And my loneliness is heavier than life

di Ruta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


lon

Maybe we'll meet again, when we are slightly older and our minds less hectic, and I'll be right for you and you'll be right for me. But right now, I am chaos to your thoughts and you are poison to my heart.
- Chris Cadle

 

 

 

 

 

Il messaggio di Monty è appena finito.
Bellamy continua ad osservare la luce rossa del secondo sole espandersi lungo la superficie del pianeta. Sembra che stia andando a fuoco, bruciando.
Per un attimo è su un'altra navicella, ad osservare un pianeta diverso che consuma sé stesso, con il cuore in tumulto e una voce nella testa che sussurra con qualcosa che è più che cruda agonia, più che semplice disperazione, più che la straziante consapevolezza che gli sia stata appena strappata via metà di sé stesso: quando sarà abbastanza? Quante volte dovrà perderla ancora prima che l'universo ritenga che sia sufficiente? Quando il troppo diventa troppo? Quando l'attesa può finire per lasciare iniziare qualunque sia ciò che li aspetta dopo?
L'assenza di Clarke al suo fianco è un'amputazione.
È un dolore che non gli è estraneo. Lo riconosce: potente, antico e familiare. Risuona dentro di lui come l'eco di tamburi da guerra, lo strepitio ululante del vento durante una tempesta. Sa di poter sopravvivere a questo tipo di dolore che gli è penetrato fin dentro le ossa, che sembra rattrappirgli la pelle, risucchiargli l'ossigeno dai polmoni, fargli esplodere le orbite, bruciargli le sinapsi del cervello, marchiargli l'anima e urlare dentro di lui. Urlare urlare urlare. Un nome. Una speranza. Un rimpianto che ha il sapore del rancore, della neve quando si scioglie. Ha già vissuto una vita senza di lei. Può convivere con la sindrome dell’arto fantasma. Il punto non è mai stato riuscirci. L'ha già fatto una, due volte. Sa che può farlo.

Non sa se vuole.

 

 

 

And my loneliness is heavier than life

 

 

 

 

 

"Bellamy." 
Forse è un'impressione o un effetto delle luci, ma il viso di Clarke è più pallido del solito nello schermo. La sua voce è ferma, i suoi occhi saettano nervosamente di lato come se non riuscissero a concentrarsi sulla camera che sta riprendendo. Contengono un'urgenza che in chiunque altro sarebbe angoscia o rabbia. "Qualcosa è andato terribilmente storto. Registrerò un nuovo messaggio quando avrò maggiori informazioni da condividere."

*

"Ho cercato di sistemare il guasto." 
La vede scoppiare in una risata querula, passarsi una mano tra i capelli. Appare tesa e preoccupata. Da quanto non dorme? 
"Sembra che abbia sopravvalutato le mie capacità ingegneristiche. Non che sia davvero sorpresa. Non sono riuscita a far funzionare una radio in sei anni." 
Alla menzione delle chiamate radio, il petto gli si comprime. Respirare diventa difficile, quasi un'impresa titanica oltre l'oppressione che si è propagata fino alla gola come un'infezione. Non sa cosa sperare. 

Se questa è la fine. Se questo è tutto ciò che rimane di lei. Attimi rubati di qualcosa che è già successo nel passato, già scritti e perciò immodificabili.
Clarke sospira. I suoi occhi stremati e cerchiati da ombre violacee per l'assenza di sonno bucano lo schermo, brillano per la promessa che gli sta facendo. "Continuerò a provare."
Bellamy rilascia il fiato che non si era accorto di trattenere. 
Entrambi respirano, anche se su linee temporali diverse. Finché respirano, c'è ancora speranza.

*

"Mi sono svegliata cinquanta anni prima del previsto," annuncia tetramente nel terzo messaggio. La data nella parte inferiore della registrazione lo informa che sono trascorsi dieci mesi dal primo video. I capelli le arrivano alle spalle ora, non una massa indomabile di ricci, ma una cascata liquida di oro e ambrosia. Oro come devono essere stati il vello rubato da Giasone o il pomo della discordia di Eris. Oro e nettare degli dei. Prezioso, proibito, irraggiungibile. 
Clarke corruga le sopracciglia come se fosse appena stata attraversata da un pensiero spiacevole. Cosa non lo è nella loro vita? "Questo significa che nel caso in cui non riuscissi a riparare l'anomalia del mio baccello, quando tu e gli altri vi sveglierete potrei essere già morta oppure che sarò abbastanza vecchia da essere tua nonna o la madre di mia madre." Esita per poi ammettere in un sussurro spezzato, dando voce alla voragine in cui aspetta e si cela la paura di entrambi: "Non so quale alternativa mi spaventa di più."

*

"Ho visto i messaggi di Monty." 
Per un po' smette di parlare. La testa inclinata come se volesse prendersela tra le mani e la postura dimessa, come se potesse crollare da un momento all'altro. I suoi respiri rotti. Le dita delle mani congiunte in grembo, così sottili e pallide contro il nero dei vestiti che indossa. 
Il silenzio dura abbastanza perché Bellamy senta distintamente lo schianto del proprio cuore che si spezza poco alla volta, singhiozzo dopo singhiozzo. Appoggia i palmi ai lati dello schermo perché non può toccarla, accosta la fronte e aspetta, mentre piange insieme a lei l'amico che hanno perso, il groviglio di tutte le parole non dette e rimaste in sospeso tra di loro, le promesse infrante, le possibilità sfumate, ogni singola scelta impossibile e azione moralmente scorretta, ma necessaria per il bene comune. 
Non sa cosa sia peggio. Se il dubbio lacerante di non sapere ancora se lei ce l'abbia fatta oppure osservare gli effetti devastanti della solitudine, sapendo di non poterla raggiungere, di non poter fare nulla. Di essere impotente, ancora una volta. Solo uno spettatore inerme. Osservare come un intruso, attraversato da un desiderio che supera perfino la nostalgia e la perdita. 
"Sarà così anche vedere i miei?"
Lui sta sperimentando il suo stesso panico. La vedrà morire davanti ai suoi occhi?
Quando solleva il mento, le sue labbra tremano e le palpebre sono gonfie e arrossate, le ciglia palpitanti gettano ombre sinistre sulle sue guance umide. Oltre la distanza temporale, gli occhi infossati di Clarke incrociano i suoi. Per un attimo sono assurdamente vicini, insostenibilmente lontani, così cari.  
"Vorrei che ci fosse un altro modo." 

*

"Non posso farlo."
Sono trascorsi due anni e sette mesi. 
L'ha vista combattere. L'ha vista distruggersi dopo i vari tentativi falliti. L'ha vista accettare l'ennesimo peso e impegnarsi a trovare una soluzione, affrontandolo come l'ennesimo ostacolo da superare. Solo che questa volta le onde sono troppo alte. La zattera rischia di sfracellarsi contro gli scogli e lei di annegare negli scuri abissi marini. Dopo dieci anni di sangue e fuoco sprecati a combattere una guerra non sua, Odisseo impiegò altri dieci anni per ritrovare la sua Itaca, per colpa di un dio crudele e della sua stessa arroganza. Sarà così anche per loro?
"Non posso farlo. Non di nuovo," Clarke dice e suona come una preghiera e una maledizione. Si preme i pugni contro gli occhi chiusi, il viso una maschera contorta. Non ci sono stati progressi. Il suo baccello continua a non funzionare. 
"Sì che puoi," lui ribatte. Sa che non può sentirlo. Non è come funziona. Non gli importa. Una parte di lei può sentirlo. È la parte che l'ha spinta a parlargli attraverso una radio rotta ogni giorno per sei anni. Lo stesso sentimento ora anima lui, una forza propulsiva che crea e distrugge, innalza e polverizza. 
"L'hai già fatto una volta. Puoi farlo di nuovo."
"Non ero da sola quella volta," lei risponde come se lo avesse sentito, allontanando le mani quel tanto che gli basta per avere uno scorcio di azzurro. È un pensiero assurdo, pura pazzia, ma stranamente confortante. Il suo cuore emette una nota discorde contro la gabbia toracica. "Avevo Madi. Avevo..." si interrompe, stringendo le labbra. 

Te, sembra che voglia dire. Te. Te. Lui attende, paziente, ipnotizzato. Cos'altro può fare?
"C'è qualcosa che devi sapere." Gli racconta quello che lui sa già, che Madi gli ha detto. "So che sembra folle," conclude in tono difensivo, vulnerabile come l'ha vista solo poche altre volte, giovane come non gli è più apparsa dopo Atom, "ma parlarti ogni giorno, anche se non hai mai risposto, mi ha mantenuta sana di mente."
C'è così tanto altro che gli sta comunicando, che gli sta dicendo tra le righe e lui deve lottare per riprendere il controllo. Gli sembra di avere la lingua attaccata al palato, la bocca piena di sabbia. 
"Non è folle." Cerca di sorridere, ma è un sorriso atrofizzato dal disuso. Una parte di lui sta ancora dormendo nel baccello. Forse si tratta di un incubo e quando si sveglierà lei sarà al suo fianco com'è giusto che sia, come avrebbe dovuto essere sempre, sin dall'inizio. "Un po' patetico forse, ma non folle."  
Il sorriso di lei è improvviso come un miraggio di primavera, piccolo e luminoso a vedersi, bello come le cose tristi e fragili che si vuole proteggere a tutti i costi. 
Si asciuga il bordo degli occhi con la manica e si schiarisce la voce. "Sono abbastanza sicura che tu abbia appena fatto un'osservazione pungente. Vorrei averla sentita." Una pausa, il sorriso non è ancora scomparso, ma non è più come un'alba, piuttosto si è trasformato ed è più simile a un tramonto.
"Vorrei poterti vedere."

 

 

And so it seems I must always write you letters I can never send.
-
Sylvia Platt

 

 

Dopo questo video cade in ginocchio. Non sa se è in grado di continuare. Non sa se è pronto ad accettare la terrificante eventualità che lei non-
Jordan mette in pausa. Lo schermo non torna nero, semplicemente si blocca sul profilo di Clarke ritagliato nella cornice del monitor. 
Bellamy chiude gli occhi. Non serve a nulla. L'immagine di lei ha messo radici nelle sue retine, così come il suono della sua voce. Come ha potuto dimenticare così a lungo? Questo è l'effetto che esercita su di lui. Come il canto della sirena che avvolgeva i marinai, stregandoli al punto da spingerli volontariamente verso una morte lenta e atroce. Alla fine riconosce la massa incandescente alla bocca dello stomaco, la tensione nelle spalle che sembra trascinarlo verso il basso. È rabbia.
Anche questo è un sentimento familiare, specie se associato a lei. Una volta identificata per quello che è, è impossibile provare altro. La rabbia attutisce, opacizza. È ghiaccio su un'ustione. Fa passare il resto in secondo piano.
"Perché non ha provato a svegliare qualcuno di noi?" Riconosce a stento la sua voce. Il silenzio che li circonda è assordante dopo le verità mute di Clarke, le confessioni nei suoi sguardi tormentati. Avrebbe potuto svegliare Raven. Avrebbe potuto svegliare lui. Insieme avrebbero trovato una soluzione. Non avrebbe dovuto farsi carico anche di questo da sola.
Jordan non risponde subito, sembra sulle spine. "L'ha fatto," ammette a malincuore. 
Bellamy solleva la testa così in fretta da procurarsi un crampo dietro la nuca. Chi, è il primo pensiero nello stupore assoluto. Poi di nuovo risentimento. Perché non lui? 
Jordan è a disagio, quasi imbarazzato. "Voleva farlo," si corregge subito, "ma alla fine..." sospira. "C'è un limite ai peccati che una persona può espiare o per cui può sentirsi colpevole." L'intensità con cui lo sta fissando gli ricorda Monty, ma anche Harper. Non è solo empatia. È gentilezza. È comprensione. È accettazione. 
"Forse non dovrei." Gli dà le spalle e comincia a trafficare con la consolle. Un altro schermo sopra le loro teste si accende e comincia ad emettere un leggero ronzio, si illumina in una linea verde. Da sopra la spalla, Jordan incrocia di nuovo il suo sguardo per un brevissimo momento prima che sullo schermo inizi una nuova registrazione. "C'è qualcosa che voglio mostrarti." 
Sono altre immagini di Clarke, questa volta rubate dalle telecamere di sicurezza e senza audio. Lei è accanto al suo baccello, di spalle. Nella penombra il suo viso è accigliato e addolorato. Sembra in conflitto.  Lui sa perché. Riconosce quell'espressione. La stessa dopo Mount Weather. Dannazione. 
Gli occhi di Jordan riflettono lo stesso tipo di conflitto. Quello di lasciare indietro quanto si ama per non rimanere indietro. Rinuncia, sacrificio, devozione. Un amore che supera l'istinto di autoconservazione. "Non poteva farti questo."

*

"Oggi è il mio compleanno, Bellamy. È un giorno speciale. Vuoi sapere perché?"
Ha le labbra incurvate verso l'alto, ma il sorriso non le raggiunge gli occhi che invece sono socchiusi e guardinghi, pericolosi come trappole nascoste. Gli occhi di una donna che sta cambiando, sta invecchiando senza di lui. Di nuovo. 
"Sono tutt’orecchi," risponde stancamente.
"Compio trent’anni. Sai cosa significa?" Clarke si piega in avanti e si avvicina fino a quando sono pochi centimetri a separarli. Pochi centimetri e quarantaquattro anni. Suona divertita e lui indovina facilmente il motivo. "Sono più vecchia di te."
Per un istante è facile dimenticare dove si trova, concentrarsi solo su di lei, sulle sue sopracciglia inarcate in modo ironico, sul neo sopra il suo labbro superiore, sui suoi capelli di nuovo corti che assomigliano alla criniera di un leone. Per un momento immagina come sarebbe facile spostarle quella ciocca di capelli indisciplinata che le cade sulla fronte. 
"Sono trascorsi sei anni da quando mi sono svegliata dal sonno criogenico," lei dice e ogni traccia di svago si dilegua in un nuovo lampo di sofferenza accecante. "Sei anni," lei ripete con una voce strana, vuota. "Non è buffo? È più il tempo che abbiamo trascorso separati di quello che abbiamo mai trascorso insieme. Lo odi quanto me?"
Città che ardono come pire di fuoco, pianeti che bruciano, corpi di cenere e una bottiglia di liquore invecchiato. Lui serra i pugni. 

Sai che lo faccio.

*

È uno strano déjà-vu quello che lo coglie. La sensazione è estenuante. È come osservare una scena già vista. 
La sua paura si intensifica. La conosce; conosce ognuna delle sue sfaccettature, espressioni e forme. Appare indecifrabile. Diversa in modo penetrante, pungente, insopportabile. Sono trascorsi nove anni da quando si è svegliata dal sonno criogenico. Altri giorni che non torneranno mai più, persi nel labirinto del minotauro.  
"Questo sarà l'ultimo messaggio. Forse ho trovato il modo di hackerare il sistema. Se riesco ci vediamo dall'altra parte. Se non riesco..." L'alternativa è odiosa. Come lui, lei preferisce evitare di prenderla in considerazione. "Prima di andare voglio che tu sappia un paio di cose. Non siamo mai stati del tutto onesti io e te."
Capisce cosa sta facendo nello stesso momento in cui ricorda con un sussulto. È come rivivere il momento nel laboratorio di Becca. Solo che questa volta non può abbracciarla, non può trovare conforto nelle sue mani poggiate all'altezza dei reni. Suona come un addio e potrebbe essere quello definitivo. 
"Clarke," lui gracchia disperatamente, come se lei potesse davvero sentirlo, come se potesse impedire quello che sta succedendo, che è già successo, come se potesse fermare il supplizio dell'ennesimo struggimento. "Non devi farlo per forza."
"Il tempo non è mai stato dalla nostra parte," lei continua imperterrita, lo sguardo fisso davanti a sé e il mento sollevato. "Non mi piacevi all'inizio. Ti trovavo supponente e cinico."
"Neppure tu mi piacevi," lui replica senza reale convinzione. "Sei stata una spina nel fianco sin dall'inizio."
"Poi ho visto cosa eri disposto a fare pur di proteggere tua sorella." Nonostante continui a guardarlo, lui percepisce il modo in cui, mentre parla, lei si sia estraniata, ripercorrendo con la mente i loro ricordi in comune, la storia che li ha resi quello che sono, che li ha portati esattamente dove si trovano. "Ho visto il modo in cui cercavi di fare la cosa giusta anche quando fare la cosa giusta era impossibile. Suonerà assurdo, ma adesso che sono persi, mi mancano quei giorni, quelli in cui non ti conoscevo ancora, in cui la mia unica preoccupazione era tenere a bada te e il resto dei Delinquenti. Mi manca quello che avevamo allora, quello che eravamo, che stavamo diventando."
Anche a lui manca la loro vecchia vita. Gli manca perché c'era lei.
"Voglio che tu sappia che lasciarti indietro è stato uno sbaglio. Sono un'assassina e ho le mani sporche del sangue di centinaia di persone, ma il mio più grande rimpianto rimani tu. Avrei dovuto dirtelo quando potevo. Credevo di avere tempo. Ho sbagliato e mi dispiace. Non avrei mai dovuto abbandonarti a Polis."
Il suo sguardo è lucido, liquido per una infelicità amara.
"Non importa,” lui dice raucamente. “Ti perdono. Ti ho già perdonata un secolo fa."
Lei deglutisce. Non sta piangendo, ma è molto vicina. "Di' a Madi che la amo. Di' a mia madre e agli altri che mi dispiace. Bellamy, io..."
"Lo so, Clarke. Anch'io." Ti amo ti amo ti amo.
Lei fa una smorfia. "Suppongo che sia un addio per il momento."

