giorno che siete nati. Finché gli dei esisteranno, il vostro destino sarà combattere le loro guerre, e inevitabilmente morire. Siete una razza maledetta. –
Percy la guardò, e improvvisamente il suo coraggio venne meno. La terra smise di tremare.
-Tu odi gli dei. Odi il tuo destino. Odi quello che ti hanno costretto ad affronatre, le guerre e battaglie che ti hanno consumato fino al midollo, e odi te stesso per quello che sei diventato. Ma io posso aiutarti. -
Lissa scomparve di nuovo.
E Percy si sentì sconfitto come mai prima di allora.
Era un eroe, un guerriero invincibile e con la forza di mille uomini.
Ma non poteva mentire a sé stesso. La sua anima e la sua mente erano estremamente vulnerabili, e solo ora se ne rendeva davvero conto.
Quello che Lissa gli stava dicendo confermava una delle sue più grandi paure. La paura che avrebbe smesso di lottare e sopravvivere alle guerre solamente il giorno in cui sarebbe morto sul campo di battaglia.
Un fiato bruciante gli sfiorò il collo: -Dobbiamo distruggerli. Solo così potrai salvare l'amore della tua vita. –
Percy chiuse gli occhi. Era così stanco.
-Perché non ti sei semplicemente impossessata di me? – disse lui quasi lamentosamente.
Lissa si allontanò di poco dal ragazzo:
-Essere liberata dal potere degli dei ha un prezzo. Sono debole, per ora, esattamente come la mia nuova padrona. Ma non ne avrei comunque bisogno. –
Percy aprì di nuovo gli occhi, e la dea lo stava guardando inespressivamente, ma le sue iridi brillavano di pura follia.
Il ragazzo si perse nel fissare le fiamme che bruciavano nelle iridi di lei ipnotiche e potenti.
Lissa sorrise: -Perché tu, nonostante cerchi disperatamente di nasconderlo, sai che faresti qualunque cosa, se servisse a salvare la tua famiglia. –
Percy ricordò improvvisamente un momento della sua vita che aveva quasi dimenticato.
Si rivide nella sala del trono sull’Olimpo, di fronte ad Atena. Rivide il suo sguardo solenne ed impenetrabile, così simile a quello di Annabeth.
“Il tuo difetto fatale è la lealtà. Per le persone che ami faresti qualunque cosa, anche se significasse condannare il resto del mondo.”
Era vero. Lui avrebbe condannato gli Olimpi e la civiltà che conosceva, se si fosse convinto che farlo avrebbe aiutato la sua famiglia. Perché per Annabeth avrebbe fatto qualunque cosa. Anche se avesse significato unirsi a Gea.
E Lissa questo lo sapeva.
-Tua madre è morta davanti ai tuoi occhi per colpa di Poseidone. Ti ha abbandonato, e quando hai avuto più bisogno di lui, lui non c’è stato. – sussurrò la dea.
La sua voce era logorante come veleno.
Percy sentì una rabbia irrefrenabile scavargli nel cuore. Lissa stava scatenando tutto il suo odio, rancore, rammarico.
-Nel profondo del tuo cuore, tu sapevi che Luke aveva ragione ad unirsi al re dei Titani. Ma sei stato costretto a metterti contro di lui, lo hai ucciso, e ora avrai per sempre le mani sporche del suo sangue. –
Percy rivide lo sguardo pieno di lacrime e di supplichevole agonia del ragazzo. Rivide sé stesso pugnalarlo nel suo unico punto debole, risentì il suo straziante urlo di dolore, percepì di nuovo il sangue del ragazzo scorrergli tra le dita.
Ricordò le ultime parole del figlio di Ermes.
“Veglierò su di voi… Siete e sarete sempre la mia unica famiglia…Perdonatemi…”
Luke era morto. Era stato lui stesso ad ucciderlo. E la colpa era degli Olimpi.
La vista gli si arrossò agli angoli.
Era pura furia cieca.
-I tuoi amici e compagni, come Beckendorf, Silena o Michael… sono tutti morti in guerra per proteggere il regno di dei a cui non importa dei loro figli. –
Percy sentì la terra sotto ai suoi piedi tremare, il suo potere che gli serrava la gola e premeva per uscire. Voleva solo liberarsi di quella rabbia opprimente. Voleva che smettesse di fargli così male.
Voleva che distruggesse tutto ciò che lo circondava.
-Se non li fermi, Annabeth morirà. E come potresti vivere, senza l’amore della tua vita? Che senso avrebbe continuare a combattere, se la ragazza per cui hai rinunciato all'immortalità non ci fosse più? Potresti perdonare gli dei e te stesso, se l'altra metà di te dovesse morire? –
Percy sentiva la dea stringergli il cuore in un pugno di ferro incandescente.
La sua mente si annebbiò, e come in preda da un delirio vide un momento, uno scorcio della sua vita che però non aveva mai vissuto.
Si vide inginocchiato in mezzo ad un campo di battaglia, in mezzo al fuoco e sotto ad un cielo rosso e senza sole. Stesa sulle sue gambe, col bellissimo viso sporco di terra e sangue, c’era Annabeth.
Aveva gli occhi serrati, la bocca socchiusa ad esalare il suo ultimo respiro, il petto squarciato e ricoperto di sangue caldo e scuro.
Percy sentì qualcosa nella sua anima spezzarsi, e sentì il suo potere bruciargli le membra senza freni e alimentato da una rabbia pura e furiosa.
Un ultimo ricordo gli attraversò gli occhi accecati.
Risentì la sua stessa voce, quella di un ragazzino spaventato eppure pieno di determinazione. Un ragazzino pronto a tutto, pur di vedere la sua migliore amica sorridere, pur di vedere i suoi occhi grigi brillare.
“Non saremo mai soli finché avremo l’un l’altra, Annabeth. Non importa cosa ha fatto Luke, io non ti lascerò mai. Lo giuro sullo Stige.”
Il ricordo di una promessa. Di un amore e di un'amicizia che valeva più di ogni altra cosa. Quell’ultimo pensiero gli diede un’ultima, disperata speranza di svegliarsi da quell’incubo.
Lissa gli era entrata in testa, si era insinuata nel suo cuore, gli aveva inquinato l’anima.
Il suo gesto fu dettato dal terrore che aveva sempre avuto, quello di non riuscire a fermare il suo potere, di non poter arginare la sua rabbia devastante.
Strinse la presa su Vortice, e spinse la spada contro il suo stesso stomaco.
Nella realtà nessun’arma avrebbe potuto scalfirlo.
Ma la lama invece affondò con facilità, mozzandogli il respiro e facendogli spalancare la bocca in un muto urlo di dolore.
Si sentì morire. E sentì Lissa sibilare nell’ombra.
-Hai fatto la tua scelta… Eroe dell’Olimpo - mormorò lei con profondo disprezzo. -Goditi il Tartaro. -
 

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Capitolo 11
*** Requiem ***


So che per certi versi è simile all'originale, ma avevo bisogno che fosse così.
Spero che vi piaccia, buona lettura.

Requiem 

Jason stava camminando freneticamente avanti e indietro per il ponte da così tanto tempo che Percy dovette distogliere lo sguardo, per preservare l’ultima e precaria traccia di calma che gli era rimasta.
Il figlio di Giove si fermò per un istante: -Ricapitolando. –
Percy alzò lo sguardo stanco su di lui, aspettando passivamente che parlasse.
-La dea della rabbia ti ha rapito e portato solo gli dei sanno dove per cercare di portarti dalla parte di Gea? –
Percy sospirò, passandosi le mani sul viso con frustrazione.
-Sì. – riuscì a dire solamente.
Il loro viaggio era ricominciato non appena Jason e Piper avevano rimesso piede sulla nave. E purtroppo, in poche ore, il sole era scomparso. La nebbia li aveva circondati completamente, fitta e densa abbastanza da impedirgli di vedere qualunque cosa oltre la testa di Festus a prua.
Annabeth era al fianco di Percy, e gli stava accarezzando delicatamente la schiena cercando di rassicurarlo. Seduti a semicerchio intorno a lui c’erano tutti gli altri, compreso Hedge, e tutti loro osservavano Percy con apprensione.
Percy si era svegliato ancora steso sul ponte della nave, e la prima cosa che aveva sentito era stata la voce di Annabeth che chiamava disperatamente il suo nome. Frank e Leo lo stavano scuotendo cercando di svegliarlo, mentre Hazel lo guardava spaventata e con una bottiglia di nettare nella mano tremante.
Doveva essere rimasto svenuto per poco tempo, nonostante gli fosse sembrata un'eternità. Ma dopotutto, non sapeva nemmeno se fosse stato tutto un sogno o dove Lissa lo avesse portato.
Percy stava bene, fisicamente.
Eppure, da quando si era svegliato sentiva ancora il tocco rovente di Lissa addosso, la sua voce che ad ogni istante lo portava più vicino alla pazzia. Aveva impresse a fuoco nella testa le immagini orripilanti che la dea gli aveva mostrato. Lo aveva terrorizzato in modo troppo profondo e mirato perché lui potesse ignorarlo.
Si sentiva mentalmente fragile, sull’orlo di perdere il controllo.
Percy ancora una volta si chiese a quanti millimetri fosse dal perdere completamente il lume della ragione.
-Vuoi mangiare qualcosa? – gli chiese dolcemente Annabeth.
Percy si voltò a guardarla, cercando di addolcire il suo sguardo: -Non ti preoccupare Annie. –
Il ragazzo si voltò a guardare i suoi compagni, i quali gli rivolsero dei sorrisi incoraggianti.
Il figlio di Poseidone forzò un sorriso a sua volta: -Mi dispiace di avervi fatto preoccupare. –
Jason finalmente si sedette, ma continuava a studiare Percy con attenzione.
Percy ricambiò il suo sguardo quasi sfidandolo ad aggiungere qualcosa.
Il figlio di Giove infatti parlò: -Il problema è che hanno cercato di manipolarti. Potrebbero riprovarci. –
Percy sbuffò, incominciando a picchiettare nervosamente le dita sul tavolo:
-Potrebbero. Ma non ce l’hanno fatta ora, e non ce la faranno nemmeno la prossima volta. O stai insinuando che non ti fidi di me? –
Jason si accigliò: -No, ma... -
-Abbiamo problemi più gravi al momento. – tagliò corto il figlio di Poseidone, rizzando la schiena. -La nostra priorità è arrivare a Roma, poi dobbiamo aiutare Annabeth a partire per la sua missione, trovare Nico e uccidere i due giganti. –
-E dovremmo farlo in fretta. – mormorò Hazel. -Nico ha poche ore di vita, e noi siamo la sua unica speranza. –
Percy annuì grave, e per un secondo calò il silenzio nella stanza.
Questo finché Leo non si schiarì la voce.
-Non vorrei suonare irrispettoso… - cominciò, e subito tutti quanti si voltarono a guardarlo.
-Ma…? – lo incalzò Percy, alzando il sopracciglio.
-Io penso che dovremmo pensarci più attentamente, riguardo al trovare Nico. –
Nessuno fiatò.
Hazel guardava Leo come se l’avesse appena schiaffeggiata.
-Scusami? – esclamò Percy con gli occhi sgranati dall’incredulità.
Leo si guardò intorno timidamente, deglutendo nervoso.
Ma Jason parlò prima che lui potesse continuare.
-Credo che Leo si riferisca al fatto che forse dovremmo stare attenti, e che forse non dovremmo fidarci così ciecamente. Dopotutto, per trovarlo cadremmo direttamente nelle mani dei giganti. Magari non dovremmo correre rischi inutili senza pensarci. –
-Inutili?! –
Hazel si alzò di scatto dal pavimento del ponte, guardando Jason con una rabbia che Percy non le aveva mai visto negli occhi.
-Mio fratello sarebbe un rischio inutile per voi?! –
Jason la guardò attentamente: -Hazel, stiamo solo cercando di essere prudenti. -
-Jason, per l’amor del cielo. – lo interruppe Percy. -Avete già detto abbastanza stronzate, risparmiaci. –
Jason lo guardò dritto negli occhi, e sembrava faticare a mantenere la calma.
-Percy, tu sai cosa significa dover essere al comando. Sto solo cercando di non mettere a rischio la squadra. Siamo l’unica speranza per il mondo, e se qualcuno di noi dovesse rimetterci per salvare Nico, come… -
Percy poteva essere maturo ed intelligente come persone col doppio dei suoi anni, ma non aveva ancora imparato a frenare la lingua.
-Scendi dal piedistallo Grace, non basta essere un figlio di Giove per poter comandare. Vuoi essere tu a prendere le decisioni per tutti quanti? Allora dimostra almeno di avere le palle per farlo. –
-Percy… - cercò di richiamarlo Annabeth, ma il ragazzo non sembrò ascoltarla.
Jason strinse i pugni, e sembrava sul punto di perdere la calma.
-Nico non è stato sincero con nessuno di noi, nemmeno con Hazel o con te. Ha dimostrato di non avere problemi a mentire, e di non essere leale come credevo che fosse. Perché dovrei fidarmi di lui? –
Percy lo guardava dritto in faccia. Era arrabbiato, e i suoi occhi erano insostenibili.
-Oh Jason, posso solo immaginare quanto sia doloroso scoprire che non tutti sono perfetti come te. – sibilò il figlio di Poseidone.
-Allora dimmelo tu, Percy, perché dovrei andare a salvarlo rischiando la vita di tutti gli altri?–
Percy fece per rispondere, ma Hazel lo precedette.
La ragazza guardava Jason senza timore, ma aveva le lacrime agli occhi.
-Non ci posso credere. - mormorò. -Jason Grace, il leader perfetto, il ragazzo che avrei seguito in capo al mondo… che ora vorrebbe lasciar morire mio fratello?! -
La ragazza strinse gli occhi rabbiosamente stringendo i pugni.
E poi, veloce come un lampo, si voltò e corse via.
-Hazel! – la richiamò Frank, alzandosi subito per correre da lei.
Ma Piper gli posò con delicatezza una mano sulla spalla, cercando di sorridergli:
-Frank, diamole qualche minuto per calmarsi. Puoi raggiungerla tra un attimo. –
Annabeth annuì, sospirando, prima di voltarsi verso Leo e Jason:
-Siete stati insensibili. –
Leo abbassò lo sguardo, mortificato, ma Jason sgranò gli occhi.
Sembrava incredulo:
-Ma perché qui nessuno si rende conto che potremmo non uscirne, e che magari è Nico stesso che ci sta tendendo una trappola? –
Percy si sporse verso di lui, il suo sguardo brillava pericolosamente.
-Tu nemmeno lo conosci. – ringhiò Percy. -Nico è un mio amico, e non ti permetterò di condannarlo a morte solo perché hai paura. –
Jason non mollò l’osso:
-Se non ne usciamo vivi, il mondo avrà perso la sua unica speranza di salvarsi da Gea. –
Percy, improvvisamente e inaspettatamente, addolcì il suo sguardo.
Sorrise lievemente, ma con amarezza. Il ragazzo si sfiorò la collana del Campo Mezzosangue.
-Siamo in guerra Jason. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. – disse il ragazzo. -E Nico, tanto quanto il resto del mondo, merita un’occasione. –
Jason sembrò placarsi, ora che Percy aveva affievolito la sua rabbia e ostilità.
-È pericoloso rischiare così tanto per una persona di cui non siamo sicuri di poterci fidare. Sei troppo leale verso i tuoi amici Percy.  –
Percy indurì il suo sguardo ancora una volta, ma il suo lieve sorriso non scomparve.
-Hai ragione Jason. Dopotutto, è il mio difetto fatale. –
Jason gli rivolse uno sguardo attento, come se lo stesse studiando, e Percy ricambiò l’occhiata con un ghigno malizioso. Inevitabilmente, il suo sorriso furbesco contagiò il figlio di Giove.
Per un secondo la tensione tra di loro si allentò notevolmente.
Frank andò da Hazel, sottocoperta, e gli altri si godettero la ritrovata pace nel gruppo.
Percy lasciò vagare lo sguardo intorno a sé. La nebbia così fitta nascondeva ancora il mare intorno a loro.
Ma poi, percepì qualcosa.
-Secondo voi quanto manca alla costa italiana? – sentì Piper chiedere.
-Credo che manchino un paio d’ore. – le rispose Leo. -Prima del tramonto dovremmo… -
-Fermarci. – mormorò Percy agghiacciato. -Dobbiamo fermarci. -
Solo in quell’istante, si rese conto che c’era qualcosa nelle acque che stavano solcando. Qualcosa di troppo grande, e di troppo vicino.
Leo lo guardò stranito, come fecero tutti gli altri: -Amico, tutto… -
Percy scattò in piedi, spalancando gli occhi e allargando le braccia.
-Fermiamoci! – urlò, fermando bruscamente la nave con la sola forza del pensiero.
Ma non aveva fatto in tempo.
Un’altra nave sbucò dalla nebbia e li speronò di prua.
 
