Roots before branches

di f_dreamer96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The letter ***
Capitolo 2: *** Behind blue eyes ***
Capitolo 3: *** Don't dream it, be it ***
Capitolo 4: *** Born to be alive ***
Capitolo 5: *** The call ***
Capitolo 6: *** Apologize ***
Capitolo 7: *** Confessions ***
Capitolo 8: *** The visit ***
Capitolo 9: *** Christmas ***
Capitolo 10: *** Home ***
Capitolo 11: *** Countdown ***
Capitolo 12: *** Mixed emotions ***
Capitolo 13: *** Lancaster ***
Capitolo 14: *** The best of both worlds ***
Capitolo 15: *** Pictures of you ***
Capitolo 16: *** Since ever forever ***



Capitolo 1
*** The letter ***


 

1

 

-Adesso faranno sicuramente partire il conto alla rovescia-affermò Rachele, ravvivandosi i suoi lunghi capelli biondi e stringendosi nel suo pellicciotto bianco per il freddo.

-Dovranno, le persone qui continuano ad aumentare-notai io.

Cittadini e turisti erano ammassati nella sfarzosa e dorata Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, tutti con sacchetti alle mani e macchine fotografiche al collo, pronti a testimoniare l'evento più elegante della stagione natalizia: l'accensione del grande albero di Natale. Davanti al Duomo si era optato per uno più moderno interamente costituito da luci e display, perciò il tradizionale abete della Galleria rappresentava l'unico conforto per chi, come me, preferiva gli aghi verdi e le ghirlande rosse ed argento.

Il conto alla rovescia finalmente partì, intonato con mille accenti diversi, e l'albero si accese tra gli applausi della folla.

-Bello come ogni anno-ammirai.

-Ogni anno è più bello, semmai-mi corresse Rachele.

A braccetto ci facemmo strada tra la calca fino ad arrivare alle scale che conducevano alla metropolitana. Erano le cinque e mezza di un pomeriggio di fine novembre ed il cielo era già buio.

-Sei sicura che non vuoi cenare a casa mia stasera?-le domandai per l'ennesima volta.

-No, tranquilla, mi sa che Etienne vuole guardarsi un film.

Etienne, il suo ragazzo da quando aveva quindici anni. Erano la coppia ideale: lei italiana, bionda con gli occhi azzurri e la pelle chiara; lui nato a Cannes ma con origini africane, mulatto e con un leggero accento francese. Ero sempre stata a favore della multiculturalità.

-Allora ci vediamo in questi giorni-le dissi, scambiandoci i consueti e rapidi baci sulle guance gelide.

-Certo, ti scrivo!-ricambiò lei.

 

La metropolitana era affollata come al solito, non riuscì a trovare posto a sedere in nessuna delle due linee che dovevo prendere per arrivare a casa. Una volta uscita, camminai a passo veloce stringendomi nel mio cappotto nero finché non arrivai al pesante cancello in ferro del condominio in cui vivevo. Alzai gli occhi al cielo, ma in città non si vedevano le stelle. Almeno quel giorno non c'era la nebbia. Mi toccò togliere le mani dalla tasca calda in cui le avevo tenute tutto il tempo per cercare le chiavi nello zaino, missione più difficile del previsto dal momento che erano state sotterrate dal mio portatile, dal codice penale e dal pesante manuale che mi ero portata nell'evenienza in cui fossi riuscita ad andare a studiare in biblioteca. Finalmente aprì il cancello e quasi corsi fino ad aprire la porta di vetro che mi avrebbe messa definitivamente a riparo dal freddo.

-Buonasera, signorina De Stefano-mi salutò il portiere da dietro la sua finestra di vetro.

-Buonasera-risposi formalmente-C'è posta?

Da una fessura mi passò le buste bianche che avevamo ricevuto quel giorno. I miei genitori erano probabilmente ancora a lavoro e mio fratello da scuola si recava direttamente agli allenamenti di calcio, io ero con grande possibilità la prima della famiglia a rincasare.

Il condominio era storico, con le pareti in marmo rosso antico e la cabina dell'ascensore in ferro battuto. Appeso in un angolo, proprio sopra una grande pianta verde in un vaso oro, il lungo regolamento condominiale. Quando, undici anni prima, ci eravamo trasferiti lì, non riuscivo a capacitarmi di tanta eleganza. Entrai nell'ascensore, premetti il pulsante corrispondente al sesto piano e mi misi a guardare velocemente le buste ricevute. Aspettavo una cartolina da un mio amico in Danimarca, conosciuto l'anno prima durante l'Erasmus a Copenhagen, ma non fu quello che trovai tra la posta quel giorno. Una lettera indirizzata a me dal Metropolitan Detention Center di Los Angeles. Una prigione a Los Angeles. Lessi il nome del mittente ed il mio cuore si fermò.

Le porte dell'ascensore si aprirono ed, entrata in casa, mi tolsi il cappotto e mi gettai sul divano con la lettera in mano. Jonathan Forrester, sbucato dal passato per riportarmi ad una vita precedente, quando ancora vivevo con la mia famiglia in California e la nostra casa si trovava proprio di fianco alla sua.

Nati nello stesso anno, lui a gennaio ed io a novembre, eravamo cresciuti insieme come fossimo gemelli, condividendo qualsiasi esperienza, bella o brutta, insieme. Le nostre esplorazioni in bicicletta, le lezioni di surf che suo padre ci dava nel weekend, i compiti che facevamo pazientemente seduti al tavolo di legno della mia cucina ed i film della Disney che lo costringevo a guardare la sera sul divano. Avevamo affrontato insieme la leucemia di sua madre che alla fine la portò alla morte. Ero seduta accanto a lui sul divano rosso del nostro vecchio salotto quando i miei genitori gli diedero la triste notizia. Tuttavia, compiuti i miei dieci anni, i miei decisero di tornare a vivere nella loro madrepatria, l'Italia, e così dovetti lasciare Wildomar, la tranquilla soleggiata cittadina in cui ero cresciuta, ad un'ora di macchina da Los Angeles, per la grande e fredda Milano. Ritornammo a far visita ai Forrester l'estate successiva per un'ultima volta. Da allora non avevo più visto né sentito Jonathan o la sua famiglia.

-Jon, non mi aspettavo che finissi in prigione-sussurrai tra me e me.

Con dita tremanti, aprì la busta e tirai fuori la lettera, scritta su un foglio completamente bianco piegato in quattro. La dispiegai e come prima cosa ammirai la sua calligrafia, ordinata ed elegante. In fondo Jonathan aveva sempre avuto una certa dote artistica, riusciva a produrre disegni bellissimi persino a cinque anni, quando tutti gli altri bambini disegnavano le persone con le gambe attaccate al collo ed il cielo come fosse una spessa riga blu al principio del foglio. Già le prime due parole furono sufficienti ad inondarmi gli occhi di lacrime: Dear silly. Era così che mi chiamava da bambini, quando Francesca gli sembrava troppo lungo e difficile da pronunciare e quando cantavo in continuazione la canzoncina Silly Sally. Che alla veneranda età di ventun anni mi chiamasse ancora così, mi emozionava e preoccupava allo stesso tempo.

Presi un respiro profondo ed iniziai a leggere:

 

Cara silly,

non so se posso ancora chiamarti così ma è l'unico modo in cui sono sempre stato abituato a chiamarti. Ho spedito la lettera a questo indirizzo senza nemmeno sapere se la tua famiglia vivesse ancora lì, ma non avevo alto modo per provare a raggiungerti. Spero davvero tu legga questa lettera prima dei tuoi genitori e spero che, se non vivi più con loro, almeno possano inoltrartela senza aprirla.

Probabilmente per te ricevere una lettera da un istituto penitenziario dev'essere una doccia fredda perciò premetto subito che non ci sono finito per omicidio, aggressione, stupro o qualsiasi altro orribile crimine possa immaginare. Mi sono cacciato in brutte situazioni, ma temo sia una storia troppo lunga per questa prima lettera.

Ci tenevo solo a dirti che mi dispiace. Quando avevo diciotto anni, a due settimane dalla mia cerimonia del diploma, ho finalmente scoperto perché tanti anni fa mi spedisti quella lettera in cui dicevi di non poter più continuare a scrivermi o ad essere amici a distanza. Ferito, ti risposi con parole orribili quando in realtà una ragione c'era ed era anche più che valida. Fu mio padre a confessarmelo in un delirio dettato dal troppo alcol che aveva trangugiato com'era solito a fare ogni pomeriggio. Avrei voluto contattarti immediatamente ma ho avuto paura di stravolgere la tua vita. Ero certo che, ovunque tu fossi quando avevi diciotto anni, saresti sicuramente stata una ragazza in gamba e con un promettente futuro davanti. Ero sicuro che tu fossi riuscita a trovare la forza per lasciarti il passato alle spalle e non spettava certo a me riaprire una porta così dolorosa.

E allora perché ti scrivo ora? Mio padre è morto settimana scorsa. Ha finito per annegarsi nell'alcol in cui si era rifugiato dalla morte di mia madre e che l'ha accompagnato per tutti questi anni. Probabilmente leggere questa lettera e rimetterti in contatto con me ti procurerà lo stesso del dolore, e di questo mi dispiace. Se decidessi di non volerti voltare indietro, lo capirei perfettamente.

Ci tenevo anche a dirti che mi dispiace di non averti protetta come avrei dovuto. Eravamo ragazzini, certo, ma non avrei mai dovuto lasciare che accadesse. E dopo, avrei dovuto interpretare meglio la tua tristezza. Pensavo fosse solo dovuta al fatto che, alla fine dell'estate, saresti dovuta ripartire per l'Italia e tornare in quella scuola che proprio non ti piaceva, non immaginavo ci fosse dell'altro. Siamo cresciuti insieme, avrei dovuto saperti leggere negli occhi. Scusa se ho fallito.

Non so dove tu sia ora ma ti auguro la miglior vita possibile, te la meriti. Sono certo che farai grandi cose nella vita. D'altronde, cos'altro ci si può aspettare da colei che, a soli sette anni, era riuscita a far circolare per tutta la scuola una petizione per far inserire una rampa per sedia a rotelle nell'auditorium? Ti ricorderò per sempre con affetto, sarai sempre la mia silly.

Tuo,

Jon.

 

PS: Ti chiedo solo una cosa. Se i tuoi non hanno già letto o visto questa lettera, ti prego di non dirgli niente. Non voglio che mi sappiano dietro le sbarre.

 

Mi accorsi che stavo piangendo solo quando le mie lacrime bagnarono il foglio e da lì iniziai a singhiozzare. Jon aveva ragione, quella lettera aveva riaperto una porta che avevo chiuso tanti anni prima e che non volevo più riaprire.

Quell'estate in cui eravamo tornati a Wildomar per l'ultima volta, essendo la nostra vecchia casa già stata venduta ad una nuova famiglia, i Forrester furono così gentili da ospitarci per tre mesi a casa loro. Jon ed io non potevamo essere più felici, dopo un anno eravamo di nuovo sotto lo stesso tetto. Gran parte delle nostre giornate le passavamo in giro per Wildomar, esplorando la città come al solito o arrivando fino al lago Elsinore per farci una nuotata. Elias, il padre di Jon, dalla morte della sua amata Grace era finito in un'incurabile depressione che riusciva ad assopire solo con l'aiuto dell'alcol. Un pomeriggio di agosto, i miei genitori si stufarono di provare a convincerlo ad uscire con loro e portarono mio fratello Lorenzo, che all'epoca aveva sette anni, e Jim, il fratello di Jon di due anni più piccolo di noi, a prendere un gelato. Jon ed io eravamo rimasti a casa, addormentati in camera sua. Mi ero svegliata per prima e, non volendolo disturbare, decisi di scendere al piano di sotto per guardare la televisione o bere un bicchiere di limonata. Ma Elias era di nuovo ubriaco sul divano e, sentendomi entrare nella stanza, mi invitò ad avvicinarmi. I miei mi avevano avvertita di stare attenta quando si riduceva in quelle condizioni ma non potevo certo immaginare potesse davvero farmi del male, in fin dei conti, era sempre stato come un secondo papà per me. Mi aveva insegnato ad andare sul surf, si travestiva da Babbo Natale ogni anno e, prima di trasferirmi in Italia, mi aveva addirittura regalato una chitarra acustica. Ma quel pomeriggio il suo cervello era troppo annebbiato. Iniziò a toccarmi, raccomandandomi di non fare rumore per non svegliare Jon. Io mi sentivo a disagio ma, a soli undici anni, non ero pienamente consapevole di cosa stesse succedendo e mi fidavo troppo di lui per scappare via. Finché non mi tolse i pantaloncini, non mi abbassò le mutandine e provai un dolore lancinante, come se mi si fosse strappato qualcosa all'interno. Avevo abbassato lo sguardo ed avevo visto del sangue. D'istinto mi venne da urlare ma lui mi tranquillizzava, come aveva sempre fatto quando cadevo dalla bicicletta e mi sbucciavo un ginocchio, e così rimasi impietrita piangendo in silenzio. Quando ebbe finito, cominciò a scusarsi un'infinità di volte, scoppiò a piangere a sua volta e continuò a ripetermi che non avrebbe mai voluto farmi del male, che ero sempre il suo piccolo angelo e mi pregò di non dirlo a nessuno. E così feci, nessuno lo seppe.

Per molto tempo non riuscivo a spiegare cosa mi fosse successo perché non riuscivo bene a capirlo nemmeno io e, quando finalmente lo capì, la vergogna mi impedì di parlarne. Non lo dissi nemmeno ai miei genitori, ai miei migliori amici, al mio primo amore con cui, dopo parecchi mesi, trovai il coraggio di dormire insieme. Persino quando i miei mi avevano chiesto come mai avessi deciso di interrompere i rapporti con Jon, avevo risposto che avevamo discusso e che comunque un'amicizia a distanza avrebbe reso il mio ambientarmi in Italia solo più difficile. Inoltre, persino ad undici anni e mezzo ero capace di chiedermi cosa sarebbe successo se avessi confessato tutto. I miei avrebbero potuto denunciare il fatto e cosa ne sarebbe stato di Jon e Jim? Già avevano perso la madre, li avrebbero definitivamente strappato l'ultimo genitore rimasto? Sarebbero finiti in orfanotrofio?

Così tenni il segreto. Essendo Elias ormai morto, a meno che Jon non l'avesse detto a qualcun altro, noi due eravamo le uniche persone a saperlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Behind blue eyes ***


2

 

La mattina dopo, a lezione, non riuscivo a concentrarmi. Per tutta la notte non ero riuscita a chiudere occhio, continuavo a rileggere la lettera di Jon ed ogni volta scoppiavo a piangere. E la voce calda del professore che ci spiegava la distinzione tra delitti e contravvenzioni non riusciva a catturarmi com'era solita a fare. Ero seduta come sempre in ultima fila ed, in una classe di duecento persone, si passava facilmente inosservati. Come molte aule universitarie, quella in cui mi trovavo era ad anfiteatro, i pavimenti e le bancate erano in legno ed ogni minimo scricchiolìo era ben udibile in tutti gli angoli. Perciò, quando Riccardo entrò e si mise a correre per le scale per sedersi accanto a me, il suo ritardo non passò inosservato al professore che non esitò a riprenderlo:

-La prossima volta che arriva in ritardo, signore, è pregato di rimanere direttamente fuori dall'aula.

Riccardo, col fiatone, posò lo zaino accanto al mio e con il tono più cortese che potesse usare rispose:

-Mi scusi professore, ho trovato fila in metropolitana.

Vivere in una metropoli come Milano dava sempre ottime scuse per l'essere in ritardo, i mezzi erano effettivamente sempre affollati.

-Hai perso ancora tempo per stalkerizzare quel povero ragazzo, vero?-gli sussurrai quando finalmente si sedette.

Si ravvivò i suoi boccoli castani e mi strizzò l'occhio.

-Mi conosci troppo bene. Oggi indossava dei jeans più attillati del solito ed ho potuto ammirare le sue gambe perfette.

-Ci attaccherai mai bottone?

Riccardo era la persona più estroversa che conoscessi, proprio grazie a lui avevo conosciuto molti ragazzi con cui poi avevo finito per uscire insieme.

-Solo se ci sarai tu a farmi da spalla-mi sorrise.

Lo conoscevo solo da tre anni, ma era diventato già uno dei miei migliori amici. Apertamente gay e profondamente di sinistra, passavamo pomeriggi interi al Parco Sempione a suonare inni pacifisti alla chitarra e ad ammirare i ragazzi che facevano jogging.

-Ma hai dormito stanotte? Hai delle occhiaie assurde-notò.

-La verità è che ho passato la notte a ripassare le battute del Rocky Horror Show-mentì spudoratamente.

-Ma dai, sono sicura che sarai una bravissima Janet, come ogni venerdì sera!

Dopo un anno passato in Erasmus in Danimarca, quando ci eravamo finalmente rivisti a settembre, mi aveva convinta a fare le audizioni per entrare a far parte della compagnia che ogni venerdì sera metteva in scena il Rocky Horror Show in un piccolo cinema alternativo di Milano. Nessuno dei due pensava venissimo presi sul serio ed invece lui ottenne la parte di Frank'n'Furter ed io di Janet Weiss.

Sperando che Riccardo rimanesse concentrato sul suo portatile, accesi il mio e mi misi a fare un po' di ricerche. Dovetti usare un VPN per collegarmi alle pagine web statunitensi, così da trovare più informazioni possibili. Cercarlo sui social sarebbe stato inutile, ci avevo già provato troppe volte negli anni senza successo. Digitai il nome completo di Jon, Jonathan Michael Forrester, accanto a Metropolitan Detention Center e trovai subito la pagina che cercavo. Il sito della prigione collezionava i rapporti di tutti i detenuti e li pubblicava su Internet con tanto di foto segnaletica. E così finalmente rividi il volto, ormai adulto, di Jon. La genetica era dalla sua parte: suo padre Elias di origini irlandesi e scozzesi, biondo con gli occhi azzurri, e sua madre Grace in parte irlandese ed in parte nativa americana. E così lui si ritrovava grandi occhi occhi azzurri leggermente a mandorla, lisci capelli castano scuro che ricadevano lunghi sul collo, la pelle chiara e poche lentiggini sparse in volto. I tratti erano regolari, le labbra carnose come ricordavo. Dovetti trattenere l'istinto di mostrare la sua fotografia a Riccardo come ero solita a fare con le foto di qualsiasi altro bel ragazzo che trovassi su Instagram. Ad ogni modo era sempre lui, lo stesso volto che aveva da bambino, solo più maturo. Accanto alla foto segnaletica, erano elencate le sue generalità: nome e cognome, data e luogo di nascita, colore dei capelli e degli occhi. Finalmente in fondo alla lista trovai quello che cercavo. Trattenni il fiato mentre lessi che Jon era stato condannato due anni prima, a soli diciannove anni, per spaccio di marijuana, ma che, avendo osservato una buona condotta impegnandosi addirittura a seguire dei corsi online alla Facoltà di Architettura della UCLA, gli avevano recentemente accordato il rilascio anticipato al prossimo marzo a partire dal cui sarebbe rimasto però in libertà vigilata per almeno un altro anno. Continuando a ripetermi che c'erano reati ben peggiori, cercai la pena prevista dal sistema statunitense per lo spaccio di droga: non più di cinque anni di reclusione per lo spaccio di marijuana. Se Jon veniva rilasciato dopo soli due anni e mezzo voleva dire che doveva aver dimostrato un comportamento esemplare. Aprì una nuova pagina e digitai il suo nome completo su Google, per vedere cos'altro potevo trovare. Cliccai sulla pagina della Elsinore High School, la scuola superiore di Wildomar, e mi apparve una sua nuova fotografia, quella volta sul campo di football, con l'uniforme bianca e rossa addosso ma senza il casco. Era più o meno lo stesso ragazzo che compariva sulla foto segnaletica, aveva solo i capelli leggermente più lunghi. La pagina era interamente dedicata a lui, studente d'onore dell'ultimo anno, dov'era riassunta la sua impeccabile carriera scolastica: massimo dei voti, quarterback della squadra di football e membro anche della squadra di calcio, Jon si era inoltre distinto per il suo altruismo, impegnandosi in svariate attività di volontariato. Un vero all-American. Il mio cuore perse un battito quando lessi che era stato accettato alla Facoltà di Legge dell'Università di Yale. Lontana anni luce dalla Facoltà di Architettura della UCLA che aveva finito per frequentare.

Perché un ragazzo così promettente era finito dietro le sbarre?

Proseguendo nel mio stalking mattutino, aprì una nuova pagina e digitai il nome completo di Elias. Mi apparve subito il suo manifesto funebre, l'obituary, un'intera dedica resagli al momento della morte. Elias veniva descritto come un uomo buono, lavoratore, onesto e sincero. Un buon padre di famiglia ed un buon marito, offuscato purtroppo dalla morte della sua Grace, alla quale però si era finalmente ricongiunto. Lasciava indietro i suoi due golden boys, com'era solito chiamarli, Jonathan e James, che ormai erano diventati uomini di cui andare orgogliosi. Accanto alla dedica, era apposta una sua fotografia: un suo primo piano, degli alberi sullo sfondo. Rispetto alle fotografie che conservavamo in casa, sembrava invecchiato di trent'anni. Profonde rughe gli solcavano la fronte chiara, i capelli che una volta erano folti e biondi erano diventati grigi e radi e, sebbene le labbra erano dischiuse in un sorriso, i suoi grandi occhi azzurri erano spenti. Forse avrei dovuto provare un minimo di soddisfazione nel vedere quella pagina, nel sapere che l'uomo che aveva terrorizzato i miei sogni finalmente non era più in vita, ed invece provavo solo una grande tristezza. Per l'uomo che era una volta, l'uomo che non esitava ad aiutare il prossimo, l'uomo che aveva accolto la mia famiglia a braccia aperte e che li aveva fatti sentire a casa anche dall'altra parte del mondo, l'uomo che i miei avevano scelto come padrino per mio fratello. E per Jon e Jim, capitati in quella sventurata famiglia che una volta sembrava essere così perfetta. Dovetti trattenere le lacrime per non insospettire Riccardo.

Chiusi quella pagina web e ne aprì una nuova. Dalla lettera che avevo ricevuto, Jon sembrava essere l'unico rimasto della sua famiglia. E Jim? Digitai il suo nome ma non trovai niente di rilevante, solo le pagine gialle che elencavano una lunga lista di James Forrester più o meno della stessa età. Un certo James M. Forrester di diciannove anni appariva residente in Michigan. Avrebbe potuto essere lui, il suo secondo nome era Malcolm.

-Cerchi i tuoi vecchi amici in America?-domandò Riccardo all'improvviso, lanciando uno sguardo al display del mio portatile.

Sussultai, ricordandomi improvvisamente di essere a lezione, e chiusi il motore di ricerca.

-Così, per curiosità-scrollai le spalle.

 

Richiusi la porta di casa il più silenziosamente possibile per non svegliare il resto della famiglia, già a letto, e mi tolsi il cappotto. Avevo passato la serata sui Navigli con Rachele, Etienne e dei loro amici del Politecnico, ma tutti i cocktail che avevo trangugiato non mi avevano fatto dimenticare la lettera. Ormai anche l'annebbiamento provocato dall'alcol stava svanendo e mi ritrovai a lavarmi i denti con un terribile mal di testa. Una volta a letto, cercai invano di addormentarmi ma continuavo solo a rigirarmi, senza riuscire a spegnere il cervello. Il piumone a fiori, sotto di cui avevo sistemato anche una coperta di lana leggera, non riusciva a darmi la sicurezza che solitamente mi procurava.

Spalancai definitivamente gli occhi ed accesi l'abat-jour sul comodino, la luce debole illuminò le pareti rosa pesca della mia stanza. Alzai gli occhi e li posai sulla bandiera della California fedelmente appesa sopra il mio letto. Era arrivato il momento. Mi sedetti alla scrivania e tirai fuori dal cassetto dei fogli su cui scrivere. Avrei voluto usare delle pagine completamente bianche, come aveva fatto Jon, ma tutto ciò che riuscì a trovare quella notte furono dei fogli di carta riciclata a righe. Vintage, pensai. Decisi di scrivere prima il testo sulle note del cellulare, in modo da non rischiare di riempire il foglio di cancellature, e dopo quattro o cinque tentativi, finalmente mi risolsi a copiarlo a mano.

