Rumors

di the_pattern_maker
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maschere ***
Capitolo 2: *** Big Bang ***
Capitolo 3: *** Non un addio ***



Capitolo 1
*** Maschere ***


Maschere

[dicembre  2006]

Queste parole sono dettate da un’ansia crescente a cui non so dare un nome. Mi sconvolge, mi turba e in nessun modo, mi accorgo, mi è possibile mandarla via.

Sono settimane, me ne rendo conto solo ora, che essa mi segue ovunque vada e qualunque attività occupi il mio tempo. Mi trovo, forse per la prima volta nella mia vita, di fronte a un bivio: potrei scegliere tra il continuare a fingere di essere ciò che tutti vorrebbero che io fossi o gettare alle ortiche ogni perbenismo, abbattere finalmente l’invisibile parete che si frappone fra me e la libertà di essere, amare, vivere. Sciogliere le catene che mi legano ad una società ipocrita e costretta da moralismi e ambiguità.

Il mio malessere nasce dall’amare profondamente la persona sbagliata: molti sarebbero ancora pronti a definirmi “malato”, altri direbbero che la mia è una devianza innata. Per quel che mi riguarda ho sempre odiato l’essere giudicato, soprattutto da chi non mi conosce abbastanza da poter esprimere “un’opinione” che possa in un qualche modo tornarmi utile. Accetto volentieri un consiglio da un amico. Dal mio unico amico. L’unico che abbia mai avuto. E che ora sta per lasciarmi di nuovo solo. Lo sono sempre stato. Ma non ci avevo mai fatto caso. Solo dopo averlo conosciuto divenni pienamente cosciente di non essermi mai trovato così bene in compagnia di altre persone, non avevo mai percepito una sintonia simile. Prima di lui non c’era mai stato alcuno che sapesse mettermi a mio agio e divertirmi come solo lui sa fare. Solo lui sa capirmi. Semplicemente con uno sguardo.

Ed io lo amo per questo.

L’ho capito solo ora, nel momento in cui si è affacciata in me questa strana ansia a cui finalmente so dare un nome. È amore. Amore puro. Ed una quanto mai tossica, disperata paura di perderlo.

Credo sia il caso che mi presenti. Il mio nome è Timothy Harold Hale ma per tutti sono T.H, mentre le mie mamme continueranno a chiamarmi Timmy anche a quarant’anni.

Per Lui, però, sono Timothy. Semplicemente Timothy. Ma non divaghiamo. Non voglio tenere la cronaca di un’improbabile storia d’amore. E neppure descrivere attentamente e minuziosamente il mio personalissimo percorso verso la pazzia. Vorrei solo poter parlare di me, raccontare come la mia vita abbia preso questa piega inaspettata, ma soprattutto poter essere come sono senza essere giudicato, offeso, umiliato.

Tempo fa, a scuola, un maligno ha avanzato ipotesi sulla mia, presunta, “vera natura”, osservando il modo in cui declinassi, sempre gentilmente, qualsiasi invito o avance, anche da parte della più avvenente delle studentesse, a parere altrui. Tuttavia, ciò che mi ha maggiormente infastidito nelle voci messe in giro dal maligno non è stata tanto l’insinuazione in sé, ma principalmente il fatto che un estraneo avesse messo in dubbio la mia persona prima che giungessi io a pormi la fatidica domanda. Nonostante ciò egli non era in torto ed è stato allora che, colpito dal desiderio di una romantica storia d’amore, ho potuto constatare di non aver mai desiderato alcuna ragazza, sognando, tuttavia, di poter amare con tutta l’anima ed essere amato con la stessa intensità. Il mio cuore ha fatto una capriola quando, per la prima volta, William Lee MacMarshall ha varcato la soglia di casa mia entrando nella mia vita. Apparirà banale e ripetitivo, e nonostante abbia cercato di negare, anche nei confronti di me stesso, di provare alcun sentimento nei suoi confronti, so per certo che è stato allora, il momento in cui ho capito chi sono e cosa voglio.