Percy riuscì a registrare ogni singolo particolare dell’altra nave nel millesimo di secondo precedente al disastro che ne conseguì.
Era una trireme enorme, con le vele nere e il corpo femminile e precisamente scolpito di una gorgone come polena.
A bordo si intravedevano le enormi figure umanoidi di strane creature ancora nascoste dalla nebbia. Il sartiame venne gettato sull’Argo II, per fare da ponte ai loro aggressori.
Percy e gli altri rischiarono di essere sbalzati fuori bordo dall’impatto, e lui si ritrovò a stringersi con forza al bordo per non cadere in mare.
Il ragazzo fece in tempo a rimettersi in equilibro sulle proprie gambe, prima di rendersi conto che erano già stati completamente circondati.
Gli invasori erano decine di pirati umani con gli arti o la testa da delfino. Erano armati fino ai denti, e avevano già occupato gran parte del ponte.
Quasi meccanicamente, Percy ed Annabeth si misero schiena contro schiena come avevano sempre fatto in battaglia.
Il figlio di Poseidone non sguainò la spada, ma aveva i muscoli tesi e pronti a scattare e la mano vicino alla tasca. Se lo avessero attaccato credendolo disarmato, Percy li avrebbe colti di sorpresa.
Ma Leo non era della stessa idea:
-Festus! –
Percy si voltò improvvisamente verso di Leo, che aveva appena tentato di richiamare l’attenzione del drago di bronzo.
Un pirata alle spalle del figlio di Efesto, quasi con stizza, lo colpì alla testa con una mazza, e lui cadde svenuto ai suoi piedi.
Jason e Piper immediatamente si agitarono cercando di correre ad aiutarlo, ma vennero bloccati da quattro di quelle creature bizzarre, che sembravano abbastanza forti per immobilizzarli senza sforzo.
Percy li guardò ferocemente, e il suo corpo si tese, pronto ad attaccare.
Ma Annabeth, quasi come se gli avesse letto nel pensiero, gli strinse il polso.
-Non farlo. – sussurrò, la sua voce così fievole che Percy a malapena la sentì. -Se mettono anche noi fuori gioco prenderanno la nave. –
Il ragazzo rivolse un ultimo sguardo a Piper e Jason, che avevano rinunciato a lottare per liberarsi dai pirati. Doveva tirare i suoi compagni fuori da quella situazione.
Poi tornò a guardare di fronte a sé, osservando calcolatore i loro aggressori.
Si concentrò, pronto ad ordinare al mare di abbattersi su di loro e sulla loro nave, di distruggerla ed annegarli.
Ma Percy si rese presto conto con indignazione che il mare non rispondeva ai suoi comandi.
C’era una forza, selvaggia e antica, che sembrava opporsi al suo volere, che gli strappava il controllo del mare.
E il figlio di Poseidone ebbe modo di scoprire cosa fosse.
Improvvisamente, si materializzò sul ponte un uomo in armatura, che si avvicinò a loro ridacchiando.
Percy si tese inevitabilmente, e lo osservò con una luce di ostile sfida negli occhi.
L’uomo era alto quanto lui, e il suo viso e corpo erano interamente nascosti sotto l’armatura d’oro massiccio. L’elmo era finemente lavorato per rappresentare la testa di una gorgone, e Percy si ritrovò a sentirsi nervoso nel guardarlo. I dettagli erano talmente perfetti da inquietarlo tanto quanto avrebbe fatto una vera gorgone.
L’uomo aveva in mano una lancia, d’oro anch’essa, ma al suo fianco pendeva ancora nel fodero una lunga spada.
Annabeth alle sue spalle si voltò nel sentire il guerriero in armatura ridere.
Percy ora l’aveva al suo fianco.
-Chi sei? – chiese il ragazzo, guardando l’uomo di fronte a lui dritto in faccia, ostentando sicurezza.
L’uomo sembrò ghignare sotto all’elmo, e avanzò ancora con eleganza e scioltezza.
-È un piacere conoscerti, fratello. Io sono Crisaore, la Spada d’Oro. – disse lui.
La sua voce arrivò familiare all’orecchio di Percy in un modo inaspettato, come se fosse un suono che aveva sentito troppo tempo prima, ma che per qualche motivo gli era rimasto impresso in testa.
-Il piacere è mio, fratello. – ribatté Percy con sarcasmo. -E tu saresti qui per…? –
-Per avere tutto ciò che possiedi, Percy Jackson. – rispose con calma mortale l’uomo, e Percy digrignò i denti nel vederlo voltare il capo verso Annabeth.
Aveva bisogno di un piano. Dovevano liberarsi di quell’inconveniente in fretta, perché non avevano tempo da perdere.
Ma erano circondati da decine di uomini mutanti, e loro erano pochi semidei di cui la maggior parte già catturati.
Percy aveva avuto l’istinto di attaccare Crisaore senza aspettare un secondo di più, ma lo aveva osservato, e aveva capito che non aveva davanti un avversario qualunque.
Il modo in cui si muoveva, flessuoso eppure pronto allo scatto, il modo in cui le sue dita scivolavano vicino alla spada così velocemente da essere difficile notarlo, erano tutti aspetti di un più che abile spadaccino.
E Percy non poteva permettersi di attaccare alla cieca un opponente simile.
-Ragazzi! – tuonò improvvisamente Crisaore. -Fate il giro della nave. Prendete tutto ciò che sia di valore. Il solito, insomma. –
I delfini umanoidi eseguirono immediatamente, ma naturalmente la maggior parte rimasero radunati intorno a loro con le armi sguainate. Gli altri si muovevano frenetici scendendo sottocoperta e risalendone con casse e botti.
Percy però non vedeva né Hazel, né Frank, e sembrava che nemmeno i pirati li avessero trovati sottocoperta. Non sapeva se provare sollievo oppure angoscia.
-Dì ai tuoi tirapiedi di fare attenzione con quella roba. – esordì Annabeth con un ghigno infelice. -Potrebbero spezzarsi un’unghia… chi di loro le ha.–
Crisaore la guardò con quello che Percy pensò fosse divertimento.
-Oh ragazza, non temere. Deprediamo le navi che solcano queste acque da più tempo di quanto mi piaccia ricordare. Sappiamo quel che facciamo.–
Percy intervenne: -Carino l’elmo. E il tuo accento, mi suona familiare sai? Ho mai avuto il piacere di incontrarti? –
Crisaore emise un verso di stizza: -Temo di no. Ma io so bene chi sei, Percy Jackson. –
L’uomo si avvicinò a Jason e Piper, tenuti in ostaggio, osservandoli come se fossero gioielli preziosi. Lanciò un’occhiata anche a Leo, che era ancora a terra.
-L’uccisore di Crono, il diavolo del Campo Mezzosangue… Il semidio più potente al mondo. - disse Crisaore, quasi sovrappensiero.
-Così mi farai arrossire. – lo schernì Percy.
Crisaore ridacchiò lievemente, prima di avvicinarsi ad Annabeth: -E come sempre sei accompagnato dalla tua fedele compagna, Annabeth Chase. –
La ragazza gli rivolse un’occhiata assassina, che incredibilmente lo fece fermare lontano da lei.
-Io non accompagno nessuno, stronzo. – rispose lei. -E Percy, ha un accento familiare perché è lo stesso di sua madre. L’abbiamo uccisa nel New Jersey.–
Percy guardò Crisaore con più attenzione, e l’elmo lo aiutò a capire.
Il ricordo della stessa cadenza suadente seppur aggressiva di Crisaore gli tornò con più chiarezza.
-Tua madre sarebbe Medusa? – chiese Percy con scherno. -Pover’uomo. Posso immaginare perché ti sia ridotto ad attaccare degli stupidi ragazzini di passaggio. –
Crisaore stavolta non rise.
Anzi, Percy quasi lo sentì ringhiare.
-Sei arrogante e sfrontato come il tuo omonimo Perseo. – sibilò l’uomo. -Ma sì, è così. Sono, insieme a Pegaso, il figlio di Medusa e Poseidone. –
Percy non riuscì a trattenere la sua insolenza.
-Ah capisco. Sarà per questo che non ho mai sentito parlare di te. –
Crisaore sospirò, quasi esasperato da lui: -Temo che tu abbia ragione. Un cavallo alato è di gran lunga più affascinante. –
Percy sorrise, maligno.
Ma in quell’istante Crisaore gli puntò la lancia al collo con una velocità che stupì il semidio. Aveva avuto tempo di battere le ciglia, e si era ritrovato con la punta d’oro dell’arma dritta alla gola.
Quell’uomo era davvero veloce. Forse troppo.
-Ma non sottovalutarmi, ragazzino. – sibilò Crisaore. -Mi chiamano la Spada d’Oro per un motivo. –
Percy, come sempre, nascose il suo sgomento con il sarcasmo: -Perché sei ricoperto da capo a piedi di oro imperiale? –
Crisaore gli rispose con stizza: -Tu lo conosci come oro imperiale. Ma io sono stato il primo tra tutti a scoprirlo, l’oro incantato, e avrebbe dovuto rendermi l’eroe più grande di sempre. Ma così non è stato. –
Annabeth lo guardò attentamente:
-E quindi sei diventato un pirata. –
Crisaore sorrise: -Precisamente. Ho radunato una ciurma invincibile e da allora deprediamo qualunque sciocco che si avventuri nel Mediterraneo. –
Percy si guardò intorno, e pensò che Crisaore avesse ragione.
La ciurma era il vero problema.
Era disposto ad affrontare l’uomo in armatura, ma sapeva che nel momento in cui l’avrebbe attaccato la ciurma avrebbe probabilmente ucciso i suoi compagni. E anche nell’ottimistica opzione in cui Percy avrebbe sconfitto Crisaore, non sapeva se sarebbero mai riusciti a fronteggiare una ciurma così numerosa senza rischiare di tirare le cuoia.
Doveva liberarsi della ciurma di Crisaore.
E non poteva farlo usando la forza.
-Un vero sballo. – commentò lui. -Anche se, senza offesa, la tua è una ciurma a dir poco singolare. –
Crisaore si voltò verso i suoi compagni mutanti: -Sì, hanno avuto un piccolo incidente tanti secoli fa. Hanno rapito la persona sbagliata, e sono stati maledetti. –
Uno dei pirati dal muso da delfino emise una serie di versi acuti e gorgoglianti.
Crisaore lo scacciò con un gesto della mano: -Sì, lo so, è stato un duro colpo per loro. Ma non ha importanza. Lui non c’è. –
Percy sgranò gli occhi.
Quegli uomini sfigurati avevano paura di qualcuno, ed era qualcosa che lui poteva usare contro di loro. Qualcuno che li aveva trasformati in delfini.
Annabeth al suo fianco lo guardava attentamente, e Percy si voltò verso di lei per un secondo.
Un ricordo gli balenò in mente.
Anche lui era stato minacciato di venir trasformato in un delfino. E ricordava esattamente da chi.
Un sorriso divertito nacque sulle sue labbra, ma prima che potesse agire Crisaore prese la parola.
-Bene! – esultò. -Siete più arrendevoli di quello che mi aspettavo. Ragazzi, portiamoli via. -
Annabeth si intromise: -Portarci dove scusami?! –
Crisaore sorrise di pura cattiveria: -Beh, tutti gli altri semidei verranno venduti come schiavi o carne da macello, poco importa, e magari le due ragazze potranno venire reclutate da Circe. Per quanto riguarda voi due… -
La sua lancia venne di nuovo sollevata e puntata verso Percy ed Annabeth.
-La vostra taglia rasenta l’incredibile. Voi due verrete quindi consegnati alla dea che tanto desidera avervi… Gea, giusto? –
Annabeth stava per lanciarsi su di lui con la mano stretta sul pugnale, pronta a sguainarlo. Ma Percy le strinse il braccio con delicatezza.
La ragazza lo guardò sorpresa, la rabbia che le infiammava gli occhi, ma Percy semplicemente scosse la testa.
Crisaore li guardò stranito:
-Devo ammettere… – incominciò. -Che mi aspettavo più resistenza. Da quello che si dice, sei un abile spadaccino. Lascerai davvero che io vi porti via senza quantomeno tentare di opporti? –
Percy ghignò: -Forse non sono così bravo come dicono… -
Crisaore fece per parlare, ma Percy lo precedette.
Sospirò, con perfetta rassegnazione: -In ogni caso, siamo tutti spacciati. –
Tutti quanti si voltarono a guardarlo, i suoi amici increduli, e i pirati con scherno o pietà.
-Ah sì? – disse Crisaore trattenendo una risata.
-Avete interrotto il nostro viaggio. – spiegò Percy. -Al nostro comandante non piacerà. Ci punirà tutti, per il nostro ritardo… -
-Di che cosa stai parlando? – lo interruppe Crisaore, innervosito. -Non c’è nessun comandante qui. Abbiamo perlustrato la nave da cima a fondo. –
Percy deglutì pesantemente, fingendosi angosciato: -Lui non viaggia con noi. Il dio del vino non ha bisogno di essere presente per sapere che stiamo compiendo la nostra missione da lui assegnata. –
Non appena pronunciò le parole “dio del vino”, vide i pirati intorno a Crisaore irrigidirsi come statue. Incominciarono a fare baccano, strillando e agitandosi.
-Non dategli ascolto idioti! – urlò Crisaore. -Gli dei si sono tutti ritirati, nascosti come vigliacchi, non… -
Annabeth al fianco di Percy gli sorrise, chiaramente capendo le sue intenzioni. Percy avrebbe voluto baciarla.
La ragazza alzò il mento con fierezza: -Veniamo dal Campo Mezzosangue. Tu sai che lui è il nostro direttore, il signor Dioniso. Avete di nuovo assaltato la nave sbagliata. E pagherete il prezzo di questo inconveniente insieme a noi. -
Ormai i pirati avevano perso il lume della ragione.
Si muovevano frenetici avanti e indietro, alcuni si gettarono persino dalla nave.
-Fermatevi! – li chiamò Crisaore. -Cercano di salvarsi! Ci stanno ingannando tutti. –
Fu allora che Percy lo vide.
Nascosto dietro ad una balista, scorse Frank.
E l’idea migliore della sua vita si palesò. Avrebbe voluto abbracciare il figlio di Marye, ma cercò di trattenere un sorriso.
Si rivolse di nuovo a Crisaore.
-Tu non hai idea del disastro in cui vi siete cacciati. – disse Percy. -Non lo sentite? La sua magia ci ha già colpiti! -
Crisaore lo guardò come se fosse pazzo, e Percy si voltò a guardare direttamente verso Frank.
-Guardate! Frank si sta già trasformando in un delfino! – urlò.
Frank lo guardò per un istante con incertezza, ma Percy allargò gli occhi in modo molto eloquente.
E allora il figlio di Marte capì, e barcollò in mezzo al ponte da dietro alla balista.
Emise alcuni gemiti, e si strinse il collo come se stesse soffocando: -No… vi prego aiutatemi!–
E dopo pochi istanti, il suo viso si allungò smisuratamente in un muso argenteo, le sue braccia scomparvero e le sue gambe si fusero in un’unica pinna.
Al suo posto, sul ponte cadde un lucido delfino adulto che sbatteva la coda sul legno come impazzito.
Percy sorrise vittorioso.
E i pirati fuggirono senza attendere un secondo di più.
Si gettarono tutti in mare urlando, e nemmeno le grida di Crisaore riuscirono a fermarli.
In un istante, l’uomo si ritrovò solo.
Fu allora che Percy attaccò, sguainando Vortice e gettandosi su di lui con tutta la forza che aveva.
Ma Crisaore era veloce, forse persino più di lui, ma esattamente quanto il semidio aveva calcolato. L’uomo parò il suo attacco con la lancia, e in quel brevissimo istante riuscì a sguainare la spada d’oro e incrociarla con la sua.
Incominciarono a combattere.
Le loro spade si muovevano con tanta velocità da fischiare nell’aria, due lampi d’oro e bronzo che si infrangevano ad ogni istante. Crisaore lo attaccava, ma Percy riusciva sempre a fermarlo. Ma se Percy lo attaccava, Crisaore si difendeva senza mai fallire.
E Percy si ritrovò a provare una malsana euforia.
Quella battaglia, così spietata e mortalmente pericolosa, lo eccitava tanto da esaltarlo.
Per la prima volta dopo tanto tempo, stava combattendo con un avversario che riusciva ad eguagliarlo.
Percy cercò di sorprenderlo, tentando una finta diretta al suo stomaco.
Ma Crisaore lo fermò, incrociando le loro lame, e spingendolo all’indietro.
-Devo dire… - disse l’uomo col fiato corto. -Che i racconti non mentono… -
Percy sorrise, stringendo la presa sull'impugnatura di Vortice.
-Ti stai per caso arrendendo? –
Crisaore sembrò ghignare sotto all’elmo, i suoi occhi verdi scintillarono, e poi gli fu di nuovo addosso con una rapidità tale che Percy rischiò di non riuscire a fermarlo.
Con la coda dell’occhio il semidio vide che tutti i suoi amici erano intorno a loro, con la armi sguainate e i muscoli tesi. Frank era tornato umano, e Hazel era comparsa lì sul ponte come per magia.
Sapere che tutti i suoi compagni erano lì, illesi e uniti rassicurò Percy.
Ma il combattimento tra lui e Crisaore continuò, e il semidio si rese conto che erano troppo simili, troppo capaci, perché uno dei due prevalesse.
Percy capì che doveva usare l’unico vantaggio che aveva.
Dopotutto, lui aveva sempre saputo di non essere tenuto a giocare secondo le regole. Soprattutto in guerra.
Crisaore sollevò la spada, pronto a calarla su di lui. In uno scontro normale Percy avrebbe usato i suoi riflessi inumani per colpirlo allo stomaco ora che aveva la spada alzata.
Ma ci aveva già provato, e Crisaore era troppo veloce, aveva i riflessi troppo fulminei.
Stavolta, fece qualcosa che nessun’altro avrebbe potuto fare.
Tese la mano sopra di sé, e bloccò la lama della spada d'oro, stringendola tra le dita.
Sentì i suoi compagni sussultare alle sue spalle.
Crisaore lo guardò con pietà, quasi divertimento, ma poi una profonda incertezza gli attraversò lo sguardo.
Non c’era traccia di dolore negli occhi verdi del semidio.
Crisaore guardò la mano sinistra del ragazzo, stretta intorno alla lama affilata della sua spada. Dove la lama avrebbe dovuto affondargli nella carne stretta intorno ad essa, non c’erano ne tagli né sangue.
Un lampo di comprensione attraversò lo sguardo incredulo di Crisaore
-Tu sei stato maledetto dallo Stige… - mormorò lui.
E prima che l’uomo potesse reagire, Percy lo colpì in faccia con il pomolo di Vortice, con tanta forza da intaccargli l’elmo.
Crisaore arretrò gemendo e mollò la presa sulla sua arma, ma Percy non ebbe pietà di lui.
Lo colpì alle gambe costringendolo a cadere.
L’uomo era a terra, e il semidio gli puntò Vortice dritta al collo.
Percy gli rivolse un sorriso storto.
-Ho vinto. – mormorò il più giovane.
Crisaore boccheggiò, la punta della spada che gli premeva dolorosamente sul collo lasciato scoperto dallo stacco tra l’elmo e l’armatura.
-Solamente perché godi dei doni dello Stige. – mormorò lui, quasi con sdegno. -Ma non esserne felice. La chiamano la maledizione di Achille per un motivo. –
Percy sorrise con scherno, ma non c’era divertimento nei suoi occhi:
-Ma non mi dire. –
-Un dono come l’invincibilità ha un prezzo. – continuò l’uomo. -Scegliendo l’invincibilità, hai donato la tua anima alla guerra, e per questo sei condannato a morire in battaglia per colpa della tua stessa arroganza. –
Percy si irrigidì, ma cercò di nasconderlo.
Lui non aveva mai desiderato l’invincibilità. Lo aveva fatto per poter vincere una guerra che avrebbe distrutto il suo mondo. Per riuscire a sconfiggere Crono, per poter fronteggiare Luke. Per ucciderlo.
E ora, quello che l’uomo gli stava dicendo suonava spaventosamente giusto, ed era qualcosa a cui Percy non aveva più pensato. Lo stesso Achille lo aveva avvertito, eppure solo ora ripensava al prezzo di quella scelta.
-Tu non sai nulla di me. – rispose lui con rabbia malcelata.
-So abbastanza. So che tu cerchi disperatamente pace per il tuo tempo, ma così non è stato, nemmeno dopo che hai sconfitto il signore dei Titani. E sai perché? Perché da quando hai scelto l’invincibilità dello Stige, un’invincibilità fittizia e pericolosamente accecante, hai scelto di combattere fino alla morte… povero stolto. –
La spada premette con ancora più forza sulla pelle di Crisaore.
Percy si sentiva come se un ferro rovente gli si fosse piantato in gola.
Non rispose.
Crisaore sorrise con cattiveria: -Morire in giovane età, al culmine della propria gloria, è il destino di chi è così potente da non poter essere sconfitto. Lo è stato per tutti gli altri. E sarà anche il tuo. –
Percy continuò a tacere, gli occhi scuri come un mare senza fondo.
Achille era morto nel fiore dei suoi anni. Luke aveva appena ventidue anni quando Percy lo aveva ucciso.
Entrambi nella battaglia più importante della loro vita.
Crisaore rise del suo sguardo nervoso.
-E ora cosa farai, grande figlio di Poseidone? Mi imprigionerai? Mi consegnerai ai tuoi tanto amati dei? –
Percy lo guardò in faccia con tutta la cattiveria di cui era capace, e Crisaore sembrò perdere tutta la sua spavalderia.
-Non credo ti concederò l’onore. – sibilò il ragazzo, stringendo la presa sul manico della spada.
Non ebbe nessuna pietà. Spinse la lama con tutta la forza che aveva a penetrare la carne tenera della gola di Crisaore, finché la lama non si piantò nel legno della nave.
L'uomo tentò di urlare, ma il suono non riuscì a propagarsi, perché morì sul colpo.
 