 

Caro Jon,

l'ultima cosa che mi aspettavo di ricevere era una lettera da parte tua, ma, giuro, ne sono stata felice. Ti ho pensato molto negli ultimi anni e mi sono pentita innumerevoli volte dell'ultima lettera che ti scrissi. Come hai detto tu, un motivo c'era, ma non attribuire tutta la colpa a tuo padre. Quella è stata probabilmente solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Qui a Milano non riuscivo ad ambientarmi. In classe ero La Straniera, nonostante conoscessi la lingua, avessi un nome italiano ed avessi trascorso ogni estate della mia infanzia dai nostri parenti nel sud Italia, non riuscivo ad integrarmi. Non conoscevo le canzoni che loro cantavano, non guardavo i film che loro guardavano, persino i cartoni animati con cui sono cresciuta – o meglio, con cui siamo cresciuti – erano diversi dai loro. Venivo costantemente emarginata. Ricordi quando venisti a prendermi all'aeroporto l'estate dei nostri undici anni, l'ultima estate che passammo insieme, e rimanesti sorpreso dal mio taglio a caschetto? Avevo sempre portato i capelli lunghi, ancora oggi li porto così, e non riuscivi a credere di come mi fossi convinta a tagliarli fino a sopra le spalle. Avevo risposto che volevo cambiare un po'. Ma non era stata una mia scelta.

Ero riuscita a farmi degli amici ma non frequentavano la mia stessa scuola.

E poi sì, successe quel che successe. Tornata a Milano stavo male, a malapena mangiavo, ogni mattina convincermi ad andare a scuola era un'impresa e la notte non riuscivo a dormire. Non avevo raccontato a nessuno quello che era successo ed i miei erano così preoccupati da volermi mandare da uno psicologo, ma avevo paura che, andandoci, sarebbe saltato fuori quello che volevo tenere segreto. E così ho deciso di agire da sola. Dovevo star meglio e dovevo liberarmi di tutti i ricordi negativi. Dovevo ambientarmi in Italia, in um modo o nell'altro, e non potevo rimanere legata ai nostri bellissimi ricordi di infanzia. E così tagliai fuori della mia vita proprio l'amico più caro che avevo, tu.

Le cose cominciarono a funzionare ed al liceo riuscì a costruirmi una rete sociale ed ad accettare la mia nuova vita a Milano, anche a farmela piacere. Ma non ti ho mai dimenticato, di questo puoi esserne certo. Quando a quindici anni i miei genitori mi permisero finalmente di iscrivermi a Facebook, provai subito a cercarti ma senza successo. Ci ho riprovato più e più volte, con tutti i social network a cui sono iscritta, ma non sono mai riuscita a ritrovarti. Certo, ricordavo il tuo indirizzo – che era stato anche il mio, a parte il numero civico – ed il vostro numero di telefono ma non ho mai avuto il coraggio di chiamare o scriverti. Sono contenta che tu sia stato più coraggioso di me. Che tu mi abbia scritto da una prigione non cambia affatto il ricordo che ho di te e mi piacerebbe riprendere i rapporti, se a te fa piacere.

Ci tengo a dirti che non ti ho mai ritenuto responsabile per quello che è successo. La scelta di interrompere i rapporti, come hai visto, è stata dettata dal mio desiderio di stare meglio, non dalla mia rabbia o dal mio risentimento nei tuoi confronti. So, e sapevo anche allora, che non avresti potuto far niente per impedirlo. Eri solo un ragazzino e tuo padre era gigante.

Della sua morte mi dispiace sinceramente, nonostante quello che mi ha fatto, non posso dimenticare l'uomo che è stato per tutta la nostra infanzia: il padrino di mio fratello e come un secondo padre per me.

Anche io ti auguro il meglio e sono certa che, in qualunque brutta situazione ti sia cacciato, riuscirai a risollevarti a testa alta. Sei tu che mi rimanevi accanto quando io prendevo la febbre e non potevo uscire a giocare fuori, sei tu che ti sorbivi High School Musical pur di non lasciarmi sola a letto.

Nella tua lettera non hai parlato proprio di Jim, ma spero stia bene.

Spero di sentirti presto,

Tua,

Francesca.

 

PS: I miei genitori non sanno niente della lettera, so mantenere un segreto. Anche se sono sicura che, come me, non ti guarderebbero mai con occhi diversi.

PPS: Sì, sei ancora autorizzato a chiamarmi silly e lo sarai sempre.

 

Sperando che la lettera non fosse eccessivamente personale, la misi in una busta su cui scrissi l'indirizzo del Metropolitan Detention Center e mi raccomandai di spedirla il giorno seguente.

 

 

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Capitolo 3
*** Don't dream it, be it ***


3

 

Il pubblico cantava e ballava scatenato sulle note del Time Warp. Riccardo sarebbe entrato alla canzone successiva e, come ogni volta, non vedevo l'ora di vederlo indossare tacchi a spillo, reggicalze e corpetto nero pailettato per entrare nella parte del dottor Frank'n'Furter. Io, calata nel personaggio di Janet, mi fingevo sconvolta dalla strana danza dei miei compagni attori e mi stringevo sempre di più al mio coprotagonista Brad Majors.

Come ogni venerdì sera, il Rocky Horror Show illuminava un piccolo cinema di Milano, dando la possibilità a chiunque di fare ed essere quello che volevano. Riccardo entrò in scena tra gli applausi del pubblico e lo spettacolo andò avanti. Io riuscì a ballare distintamente sui tacchi a spillo durante il Floor Show, cosa che all'inizio mi aveva causato un bel po' di storte alle caviglie. Ma quando Riccardo cantò I'm going home, provai più malinconia del solito. Fin dalla prima volta che avevo visto quel film, a soli quattordici anni con Rachele, suo fratello Gianluca ed Etienne, mi ero dimostrata particolarmente sensibile a quella canzone ma, dopo lo scambio di lettere con Jon, era diventato praticamente uno strazio. Sentì le lacrime raggiungere gli occhi ed ingoiai violentemente per cacciarle via. Non volevo proprio scoppiare a piangere sul palco. Finalmente Riccardo scese dal palco e svanì tra il pubblico e Brad ed io concludemmo con Superheroes. La folla si alzò in una standing ovation, noi attori ci prendemmo per mano e ci inchinammo più e più volte. Avevo passato la mia vita a frequentare scuole di danza classica e moderna, quando ero in California facevo addirittura parte di una squadra di cheerleader ed avevo fatto parte di ben due band – una durante gli anni del liceo ed una in Erasmus l'anno precedente – ma non mi sarei mai riuscita ad abituare alla carica del pubblico.

-Bravissima, come al solito!-esclamò Rachele avvolgendomi in un abbraccio.

-Mi era mancato vederti in scena-commentò Gianluca, suo fratello.

Solo un anno più grande di noi, Gianluca era stato uno dei miei primi amici a Milano. Avevo conosciuto Rachele a lezione di danza a soli undici anni e lei adorava il mio parlare della mia vita in California. Un pomeriggio mi invitò a casa sua e lì conobbi suo fratello ed Etienne, l'amico del cuore di Gianluca. Ero diventata loro amica all'istante, con loro iniziai ad adattarmi alla mia nuova vita italiana. Essendo cresciuta con Jon come migliore amico, avere un'amica femmina come Rachele era un'esperienza tutta nuova per me: potevamo metterci lo smalto a vicenda, parlare di gossip e ragazzi, scambiarci i vestiti. Gianluca suonava la chitarra, come me, ed iniziò presto a masterizzarmi CD per acculturarmi sebbene, tra i miei genitori ed i Forrester, fossi cresciuta a Fabrizio De André e Rolling Stones. Etienne, essendosi trasferito dalla Francia da piccolo ed avendo anche origini africane, capiva cosa volesse dire l'avere un piede in due scarpe. Quando, a soli quindici anni, Rachele ed Etienne iniziarono ad uscire, Gianluca ed io ci avvicinammo parecchio. Tutti pensavano stesse per nascere qualcosa, ma io decisi di affrontare l'ultima prova di coraggio decidendo di trascorrere il mio quarto anno di liceo in Australia e, quando tornai, Gianluca, un anno più grande di me, si diplomò e si trasferì a Roma, città natale sua e di sua sorella. Eravamo rimasti in contatto e avevo spesso approfittato del suo appartamento a Roma per passare lì qualche weekend ed ovviamente ricambiai volentieri il favore l'anno precedente a Copenhagen.

-Siamo stati fantastici come al solito-si pavoneggiò Riccardo, gli occhi ancora ricoperti dall'eyeliner nero e dal mascara.

Decidemmo di uscire dal cinema e raggiungere un bar lì vicino, un locale elegante e pieno di piante. Ci sedemmo intorno ad un tavolo ed ordinammo da bere.

-Dovremmo fare un viaggio tutti insieme-sospirò Gianluca.

Per lui ogni scusa era buona per viaggiare, come lo era per me del resto.

-Potremmo tornare in California. No, Fra?-chiese Rachele strizzandomi l'occhio.

Aveva detto quelle parole senza sapere che negli ultimi giorni era tutto ciò a cui riuscivo a pensare. Era passata una settimana dalla lettera che avevo spedito a Jon, ma non avevo ancora ricevuto risposta. Mi ero pure preoccupata di inserire nella busta un paio di francobolli in modo che lui potesse scrivermi, avevo letto su Internet che spesso in prigione non si riuscivano a trovare. Avevo passato notti insonni a controllare i voli disponibili su Internet ma sembravano tutti troppo costosi. E cosa avrei fatto una volta lì? Mi sarei presentata alla prigione all'improvviso chiedendo di vedere Jon?

-Sarebbe fantastico-risposi, sforzandomi di nascondere i miei pensieri.

Ma dallo sguardo che mi rivolse Rachele, compresi che aveva intuito che qualcosa non andasse.

Ci raggiunsero anche un paio di amici di Riccardo e, dopo un paio di cocktail, cominciai a rilassarmi ed a godermi la serata. Iniziammo ad intonare canzoni dei Beatles e ci trascinammo brilli fino alle nostre macchine. Gianluca, l'autista designato, ci accompagnò a casa uno alla volta e, quando toccò a me scendere, si rivolse verso di me e mi chiese:

-Se ti preoccupasse qualcosa, me ne parleresti vero?

I miei amici mi conoscevano sul serio.

-Certo, non preoccuparti-lo rassicurai e richiusi lo sportello alle mie spalle.

Prima di raggiungere l'ascensore, il portiniere mi fermò:

-Signorina De Stefano, c'è una lettera per te.

Il mio cuore si fermò. Era finalmente arrivata.

Per mantenere il segreto di Jon, mi ero dovuta accordare con entrambi i portinai del mio condominio chiedendogli di consegnarmi personalmente qualunque lettera fosse arrivata dal Metropolitan Detention Center di Los Angeles.

-Non ti starai cacciando in qualche guaio?-mi domandò preoccupato consegnandomi la tanto attesa lettera.

-Nessun guaio. È un mio vecchio amico che si è messo nei guai.

Presi la busta in mano e mi avviai verso l'ascensore. L'aprì solo dopo essermi messa sotto le coperte, con solo la luce dell'abat-jour ad illuminare la stanza. Oltre alla lettera, ancora una volta scritta su un foglio completamente bianco, mi aveva spedito una sua fotografia. Sul retro c'era scritto Standing Rock, North Dakota, 2016, la calligrafia sembrava essere la sua. Nella foto Jon era seduto in mezzo ad una radura, indossava blu jeans, stivaletti da boscaiolo neri ed un pesante cappotto marrone da cui sotto lasciava intravedere una camicia a quadri rossa e nera. Un sorriso stanco ed i capelli lisci mossi dal vento. Intorno e dietro di lui si intravedevano altre persone, tutte sedute per terra, come se fosse una sorta di raduno.

 

Cara silly,

ti ringrazio della bellissima lettera che mi hai mandato. Non so dirti quanto mi dispiace delle difficoltà che hai dovuto affrontare a causa del trasferimento, avrei voluto poterti stare vicino come eravamo soliti a fare una volta. Però ti prometto una cosa: anche se siamo distanti e se ci parliamo via lettere, ci sarò sempre per te. Se avrai bisogno di un consiglio, di un conforto, di un amico, se avrai un segreto che senti di non poter dire a nessuno, puoi contare su di me.

Per quanto riguarda me, è arrivato il momento di raccontarti come sia finito qui. Dopo la patetica confessione di mio padre, non potevo più vivere sotto il suo stesso tetto. Avevo tenuto chiuso un occhio per anni sulle sue sbronze quotidiane che spesso lo portavano ad essere collerico, guardavo al giorno in cui sarei partito per il college e non avrei più dovuto preoccuparmi di scrostare le macchie del suo vomito dal divano (il nostro solito divano in pelle marrone, ti ricordi?). Mancavano solo due settimane alla cerimonia del diploma, ormai ero quasi libero e poi ha confessato. Ed io non ho retto. Sono scappato e Joe Vanegas, il bambino messicano che veniva spesso a giocare da noi e che ad oggi è l'amico più caro che ho, mi ha offerto un posto in casa sua. La sua famiglia mi ha accolto a braccia aperte ed io pensavo sarebbe stata solo una sistemazione temporanea, dal momento che sarei partito per il college. Purtroppo ho scoperto che la borsa di studio che mi era stata assegnata per il football era solo parziale e non copriva l'intera retta. Facendo i calcoli, ho capito che anche trovandomi un lavoro al campus non sarei mai riuscito a raggiungere la somma che mi serviva e mi rassegnai a rinunciare al sogno. Sapevo tuttavia di non poter stare a casa della famiglia di Joe per sempre, soprattutto dal momento che questo stava per trasferirsi a Los Angeles per costruirsi una vita.

Così ho deciso di seguirlo nella grande città e per un primo momento riuscì a cavarmela. Ho preso in affitto un appartamento che distava solo una ventina di minuti da Santa Monica, avevo ben due lavori ed andavo a surfare ogni volta che potevo. Ma volevo di più. Ero stanco di arrivare a malapena a fine mese, volevo una sicurezza economica. E lì ho preso la strada sbagliata. Ho iniziato a vendere droga. Lo so, me ne vergogno io per primo. I soldi cominciavano ad arrivare e finalmente ho cominciato a viaggiare. Principalmente in macchina, ho lasciato il mio bellissimo appartamento a Los Angeles e per sei mesi ho viaggiato in tutto il Paese. Sai, non avevo mai viaggiato tanto prima. Le uniche volte che mi ero spostato dalla California erano state quella volta in cui eri venuta con me e la mia famiglia alle Hawaii, quando avevamo cinque anni e mia madre era ancora viva, quando sono venuto con la tua famiglia a New York ed in gita scolastica a Washington DC durante le scuole superiori. Ma in quei sei mesi ho girato tutti gli Stati Uniti.

La foto che ti ho spedito è stata scattata nel North Dakota. Ho preso parte ad una protesta contro la costruzione di un oleodotto che, passando per il fiume Missouri, avrebbe rischiato di contaminare le acque che la tribù nativa di Standing Rock era solita ad utilizzare. È stato magico, silly, saresti dovuta essere lì con me. Sembrava quasi Woodstock: cantavamo e pregavamo tutti insieme, senza alcuna distinzione. Bianchi, neri, asiatici, nativi americani, tutti lì per lo stesso motivo.

Tuttavia, continuando a spacciare droga per mantenermi durante i miei viaggi, presto ho iniziato anche a farne uso e sono precipitato ancora più in fondo al baratro. Capendo di aver bisogno di aiuto per non finire come mio padre, sono tornato in California ed ho cercato di ricostruirmi una vita dignitosa. Ho trovato lavoro ed ho preso in affitto un nuovo appartamento. Ma smettere di utilizzare droghe è impossibile se vivi da solo e presto ho finito per essere licenziato e sfrattato. Sapevo di poter contare su Joe e su alcuni miei amici fidati a Wildomar, ma ero troppo orgoglioso per accettare l'aiuto altrui. Così sono finito a vivere per strada e da lì alla prigione è un secondo.

So che quello che ho fatto è inimmaginabile e non hai idea di quanti tentativi ho fatto prima di riuscire a scriverti questa lettera. Una parte di me avrebbe voluto tenertelo nascosto, ma sapevo di doverti una spiegazione per il mio insolito indirizzo. Adesso, tuttavia, sto bene. In prigione mi sono disintossicato, sto seguendo un corso di Architettura online per l'UCLA e sarò rilasciato tra pochi mesi. È lunga, ma alla fine ce l'avrò fatta.

Mi hai chiesto di Jim. Lui sta bene, si è trasferito in Michigan e si è sistemato. So che ha un lavoro, una casa ed una fidanzata e sono prossimi al matrimonio. Purtroppo ci parliamo raramente, credo che voglia costruirsi la sua vita e famiglia e non vuole rischiare di ritrovarsi coinvolto nei miei guai. Non lo biasimo.

Ma dimmi di te ora. Deduco che vivi ancora a Milano con i tuoi. Cosa fai nella vita? Frequenti l'università? Com'è la vita a Milano? Vai ancora sul surf? E la tua famiglia?

Ti penso sempre con affetto e non vedo l'ora di ricevere tue notizie.

Tuo,

Jon

 

Come avrei risposto a quella lettera? Di certo non potevo mettermi a raccontargli del mio anno in Australia o del mio Erasmus in Danimarca. E come avrei fatto a dirgli che studiavo Giurisprudenza, dal momento che avevo scoperto che la sua idea iniziale era studiare Legge a Yale, sebbene non l'avesse specificato nella lettera?

Avevo passato anni ad autocommiserarmi per quanto mi fosse successo. Anche se me l'ero tenuta per me, dentro non facevo che sentirmi come terribilmente sfortunata, come se tutto il dolore del mondo fosse capitato a me. Ma Jon dall'altra parte del mondo non era certo messo meglio di me. Guardai nuovamente la fotografia che Jon mi aveva inviato. Quello sguardo, quel sorriso, sembrava un ragazzo così puro. Forse era per gli occhi azzurri, forse per le poche lentiggini. Mi aveva promesso che ci sarebbe sempre stato per me, che avrei potuto contare su di lui per qualsiasi cosa. Ed aveva messo su carta le sue esperienze più personali e di cui probabilmente più si vergognava, dimostrando di sapersi aprire completamente. Alzai gli occhi verso la libreria in legno bianco e guardai la cornice che conteneva la fotografia di noi due da piccoli, arrampicati su un albero. Era sempre lui, era sempre il bambino con cui ero cresciuta e che, per arrivare a scrivermi dopo così tanti anni, aveva bisogno di me. Ormai avevo deciso.

Accesi il cellulare e mi misi a controllare i voli per Los Angeles.

 

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Capitolo 4
*** Born to be alive ***


 

4

 

-Basta, ora devi parlargli-intimai a Riccardo.

Il ragazzo che ammirava tutte le mattine in metropolitana era in coda davanti a noi da Luini, il miglior negozio di panzerotti di Milano, proprio dietro Piazza Duomo. Non sembrava il tipico ragazzo che piaceva a Riccardo, ossia il bel tenebroso possibilmente appassionato di musica e poesia. No, quel ragazzo sembrava uscito da un talent show per ragazzini patinati.

-Ma non so nemmeno se è gay!-esclamò-Anzi, a guardarlo non si direbbe proprio.

-Ma che ne sai tu? Mica tutti i gay ce l'hanno scritto in fronte.

Riccardo lo guardò con la coda dell'occhio. Era un bel ragazzo, biondo, alto e pallido. Mi ricordava i ragazzi che ero solita ad ammirare durante le mie ore di lavoro alla biblioteca dell'Università di Copenhagen in Danimarca, probabilmente non era nemmeno italiano.

-Senti, parlaci. Male che ti vada ti fai un nuovo amico-incalzai.

-Magari un'altra volta-provò a sviare il discorso.

Era un mese che arrivava in ritardo alle lezioni di Diritto Penale perché perdeva tempo in metropolitana per stalkerizzarlo, non ci avrebbe mai attaccato bottone di questo passo.

-Okay-iniziai-È arrivato il momento che io ricambi il favore.

-No, cosa fai?-cercò di fermarmi Riccardo.

Ma prima che potesse afferrarmi il polso, ero già al fianco del ragazzo biondo.

-Hey, excuse me, do you speak English?-domandai spolverando il mio perfetto accento americano.

In Erasmus avevo conosciuto un ragazzo dell'Illinois che aveva detto di sentire in me l'accento tipico californiano. Una parlata lenta e rilassata, tipica degli Stati del sud. Non poteva rendermi più felice.

-Hi. Yes, I'm a foreigner myself-mi rispose con un pesante accento dell'est Europa.

Sembrava sorpreso, ma si sforzò di sorridermi. Era davvero un bel ragazzo: occhi verdi, tratti regolari, spalle larghe. Se fosse stato etero e se non ci avesse messo gli occhi prima Riccardo, ci avrei fatto un pensierino.

-Oh well, my friend Riccardo and I were wondering if you knew any good music shop nearby-ripresi, dicendo la prima cosa che mi fosse venuta in mente.

Con i miei amici avevo girato tutti i negozi di musica di Milano, probabilmente avrei potuto consigliarne io di buoni al ragazzo biondo. Nel frattempo Riccardo, sentendosi chiamato in causa, si avvicinò e salutò il ragazzo con un timido Hey.

-I know a big one, it's called Serendeepity I guess. Near the canals-rispose il ragazzo.

Conoscevo bene il posto, un grande negozio in Porta Ticinese che vendeva musica un po' di tutti i generi. Gianluca mi ci portava sempre quando doveva comprare i vinili degli Stone Roses, il proprietario si preoccupava di tenerglieli da parte in quanto sapeva che li collezionasse.

-I'll give it a try, thanks. I'm Francesca, by the way-mi presentai, tendendogli la mano.

-I'm Ferenc, I'm from a small town near Budapest-mi strinse la mano e poi fece altrettanto con Riccardo.

Non avevo mai sentito quel nome in vita mia ma ci avevo preso sul fatto che venisse dall'est Europa. Iniziammo a parlare e continuammo anche dopo essere usciti da Luini con i panzerotti in mano. Era uno studente Erasmus e quel giorno avrebbe dovuto pranzare con un suo amico ma gli aveva dato buca. Ci offrimmo di tenergli compagnia e lui non esitò ad accettare. Rimanemmo in zona Duomo per una mezz'oretta, entrando ed uscendo dai negozi e assaporando l'aria natalizia. Non era ancora iniziata la frenetica corsa al regalo più bello, o più economico, e si poteva entrare nei negozi senza dover aspettare mezz'ora in coda. Riccardo volle entrare all'Apple Store, senza apparente motivo se non che era affascinato dall'architettura di quel negozio. Ed era vero, al centro di piazza Liberty, delle scale futuristiche conducevano al negozio sotterraneo. Una teca di vetro conteneva una cascata d'acqua che, anche se non si poteva toccare, trasmetteva una grande freschezza. Durante la torrida estate eravamo venuti spesso in quella piazza solo avere l'illusione di poter finire sotto quella cascata. Dopo l'Apple Store, Ferenc ci portò alla Rinascente, per cui ci confessò il suo amore, e dal cui ultimo piano si poteva gustare l'aperitivo più posh di tutta Milano.

Dal suo modo di comportarsi non riuscivo proprio a capire se fosse etero o gay, speravo per Riccardo che potesse ricambiare la sua attrazione.

Verso le due, mi congedai strategicamente, dicendo di dover correre alla prossima lezione. Era vero e mi avviai effettivamente verso l'Università Statale per la lezione di Diritto Amministrativo a cui anche Riccardo avrebbe dovuto partecipare, ma che sapevo avrebbe saltato quel pomeriggio. Non appena li lasciai, Riccardo mi inviò per messaggio un grande cuore rosso per messaggio ed io gli raccomandai di raccontarmi tutto non appena finito.

A lezione non riuscivo a concentrarmi, era diventata un'abitudine ormai, e continuavo a pensare al momento in cui avrei finalmente rivisto Jon. Perché, senza dire niente ai miei, avevo prenotato i biglietti per andare in California: sarei rimasta lì dal ventitré di dicembre al sei di gennaio, il giorno dopo il suo compleanno. Inoltre sarei rimasta lì per le Feste, con un po' di fortuna Jon ed io avremmo passato il Natale insieme. Fortunatamente quel semestre avevo deciso di trovarmi un lavoro come cameriera in un bar e non avevo già speso tutta la paga di quel mese.