Un ghigno increspa le mie labbra. È quest’ansia che mi uccide, che fa apparire il mio viso come una maschera deforme…sorrido in modo beffardo. Maschere. Maschere che occultano la realtà, che ci fanno apparire come altri vorrebbero che fossimo. Odio questo mondo, odio questa società che ci ha insegnato a tenere lontano chi è diverso, punirlo, denigrarlo. Odio la mia debolezza, quando mi accorgo d’essere succube di obsolete regole non scritte…ma che ci condizionano la vita. Eppure…

So che non voglio vivere a metà, che non voglio nascondermi. Ma posso ritenermi pronto per uscire allo scoperto, mostrarmi al mondo come sono davvero?
 


Nota dell'autrice: ho scritto questa storia ben tredici anni fa, è stata la mia prima slash in assoluto ed è la fiction che getta le basi dell'universo il cui si muovono Cecilia e Rebecca in "Vaga Consapevolezza". Sebbene presente su EFP fino al 2016 (quando ho iniziato "Immagini."), l'avevo inizialmente eliminata, conservandone tuttavia i due prologhi sul blog su cui scrivevo al tempo. Ve la restituisco ora pensando di fare cosa gradita. Buona lettura. 

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Capitolo 2
*** Big Bang ***


Big bang

Era da tanto che non mi accadeva. Ho vissuto diciannove primavere di futili relazioni e sentimenti artificiosi prima di tornare ad amare.

Inizialmente non volevo crederci, anzi, m’impedivo di farlo. Non è stato facile far pace col mio cuore, ma sono stato infine costretto ad ammettere con me stesso che sì, lo amo, anche se ho vent’anni in più di lui, ed è questa differenza d’età che mi preoccupa e che in numerose occasioni mi spinge a domandarmi: “Che cosa sto facendo?”, perché per legge non potrei sfiorarlo neppure con un dito e ciò mi turba e mi spinge quasi a rinunciare, come è accaduto anni fa. Avevo diciotto anni, lui ne aveva diciassette, ed era il mio migliore amico. Ci amavamo, anche se lui non avrebbe mai voluto rendere pubblica la nostra storia. Quando infine è stato lui stesso a gettare la maschera per entrambi ci siamo trovati davanti un muro di incomprensione ed insofferenza. Lui non ha resistito, ha rinunciato. È andato all’estero, si è ritagliato la possibilità di rifarsi una vita, lontano dalla sua città, dai suoi amici, dalla sua famiglia. Forse ora ne ha una tutta sua, di famiglia, forse per lui quella è stata solo una fase di passaggio. Di una cosa sono certo, per me non lo è stata. Ed ora, dopo anni di aridità, il mio cuore è tornato a battere, impazzito, per lui, Un giovane uomo che muove i primi passi in questa vita dura, crudele. Timothy.

Timothy non è solo un batticuore traditore. È sudare freddo, è l’agitazione, l’adrenalina che scorre nelle mie vene poco prima di vederlo, la gioia di ogni momento passato insieme, l’angoscia della separazione, il pensiero che la notte non mi fa dormire, sognando la sua presenza. E quella morsa allo stomaco nello stargli vicino, troppo vicino. Mi autocensuro, impedendomi di abbracciarlo, baciarlo. In tutto il tempo passato insieme ho cercato di placare, tenere a bada i bassi istinti, riuscendoci, anche se non proprio facilmente.

La sua età mi spinge ad attendere che cresca, maturi, decida della sua vita. E nella pienezza del mio amore per lui scelgo di portare in primo piano le gioie, pure, caste, che esso regalarmi: pomeriggi trascorsi a scherzare, prenderci a cazzotti per gioco, ridere a crepapelle, la sua fresca risata che riempie l’aria e l’anima. Quanto tempo abbiamo trascorso a discutere di musica, la passione che ci accomuna, e quanto poco a parlare di donne? Seppur mi sia capitato più volte di sfiorare con lui l’argomento ragazze, non mi è mai parso particolarmente coinvolto (stavo compiendo le mie piccole indagini, lo ammetto…!). Cosa ne sarà ora delle nostre lezioni di piano, delle nostre ore spensierate? Sto per lasciarlo, ed un’aspettata disperazione si fa sentire. Mi farò coraggio. Sto per realizzare il sogno di una vita.

