Lena ed Aine

di E_AsiuL
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Something to remind you ***
Capitolo 2: *** 1 - The Suicider ***
Capitolo 3: *** 2 - Father's son ***
Capitolo 4: *** 3 - Brother ***
Capitolo 5: *** 4 - Moonlight Sonata ***
Capitolo 6: *** 5 - Angels fall first ***



Capitolo 1
*** Prologo - Something to remind you ***


Prologo - Something to remind you
 

So when the day comes
And the sun won't touch my face
Tell the ones who care enough
That I finally left this place
That's been so cold
Look at my face
All the stories it will tell I can't erase…
(Staind - Something to remind you)

Aine era stanca.

Stanca di tutto e tutti. Stanca della vita che faceva. Qual era lo scopo di tutto quello che aveva passato nei suoi seicento anni? Aveva perso così tanto è guadagnato così poco… aveva perso la maggior parte della sua famiglia, tranne Marge e Adam, aveva perso i suoi amici. Sì, aveva conosciuto tantissime persone, solo per doverle perdere, prese dal freddo e implacabile bacio della morte. E aveva perso lui. L'unica persona che avesse davvero contato qualcosa per lei. L'unica persona che avesse davvero amato. L'unica persona che fosse stata in grado di farla sentire umana, quando non lo era più stata. Che l’amava, anche quando era diventata il mostro che era ancora.

Aine sospirò e guardò l'orologio. Era ancora presto. Era abbastanza vecchia - antica - da svegliarsi prima del tramonto, ma non abbastanza da rischiare di esporsi al sole. La magia del suo sangue era ancora troppo “giovane”, le aveva detto Viktor, il suo maestro di magia, ogni volta che gli aveva chiesto una spiegazione. Sbuffò. Aveva seicentoventotto anni, non c'era niente di “giovane” in lei, tranne il suo aspetto. Continuava ad apparire come se avesse diciannove anni - l'età in cui era morta - forse anche più giovane. Probabilmente perché era bassa, magra e col viso d'angelo, le diceva Adam. Non che potesse vedere il proprio viso. Ne aveva perso la possibilità seicentonove anni prima. Gli specchi non la riflettevano più. Non che le importasse. Non le era mai piaciuta, la sua faccia. Le sopracciglia dritte. Gli occhi grandi e troppo chiari, glaciali. Avrebbe preferito l'azzurro cielo di sua sorella, invece di quella sfumatura strana tra grigio e blu che aveva lei. Non le piaceva il suo naso troppo sottile o le labbra. Aine pensava fossero troppo piene. A lui piaceva baciarle e morderle, e lei glielo lasciava fare. E guardarla negli occhi, dicendole che avrebbe potuto annegarci dentro e sarebbe stato felice. Lei gli sorrideva e gli dava dello sciocco e poi ridevano.

Aine chiuse gli occhi con forza. Non voleva piangere, non di nuovo. Lo aveva sognato, di nuovo, tutto il giorno, e questo le aveva incasinato l'umore. Non che prima di addormentarsi fosse felice. Non era davvero felice da secoli, ma ci aveva provato. Ma sognarlo, i suoi occhi che la guardavano con tutto quell'amore, il suo sorriso, le sue braccia che la stringevano forte, così forte, il suo cuore che le batteva contro la guancia… faceva male. Faceva così male, e lei era così stanca…

Aveva deciso: si sarebbe uccisa.



A/N: ciao! Giusto una cosina allegra, siccome il clima, ultimamente, è fin troppo leggero e festaiolo, no? Scherzi a parte, ho ritrovato gli appunti di questa storia, ho ricominciato a lavorarci e... mi farebbe piacere un parere. Ho qualche capitolo già pronto, per cui per un po' dovremmo star tranquilli (se scopriamo che vi piace e vi va di leggerla), intanto proverò a continuare e a viaggare verso il finale. 
Posso abbracciarvi virtualmente?

 

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Capitolo 2
*** 1 - The Suicider ***


1 - The suicider
I live to kill and kill to live
I long for dying endlessly
(Sentenced - The Suicider)

 
Il lungo corridoio della fortezza era freddo e buio, come sempre. Sottoterra, non aveva potuto essere altrimenti. E con tutti quei vampiri in giro, l'oscurità era necessaria. A guardarla, la fortezza sembrava venire direttamente dal Medio Evo: pietra scura, mura spesse, torri, ponti levatoi. Ma dentro era tutta un'altra cosa: elettricità, arredamento moderno, ascensori, sale computer… non mancava nulla.

Aine percorreva il corridoio, illuminato solo da qualche lampadina nuda che pendeva dall’alto soffitto. Il suono dei tacchi dei suoi stivali rimbalzava sulle pareti. Odiava quegli stivali, erano scomodi e inutili in battaglia, ma facevano parte dell'uniforme - corpetto e pantaloni di pelle scricchiolanti - ed era costretta a indossarla nelle occasioni formali, insieme a un mantello che cadeva di lato, lasciandole scoperto il braccio destro, a mostrare la rosa nera che aveva tatuata sulla spalla. Il braccio era l'unica cosa che si vedesse, di lei, dato che aveva il viso nascosto dalle ombre del cappuccio e dietro la sua solita maschera. Nessuno, a parte i familiari più stretti - e lui - aveva visto la sua cicatrice ed era vissuto abbastanza a lungo da raccontarlo. Era una brutta cicatrice, che andava dal sopracciglio destro fino all'angolo della bocca, storcendola appena verso il basso. Fortunatamente, l'occhio era stato risparmiato dalla lama che l'aveva causata. Ovviamente, anche la persona che l'aveva sfregiata non era vissuta abbastanza a lungo da raccontarlo.

Aine aveva raggiunto la sua destinazione: la sala del trono. Grandi porte di legno, con complicate incisioni, la separavano dal Master. Raddrizzò le spalle, trasse un inutile respiro e mise le mani sulla superficie irregolare del legno, cercando l'interruttore nascosto che avrebbe aperto la porta esterna. Si era sempre chiesta che senso avesse la presenza di una porta esterna quando quella interna aveva più sistemi di sicurezza del caveau di una banca.

L'interruttore nascosto scattò quando lo premette e il legno scivolò di lato, rivelando una spessa porta metallica. Aprire questa era molto più complicato. Aine dovette pungersi il pollice sull’ago nel primo lucchetto - riconoscimento del DNA - e aspettare che la prima luce diventasse verde. Il secondo passaggio prevedeva la scansione dell'iride. Quando la seconda luce divenne verde, Aine passò al terzo e ultimo passaggio: riconoscimento vocale. Dopo aver dichiarato nome e grado, aver aspettato che la terza - e ultima, grazie a Vlad! - luce diventasse verde, la vampira fu ammessa nella sala del trono.

Le due sentinelle dietro la porta si raddrizzarono e irrigidirono al suo ingresso. Erano più alti di lei e più grossi, ma Aine si era guadagnata una certa fama sul campo di battaglia per quanto riusciva ad essere spietata, sia con nemici che amici.

Aine fece loro un cenno di saluto e li superò, i tacchi degli stivali che battevano sul pavimento di pietra. Contro la parete in fondo alla sala, su una pedana, c'era il trono, accanto al quale c'erano due bracieri e altre due guardie statuarie dall'aria seria. Quando Aine avanzò per salutare il Master, le sbarrarono la strada incrociando le lance. Nessuno poteva avvicinarsi troppo al Master.

«Non mi farà del male, lo sapete», disse il Master, ammonendo le guardie, ordinando loro di fare un passo indietro con un gesto vago.

«Grazie Master», disse lei, inchinandosi e poi inginocchiandosi, come di costume. Odiava gli atti di sottomissione, ma o si obbediva o si veniva puniti - il Master amava essere adorato. Ai piedi del trono era accoccolata, con la testa sulle ginocchia del vampiro, la sua amante principale, una rossa che molti avrebbero desiderato avere e nessuno osava guardare.

«Cosa ti porta qui, Capitano?», chiese il Master, accarezzando distrattamente i folti boccoli della sua amante.

Aine sollevò il capo e guardò l'antico vampiro seduto sul trono. I capelli lunghi e bianchi, gli scendevano lisci sulle spalle, incorniciando un volto squadrato in cui gli occhi scuri erano infossati sotto sopracciglia cespugliose. Aine si morse un labbro e rispose, fissando gli occhi nei suoi.

«Ho qualcosa da chiedere, Master. In privato», aggiunse, spostando rapidamente lo sguardo sulle guardie.

Il Master sorrise e fece un cenno con la mano. «Lasciateci. Non ho bisogno di voi con il mio ufficiale più fidato», disse, la voce carica di sarcasmo. Aine era letale in battaglia, ma detestava le regole, se erano fatte da qualcun altro. Pensava che le uniche regole che valesse la pena seguire fossero le proprie, e aveva sfidato l’autorità del Master più di una volta, giudicandolo un cretino che ragionava con l’uccello: l’amante di turno – maschio o femmina non era importante – gli chiedeva qualcosa, batteva le ciglia, e il Master dichiarava guerra a un altro clan, faceva uccidere qualcuno, senza badare al costo. E Aine, più di una volta, aveva detto la sua e, in più occasioni, aveva sfidato il Master. Lui non si fidava di lei, definendola volubile, una vedova addolorata, sempre pronta a uccidere, controllata da rabbia e dolore. Ma la stimava, perché di solito otteneva risultati.

