Lifeline

di Adele Emmeti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La partenza ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - "Casa nuova, vita nuova" ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - "L'inizio del racconto" ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - "Nuove amicizie" ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - "Sei proprio tu, Andy?" ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - "Termine del tour" ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - "Il libro del treno" ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - "Il progetto di storia" ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - "Gli Ophelia's" ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - "Lo studente prodigio" ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - "Io amo il mare!" ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - "A casa di Samuel" ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - "Non avrei dovuto leggere... " ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - "Il concerto per salutare l'estate - parte prima" ***



Capitolo 1
*** Prologo - La partenza ***


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Mentre lascio la mia casa a Shallville, e mio padre svolta nel vialetto per imboccare la strada principale, mi accorgo che il cielo è grigio e l'aria è piuttosto fredda, nonostante sia appena iniziato settembre.
La stazione non è molto affollata. Mia madre si stringe nella sua giacca a vento leggera e mio padre nasconde la sua preoccupazione dietro i suoi occhiali sottili; io li osservo mentre mi camminano davanti, pensando a quanto sia stato difficile, per loro, accettare di lasciarmi andare.
Quando mio padre individua il vagone sul quale devo salire, il suo viso si contrae in un'espressione di profonda amarezza.
Lui ci ha provato a proteggermi, ha provato a farmi giustizia, a combattere contro i giganti, armato di una sola spada arrugginita e uno scudo di legno tutto mangiucchiato, ma non c'è riuscito. E mia madre alla fine ha perso il controllo, cosa che non è da lei. Ha urlato, sbraitato, si è fatta sentire, ha protestato contro le ingiustizie che mi stavano uccidendo, ma non è bastato.

Li saluto con un lungo abbraccio. Sono entrambi asciutti e sottili, proprio come me. Hanno i capelli scuri e gli occhi neri: un po' si somigliano, nonostante mio padre sia americano, di origini anglosassoni, mentre mia madre giapponese, come testimoniano i miei occhi a mandorla e miei capelli lisci come spaghetti.
Prima di scoppiare tutti in lacrime, afferro i miei bagagli e, aiutata da mio padre, salgo arrancando sulla scaletta metallica.
Arrivo al posto assegnatomi e sistemo i trolley sul ripiano portaoggetti. Poi mi abbandono sulla poltroncina in finta pelle azzurra, senza nemmeno sfilarmi la tracolla, e li vedo stringersi le mani, mentre il treno parte e loro spariscono dietro le tendine del finestrino.

Ritraggo la mano con la quale li ho salutati e socchiudo gli occhi umidi.
Non so cosa troverò a Whitecliff, né se sopporterò di stare lontano da loro per un tempo indefinito.
L'unica cosa di cui sono certa, è che andarmene da lì rappresenta l'unico, vero modo per salvarmi.


Nota autrice:
Salve a tutti coloro che hanno aperto questa pagina e letto il prologo della mia storia.
A chiunque deciderà di continuare, lascio alcun suggerimenti:
- se state cercando una storia frivola e sbrigativa, piena di scene romantiche alla Rosamunde Pilcher, o momenti erotici spiccioli e senza alcun contesto, siete nel posto sbagliato. Il romanticismo e la passione sono elementi che trasudano dalle parole non dette.
- se invece state cercando un modo per evadere, per intraprendere un viaggio interiore, per conoscere persone dalle storie più disparate e iniziare a considerarli amici, farsi trasportare dalle descrizioni di luoghi e ambientazioni fittizie, addentrarvi nelle vite di adolescenti nel pieno dei loro drammi e scoperte, e sentire sulla vostra pelle i loro dolori o entusiasmi, allora siete capitati bene.
Non so quanto sarà lungo il nostro viaggio. 
Spero di trovarvi numerosi durante il percorso.

Buona vita a tutti.