Lo amo. Ed è per questo che lo lascio di nuovo solo, sentendomi rassicurato nel sapere che ha finalmente imparato ad aprirsi, nonostante la sua timidezza innata. Si farà nuovi amici, e spero non pensi mai a me con rancore, nonostante io sappia che ne avrà motivo. Sarò lontano, un nebuloso ricordo che nella sua memoria diverrà sempre più opaco col trascorrere dei mesi, degli anni, per mia scelta. Ma tornerò, un giorno, ed allora, forse, avrò una qualche possibilità di conquistare il suo cuore e realizzare questo desiderio che ho di dividere la mia vita con lui.

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Capitolo 3
*** Non un addio ***


Non un addio

La vetrata di notevoli proporzioni che dà sul retro mi dà modo di osservare gli effetti di un terribile, gelido, vento, dall’incredibile forza, che percuote con furia tutto ciò che incontra sul suo cammino. Non so se sia una mia impressione, ma è come se tale agente atmosferico somatizzasse il mio stato d’animo, tutt’altro che tranquillo. Avverto un fastidioso nodo allo stomaco di cui conosco la causa primaria. Odio starci male. Odio stare male per ciò che di più bello abbia mai provato nella mia pur breve vita. Odio l’eventualità che tutto ciò possa essermi strappato, quasi a forza. Cause di forza maggiore, direbbero. Liam sta per partire. Realizzerà, finalmente, il suo sogno. Dovrei essere felice per lui, da buon amico quale sono. Ma non sono semplicemente un amico per lui. O meglio, lui non lo è per me.
Una fine non è nient’altro che il principio di nuovo cose. Nuove esperienze, inediti sogni, spinti in un angolo oscuro del cuore e della mente, sino al momento in cui si ha la forza e la maturità necessarie da poterli prendere in considerazione. Per poter pensare ad essi come possibili realtà.
Mi sento abbastanza pronto, io T.H. Hale, diciassettenne timido e introverso, da far sì che un sogno d’amore diventi la mia quotidiana realtà? Non ne ho la piena certezza.
Inaspettatamente, mi ritrovo a pensare che, in realtà, non voglio rivelargli i miei sentimenti.
Non so se la mia sia semplice ribellione adolescenziale nelle vesti di un’amore proibito. Sono pienamente certo di volere che tutto il mondo lo sappia e mi contraddico perché lui è parte del mondo!
È come se combattessi contro un pregiudizio per il gusto di farlo, e non per difendere il mio amore. Mi sconvolge pensare di non aver mai nemmeno preso in considerazione di poter essere ricambiato. Come se fossi innamorato della mia battaglia, non di lui.
Poi, quando riesci a stare con la persona che ami, poi per cosa combatti? Mi sono ritrovato a chiedere ad una nuova, inattesa, amica. Per mantenerlo, mi ha risposto, con una strana luce nello sguardo. Per impedire che tutto ciò che hai duramente costruito vada distrutto, annientato. È stata illuminante, in tutti i sensi.
Ripensando alle parole della mia dolcissima amica, mia coetanea, eppure capace di esprimersi in pensieri profondi, che lasciano il segno, mi distacco temporaneamente da quanto accade attorno a me, ma sono bruscamente riportato alla realtà, a causa di qualcosa che attira inevitabilmente la mia attenzione. Il vecchio pendolo nel buio ingresso,  comunicante con il salotto che funge da scenario di fondo, batte le sette. Dal primo al settimo, possente rintocco l’insopportabile cappa di tensione che mi opprime da tempo si fa sempre più pesante, addirittura soffocante. “Ecco, è finita”, mi dico. Mi ritrovo al termine della mia ultima lezione di piano con Liam. Quest’ansia mi sfibra a tal punto da non permettermi di terminare il vecchio brano, avviato con successo. Tutte le mie dieci, affusolate dita da pianista vanno a posarsi disordinatamente su tasti casuali della tastiera del pianoforte, producendo un suono cupo e disarmonico. “non ce la faccio”.

“Come mai ti sei fermato?”