*

Non sa quanto tempo sia trascorso. Jordan poggia la mano sulla sua spalla e dai recessi nebulosi della sua coscienza, Bellamy trova la forza di attraversare il baratro in cui si trova per guardarlo in faccia. "Mi dispiace," lo sente dire. 
Bellamy annuisce. Per cosa? Perché ancora una volta lei è rimasta indietro, da sola, circondata dal nulla e dai fantasmi? O perché c'è qualcosa di peggio che non ha ancora ha avuto il coraggio di dirgli?
Avrebbe senso. Jordan si è svegliato per primo e potrebbe avere avuto il tempo di vedere i video di Clarke, di verificare il suo baccello, monitorare la situazione della nave al punto da sapere che ad un certo punto sarebbe stato necessario mostrargli le registrazioni di sorveglianza. Sa se Clarke ce l'ha fatta. È solo un ragazzo e quello che a cui ha appena assistito spezzerebbe uomini più vecchi. Ha spezzato lui. 
"Ce l'ha fatta?" 
Jordan evita il suo sguardo e ogni pensiero cupo e terrificante riaffiora. 
"Non come aveva sperato."
Che diavolo significa?
Jordan deve intuire la sua impazienza, la sua crescente frustrazione. 
"Dopo quel video, è rimasta sveglia altri dieci mesi."
Dieci mesi. Perciò è stata sveglia per-
"Nove anni, dieci mesi e quattordici giorni," lo anticipa Jordan. 
Bellamy non ha il tempo di metabolizzare. Il ragazzo ha un'aria devastata e colpevole, come se sapesse di aver sferrato un colpo fatale a un avversario già a terra, ma raddrizza le spalle e incrocia il suo sguardo con quieta determinazione. 
"C'è un ultimo messaggio che devi vedere."

*

"È una specie di scherzo?" Murphy domanda alla fine del secondo video di Clarke. 
Dio, come lo vorrebbe. 
Bellamy scoppia in una risata amara e volta loro le spalle, allontanandosi. Chiude gli occhi e incrocia le braccia sul petto. Le bende avvolte attorno alle sue mani sfregano fastidiosamente contro il tessuto della maglietta. Stanno affiorando piccoli puntini rossi, come fiori di ruggine, e il dolore che gli attraversa le dita è un pulsare sordo e ritmico, costante. 
Sotto di lui il primo sole tramonta e il secondo sorge mentre il contorno del pianeta è frastagliato da riverberi abbacinanti di colori differenti. Dovrebbe essere una vista mozzafiato. Dovrebbe. 
Mentre Clarke continua a parlare, il resto del gruppo tace, ammutolito da quello che può essere identificato solo come smarrimento e orrore.
Il viso di Raven all'inizio rimane inespressivo, ma comincia a vacillare dopo il quarto video, esattamente com'è capitato a lui due giorni prima. Dopo la fine dell'ultimo messaggio l'aria nella sala diventa claustrofobica.
Bellamy si avvicina al gruppo e spegne il monitor. Jordan è seduto in un angolo, taciturno e a disagio. Di sicuro non era come si era aspettato il suo risveglio. 
Prevedibilmente è Murphy il primo a ritrovare il dono della parola e la sua voce gronda biasimo e sbigottimento. "Non penserai di farlo sul serio?"
"È quello che Clarke vuole," lui ribatte seccamente.
"Perciò la lasceremo dormire davvero per altri cinque anni?" Se Murphy sperava di ottenere sostegno dal resto del gruppo, il suo desiderio si infrange nell'assenza di reazioni collettive. Sono tutti nella fase iniziale di negazione. "Sono l'unico a trovare che sia un'idea idiota? Tu non hai niente da dire, Reyes?"
Interpellata, Raven solleva la testa. "Perché dovremmo svegliarla?" Ogni parola è come acido, corrosiva e ostile. "Non abbiamo bisogno di lei. Siamo sopravvissuti senza di lei per sei anni. Cosa sono cinque di più?"
Sa che non lo pensa davvero e la durezza è solo una copertura, una rete di camuffamento. Fa così quando è sulla difensiva. Nasconde il suo lato più emotivo dietro freddo cinismo e una spietata noncuranza che a tratti rasenta la crudeltà. Anche se non la conoscesse bene, le tracce di lacrime secche sulle sue guance la tradirebbero e sarebbero una prova evidente di quanto sia effettivamente turbata. Nonostante tutto, è difficile ascoltare quello che ha detto senza irrigidirsi, tanto più lo è digerirlo. 
"Emori?" domanda e la vede voltarsi verso di lui. Non sembra sconvolta, ma i suoi occhi sono lucidi, tristi e pieni di risolutezza. "Io sono con Murphy," dichiara. "L'abbiamo abbandonata già una volta."
Le parole riverberano dentro di lui, come se qualcuno le stesse tatuando nella sua mente. Suonano simili a un rimprovero, a una condanna. 
"È davvero abbandonarla?" interviene Echo. "Questa volta è lei a volerlo. È una sua richiesta."
Gli sguardi di tutti sono di nuovo puntati su di lui, come se gli stessero dicendo che la decisione spetta a lui. 
"Jordan, fai parte della famiglia adesso. Cosa ne pensi?"
"Io-" Jordan sgrana gli occhi ed esita, come se non si fosse aspettato che qualcuno chiedesse il suo parere. "La scelta è di Clarke e credo che dovremmo rispettarla," risponde lentamente, "ma ci sono persone qui che hanno il diritto di esprimere la loro opinione al riguardo più di me."
"Cosa stai suggerendo?" domanda Murphy. "Che lo mettiamo ai voti?"
Jordan non si lascia scalfire dal tono sarcastico e non distoglie lo sguardo, anche se è evidente che l'argomento lo metta in difficoltà. Probabilmente fa riaffiorare ricordi dolorosi. "Sto solo dicendo che Clarke ha una madre e una figlia." 

Madi, lui pensa con una fitta improvvisa ed è come se qualcuno gli avesse tirato un pugno in pieno petto.  
Poi, come se non fosse abbastanza, Jordan gli rivolge uno sguardo affranto prima di sganciare l'ennesima bomba. "Bellamy non è l'unico a cui abbia lasciato un messaggio."

*

Bellamy, se questa è l'ultima occasione per dirlo, non voglio sprecarla. 
Madi, mia madre, i nostri amici sono nel mio cuore. Sono il motivo per cui sono sempre andata avanti, per cui ho fatto quello che ho fatto. Sono la persona che ho scelto di essere per proteggere ciò che amo e non me ne pento. Se potessi tornare indietro, rifarei ogni cosa. Ho odiato così a lungo me stessa, ma non rimpiango i miei errori perché rimangono miei, parte di ciò che sono, nel bene e nel male. Ma tu, Bellamy, tu non sei come loro. Tu non sei lì dentro insieme agli altri, tu sei tutto ciò che li circonda. Tu sei il mio intero cuore. Lo sei stato per molto tempo. Sei il mio migliore amico, la mia famiglia, la mia metà, la parte migliore di me. Mi dispiace se l'ho perso di vista per un po'. La verità è che sono stanca di essere arrabbiata con te. Mi hai tradito, ma non è questo l'ultimo pensiero che voglio avere di te. Ne abbiamo passate così tante, tu ed io. So che sei andato avanti ed è ora che lo faccia anch'io. Per questo, perché mi fido di te più di chiunque altro al mondo, ho una richiesta da farti. Ti chiedo di non svegliarmi. Non fraintendere. Voglio che tu mi svegli, solo che non voglio che tu lo faccia subito. Ho perso così tanto, Bellamy. Vi ho aspettato per metà della mia vita. Non voglio guardarmi indietro e rimpiangere tutti questi anni che non ho vissuto con voi. Non ti chiedo di aspettare dieci anni, neppure otto. Ti chiedo cinque anni. Per allora, per quando mi sveglierai, avremo la stessa età. Per allora, spero che anche tu mi avrai perdonato. Spero di poter avere un posto nelle vostre vite. Spero... nella speranza di rivederci.  

*

Madi, so che probabilmente sarai arrabbiata e ti sentirai delusa. Voglio che tu capisca che non è colpa tua. Tu sei l'unica ragione per cui sono sopravvissuta sei anni sulla Terra, per cui ho resistito così a lungo. So che pensi che ti abbia salvato la vita il giorno in cui ti ho trovato, ma è stato il contrario. Tu hai salvato me. Ero così sola e disperata e avevo il cuore spezzato, ma tu mi hai permesso di rialzarmi sulle mie gambe e mi hai dato qualcosa che avevo perso. Una famiglia. Mi hai restituito speranza. Speranza per un futuro migliore e la forza di lottare per quel futuro, per ritrovare la mia casa. Mi dispiace se non sono una persona migliore. Vorrei che le cose fossero andate diversamente. Non ti chiedo di non odiarmi, soltanto di rispettare la mia scelta. Bellamy sarà lì per te e così mia madre e il resto dei delinquenti. Abbi cura di loro come loro ne avranno di te. Non sei più una bambina, ma sarai sempre la mia bambina. Sono così orgogliosa di te, della persona speciale che sei. Rimani gentile e compassionevole, non lasciare che le battaglie ti induriscano e compromettano la tua capacità di perdonare. Fai le tue scelte e non rinnegarle, non vacillare anche quando il mondo ti viene addosso. Non cercare lo scontro se non quando è strettamente necessario. Combatti per difendere e non per il piacere del sangue. La vendetta non è mai giustizia. Non innamorarti del potere perché corrompe e offusca la ragione. Sii coraggiosa anche quando hai paura, usa la testa e il cuore insieme e non dimenticare mai chi sei, rimani fedele ai tuoi principi. Prima di essere il Comandante, sei mia figlia, sei te stessa. Questo non è un addio, è solo un arrivederci. Ti voglio bene, Madi. Mi manchi ogni ora di ogni giorno. Aspettami nel futuro. 

 

*

 
Mamma, se stai guardando questo messaggio è perché probabilmente state decidendo se risvegliarmi ed è stato messo ai voti. Non ti chiederò di non svegliarmi. So già che voterai per farlo. Voglio che tu sappia che ti ho perdonata. Per quello che hai fatto a papà. Io stavo facendo lo stesso prima del Priamfaya con quella dannata lista. Ora riesco a vederlo, riesco a capire. Come ti sei sentita quando hai visto morire papà. Adesso so perché l'hai fatto. Io ho fatto lo stesso. Stavi cercando di proteggere me, di salvare me, di fare la cosa giusta. Come sei sopravvissuta a questo dolore, sapendo di aver ferito così profondamente qualcuno che amavi, che hai tradito la sua fiducia, che lo hai lasciato morire?
Impari ad accettarlo e a conviverci, credo, come con tutto il resto. Sono così stanca di essere questo tipo di persona. Sono così stanca di vivere senza il mio cuore. Ho provato ad essere migliore, ad essere buona, ma ogni volta perdo qualcuno o rimango indietro. Sono così stanca di essere lasciata indietro. Mi manca la mia famiglia. Mi manca essere la figlia di mio padre. Voglio assaporare la pace che non ho conosciuto da quando ho messo piede sulla Terra. Ho trentaquattro anni e sono stata in guerra e ho combattuto metà della mia vita. Non voglio smettere di combattere, solo... Voglio del tempo per guarire. Una volta sono stata una guaritrice. È tempo per me di riposare. Prenditi cura di loro per me. Ti voglio bene, mamma. Mi manchi. So che farai sempre la cosa giusta anche se io non la condivido. 

 

 

When you come back, you will not be you. And I may not be I.  
- E.M. Foster 


N/a:
Primo capitolo di tre. Secondo in stato di rilettura, terzo in fase di scrittua :)

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Capitolo 2
*** II ***


2

CAPITOLO II

 

 

Guilt is cancer. Guilt will confine you, torture you, destroy you. It's a black wall. It's a thief.
- Dave Grohl

 

 