«Anche la vostra amante, se non chiedo troppo», aggiunse Aine, dopo che le guardie ebbero lasciato la stanza con una certa riluttanza.

Il Master alzò un sopracciglio, sorpreso. Aine non aveva mai nessuna considerazione verso le sue – o i suoi – amanti (a parte dirgli che lui non aveva nessuna spina dorsale e che loro lo tenevano per le palle rinsecchite, sempre se ne aveva ancora) e non aveva mai avuto problemi a discutere qualcosa davanti a loro, considerandoli solo dei begli oggetti stupidi.

«D’accordo», annuì, perplesso. Si alzò, prendendo la sua amante per mano e facendola alzare. «A dopo, amore mio», disse, baciandole le mani e indicandole la porta laterale.

Aine si alzò, mentre il Master si sedeva di nuovo. «Allora?» chiese lui, impaziente e un po’ spaventato. Il momento era arrivato, allora. Il suo sguardo non prometteva niente di buono, dietro quella maschera. Lo aveva fregato, con tutta quella serietà, per sbarazzarsi di ogni testimone e ucciderlo una volta per tutte?

Aine sospirò, le dita al bordo della maschera. «Ho bisogno di un ordine di esecuzione per un membro del clan», disse, dopo un po’.

Il vampiro attese con una certa ansia che lei dicesse il nome, temendo di sentirle dire: “Voi!”

«Chi deve essere giustiziato?» chiese, stringendo i braccioli del trono.

«Io, Master. Voglio morire», confessò.

Il Master era incredulo. Rimase lì, ad occhi sgranati, quasi a bocca aperta. La sua assassina, il suo boia, il soldato più assetato d sangue del suo esercito, voleva morire. Riprese rapidamente contegno, pur chiedendosi le ragioni di questa decisione. Non era stato lui a crearla, lei era arrivata al suo clan, ma conosceva gran parte del suo passato. Sapeva che piangeva ancora la morte del suo promesso, e che aveva rifiutato ogni vampiro che le si era proposto, restando fedele alla sua memoria e, dopo lo stupore iniziale, intuì che quella fosse la ragione. Era stanca di piangere e voleva farla finita. Ma doveva chiedere.

«Perché?» sembrava una parola così vuota, una domanda così futile, quand’ebbe lasciato la sua bocca, ma doveva chiedere. E il suo meschino desiderio di vendetta ebbe un po’ di soddisfazione nel vederla stringere i pugni così forte da farle tremare le braccia.

«Sono stanca, Master. Ho vissuto abbastanza», rispose, secca. Non voleva dare troppe informazioni, il suo dolore era solo suo, niente che interessasse il Master.

Il Master rifletté su quella risposta: aveva ragione. Era stanca di piangere. Accordarle la sua richiesta sarebbe stato giusto: non era la prima con tale desiderio e aveva sempre accontentato tutti. Ma, con lei, era un peccato. Il Master pensò che avrebbe potuto provare di più, cercare di andare avanti, avere una vita al di fuori del lavoro, vivere fuori dal dolore. Ma aveva scelto di vivere dentro il suo dolore, lasciando che la consumasse. Con un sospiro, il Master annuì.

«Avrai il tuo ordine di esecuzione. Hai un mese per fare i tuoi addii», disse. «Puoi andare, ora», la congedò.

Inchinandosi di nuovo, Aine si voltò e lasciò la sala del trono.

 
Aine corse per i corridoi, rischiando le caviglie su quegli stivali ridicoli. Raggiunse la sua stanza ed entrò, sbattendosi la porta alle spalle e inserendo ogni possibile allarme anti-intrusione. Si strappò di dosso maschera e uniforme e si gettò sul letto. Un mese. Il suo ultimo mese.

«Aspettami solo un altro po’… sto arrivando, Alex. Sto arrivando…»

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Capitolo 3
*** 2 - Father's son ***


2 – Father’s son
He said don’t try to scream now
‘cause I want this one to hurt
And tonight my pretty one
I’m gonna get my money’s worth
(Three Doors Down – Father’s Son)
 
Faceva freddo, quella notte, e Lyv non sognava altro che un fuoco a scaldarla. Qualcuna delle ragazze più fortunate era riuscita a procurarsi dello sciacquabudella, per riscaldarsele, le budella, ma lei non era tra loro.
Era una delle più belle del suo gruppo, e quella era una maledizione, più che atro: il suo aspetto le portava più clienti che alle altre, e, al mattino, era sempre dolorante, alle volte sanguinava, e non aveva il tempo di respirare tra un uomo e l’altro, figurarsi darsi una ripulita.

Odiava quello che era diventata dopo essere scappata dalla casa di suo padre, ma battere le strade era meglio di qualsiasi cosa – e qualsiasi uomo – il suo vecchio avesse in serbo per lei. Lyv non voleva sposarsi per riprodursi, come un cavallo. Per cui, una notte, aveva fatto un fagotto delle sue cose ed era scappata. Ed era finita senza soldi né amici, a vendersi in un angolo.

Sospirò, muovendosi per non congelare. La primavera tardava a venire, ma il suo ultimo cliente no: tre spinte poco enfatiche e aveva finito, pagandola anche troppo poco. Per lo meno, l’aveva pagata. C’erano notti in cui qualcuno aveva pensato che si offrisse per carità cristiana, o l’aveva picchiata, rifiutandosi di pagare. Poi c’erano quelli che le regalavano qualcosa: un braccialetto, perle, anelli, profumi… che non sempre servivano a pagare quelle sottospecie di stanze dove lei e le altre dormivano, ammassate su squallidi materassi di paglia pieni di pulci. Sospirò di nuovo, passandosi le mani sulle braccia per scaldarsi. Si guardò intorno, chiedendosi se, per quella notte, non si sarebbe più fatto vivo nessuno. Se si sarebbe fatto vivo lui.

Aveva detto di chiamarsi Bryan, e di non essere della zona. Ogni volta, l’aveva portata con sé nella locanda dove diceva di alloggiare, le aveva chiesto l’onore di offrirle un piatto caldo e un bicchiere di vino, e poi l’aveva portata in camera, pagando bene per i servigi ottenuti. Erano due mesi che veniva a cercarla – lei, sempre lei, solo lei – a intervalli di pochi giorni, e Lyv era sempre più impaziente dopo ogni loro incontro. Quel giovane era stato l’amante più gentile e premuroso che avesse mai avuto – e non solo perché la rifocillava. In quella stanza in affitto nella locanda, Bryan non la usava come gli altri clienti, ma la trattava con un certo rispetto. E Lyv non aveva tardato ad innamorarsi di quel giovane che veniva da fuori città, sperando che l’avrebbe portata via con sé e magari fatto di lei sua moglie. Poi si svegliava dalle sue fantasticherie e si rendeva conto che nessuno avrebbe mai sposato una prostituta. Nemmeno se di buona famiglia.

Dei passi la fecero voltare. Passi che si avvicinavano rapidamente. Un delle altre ragazze cercò invano di attirare l’attenzione del giovane bruno, ma questi aveva occhi solo per Lyv. Lyv, che si produsse nel primo, vero, sorriso della serata, quando lo riconobbe.

«Bryan…» sussurrò, quando questi fu a pochi passi da lei, il cuore che le galoppava nel petto e lo stomaco che si scaldava alla sua vista più di quanto avrebbe fatto con una bottiglia del liquore delle altre ragazze.

«Perdona la mia assenza, angelo», le rispose lui, prendendole le mani fra le sue e portandosele alle labbra. Al gesto, Lyv arrossì, resistendo alla tentazione di sottrarre le mani a quelle del giovane e coprirsi le guance in fiamme.

La ragazza abbassò lo sguardo, cercando di nascondere un sorriso alle parole del giovane. Scosse la testa. «Non fa niente», bisbigliò, il cuore che minacciava di risalirle la gola e uscire fuori ad ogni parola.

«Posso portarti via con me, stasera?» le chiese lui, fissando gli occhi scuri in quelli chiari di lei, cercando un indizio sulla sua volontà. Lyv annuì entusiasta: stava gelando, aveva fame e un disperato desiderio di acqua e sapone, oltre che di lui. Bryan le sorrise, porgendole il braccio.


Il calore della locanda fu una benedizione per le membra intorpidite dal freddo della ragazza. Varcata la soglia, Lyv chiuse per un attimo gli occhi, inspirando a fondo il profumo di cibo, l'odore della legna che ardeva nel camino. Espirò con un mugolio di piacere. Al suo fianco, Bryan ridacchiò.

«Vieni, ti porto in camera. Ti faccio preparare un bagno caldo e qualcosa da mangiare», le disse, sospingendola verso la scala con una mano sulla schiena. Lyv aprì la bocca per protestare verso tutte quelle premure, ma lui la zittì con un dito sulle labbra. «Lascia che mi prenda cura di te, stanotte», disse, per poi spostarle la mano dietro la nuca, attirando il suo viso verso il proprio. Lyv sentì le ginocchia venirle meno quando lui le premette le labbra all'angolo della bocca.

«Va bene», riuscì a sospirare, i loro volti ancora vicini, gli occhi catturati de quelli del giovane.

Bryan annuì, un lampo negli occhi scuri. «E nessuna cameriera. Voglio essere io a toglierti questo vestito e lavarti via gli altri uomini di dosso», le soffiò in un orecchio. A quelle parole, Lyv era certa di avere le guance – e non solo – alla stessa temperatura dei ciocchi nel camino.