Ogni volta mi perdo nel tentativo di fare mia ogni singola nota che scaturisce da quelle mani meravigliose, lievi come piume sulla tastiera. Non so se abbia coscienza della sua eccezionale bravura. Ma come mai si è fermato così bruscamente? È dall’inizio della lezione che mi sembra abbia qualcosa che non vada. Nonostante la sua timidezza, dopo le prime lezioni, dedicate al conoscerci e prendere confidenza, si era sempre mostrato aperto al dialogo, sereno, in grado di prendere con leggerezza e positiva noncuranza i miei scherzi continui. Da un tipo simile ci sarebbe da aspettarsi che si arrabbi o che ne rimanga infastidito ma, al contrario di quanto si possa credere, Timothy non mi è mai sembrato seccato, indispettito. Mi chiedo, cos’ha oggi? Mi è risultato impossibile riuscire a cavargli anche una sola parola, qualcosa che differisse da cenni di assenso e affini.
Cerco le sue iridi nocciola, trovandole, fissando in esse il mio sguardo. Un attimo, e mi ritrovo costretto a guardare altrove. Non c’è da stupirsi. Da quando lo amo è questo l’effetto che mi fa. 

“Sono le sette”.

Riesco a dire, soltanto. La mia voce è insolitamente roca, perché rimasta inutilizzata nelle ultime tre ore. Tre ore d’inferno, come mai lo sono state. Era come se non riuscissi più a ricordare come utilizzare le corde vocali in modo che formassero un qualcosa che somigliasse lontanamente ad una parola di senso compiuto. Mi manca il respiro, quasi. Incontro il suo sguardo, ma lui lo rivolge subito altrove. Perché non riesce a guardarmi negli occhi? È terribile ammetterlo, ma ciò accade da un bel po’ di tempo, e solo ora mi dispongo nel prendere in considerazione tali piccoli particolari. Come posso di dire di amarlo quando poi mi accorgo di non essermi mai veramente curato di lui?

“Le sette?”

Chiedo, stupito, per lo più a me stesso. Sì, spesso a quest’ora levo le tende, altre volte mi trattengo più a lungo. Ma non è questa la mia preoccupazione primaria. Non ora, almeno. Ho una sgradevole sensazione. Come se mi stesse ricordando che è arrivata l’ora, per me, di andare via. No, non è da lui essere sgarbato.

“Non devi andare?”

Il mio comportamento sfiora la maleducazione. Non mi riconosco, quasi. Lo sto cacciando? Perché poi? Voglio rendere il più breve possibile la mia sofferenza? Egoista, egoista che non sono altro!

“Non ho fretta”.

Mi sta cacciando. Non ne capisco il motivo. Non posso nemmeno dirgli quanto il suo comportamento mi ferisca. 

“Non devi preparare le valige? Quando parti? Domani?”

So benissimo che la sua partenza è fissata fra sette giorni. Ha un appuntamento con una casa discografica. Discuteranno di un contratto con i fiocchi. Gli hanno proposto di incidere un album!
Ma non divaghiamo, la sua imminente partenza significa, per me, che non lo vedrò per molto, moltissimo tempo, se mai un giorno le nostre strade si incroceranno di nuovo. Perché, allora, sapendo che mi mancherà, lo sto mandando via? Più lo guardo e più ho la percezione di un’inesorabile conto alla rovescia. Mi dico “meglio chiuderla qui”.

“Sai benissimo che non parto se non tra una settimana, Timothy…”

Lo chiamo, le sue iride nocciola vanno a cercare il mio sguardo. Riesco a perdermi nel suo sguardo ogni volta come fosse la prima. Un battito di ciglia, e il suo sguardo va a fissarsi altrove. Mi sta nascondendo qualcosa. 

“Timothy, se non ti conoscessi prenderei per maleducazione il tuo atteggiamento di stasera. Ma purtroppo per te l’ho capito che c’è sotto qualcosa, sai?”

Forse un po’ troppo azzardato. Forse ora mi dirà che non c’è assolutamente nulla che non va in lui.

“Qualcosa sotto? Cosa?”

Ho la certezza che questo mio cadere dalle nuvole non attacchi con lui. Mi conosce fin troppo bene.

“Mi stai invitando ad andarmene, o mi sbaglio?”

“Non ti sbagli”.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché ti comporti così?”

Perché lo fa? È come ricevere una pugnalata dritta nel cuore. Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere da lui. Non è da lui essere aggressivo a questi livelli. E ciò non fa altro che suggerirmi che qualcosa non vada.

“Vattene”.

Ora si che non mi riconosco. Lo sto cacciando, senza mezzi termini.

“No che non me ne vado!”

“Vattene!”

“Si può sapere cosa ti succede?!?”