Arrivarono a Roma.
E Percy dovette vedere Annabeth partire per la sua missione impossibile.
Ma mentre la guardava andarsene, mentre la vedeva allontanarsi da lui, pensò che lei ce l’avrebbe fatta. Aveva bisogno di credere che lei sarebbe tornata.
E nonostante non avrebbe dovuto, corse verso di lei.
Le strinse delicatamente il polso, facendola voltare.
La ragazza lo guardò sorpresa, ma sospirò inevitabilmente quando il ragazzo la baciò.
-Ci vediamo dall’altra parte. – sussurrò il ragazzo. -So che ce la farai. –
Ma nonostante la speranza e fiducia che aveva infuso ad Annabeth e a sé stesso, le cose da allora non fecero che peggiorare.
Sì, lui, Piper e Jason riuscirono ad uscire dal ninfeo, ma solamente dopo essere stati ad un passo dal morirci dentro.
Erano anche riusciti ad uccidere i due giganti, e Leo, Hazel e Frank si ricongiunsero a loro sani e salvi. Salvarono anche Nico, ma lo avevano trovato pochi secondi prima che fosse troppo tardi, e il ragazzo era in fin di vita. Percy lo aveva preso tra le braccia e non lo aveva lasciato andare finché il ragazzino non si svegliò.
Avevano pochissimo tempo per raggiungere Annabeth, ma Percy lottò con le unghie e coi denti pur di raggiungere la ragazza in tempo.
E poi, alla fine, il figlio di Poseidone dovette fare i conti con il destino più brutto al quale un semidio poteva andare incontro.
Quando trovarono Annabeth, Percy nemmeno aspettò che calassero la scaletta.
Si buttò giù, e corse verso di lei. Annabeth era rimasta a terra, tremava, e aveva lo sguardo puntato oltre l’abisso. Sembrava inorridita, terrorizzata.
Percy le si avvicinò piano, e chiamò con dolcezza il suo nome.
La ragazza si voltò improvvisamente, e Percy vide i suoi splendidi occhi d’argento riempirsi di lacrime.
-Percy… - mormorò la ragazza, e cercò di strisciare verso di lui.
Il figlio di Poseidone vide solo allora che Annabeth aveva la caviglia fasciata e inusabile.
Corse verso di lei, lasciò a terra la sua spada e si inginocchiò al suo fianco stringendole con delicatezza le spalle e la mano.
Annabeth seppellì il viso nel suo petto, e pianse.
Percy le accarezzò i capelli con dolcezza, baciandole ripetutamente la fronte.
-Sei stata bravissima Annie. – mormorò. -Va tutto bene ora. Siamo insieme… -
Annabeth annuì, e Percy si ritrovò a sorridere.
I loro compagni si radunarono intorno a loro, e Percy lesse un profondo sollievo sul viso di Annabeth.
La ragazza raccontò loro della sua impresa, e tutti rimasero affascinati dalla sua ammirevole conquista. Annabeth era stata la prima figlia di Atena a ritrovare la statua, che ora si ergeva splendente davanti a loro.
La ragazza li pregò di portare la statua lontano da lì, e tutti corsero alla nave.
E da allora, tutto degenerò in pochi istanti.
Annabeth aveva una ragnatela legata alla caviglia. Una ragnatela il cui filo cadeva fin dentro all'abisso alle loro spalle.
E nessuno lo aveva notato in tempo.
Annabeth si sentì strattonare la caviglia, e il dolore le spezzò il fiato in gola. Aveva la mente così annebbiata dal male che non si rese conto di star scivolando lontano dalle braccia di Percy.
E in quel momento, quando la ragazza venne improvvisamente strattonata e trascinata verso il baratro, Percy percepì tutti i suoi sensi scattare come molle.
Si buttò verso Annabeth, e cercò di afferrarla.
Ma la ragazza scivolò oltre il ciglio, dritta nell'abisso, e Percy fece la cosa più disperata e avventata della sua vita.
Si buttò oltre il bordo, e si tuffò verso di lei.
In un gesto dettato dalla disperazione le afferrò il braccio con la mano destra, e con la sinistra riuscì ad afferrare una minuscola sporgenza sulla roccia.
Il contraccolpo gli avrebbe dovuto rompere il braccio. Ma il suo corpo d'acciaio resse lo strappo, e lui ed Annabeth rimasero sospesi nel vuoto.
Annabeth, nonostante la caviglia sembrasse ad un passo dallo staccarsi dal suo corpo facendole tanto male da sentire le ossa della gamba gelarle, rimase ad osservare la scena sopra di lei con occhi febbricitanti.
Sentiva e vedeva gli altri ragazzi sporgersi verso di loro urlando, ma sapeva che non potevano fare nulla.
Erano caduti troppo in basso, la forza che la stava trascinando era troppo forte, e lei sapeva che nemmeno Percy avrebbe potuto contrastarla. Non per sempre.
-Percy… - mormorò delirante. -Lasciami andare… -
-No! –
Annabeth lo guardò, e nonostante avesse i capelli pieni di polvere e ragnatele e il viso teso dallo sforzo ricoperto di terra e sangue, lei pensò che fosse più bello che mai.
Il suo eroe dallo sguardo di tempesta.
Il ragazzo la stava guardando a sua volta, con disperazione, fatica e paura. Poi, anche lui alzò lo sguardo verso il bordo sopra di loro.
Là, c'erano Nico ed Hazel, il ragazzo sporto a guardarli con lo sguardo più orripilato che Annabeth gli avesse mai visto dipinto in viso.
-Nico! – urlò Percy con tutto il fiato che aveva in gola.
Il figlio di Ade rimase a guardarli paralizzato.
-Portali dall’altra parte Nico! – urlò Percy. -Ci vediamo dall’altra parte! –
Nico aveva il labbro inferiore che tremava, gli occhi spalancati all'inverosimile.
-No… Percy ti supplico non… -
-Ti prego Nico! Promettimelo! – urlò con frustrante dolore il ragazzo.
Nico lo guardò, e Annabeth lesse un dolore indescrivibile nelle sue iridi.
-Ok… - mormorò il figlio di Ade. -Lo... lo prometto… -
Percy rimase ad osservarlo per un interminabile istante, e Annabeth sospettò che avesse tentato di sorridere incorraggiante al figlio di Ade.
Poi, il ragazzo si voltò verso di lei.
-Anche io ti ho fatto una promessa… - sussurrò lui, gemendo dallo sforzo. -Non dovremo mai temere nulla… -
Annabeth annuì, e nonostante le lacrime che le scorrevano sulle guance, sorrise.
-Perché saremo insieme. –
Percy non sorrise, e non pianse.
Semplicemente, lasciò andare la presa sulla roccia e loro caddero nel Tartaro.
Il ragazzo strinse Annabeth a sé, e mentre precipitavano verso la morte lui rimase ad osservare, forse per l’ultima volta, la luce del sole che si faceva sempre più fioca e sempre più lontana.
Una voce sibilante gli rimbombò nel cervello.
Goditi il Tartaro, Eroe dell’Olimpo.

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Capitolo 12
*** La Casa di Ade ***


La Casa di Ade

Percy percepì l’acqua per miracolo.
Mentre lui ed Annabeth sembravano cadere verso il nulla più assoluto, Percy desiderava solo potersi svegliare da quell’incubo.
Non sapeva se la loro caduta fosse durata minuti, ore o settimane, ma più il buio li avvolgeva più lui percepiva il terrore serrargli le viscere.
La roccia intorno a loro sembrava pulsare di sangue vivo, l’odore di morte gli penetrava nei polmoni e l’oscurità gli faceva pietrificare il cuore dalla paura dell’ignoto.
L’unica sicurezza che Percy aveva, era il corpo di Annabeth che stringeva a sé quasi disperatamente. Aveva seppellito il viso nell’incavo della sua spalla, gli occhi chiusi dal vento che gli sferzava dolorosamente il viso.
Annabeth lo stringeva con la stessa forza, e dopo qualche secondo Percy percepì il viso della ragazza voltarsi verso il suo orecchio.
Annabeth singhiozzò tenuamente: -Ti amo… -
Percy avrebbe voluto risponderle, ma era come se avesse la gola serrata.
La strinse ancora di più a sé.
Ci siamo, pensò, è la fine.
Ma poi, la luce cambiò.
Percy se ne rese conto quando, aprendo appena gli occhi, riuscì a scorgere il profilo del viso di Annabeth, improvvisamente illuminato da una tenue luce vermiglia.
E subito dopo, prima ancora che riuscisse a metabolizzare la cosa, il tunnel di oscurità si aprì intorno a loro.
Il ragazzo si ritrovò a cadere in un’enorme camera scavata nella roccia.
Percy per un istante fu troppo sconvolto per pensare lucidamente, i suoi occhi assorbivano le immagini senza che la sua mente riuscisse a comprenderle.
Quella caverna era grande abbastanza grande perché non riuscisse a vederne la fine. Caddero attraverso una nebbia di nuvole rosse come sangue, e all’orizzonte Percy distinse i piani di roccia scura come ossidiana e delle montagne frastagliate nere come pece, interrotte da delle faglie abissali nel terreno che brillavano di fuoco vivo. Sotto di loro, il terreno si infossava ancora di più con una serie di dirupi a gradino.
Percy rimase a fissare ad occhi spalancati l’abisso, e il suo sgomento gli fece quasi dimenticare di star cadendo verso la morte.
E poi, improvvisamente, Annabeth si mosse al suo fianco:
-Percy! – si sentì urlare all’orecchio. -L’acqua! –
Acqua?
Percy si voltò a guardare Annabeth, gli occhi vacui e annebbiati.
I suoi sensi sovraccaricati sembrarono improvvisamente tornare lucidi. Percepì il fiume.
Ed era troppo vicino.
Il suo sguardo d’un tratto terrorizzato si puntò sull’acqua che scorreva sotto di loro.
Il suo cervello riuscì solamente a realizzare che a quella velocità, l’impatto con l’acqua sarebbe stato letale.
All’ultimo secondo, urlò con sfida, e il fiume eruttò in un’onda gigante che li inghiottì completamente.
Quando l’acqua si schiantò contro la sua pelle, Percy scoprì che nonostante avesse vissuto un intero inverno dormendo per strada, lui non aveva idea di cosa fosse il vero freddo.
Sembrò penetrargli nella pelle come delle pugnalate, e nonostante lui potesse respirare sott'acqua trattenne il fiato. Forse perché ora la sentiva ignota e ostile, così tanto da fargli credere che l’avrebbe ucciso.
Lottò disperatamente per riportare la testa sopra la superficie, e quando emerse spalancò la bocca alla ricerca d’aria.
-Annabeth! – urlò mentre tentava di tenere la testa a galla. Il fiume lo stava trascinando giù, verso il fondo, e lui non riusciva a contrastarlo.
-Percy! – si sentì chiamare, e cercò di voltarsi verso il suono.
Annabeth era alle sue spalle, e lei si aggrappò alla sua spalla perché la corrente non li separasse. La ragazza stava battendo i denti dal freddo, aveva le labbra viola.
Ma Percy era invincibile, e non sarebbe stato il freddo ad ucciderlo.
Furono le voci a portarlo ad un passo dalla morte.
All’inizio non erano altro che un debole bisbiglio, ma mentre lui cercava disperatamente di tenere Annabeth e sé stesso a galla queste si fecero così forti da rimbombargli nella testa, dilanianti e sibilanti.
-Lasciati andare! Smettila di combattere! – gridarono le voci agonizzanti.
E Percy si sentì staccare dalla realtà.
-Non ne vale la pena! - sentì urlare ancora. -È sempre stato tutto inutile… -
Gli mancò il fiato, i polmoni incominciarono a bruciargli.
L’acqua lo sommerse.
E un ricordo gli annebbiò la mente.
Si ritrovò di nuovo sul ponte di Brooklyn, con la spada e lo scudo in mano che brillavano sotto alla luce vermiglia dell’alba. I suoi compagni si erano ritirati a qualche metro dietro di lui, molti di loro feriti. I rinforzi non erano ancora arrivati.
E lui era là, in mezzo al campo di battaglia, in attesa. Di fronte a lui, all’altra estremità del ponte, c’era l’esercito di Crono. Centinaia, forse migliaia di semidei e mostri, armati fino ai denti e con gli occhi iniettati di sangue.
Un solo semidio, di fronte ad un esercito di migliaia.
Aveva già combattuto fino allo strenuo, aveva già perso troppi dei suoi compagni, ed era così stanco.
Ma nonostante quello, lui era ancora là. In piedi, pronto a combattere. Ma un solo uomo non poteva vincere contro un’intera armata.
Non si era mai sentito così insignificante, così impotente.
Era un condannato a morte.
E rivivere quel momento, fece nascere in lui lo stesso desiderio che aveva avuto allora: avrebbe solo voluto lasciarsi cadere a terra, arrendersi, lasciare che lo uccidessero.
-Si! – sentì urlare ancora. -Non importa… alla fine non importa mai. Finirà sempre così… –
Il ricordo scomparve, il buio incominciò ad inondargli la mente.
-Percy! –
Il ragazzo si ritrovò a riemergere dall’acqua, e per istinto boccheggiò alla ricerca d’aria.
Vide Annabeth che lo stringeva a sé cercando disperatamente di non lasciarlo affondare.
-Percy reagisci! – gli urlò lei.
Ma Percy sentiva la sua voce così lontana, la sua vista si faceva sfocata.
-Non ha importanza. – mormorò lui. -È sempre stato inutile… -
-No! Percy non ascoltarli! –
Percy la guardò con debole sorpresa: -Le senti anche tu? –
Annabeth sembrava sull’orlo delle lacrime.
-Si Percy! Ma noi dobbiamo arrivare a riva! Dobbiamo andarcene da qui! –
Il ragazzo si sentì sprofondare, il suo tentativo di restare a galla era debole.
-Perché…? – disse nel delirio.
Perché andarsene?
Là fuori li aspettava un'altra guerra, che sarebbe stata esattamente come quella precedente. Disseminata di morte e dolore. L’ultima volta, lui aveva vinto grazie alla disperata convinzione che se avesse vinto, avrebbe potuto vivere al sicuro e in pace per la prima volta in vita sua.
Ma aveva imparato la lezione. Era una speranza illusoria e irreale.
-Perché dobbiamo tornare a casa. – disse la ragazza, stringendogli il viso tra le mani tremanti. -Ti ricordi, vero? Dobbiamo tornare al Campo Mezzosangue. –
Percy sentì la corrente del fiume farsi più debole. I ricordi più belli della sua vita incominciarono a riempirgli la mente.
Lui aveva una casa, e una famiglia che contava su di lui. Lui aveva Annabeth.
-Dobbiamo tornare a casa. – mormorò ancora.
-Si!- disse Annabeth guardandolo negli occhi. -Ci stanno aspettando! -
Percy annuì, e incominciò a nuotare verso la riva.
Le voci erano assordanti, ma lui mise tutte le sue forze nel rimanere ancorato alla realtà. Continuò a nuotare, seguendo Annabeth, il suo punto fermo.
-Devi ancora mantenere la tua promessa. – mormorò Percy.
Annabeth corrugò la fronte, ma non smise di avanzare: -Di cosa parli? –
-Avevi promesso che avresti aiutato me e Grover… - aggiunse lui. -Dobbiamo rubare il televisore dalla Casa Grande per guardare Alla Ricerca di Nemo. –
E Annabeth rise. Una risata cristallina e sincera.
E intorno a loro l’acqua si ritrasse, spingendoli verso riva.
Percy si chiese se nessuno avesse mai riso nel Tartaro, e sorrise a sua volta.
Quando raggiunsero la riva, si gettarono a gattoni sulla terraferma. Percy si lasciò cadere a terra ansimando, pronto a rimanere lì finché la sua testa non avrebbe smesso di pulsare.
Ma avrebbe dovuto prevederlo. Avrebbe dovuto sapere che quello era solo l’inizio. E che non esisteva pace in quel luogo.
Infatti, dopo un lampo di silenzio, Annabeth al suo fianco urlò.
Percy aprì di scatto gli occhi, e si voltò verso di lei con il cuore in gola.
-Annabeth?! – la richiamò, e la vide alzarsi freneticamente in piedi, stringendosi le mani al petto e serrando gli occhi dal dolore.
Percy si alzò a sua volta, e corse di fronte a lei. Le toccò delicatamente le mani, e lei lasciò che il ragazzo le guardasse. Alla vista del sangue lui si irrigidì.
Annabeth aveva le mani tremanti e macchiate di rosso scuro, i palmi e le dita piene di tagli corti e profondi che sanguinavano copiosamente.
Percy guardò poi il terreno, e solo allora se ne rese conto.
Sotto ai loro piedi, la terra era ricoperta da frammenti e schegge nere, che scintillavano alla luce tenue dell’abisso vitree, taglienti e acuminate.
E come se non bastasse, quando tornò a guardare Annabeth, la vide ansimare. Ogni volta che la ragazza inspirava il suo fiato emetteva un suono raschiante, come se l’aria le graffiasse la gola. Il ragazzo restò a fissarla per un breve e orribile istante, guardando impotente la pelle del suo viso e delle sue braccia che si riempiva di piaghe.
Percy sentì il cuore stringerglisi, mentre il panico lo assaliva.
Annabeth si stava osservando le braccia mugolando dal dolore, ma i suoi occhi rimanevano spalancati e pieni di paura.
Il ragazzo realizzò l’orrore in cui erano piombati.  
La terra era tagliente, e l’aria era tossica, e lui era immune a tutto quello solo grazie alla sua invincibilità.
Ma non Annabeth.
Lei stava morendo, e il pensiero gli fece venire la nausea.
Non si erano mai trovati in una situazione simile.
E lui non aveva idea di come sarebbero sopravvissuti in un luogo dove ogni singola cosa era fatta per essergli letale. Tutto laggiù lavorava contro di loro, e tutto sembrava attentamente creato per ucciderli.
Per la prima volta dopo tanto tempo, non aveva idea di cosa fare.
-Ehi, ehi… - mormorò alla ragazza, tentando di mantenere la calma. -Va tutto bene Annie, adesso troviamo il modo di…–
La ragazza sembrava soffocare lentamente: -Non riesco… non riesco a respirare…l’aria… -
-Lo so. - disse lui. -Ma ci deve essere una soluzione, persino qui. –
Annabeth rimase in silenzio, e Percy si rese conto che nonostante la ragazza avesse le mani piene di tagli, le stava stringendo alle sue con tutta la forza che aveva.
Poi, lo sguardo stanco della ragazza si puntò alle sue spalle, e un barlume si accese nei suoi occhi arrossati e gonfi.
-Percy, guarda… - mormorò.
Il figlio di Poseidone si voltò all’istante seguendo i suoi occhi, e guardò giù, oltre i gradoni di pietra che si infossavano ancora più giù nell’abisso. E vide un altro fiume.
Un fiume di fuoco, nel quale le fiamme vive scorrevano seguendo la corrente come lava.
-Si, forse è meglio se ci allontaniamo da quello. –
-No! – esclamò Annabeth, e Percy la guardò insicuro, ma lei continuò. -Quello è il Flegetonte. –
Percy sorrise appena, seppur forzatamente: -Carino il nome. –
Annabeth inspirò profondamente: -È il fiume dei dannati, dove loro vengono puniti. –
-Questo non dovrebbe incentivarci a non avvicinarci? –
-Teoricamente sì. – disse lei, tossendo. -Ma alcune leggende parlano del fatto che il fiume mantenga interi i dannati così che possano sopportare le torture per l’eternità, come punizione per i loro crimini. –
Percy si voltò di nuovo a guardare il fuoco liquido che scorreva in lontananza sotto di loro.
-Stai dicendo che potrebbe mantenere interi anche noi? –
-Sì. – disse la ragazza, e Percy la vide oscillare lievemente col corpo. Le strinse le spalle, cercando di tenerla in piedi.
Il ragazzo decise in quell’istante che dovevano raggiungere quel fiume, e in fretta.
Doveva salvare Annabeth da quell’inferno a qualunque costo. Doveva portarla via da lì, e viva. Si fidava di lei più di quanto non si fidasse di sé stesso, e anche se la sua era un’idea potenzialmente letale e forse infondata, avrebbero dovuto tentare.
Tanto, non avevano nulla da perdere. L’aria li stava già uccidendo.
-Perfetto. Allora proviamo a scendere. –