Appena entrata nella stanza, l'attenzione di Lyv venne attirata dal letto. Enorme, pieno di coperte e cuscini, e dall'aria estremamente confortevole, le faceva desiderare ardentemente di non dover mai tornare al suo misero pagliericcio. Di fronte al letto, il camino acceso lanciava bagliori nella stanza, riscaldandola. Non lontana dal camino, la vasca piena d'acqua da cui salivano invitanti volute di vapore e sali profumati. Alle sue spalle, Bryan armeggiava con i chiavistelli della porta, chiudendo il resto del mondo fuori. Ma quale resto del mondo? Non esisteva niente e nessun altro, solo loro due, quella stanza, quella notte. Si voltò verso di lui, tendendogli una mano, che il giovane prontamente prese baciandone le nocche. Tenendola per mano, la attirò a sé, stringendola.

«Non vedevo l'ora di rivederti», le sussurrò, sfiorandole i capelli biondi. «Questi giorni sono stati un'agonia...», confessò.

«Anche per me», ammise lei, poggiandogli le teste sulla spalla e inspirando il suo odore, assorbendo il suo calore.

Bryan le passò le mani sulle braccia, salendo dai polsi verso le spalle, fino al collo, le nuca. Cercò le forcine che le imprigionavano i capelli e le sfilò una per una, facendole cadere a terra. Ad occhi chiusi, Lyv le sentì tintinnare contro il pavimento, mentre le ciocche bionde ricadevano lungo la schiena. Il giovane fece un passo indietro per guardarla. Aprendo gli occhi per ricambiare il suo sguardo, a Lyv si mozzò il respiro in gola per la fame che poteva leggere nelle iridi di Bryan, che non fece che alimentare la sua.

«Devo farti uscire da questo vestito...», bisbiglio lui, più a se stesso che alla ragazza, chinandosi ai suoi piedi e sollevando l'orlo della gonna per sfilarle le scarpe. Quando le sfiorò le gambe per liberarla delle calze, Lyv fu certa che, se non si fosse appoggiata alle sue spalle, le ginocchia le avrebbero ceduto.

Bryan si rialzò, portando le mani ai lacci del vestito, esitando in attesa di conferma. Quando Lyv annuì, prese a sciogliere i nodi.

La carezza della stoffa che scivolava sul pavimento a formare una pozza blu intorno alle sue gambe nude le fece correre un brivido lungo la schiena. Davanti a lei, Bryan percorreva il suo corpo con lo sguardo. La curva delle spalle. Il seno che si alzava ed abbassava rapido col suo respiro accelerato, la vita stretta e la lieve curva del ventre. I fianchi, le gambe. Di nuovo, rabbrividì. E non era per il freddo.

«Dio, sei così bella…» sospirò Bryan, a sua volta a corto di fiato. Ogni volta che la guardava, scopriva un dettaglio nuovo che lo faceva impazzire. Il colore perfetto della sua pelle, così chiara. Quelle lievi lentiggini sul naso e sulle guance. Il biondo dei suoi capelli così vicino al colore del grano, che, insieme agli occhi, gli ricordava le estati assolate piene di cieli tersi. Il neo al centro del petto, alla stessa distanza da entrambi i seni, che gli riempivano le mani come se fossero stati creati solo per quello scopo. L’ovale perfetto del suo ombelico. L’odore della sua pelle, il suo sapore. Com’era calda e morbida fra le sue braccia, come il suo corpo lo accoglieva. Ingoiò rumorosamente, già pregustando il momento in cui l’avrebbe fatta sua e quanto sarebbe stato dolce il suo nome su quelle labbra, i suoi ansiti, i suoi gemiti. La sollevò fra le braccia, portandola alla vasca e deponendola piano nell'acqua che, ormai, non era più bollente, ma ancora piacevolmente calda.

Lyv chiuse gli occhi, sospirando. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta che si era potuta concedere il lusso di un bagno caldo. Sempre di corsa, sempre al verde, una cosa che, nella sua vita di prima, le era parlato da così scontata, ora era diventata qualcosa che non riusciva più a permettersi. Qualcosa che poteva solo sognare. Si lasciò andare contro la vasca, beandosi della carezza dell’acqua. Sentì appena, alla propria destra, il fruscio della stoffa della camicia di Bryan, mentre il giovane se la sfilava, e il lieve tonfo delle sue ginocchia sul pavimento, quando si inginocchiò accanto alla vasca. Riaprì gli occhi quando sentì l’acqua muoversi perché lui vi aveva immerso una pezza, che teneva saldamente in mano. Annuì quando incontrò il suo sguardo, senza dargli il tempo di formulare la sua richiesta, e si sistemò meglio contro la vasca mentre, con solerzia e diligenza, Bryan prese a sfregarle la pezza sul corpo. Sulle spalle, le braccia. Il collo, la gola. La schiena. Di nuovo le spalle. Lentamente, indugiò sui seni, uno per volta, mandandole scariche dritte al ventre. Si morse un labbro e quasi sbuffò di disappunto quando, abbandonando l'addome, lui passò direttamente alle gambe. Tornato alle ginocchia, con un sogghigno il giovane seguì lentamente la curva delle cosce, per poi abbandonare la pezza in favore delle mani.

«Era questo, che aspettavi?» le chiese, mentre la accarezzava.

Incapace di rispondere, Lyv si limitò ad annuire, persa nelle sue carezze. Godendosi ogni gemito che riusciva a strapparle, Bryan lasciò scivolare due dita dentro di lei, fermandosi solo quando, in preda al piacere, lei urlò il suo nome. Ritirò la mano, guardandola riprendere fiato nell'acqua che stava diventando fredda. Si alzò, tendendole una mano. Quando pensò di potersi fidare delle proprie gambe, Lyv si alzò a sua volta, accettando la mano che le offriva per aiutarla a scavalcare il bordo della vasca.

«Per quanto non vorrei far altro che succhiarti via ogni goccia d'acqua dalla pelle, sarebbe meglio un telo, non credi?» le suggerì, offrendole l'asciugamani che era stato lasciato sullo schienale della sedia accanto al camino.

Lyv si avvolse nel telo, per quanto avrebbe preferito di gran lunga l'altra opzione, la cui sola idea l'aveva scaldata più del bagno e del fuoco che continuava a scoppiettare, e anche del vino bevuto a cena. Premendosi l'asciugamani sul corpo per eliminare più acqua possibile, la ragazza si chiese se la loro serata fosse finita lì, soprattutto perché Bryan si era allontanato da lei per andare a rovistare tra le proprie cose. Con un leggero disappunto, Lyv immaginò che stesse cercando di che pagarla per poterla congedare, e mosse un paio di passi con l'intenzione di raccogliere il vestito, ricomporsi e tornare in strada. Bryan si voltò verso di lei, con un ampio sorriso e un gioiello fra le mani.

«Volevo darti questo», le disse, mostrandoglielo. Era una sottile catenina d’oro con appesa una piccola pietra azzurra. «Spero ti piaccia. L’ho vista e ho pensato ai tuoi occhi», aggiunse, nascondendo l’imbarazzo.

«È bellissima», rispose lei, sfiorando appena il regalo. Era quello, il prezzo della sua compagnia, quella volta? D’altronde, le era andata fin troppo bene: Bryan l’aveva sfamata, le aveva concesso un bagno caldo e si era occupato di lei, e non aveva voluto nessun servigio in cambio, non aveva diritto di lamentarsi. «Ma... non posso accettare», protestò. «Non ho... fatto niente, per te...», ammise. Per tutte risposta, Bryan rise.

«Oh, Lyv… non ti sto pagando. È un regalo», spiegò, chiudendole la catenina intorno al collo e sistemandole la pietra nell’incavo fra le clavicole. Lyv lo guardò perplessa. «Abbiamo ancora tutta la notte, poi…» le sussurrò, le labbra a un soffio dalle sue.

Lyv sentì di nuovo il cuore impazzire nel petto. Tutta la notte? Tutta la notte! Non avrebbe potuto dirle nulla di più bello, tranne forse che, al mattino, l’avrebbe portata via con sé e che sarebbe stata sua per sempre. Si sarebbe accontentate anche di essere soltanto una serva, un’amante con cui passare qualche notte quando una moglie che nemmeno era certa lui avesse si fosse rifiutata di concedersi. Perché lei mai e poi mai gli si sarebbe negata, no. Non a lui. Gli gettò le braccia al collo, stringendolo a sé e baciandolo con quanto impeto e passione riusciva, desiderando che il telo in cui era avvolta sparisse, che i calzoni di Bryan si dissolvessero, e che fra loro non ci fosse più nulla, solo la loro pelle, le lenzuola sotto la sua schiena, Bryan sopra di lei, lei gambe avvolte ai suoi fianchi, a tenerlo contro di lei, dentro di lei, prigioniero per sempre.

«Ti prego…» ansimò, quando si separarono per respirare.

«Sì», rispose lui, strappandole di dosso il telo e sollevandola per i fianchi. Lyv gli avvolse le gambe intorno al corpo come aveva appena immaginato di fare, e quasi sobbalzò quando sentì contro di sé il rigonfiamento nei suoi calzoni. Gli poggiò la testa sulla spalla mentre, in due rapidi passi, lui raggiunse il letto, lasciandola andare sul materasso.

«Hai idea di quanto ti voglio?» le chiese, scostandole una ciocca umida dal viso e scrutandola con quegli occhi così incredibilmente scuri.