Non importa quante volte riguardi gli ultimi messaggi di Clarke, ogni volta è dolorosa come se fosse la prima.
Mi manchi ogni ora di ogni giorno. Aspettami nel futuro. 
Anche dopo che spegne la registrazione e lo schermo diventa nero, Jordan rimane accostato a Madi, abbastanza lontano da concederle lo spazio che le occorre, abbastanza vicino da farle capire che è lì per lei se ne avesse bisogno.
Bellamy li osserva, riconoscendo facilmente il legame che si sta instaurando tra i due. È qualcosa che lui avrebbe fatto con Octavia. Memoria muscolare. Come un istinto di protezione impossibile da sopprimere o mettere a tacere.
Ad esclusione di Abby, rinchiusa in infermeria a cercare una cura per Kane, del resto del gruppo hanno voluto essere presenti solo Raven e Murphy e lo sono, anche se dislocati strategicamente in vari punti della stanza. Raven è vicina alla finestra e dà loro le spalle. Murphy è seduto al tavolo. Esattamente come la prima volta, nessuno proferisce parola. Non che si fosse aspettato reazioni differenti. È trascorsa una settimana dal loro risveglio e lui e Abby hanno discusso a lungo prima di decidere se svegliare Madi. Di opinione contraria a quella della madre di Clarke che avrebbe preferito aspettare ancora, gli era sembrata la cosa giusta da fare. Ora, osservando le spalle accasciate della ragazzina, si chiede se non sia stato crudele da parte sua, se non abbia commesso un errore.
"Madi," dice. Poggia una mano sulla sua spalla. Lei fa una smorfia e lui cerca di non prenderla sul personale. Ha appena perso sua madre, o almeno è ciò che pensa. La sua assenza è la realtà con cui potrebbe dover convivere per altri cinque anni. È una reazione normale. Le passerà. "So che è difficile. Non devi sforzarti. È normale che tu sia arrabbiata con lei."
Lei scaccia la sua mano. Questa volta è impossibile non sentirsi ferito. È un gesto deliberato, voluto.
"Con lei?" ripete. La sua faccia è corrucciata. Il dispiacere che divampa nei suoi occhi è mischiato indissolubilmente a una rabbia che sembra esagerata per una persona così giovane. Sa che l'età non significa nulla. Lui ricorda un'altra ragazzina infelice e furente con il mondo, vittima delle circostanze e di un sistema inflessibile. "Credi che sia questo il problema? Io non sono arrabbiata con Clarke."
Bellamy spera che il suo viso non tradisca la confusione che sta provando. "Ti ha lasciato."
"Ha lasciato anche te," lei commenta con amarezza. "Sei ancora arrabbiato?"
Non sa cosa rispondere. La verità è che vorrebbe essere arrabbiato con lei per aver gettato la spugna e per averlo lasciato, ma non riesce a farlo, non davvero. È arrabbiato perché non è lo è e perché vorrebbe esserlo. La rabbia che prova è rivolta principalmente contro sé stesso, non contro Clarke.
"Vedi?" Madi scuote la testa come se gli avesse letto nel pensiero. "Sei come me. La ami troppo per odiarla davvero."
Lo guarda con occhi lungimiranti e troppo vecchi. Sono gli occhi di chi ha vissuto cento vite e combattuto mille battaglie, versato il sangue dei suoi nemici e sotterrato famiglie e alleati, visto devastazione e morte. Sono gli occhi di Clarke dopo Mount Weather. L’orrore di quella scoperta gli toglie il respiro.
"Se non sei arrabbiata con lei, allora-"
"Non capisci ancora? Sono furiosa con te, con tutti voi. Ti ho detto delle chiamate radio. Gliene hai parlato?"
"Aspettavo il momento giusto." Odia il modo in cui appaia sulla difensiva, ma odia ancora di più la delusione con cui Madi lo sta guardando.
"Ti ha aspettato per sei anni," lei dice, inaspettatamente dura nella sua brutale schiettezza. Volge la testa verso gli altri e, se possibile, il suo viso sembra incupirsi ancora di più. "Ha aspettato tutti voi per sei anni. Sei anni, riuscite a immaginarlo?" Nell’impeto del movimento i suoi capelli tracciano un arco minaccioso nell'aria, trecce spesse come spire di serpenti. Assomiglia a una delle Erinni, spietata e sanguinaria, pronta a vendicare il delitto contro la sua famiglia. "Poi ne ha trascorsi altri dieci da sola."
"Avrebbe potuto svegliare chiunque di noi," fa notare Raven, fronteggiando il suo sguardo senza la minima esitazione o vergogna.  
Madi si irrigidisce e la sua espressione tradisce un lampo di sorpresa. Memore di quello che Jordan gli ha mostrato, Bellamy ripensa alle telecamere di sicurezza e sta per intervenire. Madi lo anticipa. "Ha scelto di non farlo," dichiara e la sicurezza nella sua voce brilla come un faro. La fiducia che ripone in Clarke è accecante, indistruttibile. Gli ricorda quella che un tempo è stata anche la sua. "Sapete perché? Ha portato il peso da sola perché non dovesse farlo nessun altro di voi, ancora una volta. Quando eravamo solo noi due, Clarke mi raccontava storie su di voi. A volte erano storie divertenti, a volte storie che la facevano piangere. Parlava di voi tutto il tempo, di cosa eravate disposti a fare pur di proteggervi l'un l'altro. Eravate sempre voi gli eroi, ma non lo siete." Se uno sguardo potesse tramutare in pietra- lui chiude gli occhi, sconfitto già prima che lei sferri il colpo di grazia. "Mia madre lo è."
Il silenzio è fragoroso, indigesto, e sembra che la realtà possa collassare da un momento all’altro sotto il peso dell’acredine che si respira nell’aria come una cosa viva, multiforme, rancida. Jordan alterna momenti in cui è a testa china con altri in cui i suoi occhi hanno un’espressione smarrita e frastornata.
Madi ha le labbra così pressate tra loro che la sua bocca assomiglia a una cicatrice sottile, le sue guance sono pallide.   
"Ciascuno di noi ha fatto cose sbagliate per i motivi giusti o cose che rimpiangiamo," lui cerca di placarla, poggiandole una mano sul gomito. Lei fissa intensamente la sua mano e poi il suo volto prima di scuotere la testa, nella negazione di quello che lui ha appena detto.
"Mi ha mentito. Aveva detto che saremmo stati una famiglia," la sente dire a bassa voce, rivolta a nessuno in particolare.  
La sta perdendo. È come con Octavia tutto daccapo. La tragedia di un'altra ragazzina che smette di idealizzarlo come un eroe e riconosce la sua natura umana, imperfetta. "Lo siamo." Cerca di suonare rassicurante, persuasivo e non terrorizzato come se si trovasse sull’orlo di un precipizio. "Possiamo esserlo."
"A voi non interessa nulla di Clarke." Non sta urlando e forse è la cosa peggiore. Non è lo sfogo di una bambina, ma l'analisi accurata, convinta e disillusa di un'adulta. "Non la meritate."
"Cosa vuoi saperne? Sei soltanto una bambina," interviene Murphy. Non c’è reale mordente né cattiveria nel suo tono, ma le sue parole pungono lo stesso. Non sembra passato molto tempo da quando la stessa frase è stata rivolta a tutti loro. Con supponenza, alterigia, come un dato di fatto. Qualcosa di cui vergognarsi.
"No, non lo sono," ribatte Madi calma e tra i due è Murphy il primo a distogliere lo sguardo. Vorrebbe che Clarke fosse qui per vederla. Sarebbe fiera di lei e forse, oltre l'orgoglio, proverebbe anche una trafittura di dispiacere, di tristezza all'idea che sia cresciuta così velocemente. "Non più grazie a lui," lei continua, sollevando il mento e raddrizzando le spalle. "Sono il Comandante."
"Madi." Fa un passo verso di lei, ma non la tocca. Scaccerebbe la sua mano di nuovo? "Sai perché l'ho fatto. Hai accettato."
"Io lo so, ma lei lo sapeva?" Eccola di nuovo l'accusa, la cruna dei suoi dubbi esacerbati. "Glielo hai mai detto? No, perché aspettavi il momento giusto. È colpa vostra se non vuole svegliarsi." Poco più di un bisbiglio amaro, ma ugualmente udibile: "Vorrei che foste rimasti dov'eravate."
Quando gli dà le spalle ed esce dalla stanza, a passi rapidi e misurati, sa di averla persa. È tentato di seguirla e di prendere a pugni qualcosa. Non necessariamente in questo ordine.
"Abbiamo visto dei video diversi senza che me ne accorgessi o mi sono perso qualcosa?" domanda Murphy.
"Sta' zitto, Murphy," lui e Jordan dicono contemporaneamente.
Murphy rotea gli occhi nella sua direzione poi, rivolto a Jordan, si porta una mano al petto con fare mortalmente offeso. "Credevo di essere il tuo preferito."
Jordan reagisce come se non avesse aperto bocca. "Madi ha ragione."
"Non anche tu," grugnisce Murphy e fa ricadere la testa sulle braccia come se tutto quel discutere lo avesse sfiancato.
"Voi non riuscite a capire perché non ci siete mai passati. Non immaginate cosa significhi, non davvero. Si può morire di solitudine o si può impazzire. Clarke è riuscita a non fare nessuna delle due cose."
"Abbiamo un altro ammiratore di Clarke Griffin," ironizza Murphy.
"Qualcuno deve," ribatte Jordan con insolita fermezza.
"Questo cosa vorrebbe dire?" domanda Raven.
"Avete reso chiara l'idea." Jordan alza le mani in quello che dovrebbe essere un gesto conciliatorio. La sua espressione tradisce un sentimento diverso, simile alla delusione di Madi, ma più profondo, altrettanto maturo. "Questa è la vostra famiglia e siete disposti a tutto pur di proteggervi a vicenda eppure le rinfacciate di avervi tradito per aver fatto lo stesso. È una madre e cercava di proteggere sua figlia in una guerra in cui voi l'avevate resa un bersaglio. Le avete mai chiesto perché abbia fatto quello che ha fatto?" Il silenzio che ottiene è una risposta sufficiente. "No, ovviamente no."
Prima che anche lui esca, Bellamy cerca di fermarlo. "Dove stai andando?"
"A cercare Madi," lui risponde e si divincola facilmente dalla sua presa. "Posso capire la sua delusione. Anch'io vi preferivo quando eravate solo storie."

*

Lui e Miller hanno appena finito di organizzare i turni di guardia sul ponte. Bellamy sta per allontanarsi, ma nota l'esitazione di Miller, il modo in cui stia indugiando nel corridoio.
"C'è qualcos'altro di cui dobbiamo discutere?"
Miller incrocia il suo sguardo con difficoltà, come se odiasse quello che sta per fare, ma sentisse di non avere scelta. È più che mai simile al ragazzo che era il suo braccio destro alla Navicella, i fantasmi di quanto è successo nel bunker intrappolati con Octavia. "Dobbiamo decidere cosa fare con Clarke."
Bellamy si immobilizza e sente il sorriso impietrirsi sulle labbra. Quando, esattamente, il nome di Clarke è diventato un taboo? Gli sembra di essere tornato a sei anni prima, di rivivere l’orrore e il dolore di un incubo passato. Corsi e ricorsi storici.
Storce la bocca e annuisce bruscamente. "Avvisa gli altri. Ci riuniamo tra un'ora sul ponte."

*

"Credo che le uniche persone che abbiano diritto di votare al riguardo siamo io, Madi e -"
Bellamy si intromette prima che possa finire. È di Clarke, del suo futuro che stanno discutendo. Non c’è modo che si lasci estromettere da una decisione di quel calibro. "Se pensi che vi lascerò decidere senza di me-"
Con la coda dell'occhio coglie la leggera increspatura delle labbra di Abby, come se si fosse preparata esattamente a quel genere di reazione da parte sua e lui non avesse disatteso le sue aspettative. In qualsiasi altro momento penserebbe che sia divertita esasperazione la luce nei suoi occhi, così simili a quelli di Clarke e allo stesso tempo così diversi. "E tu, Bellamy," lei conclude come se non l’avesse interrotta. Qualunque cosa fosse, la luce si è già affievolita. I suoi occhi sono di nuovo cupi, il suo viso di colpo invecchiato di dieci anni, le labbra incurvate verso il basso. "È ovvio che mia figlia tenga a te, perciò ritengo che dovremmo essere noi tre a votare e nessun altro."
La strana, piacevole soddisfazione che lo coglie per il fatto di essere appena stato implicitamente riconosciuto come membro della famiglia di Clarke scompare subito. Non è così che dovrebbe succedere.

*

L'irritazione verso Abby riaffiora dopo appena mezz'ora di discussione. Rimpiange l'assenza del gruppo, in particolar modo di Jordan. Negli ultimi giorni ha avuto modo di osservarlo interagire con gli altri, di valutare il suo potenziale. Quello che ha scoperto è promettente. Ha la mente perspicace e brillante di Monty, è empatico come lo era Harper. Gli piace rimanere nelle retrovie. Di primo acchito può apparire introverso e timido, ma è solo perché si sta ancora abituando all'idea di essere circondato da così tante persone.
“Confusa?” ripete Madi. Sta rispondendo all’implicita accusa di Abby, che ha appena commentato con quella parola lo stato mentale ed emotivo in cui Clarke verteva quando ha registrato i video per loro, motivo per il quale nella sua opinione professionale di medico deve essere preso in considerazione il fattore psicologico. Non importa ciò che Clarke vuole, ma ciò di cui ha bisogno e per Abby lei ha bisogno del supporto della sua famiglia, di rassicurazioni e ambienti familiari. Non di altro isolamento e di essere estraniata dalla realtà che la circonda più di quanto non lo sia già.
“Clarke è stata chiara,” afferma Madi lapidaria. “Non intende essere svegliata prima di cinque anni.” È evidente quanto la richiesta di Clarke l’abbia devastata, quanto la prospettiva di dover aspettare così tanto prima di riabbracciarla sia penosa per lei. Allo stesso tempo lo è anche il suo desiderio di rispettarne la volontà. È qualcosa che lui può capire: panico e tormento. Svegliarsi la notte di soprassalto, il bagno di sangue dell’ennesimo incubo ancora impresso come uno squarcio dietro le palpebre, e ricordarsi che non è persa, ma solo in stasi; permettersi di controllare con i suoi stessi occhi, andare a sedersi accanto al suo baccello, a volte in silenzio, a volte trascorrendo le ore di buio prima dell’alba a raccontarle dei sei anni che ha trascorso sull’Anello convinto che fosse morta.     
“Possono succedere molte cose in cinque anni,” replica Abby.

Non quante in dieci, pensa, ma rimane in silenzio e in disparte ad osservare quello scontro tra titani.
“Conosco mia figlia. È una combattente.”
Osserva il modo in cui i muscoli facciali di Madi si contraggono in un’espressione di frustrazione e decide che è arrivato il momento di intervenire. “Forse è meglio fermarci,” dice. “Non arriveremo mai a una conclusione così, non oggi.”
“No.” Madi scuote la testa. “Voglio che decidiamo adesso.” Lo sguardo nei suoi occhi gli rende difficile respirare per la sensazione di familiarità che rievoca e i ricordi che risveglia.   
“Non dobbiamo per forza.”
Madi distoglie lo sguardo e assottiglia le labbra. “Sì invece. Mia madre, una mia responsabilità, giusto?”

E Dio, Dio, perché deve essere tutto così dannatamente difficile? Bellamy annuisce, stringendo i pugni. “Sarebbe fiera di te.”

*

Quando Echo lo tira di lato, un paio di giorni più tardi, ogni fibra del suo corpo e frammento della sua mente sa già cosa intende dirgli. Nonostante tutto, quando lei affronta di petto l'argomento e senza giri di parole parla di come tutto sia cambiato, che non è colpa di nessuno, ma è lo stato delle cose, lui prova ugualmente un dolore sordo all’altezza del petto.
"Ti amo," dice e in una realtà che è diventata un incubo sembra uno spiraglio di conforto.
Echo incrocia il suo sguardo con fierezza e appena un velo di amarezza. "Lo so. So che mi ami, ma ami di più lei. Non mi piace, però lo capisco. Lei è stata con te sin dall'inizio."

Tu sei rimasta con me quando mi mancava la terra sotto i piedi. Letteralmente oltre che figurativamente. Vorrebbe dirlo, invece si ritrova a battere le palpebre e a dire rocamente: "Non posso scegliere."
"Non devi." Non è un'accusa, solo una constatazione. Entrambi sanno che Clarke verrà sempre al primo posto. Se anche c’è stato un momento, dopo che l’ha ritrovata, in cui lo aveva dimenticato, ora è tutto tornato alla memoria. È la realtà dei fatti ed è immutabile, incontrovertibile.
"Mi dispiace." Non sa cos'altro dire. Cosa si fa in queste circostanze? Non ha mai detto addio prima d'ora, non come scelta consapevole. Di solito la morte lo ha sempre anticipato. Non è un addio definitivo questa volta, solo un cambio di prospettiva, di priorità.
Lei annuisce, ma non sorride. "Anche a me."

*

Da quanto va avanti? La verità è che non lo sa neppure lui.
È una bugia. La verità è che non ricorda un giorno in cui quello che prova per Clarke non sia esistito. Una presenza costante, forte e mai espressa, accettata silenziosamente. Ha accompagnato ogni decisione che ha preso. Fa parte di lui, nel bene e nel male. Completa ogni ricordo della sua vita sulla terra. La luce abbacinante del sole. La quantità prolifica di stelle nel cielo notturno. È il rumore del vento tra gli alberi la prima volta che gli ha accarezzato il viso. È il sapore della pioggia. La sensazione solida del terreno, della pietra e del fango. La vertigine della morte. Il ruggito della colpa. Il brivido dell'assenza. L'amarezza della nostalgia. La ferocia di un bisogno che travalica ogni ragione, ogni logica, ogni buonsenso.
La vita prima di incontrare Clarke Griffin è un ricordo nebuloso. Un'infanzia di responsabilità e segreti finita in un salto nel vuoto, nell'eco ridondante di un colpo di pistola. È legata indissolubilmente alla morte del dovere e al dolore della perdita, alla libertà colposa che ne è scaturita. C'è un prima Clarke e un dopo Clarke.
Non è ironico? Che lui scandisca il tempo, tracci la sua storia in base a lei?

*

“Sei il loro leader oppure no?” domanda Russell, gli occhi curiosi e inquisitori.
Bellamy non risponde, ma si sforza di mantenere un’espressione accuratamente neutra mentre la sua mente è attraversata in rapida successione da una serie di immagini mozzafiato. Uno sprazzo di capelli color sole, occhi mercuriali e pieni di segreti, un carattere carismatico e il sorriso nella sua voce quando pronunciava il suo nome.  
“Lo è,” risponde Abby, spostandosi al suo fianco. L’occhiata che gli rivolge è di incoraggiamento e muto apprezzamento. È quella che lei gli avrebbe rivolto. “Lui può parlare per noi.”