Non avevo ancora risposto alla sua ultima lettera, perciò aprì il mio portatile ed iniziai a scriverla raccomandandomi di ricopiarla a mano su un foglio il prima possibile.

 

Caro Jon,

sappi che non ti giudico. Hai fatto quel che ti sembrava più giusto fare in quella situazione, probabilmente eri stanco di sperare in un futuro migliore ed hai cercato di prenderti tutto e subito. Mi dispiace solo non essere stata lì per sostenerti. Continuo a pensare che, se non ci fossimo mai trasferiti, magari avresti avuto una vita più serena. Avresti avuto una famiglia a cui appoggiarti e non ti saresti dovuto sentire solo ad affrontare i problemi di tuo padre prima o la tua dipendenza dopo. Perciò a mia volta ti prometto che, nonostante la distanza, potrai sempre contare su di me. Non dovrai mai più sentirti solo. Prometto che farò il meglio per starti vicina.

Ho sentito della protesta in North Dakota e sinceramente avrei voluto parteciparvi anche io. Era una giusta causa e sono sicura che l'atmosfera a Standing Rock fosse meravigliosa come l'hai descritta. E sono sicura che tua madre ti stava guardando e, essendo metà nativa americana, sarà stata fiera di te. Io sicuramente lo sono.

Hai fatto bene a viaggiare, è sempre bello vedere il mondo ed uscire dai propri orizzonti. Sembra tu abbia vissuto all'avventura come in On the Road di Jack Kerouac, uno dei miei libri preferiti. Anche io, da quando mi sono trasferita in Italia, ho sempre voluto fuggire. Dappertutto tranne che qui. Ho avuto la fortuna di iniziare presto, con i viaggi studio estivi in Scozia ed in Inghilterra. Essendo bilingue, non avevo alcun bisogno di migliorare il mio inglese ma almeno ho potuto visitare dei posti magici. Stonehenge, avresti dovuto vederla. Non ci si poteva avvicinare troppo ma era comunque magica. E Saint Andrews, sul Mare del Nord in Scozia, così tranquillo e sereno con la sua gelateria dai mille gusti. Il mio liceo mi ha permesso di vedere anche la Spagna e la Germania. Ogni volta venivo ospitata da una famiglia locale ed era bello conoscere gente di diverse culture. Finché, a sedici anni e mezzo, non decisi di studiare per un anno in Australia, a Sydney. Un altro mondo, dovevo indossare l'uniforme per andare a scuola, ma lì ho potuto surfare tanto quanto facevo in California. Stare lontano dalla mia famiglia per un anno è stato difficile ma ne avevo bisogno per fortificarmi. È stata dura ambientarmi in un Paese così diverso dove non conoscevo assolutamente nessuno e, viste le mie difficoltà iniziali in Italia, all'inizio ero terrorizzata. Ma ce l'ho fatta, sono riuscita a farmi degli amici e vivere un anno bellissimo. E da lì, ho capito di non avere una vera e propria patria. Certo, considererò sempre Wildomar la mia vera casa e Milano è il posto in cui ho vissuto l'adolescenza, dove la mia famiglia vive ed in cui ho conosciuto la maggior parte degli amici che ho adesso. Ma so che posso andare ovunque e, seppure con qualche difficoltà, adattarmi ai vari posti. Studio Giurisprudenza all'Università Statale di Milano e vivo ancora con i miei ma l'anno scorso l'ho passato a Copenhagen. In Europa, noi studenti universitari possiamo studiare in altri Paesi comunitari grazie ad una borsa di studio perciò non ho avuto bisogno di molti soldi. Solo l'affitto della camera all'interno dell'appartamento che condividevo con altri tre studenti – una ragazza tedesca, un ragazzo portoghese ed uno giapponese – e le normale spese quotidiane. Ma l'università offriva molte opportunità di lavoro ed ho potuto lavorare nella biblioteca.

La mia famiglia sta bene. Mio fratello Lorenzo ha ormai diciassette anni ed è un playboy, cambia ragazza ogni mese. Gioca a calcio e, se non cambia idea, sta pensando di studiare ingegneria. Come me, ha ereditato la mania del viaggiare e sta pensando di iscriversi in un'università in Norvegia. L'anno scorso è venuto a trovarmi in Danimarca e si è innamorato di quei posti. In effetti, lì funziona tutto alla perfezione. I miei genitori lavorano ancora come avvocati e sono felici. Sono certa che sarebbero entusiasti al sapere che sono in contatto con te ma, non preoccuparti, continuerò a mantenere il tuo segreto se vorrai.

Ti ho spedito anche io una mia foto. È stata scattata l'anno scorso sui canali di Aarhus, una città non molto lontana da Copenhagen. La vera sfida dell'anno scorso è stata abituarsi al freddo scandinavo, per niente paragonabile alle temperature perennemente estive della California.

Spero di sentirti presto.

Tua,

Francesca.

 

Scelsi dal computer la fotografia che gli avevo descritto e mi ripromisi di farla sviluppare non appena uscita dall'università. Ero venuta spontanea, sorridente e felice. Quel giorno mi ero arricciata i miei lunghi capelli biondo cenere con il ferro ed ondeggiavano al vento. Il cappotto nero semi aperto che lasciava intravedere un paio di jeans ed un pesante maglione di lana rosso.

Con tutti i viaggi di cui avevo parlato nella lettera, mi avrebbe sicuramente presa per una viziata. In confronto alla sua adolescenza, la mia era stata d'oro. Ma, se volevo ricostruire un'amicizia vera e solida, dovevo essere sincera con lui così come lui lo era stato con me. Avevo scelto di non dirgli del mio imminente viaggio, non volevo rischiare di mettergli troppa pressione così presto.

Mi vibrò il cellulare e lessi il messaggio che avevo ricevuto. Era da Riccardo: lui e Ferenc si erano scambiati il numero di telefono.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** The call ***


5

 

Su Jon non solo avevo mantenuto il segreto con la mia famiglia, ma anche con i miei amici. Mi sembrava troppo triste e complicato raccontare che, sì, avevo finalmente ritrovato il mio amico di infanzia ma che era in prigione. Inoltre, conoscendo molti dei miei amici, abituati alla loro realtà quasi perfetta, avrebbero probabilmente finito per mettermi in guardia dicendomi di stare attenta a non finire in qualche guaio.

Da quando ricevetti la prima lettera, avevo iniziato a guardare su Internet svariati video di ragazzi che raccontavano la loro corrispondenza con dei carcerati, soprattutto americani, e non tutti vantavano belle esperienze. Chi aveva perso soldi, chi si era ritrovato a ricevere lettere da persone diverse rispetto a quelle a cui avevano originariamente scritto perché il loro indirizzo era passato di mano in mano, chi aveva finito per innamorarsi e sposarsi con i loro amici di penna in prigione per poi scoprire che essi, una volta scarcerati, erano effettivamente aggressivi e pericolosi. Scoprì l'esistenza di un vero e proprio sito web in grado di mettere in contatto persone in carcere con persone libere: i primi creavano i loro profili con descrizione e fotografia, come qualsiasi social network, ed i secondi erano liberi di scrivere a chi volevano. Il motivo per cui erano in prigione doveva essere specificato. La ricerca poteva essere fatta per sesso, età, orientamento sessuale, etnia ma anche per tipo di reato e di pena. Per pura curiosità, cercai i profili dei condannati a morte. Mi aspettavo di trovare solo persone somiglianti ai gangster della televisione, con i capelli rasati, pieni di tatuaggi, con indosso canottiere bianche troppo scollate e catene d'oro al collo ma invece trovai fotografie di ragazzi ordinari. Se li avessi visti su qualsiasi altro social network, non avrei mai immaginato potessero essere stati condannati a morte. Alcuni avevano un viso più pulito ed innocente del mio. Per curiosità cercai anche Jon ma non si era mai registrato a quel sito web.

Nonostante tutti i rischi di cui avevo letto, la mia corrispondenza clandestina con Jon proseguiva sempre meglio. Le lettere diventavano sempre più lunghe e personali. Parlavamo di viaggi e di come avrebbe voluto visitare Paesi anche al di fuori degli Stati Uniti. Avrebbe voluto vedere l'Europa. Andare a Parigi, dove i suoi genitori erano stati in viaggio di nozze e che sua madre aveva sempre adorato. Voleva vedere Roma ed ovviamente visitare la mia famiglia a Milano. Ma anche l'Egitto lo affascinava, voleva vedere le piramidi dal vivo. Ne parlava come se fossero sogni impossibili e, per quanto ci provassi, non riuscivo a convincerlo che un giorno avrebbe girato il mondo. Gli promisi che avremmo fatto un viaggio insieme il prima possibile e lui rispose che gli sarebbe piaciuto portarmi lungo tutta la Route 66. Gli domandai come fossero le sue giornate in prigione e mi disse che sembravano tutte uguali, l'unica cosa che non gli faceva perdere del tutto la concezione del tempo erano le lezioni che seguiva online alla UCLA. I suoi compagni erano socievoli ma erano spesso attaccabrighe e rischiava di prolungare il suo soggiorno, se non peggio, in cella se veniva coinvolto in una rissa. Gli domandai cosa ci fosse di peggio e mi raccontò delle poche volte in cui era finito in isolamento, la punizione per chi si cacciava nei guai, oltre che luogo perenne di soggiorno per i detenuti ritenuti più pericolosi.

 

È l'inferno, silly. Immagina di rimanere chiusa in una stanza di due metri per tre con solo un letto, un lavandino ed un water. Una porta blindata con una fessura da cui ti passano il cibo ed una finestra piccola, questo per evitare che qualcuno in preda alla disperazione si butti giù. Guardare dalla finestra è anche peggio che non guardarci perché da lì puoi vedere il mondo che continua a vivere senza di te. Non puoi parlare o toccare nessuno per giorni, gli unici esseri umani che vedi sono gli inservienti che ti portano il cibo. E i detenuti nelle celle accanto alla tua non cessano mai di urlare dalla disperazione, nemmeno la notte. Ti possono tenere lì per un massimo di quindici giorni se ti metti nei guai. Non vorrei essere nei panni di chi è condannato all'isolamento perenne. Molti perdono la testa.

 

A leggere quelle parole, ero scoppiata in lacrime. Ero al terzo anno di Giurisprudenza ma non mi era mai passato per la mente di visitare un carcere o anche solo di informarmi come la vita fosse là dentro. Impensabile che in isolamento vengano rinchiusi anche gli infermi di mente.

Quando avevo chiesto a Jon se ricevesse visite, mi aveva risposto che qualche suo amico ogni tanto andava a trovarlo. Principalmente due: Joe Vanegas, il suo amico di sempre, e Nellie, una donna per cui lavorava da adolescente e con cui era rimasto in contatto. Quando era in città andava a visitarlo anche Lauren, una sua vecchia amica delle scuole superiori che però studiava in un college dell'Arizona. Non lo disse ma ebbi l'impressione si sentisse solo. D'altronde, per scomodarsi a scrivere a me dopo dieci anni, aveva decisamente bisogno di compagnia. Mi chiese dei miei amici e gli raccontai delle mie serate passate sui Navigli con Rachele e gli altri, dei pomeriggi a Parco Sempione con Riccardo e delle due band in cui avevo suonato. Stavo attenta a non enfatizzare troppo i dettagli, non volevo rischiare di farlo sentire peggio. Mi scrisse che gli sarebbe piaciuto conoscerli e che era contento che fossi circondata da persone così umane e con la testa sulle spalle, gli risposi che, non appena avesse potuto, l'avrei portato a fare baldoria la sera con noi. Parlammo di libri, gli elencai i miei preferiti e lui mi disse che gli sarebbe piaciuto leggere di più. Nemmeno da bambino amava particolarmente leggere. Decisi che, alla veneranda età di quasi ventidue anni, le cose dovevano cambiare ed iniziai a spedirgli i miei libri preferiti, con tanto di dedica personale a mano sulla prima pagina. Dovevano essere personalizzati, dovevano partire da me ed essere destinati solo a lui. E leggere, dopotutto, era un modo per riempire le giornate. Dalle lettere entusiaste che ricevevo, li leggeva sul serio e gli piacevano. On the road, Into the wild, Il buio oltre la siepe, Il giovane Holden, classici della letteratura americana principalmente. Evitai di spedirgli In cold blood di Truman Capote, dato il tema. Quando venne il turno di Cime tempestose, il mio libro preferito di sempre, gli spedì la copia che conservavo da dieci anni nella mia libreria e che avevo letto un centinaio di volte. Avevo sempre pensato che la storia di Catherine ed Heathcliff fosse simile alla nostra, cresciuti insieme ma costretti a condurre due vite separate.

Venne il giorno in cui mi chiese se potessi scrivergli il mio numero di telefono.

 

Sai, potremmo chiamarci qualche volta. Qui ci fanno usare il telefono, anche se solo per quindici minuti alla volta, dalle 6.30 del mattino fino alle 8:30 di sera (ora americana). Non devi preoccuparti del costo, è a mio carico. Quindi, se vuoi, scrivimi il tuo numero di telefono, dimmi a che preferisci che ti chiami e farò il possibile. Spero di riuscire a sentirti presto.

 

E così gli lasciai il mio numero di cellulare e gli consigliai di chiamare la sera, quando ero probabilmente in camera mia e da sola. Certo, se mi avesse chiamata durante una delle mie serate tra amici, non ero in grado di prevedere in che condizioni gli avrei risposto.

Passavo le giornate a fissare il display del cellulare attendendo la sua telefonata, a tutte le ore del giorno, finché finalmente arrivò. Era sera ed ero nella mia stanza illuminata dalla luce dell'abat-jour. Già sotto le coperte intenta a guardare una commedia romantica su Netflix. Il cellulare iniziò a vibrare sul comodino, il cuore iniziò a martellare ma allungai il braccio pensando fosse solo l'ennesimo falso allarme. Ed invece era lui. Già sentivo le lacrime agli occhi ed il mio piano era dirgli del mio imminente viaggio.

-Pronto?-feci timidamente.

Non rispose lui ma una voce preregistrata dall'accento americano standard che mi informava che stavo ricevendo una telefonata dal Metropolitan Detention Center di Los Angeles e che, per accettarla, avrei dovuto premere il tasto uno. Lo premetti e immediatamente si connesse all'altro capo del telefono:

-Silly?-chiese Jon incerto.

Era una voce profonda, virile ma che non nascondeva tutta l'emozione che doveva provare in quel momento. La stessa che provavo io.

-Sono io-risposi trattenendo quasi il fiato.

Sentivo che stavo per mettermi a piangere ma non avevamo tempo per quello, avevamo solo quindici minuti a disposizione.

-Ne è passato di tempo-osservò, il tono insicuro di prima.

-Eh già, era ora finalmente-rimarcai.

Come temevo, non avevo idea di cosa dirgli. Avevo immaginato tante volte quel momento ed avevo trovato mille argomenti di cui parlargli ma non riuscivo a spiccicare parola.

-È sera lì, vero?-domandò.

-Sì, sono le nove e mezza. Sei riuscito a chiamarmi all'ora esatta.

-Sei da sola?

-Sì, sono in camera mia.

-Ed è bella?

La domanda mi colse di sorpresa.

-La mia camera dici?

Lo sentì emettere aria e capì che aveva appena sorriso.

-Sì, la tua camera, silly-confermò-È come quella che avevi a Wildomar?

-Certo che no, ovviamente la camera che avevo a Wildomar era molto meglio-risposi-Ma vuoi sapere una cosa?

-Cosa?

-Ti ricordi che sopra la testiera del mio letto avevo appeso una bandiera italiana?

-Certo, per ricordarti ed onorare sempre le tue origini.

-Ora ne ho una della California.

-Ottima scelta, direi.

Fece per scoppiare a ridere ma le sue risate si tramutarono subito in singhiozzi. Ed io non riuscì più a trattenere i miei.

-Abbiamo solo quindici minuti-ricordai tra le lacrime.

-Lo so, siamo patetici.

Continuammo a parlare in quel modo, ostinati a non sprecare il poco tempo a nostra disposizione.

-Come stai?-gli chiesi.

Una domanda apparentemente semplice, ma molto più profonda.

-Bene. Qui è pomeriggio. Oggi non ho fatto molto, mi sono svegliato verso le dieci, ho seguito le mie lezioni, ho studiato un po' ed ho aspettato di chiamarti.

Se fossimo stati nello stesso posto, avremmo potuto studiare insieme.

-Sono videolezioni?-chiesi.

-A volte, altre volte i professori caricano del materiale scritto online e noi dobbiamo scaricarlo e studiarlo.

-E poi gli esami come sono?

-In videochiamata, per la maggior parte. Oppure, ma più raramente, viene il professore stesso qui a farmi fare un esame scritto. Mi sorveglia in una stanza finché non lo finisco.

Non potevo immaginare di dare gli esami da sola con il professore. L'unico lato positivo del giorno dell'esame era l'interazione con gli altri che, come te, erano in attesa di essere chiamati.

-Provi ansia quando devi dare un esame?

Domanda stupida per uno costretto in prigione, ma la sua risposta mi sorprese:

-Sì, ne ho-rise-Cerco di tenerla sotto controllo ma ce l'ho. Se non passo gli esami, non mi laureo.

E non avrebbe mai avuto una possibilità di riscatto.

-Esatto, l'ansia è inevitabile-concordai-Quando devo dare esami davvero difficili, passo insonne tutta la notte precedente.

-Oh silly, veramente?-domandò con il tono più dolce che potesse usare.

Stavamo ancora piangendo, ma almeno i singhiozzi stavano placandosi.

-Certo, mi addormento ma mi sveglio ad ogni ora della notte. E dopo ogni esame, mi viene sempre mal di testa.

-È lo stress che rilasci.

-Sì, esatto. E devo dormire per recuperare la notte precedente.

-Se fossimo nello stesso posto, potremmo studiare insieme. Non sarebbe bello, silly?

Avevo avuto lo stesso pensiero qualche minuto prima.

-Sarebbe bellissimo. Poi potremmo festeggiare dopo l'esame.

-Guardando un film della Disney magari-suggerì lui.

-O andando a prendere un gelato.

Scoppiammo a ridere entrambi e mi accorsi di quanto fosse facile alla fine parlare con lui. Dopo il normale imbarazzo iniziale, tutto stava filando liscio.

-Jon-iniziai-Cosa fai per le Feste? Nel senso, rimani lì?

La mia intenzione era sapere dove trovarlo una volta arrivata a Los Angeles ma mi accorsi che sembrava volessi solo ricordargli che avrebbe passato il Natale in prigione.

-Eh sì, silly, non posso andare da nessuna parte-confermò-Vieni a farmi compagnia?

Era arrivato il momento di dirglielo.

-In realtà-ripresi, inspirando forte-Ho davvero prenotato un volo per Los Angeles. Parto il 23 dicembre e starò lì per tutte le Feste.

Mi aspettavo non ci credesse al primo colpo, ma forse il tono che avevo usato era troppo serio per sembrare uno scherzo.

-Vieni qui?-domandò.

Potevo sentire la speranza nella sua voce, ma anche la paura della delusione. L'aveva chiesto come se ne fosse entusiasta, ma sembrava allo stesso tempo cauto.

-Sì, sarò lì per le Feste-ripetei.

-E quanto ti fermi?-chiese subito, potevo quasi sentire il martellio del suo cuore.

-Riparto il sei gennaio.

Rimase in silenzio per qualche secondo e poi sospirò:

-Sarai qui per il mio compleanno.

-Lo so, per quello riparto il sei, perché voglio essere con te il cinque.

-Silly-iniziò a dire ma riprese a singhiozzare.

Quella volta però sembrava quasi un pianto disperato, non solo malinconico come prima, e mi unì a lui spontaneamente.

-Non so come ringraziarti-provò a dire tra i singhiozzi-Saranno le Feste più belle di sempre.

-Lo saranno anche per me-assicurai-Non vedo l'ora.

Poi si ricordò all'improvviso di chiedermi se venissero anche i miei e, dopo la mia risposta negativa, si preoccupò di dove avrei passato quelle due settimane.

-In albergo-risposi.

-In albergo?-echeggiò-Ma non puoi passare le Feste da sola in albergo.

-Ma non sarò sola-lo rassicurai-Verrò a fare visita a te tutte le volte che potrò e poi rivedrò McKenna e andrò in giro per Los Angeles e sicuramente tornerò anche a Wildomar.

-McKenna Monroe?-domandò-Siete rimaste in contatto.

McKenna era l'unica amica femmina stretta che avessi da bambina. Dagli occhi azzurri e dai lunghi capelli biondi, come Rachele, e cresciuta con due fratelli più grandi, McKenna era un vero maschiaccio. Facevo con lei gli stessi giochi che facevo con Jon. Quando mi trasferì in Italia, perdetti i contatti con McKenna finché non la ritrovai su Facebook qualche anno dopo. Non ci sentivamo tutti i giorni, ma facevamo spesso videochiamate e ci tenevamo aggiornate sulle rispettive vite. E fu la prima persona in assoluto a cui dissi del mio viaggio natalizio. Si offrì anche di ospitarmi a casa sua, ma non mi sembrava opportuno stare a casa con la sua famiglia che non vedevo o sentivo da anni. Inoltre, stare in albergo mi rendeva libera di uscire quando volevo e di andare a trovare Jon ogni volta che potevo.

-Ma silly, non puoi passare le Feste da sola in albergo-ripeté Jon-Se potessi, ti ospiterei io. Non abbiamo nemmeno più la nostra vecchia casa a Wildomar, l'abbiamo venduta, altrimenti ti avrei dato le chiavi e saresti potuta stare lì. Però se vuoi posso provare a chiedere a Joe, lui forse può ospitarti.

-No, Jon, stai tranquillo-interruppi il suo vortice di parole-Non vedo nessuno da anni, non posso autoinvitarmi a casa loro proprio per Natale. Non preoccuparti, non mi sentirò sola.

Dopo vari tentativi lo tranquillizzai e parlammo di tutto e di più. Iniziammo dal titolo del film che stavo guardando e finimmo a ricordare tutti i film con cui eravamo cresciuti.

Quando la voce preregistrata di prima annunciò che il tempo a nostra disposizione stava per concludersi, ci salutammo:

-Buonanotte, silly-sussurrò come si sussurra ad un bambino-Fai sogni d'oro.

-Buona giornata, Jon-ricambiai-Non vedo l'ora di riabbracciarti.

-Nemmeno io vedo l'ora. Mi sei mancata davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Apologize ***


6

 

-Ci hai messo troppo pogo sugo-mi riprese Lorenzo, immergendo un cucchiaio nella ciotola pero poi spalmare la salsa rosa sull'impasto della pizza.

-Ma adesso è troppo-contestai.

-È la giusta misura.

Mio fratello adorava da sempre cucinare, cosa che io avevo sempre odiato, ed a volte mi lasciavo convincere ad aiutarlo a preparare la cena. Quella sera avevamo scelto pizza.

-In California la pizza era spessissima-ricordai.

-In California ci mettono anche l'ananas sopra.

Era rilassante cucinare con lui nella nostra cucina, con la musica in sottofondo. Siccome avevamo due gusti completamente opposti, avevamo deciso di scegliere una canzone a testa. Io principalmente musica vecchia, dal rock classico ai cantautori italiani; lui rap e hip-hop.

-State preparando la cena!-esclamò nostra madre entrando in cucina.

-Eh già, hai due figli splendidi-puntualizzai.

Ci baciò ed abbracciò entrambi e sparì in bagno a lavarsi le mani. Subito dopo di lei, entrò nostro padre che ci salutò e si mise sul divano a strimpellare la chitarra. Noi eravamo ormai pronti per infornare le quattro pizze, preparate tutte in contemporanea.

-Nel frattempo apparecchio-annunciai.

Dopo aver sistemato tovaglia, piatti, posate e tovaglioli, mi diressi verso il nostro grande frigorifero all'americana per prendere la bottiglia d'acqua che tenevamo perennemente lì. La nostra cucina era una deliziosa commistione tra il classico ed il moderno, come tutta la nostra casa d'altronde. La cucina laccata bianca, il bancone, il tavolo e le sedie in legno chiaro. Chiaro come il parquet e bianco come le pareti su cui dei piatti colorati si affiancavano ad una grande tela raffigurante un quadro astratto di Kandinskij. Le ampie finestre ed, in un angolo, la libreria verticale incassata nel muro, piena di libri di ricette, l'immancabile set di pronto soccorso, vecchie fotografie ed, al ripiano più in alto, il televisore. La nostra casa a Wildomar era più rustica, più americana, mentre l'appartamento che i miei avevano deciso di comprare a Milano era storico ed elegante. Ma non avevo dubbi su quale dei due preferissi.