«Quanto io voglio te», rispose lei, sporgendosi quel tanto che bastava a catturare di nuovo la sua bocca.

Bryan non di fece pregare. La spinse sul letto, continuando a divorarle la bocca, passandole le mani sul corpo ovunque riuscisse. Lyv allungò le mani su di lui, cercando disperatamente di arrivargli ai calzoni, per fare loro fare la stessa fine della camicia, del telo e del vestito. Bryan si scostò da lei, allontanandole le mani.

«Guarda che non scappo» la canzonò, accontentandola e restando nudo. Dal canto suo, Lyv si sistemò sui cuscini, spalancando le gambe quanto più le era possibile, invitandolo a farla sua in fretta. A quella vista – lei, così offerta, i seni sodi che si alzavano e abbassavano veloci, le punte turgide che non aspettavano altro che essere tormentate dalla sua bocca o dalle sue mani impazienti, il suo sesso caldo e umido che lo chiamava – pensò quasi di non poter resistere un attimo in più. Doveva prenderla, ora, subito, affondare in lei anche se non fosse stata completamente pronta. Anche a rischio di farle male. Trattenne l'impulso, chinandosi di nuovo su di lei, scendendo dalla bocca alla gola, andando a tormentate i seni – quei seni che sembravano urlargli “mangiaci, mordici!” – con la bocca, la lingua, i denti, strappandole ansiti e gemiti che gli arrivavano dritti al membro teso. Scese ancora, ignorando le proteste del proprio corpo – prendila! Prendila! – e affondò la testa fra le sue gambe. Fu ricompensato per le sue cure da vocalizzi estatici ed esortazioni a non fermarsi. Le strinse i fianchi con le mani mentre il piacere la faceva contorcere e solo quando lei si fermò ansante si sollevò, allineando i fianchi ai suoi e prendendole con foga, con un’irruenza mai avuta, non con lei. Con una mano le stringeva un seno, mentre spingeva i fianchi contro i suoi. La vide chiudere con forza gli occhi, seppe di starle facendo male, ma non si fermò. Le prese una gamba, portandosela verso la spalla, affondò di più di lei, ancora e ancora, più forte che poté, fino a svuotarsi dentro di lei. Col fiato corto, si lasciò andare accanto a lei, un seno ancora stretto fra le dita. Si sollevò quel tanto che bastava per morderle l'altro fino a farla genere di dolore.

«Mia…» mormorò. «Solo mia».



A/N: c'è nessuno? Battete un colpo!

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Capitolo 4
*** 3 - Brother ***


​3.Brother ​

You were always so far away
I know that pain
But don't you un away
Like you used to do
(Alice in Chains - Brother)
 
Era quasi mezzanotte quando Aine suonò il campanello della casa di Marge e Adam. Dei passi sul pianerottolo la portarono a calarsi ancora di più il cappuccio delle felpa sul viso e a stringersi nella sciarpa. Potersi imbacuccare così era il motivo principale per cui adorava l'inverno. In questo modo, nessuno avrebbe notato la sua cicatrice. E pazienza che Adam la prendesse in giro, dicendo che sembrava pronta per una rapina in una stazione di servizio.

Spostò il peso da un piede all'altro mentre i vicini di sua sorella rientravano in casa. A giudicare dall’odore di alcol e fumo di sigaretta che si portavano addosso - e che anche un umano avrebbe sentito - rientravano da una festa. Sbuffando, premette di nuovo il pulsante. Marge aveva fatto insonorizzare così bene l'appartamento che nemmeno lei riusciva a sentire nulla provenire dall'interno. Si stava esaminando le unghie, quando Adam le aprì la porta.

 «Ok, quale banca assaltiamo stanotte, splendore?», la prese in giro, facendosi da parte per farla passare. Prima di entrare, Aine lo guardò, sollevando l’unico sopracciglio visibile. Adam sbuffò. «Senso dell'umorismo, questo sconosciuto», commentò, una volta che fu entrata in casa.

«Non è colpa mia se tu fai pessime battute. E ripetitive, per giunta», ribatté lei, srotolando la sciarpa per poi appenderla all'attaccapanni. Abbassò il cappuccio sulle spalle e scosse la testa per liberare i capelli, il tutto mentre Adam chiudeva la complicata successione di catene e chiavistelli.

«Non sono pessime. Sei tu che sei troppo seria», la prese in giro, dandole un pizzicotto sul fianco. Aine gli sorrise, ricambiando il pizzico e sollevandosi sulle punte dei piedi per baciargli la guancia. Adam dovette chinarsi per contribuire a colmare il divario di altezza.

«Tua moglie?» gli chiese, precedendolo lungo il breve corridoio che dall'ingresso portava al salotto.

«Tua sorella» ribatté lui, sottolineando la parentela, «è da qualche parte nell'armadio, alla ricerca di qualcosa da mettere», disse, stravaccandosi sulla poltrona. Dal canto suo, Aine prese posto in maniera più elegante su quella di fronte, la schiena dritta, le ginocchia unite, gli stinchi perfettamente allineati. Adam la squadrò da capo a piedi, scuotendo impercettibilmente la testa. Inutile negarlo: il fatto che Aine indossasse abitualmente jeans, felpe, scarpe di gomma, insomma, si mischiasse facilmente con gli umani, ma avesse ancora gli stessi atteggiamenti da signorina per bene di quando era viva, lo faceva scompisciare. Si passò una mano fra i lunghi capelli rossi per toglierseli dal viso, passando a studiare l'espressione dell’altra. Il fatto che guardasse praticamente ovunque tranne che lui non gli faceva presagire niente di buono. Aggrottò inconsciamente le sopracciglia, studiando i movimenti di Aine: gli occhi esaminavano il tappeto come se da quello avesse potuto ricavare la risposta al senso della vita, il tutto tormentandosi un angolo del labbro inferiore con i denti e una pellicina del pollice con l’unghia dell’indice.

«Sputa il rospo», le ingiunse, cercando di catturare il suo sguardo.

«Aspettiamo Marge», fu l'unica risposta che ottenne.

Adam alzò le spalle, per poi fischiare all’indirizzo della porta della camera da letto, oltre il corridoio alla sua destra.

«È tua moglie, non un cane!» lo redarguì Aine. Lui si limitò ad alzare le spalle. «Spiegami perché non ti ho ucciso quando ti ho trovato nel suo letto la prima volta…» borbottò lei, un angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso.

«Sono incredibilmente irresistibile?» abbozzò lui, per poi voltarsi verso Marge che era entrata in salotto. Lo sguardo di pura adorazione negli occhi di Adam fu la risposta seria alla domanda scherzosa di Aine. Marge aveva mosso solo un passo in salotto e già era palese che fosse il centro del mondo dell’altro vampiro. Come non si era mai stancato di dimostrare in più di sei secoli. Aine non perdeva occasione di prenderlo in giro, ma era più che felice che sua sorella avesse Adam al suo fianco. Le tornò alla mente la volta a cui aveva accennato poco prima: entrando in camera di sua sorella, una mattina, aveva trovato Adam nel suo letto, avvinghiato a Marge. Era più che evidente che avevano passato la notte insieme. Ricordava come Adam non si fosse lasciato spaventare e come – nudo come un verme e con un pugnale puntato contro - l'avesse guardata negli occhi, dichiarando il suo amore per Marge e la ferma intenzione di farne sua moglie, che Aine volesse o no. Lo aveva ammirato e accettato.

«Ehi, a che dobbiamo questa visita non annunciata?» la domanda di Marge la riportò al presente. Osservò per un attimo sua sorella, mentre si appollaiava sul bracciolo della poltrona dove era già seduto suo marito, mettendogli una mano sulla spalla mentre lui le circondava i fianchi con il braccio. Sentì tutto il peso dei suoi occhi chiari che la studiavano, in attesa di risposta. Inspirando a fondo, rispose.

«Ho… ho un annuncio da fare», disse, guardando prima l’uno poi l’altra. Quando fu più che certa della loro attenzione, continuò. «Ho preso accordi con il Master per un'esecuzione» di nuovo, si fermò, in cerca delle parole più adatte. Ma come poteva dire a sua sorella e a quello che era praticamente un fratello, che aveva intenzione di morire? Come glielo diceva? Vide Adam irrigidirsi sulla poltrona, stringendo la presa sulla moglie. Lui aveva già capito, ma lasciava a lei il compito di finire la frase, di dare quella martellata in pieno petto a entrambi. A tutti e tre.

«Di… di chi?» le chiese Marge, in un bisbiglio. Aveva capito anche lei, quindi. D’altronde, non erano stupidi. La conoscevano meglio di chiunque altro.

«La mia», rispose, secca. Via il dente, via il dolore.

Il tempo sembrò congelarsi. L’orologio in cucina continuava a ticchettare, il motore del frigorifero prese a ronzare. Da qualche parte, il legno di un mobile scricchiolò, assestandosi. Per un tempo indefinito – un minuto? Un’ora? – nessuno dei tre respirò. Poi Marge si portò una mano alle labbra, gli occhi sgranati. «No…», disse, la voce ovattata dalla mano. «No…» ripeté, serrando le palpebre e scuotendo con forza la testa. Scese dalla poltrona, i tacchi degli stivaletti colpirono con forza il pavimento. Inconsciamente, si lisciò la gonna, uno sguardo accusatorio che folgorava la sorella. «Non è vero. Mi prendi in giro…», disse. «Mi state facendo uno scherzo, vero?» chiese, con voce stridula, guardando il marito, tormentandosi una ciocca di capelli fra due dita, rigirandosela intorno alle falangi come un nastro biondo.