*

“Dicci di più di questa donna, Clarke Griffin.” Russell ha appena bevuto un sorso di vino dal suo calice. Lo posa sul tavolo e Bellamy perde il filo dei suoi pensieri e ha un involontario tic all’occhio destro.
“Lei cosa c’entra?” domanda seccamente.
“Sappiamo che era lei a guidare il vostro popolo sulla Terra.” Russel incrocia le mani davanti a sé e si piega in avanti. Il suo interesse non mostra secondi fini e nonostante questo, lui prova un irrazionale moto di rabbia. “Perché non è qui?”
“Sta ancora dormendo.” La sua voce è noncurante quanto basta. “Rimarrà nel sonno criogenico per altri cinque anni.”
Russell inarca le sopracciglia, la curiosità ha ceduto il posto ad uno stupore genuino. Seduta nel posto accanto al suo, invece, sua moglie riesce a malapena a nascondere lo sdegno. “Non fingerò di capire le dinamiche del vostro rapporto.”
“Buona fortuna con quello,” commenta sarcastico. “A volte non le capisco neppure io.”
“Forse è un bene che non sia qui. Abbiamo sentito molte cose sul suo conto. Racconti di sangue e di morte. Sappiamo che il tuo popolo la chiama Wanheda.”
La rabbia ritorna, prepotente, e questa volta non bada a nasconderla. “I nostri nemici la chiamavano così,” corregge con freddezza.
“Nemici che sono diventati vostri alleati,” replica Russell.
Bellamy stacca un acino d’uva e se lo rigira tra le dita. “L'apocalisse costringe a rivalutare le priorità di chiunque. Così i nemici si trasformano in alleati, gli amici diventano una famiglia.”
Russell annuisce con l’aria perplessa di chi vorrebbe capire, ma non riesce a farlo completamente, non davvero. “Sono certo che date le circostanze tu possa comprendere la nostra riluttanza nell'accogliervi tra di noi. Non possiamo prendere alla leggera la minaccia che rappresentate. Il vostro passato può essere un ostacolo per il futuro della mia gente.”
“Avete già distrutto un mondo,” interviene Simone. È la prima volta che prende la parola e ovviamente è per manifestare l’evidente opposizione all’atteggiamento assai più bendisposto del marito. “Cosa vi impedisce di farlo di nuovo? Perché dovremmo fidarci di voi?” Mentre le rimostranze di Russell sono pragmatiche ed espresse con un’educazione snervante, il giudizio di Simone è rumoroso e pieno di biasimo.    
“Simone,” dice Russell a voce bassa per placarla, ma lei non dà segni di averlo sentito.
“Guerrieri. Assassini. Ladri. Delinquenti,” sputa senza badare a celare il disgusto. Ogni parola esprime condanna, è una censura.  “Questo è ciò che siete.”
“Che eravamo,” lui replica senza perdere un battito. Mantenere la calma è indispensabile. Sa cosa succederebbe in caso contrario. Ogni parte di lui vorrebbe raccontare a questi due estranei cosa sono stati costretti a fare per sopravvivere. Non solo le atrocità, ma anche gli atti di clemenza. E non è assurdo, vorrebbe urlare loro, che siano le azioni commesse in nome dell’amore ad essere le più terribili? C’è una parte di lui, la parte di coscienza che gli parla con la voce di qualcun altro, che smussa la contrarietà che lo sta divorando con carezze gentili e gli intima in tono di comando di agire con circospezione, di rimanere lucido e per l’amor del cielo, Bellamy, usa la testa. “Abbiamo imparato dai nostri errori e stiamo cercando di essere migliori,” prosegue. “Continuiamo a farlo ogni giorno. Questa è la nostra seconda possibilità e abbiamo intenzione di dimostrare che la meritiamo.”
“Ti aspetti che ti crediamo sulla parola?” domanda Simone con una smorfia collerica. “Che mettiamo a rischio la nostra gente per la tua?”
Questa donna comincia a dargli sui nervi. “Non deve esistere per forza quella distinzione. Mia, vostra. Possiamo essere un unico popolo. Possiamo convivere in pace.”
“Credi davvero che sia possibile?” domanda Russell.
Bellamy si volta verso di lui, intravedendo ancora un barlume di speranza nonostante le premesse tutt’altro che positive. “Devo crederlo,” risponde onestamente. Questa volta non sta pensando a Clarke, ma a Monty e Harper, a Jasper e a Maya. “So che non è facile, ma non è impossibile. Noi ne siamo la riprova. Abbiamo messo da parte i nostri conflitti per concentrarci sulla sopravvivenza comune. Possiamo cambiare.”
Russell lo valuta come se volesse determinare il valore delle sue parole e della sua sincerità. Qualunque sia la conclusione che ha raggiunto, non è a suo favore perché la sua espressione si tinge di rammarico. “Io credo che tu voglia, Bellamy, soltanto che non credo che sia possibile. Cerca di capire, la violenza è un contagio. Sono sinceramente dispiaciuto, ma non posso lasciare che il vostro male spazzi via ciò che ora dobbiamo presumere sia l'ultimo avamposto dell'umanità nell'Universo."
Bellamy capisce di aver perso. Non è riuscito a convincerli. Clarke ci sarebbe riuscita. Sapeva essere maledettamente persuasiva quando voleva. Ma lei non è lì e lui sta cominciando a credere che sia davvero colpa sua.

*

Dopo l'attacco dei figli di Gabriel tutto sembra cambiare e volgere a loro favore. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce ancora a individuare nell'intera faccenda. Non gli piace. Il nuovo interesse di Russell in Abby, per esempio, prontamente motivato dalla sua conoscenza medica.
"A Clarke piacerebbe qui," dice Madi.
Sono all’aria aperta e stanno guardando i bambini giocare a rincorrersi tra le aiuole del giardino mentre alcuni adulti innaffiano i fiori. Il cielo è una fiamma cremisi all’orizzonte e il panorama che li circonda è un vivido tripudio di colori. In lontananza un cane abbaia e la quiete è frammentata da risate sonore e dal vociare allegro dei passanti. È come dovrebbe essere, tutto ciò che hanno sempre sognato e anche di più. È la pace per cui hanno combattuto.
Se tutto procedesse secondo le previsioni, molto presto Madi potrebbe cominciare ad andare a scuola, avere l'infanzia che Clarke avrebbe voluto per lei. Non spesa a combattere o a nascondersi, ma tra ragazzi della sua età. Normale. Noiosa. Al sicuro.
"Lo credo anch’io," lui risponde e la stretta al cuore quando pensa al posto vuoto accanto al suo è più dolorosa del solito e meno facile da nascondere.
Madi gli stringe la mano, gli occhi scuri e perspicaci sono pieni di comprensione. Ha imparato a riconoscere i momenti in cui Clarke gli manca maggiormente. Gli interludi di calma in una quotidianità frenetica di impegni, che solitamente non gli lasciano il tempo per pensare.
Russell discute con lui della possibilità di costruire un complesso per loro, di individuare insieme aree che diventerebbero comuni. Si parla di condivisione e per un po' - giorni che si trasformano in settimane, settimane che diventano mesi - la pace è una realtà, qualcosa di concreto e tangibile, finché non lo è più. Smette di esserlo il giorno in cui Abby e Madi scompaiono.

 

 

I swear I only want to hear about you, to know what you've been doing. It's a hundred years since we've met- it may be another hundred years before we meet again.
-Edith Wharton

 

 

“Dobbiamo svegliare Clarke,” dice Jordan. Hanno appena scoperto la verità sui Primes.
“Non se ne parla.” Bellamy digrigna i denti, l’orrore di quanto hanno appena visto scalzato via dall’irritazione. Perché, come può svegliarla proprio adesso? Come può svegliarla, guardarla negli occhi e ammettere di aver infranto una volta di più la promessa di mantenere Madi al sicuro?
“Hanno preso Madi e Abby in ostaggio,” insiste Jordan e nonostante i suoi occhi siano lucidi per il pensiero che quello debba essere stato anche il destino di Delilah, il suo tono è stentoreo. “Sappiamo cosa potrebbero fare se non riusciamo a fermarli. Credi davvero che non vorrebbe essere svegliata per questo? Se non lo fai, non ti perdonerà mai. Non commettere lo stesso errore. Sai che ho ragione.”
Bellamy chiude gli occhi. Ci sono mille cose che vorrebbe dire, urlare, invece si concentra sulle parole di Jordan. Hanno un sapore amaro e fin troppo familiare.

Se lo fai, non ti perdonerà mai. Non è ironico che sia la seconda volta che gli viene posta questa domanda in meno di sei mesi? Ricorda la paura negli occhi di Madi alla vista della Fiamma e poi la sua risoluzione nell’accettare il destino da cui è fuggita per tutta la vita quando l’ha messa di fronte alla prospettiva dell’alternativa in caso di rifiuto – un futuro senza Clarke -. Ricorda la disperazione nella voce rotta di Clarke, le sue grida, il rumore delle catene quando l’ha pregato di farlo. E poi la penombra della tenda, il rituale, il rancore e il tradimento racchiusi in uno schiaffo che l’ha fatto tremare come poche altre cose in vita sua hanno avuto il potere di fare. Solo lei e Octavia hanno questa capacità, quella di togliergli la terra da sotto i piedi, di rubargli il respiro, di fargli provare ansia e uno sgomento che a volte sembra atavico, una parte di lui antica quanto il tempo stesso, risvegliata nell’ora del bisogno.    
Ricorda quello che ha fatto, quello che sarà sempre disposto a fare per le persone che ama. Non lo fa perché deve, ma perché non ha scelta. Ha perso quella facoltà anni e anni fa. Sull’Arca, quando sua madre gli ha messo un fagotto sanguinante tra le braccia e l’ha chiamato una sua responsabilità. Nel cuore di una montagna, quando ha poggiato la sua mano sopra quella di Clarke sopra una leva e l’ha chiamato dovere. Ma non si è mai tratto di quello. Dovere, responsabilità. Sono solo i nomi che ha scelto di dargli, dietro cui ha scelto di nascondersi. Sin dall’inizio, dagli albori di quella che è stata la sua storia, si è sempre trattato di amore, del suo cuore.
Quando riapre gli occhi, la decisione è già presa.

*

“Lo ha bloccato con un codice di protezione.” Raven impreca e dà un pugno alla capsula.  
“Cosa?”
“È una specie di serratura,” chiarisce, sfregandosi la fronte. Sta riflettendo, la mente già concentrata nella ricerca spasmodica di una soluzione. “Il suo baccello non si aprirà se non inseriamo il codice che ha scelto.”

Maledizione. “Puoi aggirarlo?” domanda Bellamy.  
“Potrebbe volerci un po' per decriptarlo,” risponde lei con le sopracciglia aggrottate, senza distogliere lo sguardo dall’assurdo groviglio di cavi che ha appena tirato fuori dal pannello di controllo e attorno ai quali ha già cominciato ad armeggiare. “Tempo che noi non abbiamo. Dannazione, Clarke. Perché un codice?”
“Considerato quello che stiamo per fare, non puoi darle torto se aveva problemi di fiducia,” commenta Murphy. “Di quante cifre è? Il codice.”
Bellamy gli lancia un’occhiata e Murphy scrolla le spalle.  “Andiamo gente, è Clarke. Quanto può essere difficile trovarlo?”
Le mani di Raven si arrestano e la sua fronte si spiana per un momento infinitesimale prima di accigliarsi di nuovo, questa volta però la sua espressione è determinata e Bellamy comincia a intravedere la luce alla fine del tunnel.  La lascia fare la sua magia per un minuto. Capisce che ce l’ha fatta ancora prima che lei parli.
“È un codice decimale di tre cifre,” spiega Raven. “Sapendo che due cifre sono pari e una dispari, questo limita il numero di combinazioni possibili a trecento.”
“Utile,” ironizza Murphy e batte le mani, prima di guardarlo in attesa. “Bene allora. Perché non stai provando?” La sua confusione deve essere tangibile. “Non guardarmi così, amico. Siamo tutti sulla stessa barca, ma tu e la principessa siete sempre stati su una barca differente. Nessuno la conosce meglio di te.”
Forse un tempo è stato così e anche allora non sarebbe stato del tutto vero. Provare non costa nulla però. Un codice di tre cifre, di cui due sono pari. Oh, pensa e prova una lancinante sensazione di tenerezza per la donna che dorme indisturbata al di sotto della teca.
Quando Murphy vede la prima cifra che ha digitato sulla tastiera, rotea gli occhi. "Sapevo che in fondo era un idiota romantica, ma non fino a questo punto." Sbuffa. “Lasciami indovinare… cento?"
Bellamy sorride e digita l’ultimo tasto. “Hai dimenticato me e Raven.”

*

"Ciao, straniera."
Se si trattasse di un altro giorno, riderebbe di se stesso, si vergognerebbe del modo in cui la sua voce abbia tremato, di come stia praticamente annaspando, di come gli batta forte il cuore. Troverebbe ridicolo il fatto che si senta un quattordicenne sprovveduto alle prese con la sua prima cotta. Divora il suo viso con occhi affamati e francamente non gli importa di fare la figura dell'idiota. Non quando Clarke è così vicina, reale, sveglia.
La osserva mentre si mette a sedere sui gomiti e si sfrega la fronte. “Bellamy,” dice e davvero, non dovrebbe provare questa specie di vibrante orgoglio nel sapere che il suo nome è stata la prima parola che ha pronunciato svegliandosi. Non sta sorridendo e qualunque barlume di emozione le abbia attraversato gli occhi muore nel momento in cui nota l’assenza al suo fianco. “Bellamy,” ripete in tono monotono, freddo e il cambiamento radicale nella sua voce è repentino, gli gela il sangue. “Dov'è Madi?”

*

“Hai intenzione di ignorarmi tutto il tempo?”
È come se non avesse aperto bocca. Clarke continua a sfogliare il diario di Madi con l’espressione di qualcuno che sta vedendo accadere sotto i suoi occhi la sua peggiore paura.
È stata una sua idea, quella che Madi iniziasse a scrivere una sorta di resoconto giornaliero per Clarke, ma questo non gliel’ha detto e quando gliel’ha porto ha finto di non notare i suoi occhi lucidi e il leggero tremore che le ha attraversato le mani. Resistere all’impulso di prenderla tra le braccia è stata forse una delle cose più difficili che abbia mai fatto.
Le annotazioni dimostrano un impegno costante nella perseveranza con cui sono state aggiornate quasi quotidianamente e Madi ha arricchito i bordi delle pagine con ghirigori e commenti personali che all’inizio le hanno strappato una o due risate. Tra le pagine fitte di scrittura e bozze di disegni ci sono una piuma, fiori lasciati ad essiccare, un pezzo di stoffa che ricorda quelli appesi a mezz’asta nell’insediamento del Sanctum.
Ormai è trascorsa mezz’ora da quando Jackson ha finito di visitarla e sottoporla a un accurato controllo medico. Nessuno di loro vuole correre rischi, non dopo che hanno perso cinque uomini per un’insufficienza renale diagnosticata troppo tardi e provocata da un malfunzionamento delle capsule criogeniche. È la nuova procedura standard in caso di risveglio e sebbene Clarke si sia opposta inizialmente, considerandola un’inutile perdita di tempo, di fronte alla loro intransigenza ha dovuto arrendersi.
Sono in attesa degli ultimi risultati e il silenzio è un muro impenetrabile tra di loro, alto e lunghissimo come la Grande Muraglia nei libri di storia della Terra prima della prima Apocalisse.      
Finalmente lei chiude il quaderno, accarezza il frontespizio in punta di dita. Il suo viso è nascosto dietro la cortina di capelli. “Non ho intenzione di rimanere sveglia a lungo.”
Bellamy si sente come lo avesse colpito fisicamente. Sulla guancia percepisce, acuta e anomala, la sensazione fantasma dello schiaffo che lei gli ha dato a Polis. Quello che ha appena ammesso non dovrebbe arrivargli come una sorpresa. Era il piano iniziale dopotutto. Altri cinque anni. Lo sa, eppure aveva pensato, parte di lui aveva sperato che -
“Una volta salvate Madi e tua madre, intendi tornare nel sonno criogenico,” dice a scanso di equivoci e decide di tradurre la sua assenza di risposta come un tacito assenso. “Clarke,” il suo nome suona stonato sulle sue labbra, la sua voce sembra provenire da molto lontano, “cosa ti è successo?”
Lei si volta come una furia ed eccola lì, la donna che conosce, un assaggio di scintille di luce e pericolosità che gli brucia gli occhi per la troppa intensità, come se avesse osservato il sole troppo a lungo. È una conferma. Dietro la maschera di distacco che ha indossato da quando si è svegliata, Clarke sopravvive, il suo cuore continua a battere, a combattere.    
“Spero che tu stia scherzando,” sibila.
Lui indietreggia, reagendo istintivamente all’ostilità e alla violenza che scorge nel suo sguardo. “Quello che intendo-” Ma non fa in tempo a spiegarle quello che intendeva. La porta si apre e d’un tratto non sono più soli.
“Clarke!” esclama Jordan con un sorriso che gli va da un orecchio all’altro. Deve aver notato la tensione tra di loro, ma sorvola con il solito tatto. La sua attenzione è rivolta interamente a Clarke e Bellamy osserva con stupore il suo viso contratto rilassarsi nel primo vero sorriso che le abbia visto da non ricorda neppure lui quando. Clarke lo attira in un abbraccio, gli scompiglia i capelli. Jordan cerca di impedirglielo, ma sta ridendo e non sembra davvero infastidito da quelle attenzioni. Mamma Orsa, ricorda di averla chiamata una volta.
“Jordan,” dice Clarke e il sorriso le ha raggiunto gli occhi, creando minuscole rughe di espressione attorno alle palpebre. “Ti trovo bene. Ti sei acclimatato alla vita tra i Delinquenti, vedo.” Gli rivolge un’occhiata sfuggente da sopra la spalla di Jordan, prima di aggiungere in tono più sobrio: “Bellamy mi stava aggiornando.”
Jordan annuisce, di nuovo serio. “Lei hai già detto di Madi?” Bellamy sta per rispondere, ma Clarke non glielo permette.  “Cos'è successo di preciso?” domanda.
Non dovrebbe fare male, scoprire di aver perso la sua fiducia al punto che lei preferisce ascoltare un ragguaglio della situazione da qualcuno di cui si fida. È lo stato del loro rapporto nella sua forma attuale e accettarlo è il primo passo per cercare di riparare le cose tra di loro. Non dovrebbe, ma lo fa. Fa un male del diavolo.        
Se anche è sorpreso dalla domanda diretta o dal fatto che gli stia stata rivolta, Jordan non lo lascia vedere. “Dopo che tu- dopo che è stato deciso di non svegliarti, pensavo che Madi avesse reagito bene. Sembrava aver accettato la tua scelta. La addolorava ovviamente, ma era più arrabbiata che dispiaciuta e non con te, non davvero.”
“Aspetta,” dice Clarke. Ha le sopracciglia aggrottate. “Di cosa stai parlando?”
“Ci ha fatto a pezzi,” si intromette una voce dalla porta. Murphy li raggiunge. Bellamy vede il modo in cui il corpo di Clarke si sia proteso automaticamente verso di lui, in cui abbia aperto le braccia come se volesse abbracciarlo e come in ultimo scelga di non farlo. Le sue braccia ricadono contro i fianchi rigidamente e il cenno che rivolge a Murphy è sbrigativo e di cortesia.
Murphy infila le mani in tasca e ciondola sul posto, ricambiando il saluto con un’espressione esageratamente tediata. “Ha detto delle cose molto poco carine, discutibilmente vere su di noi. Tra le righe mi sembra di ricordare qualcosa del tipo che nessuno è senza macchia e tra di noi tu sei l'unico vero eroe che riconosce.”
“Ha detto sul serio così?” Per un attimo Clarke cerca il suo sguardo in un riflesso naturale, come se cercasse una conferma da parte sua. Il momento di condivisone passa. Bellamy batte le palpebre e Clarke ha di nuovo riportato lo sguardo su Murphy e Jordan.
“Sì, uno spettacolo penoso,” commenta Murphy. “Rimproverato da una ragazzina. Sembrava di rivedere te nei tuoi giorni di gloria alla navicella.”
“Come hanno scoperto che sono una sanguenero?”
“Colpa mia.” Jordan alza la mano e sorride timidamente, colpevole. “Potrei aver raccontato un paio di storie su di te.”
Clarke gli sorride di nuovo e la trasformazione quando parla con Jordan, rispetto ai suoi scambi con lui o Murphy, è innegabile. “Sono il tuo asso nella manica per impressionare le ragazze?” Gli strizza l’occhio. “Adulatore.”