Adele MT

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - "Casa nuova, vita nuova" ***


 Mi aspetta un viaggio di circa sei ore, e l'angoscia che i pensieri mi tormentino per tutto il tempo, mi ha indotta a munirmi di cellulare con connessione infinita, tablet, lettore mp3, due romanzi thriller, una rivista d'arte e tre numeri di un manga che avevo iniziato a leggere l'anno scorso.
 Eppure, appena il treno imbocca una galleria, il riflesso della mia immagine sul vetro mi distrae. Osservo le mie occhiaie, il mio biancore eccessivo, la frangia ormai cresciuta e diventata ciuffo, i tendini delle mani troppo sporgenti. Mi chiedo cosa ne sia stato della vecchia me, di quella che nonostante l'animo pacato e moderato, si godeva le sue passioni e la sua voglia di vivere il mondo, di esplorarlo e conoscerlo in tutte le sue sfaccettature. Mi chiedo dove sia finita quella Mizu che consolava gli altri, che faceva loro da spalla e aveva sempre la risposta a tutto. Ho come l'impressione che si sia persa, che l'abbia dimenticata da qualche parte, che si sia ritirata dalle scene per chissà quanto tempo.
 I miei mezzi di intrattenimento mi distraggono, ma non riescono del tutto a trascinarmi via e temo che queste sei ore diventeranno teatro di un inferno. Cerco sporadicamente di addormentarmi, fino a quando, nell'aprire gli occhi, noto una bambina, nascosta dietro il bracciolo dei sedili che ho davanti, dal lato del corridoio centrale.
 Mi fissava da non so quanto tempo. Le sorrido e lei cambia atteggiamento, da curiosa a fiduciosa. Viene avanti e si siede a fatica, perché ancora troppo bassa.
 «Come ti chiami?» Le chiedo.
 «Kate. E tu?» Ha i capelli di un biondo sfacciato, sottili, raccolti sotto un cappellino rosa, gli occhi azzurri e le guance arrossate dal sole.
 «Mizu. Dove sono i tuoi genitori?» Indica il vagone retrostante al nostro con il ditino.
 «Forse dovremmo avvisarli che sei qui o si preoccuperanno.»
 Fa spallucce.
 «Mi piace fuggire mentre dormono. È divertente.»
 «Però è pericoloso andare in giro da soli. Molto pericoloso.» Fa di nuovo spallucce.
 Ad un tratto appare il padre agitato e quando la becca seduta sul sedile, la rimprovera e la prende in braccio. Mi chiede scusa per il disturbo e io gli rispondo che non mi ha dato fastidio.
 Nel portarsela via, noto che lei mi guarda, dietro le sue spalle, e ridacchia divertita. Nessuno sa cosa darei per avere un briciolo della sua spensieratezza, per sapere che basta essere caricati in braccio perché il mondo non possa più toccarti.
 E torno a sfogliare la mia rivista, in cerca di sollievo.