-Beh, vediamo com'è questa pizza-disse mio padre sedendosi a tavola.

Lorenzo ed io distribuimmo le quattro pizze rotonde sui rispettivi quattro piatti e ci sedemmo. Ricevemmo complimenti e ringraziamenti e ci mettemmo a raccontare delle rispettive giornate. Lorenzo, al quarto anno di liceo scientifico, era tutto sport e ragazze. Dopo le ore scolastiche passava letteralmente l'intera giornata tra il campo da calcio e la casa di qualche sua amica speciale. I compiti li lasciava alla sera. I miei erano avvocati in uno studio di diritto internazionale, lo stesso studio che aveva deciso di mandarli in California con un solo anno di esperienza lavorativa e sei mesi di corso di inglese base. Erano approdati in America a ventinove anni, sposati da poco più di un anno ed incinta di sette mesi. Si erano stabiliti a Wildomar ed, il giorno dopo il loro trasloco, Grace, la madre di Jon, si presentò alla loro porta con il bambino in braccio dandogli il benvenuto nel quartiere. Notò quindi il pancione di mia mamma e lì decisero, di mutuo accordo, di fare crescere i loro figli insieme.

-Devo dirvi una cosa-dissi ad un tratto.

-Cosa?-chiesero i miei in coro.

-Ti sei messa con Gianluca finalmente?-scherzò mio fratello.

Come tutti, aveva creduto che Gianluca ed io stessimo davvero per metterci insieme.

-No-risposi seria.

-Cos'è?-domandò ancora mio padre.

-Passerò le feste in California-dissi tutto d'un fiato-Dal ventitré dicembre al sei gennaio.

Mia madre sgranò i suoi grandi occhi verdi, come i miei:

-Come in California? Ma che stai dicendo?

-Ho prenotato i biglietti ormai.

-E come ti è venuto in mente?-chiese mio padre-E dove pensi di stare?

-In albergo-risposi sinceramente-Ma ho scritto a McKenna e lei e la sua famiglia rimarrà a Los Angeles per le Feste. Potrò stare da loro.

I miei iniziarono a protestare, contestando l'impulsività con cui avevo comprato i biglietti senza nemmeno avvertirli. Lorenzo cercò di venirmi incontro:

-Ma sì, pensa che bello Capodanno a Los Angeles.

-Esatto-gli strizzai l'occhio.

Quando i miei si furono calmati, chiesero:

-Ed i Forrester?

-Che c'entrano loro?-domandai di rimando facendo finta di niente.

-Li rivedrai?-precisò mio padre.

-Può essere-scrollai le spalle-Andrò sicuramente a Wildomar e vedrò cosa riesco a trovare.

Se fosse stato per me, gli avrei raccontato di Jon. Probabilmente, dicendogli tutto, si sarebbero resi conto che la mia decisione improvvisa non era solo frutto di un capriccio ma che aveva un motivo valido dietro.

-Chissà come stanno-sospirò mia madre-Non li sentiamo da anni.

Mi concentrai sulla mia pizza, fingendo di non aver sentito.

-Chissà i ragazzi-continuò, passandosi una mano tra i boccoli biondo cenere che le ricadevano fin sotto le scapole.

Mia madre aveva sempre considerato Jon come un figlio. Dopo la morte di Grace, Elias cadde in preda alla disperazione e si dimostrò incapace di prendersi cura dei bambini e, per sei mesi, Jim andò a vivere dai suoi zii e Jon venne a stare da noi. Mia madre aveva passato notti intere a tenerlo tra le braccia ed a calmarlo dagli incubi che lo assalivano sempre. Ed io, che per quei sei mesi avevo condiviso la camera con lui, passavo ogni notte insonne. Quando i miei, durante un viaggio di Natale di famiglia a New York, annunciarono a Jon e me che ci saremmo trasferiti in Italia alla fine dell'anno scolastico, lui non parlò a nessuno per giorni. Litigò persino con me perché non riuscivo ad impormi abbastanza. Quando capì che non c'era niente che potessi fare, si scusò chiedendomi di duettare con lui sulle note di Breaking free di High School Musical durante una recita scolastica. Ma quando arrivò il momento di salutarci, sembrò che mia madre stesse veramente lasciando indietro uno dei suoi figli. Ero certa che, se avesse potuto, se lo sarebbe portato in Italia con noi.

-Se li vedi, chiedigli scusa da parte nostra-concluse mio padre.

 

-Dimmi la verità-mi incalzò Lorenzo dopo cena-Qual è il vero motivo?

Eravamo in camera sua, arredata con gli stessi neutrali mobili di legno bianco che riempivano camera mia ma dalle pareti blu.

-Oltre che passare il Capodanno a Los Angeles?-provai a sviare.

-Ti conosco. Hai fatto finta di niente quando mamma continuava a nominare i Forrester. Tu non fai che ricordare i bei tempi andati quando eri libera di giocare per strada con Jon ma prima hai dismesso la questione con così tanta facilità.

Avrei voluto dirglielo e sapevo che era capace di mantenere un segreto, temevo solo che potesse dirlo ai nostri genitori per la paura che mi cacciassi in qualche guaio.

-C'è qualcosa-ammisi-Ma non posso dirti cosa.

-Non lo dico a mamma e papà, lo sai.

-Lo so, mi fido di te. Ma non è un mio segreto, non posso dirlo a nessuno-conclusi-Devi solo fidarti di me.

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Confessions ***


7

 

Riccardo volle incontrarmi il prima possibile a Parco Sempione. Dal tono della telefonata sembrava giù di morale e, quando arrivai al posto concordato, lo trovai seduto su una panchina con la testa a penzoloni e le braccia conserte.

-Qual è il problema?-domandai sedendomi accanto a lui.

Alzò lo sguardo e finse un sorriso.

-Ma no, niente di che-cercò di dismettere la faccenda-Sai che sono una drama queen.

-Lo so-gli strizzai l'occhio-Però qualcosa c'è, non è vero?

Rimase qualche secondo in silenzio, distolse lo sguardo dal mio e confessò:

-Ho detto a Feranc che sono gay e si è volatilizzato. Sparito nel nulla.

-Non saltare subito a conclusioni affrettate, magari aveva davvero un impegno urgente-provai a consolarlo.

-Non hai capito-mi corresse-È sparito da una settimana. Non risponde ai miei messaggi o alle mie chiamate.

In realtà avevo capito al primo colpo cosa intendesse Riccardo ma cercavo di dare a Ferenc il beneficio del dubbio.

-Cioè capisco che è etero e non è attratto da me-riprese-Ma nemmeno rimanere amici? Sparire così senza spiegazioni?

-È un idiota, Ric-sentenziai-Una persona così non è abbastanza per te, come ragazzo o come amico.

Tornò a guardarmi e, per un secondo, temetti stesse per scoppiare a piangere. Ma, com'era in grado di fare ogni volta che gli veniva la tristezza, fu in grado di cacciar via le lacrime in un battito di ciglia.

-Chissà se smetterò mai di sentirmi solo-confessò abbozzando un sorriso di circostanza.

Gli presi la mano:

-Non sei solo.

-Sai che intendo-continuò-Lo so che ho amici e famiglia, so che non sono solo al mondo. Ma troverò mai qualcuno per me?

-Certo che lo troverai-lo rassicurai-Esiste un'anima gemella per tutti. Hai avuto un sacco di relazioni finora, alcune anche lunghe, questo vuol dire che non sei indesiderabile. Sei una bella persona, sia fuori che dentro, semplicemente non hai ancora trovato la persona giusta.

Sorrise di nuovo e quella volta fu sincero:

-Meno male che ci sei tu.

-Lo so, sono indispensabile-ammiccai.

-Però se fossi etero sarebbe tutto più facile. Per lo meno non mi innamorerei di chi non può ricambiare-sospirò.

La sua omosessualità non gli aveva creato troppi problemi: gli amici lo avevano accolto a braccia aperte, anche i genitori lo avevano accettato senza troppe difficoltà e, essendo da sempre un ateo convinto, non ebbe mai conflitti spirituali. Vivendo in una città come Milano, gli era capitato pochissime volte di venire discriminato. Ma se trovare l'anima gemella risultava difficile agli etero, per i gay lo era il doppio. Essendo gay solo il due percento della popolazione mondiale, erano molto più rari ed in più molti si nascondevano. Riccardo lamentava spesso di non poter innamorarsi casualmente all'università, come facevano tutti, e di doversi sempre recare nei locali appositi per fare conoscenze. Sentirsi soli era un sentimento comune per loro.

-Tutti si innamorano di qualcuno che non può ricambiare, prima o poi-tentai di consolarlo.

Appoggiò la testa sulla mia spalla e rimanemmo così.

 

Quella sera, Rachele mi aveva invitato a casa sua per una serata tra ragazze.

-Dai scegli, Twilight o Polar Express?-domandò, raccogliendo i suoi lunghi capelli biondi in una coda di cavallo.

-Sai che sono due film completamente diversi e non puoi mettermeli a confronto, vero?

-Lo so-ridacchiò-Ma scegli.

Non ebbi alcun dubbio:

-Twilight, ormai è diventato un film comico per noi.

Quando era uscito al cinema andavamo alle scuole medie, Rachele ed io avevamo convinto Etienne e Gianluca ad andare a vederlo ed avevamo passato quasi mezz'ora in coda al cinema. Rachele ed io eravamo così ossessionate che, oltre ad esserci lette tutti e quattro i libri, comprammo due magliette del Team Edward. Ma, dopo tutti quegli anni, il film aveva perso il suo fascino iniziale e, sapendolo ormai a memoria, ci divertivamo a guardarlo solo per trovarne gli errori.

-E Twilight sia!-esclamò, facendo partire il film su Netflix.

I suoi genitori si erano ritirati in camera da letto e ci avevano lasciato la sala libera. Spaparanzate sul suo grande divano bianco, avvolte da una pesante coperta di lana e con una tazza fumante di camomilla da bere, eravamo pronte alla nostra serata.

-Che ne pensi di andare da un'amica di Etienne per Capodanno?-mi chiese a film iniziato.

-Come?

-C'è quest'amica di Etienne che organizza una festa a casa sua. Ha una casa grandissima, ha anche la piscina-spiegò-Ovviamente fa troppo freddo per la piscina, ma possiamo comunque andare.

Quando Rachele iniziava a parlare a raffica, facevi fatica a farla stare in silenzio.

-In realtà non ci sono io a Capodanno-confessai.

-Come no?-domandò sgrandando gli occhi-E da quando?

-Da un paio di settimane più o meno.

-Vai in Basilicata dai parenti?

-No-scossi la testa-Torno in California.

Sgranò ancora di più gli occhi:

-Giura! Non ci credo.

-Ho prenotato i biglietti.

Le mostrai l'email che avevo ricevuto dalla compagnia aerea a conferma della prenotazione.

-Ma come ti è venuto?-domandò ancora incredula-Cioè okay che Capodanno a Los Angeles dev'essere bellissimo, ma come ti è venuta l'idea così all'improvviso?

-Non è che è successo qualcosa di grave?-chiese subito-Magari con qualcuno dei tuoi vecchi amici?

Cercai di negare ma fui evidentemente poco convinta.

-Va tutto bene, vero?-insistette.

Non avevo ancora detto a nessuno di Jon, ma il segreto diventava sempre più grosso. Ormai lui ed io parlavamo minimo una volta alla settimana al telefono e continuavamo a spedirci una lettera dopo l'altra. Jon era sempre più entusiasta, mi aveva inviato i moduli che dovevo compilare e rimandargli se volevo ottenere dalla prigione il permesso di andare a fargli visita. Io, dall'altro lato, ero sempre più agitata. Cominciavo a rendermi conto che sarei dovuta veramente andarlo a trovare in prigione, per poi tornare in una stanza d'albergo vuota, e non ero sicura di essere pronta all'idea.

Lui mi aveva chiesto di non dire niente alla mia famiglia ma a Rachele? Decisi di raccontarle tutto. Della sua prima lettera, delle successive, delle telefonate. L'unica cosa che omisi fu il motivo per cui Jon ed io avevamo interrotto i rapporti tanti anni prima.

-Scherzi?-esclamò sempre più confusa-Cioè quindi dovrai andarlo a trovare in prigione?

Annuì e, quando lei mi chiese per quale reato era finito lì, glielo dissi.

-Beh, almeno non ha ucciso nessuno-sentenziò tra sé e sé.

Nel frattempo il film proseguiva in sottofondo.

-Lo so che è assurdo-ammisi.

-Lo è. Ma ti senti pronta?

La guardai negli occhi sconsolata:

-Per niente. Ma ormai sono in ballo.

Prese un respiro profondo. A lei, cresciuta tra gli agi di una famiglia benestante e senza aver mai dovuto affrontare gravi problemi, doveva sembrare una storia da film. Intrigante, certo, ma potenzialmente pericolosa.

-Non penso proprio lui possa farti del male o metterti nei guai-osservò-Dalle lettere che ti ha scritto e da come ti parla, sembra veramente tenerci a te.

Annuì senza rispondere.

-È la prigione in sé che mi metterebbe ansia.

-Lo so-concordai.

Riflettè per qualche secondo, poi disse:

-Senti, sei coraggiosa e stai facendo una bella cosa. Voi due vi volete bene ed è il periodo delle Feste. Sono sicura che tutto andrà bene.

Mi prese le mani come per darmi forza.

-Sei la prima a cui ho raccontato tutta quanta la storia-ammisi.

Nel pomeriggio avevo annunciato la mia imminente partenza a Riccardo e lui aveva accolto la notizia con entusiasmo, quasi dimenticandosi di Ferenc. Ovviamente non avevo specificato il vero motivo.

-Non lo dirò a nessuno. A patto che mi aggiorni passo passo.

-Prometto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** The visit ***


 

8

 

Dal finestrino dell'aereo, le innumerevoli villette con piscina si facevano sempre più grandi e vicine. Sembrava la stessa visuale di The Sims. Mentre atterravamo all'Aeroporto Internazionale di Los Angeles, potevo vedere il sole illuminare i campi da golf e le colline verdi. Quando le ruote finalmente toccarono terra e l'aereo procedette nella sua corsa d'arresto, non riuscì a trattenere le lacrime. Ero finalmente a casa.

Dopo aver intrattenuto piacevoli conversazioni con altri passeggeri al ritiro bagagli, estasiati dal breve riassunto della mia vita multiculturale, mi diressi verso l'uscita. Dietro le porte di vetro scorrevoli, riconobbi subito McKenna.

-Frances!-esclamò, il soprannome che quasi tutti, tranne Jon, mi davano in America.

-Kennie!-ricambiai, chiamandola come ero solita fare da bambina.

Mi corse incontro e ci abbracciammo, come in una scena di un film, e le lacrime ricominciarono a scendere.

-Bentornata-mi sussurrò all'orecchio.

-Era ora.

Era decisamente cambiata dall'ultima volta che l'avevo vista di persona. Non era più il maschiaccio che era un tempo: bensì portava sciolti i suoi lunghi capelli biondi, più lunghi di quelli di Rachele, ed un vestitino attillato arancione coperto da una giacca di jeans ed ai piedi un paio di mocassini sportivi di tela bianca.

-Ti ricordi Ryan?-domandò, avvicinandomi al suo ragazzo.

-Certo che me lo ricordo-annuì, mentre lui mi abbracciava.

Mi era mancato quel modo di fare accogliente ed amichevole tipico degli americani, o almeno dei californiani.

-Sei cresciuta, direi-osservò lui-Non indossi più i pantaloncini.

-E tu non indossi più il berretto con la visiera girata di lato-notai con piacere io.

Ryan Jason Leery, amico di McKenna già fin dall'infanzia. Erano vicini di casa ed erano cresciuti insieme, quasi come Jon ed io. Solo che loro non si erano mai separati e, durante le scuole superiori, si erano messi insieme. Al college, lui era il quarterback della squadra di football e lei la capo cheerleader. Più cliché di così?

-Dai, andiamo in macchina-esortò McKenna mentre Ryan mi prendeva galantemente il trolley arancione.

Li ringraziai di nuovo per essermi venuti a prendere all'aeroporto e dovetti ripetergli più volte di accompagnarmi subito in albergo.

-Prometto che vengo a cena da voi domani sera-assicurai.

La verità era che già il mattino seguente mi sarei dovuta recare al Metropolitan Detention Center e non avevo intenzione di presentarmi assonnata a causa del jet lag.

Il paesaggio era famigliare: colline piene di ulivi, cielo azzurro e sole. Le corsie erano il doppio più larghe di quelle italiane e le macchine tutte più mastodontiche. Era il ventitré dicembre ma c'erano sui venti gradi. Ci fermammo solo una volta, al drive-through del Sonic per prendere degli hamburger da asporto. Sarebbe stata la mia cena.

-Allora sei sicura di non voler venire da noi stasera?-mi domandarono per l'ennesima volta prima di lasciarmi in albergo.

-Sicura-annuì.

Li ringraziai di nuovo e scesi dalla macchina. Entrai alla reception ed un ragazzo più giovane di me mi consegnò le chiavi della camera, fortunatamente era al pian terreno. Tutti gli alberghi sembravano essere arredati allo stesso modo, con le pareti bianche o massimo di una tinta pastello, l'immancabile moquette blu o rossa e delle fotografie alle pareti. Entrai nella stanza e mi misi sotto la doccia. Il getto d'acqua calda non riusciva a scrollarmi di dosso l'agitazione che provavo per il giorno successivo. Avrei rivisto Jon, in prigione, e non ero minimamente pronta. Rimasi lì per più tempo possibile e, quando le dita iniziavano a raggrinzirsi, finalmente uscì. Mi lavai i denti, mi intrecciai i capelli e, dopo un giro di telefonate, mi buttai a letto.

 

Quando la sveglia suonò la mattina seguente, il mio corpo impiegò meno di cinque secondi a riempirsi d'ansia. Sentì immediatamente il mio stomaco attorcigliarsi ed il mio cuore accelerare. Incapace di rimanere ferma, mi alzai subito dal letto e mi lavai viso e denti. Mi sciolsi la treccia che mi aveva lasciato naturalmente mossi i miei lunghi capelli biondo cenere, ormai mi arrivavano quasi alla vita. Mi infilai un paio di pantaloni neri ed una maglietta a mezze maniche bianca, bianca come le scarpe da tennis che portavo ai piedi. Come accessori, indossai solo l'orologio dal grande quadrante tondo bianco e dal centurino in pelle marrone che i miei mi avevano regalato il Natale precedente. Avevo letto che in prigione si doveva rispettare un dress code particolare, il quale consisteva nell'assenza di accessori – che altrimenti avresti dovuto lasciare in custodia agli agenti – e in vestiti sobri e dai colori pacati. Vestitini, pantaloncini, minigonne, canottiere scollate erano ovviamente bandite ma lo erano anche i jeans, dato che anche i detenuti potevano indossarli e che c'era quindi il rischio di confondersi con loro. Mi spruzzai del profumo e mi truccai leggermente, solo matita e mascara.

Bussarono alla porta e sussultai. Sapevo chi era:

-Joe?-domandai inutilmente.

-De Stefano-esclamò lui col suo forte accento messicano-Caspita, Jon aveva ragione a dire che sei bellissima.

Mi abbracciò calorosamente e ringraziai per il complimento. Lui sembrava un membro di una gang: capelli scuri rasati, occhiali spessi da sole sulla testa, maglietta a maniche corte nera fin troppo scollata, pesanti tatuaggi neri che gli ricoprivano le braccia, jeans larghi e strappati e scarpe nere sportive.

-Ne è passato di tempo-osservai, cercando di tenere a bada l'agitazione.

-Ci puoi scommetere.

Rimaneva sulla soglia, non sapendo se entrare o no. Decisi di prendere la borsa, una giacca di jeans ed uscire dalla stanza.

-Andiamo-feci.

Mentre mi accompagnava alla sua macchina, un SUV nero enorme, mi chiese se fossi pronta.

-Onestamente no-risposi.

-Nessuno lo è mai-ammise-È la tua prima volta in una prigione?

Sarebbe stata una domanda scontata se non fossi stata una studentessa di Giurisprudenza.

-Sì, è la prima volta-annuì-Sarà difficile?

-Entrare lì o rimanerci?

-In generale.

Scrollò le spalle:

-La prima volta sarà uno shock, ti avverto. Ti sembrerà di trovarti in un film e ti sentirai probabilmente in pericolo, circondata da criminali.

Mi stava incoraggiando molto.

-Ma non lo sei, tranquilla. È pieno di guardie ed inoltre Jon non lascerà nemmeno che ti sfiorino.

Probabilmente voleva tranquillizzarmi ma aveva avuto l'effetto opposto.

Mentre ci muovevamo tra le strade affollate di Los Angeles, tra grattacieli, qualche palma occasionale ed enormi manifesti pubblicitari, mi istruiva sui controlli preliminari. Gli agenti potevano essere invadenti e spaventosi, ma era solo un lavoro di routine per loro.

-Siamo arrivati-annunciò.

Mi accompagnò dentro un grattacielo bianco stile impero, quasi ricordava il Tribunale di Milano, ed all'interno tutto dipinto di diverse tonalità di beige. L'atrio era elegante, sembrava più un centro commerciale che una prigione, con tanto di grandi piante in giro. Gli agenti lì presenti erano giganti, incutevano timore già per la loro altezza. Il cuore mi martellava sempre più velocemente nel petto e continuavo a chiedermi chi me l'avesse fatto fare. La risposta era semplice: Jon.

-Oltre non posso andare-disse Joe e mi lasciò davanti al centro controlli.

Lo ringraziai, mi augurò buona fortuna e mi avviai verso il metal detector dentro il quale dovevo far passare la mia borsa. Nel frattempo dovevo recarmi da un agente che mi avrebbe controllato a sua volta con un metal detector. La prima fase era uguale ai controlli in aeroporto, ma era solo la prima di molte. Arrivai dunque davanti ad un nuovo agente, una donna, che in tono severo mi informò che non potessi portare la borsa né l'orologio con me. Avrei dovuto riporli negli appositi armadietti, non mi era consentito nemmeno di prendere il cellulare. Per fortuna avevo già fatto una telefonata ai miei genitori quella mattina – pomeriggio in Italia – e contavo di non doverli più sentire per le prossime ore. Dopodiché arrivai davanti ad un terzo agente, un uomo sulla cinquantina grosso come una montagna, che mi portò in una stanza e socchiuse la porta dietro di sé. Ormai non sentivo più lo stomaco da quanto era piegato su sé stesso, l'agente colse la mia agitazione e mi invitò a calmarmi.

-È la tua prima volta in una prigione?-mi domandò.

Era così ovvio?

-Sì-risposi.

-Non preoccuparti, sono solo controlli di routine di sicurezza-mi spiegò.

Detto ciò, iniziò a toccarmi con le sue gigantesche mani. Avevo letto di quella possibilità su Internet, era un modo per controllare che non avessi nascosto niente nelle tasche o nella scollatura. Ma quando arrivò a palparmi, seppur con molta discrezione, il seno, mi venne la nausea.

-A posto, puoi andare-mi congedò, riaprendo la porta e permettendomi di tornare a respirare.

Le persone dietro di me passavano per le stesse tappe mentre io ero intenta a seguire le persone davanti a me camminare lungo un corridoio. Il pavimento di marmo e le pareti beige, almeno, non mi davano l'impressione di essere in una prigione. Non sapevo se avrei dovuto sostenere altri controlli, proseguì fino ad una grande sala piena di tavoli bianchi. Erano tavoli piccoli, massimo di cinque posti, con delle sedie poste intorno. Lessi sulla porta che ero arrivata nella visiting room. I detenuti non erano ancora arrivati. Per sicurezza, chiesi ad un agente se potessi scegliere un tavolo a caso o se me ne fosse stato assegnato uno specifico. Anche quell'agente mi domandò se fosse la mia prima volta in una prigione. Ce l'avevo scritto in fronte. Ad ogni modo, mi rispose che potevo sedermi dove volevo ed attendere pazientemente l'arrivo dei detenuti. Scelsi un tavolo accanto ad una finestra e mi sedetti a braccia conserte.

Mentre attendevo che la sala si riempisse, pensavo che non avrei mai pensato di poter arrivare da sola fin lì. Non solo in California ma in una prigione. Forse ero più coraggiosa di quanto pensassi.