*

“Hai lasciato che prendessero mia figlia. Di nuovo.”
Per un attimo non registra le sue parole. La realtà ha assunto i contorni surreali di un incubo e l’espressione feroce sul viso di Clarke, cambiato e allo stesso tempo immutato in tutto ciò che conta, è la stessa che popola le sue notti insonni.   
“Non è colpa sua,” lo difende Jordan; sembra a disagio. “Nessuno di noi voleva che succedesse, Clarke.”
Clarke stringe le labbra, ma non ribatte. Non che serva. Quello che sta pensando traspare chiaramente dalla determinazione con cui si vieta di guardare nella sua direzione. “Da quanto tempo avete perso contatto con loro?”
“Dieci ore.”
Può praticamente sentirla ragionare. “Perché avete aspettato così tanto?”
“Abbiamo aspettato te,” risponde Jordan, strofinandosi il retro del collo in un’abitudine che – Bellamy se ne rende conto – deve aver assimilato da lui. “All'inizio non eravamo sicuri che fossero stati loro.”
“Cosa vi ha convinto?”
“Jordan ha trovato un filmato,” interviene finalmente. Non può lasciare a Jordan il compito ingrato di dirle la verità. È soltanto un ragazzo. Non sarebbe giusto. Il fardello, così come la colpa di quello che è successo, sono unicamente suoi. “Ha scoperto cosa fanno a chi ha sangue come il loro, come il tuo. Li utilizzano come ospiti. Non sempre si offrono di loro spontanea volontà.” Lei impallidisce per le implicazioni e lui le sfiora il gomito per offrirle sostegno prima di ricordarsi che ha perso quel diritto, che lei non vuole essere toccata da lui. Lo ha reso evidente. “Clarke, le salveremo.”
Non lo sta guardando con diffidenza, ma c’è qualcosa di cauto nel modo in cui gli permette di lasciare la mano sul suo gomito, in cui non si ritrae nonostante il suo corpo si sia irrigidito. Come se volesse dimostrare qualcosa a sé stessa e non a lui. Alla fine, scuote la testa. “Non sai cosa potrebbe succedere. Non puoi prometterlo.”
È vero, non lo sa. Clarke si copre gli occhi ed è un gesto che gli stringe il cuore in una morsa d’acciaio per la vulnerabilità di cui è messaggero.  “Ho bisogno di rimanere da sola per un minuto.”
Jordan fa un cenno verso la porta e Bellamy annuisce prima di uscire con Murphy alle calcagna.
Una volta che sono nel corridoio, lui e Jordan si piantano ai lati della porta, Murphy con le spalle contro il lato opposto del corridoio. Sembrano sentinelle messe a guardia dell’entrata di un tesoro. Dall’interno non arriva un suono e c’è un silenzio di morte. La devastazione che lo pervade non è che un frammento irrisorio di quello che lei sta provando. Questa è la seconda volta che succede ed in entrambi i casi è stata sua la colpa.

*

Quando esce, i suoi occhi sono cerchiati di rosso, ma la sua espressione è risoluta e c’è un nuovo vigore nei suoi passi, il mento è sollevato nell’antica ombra di superbia. Si china per mormorare qualcosa a Jordan e quando la vede incamminarsi verso la sala comandi, la afferra per il polso per trattenerla. “Dove stai andando?”
Non evita più il suo sguardo ed è perfino peggio. Non c’è nessun calore, è la distratta cordialità riservata a qualcuno che a malapena conosci. Si divincola e per lo shock di quello che le ha letto negli occhi lui la lascia andare, ponendo una distanza tra di loro che appare tanto più insormontabile proprio perché non è fisica. “Voglio vedere quel filmato,” risponde in un tono che non lascia adito a diverse interpretazioni.   
Bellamy si riprende subito e storce la bocca in una smorfia. “Non è una buona idea.”
Lei non batte ciglio. “Mi dispiace, suonava come una richiesta?”
“Murphy, accompagnala,” ordina sbrigativo. “Non tu Jordan. Devo parlarti.”

*

“La conosci,” dice senza preamboli di sorta. Non riesce a evitare il tono vagamente petulante, l’implicita accusa.
Jordan ride, ma è una risata di puro nervosismo. “Certo, come conosco te e Murphy. Te l'ho detto. I miei genitori-”
“Non sto parlando di quello,” lo interrompe con un cipiglio. “L'avevi già incontrata. Avevi già parlato con lei. Quando? Cosa mi stai nascondendo? Ascolta, non sono arrabbiato per il fatto che tu e lei abbiate dei segreti.”
“Solo che io non li abbia condivisi con te,” replica Jordan amaramente.
“Non è quello che sto dicendo.”
“Ma è quello che pensi.”
“Se non vuoi parlarne-”
“Non è qualcosa di mio da raccontare.” Jordan abbassa lo sguardo, chiaramente sulle spine. “Devi parlarne con lei, okay?”
Bellamy esita. Sa che è un’intrusione, ma deve sapere. Rischia di impazzire altrimenti. “Jordan, ti prego. Io- Io devo sapere.”
Per un lungo, terribile momento è certo che Jordan si rifiuterà in modo educato, ma fermo. Invece mirabile dictu, comincia a parlare. “Quando mi sono svegliato, ero pronto a seguire le istruzioni di mio padre alla lettera. Clarke non me lo ha permesso. Sapeva che tu e lei sareste stati i primi che avrei svegliato.”
Bellamy annuisce. Aveva già ricostruito questa parte della storia e gli ha appena confermato che aveva ragione. “Perciò te lo ha impedito,” dice, ma c’è qualcosa di sbagliato. Qualcosa non gli torna. Capisce di cosa si tratta dall’espressione colpevole di Jordan. “L’hai svegliata. Ecco come la conosci.” Certo, ha senso. “L'hai svegliata,” ripete e poi, come un fulmine a ciel sereno, la verità lo trafigge da parte a parte. “I messaggi finali. Tu eri con lei quando li ha registrati. Quanto tempo è trascorso prima che svegliassi anche me? Dopo quanto è tornata nel sonno criogenico?”
Jordan deglutisce, le spalle accasciate.  “Due mesi.”
Il dolore non arriva subito.  
“Non è quello che sembra,” si affretta a dire Jordan e comincia a gesticolare, un vezzo in cui, lui ha imparato, ricade quando qualcosa lo agita. “Ci ha provato, d'accordo? Sapeva che avreste avuto bisogno di lei. Ha provato ad essere quel tipo di persona, quella che voi vi aspettavate che fosse, ma il peso era troppo. Quegli anni in isolamento l'hanno cambiata. Può sembrare che stia bene, ma ognuno ha i suoi limiti e lei ha raggiunto il suo. Non è indistruttibile. I nostri traumi sopravvivono dentro di noi, diventano i demoni che non smettiamo mai davvero di combattere.”
“Cosa è successo?” chiede raucamente.  
“Incubi. Allucinazioni. A volte era sua madre. A volte una donna di nome Lexa. A volte eri tu. Non ha mai avuto il tempo di metabolizzare. L'esplosione al Campo. Mount Weather. ALIE. Il Praimfaya. Voi non avete mai visto com'era dopo.” Non sono le parole, ma il sottotesto, quello che Jordan non sta dicendo a farlo sussultare interiormente.
“Di cosa stai parlando?”
“Che ogni volta che ha perso qualcuno o ha preso una decisione impossibile, è sempre stata da sola mentre cercava di capire come affrontare le conseguenze delle sue azioni, che fosse una sua scelta oppure no.”

*

“Dovrai perdonarla un giorno,” dice Emori, passandole il cacciavite che le ha chiesto. Deve aver parlato con Bellamy o Murphy deve averle detto qualcosa.  
Raven storce il naso. “Forse.” Stringe la vite sporgente e passa alla successiva. “Contavo su quei dannati cinque anni per cominciare a farlo.”
“Devi accelerare i tempi di lavoro.”
“Non se riesco a evitarlo,” risponde e scrolla le spalle, fingendo una noncuranza che è ben lungi dal provare. “Dopotutto non credo che abbia intenzione di rimanere a lungo.” Ripensa alla richiesta di Bellamy e si ripromette di controllare dopo aver sistemato il condotto di areazione nel settore 5.  

*

“Ho controllato le registrazioni di sicurezza come mi avevi chiesto,” esordisce Raven. È sbucata dal nulla. Bellamy non distoglie lo sguardo dai resoconti delle squadre di pattuglia sul lato della foresta al di fuori della giurisdizione del Sanctum. È un lavoro che in passato avrebbe svolto con Echo e per il quale ora, portandolo a termine da solo, impiega più tempo di quanto gli piaccia ammettere. Se non si arriverà a una guerra – anche se sembra inevitabile – hanno bisogno di un piano di riserva, di individuare quanto prima una nuova zona su cui costruire delle abituazioni adeguate.     
Il silenzio di Raven è snervante. “E?” la incalza, più brusco del necessario.
“Jordan ha detto la verità. I tempi combaciano. Due mesi.” La sua voce è incolore, meccanica mentre snocciola con fredda competenza le informazioni che le aveva chiesto di verificare. La conosce abbastanza bene da sapere che sta omettendo qualcosa, che parte di quello che ha visto deve averla turbata e che questo, il fatto di essere vittima delle sue stesse emozioni per una persona alla quale si era ripromessa di non tenere più, la infastidisce oltremodo. 
“Hai visto qualcos'altro?” inquisisce e anche se lo sapeva già, ha la conferma di essere nel giusto nel momento in cui la vede assottigliare lo sguardo e massaggiarsi il ginocchio. Lo fa solo quando è inquieta.   
“Abbastanza,” risponde bruscamente. Bellamy non insiste, attendendo. “Devi parlare con lei,” ammette alla fine e il suo viso è quanto mai espressivo, la tradisce. “Aveva una pistola. Era scarica. Un'altra volta era un pugnale e aveva una radio in mano, ma Jordan l'ha fermata.
Parla con lei.”

 

 

I see a stranger in your eyes, where once I saw a soulmate.
J. Střelou

 

 

 

“Assolutamente no,” Bellamy dice prevedibilmente. Clarke decide di non concentrarsi su di lui. Si era aspettata quella reazione.
“Il tuo piano è folle,” commenta Murphy, picchiettando due dita contro le tempie. “Giusto. Dove sarebbe la novità?”
“Almeno questa volta sarà lei a fare da infiltrato,” commenta Raven a voce bassa, ma udibilissima.
“Non sarebbe un infiltrato,” ribatte Bellamy stizzito e l’occhiata che indirizza a Raven potrebbe ghiacciare l’Inferno. “Diventerebbe un bersaglio. Russell sa che è una sanguenero.”
Clarke tamburella le dita sul tavolo e per la prima volta da quando si sono seduti, incrocia lo sguardo di Bellamy. “Conto proprio su quello.”

*

Sente i suoi occhi come se la stesse toccando fisicamente. Le perforano la pelle come aghi. Cerca di non badarci; fallisce miseramente. “Smettila,” sbotta.
Bellamy inarca le sopracciglia, preso in contropiede. “Di fare cosa?”
Ovvio che non ci arrivi. “So di essere diversa,” spiega, sentendo ogni parola pesarle sulla lingua come una pietra di fiume. “Sono passati dieci anni. Sono invecchiata, Bellamy.” Sa di suonare sarcastica, tende a diventarlo sotto pressione. Odia essere ironica su questo, ma è la verità e prima lui la accetterà prima potranno andare avanti. “Hai visto i miei messaggi. Pensavi che il sonno criogenico mi avrebbe fatta ringiovanire?”
L’espressione sul suo viso cambia in modo imprevisto, incupendosi. “È questo il problema? Credi che mi importi di questo?” Non c’è furia all’Inferno pari a quella di un uomo convinto di essere stato accusato ingiustamente. “Del fatto che sei invecchiata? Certo che mi importa,” ringhia ed è qualcosa che lei ricorda bene, quello sguardo ardente nei suoi occhi. “Mi importa che non siamo invecchiati insieme.”
Come a rallentatore osserva la mano di Bellamy avvicinarsi al suo viso. Clarke si ritrae prima che riesca a sfiorarla. “Non toccarmi,” dice sommessamente.  
Chiude gli occhi perché non sopporta l’espressione inorridita sul suo viso. È pallido come un uomo morto. “Clarke.” Da quanto non lo sentiva pronunciare il suo nome in quel modo? Con quell’intonazione a metà tra un tormento piacevole e una furia accecante? No, non può quantificare il tempo, rischia di impazzire. “Non capisco. È come se non fossi più tu.”

Oh, pensa. Riapre gli occhi e sa che anche se non è pronta, è qualcosa che deve affrontare.  
“Non lo sono infatti,” risponde e l’inverno nelle sue ossa ha raggiunto anche la sua voce. “Quella persona è morta il giorno in cui è stata l'unica a svegliarsi con cinquanta anni di anticipo. Ho pensato che sarei morta da sola. Di nuovo. Ho vissuto con il terrore che non vi avrei mai più rivisto per dieci anni finché quel terrore non si è trasformato in qualcosa di diverso e quando è successo era troppo tardi per combatterlo, era già parte di me.”
Lo guarda e sa di essere nel giusto. Lo guarda e si sente come se non potesse sentirsi addolorata. Non puoi piangere per la tua stessa morte.   
Bellamy respira profondamente e deglutisce a vuoto. “Dimmi cosa posso fare,” sussurra raucamente, con due caverne come occhi e una voce spenta.
“Non c'è niente che tu possa fare perché non ha niente a che fare con te.” Rivelare la verità è crudele, ma fingere e lasciarlo soffrire senza una spiegazione lo sarebbe perfino di più. Dieci anni l’hanno resa più testarda, ma anche egoista.
“Tutto ciò che ti riguarda ha a che fare con me.”
“Non più,” lei ribatte duramente. “Non sono mai stata una tua responsabilità.”