Era notte fonda, quando Jason si rifugiò sul ponte della nave.
Erano ripartiti dall’Italia da poche ore, diretti verso la Grecia, e l’atmosfera sulla nave era opprimente e satura di tristezza.
Da quando avevano rimesso piede sull’Argo II, non c’erano stati né sorrisi né risate. Sembrava che tutti fossero costantemente sul punto di piangere da un momento all’altro, e per questo nessuno osava parlare.
Avevano fatto il punto della situazione, si erano incolpati per l’accaduto e Nico li aveva spronati a ricominciare il viaggio, e poi era piombato il silenzio tra di loro.
Jason non era diverso dagli altri.
Il giorno prima, quando Percy ed Annabeth erano caduti nel Tartaro, si era sentito impotente e inutile come non mai. Aveva permesso che due suoi più cari amici cadessero verso la morte, e l’idea non lo faceva dormire la notte.
Infatti, ci aveva rinunciato da molte ore.
La luna era ancora alta nel cielo quando si decise ad alzarsi del letto, per poi vestirsi e prendere la spada diretto verso il ponte.
Quando uscì, il vento fresco gli accarezzò il viso, la luce calda delle torce appese al bordo gli illuminò gli occhi.
Aveva bisogno di scaricare tutta la sua frustrazione.
Roteò la spada nella mano per un’istante, prima di mettersi in posizione. Immaginò un avversario di fronte a lui, e alzò l’arma davanti a sé. Si lanciò all’attacco.
Mentre menava colpi quasi completamente alla cieca, la sua mente iniziò a correre insieme a lui.
Pensò a Percy ed Annabeth.
I Sette non potevano essere gli stessi senza di loro.
Percy era quello che insieme a Leo li faceva ridere, a volte anche nei momenti meno appropriati, ed era quello che riusciva a infodere sicurezza e calma in ognuno di loro. Aveva anche avuta una capacità straordinaria nell'unirli come una famiglia. Annabeth li aveva sempre aiutati al meglio nel risolvere i problemi, c'era stata per tutti quando più ne avevano bisogno.
Erano gentili e amichevoli, buffi a volte, e sopratutto dei leader eccezionali.
E Jason aveva imparato a volere bene ad entrambi. Erano diventati suoi amici, e lui li aveva lasciati indietro.
Venne distratto dai suoi pensieri quando sentì dei passi alle sue spalle.
Di fronte a lui, con la spada nera legata al fianco, c’era Nico.
Il ragazzo lo guardava con aria appena divertita, e per qualche ragione la cosa sorprese Jason.
-È difficile allenarsi quando non si ha niente da attaccare, non trovi? – disse il figlio di Ade con tranquillità.
Jason si riebbe, e si tese inevitabilmente.
Avere Nico vicino lo metteva sempre a disagio. Era schivo, misterioso e solitario, e l’aura di energia che lo circondava era ignota e sinistra tanto da inquietarlo.
-Sì… sì è così. – riuscì a rispondere.
Nico sorrise debolmente, e Jason lo guardò con attenzione.
La luce delle torce gli danzava sul viso rendendo ancora più evidente quanto scarno fosse, ma il ragazzo notò con particolare preoccupazione gli occhi del più giovane.
Era infossati, cerchiati da spesse occhiaie violacee, come se non dormisse da giorni. Il suo sguardo esprimeva una debole traccia di divertimento, ma ora che lo osservava con più attenzione si rese conto che era solamente un velo. Dietro a quella scintilla, il suo sguardo era scuro e tormentato come l’inferno.
-Vuoi una mano? – esordì Nico, distogliendolo dai suoi pensieri.
Jason lo fissò spiazzato.
-In che… -
-Se vuoi che mi alleni con te. – chiarì Nico. -Mi farebbe bene, e tu potresti avere una persona vera su cui scaricare le tue frustrazioni. –
Il figlio di Giove lo guardò con uno sguardo particolarmente incerto.
Nico stava meglio rispetto a quando lo avevano salvato a Roma, ma rimaneva comunque magro e debole come un sopravvissuto della fame. E vedendolo così, Jason temeva che al minimo movimento troppo affrettato Nico sarebbe crollato come una statua di vetro.
-Sei sicuro Nico? Forse… -
-Dai Jason. – lo incalzò il ragazzo, sguainando la spada dal fodero. -Ci andrò piano con te. –
Il figlio di Giove osservò la sua spada completamente nera, e per un’istante ne rimase ammaliato. La lama era vitrea, e nera come ossidiana, mentre l’elsa finemente lavorata era opaca e ancora più scura.
-D’accordo. – asserì, mettendosi in guardia.
E Nico lo attaccò senza aspettare un secondo di più.
Il ragazzo gli fu addosso con grinta disarmante, tanto che Jason riuscì a fermarlo appena in tempo.
Il figlio di Giove si ritrovò presto a rendersi conto di aver sottovalutato le capacità di Nico.
Era magro e fragile, ancora indebolito da tutto quello che aveva passato, ma sapeva lavorare d’astuzia.
E nonostante fosse rallentato dal corpo che non era in grado di sostenere uno sforzo maggiore, Nico schivava e intercettava ogni suo colpo, a volte ancora prima che Jason potesse avvicinarglisi abbastanza da colpirlo.
Questo portò Jason a provare una bizzarra sensazione di déjà-vu.
Mentre combatteva con Nico, scoprì che quella tecnica gli era familiare.
Il modo di muoversi e di danzargli intorno del figlio di Ade, le sue finte e la sua sorprendente capacità di prevedere i suoi attacchi, componevano uno schema che il figlio di Giove conosceva.
Jason si ritrovò incredulo, e realizzò che lui aveva già combattuto contro qualcuno che si muoveva in modo simile a Nico. Jason conosceva quel modo di combattere. Qualcuno che aveva affrontato combatteva in quel modo.
Qualcuno che lo aveva quasi ucciso.
Un sospetto si fece strada nella mente del ragazzo, ma scacciò il pensiero. Voleva solo continuare a combattere.
E infatti continuarono, ancora e ancora, tanto che il sole alle loro spalle stava ormai sorgendo.
Questo finché Nico non gemette di dolore. Il ragazzino si allontanò da lui improvvisamente, abbassando la spada e tossendo.
Jason sgranò gli occhi dalla preoccupazione, e abbassò a sua volta l’arma.
-Nico?! -
Il figlio di Ade barcollò fino all’albero maestro alle sue spalle, ansimando, e si appoggiò al legno lasciandosi scivolare a terra.
-Ehi Nico, va tutto bene? – chiese con agitazione, correndo verso di lui.
Il ragazzo annuì con gli occhi serrati, la bocca spalancata alla ricerca d’aria.
Jason si fermò di fronte a lui, e dopo qualche istante di incertezza gli si sedette accanto.
Dopo alcuni istanti il più giovane riacquistò fiato, la sua espressione dolorante si affievolì.
Il figlio di Giove lo guardò: -Va meglio? –
Nico annuì: -Sì tranquillo, ho solo esagerato. –
-Il tuo corpo non è ancora guarito. – mormorò il figlio di Giove. -Scusami, avrei dovuto… -
-Non dirlo.– lo interruppe Nico, appoggiando stancamente la testa all’albero maestro dietro di sé. -Mi ha fatto piacere.–
Jason sorrise lievemente: -Anche a me. Grazie per esserti allenato con me. –
Nico annuì solamente, chiudendo gli occhi.
Il figlio di Giove lo osservò per un istante, e non seppe trattenere la sua curiosità.
-Dove hai imparato a combattere così? –
Il figlio di Ade si voltò lentamente a guardarlo, e lui rabbrividì sotto al suo sguardo così penetrante.
-Perché me lo chiedi? –
Jason si strinse nelle spalle: -Il tuo modo di combattere mi ha sorpreso. È simile a... a quello di... -
-A quello di Percy. - rispose Nico, e il figlio di Giove annuì in risposta.
Il più giovane non disse più nulla, e Jason si sentì in dovere di aggiungere qualcosa.
-Avete avuto lo stesso insegnante? -
Nico distolse lo sguardo dal suo viso, e lasciò che i suoi occhi vagassero sul mare che scintillava sotto alla luce aranciata del sole.
Jason lo vide sorridere, un sorriso amaro eppure allo stesso tempo così sincero.
-È stato lui il mio insegnante. Percy mi ha insegnato a combattere con la spada. -
 

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Capitolo 13
*** Fiamme d'Inferno ***