Quando tutti i visitatori furono entrati, l'agente annunciò l'arrivo dei detenuti:

-Li chiamerò uno alla volta, per nome, cognome e numero identificativo. Chi è venuto per loro, è pregato di alzarsi in modo che il detenuto possa riconoscervi e recarsi verso di voi.

Quindi il mio primo incontro con Jon dopo dieci anni sarebbe avvenuto sotto gli occhi di tutti. L'agente iniziò a leggere dall'elenco ed io mi sentivo sempre più prossima al vomito. Coperti dalle loro uniforme larghe blu, i detenuti entravano uno alla volta per ricongiungersi al loro caro. Pensavo che avrei dovuto attendere all'infinito il mio turno ed invece, tra i primi dieci, venne annunciato il suo nome:

-Jonathan Michael Forrester, 668432.

Mi alzai in piedi e lui comparve sulla soglia. Era ancora lontano ma già notavo quanto fosse alto. Portava i capelli corti, come gli altri, ma per il resto era uguale alle fotografie che avevo visto. Sul viso aveva la stessa espressione sconvolta che dovevo probabilmente avere io: un misto tra un sorriso, una smorfia, un pianto ed un possibile imminente mancamento. Quando l'agente gli tolse le manette e lui si avviò verso di me, sentì il pavimento sotto di me crollare. Volevo andargli incontro ma sapevo di dover restare ferma finché non mi avesse raggiunta lui. E, sebbene camminasse a passo veloce, furono i secondi più lunghi della mia vita. Quando ormai era a due passi, colmai la distanza sulle mie gambe tremanti e ci abbracciammo. Così, d'istinto. Il suo corpo era bollente, come se fosse febbricitante, ed essendo alto e muscoloso mi avvolgeva completamente.

-Non ci posso credere che sei qui-mi sussurrò all'orecchio.

Era così vero, la sua voce era sempre profonda ma non era più attutita dal telefono. Era reale e vibrava direttamente nel mio orecchio facendo fare i salti mortali al mio stomaco.

-Nemmeno io, fidati-mormorai.

Le effusioni in prigione non potevano durare tanto perciò il nostro abbraccio fu breve ma, quando mi lasciò andare, le sue mani sembravano non volersi staccare mai. Ed infatti, una volta seduti l'uno di fronte all'altra, prese le mie nelle sue. Erano grandi ed affusolate, come le aveva sempre avute, e calde.

-Hai le mani fredde-osservò guardando le mie.

-In realtà le tue sono calde-precisai.

Ci guardammo negli occhi per la prima volta ed avvertì un brivido lungo la schiena. Nel suo sguardo, avvertì l'inspiegabile sensazione di familiarità e di novità allo stesso tempo. Era sempre lo stesso ma era diverso allo stesso tempo.

-Come stai?-gli chiesi.

-Alla grande-rispose, entuasiata-E tu, silly? Com'è andato il viaggio?

-È andato bene, ci sono abituata.

-Già, facevi sempre avanti ed indietro dall'Italia da piccola-rise.

Era nervoso almeno quanto me e continuava a rigirare le mie mani nelle sue.

-Mi ricordo del tuo neo-osservai, non capacitandomi che l'avessi davvero detto ad alta voce.

-Come?-mi chiese confuso.

-Ehm, sì-balbettai-Il tuo neo all'angolo sinistro del labbro superiore. È minuscolo e dalla foto non l'avevo notato, ma ce l'avevi anche da bambino.

Gli sarei sembrata una completa idiota, ma invece lui sorrise ancora di più e, senza dire niente, si portò le mie mani alla bocca e me le baciò. Per fortuna non ero di carnagione chiara, altrimenti sarei arrossita all'istante. Iniziai a sentirmi debole, una sensazione di vuoto, come se stessi per perdere i sensi.

-Credo che abbiamo bisogno di acqua-sentenziai.

-Sì, giusto-concordò-Aspetta qui, silly, te la vado a prendere.

Ripose delicatamente le mie mani sul tavolo e, senza aspettare la mia risposta, si alzò e si recò verso un tavolo accanto alla porta dov'erano posizionate le vivande. Tornò con due bottigliette, dunque ne aprì una e me la mise davanti.

-Tu la preferisci naturale, giusto?-chiese.

-Esatto-annuì.

Ne bevvi un sorso, ma ero così sconvolta che persino l'acqua mi disgustava. Appena posai la bottiglietta sul tavolo, Jon tornò a prendermi le mani.

-Ti piace proprio stringerle, eh?-scherzai.

Ma lui arrossì di colpo ed abbassò lo sguardo, come faceva da bambino.

-Cioè, non c'è niente di male, anzi, mi fa piacere-mi affrettai ad aggiungere.

-Sei sicura che non ti dà fastidio?-mi domandò sempre più imbarazzato.

-Certo che no!-lo rassicurai-Davvero, mi fa piacere.

Improvvisamente si fece serio:

-È che sai, non abbiamo molto contatto fisico qui. O, se ce l'abbiamo, è perché ci prendiamo a pugni. Sai, i maschi.

Cercò di simulare una risata ma non gli riuscì.

-E le persone che ti vengono a trovare?-chiesi.

-Per lo più viene Joe e, sai, vale lo stesso discorso.

Nessun altro oltre Joe? Non volli insistere, ma lui mi lesse nel pensiero ed aggiunse:

-A volte viene Nellie, una signora per la quale lavoravo da adolescente e che mi è rimasta amica. Ma anche con lei sarebbe strano, ha sui cinquant'anni.

-Sì, immagino-sorrisi-Allora queste mie mani sono tutte tue per oggi, puoi stringerle quanto ti pare.

La mia bocca si muoveva senza che potessi più controllarla. Ma lui sorrise come se gli avessi appena fatto il regalo più bello del mondo.

Mi chiese se fosse stato difficile arrivare qui, se Joe mi fosse venuto a prendere in orario e se avesse superato i limiti di velocità alla guida.

-So che a volte eccede, ma mi sono raccomandato di essere prudente con te in macchina.

Lo rassicurai e gli risposi che, tranne i controlli all'ingresso, tutto era filato liscio. Mi domandò se mi avessero ispezionata a fondo e, capendo dove volesse arrivare, annuì. Lui si rabbuiò e si scusò per avermi messa in quella situazione. Poi passò a chiedermi dei miei genitori e di come avrebbero passato il Natale.

-Dai parenti, come al solito-risposi.

Mi chiese se mi dispiacesse di non essere lì con loro ed io osservai come fossi comunque in famiglia, al che lui si illuminò:

-Mi consideri ancora parte della famiglia?

Annuì e gli raccontai di come mio padre mi avesse raccomandato di chiedergli scusa se lo avessi per caso visto.

-Scusa per cosa?-domandò stupito.

-Per avervi abbandonato, immagino.

Scosse la testa e strinse le mie mani ancora più forte:

-L'importante è che ci siamo ritrovati, silly.

Ed infine arrivò il momento che temevo più di tutti, mi domandò perdono per quanto fosse successo con Elias. Si scusò per cinque minuti di fila ed alla fine gli vennero le lacrime agli occhi. Dal suo sguardo si intuiva che fosse molto più addolorato di quanto desse a vedere.

-Basta, non devi torturarti così-lo esortai-Quello che è stato è stato e tu non hai colpe. L'importante è che ci siamo ritrovati, no?

Fece per controbattere ma, senza pensarci, gli baciai io le mani quella volta. Le sue parole morirono sul nascere e mi fissò con due enormi occhi stupiti ed emozionati allo stesso tempo. Ed allora mi chiesi quale fosse stata l'ultima volta che avesse ricevuto un bacio.

In quelle cinque ore di visita parlammo di qualunque cosa: dai nostri vecchi momenti di gloria a Wildomar, alle nostre vite di adesso, alle sue speranze per il futuro. Riuscimmo gradualmente a rilassarci e scoprimmo che stare l'uno con l'altra era facile come ricordavamo. La sua parlata, lenta e strascicata, tipica del sud, era esattamente come la ricordavo. E con la sua voce profonda, era estremamente rilassante ascoltarlo. Gli suggerì di registrare un audiolibro un giorno e lui scoppiò a ridere:

-Tu lo ascolteresti, silly?

-Ogni notte prima di addormentarmi.

Sorrise dolcemente ed aggiunse:

-Sarebbe bellissimo se potessi farti addormentare. Ti potrei raccontare una storia ed accarezzarti finché non chiudi gli occhi.

E non parlava per ipotesi, sognava sul serio di poterlo fare.

-Sarebbe bello, sì-concordai.

Quando arrivò il momento di congedarci, mi chiese se avessi programmi per il giorno di Natale.

-Per il momento no, ma penso che McKenna mi inviti da lei-risposi.

-Oh, sembra un bel piano-si affrettò a dire abbozzando un sorriso, ma intuì c'era qualcosa che non voleva dirmi.

Quando lo incalzai, confessò:

-Qui ci sarebbe una specie di festa. L'orario di visita è prolungato, dalle nove di mattina alle sei del pomeriggio. Ci sarà un buffet per pranzo e noi potremmo indossare abiti normali.

Non lo lasciai nemmeno finire di parlare:

-Mi piacerebbe tantissimo venirci.

I suoi occhi brillarono all'istante, ma si costrinse ad esortarmi a passare il Natale con McKenna:

-Non puoi passare il giorno di Natale in prigione, silly.

-Ormai è deciso.

Gli strinsi forte le mani, ancora intrecciate, e dovettimo alzarci per i saluti finali. Come prima, le effusioni non potevano essere eccessive. Ma, dal momento che tutti si stavano salutando allo stesso momento, ci stringemmo più forte del previsto.

-Mi mancherai-mi sussurrò ancora all'orecchio.

-Anche tu mi mancherai-ricambiai-Non vedo l'ora sia Natale.

-È domani, silly, domani ci rivedremo-mi ricordò.

-Domani.

I detenuti furono chiamati ad uscire dalla sala prima di noi e, prima di lasciarmi, Jon mi baciò delicatamente sulla fronte. Nel suo sguardo leggevo tutta la sua insicurezza ed il terrore di aver osato troppo, ma gli strinsi la mano per l'ultima volta prima di lasciarla andare e gli sorrisi. In fila uno per uno davanti la porta, i detenuti aspettavano che gli agenti gli rimettessero le manette ai polsi prima di avviarsi verso le loro celle. Jon si girò a rivolgermi un ultimo sguardo e lo salutai con la mano.

Finalmente uscì sulla strada, col sole dell'una del mattino che batteva caldo su Los Angeles, e per la prima volta quella mattina scoppiai a piangere. Un pianto liberatorio però. Jon era fantastico, noi due eravamo fantastici. Sarebbe andato tutto bene.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Christmas ***


9

 

Mi rigiravo nel letto della mia camera d'albergo senza trovare pace. McKenna era stata così gentile da invitarmi alla cena della Vigilia a casa dei suoi genitori a Downtown ed avevano dato il massimo per farmi sentire a casa. Ed ero stata bene. I suoi due fratelli maggiori erano maschiacci ossessionati dallo sport e dai videogames esattamente come li ricordavo, sua madre aveva decisamente lavorato sulle sue capacità culinarie ed il suo tacchino ripieno accompagnato dall'immancabile salsa gravy era ottimo, suo padre era il solito grande e grosso uomo americano, tutto battute e grandi sorrisi. Dopo cena, McKenna mi aveva portato in camera sua e mi aveva mostrato tutti gli annuari della sua scuola superiore privata a Los Angeles. Sembrava davvero uno di quegli istituti snob che si vedono nei film, pieni di figli di papà abbronzati e curati. Cheerleader, reginetta del ballo, impegnata nelle attività sociali e nel volontariato: una carriera scolastica perfetta. E continuava a dare il meglio di sé anche alla UCLA. Mi fece descrivere tutti i ragazzi con cui ero uscita, tutti i baci che avevo dato. E poi mi chiese la domanda fatidica:

-Hai poi avuto notizie dai Forrester?

Avevo scosso la testa e risposto di no, lei mi aveva rassicurato che avrei presto trovato un modo per ritrovarli e si era pure offerta di accompagnarmi a Wildomar se avessi deciso di tornarci. La ringraziai e quasi ci mettemmo a piangere mentre eravamo strette in un abbraccio e realizzai che mi era mancata quasi quanto Jon.

Non avevo mai passato la notte di Natale così lontana dalla mia famiglia e, dalla telefonata che avevo fatto con i miei genitori qualche ora prima, intuì che cominciassero a sospettare che il mio improvviso viaggio avesse qualche significato ulteriore ma non mi chiesero nulla.

 

La mattina dopo, durante il tragitto in autobus verso il Metropolitan Detention Center, pensai che fosse il giorno di Natale più strano della mia vita. Non che mi dispiacesse vedere Jon, per carità, ma l'avrei passato interamente in una prigione. Ma quando la guardia chiamò il suo nome e lui venne raggiante verso di me, capì che sarebbe stato il giorno di Natale più intenso della mia vita.

-Buon Natale, silly-mi sussurrò all'orecchio mentre ci abbracciavamo.

Per quel giorno, potevano indossare abiti civili e lui si era messo un paio di jeans ed una felpa grigia. Non proprio un completo da Feste, ma sempre meglio delle uniformi blu.

-Allora, come hai passato la notte?-gli chiesi mentre ci sedevamo al solito tavolo.

-Bene-mi rispose onesto-È stata probabilmente la notte di Natale più bella da anni. Tu invece come hai dormito?

Decisi di risparmiargli i dettagli delle due ore passate a rigirarmi nel letto insonne, ma lui non si accontentò della mia risposta positiva:

-Ti ho pensata. Hai passato la notte di Natale da sola in una camera d'albergo. Mi dispiace di non poter essere stato con te, ti avrei portata a cena fuori o al cinema.

-O a prendere il gelato-aggiunsi.

Lo facevamo sempre da bambini. Non appena fummo considerati grandi abbastanza per poter avventurarci da soli per Wildomar, ci infiltravamo sempre in qualche gelateria a spendere i pochi dollari che eravamo riusciti a raccimolare qua e là.

Jon mi strinse le mani ancora di più e mi sorrise, ma il suo sguardo era da un'altra parte. Perso nei meandri dei suoi, dei nostri, ricordi d'infanzia probabilmente.

-Vuoi andare in cortile?-propose d'un tratto-Oggi possiamo uscire.

Accettai e ci alzammo in sincrono. Posò delicatamente una mano sulla mia schiena e mi guidò fino alla porta d'uscita, inutile dire che il suo tocco mi faceva sentire la schiena andare a fuoco. Varcammo la soglia e lo sentì inspirare profondamente ed alzare gli occhi verso il sole che non smetteva davvero mai di splendere a Los Angeles.

-Ti fanno uscire spesso?-domandai, pentendomene all'istante.

Ma lui non sembrò farci caso ed in tutta serenità mi ripose che aveva diritto ad un'ora d'aria al giorno.

-Mi manca correre-aggiunse-Correvo sempre, fin da ragazzo. Mi aiutava a smettere di pensare.

-Smettere di pensare?

Si fece cupo.

-Sai, la vita a casa non era proprio il massimo. Papà era sempre ubriaco, mio fratello aveva bisogno di cure più di me ed i soldi mancavano.

Ci sedemmo su una panchina e le nostre gambe erano così vicine da toccarsi. Lui sembrava non farci caso, io cercavo di non mostrare il mio imbarazzo.

-Siamo stati sul punto di perdere la casa-continuò, con lo sguardo fisso sui suoi piedi-Ci hanno staccato acqua ed elettricità per mesi.

Non sapevo davvero cosa rispondere e riuscì solo a posargli una mano sulla spalla.

-E papà non riusciva a tenersi un lavoro perciò dovetti lavorare io per mantenerci tutti. Così ho iniziato a voler sparire. E correvo, andavo sul surf, mi allenavo a football ogni volta che potevo. E bevevo anche.

Finalmente alzò il suo sguardo e nei suoi occhi lessi una profonda vergogna. Dirmi quelle cose doveva costargli tanto. Capì che era arrivato il momento che dicessi qualcosa:

-Ti sei trovato in una situazione più grande di te. Tutto considerato, sei stato incredibile ad andare avanti con gli studi. Ed anche adesso, stai studiando Architettura alla UCLA. Quando uscirai di qui e ti laureerai, avrai tutte le porte aperte.

Abbozzò un sorriso.

-Ne sei convinta?

-Ne sono convinta-affermai sincera.

Rimase qualche secondo in silenzio e poi iniziò:

-Sono stato studente d'onore, ho tenuto il discorso per la cerimonia del diploma. E sono stato il quarterback della squadra di football della scuola.

Avevo capito cosa cercava di fare e lo fermai posando la mia mano sulla sua:

-Non mi devi convincere di essere in gamba. So già che lo sei.

Sorrise e dovette distogliere lo sguardo di nuovo, probabilmente non si aspettava riuscissi a capire le sue intenzioni al volo.

-Posso farti una domanda?-chiese incerto come non mai.

-Certo-acconsentì non sicura di voler sentire la sua richiesta.

-Posso abbracciarti?-domandò cercando disperatamente di pronunciare la frase tutta d'un fiato e di tenere gli occhi fissi sui miei.

Mi rilassai all'istante.

-Certo.

Lentamente mi avvolse tra le sue braccia, io misi le mie intorno alla sua schiena e rimanemmo così per un'infinità. In silenzio ed immobili, respirando a malapena. Dal modo in cui mi stringeva sembrava si stesse controllando, mi avrebbe stritolata se avesse potuto. Cominciai finalmente a rilassarmi e posai la testa sulla sua spalla, sperando che lui non facesse commenti a riguardo. Rimase in silenzio ma iniziò ad accarezzarmi i capelli con la mano. Mi tornò alla mente di quando ci eravamo tenuti stretti dopo il funerale di sua madre. E del nostro utlimo abbraccio all'aeroporto internazionale di Los Angeles, prima di partire per l'Italia. E le lacrime salirono in un attimo ed iniziarono a cadere sulla sua felpa.

-Silly, stai piangendo?-chiese, allontanandosi tanto quanto bastava per guardarmi in viso.

-È che-iniziai a dire, ma i singhiozzi mi sopraffarono.

-Vieni qui-sussurrò e mi spinse di nuovo contro di sé.

Affondai la testa nel suo petto e cercai di soffocare il mio pianto il più possibile.

-Va tutto bene, silly, va tutto bene-mi sussurrava Jon all'orecchio mentre mi accarezzava delicatamente i capelli.

-Mi sei mancato-riuscì finalmente a dire.

-Mi sei mancata anche tu, credimi-rispose.

Mi baciò la testa e mi strinse come non mai, qualunque forma di autocontrollo stesse esercitando prima era svanito.

-Senti-iniziai non appena riuscì a recuperare un po' di fiato-Qualunque cosa sia successa in passato, siamo insieme ora.

Mi staccai da lui e lo guardai negli occhi, inaspettatamente lucidi.

-Non piangere anche tu, ti prego, altrimenti saremo un completo disastro-dissi ridendo ma un singhiozzo si intromise, mi fece andare la saliva di traverso ed iniziai a tossire.

-Mi sa che siamo davvero un completo disastro-rise Jon, accarezzandomi il braccio-Ma sì, siamo insieme ora.

 

Dato che era Natale, la prigione metteva a nostra disposizione un buffet. Dopo aver mangiato dei tranci freddi e decisamente troppo spessi di pizza, ci sedemmo sul cemento del cortile.

-Sai, non ho mai detto a nessuno di quanto è successo con tuo padre-dissi.

Jon si girò all'improvviso, i suoi occhi sgranati:

-Nemmeno ai tuoi?

-Nemmeno ai miei.

Mi prese le mani con forza:

-Te lo sei tenuta dentro tutto questo tempo? Non l'hai davvero mai detto a nessuno? Nemmeno ad un'amica?

-A nessuno.

Mi guardò come se fossi un povero cucciolo smarrito, ecco il motivo per cui non l'avevo detto a nessuno.

-Vuoi parlarne?-si costrinse a chiedermi.

Sapevo che quella domanda gli costava un sacrificio enorme, probabilmente era l'ultima cosa di cui voleva parlare.

-Non c'è molto di cui parlare-scrollai le spalle-Insomma è successo.

Con il pollice iniziò ad accarezzarmi il dorso della mano.

-Ti sei sentita tradita?

Senza volerlo, aveva appena dato un nome al sentimento che non ero mai riuscita a classificare.

-Esatto-affermai-Non capivo cosa fosse successo all'inizio, non sapevo bene cosa fosse il sesso a quell'età. E poi, quando l'ho capito, non capivo perché.

-Era malato-rispose con disprezzo.

-Era depresso, Jon, stava soffrendo anche lui.

All'improvviso mi guardò con rabbia:

-Lo giustifichi adesso? Dopo quello che ti ha fatto?

-Jon, calmati-cercai di dire, ma ormai era partito in quarta ed alzava la voce ad ogni parola che pronunciava.

-Non capisco, non lo odi?-continuò.

Molti si girarono a guardarci ed io afferrai Jon per un braccio:

-Ti prego, calmati. Smettiamo di parlarne se non abbassi il tono.

Si girò a guardare le persone intorno a noi ed il suo volto prese fuoco. Quando mi riguardò, aveva le lacrime agli occhi.

-Scusami, silly-mormorò-Non volevo reagire così.

Mi accarezzò una guancia, prese un respiro profondo e disse:

-Se vuoi parlarne, ti prometto che manterrò la calma. Ma ti prego, sentiti libera di parlarmi di tutto ciò che vuoi. Sono qui per te.

Parlarne veramente con lui l'avrebbe ferito ma, se volevo che la nostra amicizia funzionasse davvero, dovevo potergli dire tutto. E così iniziai: gli raccontai delle notti passate a capire da dove potesse essere uscito tutto quel sangue, di quando continuavo ad infilarmi le dita là dentro per vedere se il dolore fosse lo stesso che avevo provato quella volta, delle mie ricerche su Internet su come fossero i rapporti sessuali e del momento in cui avevo realizzato che non ero più vergine. Ogni parola lasciava Jon sempre più nauseato ma continuò ad ascoltarmi in silenzio, accarezzandomi la schiena con la mano.

Gli parlai di come mi fossi sentita combattuta nello scrivere quell'ultima lettera d'addio a Jon e di come ci avessi pianto per giorni, della solitudine che provai nei mesi seguenti e della depressione che mi aveva colpita a tal punto che non volevo più uscire di casa. Gli dissi che, col tempo, iniziai a non pensarci più finché non conobbi Matteo nel pub dove aveva appena suonato con la sua band. Io avevo diciotto anni, lui era due anni più grande di me. Era alto ed aveva dei folti ricci biondi. Mi lasciai convincere dai miei amici ed accettai di uscire con lui, dopo poco mi innamorai davvero. Lui si innamorò di me e presto arrivammo a pensare di fare l'amore. Ovviamente gli dissi che sarebbe stata la mia prima volta. Sapevo che con lui sarebbe stato diverso, ma non facevo che chiedermi come avrei potuto reagire in quel momento. Avrebbe fatto male come quella volta?

-Quando finalmente lo facemmo, dopo circa sei mesi che stavamo insieme, non persi sangue. Temevo potesse sorprendersene, ma si limitò a dire che non tutte le ragazze sanguinavano la prima volta. E che fosse stato meglio così, voleva dire che non avevo provato tanto dolore.

-Ed è stato così?-mi chiese Jon-Non hai provato dolore?

-Un po' ma era sopportabile, penso sia il grado di dolore che si prova normalmente.

Potevo palpare il suo disagio, stare lì ad ascoltarmi si stava rivelando un gesto eroico da parte sua ma era comunque disposto a farlo. Ed io mi sorpresi della calma con la quale stavo raccontando tutto, probabilmente non avevo più lacrime da versare su quell'argomento.

-È stata quella la mia vera prima volta-conclusi-Con Matteo. È così che voglio che sia. In fondo, è stata la prima volta in cui fossi cosciente e la prima volta che lo stavo facendo con qualcuno che amavo.

-E non ci pensi più all'altra tua prima volta?

Scossi la testa:

-No, è sepolta nel passato ormai. Certo, non avrebbe dovuto succedermi. E certo, tuo padre ha sbagliato, non lo giustifico. Ma non è tutto bianco o nero, Jon, lui stava molto peggio di me. Non posso odiarlo senza ricordarmi di tutte quelle volte in cui mi ha tenuta in braccio da piccola.