Non le passa inosservato il modo in cui Bellamy tenga le mani strette a pugno. Quando si alza, stavolta lui non cerca di trattenerla. Ora ha paura persino di toccarla. Clarke sente le dite fredde come il ghiaccio.  

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Capitolo 3
*** III ***


3

CAPITOLO III

 

 

Gli occhi di Russell sono di una delicata sfumatura azzurro cielo, qualcosa che non può davvero essere associato al cielo di questo pianeta, pardon luna, non nelle ore diurne perlomeno. Nell’incrociare i suoi esprimono un’espressione che non le capitava di vedere da una vita. Compatimento. Simpatia.
“Clarke Griffin,” la saluta con un cenno rispettoso, invitandola a sedersi con un ampio gesto del braccio. Un modo per farle capire che in questo incontro la riconosce come suo pari. “I racconti delle tue gesta ti precedono.”
Clarke schiocca la lingua e gli si siede di fronte. La tavola riccamente imbandita le provoca una violenta ondata di nausea. Pensa a Bellamy e si chiede se anche lui abbia provato lo stesso, se anche lui si sia sentito intrappolato in questa versione distorta di ricordo. Persone riverse su tavole apparecchiate come se fossero addormentate, unico indizio di quanto successo gli sfregi tumefatti sulla loro pelle già fredda, le smorfie di dolore e terrore sulle loro bocche atrofizzate nel rigor mortis. 
“Sono state ampiamente esagerate,” replica per rompere il silenzio, per scacciare i fantasmi che popolano il buio dietro le sue palpebre chiuse ogni volta che osa cercare un attimo di stallo e quiete.  
Il sorriso che lui le rivolge in risposta è uno specchietto per le allodole, contiene la blandizia ingannevole di una lusinga. “Non credo sia questo il caso e ora che ti vedo so per certo che tutto quello che ci è stato detto su di te corrisponde al vero.” Da vaga che era, la luce nel suo sguardo sembra ardere più brillante e pericolosa. Non è più profonda nostalgia, ma bramosia, ambizione folle mossa dalla disperazione più nera. “Tu mi ricordi qualcuno che ho perso.”
Clarke non si lascia commuovere. C’è stato un tempo, pensa, in cui un’affermazione del genere avrebbe smosso qualcosa dentro di lei. Non oggi. Non più. Non quando ci sono le vite di sua madre e di sua figlia in gioco. “Mi dispiace per la tua perdita,” commenta impassibile. “Arriviamo al punto. So che avete rapito mia figlia e mia madre. Restituitecele e non vi uccideremo.” A giudicare dall’espressione attonita di Russell, il suo sguardo deve rispecchiare alla perfezione il suo umore. È gelido e selvaggio.  
“Non sei stanca di essere una distruttrice di mondi?” domanda la donna seduta accanto a Russell. Sa che è la moglie di Russell, ma non ricorda il suo nome. Non che abbia qualche rilevanza per lei. Assassina, sussurra una voce dentro di lei e la crudeltà di ALIE nel corpo di Raven mette radici nella sua mente. I mostri che ha combattuto sono diventati parte di lei, li ha assorbiti nel momento in cui li ha abbattuti. 
“Non sei stanca di portare con te la morte ovunque tu vada? Sei come veleno. Nessuno è al sicuro con te vicino.”
Crede davvero che pozza spezzarla con così poco? È più forte di quello che pensano. Il peso delle scelte impossibili non grava più sulle sue spalle come il mondo per Atlante. È scomparso nel momento in cui ha accettato la verità. La verità non uccide, ma fortifica. La verità l’ha affrancata, l’ha resa indistruttibile. 
“Sono quello che sono e non intendo scusarmi per quello che ho fatto.” La sua voce non trema, non tentenna. Perché dovrebbe? Sono altre le cose che la terrorizzano, capaci di toglierle il sonno e la ragione: una fossa di combattimento imbrattata da vecchie incrostazioni di sangue, il silenzio intollerabile di una navicella deserta, il puntino rosso di una registrazione in atto, giorni che si trasformano in mesi e mesi che si trascinano in anni, una solitudine che tracima in pazzia.
“Avete ragione. La mia fama mi precede. Sapete di cosa sono capace. Non ho scrupoli quando si tratta di proteggere le persone che amo. Voi avete qualcosa di mio,” dice, inarcandosi in avanti, “e brucerò il mondo che conoscete pur di riaverlo indietro.”
Capisce dallo sguardo che si scambiano che è una minaccia che non hanno alcuna intenzione di prendere alla leggera. Le storie di Jordan devono aver reso appieno l’idea di chi è e di cosa è disposta a fare e quello che in un’altra occasione sarebbe stato un errore strategico e una mossa avventata può essere sfruttata, trasformandosi in un vantaggio determinante. Che sappiano cosa li aspetta. Che siano consapevoli del rischio che stanno correndo. Lo scopo di questo parley è stato questo sin dall’inizio.
Li lascia conversare tra di loro e ripensa alle informazioni finora raccolte. Troppo poche per organizzare un’operazione di salvataggio. Il numero di guardie che ha visto e -  
“Abbiamo una proposta.” La voce di Russell si intrufola nelle sue stime, riportandola alla realtà.
Clarke rimane in silenzio, un chiaro invito a parlare.
Simone, ecco il nome della donna dal volto triangolare, si protende e afferra la sua mano destra. Russell fa lo stesso con la sinistra. Clarke osserva la parvenza di cerchio che le loro braccia hanno creato e aggrotta le sopracciglia. “Se potessi salvare loro o te stessa, cosa sceglieresti?” domanda Simone.
Clarke non batte ciglio. Ha già fatto quella scelta molto tempo fa. “Perché lo chiedete?”
Entrambi stanno sorridendo adesso ed è un sorriso che le fa accapponare la pelle. Esprime un inspiegabile sollievo, ma anche qualcosa di torbido. Le riporta ancora alla memoria un reparto di quarantena, corpi deturpati dalle radiazioni. 
“Ti proponiamo uno scambio,” chiarisce Russell.
“Che genere di scambio?
“Te per la tua famiglia,” lui risponde. “Sai come sopravviviamo. Abbiamo scoperto un modo per sconfiggere la morte. Per noi niente finisce. I tuoi amici te lo avranno già raccontato. Sei anni fa abbiamo perso nostra figlia. Ti stiamo chiedendo di offrirti come ospite. Pensaci, Clarke. Niente più battaglie. Salveresti la tua gente, evitando un inutile spargimento di sangue. Saresti in pace finalmente.”
Clarke non riesce a decidere cosa sia peggio, osservare come queste persone abbiano perso a tal punto la loro umanità da distorcere un atto di egoismo con uno di clemenza, o il fatto che una parte minuscola di lei, per un istante che si estende all’infinito in un parossismo della sua instabilità emotiva, abbia seriamente preso in considerazione l’alternativa che le stanno offrendo. Non pace, ma la fine del dolore.
“Lasciate che ci pensi,” risponde con prudenza, ma l’attimo di debolezza è passato. Non si offrirà come vittima sacrificale all’altare della loro cupidigia, non spontaneamente.
“Certamente,” dice Russell. “Come dimostrazione della nostra benevolenza e della rinnovata amicizia tra i nostri popoli siamo disposti a portarti da tua figlia.”

Ma non a lasciarla andare, pensa lei cupamente.

*

"Mamma?" Madi batte le palpebre, intontita e non ancora del tutto sveglia. "Sei sveglia."
Clarke osserva il momento in cui la confusione sul volto di sua figlia si trasforma in euforia e quando succede è come se la trasfigurasse. I suoi occhi si sgranano e le rivolge un ampio, buffo sorriso e sì, forse è stupido sentimentalismo, ma sono trascorsi dieci anni dall'ultima volta che l'ha vista, sei mesi per lei e oh, com'è cresciuta. Le scosta i capelli dalle tempie e non riesce a trattenere oltre il bisogno di abbracciarla.
"Lo sono e lo rimarrò finché non troviamo una soluzione."
Quando si scosta, gli occhi di Madi divorano avidamente i cambiamenti in lei come se dovesse mappare una nuova costellazione del firmamento, alla ricerca di una stella perduta o errante. Qualsiasi cosa si aspettasse, non deve averla trovata perché il piacere con cui la guarda ora ha assunto una sfumatura di disappunto e di ansia.
"Non hai ancora visto Bellamy?"
"Era lì quando mi hanno svegliata," lei risponde distratta e da vaga che era, la contrarietà di Madi diventa concreta. Impossibile non notarla. Si acciglia. C'è qualcosa di cui non è al corrente?
Prima che possa elaborare in parole il turbinio di pensieri, Miller la richiama dalla porta a cui sta facendo la guardia. "Clarke, dobbiamo sbrigarci."
"Giusto," lei dice. Non hanno tempo per questo, qualunque cosa 'questo' sia. "Madi, ascoltami. Ho stretto un accordo con Russell. Sono disposti a lasciarti andare, a patto che io prenda il tuo posto." È una clamorosa bugia, ma non serve che lo sappia. Quando si accorgeranno di quello che ha fatto, sarà troppo tardi. Sa cosa l’aspetta. Madi sarà al sicuro. È tutto quello che le occorre sapere.  
Madi sta già scuotendo la testa e ha un'espressione di ostinata determinazione. "Non ho intenzione di lasciarti."
"Non mi stai lasciando," la rassicura perché è la pura verità. "Non è una tua scelta. Miller ti riporterà all’Eligius." Distoglie lo sguardo da Madi per fissarlo su Miller, assicurarsi che lui abbia sentito. Lui annuisce e lei sente un peso sgravarsi dalle sue spalle. "Io ti raggiungerò appena possibile."
A Madi non deve essere passato inosservato quel breve scambio. Le pare quasi di sentire il frenetico lavorio dei meccanismi nella sua testa, lo sforzo con cui sta connettendo i fili dietro il suo comportamento. "Stai mentendo," conclude, valutando la sua reazione. "Perché? Cosa mi nascondi?"
Senza farsi notare, lei si lascia scivolare nel palmo della mano l'anestetico che teneva nascosto nella manica del giubbotto in via precauzionale. La abbraccia di nuovo, più stretta e cerca di non pensare al fatto che questa sia l'ultima volta che succede, di ricacciare indietro il groppo in gola che saperlo le provoca. "Madi, ti voglio bene. Sei la persona più importante per me."
Qualunque sia la conclusione che ha dedotto, Madi ricambia l'abbraccio con uguale forza e appoggia la fronte contro la sua spalla come non ha più fatto da molto tempo. Le piace credere di non essere più una bambina, ma parte di lei lo sarà sempre ed è quella parte che adesso sta prendendo il sopravvento. "Clarke, mi stai spaventando."
"Sei mia figlia. La mia bambina. Anche quando non ci sarò più. Non dimenticarlo, va bene?" Ti voglio bene. Ti voglio bene. Preme l'anestetico contro il collo di Madi ed è una questione di secondi prima che il corpo di sua figlia si accasci tra le sue braccia, pesante e privo di conoscenza.
Miller si sposta dalla porta e la prende in braccio senza che debba chiederglielo.
Clarke si asciuga il bordo degli occhi il più discretamente possibile. "Te la affido. Portala al sicuro."
Sa che non c'è tempo, ma si allunga per accarezzare il volto di Madi un'ultima volta. Può percepire lo sguardo di Miller su di lei quando le chiede: "Cosa mi dici di te?"
Mentire non è difficile, ma è come bloccata. "Saprò cavarmela. Sono fatta di una fibra più resistente.”
"Non mi piace," commenta Miller. "Cosa dovrei dire a Bellamy?"
Le sue dita non hanno ancora abbandonato la fronte di Madi. Traccia il contorno delle sue sopracciglia con il cuore pesante. Intanto pensa a un volto completamente diverso, altrettanto amato. "Non dirgli niente." Si sforza di sorridere, anche se fa male come se stesse tastando una ferita aperta prima di suturarla. (Quante volte ha dovuto farlo negli ultimi sedici anni? Ricucirsi da sola? Se si guardasse in uno specchio la sua pelle sarebbe un assembramento di tessuto cicatriziale. La testimonianza nuda e cruda di com’è sopravvissuta.) Ripensa alle ultime parole che gli ha rivolto, forse le ultime che gli dirà mai, parole cattive che non rispecchiano affatto ciò che prova. Non sa come rimediare, se può. Per la prima volta da quando ha compiuto trent’anni, sente che potrebbe piangere per la tempesta che imperversa nella sua mente. 
“Lo sa già,” si rassicura. O almeno è ciò che spera.  

*

"Cosa significa che non è con te?"
Bellamy si trattiene a stento dallo scrollarlo. Innanzitutto perché si tratta di Miller, in secondo luogo perché la sua espressione devastata serve a dirgli tutto ciò che gli occorre sapere.
"Esattamente quello che ho detto," risponde Miller e sembra che ogni parola gli venga strappata. "È rimasta indietro. Ha detto che tu avresti capito."
Capire cosa? Che l’ha persa di nuovo, che è stato talmente stupido da lasciarla andare in avanscoperta in una missione potenzialmente suicida, ben sapendo cosa rischiava, il pericolo che correva?
"Bellamy, Madi si è svegliata," dice Echo, comparendo alle sue spalle. Il suo volto teso nella luce giallastra del corridoio lo mette subito in allerta. "Penso che tu debba venire in infermeria."

*

Le urla lo raggiungono mentre è ancora in corridoio. Urla strazianti ed è quasi impossibile descrivere l’orrore e la paura che esprimono, la reazione di tensione estrema che automaticamente ottiene in chiunque le ascolti. Percorre gli ultimi metri correndo ed entra trafelato. I suoi occhi sono subito calamitati dalla figura stesa sul letto nell'angolo. È rannicchiata su sé stessa e le sue urla rimbombano contro le pareti.
"Cosa sta succedendo?"
Se possibile Jordan e Gaia sembrano più ansiosi di lui. Accanto a lui Jackson ha una siringa in mano. "Non lo so. È così da quando ha ripreso conoscenza. Non lascia che nessuno la tocchi."
Lui annuisce e si avvicina cautamente. Sentendo il rumore di passi, Madi si volta di scatto come un animale braccato. Sembra rilassarsi impercettibilmente nel vederlo ed emette un sospiro. Il sollievo è momentaneo. La sua espressione si accartoccia di nuovo ed emette un verso gutturale che gli spezza il cuore. Prima che se ne renda conto, lei è pigiata contro il suo petto e sta piangendo inconsolabilmente. Lui le accarezza piano la testa. "Madi, ehi. Sei al sicuro adesso."
"Non capisci," la sente farfugliare. "Lo sta facendo di nuovo. Dobbiamo tornare indietro. Potrebbe già essere troppo tardi."
Ci mette un attimo a registrare le sue parole. In quello successivo ogni emozione è attutita ed è attraversato da un brivido. "Frena. Madi. Madi. Rallenta. Di cosa stai parlando? Chi sta facendo cosa?"
"Clarke. È rimasta indietro.” Un altro singulto, parla così velocemente che le parole si accavallano. “Lexa mi aveva avvertito. Non l'ho ascoltata. Ha preso il mio posto. Cercavano un ospite e ora l'hanno trovato. La uccideranno. Si è offerta volontaria per salvarmi, per salvare tutti noi."
I minuti successivi sono una macchia confusa. Ricorda di essere rimasto con Madi mentre Jackson la anestetizzava e di averla lasciata alle cure di Gaia, di aver intravisto il volto stravolto di Jordan mentre si lasciava cadere in un angolo come se non si raccapezzasse di quanto accaduto.
Quando Raven lo raggiunge, bloccandogli il passaggio, lui la indirizza verso l'infermeria. "Resta con Jordan," ordina e si guarda attorno con occhi spiritati. "Dov'è Miller?"
Raven lo fissa con le sopracciglia aggrottate. "Cosa hai intenzione di fare?"
Quando non lo lascia passare, lui dà un pugno al muro. Il dolore riverbera lungo il braccio e fino alla spalla. Serve allo scopo. La sua testa si sgonfia di ogni altro pensiero e Clarke diventa solo un'ustione, non più una lacerazione.
Raven è abbastanza distratta dal gesto. Riesce a superarla e a dirigersi verso il ponte di comando. "Sapevo che lasciarla andare da sola non era una buona idea. Lo sapevo."
"Non potevi sapere che sarebbe arrivata a questo," lei ribatte seguendolo.
"Sì invece. Questo è ciò che fa, che ha sempre fatto. Sacrificarsi per salvarci tutti? È esattamente da lei. Non sarebbe la prima volta."