Fiamme d'Inferno

Annabeth si chiese che cosa avesse fatto di male per meritarsi un simile destino.
Laggiù, lei era quasi morta solamente respirando, e l’unica soluzione era stata bere l’acqua infuocata del Flegetonte, e anche quella era stata una delle esperienze peggiori della sua vita.
Ma ora che riusciva a reggersi in piedi e a respirare, si rese conto della gravità della loro situazione.
In quel breve e surreale attimo di quiete, i suoi occhi vagarono sul paesaggio intorno a loro, osservando con demoralizzazione i monti scuri e frastagliati che si stendevano nella valle sotto di loro insieme a fiumi scuri come sangue, il tutto illuminato da una tenue e inquietante luce rossastra.
Annabeth realizzò solo allora quanto vasto fosse il Tartaro. La terra nera si estendeva intorno a loro per miglia e miglia, senza una fine.
Annabeth rilassò stancamente le spalle.
Avrebbe voluto ridere: loro, completamente soli, stavano vagando alla cieca nell’unico posto in cui due semidei non dovrebbero mai trovarsi.
-Stai meglio? –
Annabeth sussultò nel sentire la voce di Percy, e distogliendo lo sguardo dal tetro orizzonte del Tartaro si voltò verso di lui.
Il ragazzo le cinse gentilmente la vita con un braccio, accarezzandole lievemente il fianco con le dita. I suoi occhi verdi rilucevano alla luce del fuoco del fiume ed erano fissi nei suoi.
-Sì… - mormorò lei, e per un istante si perse a guardarlo.
Il suo bel viso era sporco di sangue e terra, aveva i capelli spettinati e gli occhi vigili, ed Annabeth si soffermò sulla cicatrice che gli attraversava il lato sinistro del volto, così evidente alla luce dalle fiamme danzanti.
Era bellissimo, in tutta la sua dannazione.
Il ragazzo le sorrise incoraggiante, e si sporse verso di lei per baciarle dolcemente la fronte. Fu un gesto così premuroso e pieno di amore che Annabeth si sentì tremare le gambe.
Sorrise a sua volta.
-Che facciamo ora? – chiese Percy guardandola, la voce bassa e roca.
Annabeth riportò lo sguardo sulla valle, e sospirò.
-Dobbiamo trovare una direzione da seguire. Trovare le Porte della Morta girando a caso è impossibile, e letale. –
Percy annuì osservando l’orizzonte: -Hai idea dove potrebbero essere? –
-Sì. Credo che si trovino nel punto più profondo del Tartaro. –
-Anche i fiumi. – mormorò il ragazzo in risposta, gli occhi fissi sulla valle.
Annabeth si voltò verso di lui stranita: -Cosa intendi? –
-Tutti i fiumi scorrono nella stessa direzione, e convergono nello stesso punto. –
-Quindi se seguissimo la corrente del Flegetonte… -
-… può portarci alle Porte della Morte. – concluse Percy per lei, sorridendole.
Annabeth lo guardò ghignando: -Siamo proprio una bella squadra. –
Percy ridacchiò: -Nulla di nuovo Sapientona. –
In quel momento, Annabeth pensò che potessero farcela. Insieme, forse avevano una speranza di andarsene.
Ma quell’attimo di speranza non era destinato a durare.
Quello che accadde dopo fu così veloce che lei stessa non ebbe nemmeno tempo di reagire.
Percy perse improvvisamente il sorriso. Lo sguardo del ragazzo saettò alle spalle di Annabeth e i suoi occhi si spalancarono.
Annabeth si girò di scatto, appena in tempo per vedere una macchia scura che si gettava contro di lei, un corpo enorme dagli occhi neri e scintillanti e dalle lunghe zampe uncinate.
Aracne, pensò la ragazza pietrificata dal terrore, È tornata per finire il suo lavoro.
Ma poi, sentì solo il sibilo metallico di una spada che veniva sguainata alle sue spalle.
Percy si materializzò di fronte a lei, e fece saettare Vortice sopra di sé in un mortale arco di bronzo. Fu così veloce che la figlia di Atena non riuscì a seguirlo con lo sguardo.
Riuscì solo a sentire un agghiacciante grido di dolore, che riecheggiò tra i monti scuri intorno a loro. E Aracne cadde esattamente dietro di lei.
Annabeth si voltò di scatto, ma quando la vide agonizzare ai suoi piedi arretrò con gli occhi sgranati.
L’addome della creatura era stato squarciato, tanto che il suo corpo rimaneva intero solo grazie ad un lembo di pelle all’altezza della schiena. Le sue interiora si stavano spargendo sulla terra in mezzo all’icore, ma Aracne continuava a gemere e a strillare dal male.
I suoi arti si contorcevano, i suoi occhi erano sgranati e la sua bocca spalancata sputava sangue ad ogni urlo.
Annabeth la guardò con orrore.
Come poteva essere ancora viva?
E la risposta alla sua domanda era esattamente dietro di lei.
Si voltò a guardare Percy.
Gli occhi del ragazzo erano così scuri da sembrare neri, ed erano fissi sul corpo devastato e moribondo della donna ragno. Aveva la mascella serrata, i muscoli del corpo tesi e pronti allo scatto, e teneva la spada stretta in mano con tanta forza da avere le nocche sbiancate.
Annabeth conosceva quello sguardo. Conosceva quell’espressione.
La sta tenendo in vita. Per prolungare la sua sofferenza.
-Percy… - mormorò. -Smettila. –
Il ragazzo non si voltò nemmeno a guardarla, mantenendo gli occhi fissi su Aracne, ma si fece avanti.
Annabeth era così paralizzata ad osservarlo che per un istante le strazianti urla del mostro si fecero ovattate.
-È per colpa sua se tu sei finita qui. – ringhiò il ragazzo con una voce così gutturale da non sembrare sua. -Dopo tutto quello che ti ha fatto… merita di soffrire, merita di morire lentamente desiderando di non averti mai incontrata. –
Annabeth lo guardò gli occhi lucidi e vacui.
Era dalla battaglia di New York che non vedeva il ragazzo agire con tale sete di vendetta.
E ogni volta che Percy si lasciava andare a tutta la sua rabbia, Annabeth si sentiva morire. Perché vedeva il ragazzo di cui si era innamorata trasformarsi nel suo lato più crudele e spietato, un lato che Annabeth sapeva non sarebbe esistito se Percy non avesse avuto una vita così difficile.
-Percy, non farlo. – mormorò, cercando di esprimere una sicurezza che però non aveva.
Il ragazzo continuava a guardare Aracne, il suo sguardo si fece ancora più duro e feroce. E il mostro urlò con ancora più forza.
-Basta… - singhiozzò Aracne boccheggiando. -Uccidimi ti prego… -
-Percy! – lo richiamò Annabeth, e stavolta si mise di fronte a lui.
Gli prese il viso tra le mani, e lo costrinse a guardarla negli occhi. Lo guardò con tutta la sua disperazione, con tutto il suo amore.
-Percy, tu non sei questo. – disse lei. - Noi siamo vivi e siamo insieme, ed è l’unica cosa che conta. –
Il ragazzo la guardò, respirando profondamente.
I suoi occhi erano insostenibili, così carichi di rabbia pura da essere spaventosi.
Poi li serrò con forza, e fu allora che il mostro alle spalle di Annabeth si disintegrò. Il suo corpo si dissolse in polvere, le sue urla cessarono, e il silenzio cadde tra di loro.
Il vento portò via il corpo disintegrato di Aracne, ma Annabeth non lo vide.
Rimase ad osservare Percy negli occhi, accarezzandogli dolcemente il viso.
Continuò a farlo, finché il ragazzo non riaprì gli occhi. Non brillavano più di odio, erano verdi e stanchi come un mare dopo la tempesta.
La figlia di Atena gli sorrise, e Percy lasciò che le loro fronti si toccassero.
-Grazie. -

E la loro discesa nel Tartaro incominciò. Percy seguì Annabeth tenendole la mano, e insieme avanzarono lungo il fiume che scendeva sempre di più verso la valle.
Annabeth sembrava stare bene, nonostante fosse debole e la caviglia malamente guarita le causasse spesso delle fitte dolorose.
Ma ora anche Percy iniziava ad accusare colpi.
Perché per quanto non potesse essere ferito, lui era esausto.
Avanzava debolmente, ogni sua energia era spesa nel mantenere i suoi sensi vigili per poter captare qualunque pericolo. Non si lasciava sfuggire il minimo rumore o movimento, e questo prosciugava le sue forze rendendolo paranoico.
Ma presto, i suoi sensi gli tornarono utili.
Sentì la terra sotto ai suoi piedi vibrare quasi impercettibilmente, e si bloccò sul posto. Annabeth al suo fianco si fermò a sua volta guardandolo.
La terra tremolò ancora, e Percy capì che era un vibrare troppo ritmico per essere casuale.
Annabeth diede voce ai suoi pensieri: -C’è qualcosa di molto grosso che avanza. –
Percy si pietrificò: -E sta venendo verso di noi. –
E in quel momento, quel qualcosa urlò.
Lui ed Annabeth si voltarono nello stesso istante.
-Percy Jackson! -
Da dietro ad una frattura nella parete di roccia nera che costeggiava il fiume, sbucò un Titano.
Il figlio di Poseidone non seppe se ridere istericamente o piangere.
Ma decise di non fare nessuna delle due.
Non appena realizzò che l’enorme uomo davanti a loro era un Titano, non si prese nemmeno la briga di guardarlo attentamente.
Prese Annabeth per la mano e incominciò a correre nella direzione apposta.
Non aveva idea di cosa fare.
Ma corse, tenendo Annabeth a sé, inciampando sulle rocce frastagliate del terreno senza però fermarsi.
Aveva il fiato corto, era stanco, ma non voleva morire. Lui non sarebbe morto lì, e soprattutto non lo avrebbe fatto Annabeth.
Ma l’essere così esausto lo tradì.
Le gambe gli cedettero improvvisamente, inciampò e cadde.
-Percy! – lo richiamò Annabeth, tirandolo verso di lei perché si rialzasse.
Ma il tentativo del ragazzo di rimettersi in piedi era debole, e quando riuscì a rialzarsi e si voltò a guardarsi le spalle il Titano non c’era più.
Per un secondo ebbe la ridicola speranza di averlo seminato.
Ma quando tornò a guardare di fronte a sé, pronto per continuare a correre, il loro cammino venne sbarrato da una scopa di almeno tre metri che si abbatté sulla strada.
Percy sobbalzò, e per istinto strinse la figlia di Atena al suo fianco puntando la spada di fronte di sé.
Osò alzare lo sguardo.
A sbarrargli la strada, c’era un Titano di quattro metri completamente vestito di blu, con i capelli argentei e la barba dello stesso colore. Gli occhi scintillavano come pietre preziose, ma la pelle del suo viso era deturpata dalle cicatrici. Reggeva la scopa davanti a loro, osservandoli da sotto le folte ciglia grigie.
Percy rimase a fissarlo incredulo.
E poi, inaspettatamente, il Titano rise, allargando le braccia e sollevando la scopa in aria.
-Ho trovato Percy! Sono venuto ad aiutare Percy! –
Percy spalancò gli occhi. Per un istante fu troppo spiazzato per parlare.
Annabeth al suo fianco deglutì: -Un Titano ha appena detto di essere venuto ad aiutarti? –
-Sì! – tuonò l’altro, accovacciandosi di fronte a loro.
Percy sentì Annabeth arretrare di scatto, mentre lui rimase fermo dov’era. Era stato così sopraffatto dagli eventi che non si era reso conto di chi avesse davanti.
-Bob?! – esclamò incredulo. -Cosa ci fai qui?! –
Il Titano sorrise entusiasta.
-Bob ha saputo che Percy era qui, ed è venuto ad aiutarlo. –
Annabeth si voltò a guardare il figlio di Poseidone con gli occhi sgranati.
-L’hai davvero chiamato Bob?! – sussurrò. -Pensavo scherzassi. –
Percy le rivolse uno sguardo di ammonimento. Lei sapeva di quella storia, sapeva che Percy aveva combattuto contro Giapeto e che per sconfiggerlo lo aveva trascinato nel Lete.
Il Lete aveva cancellato la sua memoria, e Percy si era trovato davanti ad un Titano convenientemente docile. Gli aveva dato un nome, e lo aveva condotto al Palazzo di Ade perché restasse al sicuro dagli Olimpi e dai semidei sulla terra.
Ma Bob non sapeva del suo passato.
E in quel momento, Percy pensò che fosse meglio se non lo sapesse.
Poi un sospetto si fece strada nella sua mente, e riportò gli occhi su di lui.
-Come facevi a sapere che ero qui? -
-Ho sentito l’odore del mare. – asserì Bob. -Qui nel Tartaro non c’è mai odore di mare. Ma Bob ha ricordato che Percy aveva lo stesso odore, quindi sono venuto! –
Il figlio di Poseidone deglutì nervosamente: -Tu hai sentito il mio odore da… -
-Dal Palazzo di Ade! – rispose con entusiasmo il Titano.
Percy si voltò a guardare Annabeth, e vide che il suo stesso sguardo orripilato era dipinto nelle iridi grigie della ragazza.
Se Bob aveva sentito il suo odore fin da là, voleva dire che qualunque altro mostro nel Tartaro sapeva già da tempo dove loro fossero.
-Ok…bene. - mormorò il figlio di Poseidone col cuore in gola.
Dovevano andarsene, e dovevano farlo in fretta.
-Bob, è pericoloso quaggiù. Perché sei venuto? – chiese con quanta più gentilezza potesse.
Il Titano sorrise, sfoderando una fila di denti bianchissimi e perfetti.
-Perché i semidei non dovrebbero trovarsi qui, quaggiù sono deboli e soprattutto odiati. Ma Percy ha trovato Bob e lo ha portato al sicuro, quindi Bob adesso deve aiutare Percy! –
Il ragazzo rabbrividì, e tese la mano verso quella di Annabeth incrociando le loro dita.
Incontrare il Titano lo aveva messo di fronte ad una situazione che aveva cercato di evitare per tanto tempo. Lui aveva cercato di dimenticarsi di quella storia, di non dover affrontare il fatto che aveva privato dei suoi ricordi Giapeto e poi lo aveva abbandonato a fare lo spazzino negli Inferi.
Era un Titano, sì, ma non giustificava completamente le sue azioni.
-Bob… - mormorò Percy. -È così gentile da parte tua volerlo fare ma… ma io non posso chiederti di fare così tanto per me. –
Bob sembrava confuso: -E perché no? –
-Perché quaggiù è troppo pericoloso. – replicò il ragazzo. -E io non merito un sacrificio simile da parte tua. –
-Ma siamo amici! – replicò Bob.
Percy inspirò profondamente. 
Si voltò a guardare Annabeth, e pensò che c'era una sola che contava. Lei doveva scappare da quell'inferno. 
E Percy si rese conto che forse Bob era davvero l’unica speranza che avevano di riuscire ad andarsene prima che fosse troppo tardi.
In quel momento, prese la sua decisione.
Avrebbe lasciato che Bob li aiutasse.
Era fiero di questa sua scelta?
No, assolutamente no. Ma d’altro canto, lui non andava fiero di tante cose che aveva fatto in vita sua.
-Io posso aiutarvi. – disse il Titano, alzandosi in piedi con allegria. -Vi guiderò verso l’uscita. –
Annabeth si voltò a guardare Percy, e al ragazzo bastò incrociare i loro sguardi perché lei capisse le sue intenzioni.
La ragazza infatti fece un passo avanti.
-Tu sai dove sono le Porte della Morte? – chiese con straordinaria gentilezza.
-Certo! - esclamò Bob, prima che il suo sguardo si facesse più cupo. -Ma non potete andarci così… -
Annabeth lo guardò corrucciata: -Cosa intendi? –
Il Titano la guardò per un istante, e poi volse il suo sguardo verso la valle sotto di loro sospirando.
-Laggiù è pieno di mostri. Stanno uscendo anche loro. E se vi vedono vi mangeranno. –
Percy in risposta ghignò.
Annabeth invece guardò Bob quasi con speranza: -Tu sai come nasconderci? –
-Sì. – esultò il Titano. -Conosco qualcuno che può nascondervi! Seguitemi! –
E Percy si ritrovò a seguirlo sempre più giù nell’abisso.

...