Abbassò la testa sconsolato:

-Lo so-ammise-È così anche per me. A volte lo odio così intensamente, per quello che ha fatto a te, a noi, ma poi mi ricordo che è sempre mio padre.

Gli posai una mano sotto il mento e gli sollevai il viso:

-L'hai mai più rivisto dopo essertene andato via di casa?

-Veniva a trovarmi qui ogni tanto, ma io rifiutavo sempre di vederlo. L'unica volta che sono andato veramente a parlargli, gli ho gridato in faccia quanto mi facesse pena. Una settimana dopo l'hanno trovato morto.

Si portò le mani al viso e scoppiò a piangere.

-Dicono si sia suicidato, ha mischiato l'alcol a dei farmaci-singhiozzò-E l'ultima cosa che gli ho detto è che mi faceva pena.

Non riuscì più a parlare e si piegò a riccio sulle ginocchia. Ovviamente iniziai a piangere a mia volta e lo strinsi a me. Era il mio turno di consolarlo accarezzandogli i capelli.

-Se davvero è stato un suicidio, l'ha fatto perché non riusciva a perdonare sé stesso. Se ora è in cielo, sono sicura che ci sta guardando-sussurrai-E, vedendoci insieme, avrà finalmente trovato la pace.

-Lo pensi davvero?-chiese sollevando il viso paonoazzo dal mio petto dov'era affondato.

-Ne sono certa-affermai-Andrà tutto bene, te lo prometto.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Home ***


10

 

Dallo stereo del SUV di McKenna, le Spice Girls intonavano la colonna sonora degli anni Novanta su cui McKenna ed io cantavamo senza ritegno. Avevo accettato la sua proposta di accompagnarmi a Wildomar, dopotutto mi sarebbe servita un'amica su cui riversare le mie emozioni.

-Ti è mancato il paesaggio?-domandò.

Le colline semi aride erano simili a quelle che ero solita a vedere nel sud Italia, dove i miei genitori erano nati e cresciuti. Il sole splendeva sempre alto nel cielo ed, a fine dicembre, indossavo solo un paio di jeans, una maglietta di cotone e la giacca di pelle.

-Mi è mancato tutto onestamente.

Il Metropolitan Detention Center non organizzava visite fino al giorno di Capodanno perciò avevo un po' di tempo libero per esplorare i luoghi della mia infanzia. Come Lake Elsinore, la cittadina posta a soli dieci minuti di macchina nel cui lago andavamo sempre a fare il bagno.

-Ci siamo-annunciò McKenna.

Dopo pochi secondi, apparve il cartello stradale che ci dava il benvenuto nella città di Wildomar. Riuscì a non mettermi a piangere ma, più ci addentravamo, più il cuore mi si fermava. Era sempre la stessa città, l'unica differenza era il colore di alcune case. Dai quartieri periferici arrivammo a quelli più centrali, ordinati e tranquilli, dalle case tutte color crema ed i vialetti innaffiati a dovere. Quando svoltammo nella via in cui ero cresciuta, Larkspur Drive, non mi sembrò vero. Dopo tutti quegli anni, ero tornata a casa.

-Come ti senti?-mi chiese McKenna, seriamente preoccupata che potessi lasciarmi andare ad una crisi di pianto da un momento all'altro.

-Mi sento a casa.

Parcheggiammo e scendemmo dall'auto. Era tutto come ricordavo: la strada su cui Jon ed io avevamo imparato ad andare in bicicletta, sullo skateboard o sui pattini a rotelle; le palme, le colline all'orizzonte, i tetti in mattoni arancioni. Era tutto così perfetto, identico a come l'avevo inciso nella mia memoria.

-È da una vita che non vengo qui-osservò McKenna-Probabilmente da quanto non ci vieni tu.

-È come ti ricordavi?-le chiesi, in cerca di conferme.

-Sì, è esattamente come ricordavo. E tu sei soddisfatta?

-Assolutamente.

Le villette in cui Jon ed io eravamo cresciuti erano una accanto all'altra, entrambe dalle pareti color crema – come la maggior parte delle case in quella città – e dagli infissi bianchi. Sulle cassette della posta, tuttavia, c'erano scritti altri cognomi.

-Vuoi entrare?-mi domandò McKenna.

-Dici che possiamo?

-Tentar non nuoce.

Arrivò davanti la porta di casa mia prima ancora di aver finito la frase.

-Sei pronta?-chiese infine.

Annuì e suonai il campanello.

Una signora sulla cinquantina ci aprì la porta e dovetti spiegarle l'intera storia. Le chiesi se, gentilmente, potessimo visitare la casa in cui ero cresciuta e lei ci invitò dolcemente ad entrare.

-Spero tu possa ancora sentirti a casa-mi augurò.

-Sicuramente-risposi, senza esserne davvero certa.

Non sentivo più il mio cuore battere quando entrammo nel salotto, praticamente rimasto identico. Il parquet scuro, i divani rossi, le pareti ocra. Persino i quadri erano gli stessi. Entrammo in cucina, arredata ancora con i mobili bordeaux ed il tavolo rotondo di legno. Salimmo le scale e mi fiondai in camera mia.

-Porca miseria, quanti pomeriggi passati qui!-esclamò McKenna entrando.

Purtroppo sembrava la stanza più modificata della casa: le pareti erano sempre verdi, ma al posto del mio lettone c'erano due letti gemelli e la disposizione del resto dei mobili era diversa. Mi avvicinai alla finestra e guardai attraverso, fino alla finestra della stanza di fronte che una volta era stata di Jon. Ovviamente i nostri genitori avevano deciso di comune accordo di sistemarci nelle uniche camere le cui finestre erano posizionate l'una di fronte all'altra, in modo da rendere il nostro legame ancora più intenso. O morboso, a seconda del punto di vista.

-Jon ed io ci mandavamo segnali luminosi la sera-spiegai a McKenna-Quando la luce lampeggiava tre volte voleva dire buonanotte, quando lampeggiava una volta chiedeva se potessimo parlarci al telefono.

-Avevate un'amicizia bellissima-commentò, appoggiando il viso al vetro-Eravate solo bambini ma eravate l'una per l'altro.

-Già-mi limitai ad asserire.

Ero grata che McKenna fosse con me, ma in quel momento avrei dato il mondo per poter avere Jon al suo posto. Con lui sarei sicuramente scoppiata in pianto melodrammatico ed avremmo iniziato a trovare un ricordo nostalgico dopo l'altro.

-Andiamo?-domandai, avviandomi già alla porta.

Non potevo più rimanere in quella casa. Ringraziammo di cuore la nuova proprietaria ed uscimmo sulla strada. La vecchia villetta dei Forrester pareva deserta, non c'erano macchine sul vialetto.

-Voglio controllare una cosa-dissi.

Mi avvicinai alle colonne di cemento che sorreggevano la tettoia della porta di ingresso ma le tacche della crescita di Jon e Jim erano state coperte.

-Cosa stai cercando?

-Niente-scrollai le spalle-Andiamo da un'altra parte.

 

McKenna parcheggiò davanti il cimitero e vi entrammo. Era il cimitero più triste del mondo: dava direttamente sulla strada, non era circondato da nessun recinto e la vegetazione era composta solo da qualche albero solitario qua e là. Ricordavo esattamente dove la tomba di Grace si trovava, ogni volta che Jon spariva da bambino, eravamo certi di trovarlo sulla tomba di sua madre. Adesso, lì accanto, c'era anche la tomba di Elias. E così era vero, era morto.

-Oddio-sospirò McKenna, ignara che io già sapessi tutto-Frances, mi dispiace tanto.

-Tranquilla-la rassicurai, mentre le lacrime mi rigavano il volto.

Ci abbracciammo e poi McKenna notò che la morte di Elias era abbastanza recente.

-Vuol dire che Jon non può essere andato lontano-sentenziò-Cioè, immagino ci sia andato ai funerali di suo padre.

Non ne avevamo nemmeno parlato, probabilmente la prigione gli aveva concesso un permesso giornaliero per parteciparvi ma mi chiedevo se Jon l'avesse accettato.

-Può essere, Kennie-ribadì.

Rimanemmo qualche minuto in silenzio, poi McKenna disse:

-Forse dovremmo dire qualcosa.

Ci pensai un minuto e poi finì per mormorare:

-Mi dispiace se non ho mantenuto la promessa.

McKenna non poteva sapere che, sul letto di morte di Grace, le avevo promesso che sarei sempre rimasta vicino a Jon e che non l'avrei mai fatto sentire solo. Baciai la punta delle mie dita e le posai sulla fotografia di Grace, mi costrinsi a fare lo stesso per Elias. McKenna fece lo stesso.

-Vuoi andartene?-chiese lei dopo un po'.

-Con piacere-risposi ancora in lacrime-Dove andiamo?

-Lo so io.

 

Parcheggiammo davanti le nostre vecchie scuole elementari, un complesso di bassi edifici e campi sportivi. Era in un quartiere meno sfarzoso rispetto a dove ero cresciuta e mi resi conto di quanto Wildomar fosse effettivamente provinciale. Ma, quando ero bambina, era tutto il mio universo.

-Sediamoci sui tavoli sul retro-propose McKenna.

-Ma è chiusa la scuola, come entriamo?-chiesi.

-Ho le mie conoscenze.

Mi strizzò l'occhio e tirò fuori dallo zainetto elegante bianco un mazzo di chiavi con cui aprì il cancello.

-Il custode vive nel quartiere in cui sono cresciuta-spiegò-E, dopo che mi hai chiesto di accompagnarti a Wildomar, l'ho corrotto.

Rimasi colpita da quel piccolo ma immenso regalo che McKenna aveva pensato di farmi. La ringraziai con un abbraccio ed entrammo. Ci sedemmo ai tavoli all'aperto su cui ci siedevamo sempre durante l'ora di pranzo.

-E che cosa sarebbe senza dei sandwich?-disse estraendo la scatoletta del pranzo che ci portavamo sempre dietro alle elementari.

-Stai scherzando?-le chiesi sempre più stupita.

-Tu che dici?

Mi mise davanti un sandwich con dentro insalata, maionese e pomodori ed iniziammo a mangiare. Mi domandò se stessi pensando di mettermi alla ricerca di Jon, ma dovetti risponderle che non c'era abbastanza tempo e che non avevo idee su dove iniziare. Se non fosse stato il segreto di qualcun altro, le avrei raccontato tutto. Sentivo di doverne parlare con qualcuno e la videochiamata di due ore che avevo avuto con Rachele la sera prima non mi aveva soddisfatta del tutto. Tuttavia mi morsi la lingua e mi imposi di non tradirlo.

-Spero che vi ritroverete un giorno-concluse-La vostra amicizia è unica, è un legame indissolubile.

Un legame indissolubile. Se dopo tutti quegli anni e quegli ostacoli, ero lì, forse McKenna aveva ragione.

-Sai cosa penso?-feci all'improvviso.

-Cosa?

-Che, nonostante tutti gli amici che ho in Italia, mi sarebbe piaciuto trascorrere l'adolescenza qui con voi.

-Ti avrei portata a tutti i party-sorrise.

-E saremmo andate a surfare insieme-aggiunsi.

-E saresti sicuramente andata al ballo di fine anno con Jon.

-Chissà.

L'idea non mi sarebbe dispiaciuta affatto.

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** Countdown ***


11

 

McKenna e Ryan mi avevano invitata a passare la notte di Capodanno con loro ed i loro amici a Santa Monica, ma eravamo rimasti bloccati nel traffico da quasi due ore.

-Perché ci deve essere sempre traffico a Los Angeles?-domandò Ryan, sbuffando.

-È qualcosa che a Milano non c'è sicuramente-osservò Luke, un loro amico seduto sul sedile posteriore accanto a me.

-C'è anche a Milano in realtà, ma forse non come qui-lo corressi.

Qualcosa da apprezzare nel perenne traffico di quella città era che non ci si fermava mai del tutto, ma la lentezza con cui procedeva era esasperante. Il paesaggio non poteva essere più urbano, davanti a noi si stagliava una colonna infinita di macchine. Qualcuno suonava inutilmente il clacson, qualcun altro teneva i finestrini abbassati lasciando che la musica proveniente dallo stereo si spargesse nel vento. Noi stessi tenevamo la musica a tutto volume, un mix tra rock anni Ottanta, pop anni Novanta e rap.

Quando finalmente scendemmo dalla macchina, noi quattro ed altri quattro ragazzi che avevano viaggiato su un SUV appena dietro di noi ci recammo al Santa Monica Pier. Jon ed io ci andavamo spesso da piccoli, quando i nostri genitori non potevano perdere una giornata intera per portarci a Disneyland ma volevano comunque farci svagare. Nei mesi in cui Jon era stato a casa nostra, dopo la morte di sua madre, ci andavamo praticamente tutti i weekend.

-Che la nostra serata abbia inizio!-esclamò Kevin, un ragazzo abbronzato e palestrato che sembrava uscito da qualunque teen drama che mi fossi guardata durante gli anni del liceo.

Ci addentrammo sempre di più nel molo pieno di gente, McKenna l'aveva predetto che non sarebbe stata un'idea saggia andare lì proprio la notte di Capodanno. Persone di ogni colore e dimensione si accalcavano sulle giostre mentre le abbaglianti luci a neon si stagliavano contro il cielo buio. Come a Milano, nemmeno lì si vedevano le stelle. Dopo due giri sulla ruota panoramica ed uno su un rollercoaster dove stavo per rimetterci lo stomaco, ci prendemmo un gelato e decidemmo di incamminarci verso le macchine. Ovviamente il gelato non aveva niente a che vedere con quello italiano. Troppo liquido e troppo dolce.

-Dobbiamo trovare una spiaggia non troppo affollata adesso-dicevano gli altri.

-Ma la legna per il falò dove la prendiamo?

-Ne abbiamo portata un po' noi nella nostra macchina, ma immagino ne troveremo altra lì.

La notte non era affatto finita, il piano era di aspettare l'alba sulla spiaggia. I nostri SUV erano carichi con teli da mare, tavole da surf, birra e abbondanti coperte e felpe. E pensare che l'anno precedente avevo aspettato l'anno nuovo al Just Cavalli con Rachele, Riccardo e gli altri. Rachele ed io avevamo indossato degli abiti scintillanti, tacchi alti e capelli perfettamente in piega. Invece quell'anno mi ritrovavo a nascondere il bikini sotto dei pantaloni lunghi neri, una camicetta bianca ed il giubbotto di pelle. Avevo provato a farmi bella, ma sapevo sarebbe stato inutile per una serata sulla spiaggia. Mi ero truccata leggermente ma tutto era rigorosamente waterproof.

Quando finalmente trovammo una spiaggia libera, iniziammo ad accendere il fuoco ed a sistemare gli asciugamani sulla sabbia. Lo spazio era immenso e l'acqua era increspata. Qualche palma qua e là. E le cabine dei bagnini, bianche, piccole, con l'immancabile bandiera americana sul tetto, mi riportavano indietro di dieci anni. Sembrava un'immagine presa da un film, ma per me era solo casa.

-Scusate, secondo voi possiamo lasciare gli zaini sulla spiaggia? E se poi andiamo tutti a farci il bagno nello stesso momento?-chiese una ragazza che si era presentata come Elise.

In quei giorni ero uscita tante volte con McKenna ed i suoi amici, mi ero lasciata trascinare ad ogni party ed in ogni discoteca di Los Angeles, ma Elise non l'avevo mai vista. Era bionda, la sua pelle era chiara ed il suo accento era decisamente francese.

-Abbiamo affittato una cabina dove mettere tutto-spiegò Luke-Quando andiamo in acqua, mettiamo tutto lì dentro.

Quando ci fummo finalmente sistemati, domandai finalmente ad Elise se effettivamente fosse europea.

-Sì, sono di Parigi-mi rispose-Sono qui per un trimestre alla UCLA.

Iniziai a tempestarla di domande su come avesse fatto ad entrare, su dove alloggiasse e su come si trovasse lì in California.

-È tutto bellissimo, sembra di essere in un film!-esclamò entusiasta-In realtà le lezioni le inizio a gennaio, ma sono arrivata qui a metà dicembre, non appena ho finito gli esami a Parigi. Volevo ambientarmi.

-E come hai conosciuto McKenna e gli altri?

-Mi sono imbucata ad un party qualsiasi e li ho incontrati.

Aveva dovuto sborsare tanto per poter frequentare quel trimestre, come immaginavo. Ma aveva lavorato per anni per risparmiare quella somma ed era riuscita anche a vincere una borsa di studio dalla sua università in Francia.

-Tu vivi in Italia, vero?-mi chiese.

-Sì, a Milano. Ma sono nata e cresciuta qui fino a quando avevo dieci anni, in realtà.

-Beh, se puoi, ti consiglio un'esperienza del genere. Per te poi sarebbe ancora più facile, dal momento che è come se fosse casa tua.

Era davvero casa mia.

-Studiare all'estero è la cosa migliore-continuò.

Annuì e le raccontai sia del mio anno all'estero in Australia che del mio Erasmus in Danimarca. Era rassicurante avere un'europea lì, sebbene mi trovassi a mio agio con gli americani. Nonostante fossimo vestite entrambe sportive – e nonostante esperienze come quelle non fossero completamente nuove per me – Elise ed io eravamo proprio due ragazze provenienti da due grandi città europee, abituate a trascorrere le serate tra locali e monumenti storici piuttosto che su una larga e bianca spiaggia.

Finalmente ci buttammo in acqua e dovettimo iniziare a nuotare e muoverci come dei forsennati per quanto l'acqua fosse gelida.

-Ti sembrerà più calda con un po' di alcol in corpo-scherzò McKenna.

Cosa che iniziammo a fare non appena uscimmo e ci posizionammo tutti, avvolti nei nostri asciugamani, intorno al fuoco. Qualcuno aveva portato delle chitarre e cominciammo ad aprire le bottiglie di birra. Quando si sparse la voce che ero io me la cavavo con lo strumento, me lo lanciarono tra le braccia e mi invitarono ad unirmi a loro. E con piacere scoprì che i loro gusti musicali non erano niente male.

Avrei voluto che i miei amici fossero lì con noi. Rachele e Riccardo, troppo eleganti forse per una serata come quella ma che si sarebbero integrati senza problemi grazie alla loro esuberanza, Etienne che avrebbe potuto cantare con Elise le canzoni di Serge Gainsbourg e dei Telephone – una rock band francese – e Gianluca che, con la sua aria da lupo solitario ed il suo repertorio di canzoni malinconiche di pace e di amore, avrebbe sicuramente finito per intavolare qualche dibattito politico. Gianluca, lo avevo sempre pensato, era lo stereotipo del bel ragazzo italiano. Sembrava uscito dagli anni Settanta, sempre con la chitarra in mano, alla guida di una motocicletta, che adorava la birra e sognava un mondo migliore. Le ragazze americane lo avrebbero adorato.

La vista iniziò ad annebbiarsi proprio quando era ora di entrare in acqua sulle tavole da surf ed aspettare il conto alla rovescia. L'intera spiaggia era nelle nostre stesse condizioni, se non peggio, e barcollammo tutti verso il mare. Scorsi una ragazza vomitare nell'acqua, sorretta da due ragazzi a petto nudo. Arrivammo a largo e rimanemmo seduti sulla tavola ad aspettare. Tutti lì in acqua, chissà quanti eravamo. Non avevo mai visto così tanta gente ammassata in mare, potevo rivolgere lo sguardo di lato e non riuscivo a vedere una fine.

-Ci siamo!-gridò qualcuno.

Inziò il conto alla rovescia, McKenna, accanto a me, mi prese la mano e mi sorrise.

-...Cinque, quattro, tre, due, uno, Buon Anno!-urlammo in coro.

E non facemmo in tempo a finire la frase che si innalzarono i fuochi d'artificio che scoppiarono proprio sopra le nostre teste. Era come una grande festa, tutti ad esultare ed a schizzare acqua con i giochi di luce che vi si riflettevano. Quando finirono, scoppiammo in un applauso.

-Sono contenta che tu sia qui con noi quest'anno-esclamò McKenna.

Non potevo essere più d'accordo.

Mentre tornavamo a riva, l'adrenalina mi scorreva nel corpo. Avrei potuto correre una maratona dall'energia che avevo. Ci riversammo attorno al falò e Luke si sedette accanto a me. Così vicini da toccarci, mi mise un braccio intorno alle spalle. Obiettivamente era un bel ragazzo, fisico da giocatore di football, abbronzato, capelli ricci castani. E quando si chinò per baciarmi, non lo respinsi. Era Capodanno, ero in California e sembrava tutto magico. Rimanemmo avviluppati per un'eternità, le nostre lingue che danzavano nella nostra bocca. Mi fece sedere sulle sue gambe e mi avvolse completamente, non ero mai stata con un ragazzo così grosso prima. Con la coda dell'occhio vidi che tutti erano intenti a fare la stessa cosa. Senza dirci una parola, i nostri corpi si muovevano in silenzio con la birra ed il fuoco che ci scorrevano nelle vene. Quando l'alcol trasformò l'euforia in stanchezza, indossammo delle felpe pesanti, ci stendemmo sui nostri due teli vicini e ci addormentammo abbracciati.

Quando riaprì gli occhi, i primi bagliori del giorno si stagliavano all'orizzonte. Mi guardai intorno e l'intero gruppo era addormentato, Luke compreso. Riappoggiai la guancia nell'incavo del suo gomito e richiusi gli occhi, pur sapendo che non sarei mai riuscita a riaddormentarmi. Lo stomaco era già aggrovigliato su sé stesso, sicuramente avrei rimpianto tutta quella birra. E sarei pure dovuta andare a trovare Jon.

Jon.

Improvvisamente un sentimento di rabbia mi salì in petto così velocemente che cominciai a sentirmi accaldata. Le braccia di Luke erano diventate troppo strette perciò, con molta delicatezza, me ne liberai e mi alzai. Temendo di disturbare gli altri, mi incamminai fino a riva e mi sedetti lì a contemplare l'oceano.

Perché Jon non poteva essere lì con me? Perché eravamo stati separati così bruscamente ed avevamo dovuto vivere le nostre vite separate? Con lui lì sarebbe stata davvero una notte magica. Detestai Elias non tanto per quello che aveva fatto a me, ma per avermi separata da suo figlio. Il senso di incompletezza raddoppiò quando pensai ai miei amici a Milano, a come avevo desiderato che anche loro fossero lì con me ma erano dall'altra parte del mondo. Chiunque sentisse la mia storia pensava che fossi la persona più fortunata del mondo: due cittadinanze, bilingue, un'infanzia lì ed un'adolescenza qui. Io stessa riconoscevo la mia fortuna. Ma nessuno poteva capire davvero cosa volesse dire avere gli affetti sparpagliati per il mondo. Non sarei mai stata completa: vivendo in Europa, avrei sentito la mancanza di Jon e di McKenna; vivendo in America, non avrei più avuto i miei amici e la mia famiglia. Ovvio che ci saremmo sempre potuti tenere in contatto, fare videochiamate e chattare, ma non era la stessa cosa.

-Stai bene?-McKenna sussurrò dietro di me.

Mi girai ed era in piedi alle mie spalle. Le feci un cenno e si sedette sulla sabbia accanto a me.

-Lo so quello che provi-disse dopo un po'.

Era davvero possibile che mi avesse letto nella mente?

-Ma vedi il lato positivo: ovunque andrai nel mondo, avrai sempre qualcuno pronto a portarti a qualche festa-sorrise.

Cercava di farmi sentire meglio e gliene fui grata. Non c'era soluzione al mio problema, perciò l'unica cosa che mi restava da fare era pensare ai vantaggi.

-Soprattutto se le feste sono epiche come questa-ricambiai.

Rimanemmo in silenzio, non c'era altro da aggiungere.

-Buon Anno, Frances-mormorò mentre le luci dell'alba iniziavano ad illuminare davvero la spiaggia.

-Buon Anno, Kennie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Mixed emotions ***


12

 

-Buon Anno Nuovo, silly!-esclamò Jon abbracciandomi quando mi vide.

Mi strinse più forte del solito, d'altronde era passata una settimana dall'ultima volta che ero andata trovarlo in prigione.

-Buon Anno, Jon-ricambiai-È il primo Capodanno che passiamo insieme da tanto.

-Già.

Ci sedemmo al solito tavolo, sempre uno di fronte all'altro. Mi premetti una mano sulla fronte, cercando di ignorare la nausea e la stanchezza generale che provavo.