Senza distogliere gli occhi da Aine, Adam scosse la testa. «Credo che tua sorella non sia mai stata più seria in vita sua», disse, il suo tono, così serio da far correre un brivido lungo la schiena di Aine, faceva a pugni con la tristezza che era più che evidente negli occhi blu. Gli stessi occhi in cui, per anni, Aine aveva letto scherno, risate nascoste, divertimento, e poi tutto l’affetto di un fratello. Quegli occhi che avevano riso tante volte di lei, per lei, e, soprattutto, con lei ora, ora, se avessero potuto, avrebbero pianto. Aine abbassò lo sguardo, incapace di reggere quello dell’altro, spostandolo sulle mani di Adam, saldamente ancorate ai braccioli della poltrona. Poteva vedere la tensione delle dita sull’imbottitura, e il modo in cui il rivestimento dei braccioli minacciava di cedere sotto quella pressione. Sapeva tutto ciò di cui erano capaci quelle mani: lo aveva visto combattere, con quelle mani, accarezzare Marge, rimboccare coperte. Si concentrò sulla lieve deformazione di una nocca, dovuta a quella volta che, furioso con Alex, aveva preso a pugni il muro e non ne era uscito vincitore. Ripensò a quante volte quelle mani le si erano posate cameratescamente sulle spalle, o l’avessero attirata in uno degli abbracci da orso tipici di suo cognato. Di suo fratello. Guardava le mani di Adam per non guardare Marge, che attraversava il salotto in un girotondo infinito, punteggiato di “no” e singhiozzi.

«Amore, mi stai dando il mal di mare, fermati», disse Adam, con dolcezza, allungando una mano per afferrare un braccio della moglie.

«Come cazzo fai a scherzare? Ha appena detto che si farà ammazzare!» strillò Marge, ferma davanti al marito, ancora seduto in poltrona.

«Cosa vuoi che faccia?» rispose lui, senza alzare la voce.

«Non lo so! Falle cambiare idea!» ribatté lei, di nuovo stridula.

«È una sua decisione, e dobbiamo rispettarla», rispose Adam, in tono calmo, come un genitore che cerca di far ragionare un bambino capriccioso. Si alzò in piedi, una mano ancora saldamente stretta intorno al polso della moglie. «Non sono d’accordo, non approvo, fa male anche a me, ma rispetto la sua scelta», spiegò, le labbra in una linea dura, le spalle rigide. Era vero. Per quanta voglia avesse di protestare, di dare in escandescenze come sua moglie, Adam non si sentiva di biasimare Aine per la sua scelta. A ruoli inversi, se lui avesse perso Marge nel modo in cui lei aveva perso Alex, non avrebbe aspettato più di seicento anni per raggiungerla. Non aveva idea del dolore che lei potesse portarsi cucito addosso e di come avesse fatto a resistere così a lungo. Certo, quella morte aveva fatto un male d’inferno anche a lui. Erano praticamente fratelli, ma Alex era la leggendaria altra metà della mela, per Aine. Era il suo mondo, l’uomo che amava, il padre del loro figlio mai nato. Se la ricordava ancora, la notte in cui era morto. Come quello spiffero dalla finestra avesse spento la candela sul comodino. Come, subito dopo, Aine fosse caduta in ginocchio a due passi dal letto, le mani premute sulla bocca per non urlare mentre le spalle le tremavano per i singhiozzi. Come lui avesse pianto, capendo che era finta, l’avesse sollevata e stretta forte, più forte che poteva, piangendo anche per lei, lei che non poteva più farlo, lei che era già morta una volta e che, quella notte, moriva di nuovo. Ricordò i suoi “no”, così simili a quelli che aveva ripetuto poco prima Marge, e gli sembrò che il cuore gli si frantumasse, andasse in pezzi, tante piccole schegge che lo straziavano dall’interno, ricordandogli quanto fosse piccolo e impotente davanti al dolore. Davanti alla morte.

Guardò negli occhi sua moglie per non guardare Aine, che ora era quasi accartocciata sulla poltrona. Guardò negli occhi sua moglie, l’unica donna che avesse mai amato, e quasi si sentì annegare nel suo dolore. Un dolore che gli mozzava il fiato.

Aine si alzò, facendo un passo verso sua sorella, allungando una mano verso di lei, temendo quasi di toccarla.

«Marge…» bisbigliò, la voce che le tremava. Mai e poi mai avrebbe voluto farle questo. Non a lei, non a tutto ciò che le era rimasto. Non a lei, che la abbracciava al buio. Non a lei, che non capiva perché avesse dato una seconda possibilità a un uomo che le aveva spezzato il cuore, ma che poi finiva col chiamarlo fratello. Non a lei, che, timida, le aveva annunciato la sua gravidanza, chiedendole sottovoce il permesso di chiamarlo Alexander, se fosse stato un maschio. Non a lei, che si era fidata così tanto da piazzarle un neonato in braccio, affermando sicura che sapeva che non gli avrebbe mai potuto fare del male. Non a lei, che le aveva sempre ripetuto che non era un mostro. A lei, sulla cui spalla era sempre andata a piangere.

«No», disse Marge decisa, voltandosi verso Aine, sollevando una mano per tenerla a distanza. «Non mi toccare», aggiunse, brusca. Aine arretrò. «Non voglio le tue scuse, le tue spiegazioni», continuò, allontanandosi anche da Adam. Inspirò a fondo, scostandosi una ciocca di capelli dal viso e portandosela dietro l’orecchio. «Ci arrivo, a perché vuoi morire, davvero», proseguì. «Hai resistito, e resistito, e resistito ancora… che c’è, ora noi non ti bastiamo più? Non siamo più abbastanza? Non valiamo più nulla?» ad ogni domanda, la sua voce si alzava di un’ottava. Aine aprì la bocca per replicare, ma lei la zittì. «Vattene! Se davvero noi non contiamo più niente, se davvero non ti interessa il male che fai a noi, a me, vattene! Sei solo una stronza egoista, ecco che sei!» strillò, voltandole le spalle e fuggendo in camera, sbattendo la porta tanto forte da far cadere briciole di intonaco.

Aine accennò un passo verso la porta chiusa, ma Adam la fermò, trattenendola per un polso. Lo guardò, le sopracciglia aggrottate. Lui scosse la testa.

«Lasciala stare», disse, a voce bassa. «Sai com’è fatta. Se ha alzato la voce e detto cose che non pensa è solo perché…»

«Perché le ho appena fatto del male», finì per lui Aine, la voce rotta. «E anche a te», concluse, in un bisbiglio.

Adam annuì, accennando un sorriso. Le liberò il polso e allargò le braccia. «Vieni qui», le disse, invitandola a farsi abbracciare. Aine si strinse a lui, la testa contro la clavicola – l’avevano sempre presa in giro, lui e Alex, per quanto era bassa, e lei aveva sempre ribattuto che erano loro ad essere mostruosamente alti – e si lasciò andare ai singhiozzi. L’impossibilità fisica di piangere le faceva bruciare e dolere gli occhi, così li chiuse, stringendo le palpebre con forza. Adam prese ad accarezzarle lentamente la schiena, cercando di calmarla. Uno dei due doveva almeno provare ad essere forte e, ancora una volta, era toccato a lui. Ma andava bene. poteva essere la sua roccia anche questa volta – almeno quest’altra volta.

«Mi dispiace» bofonchiò Aine, allontanandosi. Adam le sorrise, sfiorandole i capelli.

«Sapevo che sarebbe successo, prima o poi», le rispose. «Marge sperava che non succedesse, ovviamente. Ma io… me l’aspettavo», aggiunse, alzando le spalle. Aine abbassò lo sguardo sulle scarpe, affondando le mani in tasca. «Anzi, mi aspettavo succedesse proprio quella notte», riprese lui, riferendosi alla notte della morte di Alex. «In tutti questi anni, non c’è stato un giorno in cui non abbia ringraziato per il fatto che avevi rimandato… per averti avuta ancora un giorno con noi. Ma sapevo che non sarebbe stato in eterno. Che, alla fine, ti saresti arresa», alzò una mano per fermarla appena lei aprì bocca. «Fammi finire. Non potrei mai essere arrabbiato per questa scelta. Ci hai dato seicento anni. Hai resistito per noi per seicento anni. È perfettamente comprensibile che tu, ora, voglia tornare da lui», concluse.

«Oh, Adam…» di nuovo, Aine avrebbe voluto scoppiare a piangere. Avrebbe voluto dire tante cose. Avrebbe voluto dirgli che era stato il fratello migliore del mondo, che non avrebbe voluto nessun altro accanto a sua sorella, che non avrebbe preferito nessun altro a guardarle le spalle. Che le sarebbe mancato.

«Non dire niente. Promettimi solo che, quando lo avrai raggiunto, gli darai un pugno da parte mia», disse, con un sorriso.

Aine non riuscì a fare a meno di ricambiare. «Contaci».

«Quanto tempo, prima di…?» chiese lui, tornando serio.

«Un mese, per rimettere in ordine tutti i miei affari».

Adam annuì. «Andrai da…»

«Sì», rispose lei, interrompendolo. «Glielo devo».

Adam annuì. «Ok», annuì di nuovo. «Ok». Poi, fece un passo verso di lei, abbracciandola ancora, baciandole i capelli. «A Marge penso io», la rassicurò.