Lo afferro per le spalle, costringendolo a guardarmi negli occhi. Ma distoglie presto lo sguardo.

“Lasciami!”

“Non ti lascio finché non mi dici cos’hai!”

“Lasciami, ti ho detto!”

Riesco a sfuggire alla sua stretta. Mi dirigo nel buio ingresso. Lui mi segue.

“Timothy…”

Mi chiama. Non può vedermi. Sono accanto alla porta d’ingresso.

“Timothy...dimmi cos’hai...ti prego”.

Lacrime calde, lacrime di frustrazione. Le sento scorrere sulle mie guance accaldate.

“Niente...vattene!”

“Timothy…”

Piange. Perché? Sento la sua voce spezzata, frammentata.

“Perché piangi?”

“Io? Non piango...io non piango”.

Mi affretto ad asciugare le lacrime col dorso della mano. Ma non vogliono saperne di smetterla di sgorgare senza freno.

“Stai piangendo”.

Tasto la parete alla ricerca di un interruttore. Eccolo. 

“Io non piango”.

Ripeto, ma l’ingresso viene man mano rischiarato da una debole luce al neon. Siamo uno di fronte all’altro. Timothy è accanto al portone. Mi avvicino pian piano ritrovandomi a circa un metro di distanza da lui.

“Allora...vado”.

“Ora?”

“Tu mi hai detto di andarmene”.

“Ora hai tu qualcosa che non va”.

Continuo a piangere, silenziosamente.

“Vado”.

Torno in salotto, afferro la giacca e la cartella con gli spartiti, deciso ad andarmene. Mi segue.

“Tu non vai da nessuna parte finché non mi dici cos’hai...perché piangi”.

Cerco di fare il duro, come lui poco fa. Ma evidentemente non attacca.

“Senti, ragazzino, sono stufo dei tuoi giochetti”. 

Ragazzino? Giochetti? Non mi ha mia trattato così.

“Tu sei il mio migliore amico”.

L’unico che abbia mai avuto.

“Non perdere tempo con i melodrammi, tanto con me non attacca”.

Mi si sta affacciando dinanzi una triste realtà. È un immaturo. Un’egoista immaturo. Io amo un ragazzino egoista e immaturo.

“Melodrammi? Tu sei il mio migliore amico, l’unico che abbia mai avuto! Non puoi trattarmi così, non puoi andartene!”

Lo sapeva. Ma scommetto che sentirselo dire così, senza aspettarselo, quasi fosse una rivendicazione, fa tutto un altro effetto.

“Tu come mi hai trattato? Prima mi chiedi molto gentilmente di andarmene e poi, quando vedi che il tuo migliore amico sta male pretendi che rimanga...”

“Stai male? Perché stai male? Dimmelo perché!”

“Non credo che ti riguardi, fammi passare”.

Mi sta bloccando la strada.

“No che non ti faccio passare! Dimmi cos’hai!”

“Fammi passare, ti ho detto.”

Mi sto arrabbiando, strano ma vero, lo prenderei a cazzotti, questa volta per davvero, se non sapessi trattenermi. 

“No!”

“Vuoi che ti picchi?!? Perché lo faccio, sai?”

“Picchiami, vediamo se ne hai il coraggio”.

Coraggio. Questo non doveva dirlo. Non doveva assolutamente dirlo. Adesso lo picchio sul serio.

“Ahhhh!”

Mi ritrovo steso a terra, sotto il suo peso che mi appare inaspettatamente...confortante. Mi ritrovo a pensare di non aver mai desiderato altro. Le sue mani chiuse attorno ai miei polsi, il suo viso così vicino al mio. Si limita a tenermi fermo a terra, non mi tira pugno, non mi prende a schiaffi. Cosa fa?

“Perché non mi picchi ora? Sono a tua completa disposizione”.

Mi sta istigando. Perché non gli faccio male? Perché gli voglio un bene dell’anima.

“Ti voglio bene”.