-Stai bene?-domandò Jon, sempre attento.

-Tranquillo, è solo un po' di mal di testa.

Non volevo raccontargli della serata precedente, non volevo riversargli la mia malinconia.

-Hai festeggiato ieri sera?-continuò, senza perdere un colpo.

-Sono stata con McKenna-risposi.

Mi prese le mani con forza:

-Sono felice che tu non sia rimasta sola ieri sera. Se fossi fuori di qui, ti avrei portata sicuramente da qualche parte.

L'ondata di calore che mi aveva attraversata quella mattina all'alba tornò. Il senso di ingiustizia era troppo forte.

-Succederà presto, Jon-affermai stritolandogli le mani con tutta la mia forza cercando di spingere in fondo a me le mie vere emozioni-Appena uscirai di qui, tornerò e potremmo andare dove vogliamo.

-Uscirò in libertà vigilata, silly. Vuol dire che non potrò uscire da Los Angeles se non per motivi davvero urgenti.

-Vuol dire che rimarremo a Los Angeles.

Mi sorrise ma il suo sguardo era triste. Inconsciamente avevo finito per trasmettergli ciò che provavo, proprio come riuscivamo a fare da bambini. Avrei voluto abbracciarlo ma non era consentito lanciarci in certi slanci passionali davanti a tutti.

 

-Che cosa fai qui, finocchio?-un detenuto gridò contro un suo compagnolo, strattonandolo per la manica dell'uniforme.

Come il giorno di Natale, ci era permesso uscire nel cortile e quella scena interruppe il nostro animato dibattito se fosse meglio il primo o il terzo High School Musical – entrambi concordavamo sul fatto che il secondo fosse il peggiore in assoluto.

-Perché non te ne torni dal tuo fidanzatino, eh?-continuò quello-Fattelo mettere lì dove sai e sparisci da qui, mi dà fastidio solo guardarti.

-Ma perché fa così?-chiesi a Jon.

La vittima provò a reagire spingendolo ma l'altro lo scaraventò a terra.

-Quel ragazzino è gay-spiegò Jon-Ed i gay qui non sono proprio ben visti.

Sospirai:

-Purtroppo non solo qui.

Inutile dire che il malcapitato si rialzò ed attaccò il bullo, i due iniziarono a prendersi a pugni e gli agenti dovettero intervenire per separarli.

-Le visite sono finite per voi oggi, tornate dentro!

I due protestarono, i parenti di entrambi cercarono di dissuadere gli agenti, una ragazzina scoppiò in lacrime. Ma la cosa più sconvolgente era che gli altri facevano finta di niente, continuavano ad interagire e camminare per il cortile come se nulla fosse successo.

-Immagino succedano spesso cose del genere-osservai.

-Non ne hai idea, è all'ordine del giorno.

-È un brutto ambiente, vero?

Domanda stupida. Jon si girò verso di me e mi abbracciò all'improvviso.

-Mi dispiace che tu debba trovarti in un posto come questo-mormorò.

-Non fa niente. Sono con te, è questo l'importante.

Non era un posto per persone fragili. Ma il viso di Jon era straordinariamente pulito per aver passato tutti quei guai. Dimostrava persino meno anni di quanti effettivamente ne avessi. Le lentiggini, che da bambino odiava, erano la sua vera bellezza ma lo facevano sembrare ancora più innocente e quindi vulnerabile.

Tra pochi giorni sarebbe stato il suo compleanno. Quando gli chiesi se ci fosse qualcosa che volesse, mi rispose che gli bastava vedermi.

-Però non potrai venire qui il cinque gennaio, il giorno di visita è il quattro-precisò.

-Lo so, ho preso appunti.

Sorrise compiaciuto ed io cercai di non immaginarlo al posto di quel ragazzino, preso di mira ed aggredito così violentemente da un altro detenuto.

 

In un corridoio adiacente alla solita sala, c'era una cabina per fototessere.

-Dovranno averla messa oggi, non l'avevo mai vista prima-commentò Jon.

Senza pensarci due volte, entrammo. L'interno era stretto e c'era solo un piccolo sgabello su cui sederci. Jon mi guardò in silenzio per qualche secondo prima di prendere posto e farmi cenno di sedermi sulle sue gambe.

-Sei sicuro che non ti faccio male?-chiesi.

-No, non potresti mai.

Eravamo pessimi a nascondere il nostro imbarazzo ma, quando mi sedetti e lui mi cinse da dietro, mi sentì al sicuro. Niente a che vedere con la stretta di Luke della notte precedente, con Jon mi sentivo a casa. Come se mi avesse stretta un milione di volte.

-Facciamo funzionare questa cosa-dissi premendo il tasto d'accensione.

Il display si illuminò e, dopo averci fatto scegliere quante fotografie volessimo ed in che formato dovessero essere sviluppate, ci rifletté.

-Guarda, siamo bellissimi-sussurrò Jon, lo vidi sorridere dal monitor.

-Lo siamo sempre stati.

Diedi l'avvio ed i flash iniziarono a susseguirsi. Inizialmente provavamo a cambiare posa ogni volta ma poi scoppiammo a ridere senza riuscire più a riprenderci. Quando uscimmo e le foto furono sviluppate, con una penna lasciata su un tavolo lì vicino, scrivemmo la data e firmammo entrambe le copie.

-La terrò sempre, silly-disse-Sarà la cosa più preziosa che ho qui.

-Io la metterò tra i miei libri di Giurisprudenza, spero mi porti fortuna per gli esami.

-Già, così poi, quando finalmente ti sarai laureata, potrai aiutarmi anche dal punto di vista legale-rise.

Risi anche io ma venimmo interrotti da una ragazza. Era evidentemente sovrappeso ma aveva un bel viso regolare. Sembrava molto timida, non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi. Ma Jon la riconobbe subito:

-Lauren! Sei venuta.

Corse ad abbracciarla e lei ricambiò lentamente.

-Lei è Lauren-spiegò-Ci conosciamo dai tempi della scuola superiore.

-Piacere di conoscerti-le strinsi la mano.

Jon mi presentò e lo sguardo di lei iniziò a balzare tra me e le fototessere che ancora stringevamo in mano.

-Ho sentito tanto parlare di te-mi rispose in un sussurro.

-E chi non ne ha sentito parlare?-disse Jon, strizzando l'occhio a me e posando un braccio sulla sua spalla.

Andammo nuovamente in cortile ed iniziammo a parlare del più e del meno. Lauren veniva dall'Arizona, si era trasferita a Wildomar a quindici anni ed aveva conosciuto Jon a scuola. Lavoravano nello stesso posto nel pomeriggio ed erano diventati amici, ma decise di tornare a studiare in Arizona appena dopo il diploma.

-E cosa studi?-le chiesi.

-Letteratura.

-Scrive benissimo, silly, dovresti leggere qualcosa di suo-commentò Jon.

Lauren arrossì di colpo ed abbassò lo sguardo. Jon era evidentemente legato a lei, lei ne era probabilmente innamorata. Pendeva letteralmente dalle sue labbra e si muoveva in base a lui. Il mio stomaco, ancora debole per la notte passata sulla spiaggia, si attorcigliò in un attimo. Ancora rabbia ma era diversa dalla precedente. Era gelosia?

-Silly, prima che mi dimentichi, devo chiederti un favore-disse Jon tutto d'un tratto.

-Certo, dimmi.

-Se non hai niente da fare e se non ti pesa, non è che potresti andare a fare visita ai miei nonni a Lancaster in questi giorni? Se non sai come arrivarci, chiedi a Joe e sono sicuro che si offrirà di accompagnarti o comunque di prestarti la macchina.

-Prestarmi la macchina?-domandai sorpresa-Non penso si fiderebbe.

-Certo, silly, tu sei tu-mi rassicurò.

Dopo cinque buoni minuti, lo convinsi che prendere il pullman non sarebbe stata un'impresa così pericolosa e mi risolsi ad andare da sola nei prossimi giorni.

-Sono certo che a loro farà piacere vederti, sei di famiglia in fondo. E, per favore, rassicurali. Digli che mi hai visto e che sto bene.

Era sempre stato affezionato ai nonni, soprattutto ai paterni. E, quando vivevo in California, li vedevo così spesso che ero davvero diventata una nipotina acquisita per loro. Riempivano me e Lorenzo di regali così come facevano con Jon, Jim ed i loro cugini.

-Non preoccuparti, li vedrò volentieri-affermai.

Mi ringraziò con un abbraccio e con la coda dell'occhio non potei far a meno di notare lo sguardo di Lauren, ribolliva dalla rabbia. Ma in un secondo si spense e tornò la ragazza timida di sempre. Provava davvero qualcosa per Jon e, per qualche ragione, ciò mi infastidì più del previsto. Dopo una decina di minuti, la conversazione a tre stava diventando troppo imbarazzante per poter continuare. Lauren era simpatica ma era come se fosse nata una sorte di competizione mentale tra noi, anche se Jon probabilmente non si era accorto di nulla. Perciò, a malincuore, feci l'unica cosa che potevo fare in quel momento:

-Ragazzi, vi lascio adesso.

-Cosa, te ne vai?-domandò Jon allarmato.

Come al solito, non fu in grado di nascondere le sue emozioni e mi rivolse uno sguardo tristissimo.

-Credo che abbiate bisogno di stare da soli-lo rassicurai posandogli un braccio sulla spalla-Se poi Lauren torna in Arizona, potrebbe essere l'unica occasione che hai di vederla durante queste vacanze. Mentre io sono stata qui tutti i giorni e tornerò il quattro.

Lauren sgranò gli occhi, evidentemente sorpresa dalla mia scelta, Jon sembrò rasserenarsi.

-Sei un angelo-mi abbracciò forte-Non vedo l'ora che sia il quattro.

-Già, nemmeno io-mormorai stringendolo-Ti porterò sicuramente notizie dei tuoi nonni.

Mi ringraziò ancora una dozzina di volte. Quando finalmente li lasciai e mi avviai verso l'uscita, li sentì ridere da lontano e le mie interiora sussultarono di nuovo.

 

 

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Capitolo 13
*** Lancaster ***


13

 

Sul pullman, in viaggio verso Lancaster, vedevo le colline lasciare lentamente posto al Deserto del Mojave. Il mio sedile era accanto al finestrino e, con la testa appoggiata al vetro, cercavo di razionalizzare quello che provavo dentro di me. La sera prima avevo sentito il bisogno disperato di sfogarmi con qualcuno, avevo chiamato Rachele ed eravamo state al telefono per quasi due ore. Le avevo raccontato di Capodanno, del senso di incompletezza che provavo, del calore e la sicurezza che mi trasmetteva Jon ma dell'ingiustizia per non poterlo avere sempre con me. Quando le parlai di Lauren e della strana sensazione che avevo provato vedendola insieme a Jon, Rachele giunse alla conclusione che mi fossi innamorata di lui.

-Magari non proprio innamorata-aveva precisato-Però qualcosa provi. Che sarebbe perfettamente normale del resto: siete cresciuti insieme, vi siete separati per dieci anni ma a quanto pare avete continuato a pensarvi per tutto il tempo. Ora che vi siete ritrovati è anche normale provare sentimenti del genere.

Ma non potevo essermene innamorata, le dissi che sarebbe stato troppo irrazionale.

-È sicuramente irrazionale e perciò io ti consiglierei di non fare assolutamente niente e di sperare che non sia lui a fare qualcosa-aveva concordato-Al momento lui è in prigione e tu tornerai qui in Italia, se vi metteste insieme, complichereste solo le cose. Senza contare che adesso avrà bisogno di te più che mai e non può assolutamente permettersi di perderti di nuovo.

Aveva ragione. I miei sentimenti, e probabilmente anche i suoi, erano così confusi che non ero nemmeno certa fosse veramente amore o solo l'eccitazione di averlo ritrovato dopo tanti anni. Ovvio che qualche tipo di amore verso di lui dovevo provarlo, dopotutto eravamo cresciuti insieme nella stessa famiglia. Sì, sicuramente lo amavo ma potevo amarlo in quel senso?

Il paesaggio, sempre più arido, passò dalle palme e gli ulivi ai cactus. Anche quella vista sembrava uscita da un film ma, ancora una volta, io ci ero perfettamente abituata. Jon aveva fatto in modo di informare i suoi nonni che stavo per arrivare, almeno non avrei rischiato di provocargli un infarto a prima vista. Aveva anche raccomandato sua nonna di non stancarsi cucinando troppo, ma entrambi conoscevamo come Rose fosse fatta. Le nonne erano uguali in tutto il mondo.

Quando scesi dal pullman, boccheggiando nel caldo torrido del deserto, riconobbi subito Walter seduto su una panchina in lontananza. Sembrava la versione più magra di Elias, ma la barba lunga e bianca che si era lasciato crescere, le guance scavate ed i suoi vestiti da cowboy gli davano un'aria decisamente alternativa.

-Walt?-lo chiamai avvicinandomi.

-Che mi venisse un colpo, sei proprio tu!-esclamò.

Lentamente mi venne incontro abbranciandomi, io ricambiai ma sembrava così fragile che dovetti stare attenta a non stringerlo troppo. Aveva lo stesso sguardo puro di Jon ed Elias, gli stessi occhi azzurri.

-Sei diventata una bellissima ragazza-continuò-Jon me l'aveva detto al telefono, ma non è riuscito a renderti giustizia.

Se fossi stata più pallida, le mie guance avrebbero sicuramente preso fuoco a quella frase. Già immaginavo Jon descrivermi al telefono con i suoi nonni.

Mi condusse fino al suo SUV – apparentemente tutti avevano un SUV in America – e guidò fino a casa. Ma si assicurò di prendere il giro largo, di uscire dal centro giusto quanto bastava per portarmi sulla Musical Road.

-Jon si è assicurato che ti ci portassi-spiegò-Ha anche aggiunto che ti ci avrebbe portata lui se avesse potuto.

La ormai famigliare vampata di rabbia mi assalì in un momento. Non riuscivo a fare pace con l'idea che, in un modo o nell'altro, fossimo sempre divisi da qualcosa. Prima l'oceano, poi la prigione.

-Cos'è la Musical Road?-domandai, dopo aver recuperato la calma.

-È una strada appena fuori città. Sull'asfalto ci sono dei solchi e, se ci passi sopra alla giusta velocità, dovresti sentire una melodia.

-La strada produce una melodia?-chiesi sbalordita.

-Già-annuì-Aspetta e vedrai.

Era quello che amavo degli Stati Uniti. Storicamente non avevano molto, ma riuscivano ad inventarsene di ogni per attrarre turisti.

-Ci siamo-annunciò.

Vidi i solchi in lontananza farsi sempre più vicino. Walter abbassò il volume della radio, da cui proveniva una canzone country, e mi esortò ad ascoltare. Ed inaspettatamente la strada emise la melodia. Riuscimmo a sentirla nonostante i finestrini chiusi. Non avrei mai potuto credere che una cosa così fosse possibile.

-Dovrai raccontarlo a Jon poi quando lo vedrai-si raccomandò.

L'avrei fatto sicuramente.

Quando arrivammo a casa, Rose mi accolse abbracciandomi forte. Lei era fisicamente tutto il contrario di Walter: bassa e morbida. Era un vulcano come lo era sempre stata, mi accolse dentro riempiendomi di complimenti e mi condusse subito in cucina. Avevo sempre adorato quella casa rustica, dai pavimenti in legno così come il resto degli infissi. I grandi quadri di paesaggi di campagna in salotto erano gli stessi di sempre, ma se ne affiancavano dei nuovi.

-Quelli li ha fatti Johnny-illustrò Rose.

Uno raffigurante una spiaggia, un altro un giardino giapponese. E poi il quadro sopra il divano rappresentava, con mio grande stupore, i Navigli di Milano. Strano che avesse scelto proprio quella zona e non il più famoso Duomo.

-È sempre stato bravo a disegnare-sospirai a bocca aperta.

Rose mi prese le mani con forza:

-Come sta? Come sta il mio ragazzo?

-Sta bene, penso-scrollai le spalle-Sta cercando di superare i suoi ultimi mesi là dentro.

Jon non mi parlava mai della sua vita quotidiana in prigione, probabilmente per non impressionarmi ancora di più di quanto già non fossi. Si era limitato solo a parlarmi dell'isolamento, della mancanza di calore umano o della costante assenza di privacy, di quanto fosse estremamente difficile rimanere da solo con i suoi pensieri. Cosa davvero succedesse ogni singolo giorno dentro quelle mura non mi era dato sapere. Anche se la rissa a cui avevo assistito l'ultima volta mi dava qualche indizio.

-Mi raccomando, abbraccialo forte da parte nostra-si raccomandò Rose-È sempre stato così sensibile. Siamo stati a trovarlo una volta, questa estate, e lui continuava a preoccuparsi che non ci spaventassimo troppo.

-Cercava di portarci negli angoli del cortile meno affollati e, quando qualcuno alzava la voce, lui minimizzava sempre-si intromise Walter.

Non faticavo a crederlo, era così anche con me. Mi portarono a tavola ed era più imbandita che la nostra a Natale. A troneggiare su tutto il resto era il tacchino accompagnato dalla salsa di cranberries. Dicemmo una preghiera prima di iniziare e mangiammo parlando della mia famiglia e della mia vita in Italia. Rimasero fieri di me quando gli raccontai dei miei studi e di come Lorenzo stesse eccellendo al liceo. Evitai di menzionargli le mie esperienze all'estero, non volevo sembrare che mi stessi vantando.

-Elias sarebbe stato fiero di te-disse ad un certo punto Walter.

Già, loro sicuramente non avevano idea di cosa fosse successo.

-Sicuramente-mi limtai ad acconsentire, cercando di prendere respiri profondi per calmare le mie inquietudini.

Quell'intera vacanza californiana si stava rivelando molto più intensa di quanto avessi pensato.

-Ti va di guardare del football?-chiese Walter dopo pranzo, spaparanzato sul divano rosso del salotto.

-Oh Walt, ma cosa vuoi che le interessi del football?-tuonò Rose-Lascialo perdere cara, vuoi invece vedere degli album di foto?

In realtà amavo il football, rimanevo sveglia ogni anno per guardare la finale del Super Bowl che trasmettevano sulla televisione italiana da mezzanotte alle cinque del mattino. Ma le fotografie erano molto più invitanti, inoltre potevano servirmi.

-Ecco qui, tesoro.

Rose appoggiò sul divano una pila altissima di album colorati, ognuno con sopra scritto l'anno a cui si riferivano. Cominciai dal 1996 e vidi una serie di fotografie di Jon neonato. Al suo primo bagnetto, durante il suo battesimo, addormentato nella culla con il suo peluche preferito tra le braccia. Un cane di peluche chiamato per qualche strana ragione Fluffy che si sarebbe trascinato dietro per anni. Non che non avessimo fotografie simili a casa nostra, spesso riguardavamo vecchi album o filmini di quando Jon ed io eravamo piccoli. Ma vederle dopo aver visto Jon da adulto e di persona faceva un certo effetto.

-Qui era al primo giorno d'asilo-spiegò sua nonna, anche se l'avevo capito già da sola.

C'ero anche io nella foto, eravamo uno di fianco all'altra e ci tenevamo le mani davanti la porta di casa sua a Wildomar. Era sempre stato molto più alto di me, persino ora mi sovrastava nonostante il mio metro e settanta.

Ma gli album più interessanti erano quelli successivi al nostro trasferimento. Non avevamo più avuto contatti con loro e quindi non avevamo più avuto modo di vedere le foto. Jon da adolescente era bellissimo, come sempre, ma decisamente oscuro. Aveva perennemente un'aria malinonica e triste, anche quando sorrideva. Ed in quasi tutte le fotografie era vestito di nero. Quando arrivò la foto del giorno del suo diploma, dovetti trattenere a stento le lacrime. Indossava la toga ed il cappello rosso e bianco, i colori della Elsinore High School, e cercava di sorridere ma si vedeva dallo sguardo che soffriva. Mi aveva detto che aveva scoperto quanto mi fosse veramente successo e che era andato via di casa poco prima del diploma.

-Posso chiedervi un favore?-domandai, schiarendomi la voce.

-Tutto quello che vuoi, tesoro-rispose Rose dolcemente.

-Posso uscire in città portandomi alcune fotografie di questi album dietro? Vorrei farne fare delle copie se a voi non dispiace.

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** The best of both worlds ***


14

 

McKenna mi aveva chiesto se mi andasse di passare un pomeriggio con lei e le chiesi di portarmi alla UCLA. Fermò la macchina in un grande parcheggio immerso nel verde e mi invitò a scendere.

-Come mai hai voluto vedere il campus?-domandò.

-Per vedere com'è un'università americana.

Bugia. Se il motivo fosse stato quello, mi sarebbe bastato guardare un video su YouTube. Ma da un po' di giorni cominciava ad insinuarsi dentro di me l'idea di passare qualche mese lì, iscrivendomi a qualche programma di scambio come aveva fatto Elise. Magari durante l'estate, Jon sarebbe stato libero per allora.

-Beh, questo è il viale principale, direi-illustrò McKenna.

Sembrava esattamente come me l'ero immaginata: grandi viali alberati, ragazzi intenti a fare jogging o a studiare seduti sull'erba. Gli edifici erano in mattoni arancioni e l'area era pulitissima, sarebbe sicuramente stato un bell'ambiente dove studiare.

-Ti trovi bene qui?-domandai.

-Certo, è la migliore università a cui sarei potuta andare.

Le chiesi se non avesse mai pensato di lasciare Los Angeles alla volta di un'università in qualche altro Stato, anche all'estero magari. Rispose di no: Los Angeles era casa sua, lì aveva la sua famiglia, i suoi amici e Ryan e non avrebbe mai voluto vivere altrove.

-Viaggiare certo, vedrei il mondo intero in una settimana se potessi-aggiunse-Ma per vivere, so che sarò a Los Angeles. Almeno per ora.

Anche io avrei voluto avere quella consapevolezza. Mi sentivo senza delle vere radici, per quello l'anno all'estero in Australia e l'Erasmus in Danimarca non erano stati così difficili da affrontare. Lì avevo instaurato nuovi legami ed ormai avevo amici e famiglia quasi dappertutto.

-Oddio, mi dispiace-mormorò McKenna posandomi una mano sulla spalla-Non volevo farti stare male.

Evidentemente il mio viso dovesa essersi rabbuiato ma bastò guardarla negli occhi per rianimarmi e rimpiangere di aver lasciato trasparire la mia debolezza.

-No, tranquilla-la rassicurai-Non è niente.

Mi guardò come se volesse aggiungere qualcosa, ma decise di descrivermi il campus edificio per edificio. Passammo davanti la Powell Library e la Kaplan Hall. L'atmosfera era pacifica, la strada era costeggiata da alberi ed i raggi del sole si intrufolavano tra le foglie riflettendo strane e quiete ombre per terra. Non faceva né troppo freddo né troppo caldo e conclusi che studiare in un ambiente del genere dovesse essere molto stimolante.

McKenna mi portò nel quartiere dove risiedevano le confraternite, dicendomi che aveva fatto parte di una di queste durante il primo anno.

-Perché l'hai lasciata?-chiesi.

-Troppo indipendente per vivere in una casa con altre venti ragazze-scherzò lei.

Mi raccontò del lungo processo che si doveva intraprendere se si voleva essere ammessa. Nel giro di una settimana, dopo aver visitato tutte le confraternite del campus, avvenivano le selezioni. Tramite le feste e le attività che organizzavano, conoscevano le loro potenziali candidate e se ne facevano un'opinione. Le prescelte ricevevano un'invito formale dalle confraternite interessate ed avrebbero dovuto definitivamente scegliere a quale appartenere. McKenna aggiunse che le feste organizzate dalle confraternite erano imperdibili e lei sfruttava le sue numerose conoscenze per essere comunque invitata pur non facendone più parte.

-Ti sembrerà una domanda strana-le chiesi-Ma com'è la vita di un universitario qui?

Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e si schiarì la voce:

-Onestamente non penso sia particolarmente diversa dal resto del mondo. Puoi vivere all'interno del campus, come fanno la maggior parte degli studenti, ma anche al di fuori. Ovviamente se sei dentro, ti troverai molto più coinvolto nella vita universitaria. I tuoi vicini di casa saranno solo studenti e ti sarà più facile fare amicizia. Per il resto, si seguono le lezioni, si studia in biblioteca. Ci sono club e si può praticare uno sport.