«Lo so». Si staccò da Adam, tirando di nuovo su il cappuccio della felpa. «È meglio se…»

«Sì, è meglio».

Quando raggiunse la porta del salotto, Adam le dava le spalle, immobile. Senza aggiungere altro, Aine guadagnò l’ingresso e uscì.




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A/N: se ci siete, battete un colpo!


 

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Capitolo 5
*** 4 - Moonlight Sonata ***


4 – Moonlight Sonata
 
Lyv si accarezzava il ventre gonfio, seduta sulla sedia accanto alla finestra. Osservava il mondo farsi sempre più buio, la neve che ricopriva il giardino striata dalla luce viola del crepuscolo. L’unico suono, nella stanza, oltre al suo respiro, era il crepitare dei ciocchi nel camino. Sospirò, pensando a come era finita su quella sedia, in quella stanza, in quella casa.

Suo padre l’aveva trovata, pochi giorni dopo quella notte con Bryan. Aveva mandato i suoi sgherri a cercarla, battendo ogni vicolo e ogni cantina. L’avevano portata via dalla strada, tra urla e botte, per gettarla ai piedi di suo padre come un sacco di immondizia. E lei era rimasta lì, il vestito sporco e logoro, un grosso livido sul volto – dove uno degli uomini di suo padre le aveva assestato una sberla – i capelli venuti via dalla treccia, e nemmeno per un attimo aveva alzato gli occhi su suo padre. Dal canto suo, lui non aveva espresso nessun commento sul dove e in che condizioni era stata ritrovata sua figlia. Le aveva solo intimato di alzarsi, seguire la cameriera e rendersi presentabile per incontrare il suo futuro marito. E che il matrimonio si sarebbe tenuto in capo a pochi giorni, che lei volesse o no. Perché lui aveva pagato – e non poco – il suo futuro genero perché la sposasse, alzando il prezzo promesso in virtù del suo disonore.

La vendita – Lyv non l’avrebbe mai definito un matrimonio – era avvenuta con successo pochi mesi prima, e lei era stata trasferita in casa di suo marito Dylan. Nominalmente, era la signora e padrona, ma, nei fatti, era prigioniera. Reclusa nella sua stanza o seguita a vista ovunque andasse. La sua unica consolazione era la piccola vita che le cresceva in grembo. Nonostante lo zelo di suo marito, e il suo vantarsi di essere riuscito praticamente subito a farla restare incinta, Lyv aveva la certezza che quel bambino non era stato concepito nel talamo nuziale, ma fosse frutto della sua ultima notte con Bryan. Era solo quella speranza a tenerla in piedi.

Sospirò, poggiando la guancia contro il vetro freddo. Se aveva fatto bene i conti – insieme ad Agatha, la cameriera a cui suo marito la aveva affidata – il suo bambino sarebbe dovuto nascere da lì a pochi giorni. Da un lato, non vedeva l’ora di conoscerlo, stringerlo a sé. Dall’altro, era terrorizzata. Sperava fosse figlio di Bryan, ma temeva potesse somigliargli.

Un’altra fitta la colse, appena più intensa di quelle che, da un paio di giorni, aveva iniziato a tormentarla. Gemette, portandosi entrambe le mani al basso ventre. Agatha l’aveva rassicurata più volte, dicendole che era perfettamente normale, ma che questo non voleva dire che il bambino stesse arrivando. Le aveva raccontato di come, quando aspettava il suo Sebastian, quelle fitte fossero andate avanti per almeno una settimana, prima che partorisse.

Agatha, seduta in un angolo della stanza a ricamare, le si avvicinò. «Tutto bene, Lady Blake?» le chiese, accarezzandole i capelli. Lyv annuì.

Sì. Solo un’altra fitta», le sorrise. «Aiutami a tornare a letto, per favore», le chiese. L’altra annuì, offrendole il braccio. Una volta che fu in piedi, Lyv fu colta da un’altra fitta, più forte. Strinse i denti. Sentì qualcosa di caldo scorrerle piano fra le gambe. Agatha se ne accorse.

«Signora, credo che il bambino stia arrivando».


Fu una lunga notte. Lyv non aveva mai avuto così tanta gente che le si affaccendava intorno. Ogni serva della casa girava intorno al letto, per la stanza: chi faceva bollire secchi d’acqua, chi le passava pezze bagnate sulla fronte, chi le asciugava il viso – improvvisamente sudato –, chi la faceva alzare per toglierle la camicia. E, in mezzo a tutto quel caos, la voce ferma della levatrice, fatta arrivare in fretta e furia, che le dava istruzioni appollaiata fra le sue cosce aperte. L’unica ancora in quel maremoto era stata Agatha. Le aveva tenuto la mano e sussurrato parole di conforto mentre lei piangeva per il dolore. Agatha, che le aveva baciato la tempia quando tutto era finito, e che le aveva portato la sua bambina.

Lyv quasi pianse, quando la vide. Era così piccola, così indifesa, tutta rossa e raggrinzita, con una matassa di capelli scuri – come quelli di Bryan, come quelli di Dylan – e quelli che sembravano essere i suoi occhi azzurri.

Con gentilezza, la levatrice le tolse la bambina, mentre Agatha prendeva panno pulito, immergendolo nell’acqua calda. Lyv la guardò, confusa.

«Dovete lavarvi, signora. E rivestirvi. E dobbiamo cambiare le lenzuola», spiegò, iniziando a sfregarle le cosce, cercando di essere il più delicata possibile. «Il padrone vorrà vedervi, e dovete essere presentabile».

Avrebbe voluto urlare che il padrone poteva anche andarsene all’inferno, che lei aveva appena partorito e che, se avesse voluto, sarebbe rimasta in quel letto pieno di sangue, ma si limitò ad annuire, stanca, lasciando che Agatha e le altre serve la sballottassero come una bambola di pezza.

Quando la reputarono degna di incontrare suo marito, le serve sparirono dalla stanza, lasciandola sola, la bambina avvolta nelle fasce e negli scialli, adagiata nella sua culla. L’ultima ad uscire fu Agatha, nonostante la muta supplica negli occhi di Lyv, che la pregava di non lasciarla sola con quel marito non voluto, l’uomo che l’aveva comprata come una vacca al mercato e che le aveva dolorosamente pesato addosso finché non gli aveva detto di essere incinta. Quella era stata l’ultima volta che Lord Blake era entrato nel suo letto.

Aveva pregato di partorire un maschio, così suo marito sarebbe stato soddisfatto e l’avrebbe lasciata in pace, magari sfogandosi su qualche serva o su qualche prostituta. Dio solo sapeva quanti mariti si erano sfogati con lei, quando era stata in strada.

La porta si aprì di nuovo. Lyv si voltò verso suo marito, tesa. Dylan aspettò qualche attimo, studiandola. Lyv sentiva su di sé tutto il peso dei suoi occhi verdi. La linea amara delle labbra non le faceva presagire nulla di buono. Doveva essere stato informato dalla levatrice che lei aveva partorito una femmina, e non doveva esserne entusiasta. Lentamente, si avvicinò alla culla. Si chinò, scostando gli scialli, per esaminare la bambina. Lyv trattenne il fiato, il cuore che le pulsava in gola, tanto forte e veloce da farle male.

«È femmina, e sembra gracile», commentò, severo, Dylan, sollevandosi e dirigendosi verso il letto.

«Mi dispiace», mormorò Lyv, facendosi piccola sotto la coperta pesante che Agatha le aveva poggiato addosso.

Dylan sollevò un sopracciglio, sfiorandole una mano. «Sei giovane. Avrai tempo per dalla alla luce un maschio», commentò, pendendole con forza il mento fra le dita e sollevandole il viso per costringerla a guardarlo. «E soprattutto, uno che sia mio» ringhiò, lasciandola andare. Lyv si schiacciò il più possibile contro i cuscini.

«Non capisco…» balbettò. E, invece, capiva benissimo. Sapeva – e, a quanto pareva, lo sapeva anche lui – che c’era la possibilità che fosse già incinta, quando aveva sposato Dylan, ma non poteva averne la certezza. Tra la notte con Bryan e il matrimonio erano passati pochissimi giorni, non abbastanza da dare certezze.

«Capisci benissimo, invece. Sappiamo entrambi cosa facevi, prima che ti sposassi».

«Come fate a dire che non sia vostra? Siamo sposati da abbastanza tempo perché sia stata concepita dopo le nozze» trovò la forza di ribattere Lyv, gli occhi azzurri che lanciavano strali.

Dylan rise. «Non potremo mai esserne sicuri», di nuovo, le artigliò il mento. «Per decenza, non la faccio annegare. Troppa gente si è congratulata con me per… oh… la mia abilità, nell’ingravidare mia moglie in tempi brevi. Troppa gente ha visto il tuo grazioso corpicino gonfiarsi per la gravidanza. Ma se dovesse capitare di nuovo…» non concluse la minaccia. Si allontanò da lei, avvicinandosi di nuovo alla culla.

«Bisogna trovarle un nome…» accennò Lyv, sottovoce.

«Magdalena», sputò Dylan, senza guardarla. «Per ricordarci di quando sua madre si vendeva al miglior offerente. Calzante, no?» la prese in giro. Lyv non osò rispondere. Senza aggiungere altro, Dylan lasciò la stanza.

Solo quando sentì i suoi passi allontanarsi, Lyv si concesse di piangere.
 