Inaspettato. La sua dichiarazione mi colpisce a tal punto da trovarmi costretto a cercarne conferma nel suo sguardo. Nei suoi occhi profondi come l’oceano, l’oceano in cui mi ritrovo ad annegare, poi. Dicono che uno sguardo valga più di mille parole.
Così come non avrei mai pensato che fosse capace di stendermi a terra come ha fatto, poi, ora mi meraviglio nel sentirlo liberare i miei polsi, nel vederlo far pressione con i palmi delle mani sul pavimento, ergersi in tutta la sua statura e porgermi la mano, che io afferro. Non una parola.
La sua mano destra sulla mia nuca, Liam mi abbraccia come mai è accaduto. Sono un microbo, fisicamente, a differenza di lui. Lui alto, statuario. Io il ragazzino mingherlino che seppur di altezza elevata per la sua età, non regge il confronto. Piange. Ma non gli chiedo perché. Non potrei mai rovinare questo momento.
Forse per un attimo, un’ora, un giorno o tutto questo gelido inverno che abbiamo davanti. Non importa. Per tutto il tempo in cui mi sono lasciato stringere nel suo abbraccio l’ho sentito. L’amore. Per lui, per la mia battaglia. Sono un tutt’uno. Inscindibili.

“Rimaniamo in contatto...ti farò sapere del mio nuovo lavoro, ok?”

“Ok”.

Ce l’ho fatta. Piango per la mia piccola vittoria. Le mie labbra ad un palmo dalle sue, le mie mani strette attorno ai suoi polsi. Non l’ho baciato. Mi è riuscito di non fargli male. Mi sento incredibilmente forte. Così forte, ora, da poter resistere alla sua lontananza. Abbastanza da potermi accontentare di una sporadica mail inviata tra una registrazione e l’altra. È fortissima la volontà di lasciarlo libero, di crescere, maturare, prima del mio ritorno. Tornerò, lo sento.

“Sai, ho un’amica”.

L’ho conosciuta qualche settimana fa. È simpatica, socievole, sensibilissima. Adoro parlare con lei, perdermi in pensieri profondi in sua compagnia. Ogni giorno che passiamo insieme è una una scoperta, una rivelazione. Gli amici arrivano quando meno te li aspetti. Non puoi sceglierli. Io non l’ho scelta. Eppure lei c’è. Invisibile, a volte, come se temesse di dispiacermi con la sua sola presenza. Non potrebbe mai.

“Davvero? Mi fa piacere”.

Tiro un sospiro di sollievo. Non credo sia possibile spiegare come mi senta sollevato nel sapere che alla mia partenza non sarà solo.

“Allora: cos’è questo, un addio?”

Mi chiede, no, non lo è affatto.

“Un arrivederci...sì, possiamo chiamarlo così”.

“Arrivederci, allora”.

Sorrido, spontaneamente. Mi mancherà. Non pensarci, mi dico.

“Arrivederci, Timothy, Arrivederci”.

I miei occhi incontrano i suoi in un ultimo fugace sguardo. Poi, indossata la giacca e raccolta da terra la cartella, dov’era caduta nel trambusto di poco prima, raggiungo l’ingresso, ancora poco illuminato, afferro la maniglia del portone, abbassandola. Sento il suo abbraccio, alle miei spalle. Timothy mi stringe forte come a voler impedire la mia partenza. Questa volta, però, in modo dolce, gentile. Le sue mani dalle dita sottili e affusolate vanno a stringersi sul mio petto, la sua guancia contro la mia schiena.

“Ti voglio bene”.

Sussurra, poi scioglie l’abbraccio.
Non mi volto, non dico nulla. Apro la porta.

“…”

Non so spiegare il mio gesto. So che volevo abbracciarlo da tanto tempo. Chiudo io la porta. Liam scende in strada senza mai voltarsi. Lo ringrazio silenziosamente di questo.

“…”

Raggiungo l’auto, cercando di non pensare. A lui, al suo sguardo, al suo abbraccio silenzioso.

 

“Ti amo, Liam”.

Poco più di un sussurro, il mio amore dichiarato, le parole che lo esprimono vanno a perdersi nell’ingresso fiocamente illuminato. Appoggiato con la schiena al portone chiuso, il respiro affaticato, scoppio presto in un pianto dirotto. Finalmente.

 

“Ti amo, Timothy”.

Fortunatamente non può sentirmi. Salgo in macchina, gettando la cartella sul sedile del passeggero. Non pensarci mi dico. Per il suo bene, non pensarci. Arriverà il tempo in cui potrai amarlo alla luce del sole. Non pensarci. Non pensarci.

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