-E le partite di football?

-Sono ovviamente importanti-annuì-Io sono una cheerleader quindi non me ne perdo una. Gli atleti in genere si svegliano presto la mattina per allenarsi prima dell'inizio delle lezioni e si allenano anche nel pomeriggio. Le partite sono filmate e mandate in televisione quindi sì, è un vero business.

Continuammo a camminare finché non raggiungemmo Wilson Plaza, uno spiazzo verde tra gli edifici. Ci sedemmo sulle scalinate del Dipartimento di Arte e Cultura ed iniziammo a commentare i ragazzi che passavano sotto i nostri occhi. Rispetto all'Italia c'era molta più varietà, ragazzi di tutti i colori e forme.

-Posso farti io una domanda?-domandò McKenna facendosi seria all'improvviso.

-Certo-annuì, ma il battito cardiaco iniziò ad acceleare.

-Hai provato a cercare Jon e la sua famiglia in questi giorni?-chiese incerta.

Seppur stando attenta a non tradire lui, decisi che potevo fidarmi.

-Ho trovato Jon-ammisi-Ma non posso dirti dov'è, è un segreto che devo custodire per lui.

I suoi occhi brillarono dalla voglia di chiedermi altro, ma si costrinse a trattenersi.

-E gli hai parlato di quello che stai provando?-continuò.

-Che cosa sto provando?

-Beh, lo sai-gesticolò con le mani-Sembri malinconica a volte ed, anche se non ne parli mai, penso che tu ti senta come se dovessi scegliere. Tra la vita che potresti avere qui con me, Jon e tutti gli altri amici che sicuramente ti faresti e la tua vita in Italia con la tua famiglia e gli amici che hai da anni.

Aveva centrato il bersaglio. Mi morsi il labbro, arrabbiata con me stessa per essere sempre così trasparente. Pensavo di riuscire a nascondere meglio le mie emozioni.

-Non gliene ho mai parlato-risposi-Probabilmente non lo farebbe sentire meglio.

-Ma lui è il tuo migliore amico di sempre, siete cresciuti insieme-ribatté-Non so che segreto stai mantenendo per lui, ma sicuramente dovrete riporre molta fiducia l'uno nell'altra.

Annuì.

-Sei ancora giovane e libera-riprese-Non devi scegliere ora dove stabilirti e mettere su famiglia. Per ora, goditi il meglio che questi due mondi possono offrirti.

Il suo atteggiamento positivo mi piaceva.

-Cosa mi consigli di fare?

-Se riesci, fai come Elise e vieni a studiare qui per qualche mese. Magari poi scopri che nemmeno ti trovi bene ed avrai risolto ogni tuo dubbio.

In effetti, scoprire una cosa del genere sarebbe stato un sollievo. Ma se ero riuscita ad ambientarmi in Australia ed in Danimarca e se persino in quelle due sole settimane a Los Angeles ero riuscita a cavarmela bene, temevo che, se fossi rimasta in California per qualche mese, non sarei più voluta tornare in Italia. Però McKenna aveva ragione, non esisteva una soluzione definitiva al mio problema ma almeno avrei potuto temporeggiare ancora per qualche anno e sfruttare i vantaggi che la situazione mi offriva. La prossima volta, avrei potuto portare i miei amici con me e poi Jon sarebbe potuto venire in Italia. Abbastanza utopistico, ne ero consapevole.

Solo pensare a Jon mi stringeva lo stomaco, il fuoco assaliva il mio corpo all'idea che ero lì in California ma non potevo stare con lui, mi sembrava come se stessi perdendo tempo. Non potevo nemmeno chiamarlo per sentire la sua voce, o scrivergli per chiedergli in quale ristorante del Grove avrei mangiato meglio. Era tutto così ingiusto.

-Verrai a trovarmi a Milano?-domandai, in ricerca di conferme.

-Certo, voglio vedere la Città della Moda!

 

 

 

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Capitolo 15
*** Pictures of you ***


 

15

 

Quando l'agente lesse il nome di Jon dall'elenco e lui apparve sulla soglia, il mio cuore sprofondò. Mi venne incontro sorridendo come sempre ma il suo sguardo era triste come non mai e, più si avvicinava, più il suo viso si rivelava stanco.

-Silly-mormorò solo, abbracciandomi.

Nonostante l'abbraccio fu breve, come sempre durante le visite in prigione, le sue braccia quasi mi stritolarono e la sua testa sprofondò tra le mie spalle.

-Jon, stai bene?-non potei fare a meno di chiedergli una volta ci fummo seduti al tavolo.

Aveva gli occhi gonfi ed era vagamente arrossato in volto.

-Hai pianto?-continuai e gli presi di istinto la mano.

Lui intrecciò le sue dita alle mie e, tenendo lo sguardo fisso sulle nostre mani, sussurrò:

-Oggi è l'ultima visita prima della tua partenza.

Ne ero consapevole, avevo passato tutta la notte a fare terribili incubi su di lui e, quando finalmente la sveglia aveva suonato al mattino, ero scoppiata in lacrime. Potevo convivere con le mie emozioni in qualche modo, ma vedere che anche Jon stesse soffrendo mi fece tornare le lacrime agli occhi.

-Oh no, silly-mormorò quando alzò lo sguardo-Mi dispiace, non volevo farti piangere.

Iniziò ad asciugarmi il viso con le dita ma, mentre mi consolava sussurrandomi che sarebbe andato tutto bene, anche i suoi occhi diventarono umidi.

-Non posso vederti così-continuava a farfugliare lottando disperatamente con sé stesso per non scoppiare.

La prigione non era un posto per deboli. Non poteva esporre le sue vulnerabilità davanti agli altri detenuti, ai loro famigliari ed amici ed agli agenti, perciò dovevo fare in modo di calmarmi. Lui non sarebbe riuscito a rasserenarsi finché non mi avesse vista tranquilla.

-Sto bene-bisbigliai, più a me stessa che a lui-Sto bene, tranquillo.

Mi asciugai le lacrime e presi dei respiri profondi. Quando sentì di avere le mie emozioni sotto controllo, provai ad abbozzare un sorriso.

-Così va meglio-osservò Jon-Sei bellissima quando sorridi.

Il suo viso si distese e le ombre sembrarono lasciarci.

-Sono stata a Lancaster-raccontai-Tuo nonno mi ha portata sulla Musical Road, è bellissima.

-Sapevo ti sarebbe piaciuta-annuì-Ed i miei nonni come stanno?

-Stanno bene. Tua nonna Rose cucina bene come al solito, tuo nonno Walt è sempre ossessionato dalla musica country e dal football.

Sorrise sinceramente, lo sguardo perso in un posto lontano. Probabilmente a Lancaster.

-Sì, non cambieranno mai.

Era arrivato il momento di dargli quello che mi ero portata dietro, Jon aveva già adocchiato il sacchetto posato su un angolo del tavolo da quando era entrato nella sala.

-Con il loro aiuto, ti ho fatto questo-annunciai, avvicinadoglielo-Originariamente era incartato, ma gli agenti hanno voluto vedere cosa fosse e l'hanno aperto per te.

Non erano ammesse sorprese in prigione.

-È un regalo?-domandò Jon con gli occhi sgranati.

-È per il tuo compleanno-spiegai.

Il suo sguardo incredulo iniziò a muoversi rapidamente tra il sacchetto e me:

-Non posso credere tu mi abbia davvero fatto un regalo.

-Oh su, davvero?-ribattei-Si ricevono sempre i regali al compleanno.

Per pochi secondi posò lo sguardo su di me e mi resi tristemente conto che non riceveva regali da chissà quanto tempo. Ingoiai con vigore le lacrime che stavano tentando di riaffiorare.

-Allora lo apro.

Prese finalmente in mano il sacchetto e ne estrasse il contenuto. Un libro con la copertina in pelle nera. Lo aprì e comparve una fotografia di lui in fasce, la sua prima foto in assoluto, scattata appena dopo la nascita. Il braccialetto dell'ospedale ancora attorno al minuscolo polso.

-È un album?-domandò con la voce rotta.

-È la tua vita.

Tenne gli occhi fissi sui miei, lo sguardo era così confuso che probabilmente nemmeno lui sapeva cosa stesse provando esattamente. Poi tornò a guardare le pagine, sfogliandole una ad una. La sua storia si spiegò davanti ai suoi occhi. Avevo pensato più e più volte a che regalo fargli ed, essendo stati lontani per così tanti anni, mi era impossibile pensare a qualcosa da comprargli. Ero arrivata a quell'idea grazie ai suoi nonni, avevo unito le fotografie che avevo fatto copiare a Lancaster con quelle che avevo sul mio portatile.

-Questi disegni e scritte li hai fatti tu?-chiese senza alzare lo sguardo.

-Sì, anche se non disegno minimamente bene come te.

-Sono stupendi, silly-mi zittì.

Avevo passato due notti intere a mettere insieme l'album, scrivendo le frasi sulle note del mio cellulare in modo da perfezionarle prima di trasporle sulle pagine completamente bianche. Le fotografie erano incollate e circondati da disegni, abbastanza semplici – semplici motivi – ma colorati in abbondanza.

-Mia mamma-mormorò ad un tratto e la sua voce si ruppe ed iniziò davvero a piangere.

Tenne la testa bassa ed in qualche modo riusciva a non emanare nessun suono anche se le sue spalle sobbalzavano. Allungai una mano e presi la sua, appoggiata sul tavolo e chiusa in un pugno. Le sue dita si aprirono al contatto con le mie e me le strinse forte come se si stesse ancorando a me.

-Ssssh-sussurrai-Tranquillo, andrà tutto bene. Sono qui di fronte a te.

Gli strinsi la mano come per dargli conferma. Inutile dire che dovetti usare tutto il mio autocontrollo per non crollare, dovevo essere forte per lui. Jon stesso sapeva di non potersi lasciare andare troppo in quell'ambiente e cercava di trarre respiri profondi, sempre nel silenzio più assoluto.

-Silly-mormorò, la sua voce tremante ed appena udibile-Questo è il regalo più bello che abbia mai ricevuto.

Mi guardò negli occhi come se potesse avvolgermi solo con lo sguardo. Se solo fossimo stati fuori da lì, l'avrei stretto a me ed avremmo pianto insieme.

Continuò a sfogliare l'album e la sua età avanzava. Inserì fotografie con me, con la mia famiglia. Ovviamente inclusi anche foto con suo padre Elias: loro due mentre giocavano a football nel giardino di casa loro o mentre andavano sul surf. Mentre le guardava, Jon non riuscì a trattenere un sorriso. Era un sorriso amaro, ovvio, ma era sempre un sorriso. Seguirono immagini della sua adolescenza, prese dalla casa dei suoi nonni. Avevo chiesto anche a Joe di inviarmi tutto il materiale che avesse a disposizione ed ero riuscita ad inserire molte fotografie sia con lui che anche con Lauren. Nonostante le vibrazioni non troppo positive che avevo percepito con lei, era comunque molto importante per Jon e non potevo non includerla in quel progetto. Infine, lui in toga e tocco al diploma ed una copia della mia striscia di fototessere scattate proprio lì il giorno di Capodanno. Ci avevo annotato la data a margine, per non dimenticarla mai. Sull'ultima pagina, una dedica:

A te che hai mosso i primi passi insieme a me, a te che mi sei sempre stato accanto. Mio primo alleato, compagno di avventure, mio cavaliere dalla splendente armatura. Il nostro legame si è rivelato più profondo dell'oceano. Grazie di avermi richiamata a te, grazie di avermi riportata a casa. Sarò sempre al tuo fianco, sarai sempre nel mio cuore. Ovunque saremo, saremo insieme.

Jon alzò finalmente lo sguardo, aveva ancora gli occhi lucidi ma aveva trovato la forza per controllarsi.

-Insieme per sempre, silly.

 

Quando l'agente dichiarò scaduto il tempo, Jon ed io ci guardammo come se dovessimo dirci addio per sempre. Ormai non avevamo più lacrime da versare, ma nel mio cuore si formò un macigno pesante.

-Ci terremo in contatto-lo rassicurai stringendogli le mani-Ti prometto che non ci perderemo. E quando sarai uscito di qui, tornerò a trovarti e potremo andare dove vuoi.

-Ti porterò a cena finalmente-annuì, lo sguardo carico di speranza e tristezza.

-Ed a prendere un gelato-aggiunsi.

Ci alzammo e mi strinse a sé. Non avrei mai voluto lasciare il caldo delle sue braccia ma soprattutto non avrei mai voluto lasciare Jon lì, in quell'ambiente così duro e violento. Avrei voluto mettermelo in tasca, portarlo fuori con me e proteggerlo per sempre.

-Puoi dire tutto ai tuoi genitori-mormorò, la sua voce attutita dalle mie spalle su cui erano pressate le sue labbra.

-Sei sicuro?-gli chiesi, sorpresa.

Poter raccontare la verità ai miei genitori sarebbe stato un sollievo, ma ero pronta a portarmi il suo segreto nella tomba se lui me l'avesse chiesto.

-Sono sicuro.

Poi si staccò da me quanto bastava per guardarmi in viso. Il suo sguardo si posava velocemente su ogni singolo mio particolare, come se volesse imprimermi nella memoria. Quando raggiunse i miei occhi, riconobbi nei suoi una scintilla e capì che tutto quello che avevo provato io, tutti i miei sentimenti confusi, la rabbia, il senso di ingiustizia, il mio amore verso di lui, lo provava anche lui. Se solo mi fossi chinata a baciarlo, ero certa che lui mi avrebbe raggiunta a metà strada. Avremmo potuto sigillare il nostro legame, lui avrebbe avuto un porto sicuro in cui fuggire anche solo col pensiero, io sarei tornata definitivamente a casa. Ma mi tornarono in mente le parole di Rachele, Jon non poteva assolutamente permettersi di perdermi al momento e, con una situazione così incerta, poteva essere rischioso fare un passo troppo lungo. Aveva già sofferto abbastanza, non volevo rischiare di ferirlo e lasciarlo solo di nuovo.

Così, per proteggerlo, trovai la forza di separarmi da lui.

-Ci vedremo presto, lo so-affermai, accarezzandogli delicatamente la guancia.

La sua pelle era morbida e le mie dita apparivano bellissime sulle sue lentiggini, come se quella fosse la loro naturale collocazione.

-Te lo prometto-ricambiò con un filo di voce.

Si infilò una mano in tasca ed estrasse una busta di carta.

-Ti ho scritto questa-disse-Leggila quando sei sull'aereo.

La presi tra le mani, sul retro c'era scritto solo Silly.

-Grazie-mormorai-Grazie di tutto. E buon compleanno per domani.

-Grazie a te.

Gli agenti richiamarono nuovamente i detenuti. Lui mi baciò sulla fronte e dovette strizzare gli occhi per non piangere. Iniziò ad incamminarsi ed io gli tenni stretta la mano finché fummo troppo lontani per toccarci ancora. La guardia gli mise le manette ai polsi ed i suoi occhi erano ancora fissi nei miei. Lo seguì con lo sguardo finché non fu sulla soglia, si girò a guardarmi per l'ultima volta prima di scomparire.

 

 

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Capitolo 16
*** Since ever forever ***


Prima che McKenna mi accompagnò in aeroporto, volli fare un ultimo giro a Wildomar. Quella volta da sola.

Ero tornata al cimitero, a Larkspur Drive. Ero passata di fronte alla Elsinore High School, dove avevo immaginato Jon giocare a football e tenere il discorso principale durante la cerimonia del diploma. Avevo visitato il parco giochi dove Jon ed io andavamo sempre da piccoli, non lontano da casa nostra. Era un piccolo parco di provincia, con un paio di altalene, uno scivolo ed un dondolo a due posti, ma era il nostro mondo una volta. Sotto uno di quegli alberi, ci eravamo scambiati il nostro primo bacio. Avevo sempre immaginato che sarebbe stato lui il fortunato e non potevo partire per l'Italia senza realizzare il mio sogno. Due ore dopo, i miei genitori, Lorenzo ed io scomparivamo dietro il vetro all'aeroporto.

Prima di lasciare Wildomar, ero andata a far visita alla famiglia di Joe. I suoi genitori vivevano nella stessa villetta in cui lui era cresciuto. Mi avevano chiesto di restare a cena, avevano chiamato Joe perché ci raggiungesse da Los Angeles e ci eravamo rimpilzati di tacos ed enchilladas.

Seduta sul sedile posteriore dell'auto di Joe, in viaggio verso Los Angeles, guardai il cielo buio: le stelle splendevano come quando le guardavo da bambina.

 

-Mi mancherai tantissimo-farfugliò McKenna in un lamento-Ricordati che puoi venirmi a trovare quando vuoi.

Ci stringemmo in un ultimo lungo abbraccio – lì almeno non avevamo limiti come in prigione – e la ringraziai mille volte di tutto.

-Anche voi, venite a Milano quando volete-invitai-Sarete miei ospiti.

Abbracciai anche Ryan, mi ancorai alla maniglia del mio trolley arancione e mi avviai verso i controlli di sicurezza.

 

Quando il segnale luminoso che indicava le cinture di sicurezza sull'aereo si spense, presi il mio zaino da sotto il sedile ed estrassi la busta che mi aveva dato Jon. La rigirai tra le mani e mi chiesi cosa stesse facendo lui in quel momento. Me lo immaginavo tra le quattro mura della sua cella, nella sua uniforme blu a discutere con gli altri detenuti. Il tono di voce alto ed il viso serio per nascondere la sua vulnerabilità. Quell'ultimo giorno in prigione, mi aveva chiesto a che ora fosse il mio volo. Aveva promesso che mi avrebbe pensato così intensamente che, se avessi chiuso gli occhi e mi fossi concentrata, avrei potuto sentirlo. Leggendo Silly sulla busta, scritto con la sua aggraziata ed elegante calligrafia, mi sembrò quasi che fosse lì con me.

Aprì la busta e caddero due fogli. Il primo era un disegno. Un mio ritratto a matita, realizzato con la tecnica del chiaro scuro. Non aveva mie fotografie recenti, se non le fototessere piccole e mosse, ed ovviamente non avevo mai posato per lui perciò quel ritratto era frutto della sua fantasia. Ma era perfetto, si era persino ricordato di inserire il piccolo neo sotto il mio occhio sinistro. Nel disegno sorridevo ed avevo la testa leggermente rivolta di lato. Sembravo serena. Ero felice che mi pensasse così. In basso a destra, la sua firma: Jonathan Forrester scritto minuscolo ed in corsivo.

Il secondo era una lettera.

 

Cara silly,

è strano tornare a scriverti una lettera dopo aver avuto la possibilità di vederti di persona, di poter stringere le tue mani nelle mie e guardarti negli occhi.

Rivederti è stata l'esperienza più bella che mi potesse accadere. Sei esattamente come ricordavo e come speravo che fossi: bellissima, intelligente, forte e sensibile. Sono certo che se mia madre fosse ancora in vita, sarebbe stata orgogliosa di te. Perché io lo sono davvero.

Mentre io cercavo disperatamente di tenere insieme la mia famiglia, dall'altra parte del mondo tu stavi cercando di rimettere insieme i pezzi per adattarti alla tua nuova vita e superare quanto ti fosse successo. Se fossimo stati insieme, ci sarebbe bastato trovarci davanti ad un gelato per dimenticare i nostri dolori. Avremmo superato ogni ostacolo insieme e sarebbe stato tutto più semplice. Questa possibilità ci è stata tolta in passato, ma non vuol dire che non possiamo recuperare adesso. Ti prometto, silly, che finché vivrò potrai sempre contare su di me. È vero, siamo lontani, ma tu sei sempre nel mio cuore e nei miei pensieri. Da sempre e per sempre.

Credo che le parole non siani sufficienti a ringraziarti per aver fatto questo viaggio. Hai accettato di venire qui durante le Feste, nonostante la tua famiglia fosse oltreoceano, e sei venuta ad incontrami in una prigione. Non hai idea di cosa abbia significato per me. Sentivo di non valere più niente, di non meritarmi niente. D'altronde uno che finisce dietro le sbarre cosa può pretendere? Quando ti ho scritto per la prima volta, nemmeno pensavo che mi avresti risposto. Ed invece mi hai raggiunto, mi hai trovato nell'oscurità e mi hai preso per mano. Perciò grazie, silly, grazie di cuore.

Vorrei che le circostanze ci permettessero di tenerci in contatto più facilmente. Non hai idea di quanto mi si stringa il cuore al pensiero di non poter essere libero di chiamarti per sentire la tua voce, di mandarti il messaggio della buonanotte o del buongiorno o di scriverti un messaggio di incoraggiamento prima di un tuo esame universitario. E mi dispiace che, durante queste due settimane, non ho potuto essere lì con te giorno dopo giorno per esplorare insieme la nostra California. Ma ti prometto che recupereremo. Non appena potrò, verrò a trovarti in Italia e ti lascerò trascinarmi ovunque vorrai. E se nel frattempo tornerai qui a trovarmi, sarò la tua guida.

E ti abbraccerò, tanto. Non avevo mai dato troppa importanza agli abbracci finché non li ho persi. Ti ricordi, quando ero bambino adoravo stare in braccio a chiunque. Era il mio porto sicuro ma lo davo per scontato. Anche quando persi mia madre, c'era la tua pronta ad accogliermi. Ma, dopo la vostra partenza, rimasi circondato da uomini troppo chiusi nei loro problemi (e nella loro mascolonità) per lasciarsi andare a certe frivolezze. Persino la ragazza con cui stavo durante gli anni delle scuole superiori era troppo sostenuta per gli abbracci. Finché non sei tornata tu, silly, e, anche se i nostri abbracci non potevano essere lunghi, mi hai trasmesso tutto il calore della nostra infanzia. Dentro le tue braccia ho ritrovato il porto sicuro che avevo smarrito da tempo, non mi sono sentito più solo, mi sono sentito di nuovo a casa. Spero che per te sia stato lo stesso.

Se hai rispettato le mie istruzioni, sarai in aereo in questo momento. L'altro giorno mi hai confessato che in realtà hai paura di volare, ma ti costringi ad affrontarla perché non puoi smettere di viaggiare. Bene, silly, se in questo momento avrai paura, chiudi gli occhi e pensami forte. Sarò lì con te, come sempre, a darti forza. In cielo sarai anche più vicina a mia madre e so che lei ti protegge. Perciò non preoccuparti, prendi un respiro profondo. Andrà tutto bene.

Ci rivediamo presto,

Jon.

 

Chiusi gli occhi e pensai a lui instensamente. Era lì accanto a me, da sempre e per sempre.

 

Quella sera, dopo che avemmo finito di cenare, chiesi alla mia famiglia di rimanere seduta al tavolo della cucina.

-Devo parlarvi di una cosa-annunciai.

-Di cosa?-domandò mia madre, intenta a raccogliersi i suoi boccoli d'oro in una coda alta.

-Devi dirci quanti ragazzi ti sei fatta in California?-azzardò Lorenzo ma si beccò un'occhiataccia da parte di nostro padre ed un mio calcio da sotto il tavolo.

-Volevo parlarvi di Jon-conclusi.

-Di Jon?-ripeterono i miei in coro.

-Sì-annuì-Ci siamo ritrovati.

Posai sul piano di legno chiaro la mia striscia di fototessere ed iniziai dal principio. Quando ebbi finito il racconto, i miei genitori si guardarono seri da un capo all'altro del tavolo. Lo sguardo di Lorenzo, i suoi occhi erano verdi come i miei, balzava da un lato all'altro come se stesse guardando un incontro di ping pong.

-Quel ragazzo è rimasto praticamente da solo-sospirò mia madre infine.

-Già-concordai-Ma, ora che l'ho ritrovato, non lo lascerò più solo.

I miei si guardarono di nuovo negli occhi.

Quella sera, prima di andare a dormire, i miei genitori mi richiamarono nel loro ufficio posizionato tra la cucina ed il bagno. Le pareti erano bianche ma il soffitto era affrescato, come quello della loro camera da letto. In molti palazzi storici era lo stesso, anche in quello della famiglia di Rachele e Gianluca.

-Cosa c'è?-chiesi, avvicinandomi alla loro scrivania.

-Hai modo di sentire Jon?-mi domandò mia madre.

-Devo aspettare la prossima volta che mi chiama dalla prigione-risposi-Perché?

-Se lo senti entro questa settimana-annunciò mio padre-Digli che settimana prossima tua madre ed io saremo lì a Los Angeles.

 

 

 

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