* * *

Lo schiaffo la colse alla sprovvista. Barcollò, ma riuscì a restare in piedi. Dylan la afferrò per un braccio, con forza.

«Cosa ti avevo detto, la notte in cui hai partorito?» le ringhiò in faccia.

«Che avreste preferito un maschio» rispose Lyv. Sapeva che non era quella la risposta che suo marito aspettava. Fu premiata con un altro manrovescio, più forte del precedente. Dylan la prese per le spalle, scuotendola con forza.

«Hai il coraggio di farlo ancora?» ruggì. «E in casa mia, per giunta!» continuò. «Dovrei lanciarti già dalle scale e risolvere il problema».

«No, vi prego», piagnucolò. Era colpevole, colpevole fino al midollo. Ma che poteva saperne, lei, che Bryan e suo marito fossero in rapporti? Che ne poteva sapere, lei, che suo marito lo avrebbe invitato a passare del tempo in casa sua? E lei era – ovviamente, stupida che non era altro – corsa più volte nel suo letto. Lo aveva incontrato, lo aveva voluto. Se solo Dylan fosse stato qualche volta nel suo letto, dopo la nascita di Magdalena… e invece, no. Suo marito l’aveva ignorata e, ora, era incinta di un altro peccato. E non poteva coprirlo.

«Pensi di passarla liscia, questa volta?» le urlò contro. «Rispondi!»

«Farò ciò che volete…» singhiozzò, a capo chino, sperando in un minimo di indulgenza, senza troppa convinzione.

«Sparisci dalla mia vista, sgualdrina», le intimò. Lyv non se lo fece ripetere due volte.

 
Qualche giorno dopo, Lyv rientrò nelle sue stanze per trovare le serve che si affaccendavano con dei bauli. Confusa, si voltò verso Agatha, che dirigeva le operazioni.

«Che succede, Agatha?» cercò di mostrarsi calma, quando, invece, avrebbe voluto urlare. Temeva che suo marito stesse per rimandarla da suo padre. Avrebbe preferito gettarsi sotto gli zoccoli di un cavallo.

«Lord Blake ha ordinato che passiate qualche tempo sulla costa. A suo parere, l’aria di mare farà bene a voi e alla bambina», rispose Agatha. Lyv colse il piano di suo marito: tenerla lontana il più possibile, in modo che nessuno sapesse che era di nuovo incinta, e trovare il modo di liberarsi del bambino. E usare la salute di Magdalena come scusa non avrebbe dato modo a nessuno di pensare che Lady Blake fosse uscita di scena per qualche segreto.

Chinando la testa, Lyv sospirò. «Lord Blake ha perfettamente ragione».

***

Poco più di un anno dopo aver dato alla luce Magdalena, Lyv si trovava in un altro letto insanguinato. E, di nuovo, partoriva una femmina. Quando Agatha gliela porse, Lyv serrò le braccia sul petto, voltandosi dall’altro lato.

«Non voglio vederla, Agatha», disse, la voce rotta. «Che senso ha, visto che me la porterà via?» singhiozzò. «Che senso ha?»

Agatha si strinse la bambina al petto. «Siete sicura?» le chiese. «Sicura di non volerla tenere nemmeno una volta? Nemmeno per dirle addio?»

Lyv scosse la testa, chiudendo gli occhi. «No, Agatha», rispose, la voce strozzata dalle lacrime. Agatha annuì, cedendo la bambina alla balia.
 

Vennero di notte, a prendersi la sua bambina. Vennero di notte, come ladri. Lyv avrebbe voluto urlare, fermarli, fare qualcosa, qualunque cosa, ma Dylan l’aveva rinchiusa. Era arrivato un paio di giorni prima, ignorato completamente Magdalena – che, povera anima innocente, sembrava pazza di lui –, controllato che sua moglie non avesse partorito un maschio, e l’aveva chiusa in camera. Per quanto poteva saperne Lyv, aveva buttato anche la chiave.

Non le rimase altra scelta che guardare dalla finestra mentre i servi portavano la sua bambina verso una carrozza, dove qualcun altro la prese e gliela portò via. Lyv sapeva che mai e poi mai l’avrebbe rivista. Pregò di addormentarsi e non svegliarsi mai più.
 
***
 
Non aveva nessuna intenzione di starsene lì seduta con le mani in mano mentre, dietro la pesante porta di legno scuro, sua madre urlava. Si chiese come facesse suo padre a restare perfettamente tranquillo, voltato verso la finestra.

«Tua madre ha l’abitudine di mettervi al mondo di notte». Dylan scosse la testa, mentre la bambina spostava su di lui le grandi iridi azzurre, incuriosita. Ma non fece domande, le era stato insegnato che non si parla senza permesso. E suo padre non le aveva dato il permesso di parlare. Non le dava il permesso di fare tante cose. Non che fosse cattivo con lei. In fondo, lei aveva solo tre anni, molte delle sue richieste spesso erano solo capricci. Sapeva che non valeva la pena piangere, se suo padre le impediva di dormire nel letto di sua madre, o di giocare con Sebastian, il figlio di Agatha e Stephen, anche se Ian – come lo chiamava lei, che trovava i nomi lunghi difficili – era l’unico bambino lì.

«Credo sia il caso tu vada a dormire, Magdalena». Di nuovo, suo padre parlò, questa volta guardando lei e non la luna. Magdalena annuì, saltando giù dalla sedia e seguendo la balia. Dopo tre passi, si fermò di colpo.

«Domani… domani potrò vedere la mamma e il fratellino?» chiese, titubante.

«Ti accompagnerò personalmente», garantì Lord Blake. La bambina prese la mano della balia e si allontanò. In fondo, pensò Dylan, non era una cattiva bambina. Generalmente, ascoltava e ubbidiva e, ad un occhio non attentissimo, passava tranquillamente per sua. Tuttavia… no, era presto per pensarci. E poi, stava già organizzando un’alleanza matrimoniale.

Sperando che, questa volta, fosse maschio. E suo.


Il sole era caldo sul viso, e la luce che filtrava dalle tende le colpiva gli occhi, ancora chiusi. Si stiracchiò, ancora sotto le lenzuola, per poi saltar giù dal letto. Agatha sarebbe venuta a chiamarla di lì a poco, ma non avrebbe aspettato. Voleva vedere la mamma, e sapeva che Agatha non l’avrebbe accontentata e che suo padre le avrebbe fatto aspettare troppo. Cercando di non fare rumore, sgattaiolò fuori, diretta alle stanze di sua madre.

Riuscì a raggiungere la sua meta senza incontrare nessuno. Con un respiro profondo, spinse la porta socchiusa.

La stanza era già in piena luce, segno che le tende erano state aperte, e poteva sentire sua madre intonare la ninnananna che cantava sempre per lei. Fece qualche passo.

«Magdalena! Sei già in piedi?» le chiese Lyv, cullando il bambino.

«Sì. Volevo…» s’interruppe. Voleva vedere la mamma? Il bambino?

«Credo sia ora che tu e tuo fratello vi conosciate, no?» le sorrise Lyv dal letto. «Vieni», la incoraggiò. La bambina annuì, raggiungendola e arrampicandosi sul letto. Aveva la strana sensazione di aver già vissuto quella situazione – sua madre sul letto, un neonato biondo in casa – ma era impossibile. Forse l’aveva sognato.

«Lui è Christian, ma puoi chiamarlo Chris», disse Lyv, mostrandole il bambino. Sembrava il vecchio più piccolo del mondo.

«Ciao», disse la bambina, titubante. Non si aspettava una risposta, sapeva che i bambini così piccoli non parlavano, ma Chris sembrò reagire, facendo una smorfia.

«Ha riconosciuto la tua voce», sorrise Lyv. Magdalena stava ancora decidendo se esserne felice, quando la porta si spalancò, sbattendo contro il muro. Lyv sussultò, Chris scoppiò a piangere. Nel vano della porta, la figura di Lord Blake era minacciosa. Agatha, alle sue spalle, si portò le mani alla bocca.

«Eccoti qui, signorinella», esordì suo padre. «Ti avevo detto che ti avrei accompagnata io, o sbaglio?» quasi ruggì. La bambina non rispose, chinando la testa, colpevole.

«Adesso, vai con Agatha e chiedi scusa a tua madre per averla disturbata».

Magdalena ubbidì, facendosi piccola piccola. Suo padre non l’aveva mai sgridata così. Non le aveva mai impedito di andare da sua madre di mattina. Dipendeva da Chris, allora? Magdalena odiò suo fratello.

«Forza, sparisci dalla mia vista», intimò Dylan. Lyv aprì la bocca per parlare, ma lo sguardo del marito la zittì.

«Sì, Signore», non “padre”. Signore. Mai aveva sentito così tanta irritazione nella voce di suo padre. Le era sembrato di valere meno di suo fratello. Ed era così: primogenita ma femmina. Destinata ad essere moglie di qualcuno o suora. Si sentì indesiderata, mentre Agatha la riportava in camera. Ebbe la sensazione che sarebbe potuta restare chiusa lì per sempre e a nessuno sarebbe importato.
 

A/N: credevo fosse quasi ora di introdurre anche Lena, dato che Aine l'abbiamo vista, no? Se ci siete, battete un colpo! 
 