*

"Abbiamo proposto a Clarke un accordo e lei ha accettato," afferma Russell.
Bellamy deve trattenersi dal mettergli le mani attorno al collo. “L'avete uccisa.”
“Ha scelto di sacrificarsi per salvare le vostre vite. Sapeva che la pace ha un costo ed era disposta a pagarlo. L'accordo è ancora valido. Abby Griffin verrà rilasciata all'istante se voi accetterete le condizioni della tregua.”
Accettarle? Hanno la minima idea di quello che hanno fatto, di cosa hanno scatenato? Hanno portato la guerra sulla loro porta e se prima sarebbe stato possibile evitarla se avessero restituito Madi e Abby incolumi, ora è –
“Dovreste esserci grati,” interviene una voce familiare e Russell non è l’unico ad irrigidirsi. Indra si incupisce ed è qualcosa di incredibilmente singolare riuscire a cogliere la lievissima frattura nei suoi nervi d’acciaio. Echo gli si avvicina, frenandolo con una mano sul braccio ancora prima che lui possa pensare di tramutare in aggressività il crepacuore che gli sta squarciando la gabbia toracica. Può percepire il calore irradiato dal suo corpo solido e letale. Si volta lentamente e quello che vede lo trasforma in un mostro a sangue freddo, con ghiaccio a scorrergli nelle vene e l’istinto di uccidere.  
“Josephine,” la richiama Russell e il tono e lo sguardo che dardeggia da loro a lei e viceversa sono pregni di avvertimento.
La donna che indossa il volto di Clarke, che cammina nel corpo di Clarke, che parla con la sua voce, non sembra scalfita dal rimprovero. Indossa gli stessi vestiti in cui l’ha vista l’ultima volta, ma lo sguardo nei suoi occhi fa crollare l’ultimo barlume di illusione e rivela quanto solo ad un’occhiata approfondita diventa visibile. Clarke non c’è più.
“Non fingete che vi stesse a cuore,” parla con voce strascicata, provocatoria e si muove come Clarke non avrebbe mai fatto, ondeggiando leggermente le anche. Gli sembra che qualcuno gli abbia conficcato un pugnale in petto. “Vi importa davvero che sia morta? In realtà la odiavate e chi potrebbe biasimarvi? Ognuno di voi la incolpava per qualcosa. Ti ha lasciato a morire in quella fossa di combattimento. E tu stavi per essere impiccato, giusto?” domanda, voltandosi verso Murphy che la osserva impietrito. Si picchietta la fronte. “Ho accesso ai suoi ricordi. So le cose atroci che ha fatto e come il senso di colpa la stesse torturando. Tutte le persone che ha ucciso, nemici e amici. Tutti quegli anni trascorsi da sola mentre il resto di voi dormiva, tutti quegli anni a fissare le stelle, chiedendosi se vi avrebbe mai rivisti, tutte quelle scelte impossibili. Non era un eroe, anche se le piaceva pensare di essere una dei buoni.”
“Non parlare di lei come se la conoscessi,” sbotta. “Tu non sai niente.”
“So quanto basta.” Gli occhi chiari e limpidi di Clarke si fissano su di lui e c’è una luce predatoria e irridente. Inclina la testa su un lato e si prende una ciocca di capelli tra le dita, giocandoci. “Voleva farla finita. Ci ha provato così tante volte, lo sapevate?”
“Non osare-”
“Bellamy!” urla qualcuno alle sue spalle, ma lui è già piombato su di lei e l’ha spinta contro il muro, afferrandola per la gola e coprendo quel sorriso con la mano come se potesse cancellarlo. Sbagliato. Quel sorriso è sbagliato sul viso di Clarke, così come lo è l’espressione con cui lo sta guardando, come se fosse divertita, come se l’intera situazione fosse un passatempo e–
Gli iniettano qualcosa nel collo e quando cade, il viso della non-Clarke è chino su di lui, l’ultima immagine che si scolpisce nelle sue cornee prima di perdere conoscenza sono le infinite, minuscole differenze con la sua Clarke.

*

“Sei stato grande lì dentro. Dico sul serio. Se il tuo scopo era farci uccidere, sappi che ci sei quasi riuscito.” Murphy muove le catene che li tengono bloccati al pavimento. Bellamy non si volta a guardarlo, ma sa che ha roteato gli occhi. “Perciò adesso è lo sciopero del silenzio? Cosa hai intenzione di fare? Domanda stupida. Perché non puoi lasciar perdere? Clarke ha fatto la sua scelta.”
Basta la menzione di lei a provocargli un’ondata di nausea e odio per sé stesso. “Non è stata una scelta. L'hanno costretta.”
Si aspetterebbe una battuta o una risposta mordace, invece quando parla, la voce di Murphy è grave e pacata. È un aspetto di lui che raramente emerge. Murphy di solito preferisce nascondersi dietro lo stratagemma di battute da repertorio, in un meccanismo di difesa che lo distanzia dagli altri ed è la sua valvola di sfogo. “No, non l’hanno fatto, ma non fa alcuna differenza per te, non è vero? Non vuoi lasciarla andare.”
L’idea è inconcepibile. Ci sei già riuscito una volta, dice una voce dentro di lui, una che è uguale a quella di lei in tutto e per tutto. Ricordi? Sei anni sull’Anello. Hai creduto che fossi morta e sei andato avanti, mi hai dimenticata. Cos’è una volta in più?
No. Si prende la testa tra le mani, nasconde il viso. Non di nuovo. Non può rifarlo. Se anche la prima volta è sopravvissuto, ora è impensabile. Non ora che sa delle chiamate radio, non dopo le registrazioni. Non si ama per essere riamati, ma quando lo si è… quando lo si è. “Non posso,” mormora con voce rotta dall’emozione.
“Ci stanno offrendo una tregua. So che è difficile, so che lo odi, ma ragiona.
Pensi che lei avrebbe voluto questo?”
“Non so cosa Clarke avrebbe voluto. È un peccato che non possiamo chiederglielo.” 

“Bugiardo. Lo sai perfettamente invece.”
Sì, lo sa. Anche se non vorrebbe. “Io so solo che se fosse stata al nostro posto, se avessero fatto ad uno di noi quello che hanno fatto a lei, avrebbe ridotto questo posto in cenere.”
“Forse,” concede Murphy. “Non avrebbe voluto che facessimo lo stesso per lei. Non lo ha mai voluto. Ha sempre pensato di essere sacrificabile ed è esattamente il motivo per cui avrebbe voluto che facessimo il nostro meglio. Essere i buoni. Di certo non rischiare le nostre vite per vendicarci. Si è offerta volontariamente.”
Di nuovo quelle parole, le stesse usate da Russell. Le odia e odia lei per averlo messo in questa posizione, per averlo costretto ancora una volta a farsi carico del mondo da solo. (Continuano a ribadire che si sia stata una sua scelta, come se questo rendesse accettabile l’abominio di cui si sono resi colpevoli, ma che scelta è una del genere? Che razza di vita è una che ti costringe a fare una scelta del genere, a scambiare la tua libertà per salvare quella della tua famiglia? E cosa dice di tutti loro che glielo abbiano permesso?) “Sì, per salvare tutti noi! Di nuovo!”
“Possono aiutarci.” Murphy non sembra scalfito dalla sua veemenza e all’improvviso lui non vuole più ascoltare quello che ha da dire, la ragionevolezza delle sue affermazioni. “Conoscono il terreno. Possono mostrarci come sopravvivere, costruire i nostri complessi come avevano promesso.”
Ma a quale prezzo?, lui vorrebbe urlare. Non gli interessa, non se il prezzo da pagare è Clarke.  
“Sai qual è la cosa peggiore?” domanda ed emette un verso soffocato, a metà tra una risata amara e un singhiozzo incastrato in gola. Si passa una mano tra i capelli, trapassandoli da parte a parte. “Sono stato io a svegliarla. Sapevo cosa sarebbe successo. Sapevo che avrebbe fatto di tutto per salvare Madi. Sapevo che il suo piano era rischioso. Sapevo che sarebbe stata un bersaglio. Lo sapevo e l'ho lasciata andare lo stesso.”  
È colpa sua ed è una colpa che non riuscirà mai ad espiare, che non si perdonerà mai. Sente la mano di Murphy sulla spalla e non gli è di alcun conforto. Non riempie il vuoto abissale dell’assenza di Clarke.
“Non saresti mai riuscito a fermarla. Non te lo avrebbe permesso. Follemente coraggiosa o completamente folle. Ostinata fino al midollo.”
Murphy scoppia a ridere e anche se suona strozzata, Bellamy ride a sua volta, portandosi una mano al viso. “Suona come lei.”
L’attimo di ilarità ha breve durata e nel silenzio fragoroso che segue, Murphy dice esattamente quello che lui aveva bisogno di sentirsi dire. “Se non l'avessi svegliata, avrebbero ucciso Madi e Abby.”
Non possono saperlo con sicurezza. Bellamy sospira. “Lo so.”
“L'avresti persa lo stesso.”
“Mi odierebbe,” lui lo corregge stancamente e si chiede se sia così che si è sentita anche lei, logorata e sola e vecchia, “ma almeno sarebbe ancora viva.”

*

“So che non è facile accettarlo, ma dobbiamo andare avanti. Dobbiamo sopravvivere. È quello che lei avrebbe voluto.”
Le sue parole suonano vuote alle sue stesse orecchie. Lo sguardo che Abby gli rivolge trabocca dello stesso senso di vuoto incommensurabile.     
“Conosco il mio dovere,” lei ribatte seccamente, abbracciandosi come se stesse cercando di proteggersi dal dolore, ma allo stesso tempo riconoscendo che si tratta di un vano tentativo. Il dolore vive già dentro di lei. “Ho perso mio marito per il bene comune. Ho perso Marcus. Ora ho perso anche mia figlia.”

*

È viva. Rinchiusa nella sua stessa mente come in una cella della skybox. È viva e lui può ricominciare a respirare.

 

 

There's a corner of my heart that is yours. And I don't mean for now, or until I've found somebody else, I mean forever. I mean to say that whether I fall in love a thousand times over or once or never again, there'll always be a small quiet place in my heart that belongs only to you.
-Beau Taplin

 

 

 

Dopo che anche Monty è scomparso, Clarke ripercorre i corridoi del suo spazio mentale. Apre una porta a caso e si trova nella fossa di combattimento. Schiena contro il muro, si accascia sul pavimento. Si passa le braccia attorno alle caviglie e appoggia la fronte contro le ginocchia.
"Va' via," brontola, quando sente un rumore di passi. Invece di allontanarsi, l'intruso si avvicina e si lascia cadere con un tonfo accanto a lei. Lo sente canticchiare a bassa voce una melodia che le sembra di riconoscere (giorni di sole rubati alla guerra, una presenza salda alle sue spalle pronta a sorreggerla in caso di caduta, un ragazzo con un sorriso tagliente come una lama di pugnale e le nocche quasi sempre scorticate. Combattere contro la fame e la stanchezza, costruendo un’utopia di nuovo tra le macerie di un mondo al collasso). Solleva la testa e lo fissa di traverso. È più giovane, simile a com'era quando lo ha lasciato dopo Mount Weather, ma le sue ferite sono localizzate in zone diverse. Ci sono abrasioni sulla sua guancia sinistra e un’altra vicina all’occhio destro. Ha un labbro spaccato e – capisce. Sa perché la sua mente ha scelto proprio questa versione di lui, estratto dal giorno in cui le ha insegnato come maneggiare un’arma da fuoco, in cui ha ucciso Dax. Il giorno in cui ha ammesso di avere bisogno di lui. Se fosse una persona vanitosa, quasi ammirerebbe questa dimostrazione di logica pragmatica da parte del suo subconscio.      
"Sei un frammento della mia immaginazione," lo accusa.
Lui annuisce, imperturbato. “Lo sono.” Sta mangiando qualcosa e gliela porge. Sul palmo aperto, rotonde e tendenti al verde, le noci Jobi di Monty e Jasper.
Lei sopprime l’impulso istintivo di fargliele cadere, ma quando lo vede masticarne una seconda e poi una terza non può evitare una smorfia. “Perché sei ancora qui?”
“Sei tu quella intelligente, principessa. Dimmelo tu.”
“Se non riesco più a farmi obbedire dalle mie proiezioni significa che non ho più potere nella mia mente. Josephine ha vinto. Sto scomparendo.”
“Oppure stai mentendo a te stessa. Tu vuoi che sia qui.”
Clarke corruga la fronte. Non perché non ci sia del vero in quello che ha detto, ma perché osservarlo così, con la barba rasata e l’aria arrogante, ricoperto di fango e con escoriazioni recenti a marchiargli la pelle, la turba più di quanto le piaccia ammettere.  
“Se questi sono i tuoi ultimi momenti, sappiamo entrambi con chi vorresti trascorrerli. Ecco perché mi trovo ancora qui,” conclude lui con un ghigno di supponenza. I suoi occhi si piantano nei suoi e sono come quelli del Bellamy che conosceva prima del Praimfaya, perseguitati e prepotenti. Aveva dimenticato quanto fosse cocciuto e cosa provasse allora, quanto la facesse sentire viva scontrarsi con lui, litigare per avere l’ultima parola. “Tu vuoi che io sia qui,” ripete una seconda volta. “Non negarlo.”
Quando le poggia una mano contro il viso, lei non si ritrae, non questa volta, non quando ha la sicurezza che -reale oppure no- sarà l’ultima volta. Lascia che il calore ingannevole le intiepidisca la pelle, ingentilisca in modi che le sono incomprensibili le rovine diroccate che un tempo sono state la sua forza, la sua capacità di agire con prontezza e scegliere tra due mali il minore. Piega la testa e si sposta per averlo più vicino, sentire la consistenza ruvida dei calli e credere per un istante, uno soltanto, di poter tornare indietro nel tempo. A quando tutto sembrava incredibilmente difficile e che ora, con l’assennatezza derivata dall’esperienza e la saggezza indesiderata della giovinezza sfumata, appare invece facile e la riempie di nostalgia nonostante le impervietà e imperfezioni da cui non era esente.         
“Sei così giovane,” mormora contro la sua pelle.
Bellamy le scosta i capelli dal viso. Sono lunghi e scarmigliati come li portava allora, una massa di trecce biondo sporco. Sembra che tra le sue ciocche sia nascosta un’intera polveriera o la sponda fangosa di un torrente. Quando avvicina la fronte alla sua, lei percepisce il suo respiro contro il naso. “Anche tu.”
“Non mi sento più giovane da tanto tempo.” È facile ammetterlo con questo aspetto, quando non era ancora diventata Wanheda, quando non aveva ancora scritto una lista di sopravvissuti condannando il resto a morte certa. Prima del Praimfaya, prima di Madi, prima di dieci anni di solitudine con una spada al posto del cuore.  
Lui sorride, un sorrido lento e quasi pigro, canzonatorio. La sua mano si è spostata dietro la sua nuca, le sostiene la testa, mentre l’altra è rimasta contro la sua guancia e con il pollice sfrega lo spazio umido sotto le sue palpebre, asciugando la trasposizione di quella che non è più debolezza, ma solo stanchezza. “Lo sei mai stata davvero?”
“E tu?” domanda di rimando.
“Touché,” lui risponde con una risata soffocata. Lo sguardo che le rivolge è affezionato, colmo di tenerezza. Prima che l’attimo di coraggio che sta provando scompaia nel risveglio del buonsenso, Clarke si sporge leggermente in avanti. (Perché no? Già, perché no? Non ferirà nessuno al di fuori di sé stessa.) Quando i loro visi sono talmente vicini che può contare le lentiggini che gli cospargono a sprazzi il naso e gli zigomi, Clarke si ferma. Le ferite si sono rimarginate e il Bellamy che la sta guardando, pieno di timore reverenziale e come se temesse che lei possa scomparire da un momento all’altro se facesse la mossa sbagliata, è molto più simile al Bellamy che le ha chiesto di rimanere dopo Mount Weather, la prima volta che gli ha voltato le spalle. Ma non è lui. Indossa le pellicce di un guerriero della nazione del ghiaccio e lei ricorda. Il terrore, il sollievo, l’amore.    
Tocca in punta di dita il suo viso, come ricorda che lui abbia fatto quando l’ha trovata legata e imbavagliata, quando lei ha supplicato Roan di non ucciderlo, scambiando la sua vita con la propria. “Posso toccarti?”
Lui annuisce, deglutendo, il pomo d’Adamo prominente e allo stesso tempo meno pronunciato di quanto ricordasse. A separarli solo lo spazio di un respiro e i mille, stupidi impedimenti che li hanno intralciati sin dal primo giorno. Poggia le labbra contro le sue e lo sente tendersi e rispondere immediatamente, come sapeva che avrebbe fatto. Non è un bacio gentile. È duro e affamato, una battaglia tra forze uguali e contrarie. È il loro primo, ma serba anche un senso di finalità che le fa venire le lacrime agli occhi. Quando si staccano l’una dall’altro per riprendere fiato, non è l’unica ad avere il respiro corto e gli occhi lucidi, l’espressione dolente di qualcuno a cui è appena stata comunicata una notizia terribile.
“Mi hai chiamato ogni giorno per sei anni e poi mi hai lasciato a morire in una fossa di combattimento.”