Trovare lo scettro di Diocleziano era stata l’ennesima missione per l’equipaggio dell’Argo II lungo la strada per le Antiche Terre.
Jason era partito insieme a Nico, avevano trovato Favonio ed erano stati condotti dal guardiano dello scettro, il dio dell’Amore.
E Jason, forse perché era esausto o forse perché era nervoso, aveva avuto un brutto presentimento al riguardo fin dall’inizio.
Quando infatti entrarono nella torre di Cupido, Jason si sentì gelare fin nelle ossa.
L’aria era fredda, le pareti della stanza erano spoglie e piene di polvere e ragnatele.
“Allora”
La voce improvvisa gli perforò i timpani come un proiettile. Quando Jason si voltò, dietro di lui non vide nessuno.
Nico gli rivolse uno sguardo incerto, prima di portarsi al suo fianco.
“Siete venuti per lo scettro”
La voce di Cupido era profonda e seducente, ma c’era qualcosa di minaccioso nel suo tono, una malcelata sfumatura di aggressività.
-Cupido? Dove sei?– chiese Jason cercando di celare la sua inquietudine.
Una risata rimbombò tra le pareti della torre.
“Dove meno te lo aspetti” rispose “Come l’amore fa sempre
Nico al fianco del ragazzo sguainò la spada che aveva finora tenuto nel fodero. Sembrava nervoso, e Jason non potè che capirlo.
Lui stesso voleva andarsene il più in fretta possibile.
-Non abbiamo tempo per gli indovinelli. – sibilò infatti il figlio di Giove. -Vogliamo solo lo scettro.  –
Nico lo guardò con rimprovero: -Jason… -
“Oh, Jason Grace… Credevi davvero che sarebbe stato così semplice?”
-Ci spero sempre. – borbottò il ragazzo lasciando che il suo sguardo vagasse attentamente intorno a sé.
“In questo caso allora, mi spiace deludervi. Ma un simile dono deve essere guadagnato. Non viene elargito ai primi due semidei di passaggio che sostengono di averne bisogno.”
-Ma ci serve per fermare Gea! – esclamò Jason. -Non dovresti stare dalla parte degli dei? –
Sentì Cupido ridere con disprezzo.
“L’amore non deve fare proprio nulla, e soprattutto non sta dalla parte di nessuno. Non è nella sua natura.”
Jason stava per replicare, o forse per lanciarsi all’attacco, ma un tocco straordinariamente gentile gli sfiorò la spalla.
Si voltò, e Nico gli lanciò un’occhiata di ammonimento prima di portarsi al suo fianco.
-Come possiamo guadagnarci lo scettro? – disse il figlio di Ade rivolto al dio.
“Vediamo…” mormorò Cupido. “Quanto siete pronti a rischiare, nel mio nome?”
Jason era troppo stanco, troppo impaziente, e perse tutta la sua diplomazia.
-Questa è la cosa più stupida che abbia mai dovuto fare. –
Jason non poté aggiungere altro.
Dal nulla, una freccia d’oro venne scagliata dritta verso di lui, e non riuscì a fermarla.
Gli si piantò nello stomaco, e lo fece con tanta forza da scaraventarlo dall’altra parte della stanza, e il ragazzo gemette di dolore.
-Jason! – urlò Nico, correndogli accanto.
Il figlio di Giove si guardò lo stomaco, ma la freccia scomparve sotto ai suoi occhi. La sua pelle era illesa.
-Tranquillo. – sibilò Jason. -Non me l’aspettavo. –
Cupido ridacchiò, e stavolta il ragazzo lo percepì così vicino che sobbalzò e cercò di arretrare contro il muro.
“Speravi che avrei giocato secondo le regole? L’Amore non lo fa mai.” lo schernì il dio.
-L’Amore… - ripeté Jason, alzandosi con l’aiuto di Nico. -Non mi aspettavo che sarebbe stato uno stronzo simile. –
“Sei così ingenuo. L’amore non è gentile, e sopratutto non è stupido. Richiede tutto da una persona, soprattutto lealtà, dedizione, sacrificio e perdono, e solo allora concede la vera felicità. Altrimenti, può essere una condanna. “
Jason si guardò intorno, e Nico fece lo stesso mettendosi schiena contro schiena a lui.
Quel gesto sorprese Jason, ma lo fece sentire al sicuro.
“Nico sa di cosa parlo…” mormorò il dio nell’ombra. “Lui conosce il lato peggiore dell’amore. Quello più dilaniante e crudele. Un lato così spaventoso che lo terrorizza più della morte.”
Nico si bloccò improvvisamente, e Jason si voltò a guardarlo.
Gli occhi neri del ragazzo erano iniettati di sangue.
-Io sono andato e tornato dal Tartaro. Non ho paura di te. – sibilò.
“Oh, ma io ti faccio molta, moltissima paura, Nico di Angelo. Io sono il tuo tormento, il tuo incubo da cui preghi sempre di poterti svegliare.”
Jason si voltò verso Nico cercando delle risposte nel suo sguardo, ma lui aveva sfoderato uno sguardo freddo e impenetrabile come ghiaccio.
-Nico, di cosa parla? – chiese Jason, ma lo fece con incertezza.
Il più piccolo infatti non gli rispose.
-Che cosa vuoi da me in cambio dello scettro? – ringhiò il figlio di Ade rivolto al dio.
Una risata echeggiò nel vuoto, ma Jason non riusciva ancora a vederlo.
Voglio che tu faccia quello che non sei mai riuscito a fare...” esalò Cupido con amara dolcezza. “Affrontami. Dimostrami che sei degno di portare lo scettro, che sei abbastanza coraggioso per guidare una Legione di Morti. “
Nico serrò la mascella.
“Avanti Nico…” sussurrò il dio con finta gentilezza. “Racconta a Jason cosa nascondi dietro alla tua solitudine. Digli quanto hai sofferto quando la persona che più ami a questo mondo è caduta nel Tartaro.”
Jason per un istante si ricordò di quando Piper gli aveva detto che secondo lei Nico aveva una cotta per Annabeth. In un qualunque altro momento sarebbe rimasto sorpreso, e forse persino incuriosito.
Ma era troppo impegnato a temere per la propria vita.
E non per via di Cupido.
Nico aveva gli occhi scuri come un abisso che scintillavano di una luce vermiglia. La sua espressione era così rabbiosa, che Jason volle solamente correre il più lontano possibile da lui.
Temette che Nico stesse per perdere il controllo: -Nico, non… -
Ma invece di attaccare, il ragazzo si strinse improvvisamente la testa con un gemito, serrò gli occhi e dovette appoggiarsi ad una parete per sorreggersi.
-Nico! – lo chiamò Jason, e corse verso di lui.
Ma il ragazzo non gli rispose, rimase a stringersi le tempie mugolando di dolore.
Jason allora gli si parò davanti, e gli poggiò le mani sulle spalle cercando di fargli aprire gli occhi.
Ma nell’istante in cui gli toccò la pelle, la vista gli si annebbiò di un colpo. Jason si sentì distaccare dalla realtà senza riuscire a muoversi o allontanarsi da lui, e per un secondo non vide più nulla.
Presto davanti ai suoi occhi incominciarono a prendere forma delle immagini, e lui si rese conto di cosa stava succedendo. I ricordi di Nico lo avevano investito come un fiume in piena e lui non era riuscito a impedirlo.
Quasi svenne, sopraffatto dalla paura, dall’odio e dalla vergogna, emozioni non sue ma che lui provò con una intensità tale da fargli male.
Improvvisamente si ritrovò in cima ad una scogliera, e di fronte a lui vide Nico e Bianca che si stringevano alle spalle di Percy Jackson.
Il figlio di Poseidone era poco più di un ragazzino al tempo, e li stava proteggendo da una manticora con la spada alzata.
La lama di bronzo gli illuminava tenuamente il volto, rivelandone l'ammaliante bellezza. La cicatrice che gli attraversava il viso era l'unica imperfezione sul suo viso, e sembrava ancora più spessa ed evidente di quanto Jason ricordasse.
Era stato il primo semidio che Nico avesse mai visto combattere.
Poi la scena cambiò, e Jason vide Percy partire per un’impresa insieme a Thalia ed una ragazza che non riconobbe, portando Bianca con sé. Nico pregò Percy di proteggerla, e il ragazzo giurò che avrebbe fatto il possibile per farla tornare a casa.
Nico gli credette.
Dopotutto, Percy era un vero eroe.
Ma quando il figlio di Poseidone tornò, Nico scoprì che Bianca era morta.
Jason provò tutta la sua rabbia e tutta la sua disperazione. Per un secondo, provò persino odio, un odio così profondo e nato da una delusione così agghiacciante che gli fece bruciare le membra.
E Jason vide anche come la terra si fosse improvvisamente spezzata sotto ai piedi di Nico, diramandosi in faglie profonde che lasciarono strisciare degli scheletri fuori da esse.
Erano uomini morti e consumati dal tempo, con gli occhi vuoti e le ossa cigolanti, pronti a rispondere a tutta l’ira del figlio di Ade.
Nico però sussultò d’un tratto inorridito, e arretrò con gli occhi spalancati e il labbro tremante. Era spaventato. Da sé stesso, perché il suo potere era improvvisamente dilagato e non sapeva come controllarlo. Dalla solitudine, perché non aveva nulla se non Bianca, e lei non sarebbe tornata.
Percy invece era rimasto immobile ad osservare incredulo i mostri che lo circondavano, teso e pronto a scattare come un animale in trappola, con gli occhi spalancati che scintillavano nella notte.
E Nico cercò di fuggire. Da sé stesso, dalla sua ira e da quel potere che nemmeno sapeva di avere.
Ma il figlio di Poseidone non lo aveva lasciato andare.
Percy lo aveva fermato, e lo aveva stretto a sé in un abbraccio disperato e soffocante pur di impedirgli di andarsene. Nico cercò di sottrarsi, ma presto si arrese e pianse sul suo petto. Per un istante, si sentì al sicuro.
Il più grande aveva continuato a stringerlo, accarezzandogli con mani tremanti la nuca, lo sguardo agghiacciato fisso sui morti che tornavano nelle viscere della terra strisciando lentamente.
Dopo allora, Percy convinse Nico a restare.
E Nico infatti rimase, per quattro mesi.
E Jason capì, attraverso i suoi ricordi, perché il figlio di Poseidone tenesse così tanto a lui nonostante Nico allontanasse tutti.
Percy, quella notte, aveva visto in lui un bambino spaventato e solo che aveva appena perso la sua famiglia, un semidio che aveva appena scoperto di possedere un potere distruttivo ed incontrollabile.
Nico era esattamente come Percy era stato pochi anni prima.
In Nico, Percy aveva rivisto sé stesso.
E per questo il figlio di Poseidone lo aiutò meglio di quanto chiunque altro avrebbe mai potuto fare. Gli rimase sempre accanto, Nico da lui imparò a controllare e ad usare il suo potere, come sopravvivere in quel mondo pieno di insidie e come comprenderlo. Da lui, Nico imparò a combattere con la spada.
E il figlio di Ade non era mai stato più felice di allora.
Ma poi, improvvisamente, Jason vide Nico sviluppare un’invidia logorante e viscerale.
E più osservava la sua vita al campo attraverso i suoi occhi, più comprendeva il perché.
Si ritrovò senza fiato, paralizzato dalla verità.
Inevitabilmente, osservò Nico andarsene dal Campo Mezzosangue con le lacrime agli occhi, deciso a non tornare.
“Esatto…” mormorò Cupido. “Dimostrami che hai la forza di affrontarmi”.
Jason si ritrovò di nuovo nella torre, e si voltò subito a guardare Nico con gli occhi spalancati dall’incredulità.
Invece della rabbia furente che prima aveva letto nello sguardo del figlio di Ade, ora vedeva solo una profonda tristezza, nei suoi occhi vacui e persi nei ricordi.
-Ho lasciato il Campo Mezzosangue per amore. – mormorò il ragazzo, quasi incantato. -Annabeth… io non… -
“Continui a nasconderti.” lo rimproverò Cupido. “Questa non è la verità.”
Jason cercò di parlare, e la voce gli uscì debole e roca:
-Nico, va… va tutto bene. Ho capito. –
Nico sollevò improvvisamente gli occhi su di lui, e il suo sguardo si fece così feroce e ostile che Jason sentì il sangue gelarglisi nelle vene.
-No Jason, nessuno può capire! –il figlio di Ade. -Tu non hai la minima idea di cosa… -
“Non smetti mai di scappare.” sibilò il dio, interrompendolo. “Continui a fuggire da te stesso, dai tuoi amici e dalla persona che ami.”
-Io non ho amici! – rispose Nico con una rabbia raggelante. -Io me ne sono andato dal Campo perché là non mi sento a casa!–
“Davvero?” rispose Cupido con severità. “Tu menti. Tu avresti voluto restare. Ma non eri in grado di sopportare il dolore per la morte di tua sorella e per il tuo amore irrealizzabile, e sei fuggito da tutto e da tutti sperando che il tuo cuore smettesse di farti così male. Ma non ha funzionato, vero?”
Nico sembrava non riuscire a respirare.
Jason gli si avvicinò, ma il figlio di Ade lo guardò con insostenibile dolore, e questo lo fece fermare.
-Tu non lo hai mai incolpato per la morte di tua sorella... - mormorò il figlio di Giove.
Nico sembrava tremare, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Jason non lo aveva mai visto così distrutto, così vulnerabile.
-Bianca era tutto ciò che avevo. Senza di lei io... – Nico non riuscì a continuare. -Ma la profezia lo aveva annunciato, e nessuno avrebbe mai potuto salvarla. Non… non l'ho mai odiato per questo.-
Nico scosse la testa, serrando gli occhi e stringendo i pugni.
Jason cercò di suonare rassicurante quando parlò, ma lui stesso si sentiva gelare fin nelle ossa dalla situazione.
-Nico, non preoccuparti. Va tutto bene. –
Il ragazzino aprì gli occhi, ma stavolta puntò lo sguardo nel vuoto, e Jason lo vide.
Si stava arrendendo.
-Io me ne sono andato dal Campo perché non potevo sopportare di stargli vicino. – mormorò fievolmente. -Non quando sapevo che non avrei mai potuto averlo. -
Jason si voltò, e cercò Cupido con lo sguardo, invano.
Quel dio un mostro, crudele come nessun’altro. Crudele come solo l’amore può essere.
“Bravo, Nico di Angelo.” Sussurrò Cupido, e Jason pensò stesse sorridendo. “Incominci a ragionare”
Ma il figlio di Giove si ritrovò incredulo.
-Non ti basta?! Dacci lo scettro e lascialo stare. –
Cupido rise malignamente nell’ombra. “Jason Grace, credi di poter dire all’Amore cosa fare?”
Il figlio di Giove avrebbe voluto attaccarlo, colpire alla cieca il vuoto finché non sarebbe riuscito a ferirlo.
Ma quando si voltò a guardare Nico, non riuscì a muoversi.
Il figlio di Ade fissava un punto preciso sulla parete, gli occhi scuri come la notte.
-Mi odiavo, con tutto il cuore. E ho odiato lui, così tanto.– mormorò. -Perché Percy mi avrebbe dato qualsiasi cosa, ma non il suo amore. L’unica cosa che ho sempre voluto. -
Jason sospirò alla vista delle lacrime rabbiose che scorrevano sulle guance del ragazzo.
-È questo il mio grande segreto. Mi sono innamorato di Percy Jackson. - sussurrò il figlio di Ade, la voce rotta dai singhiozzi che cercava di sopprimere.
E Jason finalmente comprese Nico.
Lui era appena riuscito a vedere Nico in tutta la sua sofferenza, aveva vissuto parte della sua vita attraverso i suoi occhi e aveva provato tutta la sua frustrazione e la sua vergogna.
Aveva passato così tanto tempo a diffidare di lui, a temerlo persino, ma adesso lo capiva.
Capiva perché era così distaccato, perché temeva così tanto di legarsi agli altri, perché preferiva restare solo. Il suo comportamento così schivo che prima lo faceva sembrare sospetto ai suoi occhi, ora aveva un senso.
Il quel momento, pensò che lui, insieme a tanti altri, aveva giudicato Nico senza aver mai provato a conoscerlo davvero.
Nico era un ragazzo così buono, così gentile e pieno di amore, ma che aveva continuato a soffrire silenziosamente da anni. La sua anima era stata consumata da tutto il suo dolore, e lo aveva reso una persona profondamente insicura.
Nico era il risultato di una vita piena di delusioni.
Poi Cupido rise nell’ombra, e Jason si voltò di scatto seguendo il suono.
Improvvisamente, dal buio, il dio si palesò.
Era bello, bello come nessun’altro. Ma il suo viso aveva un’ombra sinistra, i suoi occhi erano rossi come sangue e senza pupille.
Il dio avanzò verso Nico, fermandosi di fronte a lui con un sorriso sulle labbra.
-Hai pagato il prezzo del mio aiuto, Nico di Angelo. – disse Cupido. -Prendi lo scettro. Ci rivedremo. –
E detto questo scomparve, lasciando al suo posto uno scettro d’oro imperiale che giaceva sul pavimento ai piedi di Nico.
Il metallo splendeva fiocamente nella penombra, illuminando il viso rigato dalle lacrime del figlio di Ade.

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Capitolo 14
*** Dinastia ***


Dinastia 

 
Annabeth non aveva mai creduto che Thalia si sarebbe risvegliata.
Eppure, quando lei, Percy e Grover tornarono dal Mare dei Mostri col Vello d’Oro, il miracolo accadde.
Quel giorno, lei e Percy erano seduti sui gradini di fronte alla cabina di Poseidone. Il ragazzo le aveva chiesto di parlarle, e sembrava particolarmente nervoso.
Annabeth allora non lo sapeva, ma Percy stava per confessarle della sua cotta per lei.
Ma mentre il figlio di Poseidone cercava, invano, di articolare i suoi pensieri mentre si torturava le mani, Grover li raggiunse correndo.
Il satiro sembrava ad un passo dallo svenimento.
-Percy scusami davvero! – fu la prima cosa che disse col fiato corto. -So che volevi dire ad Annabeth che… -
-Grover! –
-Sì sì, giusto. Comunque, dovete venire subito. –
Annabeth aggrottò le sopracciglia, e immediatamente si voltò verso Percy. Il ragazzo si girò a guardarla nello stesso istante.
-Grover, cosa… - cercò di chiedere lei.
-Al pino. – incominciò Grover. -È Thalia. –
Non dovette dire altro.
Dopo un istante di incredulità, Annabeth e Percy scattarono in piedi fiondandosi insieme al loro migliore amico verso il pino ai confini del Campo. Corsero così velocemente che la figlia di Atena quasi non sentì la terra sotto ai piedi.
Arrivati alla meta, dovettero farsi strada a spintoni tra la folla di semidei radunata là, e quando riuscirono a stagliarsi di fronte al pino, Annabeth sentì il suo cuore soffocare.
Ai piedi dell’albero, rannicchiata contro il tronco di legno, c’era una ragazza di dodici anni con la pelle chiara, gli occhi blu e i capelli nerissimi corti.
Era davvero lei. Ed era esattamente come Annabeth la ricordava.
La figlia di Atena era troppo sbalordita per parlare.
Ma Percy al suo fianco riuscì a pronunciare una sola parola, un sussurro incredulo che sembrò però zittire tutti i ragazzi che mormoravano alle loro spalle.
-Thalia… -
La figlia di Zeus fece saettare lo sguardo su di loro non appena sentì pronunciare il suo nome, e i suoi occhi si spalancarono.
Per un breve istante, Annabeth ebbe paura che la ragazza non li riconoscesse.
Il cuore le si fermò per un istante.
-Percy… - fu la prima cosa che disse Thalia, la voce debole e graffiata. -Annabeth? –
E la figlia di Atena si lanciò in avanti.
Lei e Percy corsero verso Thalia quasi simultaneamente, e quando Annabeth la abbracciò, Percy le raggiunse in un istante per stringere le braccia intorno ad entrambe le ragazze.
Era un abbraccio disordinato, Thalia tremava dallo sforzo di rimanere in piedi e i suoi occhi restarono spalancati, ma si strinse a loro con tutta la forza che aveva.
Annabeth sentì le lacrime che le scivolarono lungo la guancia.
Aveva ritrovato un pezzo della sua famiglia.

...