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Capitolo 6
*** 5 - Angels fall first ***


5 – Angels Fall First
Needed elsewhere
To remind us of the shortness of our time
Tears laid for them
Tears of love
Tears of fear
Bury my dreams
Dig up my sorrows
Oh, Lord, why the angels fall first?
(Nightwish – Angels Fall First)
 

Il ritorno di Lord Blake dal suo viaggio d’affari fu salutato da una tiepida giornata di sole, dopo vari giorni in cui la pioggia non aveva smesso di cadere. Stephen aiutò il suo padrone a smontare dalla carrozza e, insieme a qualche altro domestico, si incaricò del trasporto dei bagagli, mentre Lord Blake si dirigeva verso l’ingresso del palazzo, dove, ad aspettarlo, trovò moglie e figli.

Lyv era un passo dietro i bambini, tirati a lucido e con i loro vestiti migliori. Mentre si fermava di fronte a lei e ai bambini, gli occhi gelidi di Lord Blake si fermarono per un attimo in quelli della moglie. Lyv non poté trattenere un brivido. Qualcosa sarebbe andato storto, molto storto, di lì a poco.
 

Ancora si chiedeva cosa le fosse venuto in mente. Come poteva essere stata tanto sciocca, sconsiderata. Sette anni prima, quando aveva dovuto sposare Lord Blake, si era ripromessa di crescere. Evidentemente, era rimasta una ragazzina che né il matrimonio né la maternità avevano fatto maturare.

Perché le persone adulte non fanno sciocchezze. Non mettono a rischio sé stesse e i loro figli, concludendo visite a tarda sera, rifiutando di essere riaccompagnate.

Ed era per questo, ora, che camminava velocemente, trascinandosi dietro la figlia. In ogni ombra, si poteva nascondere un aggressore. In ogni scricchiolio, un inseguitore. Lyv e sua figlia erano sole per strada, quasi a casa, ma non ancora al sicuro.

E fu allora che Lyv li sentì ridere. I passi che aveva immaginato si rivelarono reali. Col cuore che le martellava nel petto, accelerò il passò, quasi trascinando la bambina.
«Dove correte, bella signora?», chiese una prima voce. Lyv non si disturbò a rispondere, ma, anzi, continuò dritto per la sua strada, ripetendosi che presto sarebbero arrivate e sarebbero state al sicuro.

«Restate a farci compagnia!» proseguì una seconda voce. I passi erano sempre più vicini. Non osava voltarsi, ma era quasi certa fossero in tre.

«Mamma, non ce la faccio!», protestò la bambina, incapacitata a correre ancora. I passi della donna erano troppo lunghi perché le gambe della bambina potessero eguagliarli. Se solo sua madre l’avesse presa in braccio…

«Zitta e cammina. Siamo quasi a casa». Mai era stata tanto brusca con lei, ma era necessario. Dovevano sbrigarsi, arrivare a casa, al sicuro.

Peccato che, a casa, Lyv non sarebbe mai tornata.

Una mano pesante le afferrò una spalla, strattonandola all’indietro, facendole perdere l’equilibrio. Perse la presa sulla mano di sua figlia e si ritrovò a combattere per non cadere.

«Vi avevo detto di restare a farci compagnia, Lady Blake», riprese la voce che aveva parlato poco prima. Lyv sentì il sangue farsi ghiaccio nelle vene. Sapevano chi era.

«Cosa volete da me?» cominciò Lyv, zittita da uno schiaffo di un terzo uomo.

«Zitta, bella signora. Non abbiamo tempo da perdere», continuò questi. Nella scarsa luce della luna, Lyv riusciva a stento a distinguere le tre figure, che avevano avuto cura di camuffarsi con dei mantelli. «Dobbiamo sbrigarci, ma questo non vuol dire che non possiamo divertirci un po’». Lyv sentì lo stomaco contrarsi alla prospettiva di cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco, e iniziò a pregare per la salvezza di sua figlia. L’uomo la sollevò di peso, facendole sbattere violentemente la schiena contro il muro dell’abitazione che costeggiavano. Lyv si sforzò di non emettere un fiato, sperando che, se li avesse assecondati, avrebbero lasciato andare sia lei che la bambina. O almeno la bambina.

«Lasciate andare la bambina, farò ciò che vorrete… non fatele del male!» implorò, mentre l’uomo iniziava la sua esplorazione sotto il vestito.

«Non abbiamo nessuna intenzione di torcere un capello a questa bella bambina, vero ragazzi?» la derise, voltandosi verso i suoi compari: uno era a guardia del vicolo in cui si erano spostati, l’altro teneva saldamente la bambina, una mano sulla bocca per impedirle di urlare.

«Certo, abbiamo ricevuto precise istruzioni al riguardo», disse quest’ultimo. «La piccolina non si tocca», rise di nuovo, in maniera più sguaiata.

Lyv sospirò mentalmente di sollievo, almeno Lena sarebbe tornata a casa. Perché lei già sapeva che, dal vicolo in cui le avevano trascinate, non sarebbe uscita con le sue gambe. Si rassegnò, sapendo che non avrebbe avuto alcuna speranza nemmeno di tentare di difendersi, e lasciò che l’uomo iniziasse ad approfittarsi di lei, davanti agli occhi di sua figlia, spettatrice privilegiata del massacro di sua madre.

Nel tempo che aveva trascorso in strada a vendere il proprio corpo, Lyv aveva sopportato ogni genere di uomo, persino quelli estremamente violenti, che non potevano trovare soddisfazione fra le mura domestiche con le proprie mogli, e che, quindi, speravano di trovare un giusto rimedio alle loro frustrazioni con ciò che la strada aveva loro da offrire. Ma quello che le stava toccando quella notte, per Lyv, era molto peggio. E non era il dolore per la stretta dell’uomo intorno alle sue gambe, o la sua irruenza. E non erano le vesti lacerate dal secondo uomo, quello che era stato messo a guardia e che, ora, si era scambiato di posto col suo compare. E nemmeno la punta del coltello del terzo, quello che all’inizio teneva a bada la bambina. Erano gli occhi sgranati di sua figlia, costretta a stare a guardare. Erano le sue guance rigate di lacrime di terrore. Era il suo silenzio. Il silenzio assordate di una bambina, in un vicolo buio, costretta a guardare sua madre posseduta violentemente da degli sconosciuti. Era il silenzio di una bambina la cui voce le era morta in gola, e che non riusciva a trovare una via di fuga dalla sua piccola prigione, nemmeno nel momento in cui, soddisfatti del proprio operato, due dei tre uomini tenevano ferma sua madre per pugnalarla. L’unica via di fuga della piccola voce furono dei singhiozzi, appena percepibili, piccole spalle che tremavano nel momento in cui il corsetto si tingeva di borgogna e gli occhi di sua madre diventavano opachi.

La bambina fu bruscamente lasciata andare dall’uomo che la tratteneva, ma non si mosse, restò immobile, ad osservare la vita di sua madre scivolare via lentamente, mentre la macchia sul suo petto si allargava. Un passo, poi un altro, e un altro ancora, sempre più vicino ai resti della donna che l’aveva messa al mondo. Sempre più vicina agli uomini che le avevano portato via sua madre.

«Corri, scappa, ragazzina. Va’ a dire a tutti che la donna è morta», la esortò quello più vicino. Ma lei non scappò, non corse via. Si limitò ad aspettare che i tre si allontanassero, poi si accasciò accanto al cadavere di sua madre, in attesa di nemmeno sapeva cosa.

 
Il silenzio era diventato l’unico compagno della bambina. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando i tre uomini si erano allontanati e sua madre aveva definitivamente smesso di respirare. Lei era rimasta lì, immobile, accanto a ciò che restava della donna, sperando forse che, riaprendo gli occhi ogni volta, tutto si rivelasse per ciò che era: soltanto un incubo.

Restò immobile, ad occhi sgranati, anche quando i domestici di Lord Blake, allertati dal loro padrone e inviati in cerca della loro padrona, le trovarono.

Restò immobile anche mentre Agatha si occupava di lei.

Restò immobile anche mentre Lord Blake informava aspramente quanti di casa non avessero ancora saputo della morte di Lady Blake.

Restò immobile anche quando suo fratello cominciò a piangere, in cerca di una madre che non sarebbe mai tornata.

Restò immobile, finché qualcuno bussò alla porta della sua stanza. Scivolò fuori dal letto e andò ad aprire la porta, trovandosi davanti suo fratello, le guance rotonde che portavano ancora i segni del pianto.

Non aveva mai dimostrato particolare amore nei confronti di Chris, facendogli ogni genere di dispetto possibile che non le facesse guadagnare una punizione esemplare da parte di suo padre, ma, da quella notte, le cose iniziarono a cambiare.

Quella notte, Lena si rese conto che Chris era tutto quello che realmente aveva. E, per la prima volta da quando il cuore di sua madre si era fermato, si concesse di piangere, tenendo stretto suo fratello sotto le coperte.

«Lena…» bisbigliò appena Chris. Buffo pensare che era stato proprio lui a coniare quel diminutivo, avendo difficoltà a pronunciare Magdalena. «Ho paura».

«Non devi», rispose lei, sottovoce. «Ci sono io», continuò, accarezzandogli i capelli.

«Pometti che resti sempre con me?» le chiese, tirando su col naso.

«Te lo giuro, Chris. Resterò sempre con te», lo rassicurò. Solo allora lui si addormentò.
 

A/N: e rieccomi! Scusate l'assenza, spero di tornare presto con il prossimo. Me la lasciate una recensione? (Anche solo per dirmi di ritirarmi, eh)
Alla prossima!

 

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