“Sì,” risponde, “e non c'è stato giorno da allora in cui non l'abbia rimpianto.”
Non è più il ragazzo fiero, ma l’uomo pronto ad assicurarsi la sua incolumità, scambiandola con le vite di duecentottantatré prigionieri. Ci sono sei anni di differenze da scoprire. “Perché l'hai fatto?” lui domanda sottovoce.
Sa che non può mentirgli, soprattutto non qui, nella riproduzione fedele del suo rimpianto. “Perché ero arrabbiata con te e volevo che tu provassi lo stesso. Avevi tradito la mia fiducia.”
“Parli di Madi. O di Echo?”
“Entrambe forse?” Scuote la testa, abbassando gli occhi. “Non lo so. Non sono più sicura di niente ormai.”
“Perché mi chiamavi?” lui insiste, mettendole un dito sotto il mento e costringendola a voltarsi di nuovo verso di lui.
Lei sospira. “Te l'ho già spiegato.”
“Vero, ma quella era una registrazione. Non me lo hai mai detto di persona. Clarke. Avresti potuto fingere di parlare con chiunque altro, invece hai scelto me.”
Non sa cosa la convinca. Forse è l’appello contenuto nei suoi occhi (anche se ora mostra i segni del tempo, gli occhi sono rimasti quelli del Bellamy che ha abbracciato quando cercavano Luna con Jasper e Octavia. Non sa come sia possibile. Si chiede se in fondo non siano mai cambiati, se invece è stata lei a non riconoscere quella luce di supplica e assoluzione, se è sempre stata lì sin dall’inizio e se è stata davvero così cieca da non vederla subito per quello che era.) “Ho scelto te perché non ho mai sentito l'esigenza di parlare con gli altri.” L’ammissione quieta non le provoca alcun dolore aggiunto e forse è questo il primo passo per guarire. Non limitarsi ad ammettere che esista un problema, ma smettere di rinnegare i sintomi che hanno provocato il peggiorarsi della malattia. “Mi mancava la loro compagnia, ma non come mi mancavi tu. Non si può vivere senza il proprio cuore. Credimi, io ci ho provato per sedici anni.” Si morde l’interno della guancia abbastanza forte che il sapore del sangue le invade la bocca. “Mi manchi,” mormora, sfiorandogli una guancia e tocca a lui adesso girare il volto, accostare le labbra al suo polso e lasciarle lì nella parvenza di un bacio di pura devozione.  
“Sono proprio qui,” lo sente dire.
“Non questa versione di te, ma quella che non ho ancora perso.”
“Non mi hai mai perso,” lui promette. “Nessuna parte di me.”
“Vorrei che fosse vero. Vorrei che mi avessi perdonato.”
“L'ho già fatto. Centoventicinque anni fa.” Sembra così sicuro, così fiducioso. Come può non credergli? Specialmente quando continua a guardarla in quel modo e le tende le braccia. “Tu puoi dire lo stesso di te stessa?”
Per la prima volta in anni il freddo retrocede e così la solitudine, il senso di colpa che vive nella sua ombra. Seduta nella fossa di combattimento in cui lo ha abbandonato a morire, le braccia di Bellamy avvolte attorno a lei, sente che potrebbe piangere da un momento all'altro e non è per la tristezza.

*

Il corpo di Clarke ha un sussulto e ricomincia a respirare con boccate agonizzanti dal suono raspante. Più tardi, quando è troppo esausta per continuare a parlare, si addormenta con le dita strette attorno alla sua mano.
Mai più, lui giura a sé stesso, scostandole i capelli dal viso e sfiorandole la fronte con le labbra in un bacio che intende sugellare la sua promessa silenziosa. Mai più

*

Si sveglia e per un attimo non ricorda dove si trova, cosa è successo. Nella penombra, la tenda potrebbe essere il laboratorio di Becca. È di nuovo sull’Eligius e il suo baccello continua a non funzionare. (Ha sempre vissuto di giorni rubati, tra una catastrofe e l'altra, aspettando, combattendo, cadendo e rialzandosi.) Poi ricorda. Le ore trascorse prima che il sonno avesse la meglio, le verità bisbigliate che si sono scambiati, cercando di colmare in una manciata di ore sei mesi di lontananza per lei e dieci anni per lui. Lui le ha raccontato della rottura con Echo, di quanto gli risulti ancora difficile perdonare Octavia, di Jordan e di Madi, del nuovo pianeta e di notti tormentate trascorse accanto al suo baccello. Lei gli ha raccontato di una solitudine così profonda da averla convinta di non poter trovare alcuna parvenza di conforto, come vagare in un deserto senza viveri e senza il conforto di zone d’ombra sotto un sole cocente, desiderando solo che finisca. Convincersi che non può più trattarsi di semplice sfortuna, troppe tragedie non possono essere semplici coincidenze e che allora devono essere il frutto delle azioni compiute, che si riceve quello che si merita. Anelare il contatto fisico al punto da sentirsi lacerata, come se qualcuno la stesse divorando dall’interno, al punto che essere toccata da lui quando si è risvegliata è stato uno shock, come essere attraversata da una scossa elettrica.
Ricorda. È morta e poi non lo è stata più. Lui l’ha salvata. Da Josephine e da sé stessa.  
Quando cerca di mettersi a sedere, la testa le gira vorticosamente. L'unica cosa che la ancora alla realtà è la mano saldamente intrecciata alla sua. L’uomo a cui la mano appartiene, dorme a poca distanza da lei, in una posizione che deve essere tutt’altro che comoda. Anche nell’incoscienza i muscoli facciali sono contratti in un’espressione di preoccupazione e l’angolazione del corpo è disposta in modo che sia il più vicino possibile a lei, come se anche nel sonno il suo primo istinto fosse quello di vegliare su di lei.
Clarke non si trattiene dallo scostargli i capelli dalla fronte. Il suo sonno deve essere più leggero di quanto pensasse perché gli occhi di Bellamy si spalancano all’improvviso e si fissano nei suoi con un’urgenza e una trepidazione che ha il potere di disarmarla. 
“Clarke?” domanda con voce arrochita dal sonno e il tono interrogativo è lo stesso di qualche ora fa, come se dovesse accertarsi che lei sia davvero lei, che non si sia trattato di un sogno. È come se l’ultima barriera che ha eretto per proteggersi fosse appena crollata, cedendo ai colpi poderosi dell’ennesimo attacco indefesso. Non percepisce alcuna differenza dentro di lei, ma qualcosa deve trasparire dal suo volto perché l’espressione di Bellamy cambia completamente, repentinamente. I suoi occhi sono sospettosamente luminosi e sembrano arricciarsi come se non riuscissero a contenere una violenta emozione, le sue labbra si contorcono come se stesse cercando di non piangere e Clarke riconosce quello sguardo, certo che lo riconosce. Il suo cuore perde un battito e apre le braccia che tremano un poco, anche se pensa che sia dovuto più al fatto di essere sopravvissuta a un’esperienza di pre-morte. Lui esita ancora, nonostante non abbia mostrato il minimo dubbio la notte prima, e lei ne intuisce il motivo mentre l’eco delle parole che gli ha rivolto le rimbomba dentro, dura e spietata. Non toccarmi. 
“Vieni qui,” mormora e Bellamy non se lo lascia ripetere una seconda volta, fagocitandola in un abbraccio che è un’apologia dei loro trascorsi, un’ammissione di colpa reciproca.
“Mi dispiace.” Preme il viso contro il suo collo, la lanugine della barba a pizzicarle la pelle. Sospira e lo sente fare lo stesso. Non serve che gli spieghi a cosa si riferisce. Sa che lui capirà. È Bellamy. Capisce sempre. 
“Anche a me,” lo sente dire in risposta e come lui ha compreso che lei stesse parlando del loro ultimo incontro, tocca a lei fare lo stesso. Riconoscere la frustrazione e la critica con cui condanna sé stesso per qualcosa che non avrebbe potuto impedire neanche se avesse voluto, che non è dipeso in alcun modo da lui, ma per cui si sente ugualmente, irrazionalmente responsabile. È stato egoista pensare che i dieci anni che ha trascorso da sola non avrebbero influenzato nessun altro oltre lei, che fosse l’unica ad essere cambiata. Perché è cambiata, è vero, ma non al punto da essere irriconoscibile, non al punto da continuare a rinnegare i sentimenti che prova per quest’uomo, soprattutto non a causa di qualcosa di così meschino e deleterio come la paura. (Non del rifiuto, ma dell’incognita, del pericolo che una felicità come quella comporta.)
“Avevo il terrore di finire i miei giorni in solitudine,” dice e la presa di Bellamy attorno alla sua vita si fa spasmodica, si rafforza al punto da dolerle. Lo sente tremare, non solo per quello che ha appena confessato, ma per la prospettiva dell’alternativa, di quello che sono stati ad un passo dal perdere. Ancora una volta.  
“E io che avrei dovuto spendere il resto della mia vita senza di te.”
Batte le palpebre e non sa cosa stia provando di preciso, è un amalgama di gioia furiosa e una sofferenza che non è necessariamente dolorosa, ma ha qualcosa di catartico. 
Si scosta quel tanto che le basta per incrociare i suoi occhi e le mani di lui corrono subito a sorreggerle il viso con delicatezza. Il modo in cui la sta guardando, feroce protezione e un amore che non è possessivo ma oblativo, le fa venire voglia di colmare la breve distanza che li separa per baciarlo. Lo stesso desiderio è impresso chiaramente nei suoi occhi commossi. Non osa sperare, ma… Ma.
“Sei il mio cuore.” Le parole riecheggiano quelle dell’ultima registrazione che gli ha lasciato, ma hanno un sapore diverso, meno amaro. Per un attimo le sembra di avere di nuovo diciotto anni, di essere perennemente stanca e affamata, con una mandria di ragazzini di cui occuparsi e un co-leader dal sorriso spavaldo a coprirle le spalle sempre e comunque, oberata come si sentono tutte le persone giovani e inconsapevolmente libera dagli errori che devono ancora essere commessi ed espiati.
Il sorriso che Bellamy le rivolge è lo stesso di quel ragazzo e allo stesso tempo diverso, più maturo, consapevole. Ha qualcosa che l’altro non aveva, esprime una contentezza calma e rassicurante, una pace che scaccia qualsiasi residuo di torto o malevolenza potesse ancora esserci tra di loro. (E lo sa, sa che la strada della guarigione è ancora lunga, ma con lui al suo fianco sembra meno terribile e spaventoso pensare al futuro e proiettarsi al suo interno.) Nel poggiarsi contro il suo, quando le loro labbra si sfiorano in un bacio rapido e caotico, più adatto a dei ragazzini inesperti che a qualcuno della loro età, quel sorriso sembra solo ingigantirsi. “Tu sei il mio.”     

 

 

Chameleon-like, I am trasformed by light.
-Erica Jong

 

 

 

La trova tra la marea di persone che si abbracciano, felici che sia finita, sollevati di essere sopravvissuti ancora una volta, mentre il sole trasforma il mondo, ricreandolo daccapo, rendendolo luce pura.
Lei gli va incontro, accelerando il passo e prima che si renda conto di quello che sta succedendo, sono l'una tra le braccia dell'altro e la stringe così forte che vorrebbe che quell’alba dorata non finisse mai. Sono vivi. Non è successo niente di catastrofico, niente di irreparabile. Lei non è bloccata nello spazio e lui su una luna aliena. Non lo aspettano giorni di tormento e una nuova, lunga, penosa separazione. Sono vivi e sono insieme e se non è questa la felicità, lui non sa cos'altro sia, non sa come chiamare questa bolla di calore e perfezione che li circonda.
Nonostante il lutto per la perdita di Abby, nonostante le rassicurazioni che si stanno dando a vicenda, nonostante i suoi occhi traboccanti di lacrime, sa che anche per lei è lo stesso. Lo sente nel modo in cui lo abbraccia, simile a quello di tanti anni prima dopo l’anello di fuoco e la prima fuga da Mount Weather, in cui respira affannosamente contro il suo collo mentre cerca di non scoppiare in singhiozzi, in cui lo guarda e gli parla. Sedici anni, ma alla fine è tornata da lui. Ce l’hanno fatta. Lei è lì. Ti tengo io.
"Rimango più vecchia di te," la sente dire e lui ride, anche se gli occhi gli bruciano e sembra che il petto possa scoppiargli da un momento all'altro.
"La triste verità è che lo sei sempre stata. Troppo seria e matura per la tua età. Dispotica e autoritaria dal primo giorno che ti ho conosciuta." Appoggia la fronte contro la sua e chiude gli occhi. Percepisce le dita di Clarke tracciare i contorni del suo viso, il tocco dei polpastrelli leggero come ali di farfalla, bruciante come tizzoni ardenti contro la pelle. "Mi dispiace non averti risposto in questi sedici anni."
"Dispiace anche a me."
"Sono qui adesso. Se lo vuoi. Se mi vuoi."
La sente trattenere il fiato e guardarlo con una strana espressione concentrata e poi- "Sì."
"Sì?" ripete e la sua incredulità deve essere evidente.
Clarke gli cinge il collo con le braccia e lo bacia, a lungo e intensamente. Quando finisce, entrambi hanno il fiato corto e un sorriso sulle loro facce che fa male in modo non interamente fastidioso.
"Togliti quel sorriso dalla faccia prima che Madi o Jordan ti vedano.”

"Troppo tardi," lui mormora, mettendole un braccio attorno alla vita. Guarda un punto alle sue spalle con insistenza. Clarke si volta. Segue la traiettoria del suo sguardo e se possibile il suo sorriso si allarga, con uno sfolgorio negli occhi. A poca distanza da loro, i diretti interessati li stanno fissando. C’è una gioia contagiosa nel sorriso raggiante della ragazzina. Di fianco a lei Jordan li guarda come se si fosse aspettato esattamente questo sviluppo.

Clarke preme il viso contro la sua spalla e quando piega la testa all'indietro per guardarlo, lui si sporge in avanti per baciarla di nuovo, veloce e fieramente, rubandole quel sorriso dalle labbra.
"Non badate a me," annuncia Murphy, passando loro accanto. "Tutta questa felicità mi ha reso cieco."
"Ascoltarti è una delizia per l’animo, Murphy.”

"Ti ho sentito, Clarke," lui urla di rimando, ancora abbastanza vicino da aver colto le sue parole. "Ho detto di essere cieco, non sordo."

 

You claim your joy. You lay your roots. Blood and bone and fire and ash. And in this land of free and home of the brave, you plant yourself. Like a flag.
- Samira Ahmed


N/a:

Ho letto e riletto questo capitolo non so quante volte, indecisa se pubblicarlo o riscriverlo daccapo, se cancellare le parti che non mi convincevano (il pezzetto Bellamy-Murphy, tanto per puntare il dito) o che mi parevano inadeguate rispetto al contesto. Alla fine ho deciso di pubblicarlo così com’è. Non sono sicura di essere riuscita a rendere al meglio il cambiamento graduale di Clarke tra la parte iniziale e quella finale, la lenta e progressiva accettazione che l’amore non sia qualcosa che si deve meritare, che tutte le cose orribili che le sono capitate non la rendono una persona cattiva, che sono in gran parte sfortuna, ma lascio decidere voi. Scrivere e pubblicare è fondamentalmente questo dopotutto: mettersi in gioco, buttarsi anche quando si è attanagliati dalla paura di un commento negativo, una forma di sollievo creativo, una porta aperta sull’anima di chi scrive e di chi legge, un attimo di intima condivisione. Perciò spero che i miei sforzi siano valsi a qualcosa. Ho scoperto che preferisco scrivere dal punto di vista di Clarke (si vede?). Dopo anni a scrivere Sherlolly mi riesce difficile immedesimarmi in un uomo che vive le sue emozioni così appassionatamente come Bellamy, che non nasconde la sua rabbia o il suo odio, che vive il suo dolore in modo straziante e- insomma, mi riesce difficile, punto.
Anche se in ritardo, spero che abbiate trascorso una felice Pasqua, che vi siate ingozzati di uova di cioccolato e siate riusciti a trascorrere dei giorni sereni con i vostri cari.
Un abbraccio a tutti!   

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