Percy ricordava come ci si sentisse a sorreggere il cielo.
Era una forza così annullante, così incommensurabile, che anche dopo quasi tre anni Percy non riusciva ancora a credere di essere sopravvissuto. Quando Artemide riuscì a spingere Atlante sotto la volta celeste, lui venne sbalzato via e rotolò per diversi metri sulla pietra del monte. Non sentiva nulla se non il dolore atroce che ancora gli permeava le ossa, ma il suo sguardo si puntò alla sua destra, dove sapeva Annabeth fosse inginocchiata a terra.
La sua vista fioca riconobbe la sagoma sfocata della figlia di Atena, i suoi occhi riconobbero i lunghi capelli biondi e ricci e la figura snella ed elegante.
Avrebbe voluto chiamarla, abbracciarla, baciarla e stringerla a sé, ma non riusciva a muoversi né a parlare. La ragazza però non aveva mai distolto gli occhi da lui, e non appena lo aveva visto rotolare via da sotto il cielo lei aveva incominciato a strisciare verso di lui finché non fu abbastanza vicina per scuotergli disperatamente le spalle.
Percy sentiva la sua voce, ma era ovattata e incomprensibile al suo udito.
Rimase immobile, steso con la pancia a terra, il sangue che gli era colato dal naso e dalle orecchie che si seccava sulla sua pelle e i suoi occhi che si facevano sempre più pesanti.
Ma quando riuscì a voltare il capo in un ultimo tentativo di rimanere sveglio, i suoi occhi si spalancarono e la sua bocca si aprì in un muto eppure disperato urlo.
A qualche metro da lui, Luke stava combattendo contro Thalia.
E nonostante la ragazza sembrasse tenergli testa, Percy vedeva la furia che le offuscava gli occhi. I suoi colpi erano accecati dall’ira, disperati e imprecisi, e l’unica cosa che la salvava dall’astuzia di Luke era il potere dell’Egida. Questo la costringeva però ad indietreggiare, sempre più vicino al limitare della montagna.
Percy tentò di urlare il suo nome, invano. Era esausto, il suo corpo sembrava pesante come piombo e i suoi muscoli bruciavano come se fossero percorsi da fiamme vive. La sua testa pulsava, la sua vista era sfocata e delle macchie rosse gli danzavano davanti agli occhi, ma lui doveva alzarsi.
Doveva raggiungere Thalia e fermare Luke prima che la buttasse giù dal monte.
E quindi, con un debole gemito di dolore, piantò le mani sulla pietra sotto di lui, e mise tutta la forza che gli rimaneva per tirarsi in piedi. Fallì, ma quando il suo corpo sbattè di nuovo a terra lui ritornò a cercare di alzarsi.
Annabeth lo aiutò alzandosi in piedi e tirandolo verso l’alto e Percy percepì un lampo di capelli biondi e una voce ovattata che lo incitava a mettersi in piedi.
Quando finalmente si alzò, la sua vista sfarfallò, e per un attimo il mondo sembrò vorticargli davanti al viso, ma lui si gettò alla cieca verso di Thalia parandosi di fronte a lei.
Annabeth si mosse con lui, subito bloccando la figlia di Zeus dall’avvicinarsi di più al bordo.
E Percy, nonostante fosse appena sopravvissuto al peso del cielo, si mosse in modo così rapido e naturale che quando la sua spada si frappose tra la lama di Luke e lo scudo di Thalia, lui quasi si chiese quando l’avesse sfoderata.
L’immagine di Luke davanti a lui era sfocata, ma Percy vide la sorpresa nei suoi occhi.
Ma fu per un’istante.
Il suo scatto era stato breve e sostenuto dall’adrenalina, ma ora sentiva il sudore freddo che gli imperlava il viso, gli occhi stanchi che minacciavano di rovesciarsi e le gambe molli.
Non era nelle condizioni di combattere, e Luke fu veloce.
Con un lampo della mano gli fece cadere Vortice dalle dita, e quando Percy si sentì afferrare per il polso e strattonare contro il figlio di Ermes non riuscì ad opporre alcuna resistenza.
Si ritrovò col braccio torto dietro la schiena schiacciata al petto di Luke, la lama del figlio di Ermes che premeva di taglio sulla sua gola.
-Percy! – sussultò Annabeth.
Quando la ragazza fece per scattare verso di lui, Percy sentì Luke ridere alle sue spalle.
-Non ti avvicinare Annabeth, o lo sgozzo. – sibilò il ragazzo. -Bella mossa però, Percy. –
Percy avrebbe voluto svenire.
Thalia invece aveva uno sguardo di puro odio piantato su Luke.
-Abbiamo vinto. – sibilò velenosamente la ragazza. -Abbiamo sconfitto Ladone, Atlante è di nuovo dove dovrebbe essere e tu sei da solo. Non hai speranza di uscirne, Luke. Lascialo andare. –
Percy ormai rimaneva in piedi solo grazie al sostegno del corpo del figlio di Ermes dietro di lui. Luke rise ancora una volta, sprezzante e crudele, e per la prima volta dopo tanti anni Percy vide una lacrima rabbiosa scivolare lungo il viso di Thalia.
Il figlio di Poseidone cercò debolmente di divincolarsi dalla presa del più grande, ma dovette fermarsi con un ringhio di frustrazione quando la lama di Vipera premette con più forza sulla sua gola.
-Stai attento. – lo avvertì Luke. -Ho cercato di ucciderti una volta. Non mi farò scrupoli a provarci una seconda volta. –
Ed eccola. Rabbia, frustrazione, odio.
Percy aveva smesso di soffrire al pensiero di Luke. Le sue parole non gli facevano più male. Perché lui ora provava solo odio, un odio così profondo e alimentato da una delusione così grande da consumarlo.
Il suo corpo sfinito sembrò riacquistare energia, velocità, forza.
Percy fece scattare la testa all’indietro, alzandosi sulle punte dei piedi per darsi la spinta in alto e colpendo Luke dritto in faccia. Il ragazzo arretrò di istinto con un gemito di dolore ma Percy fu veloce a sgusciare via dalla sua presa, gettandosi a raccogliere la sua spada e voltandosi per puntarla contro il ragazzo.
Luke lo guardò, il naso sanguinante e gli occhi scintillanti dalla rabbia.
Percy ora era fra Annabeth e Thalia.
E per un istante, ci fu silenzio. C’era uno spiazzo vuoto tra loro e Luke. Il simbolo di una famiglia distrutta, una famiglia che credevano sarebbe esistita nell’eternità.
-Luke… - mormorò Annabeth. -Ti prego, fermati. Possiamo trovare una… -
-No Annabeth. – la interruppe Thalia, gli occhi lucidi affilati dall’ira. -Lui non merita nessuna soluzione. Ci ha traditi! È un traditore. –
-Thalia. – la fermò. -Annabeth, Percy. Ripensateci. Vi sto offrendo l’opportunità di vendicarvi di tutto ciò che gli dei ci hanno causato, di poter essere di nuovo la famiglia che eravamo. Voi sapete che ho ragione, io so che vi manca la nostra famiglia! –
Percy fu il primo a rispondere: -Per la nostra famiglia ho dato ogni pezzo di me, come può non mancarmi?! -  
Per un secondo nessun'altro parlò.
-Sei stato tu a distruggerla. – aggiunse Thalia. -Sei stato tu a distruggerci. -
Luke perse il sorriso, e nonostante il tono derisorio con cui parlò, Percy sentì l’incertezza nella sua voce: -E cosa pensi di fare, amica mia? Uccidermi? –
La figlia di Zeus esitò, e in gesto disperato Luke cercò di afferrarle la lancia che era puntata contro di lui.
Thalia però agì d’istinto. E così fece Percy.
La ragazza scartò a destra tirando la lancia verso di sé e Luke con essa, portandolo vicino allo strapiombo. Percy tirò un calcio dietro al ginocchio del figlio di Ermes nello stesso istante, cercando di metterlo in ginocchio, e Luke perse l’equilibrio. La paura gli attraversò lo sguardo come un lampo prima che cadesse.
Percy avrebbe ricordato per sempre la vista del corpo di Luke sfracellato sugli scogli, il suo sangue che si mischiava con la spuma del mare, la Principessa Andromeda che si stagliava sull’orizzonte.
E per un secondo, il suo odio si sciolse nel suo petto.
Per un secondo, Percy si ricordò di aver amato Luke con tutto sé stesso.
E ora lo aveva ucciso.

 

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Capitolo 15
*** L'imperfezione di un Eroe ***


L'imperfezione di un Eroe


Più tempo passava nel Tartaro, più Percy si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere.
Persino con il dono dell’invincibilità sapeva che la sua vita era appesa ad un filo pronto a spezzarsi.
Bob li aveva guidati attraverso gli stretti passaggi che serpeggiavano tra le montagne, in mezzo alle frane di roccia nera e lungo i letti prosciugati dei fiumi. Ma nonostante i torrenti lì sembrassero scomparsi, Percy percepiva la terra pulsare d’acqua sotto ai suoi piedi come se lì scorresse sangue vivo.
Più avanzava, più quell’idea gli dava alla testa.
Annabeth lo aveva guardato di sottecchi, e doveva aver notato la sua espressione.
-Tutto a posto? – gli aveva chiesto.
Percy l’aveva osservata per un’istante, prima di rispondere.
-Sento dell’acqua scorrere sotto alla terra, la sento pulsare ritmicamente. È come se fosse…–
Bob si era girato a guardarli, e aveva annuito al ragazzo con occhi indecifrabili.
-Sangue. – concluse al suo posto il Titano. -Questo posto è la manifestazione di Tartaro. L’abisso è la sua incarnazione, la terra è la sua carne e i fiumi sono il suo sangue.–
Percy rabbrividì al pensiero, e l’ansia gli attanagliò improvvisamente le membra.
Significava che loro stavano avanzando su un corpo vivo che era in grado di percepirli, erano come una malattia che stava tentando di sopravvivere nel corpo febbricitante di un uomo.
Continuarono a camminare, e a Percy sembrarono passare giorni.
Ma come poteva dirlo.
Laggiù il sole non c’era, non esistevano il giorno o la notte e le stelle non brillavano.
C’era solo la penombra costante creata dalla sinistra e tenue luce sanguigna che delineava i contorni affilati del paesaggio.
-Siamo quasi arrivati. – disse poi Bob, spezzando il silenzio.
Annabeth aggrottò le sopracciglia: -Alle Porte della Morte? –
-No, no. – rispose il Titano. -Arriviamo in un posto sicuro. I semidei devono riposare. –
Percy ed Annabeth si scambiarono uno sguardo speranzoso seppur incerto, ma continuarono ad avanzare.
E poi, davanti a loro, a poco a poco si stagliarono i contorni di un tempio.
Un tempio caduto e dimenticato, che sulla facciata riportava però scolpito nella pietra un caduceo. Il simbolo di Ermes.
-Un tempio di Ermes?! – chiese Percy bloccandosi sul posto dall’incredulità.
Bob sorrise: -È caduto qui quando… no non me lo ricordo. Ma qui i mostri non si avvicinano, saremo al sicuro. –
Percy era così sorpreso che ci mise un attimo a riscuotersi e a seguire Annabeth e Bob all’interno.
Quando entrarono, Percy si ritrovò in una piccola sala dai muri crepati e le piastrelle divelte, ma il suo sguardo venne immediatamente catturato dall’altare che si stagliava in mezzo al pavimento.
Il figlio di Poseidone sentì lo stomaco stringerglisi in una morsa alla vista del cibo.
-Quello è cibo. – sibilò con un filo di voce, e quando guardò Annabeth vide che anche lei aveva gli occhi spalancati e dilatati fissi sull’altare.
Percy era estasiato.
Le offerte che giacevano sul piedistallo di pietra, un piccolo ma invitante assortimento di pietanze, emanavano un profumo così forte da fargli venire le vertigini.
Non mangiava da solo gli dei sapevano quando.
-Questo è cibo vero. – mormorò di nuovo, esaltato dalla fame.
I suoi occhi brillarono, un sorriso famelico gli attraversò il volto.
Annabeth annuì al suo fianco, avvicinandosi all’altare senza mai distogliere gli occhi dal cibo. -Queste sono le offerte per Ermes. Forse… -
Percy raggiunse in poche falcate il mucchietto di offerte, e le analizzò con crescente stupore.
C’era un pacchetto di M&M’s alle arachidi, un intero piatto di roastbeef, un grappolo d’uva e del formaggio morbido, una fetta di torta al cioccolato e due fette di pizza con l’ananas.
Osservando il cibo, realizzò una cosa che gli fece mancare un battito al cuore.
-Annabeth, questa è la pizza che Connor mangia tutti i venerdì. E la torta, la mangia Clarisse prima delle partite di Caccia alla Bandiera. – fu la prima cosa che riuscì a dire.
La ragazza annuì a bocca aperta: -E questi M&M’s sono i preferiti di Travis. –
E Percy sentì la malinconia stringergli dolorosamente le viscere.
-Questo cibo viene da casa. – concluse la figlia di Atena con un filo di voce.
Bob si sporse alle loro spalle, e Percy giurò di non averlo mai visto sorridere così tanto.
- M&M’s per Bob! – strepitò con gli occhi che brillavano, e Percy non riuscì a non ridere.
Il Titano lo guardò per un secondo con incertezza: -Ehm… va bene per voi? –
Percy sorrise, porgendogli il pacchetto: -Certo ragazzone. -
Annabeth ridacchiò: -A te invece Percy tocca la pizza all’ananas. Credi che sopravvivrai? –
Il ragazzo la guardò di sottecchi quasi con ammonimento, ma stava sorridendo.
-Questa è la prima e ultima volta che la mangerò. E non cambierò idea, quella pizza è un abominio. –
La ragazza rise prima che si gettassero sul cibo, e Percy si sentì felice per pochi istanti.
E quando Annabeth aveva ipotizzato di poter mandare un messaggio al Campo attraverso quell’altare, si sentì animato da un’euforia improvvisa.
Aveva raccattato un tovagliolo, e usando Vortice in formato penna aveva scritto insieme ad Annabeth un breve messaggio per Rachel.
Le stavano chiedendo molto, lo sapevano entrambi. Ma lei era forse l’unica a poter parlare con i romani ed evitare una catastrofe.
Il ragazzo ghignò, concludendo il messaggio:
 
Datelo a Rachel. Connor, smettila di mangiare quella porcheria di pizza all’ananas.
Con affetto,
Percy e Annabeth.

 
Percy disse poi alla ragazza di dormire ora che avevano qualche ora di sosta.
Annabeth lo pregò di svegliarla per il suo turno di guardia.
Ovviamente, Percy non lo fece. Da un lato perché voleva che la ragazza riposasse ora che poteva farlo. Ma dall’altro, era perché anche se avesse voluto non sarebbe riuscito a dormire.
Nel silenzio del tempio, nell’improvvisa calma tra di loro, realizzò quanto il suo corpo fosse in sovraccarico.
Percepiva costantemente il pericolo intorno a sé e non riusciva ad ignorarlo.
Ormai, era entrato in uno stato di ipervigilanza che impediva al suo corpo di rilassarsi.
Lui non avrebbe mai abbassato la guardia, e non avrebbe mai chiuso gli occhi, perché sapeva che dietro ad ogni ombra si celava un mostro pronto a saltare fuori per ucciderli.
Per questo rimase per tutto il tempo al fianco di Annabeth, senza mai allentare la presa sulla spada, mantenendo ogni fibra del suo corpo in tensione, pronto a scattare come una molla.
Rimase così per ore, con gli occhi perennemente spalancati nella penombra dell'abisso, sobbalzando al minimo rumore.
E si rese conto di una cosa.
Nemmeno l’invincibilità lo avrebbe salvato.
 
Quando Annabeth si sentì scuotere delicatamente la spalla si svegliò con un sussulto.
I suoi occhi ci misero qualche istante ad abituarsi alla penombra, ma riuscì a distinguere il viso di Percy, chinato su di lei con un debole sorriso dipinto sulle labbra.
Lei sorrise di rimando, sbattendo le ciglia più volte nel tentativo di mettere a fuoco il viso del ragazzo.
E quando lo fece, scattò a sedere con la bocca spalancata.
-Percy?! – fu tutto ciò che riuscì ad esclamare mentre lo osservava inorridita.
Il figlio di Poseidone era in condizioni pietose.
La mano con cui l’aveva gentilmente svegliata tremava sulla sua spalla, mentre l’altra era stretta intorno all’elsa di Vortice in una morsa d’acciaio tale da sbiancargli le nocche. Aveva gli occhi iniettati di sangue, le occhiaie gonfie e arrossate, ed era pallido come un cadavere.
-Percy… - ripetè, stavolta in un mormorio. -Dovresti davvero… -
-Dobbiamo andare Annabeth. – rispose lui.
Lei sgranò gli occhi, i suoi occhi d’argento scintillarono rabbiosi.
-Non mi hai svegliata per il turno di guardia?! –
E tutto ciò che Percy fece fu sorridere lievemente, abbassando lo sguardo.
Non aveva ancora allentato la presa sulla spada.
-Volevo che riposassi. Io sto… -
-Percy ma ti sei visto in faccia in questo momento?! – lo interruppe. -Guarda che la gente muore per queste… -
-Sto bene Sapientona. – la fermò Percy, alzandosi in piedi. -Ma ora dobbiamo andarcene. Non è più sicuro restare qui. -
Le tese una mano, che Annabeth occhieggiò con aria torva.
Ma per quanto fosse furiosa con il suo ragazzo, sapeva che aveva ragione.
Per questo afferrò la mano di Percy, lasciando che la aiutasse ad alzarsi prima di raggiungere Bob.
E il loro viaggio continuò.
Il Titano li guidò attraverso una stretta vallata che sorgeva tra due montagne, e dopo quelle che ad Annabeth parvero ore si ritrovarono ad avanzare in mezzo ad una fitta coltre di nebbia rossa come sangue, tanto che Annabeth fece fatica a riconoscere la sagoma di Bob ad appena un metro davanti a loro.
-Sai quanto manca? – gli chiese ad un certo punto la ragazza.
Bob sembrò corrucciato: -Dobbiamo camminare finché non diventa più buio. Poi dovremo girare di lato. –
Annabeth lo guardò in silenzio per qualche secondo sperando che aggiungesse qualcosa, prima di rassegnarsi e annuire.
-Ah… ok. – rispose, il fiato corto.
Nonostante stessero solamente camminando, le sembrava di star correndo una maratona da quanto le mancava il fiato.
Ma non era quella la cosa più preoccupante.
Percy, che avanzava al suo fianco nella nebbia stringendole la mano, continuava a guardarsi intorno e specialmente alle spalle, con gli occhi che analizzavano maniacalmente ogni particolare intorno a loro.
-Ehi, Percy. – lo chiamò, e lui mantenne l’attenzione su di lei per una frazione di secondo, prima che il suo sguardo scattasse di nuovo a destra, a sinistra, davanti a loro, oltre la sua spalla.
Annabeth sentì l’ansia attanagliarle il cuore.
Perché anche se Percy era sempre stato più iperattivo di molti altri semidei, in quel momento la sua agitazione non era normale. Un sospetto si fece strada nella mente della ragazza, ma lei non disse nulla.
-Percy è tutto a posto. – cercò di rassicurarlo Annabeth.
Il ragazzo in risposta annuì, ma non si fermò nemmeno a guardarla. Continuava ad avanzare meccanicamente, lo sguardo che saettava da una parte all’altra senza tregua.
La ragazza strinse quindi la presa sulla sua mano.
-Ehi. – lo richiamò. -Ti ricordi quella volta che tu e Grover avete cercato di rubare il furgone di Argo? –
Fu come un incantesimo.
Gli occhi del figlio di Poseidone si bloccarono improvvisamente e le sue pupille si dilatarono, prima che lui puntasse lo sguardo su di lei. Annabeth si sentì sciogliere alla vista del sorriso fantasma che si estese sulle labbra del ragazzo.
-Non avevamo le chiavi. Abbiamo rischiato di farlo esplodere.  –
Annabeth rise: -Vi siete messi a correre per il Campo con i capelli sparati da tutte le parti, Grover aveva i peli delle zampe bruciacchiati. – lo prese in giro.
Percy mantenne il suo sguardo sempre più divertito su di lei.
-Non prenderci in giro Sapientona, che tu pur di vincere la gara a chi arrivava per primo all’Arena mi hai spinto giù dalle scale della mensa. –
Annabeth spalancò gli occhi dall’indignazione, nonostante stesse ridendo.
-Avevamo nove anni! E tu non mi hai parlato per una settimana! –
-Me lo ricordo benissimo Annie. – le rispose il ragazzo. -Eri una tale bulla. –
E lei lo guardò con finta rabbia e le guance lievemente gonfie nel tentativo di trattenere le risate.
-Anche tu eri un bullo. – ribatté lei. -Ti ricordi quando a quattordici anni tu, Connor e Travis avete sabotato la biga di Clarisse pur di vincere la corsa? –
Percy stavolta rise apertamente: -Ma certo! Però alla fine ha comunque vinto Beckendorf. Me lo aspettavo, ma gli volevo troppo bene per fargli una cosa simile. –
E Annabeth non riuscì a rispondere.
Perché non appena il ragazzo aveva nominato Beckendorf, lei aveva visto i suoi occhi rabbuiarsi e il suo sorriso inasprirsi. Parlare di Beckendorf era sempre complicato.
Il figlio di Efesto era stato per Percy un carissimo amico, una persona che c’era sempre stata quando il figlio di Poseidone aveva cercato consiglio, conforto o solo compagnia.
E Annabeth sapeva che Percy si incolpava ogni giorno per la sua morte.
Ricordava perfettamente il giorno in cui Percy era arrivato al Campo dalla missione per distruggere la Principessa Andromeda, la missione dalla quale Beckendorf non era mai tornato. Il figlio di Poseidone aveva cercato di mostrarsi forte di fronte a tutti, di essere il leader di cui avevano bisogno in un periodo così difficile.
Ma Annabeth ricordava come il ragazzo si fosse spezzato nel vedere Silena corrergli incontro, nel sentirla chiedergli dove fosse Beckendorf.
Era stata una delle poche volte che lo aveva visto piangere.
-Scusa. – disse Percy, rompendo il silenzio. -Non volevo intristirti. –
Annabeth lo guardò dritto negli occhi, facendo scivolare la mano lungo il suo braccio e stringendogli delicatamente la spalla.
-Non preoccuparti. – mormorò.
Percy annuì, ricambiando il suo sguardo ma continuando a camminare.
-Mi manca casa. – aggiunse in sussurro.
Annabeth sorrise amaramente: -Anche a me. -
La figlia di Atena fece per stringergli la mano in un gesto di conforto, ma Bob si bloccò improvvisamente di fronte a loro.
Percy si tese come una corda di violino prima di estrasse la spada, e il suo sguardo tornò follemente attento.
-Che succede? – chiese Annabeth allarmata, e sentì Bob annusare l’aria.
-Non bene. – rispose il Titano, e sembrava agitato.
La ragazza fece per incoraggiarlo a rispondere, ma Percy la precedette.
-Non li senti? – esalò lui. -Siamo circondati. –
Annabeth si tese, guardandosi intorno freneticamente ma non senza riuscire a vedere nulla.
Poi, una risata riecheggiò intorno a loro.
La ragazza si voltò si scatto, e alzò lo sguardo.
La nebbia si dissipò abbastanza da rivelare dei rami contorti che si stagliavano sopra di loro, ma la foschia intorno a loro rimaneva così densa da nasconderne i tronchi.
E appollaiate sui rami neri e senza foglie, c’erano delle creature simili a Furie dagli occhi rossi e le bocce tese in ghigni che scoprivano le zanne bianche e acuminate.
“Che piacevole sorpresa” sibilarono all’unisono.
Annabeth era pietrificata.
-Cosa siete? – chiese Annabeth, tentando di mantenere la calma.
Un tentativo vano, comunque.
“Noi siamo le Arai. Gli spiriti delle maledizioni. “
Annabeth si voltò a guardare Bob, e lo vide dietro di loro con la scopa alzata pronto ad attaccare.
Il Titano le rivolse uno sguardo illeggibile.
E quando Annabeth guardò Percy al suo fianco, lo vide osservare le creature con ferocia.
-Cosa volete? – ringhiò il ragazzo.
Le arai risero ancora: “Oh, Percy Jackson. Noi serviamo gli sconfitti, coloro che sono morti esprimendo un ultimo desiderio di vendetta. E voi, avete sulle spalle tanta morte.”
Il ragazzo alzò la spada in un gesto intimidatorio, ma Annabeth gli strinse improvvisamente il braccio.
-Percy, non toccarle. – riuscì a dire.
Il ragazzo la guardò incerto per un istante: -In che… -
“La ragazza è sveglia. Sa che per ognuna di noi che ucciderai…” risposero i demoni. “…una maledizione ti verrà inflitta. Vogliamo incominciare, assassini?”
Percy si voltò verso Bob per un secondo, e poi guardò Annabeth.
La ragazza gli annuì nonostante fosse terrorizzata.
E loro corsero.
 
Percy era stanco oltre ogni limite.
Ma gli era bastato scambiarsi uno sguardo con Bob ed Annabeth, per scattare seguendo il Titano.
Immediatamente sentì quelle creature demoniache sibilare con sdegno dietro di loro, e le percepì anche innalzarsi in volo.
Ma lui si costrinse a correre.
Per un attimo gli sembrò di essere di nuovo bambino, quando passava le sue giornate a correre per le strade di Manhattan con qualche creatura demoniaca alle calcagna.
La prima volta che un mostro lo aveva trovato, Percy aveva tentato disperatamente di chiedere aiuto. Era in mezzo ad un marciapiede affollato, ed era stato inseguito da un segugio infernale.
Stava piangendo, e aveva pregato una donna di aiutarlo, di salvarlo da quel mostro.
Ma Percy presto smise di supplicarla e dovette correre, perché la donna non poteva vedere il mostro e non poteva aiutarlo.
Nessuno vedeva mai quello che lui vedeva.
Per mesi aveva continuato scappare, facendosi strada a spintoni tra le persone che camminavano sui marciapiedi, sentendoli gridare dietro di lui e vedendoli voltarsi per capire da cosa fuggisse.
Ma neanche allora nessuno vide nulla. Nessuno lo aiutò.
E in quel momento, nel Tartaro, Percy si sentì di nuovo impotente, bloccato in un luogo ostile e dove nessuno li avrebbe salvati se non loro stessi.
Percy venne distratto dai suoi pensieri quando notò che più avanzava, più il calava il buio.
-Percy, Annabeth, a destra! – sentì urlare da Bob, e per qualche motivo il ragazzo sentì la voce del Titano venire da dietro di loro.
Ma comunque, il ragazzo strinse il braccio di Annabeth e la guidò a destra, senza mai smettere di correre.
Ora che avevano cambiato direzione, il buio non sembrava così assoluto.
La luce vermiglia dell’abisso incominciò di nuovo a definire i contorni delle pietre, delle montagne.
E dell’enorme faglia davanti a loro.
-Annabeth! – urlò tentando di avvertirla.
Percy si arrestò di colpo, stringendo la ragazza a sé in una stretta di acciaio bloccando bruscamente la loro corsa.
Un altro passo, e sarebbero finiti giù dal dirupo.
Percy guardò preoccupato la figlia di Atena stretta al suo petto, ma lei lo rassicurò con un cenno.
Il figlio di Poseidone volse allora il suo sguardo di fronte a sé e guardò giù, ma non vide altro se non il buio più assoluto.
Erano sul ciglio di una faglia enorme, abbastanza perché lui non ne vedesse la sponda opposta, che si estendeva a perdita d’occhio sia a destra che a sinistra.
-Per un pelo… - mormorò lui.
-Dov’è Bob? – chiese però Annabeth.
Percy fece per rispondere, ma non ne ebbe occasione.
Il suo sguardo si puntò alle loro spalle, e spalancò gli occhi dall’orrore vedendo l’orda di arai che stavano volando verso di loro.
Percy si preparò ad attaccare, spingendo Annabeth alle sue spalle.
-Morite vecchiette! –
Bob spuntò da dietro lo stormo di demoni, brandendo la scopa e colpendole con forza tale da disintegrarle sul posto.
Percy lo vide farsi facilmente strada in mezzo allo stormo, correndo verso di loro arrivando a fermarsi al loro fianco.
Aveva il fiatone, eppure stava bene.
La sua scopa aveva decimato le arai, ma da oltre la boscaglia di alberi scheletrici ne comparvero altre.
Molte altre.
-Bob stai bene? – chiese Percy rivolto al Titano.
Bob annuì sorridendo: -Niente maledizioni per Bob! –
Percy sentì le arai sibilare con sdegno.
“Certo che sta bene” dissero “Il Titano è lui stesso uno sconfitto! Tu lo hai privato dei suoi ricordi e della sua identità, perché mai dovremmo infierirgli ancora più dolore?”
Percy si paralizzò sul posto.
Si voltò a guardare Bob con lentezza estenuante, temendo lo sguardo del Titano.
E infatti, quando i suoi occhi si posarono su di lui, vide che le sue iridi argentate erano diventate fredde come ghiaccio.
-Bob… -
-Sei stato tu? – chiese il Titano, guardandolo dritto in faccia. -La mia memoria… -
“Sì!” risposero le arai “Il figlio di Poseidone non conosce pietà! Ti ha sconfitto e umiliato privandoti del tuo nome e del tuo titolo!”
Percy sentiva di poter svenire.
-Bob noi eravamo nemici. - mormorò. -E quando ti ho sconfitto, io non volevo ucciderti. Volevo darti la possibilità di vivere al sicuro. –
“Lasciandoti solo negli Inferi!” urlarono “Lasciandoti nelle mani di un dio subdolo e sciocco come Ade! La sua non era pietà!”
-Bob, ho sbagliato a lasciarti là. – disse il ragazzo. -Ma non sapevo cosa fare, prima di allora non avevo mai...-
Non riuscì a continuare. La realtà lo colpì come uno schiaffo.
Lui non aveva mai risparmiato un suo nemico.
Non aveva mai perdonato nessuno dei suoi opponenti.
Le arai risero con cattiveria, e Percy si voltò a guardarle.
Si gettarono su di lui ed Annabeth.
E Bob stavolta non le fermò.
 
Accadde tutto troppo velocemente.
Le arai attaccarono, e Percy non aveva idea di cosa fare. Per questo agì d’istinto, impulsivamente.
Quando la prima arai lo raggiunse, lui fece saettare la spada e il demone scomparve in una nuvola di polvere.
Non successe nulla.
Le altre arai sibilarono, fermandosi di fronte a lui.
“Sei già stato maledetto dallo Stige” dissero sprezzanti. “La tua ora non è ancora giunta. Non possiamo maledire qualcuno che è già stato condannato.”
Percy non fu sollevato come avrebbe voluti. Perché anche se loro non potevano maledire lui, potevano farlo con Annabeth.
E come se gli avessero letto nel pensiero, le arai risero.
“Ma c’è sempre lei, la figlia di Atena. Un’altra assassina, un’altra guerriera che ha sterminato senza scrupoli migliaia di creature.”
-Annabeth scappa. – mormorò Percy, lo sguardo puntato sulle creature.
-Tu sei pazzo, io non ti lascio. -
-Scappa Annabeth! –
Ma era troppo tardi.
Le arai si gettarono su di loro, e Percy attaccò senza frenarsi.
La sua spada disintegrava i demoni con facilità inebriante, e il ragazzo fece avanti in mezzo allo stormo di arai seminando morte e distruzione.
Ma durò pochi istanti.
Perché lui non poteva riuscire a bloccare tutte le arai, e alcune di loro si gettarono su Annabeth. Percy si voltò per cercare di fermarle, e fu allora che i suoi occhi si illuminarono dall’orrore.
-Annabeth no! – urlò, scattando verso di lei.
Aveva visto Annabeth raccogliere velocemente una scheggia di ossidiana da terra, aveva visto l’arai che si era gettata contro di lei con gli artigli d’osso sguainati, e aveva osservato la sua ragazza piantare il vetro tra le ali del demone pur di difendersi.
Percy sentì un brivido freddo come la morte attraversagli le vertebre.
E Annabeth urlò, lasciando cadere il frammento di ossidiana a terra e portandosi le mani agli occhi.
-Non ci vedo! –
Percy la raggiunse, stringendole immediatamente la mano: -Ti proteggo io. -
Annabeth alzò gli occhi su di lui, e Percy boccheggiò: le iridi della ragazza erano diventate vitree e lattiginose.
“Polifemo…” mormorarono le arai “Lo hai ingannato con la tua invisibilità. E ora, come lui, tu non vedrai chi ti attaccherà.”
La ragazza era nel panico, e gli strinse le braccia con tanta forza da fargli male guardandolo con i suoi occhi spalancati dal terrore.
E poi, un’altra arai si gettò su di lei.
Percy non fece in tempo a reagire.
Annabeth sentì il frusciare delle ali del demone, e per istinto, resa folle dalla cecità, la colpì col braccio cercando di scacciarla via. La creatura venne sbattuta a terra svanendo nella polvere.
E Percy lo vide succedere quasi al rallentatore.
Gli occhi vitrei della figlia di Atena si riempirono lentamente di lacrime, e l’espressione di terrore scomparve.
Incominciò a piangere incontrollabilmente.
-Percy… - mormorò lei, la voce distrutta dai singhiozzi.
Lui provò a dire qualcosa, ma aveva la gola serrata.
-Perché non riesci a vederlo? – disse la ragazza in tono accusatorio.
Il ragazzo la guardò orripilato.
-Annie cosa… -
-Perché non mi ami?! – pianse la ragazza scostandosi da lui. -Perché devi farmi soffrire così…-
Il modo in cui lo guardava gli fece male.
-Ma io ti amo Annabeth! Lo sai, Annabeth ti prego… - la implorò avvicinandosi a lei.
Ma lei lo spinse via bruscamente, arretrando piangendo.
-Stammi lontano! Perché continui a volermi stare accanto, se non potrai mai amarmi? Perché sei così pronto a fare qualunque cosa per me, ma non ad amarmi?! Non posso restare con te, non posso sopportare di vederti insieme a lei! –
Percy era pietrificato.
E le arai risero: “Tu ami lei. Ma non chi le ha lanciato questa maledizione…”
Percy guardò la ragazza, e vide nel suo sguardo la gelosia, il dolore, la frustrazione di un amore non ricambiato.
Era stata Reyna? O forse Rachel? Persino Calipso avrebbe potuto farlo.
“Ti sbagli.” dissero le donne intorno a lui con odio. “Esiste qualcuno che ti ama più di ogni altra cosa, qualcuno che per tutti questi anni è rimasto solo pur di non dover patire della vista di te con lei. Lui ha desiderato che la figlia di Atena soffrisse quanto lui ogni volta che la vedeva insieme a te, ogni volta che l’ha vista avere tutto ciò che lui avrebbe voluto.”
E lui capì di chi parlassero.
Qualcuno che lui aveva disperatamente cercato di tenere con sé, qualcuno a cui voleva bene ma che aveva sempre cercato di stargli lontano. E ora sapeva perché.
-No. No, lui non… - mormorò con gli occhi sgranati. -Nico non mi avrebbe mai maledetto. –
E le arai tornarono ad attaccare.
Percy si parò davanti ad Annabeth, e rivolse tutta la sua frustrazione contro i demoni. Le attaccò con tutta la sua disperazione e la sua rabbia, si gettò in mezzo a loro falciandole con la spada e gioendo quando ognuna di loro svaniva sotto ai suoi colpi.
Ma anche stavolta, non poteva impedire alle centinaia di arai di arrivare ad Annabeth. Erano in troppe.
Annabeth aveva cercato di non reagire, di non difendersi, ma anche così le arai le squarciavano la carne con gli artigli e con i denti. E oltre a quello, lei era cieca, e non vedere cosa la attaccasse la terrorizzava rendendola irrazionale e impulsiva.
Percy guardò oltre la sua spalla per una frazione di secondo, e si rese conto che Annabeth sarebbe morta.
-Bob! – urlò Percy senza mai smettere ad accanirsi sulle arai.
Il Titano non gli rispose, ma Percy era disperato.
-Bob so che non merito il tuo perdono! – urlò a corto di fiato. -Ma ti prego, salva Annabeth! Lei non merita di morire qui! –
Per un po’, nulla accadde. Percy ringhiò con tutta la sua disperazione, e con uno scatto repentino si inginocchiò accanto ad Annabeth, le strinse il braccio sinistro intorno alla vita e la trascinò via.
Le arai cercavano di toccarlo, ma le loro zanne e i loro artigli non potevano penetrare nella sua carne, e lui pensava solo ad avanzare, a proteggere Annabeth.
E poi, una scopa d’argento gli volò sopra la testa.
Prima che se ne rendesse conto, nel giro di pochi istanti, le arai vennero sterminate. E davanti a lui, dritto e con lo sguardo severo, si stagliò Bob.

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