 La grande scogliera sulla quale si affaccia Withecliff brilla sotto i raggi aranciati del sole pomeridiano, con le sue case bianche e le rocce argentate, proprio come ricordavo. Fino a pochi anni fa, io e i miei genitori passavamo l'intera estate nella grande villa di mia nonna, con lei e zia Rebecca. In realtà, mio padre e mia madre non facevano in tempo ad abbronzarsi che dovevano ripartire, mentre io restavo fino alla fine delle vacanze.
 Poi sono cresciuta, è iniziato il liceo, le miriadi di attività extrascolastiche e mia nonna è mancata. L'ultima volta che ho visto questa scogliera luccicante è stato al suo funerale. Da allora non siamo più tornati.
 Ma adesso rieccomi: la vita, ogni tanto, ti rimanda nei luoghi del passato, perché è soltanto lì che ritrovi briciole di te stesso.
 Quando il treno rallenta per entrare in stazione, una certa agitazione mi stringe l'intestino. Guardo fuori alla ricerca di un volto familiare, ma non trovo nessuno. Porto giù i miei bagagli e mi metto in prossimità dell'uscita. Il vagone è deserto. Nessuno va nei luoghi di mare a settembre, quando in realtà dovresti essere a casa a prepararti i libri per ricominciare l'anno.
 La porta si apre, spingo giù i trolley e scendo stando attenta a non cadere di testa. Mi sistemo la tracolla e inizio a guardarmi intorno. Vago lentamente, e quando il capotreno fischia e il macchinista rimette in moto l'enorme struttura chiassosa, individuo nell'aria una voce assolutamente inconfondibile. Mi volto e la vedo: è zia Rebecca, con una gonna rossa, a tubino, molto aderente, un'alta fascia in vita di pelle e una camicetta bianca sbottonata sul seno. Ha diversi diamanti alle dita, bracciali tintinnanti, unghie smaltate, trucco pesante da manuale e caschetto asimmetrico, di quel color caramello che porta ormai da quando ho memoria.
 Troppo presa da una telefonata, intuibilmente lavorativa, non si accorge della mia figura stropicciata, ferma nella penombra ad attenderla. Quando il suo sguardo si posa su di me, una lampante meraviglia le muta i tratti da seriosi a euforici. Chiude la chiamata senza congedare il suo interlocutore, né rimandarla a più tardi, e mi si fionda addosso correndo sui suoi tacchi alti, mentre il suo profumo ambrato mi riempie le narici fino al cervello.
 «Mizu! Tesoro mio! Come sei cresciuta! Non posso crederci! Fatti vedere!»
 Mi fa roteare tenendomi per una mano.
 «Sei diventata alta, come tuo padre – grazie al cielo- e sei rimasta così magra... gli ho sempre consigliato di farti fare qualche casting di moda, anche qui da me in agenzia! Hai un volto interessante, sei un bellissimo incrocio! Poi con questi capelli... potresti permetterti qualunque taglio. Ora che sei qui sfrutteremo un po' il tuo potenziale, che ne pensi?»
 «Beky, lo sai che non amo farmi fotografare... »
 «Sì, brava non chiamarmi zia... facciamo credere a tutti che siamo cugine. Ah, sì? Sei l'unica adolescente a cui non piacciono le foto. Io vedo decine e decine di ragazzine come te, ogni santo giorno, pronte a vendersi i reni pur di partecipare a qualche shooting o di essere contattata per il più ridicolo degli spot. E tu? Tu non ami farti foto.»
 Le sorrido divertita. Zia Beky riesce a sempre sollevarmi l'umore con la sua schiettezza e quella spontaneità elegante, che la mantiene sopra le righe da quando radunava le amichette in giardino e le faceva sfilare con gli abiti stropicciati delle sue bambole.
 «Come è andato il viaggio? Come stanno i tuoi? Li hai avvisati che sei arrivata?»
 «Il treno era semivuoto. Non ho avuto scocciature. I miei stanno bene.. li ho avvisati prima con un messaggio.»
 Beky prende uno dei miei trolley, poi lo rimette a terra e mi guarda con occhi molto materni. Mi avvolge di nuovo le braccia intorno al collo e mi stringe.
 «Ti ho preparato una stanza bellissima. Staremo benone insieme.»
 La risolleva e inizia a sgambettare verso l'auto parcheggiata all'esterno.

 Nella sua 911 bianca, decappottabile, iniziamo a percorrere la costa e a inoltrarci nelle maglie della cittadina. Rivedo negozi e spiagge che frequentavo tanto da piccola, con mia nonna. Riconosco dei volti, delle luci, delle insegne, riannuso degli odori che mi catapultano indietro, come se tutto fosse rimasto a quando dovevo portare la treccia e il cappellino di paglia, per proteggermi dal sole. Superate le strade più interne, ci allontaniamo verso la collinetta sulla quale sorge la villa che Beky ha ristrutturato in modo maniacale negli anni.
 «C'è qualcosa che hai lasciato intatto?» Le chiedo a voce alta.
 «L'amore per la nonna.» Mi risponde sorridendo dietro i suoi Ray-Ban a specchio.
 Arrivate in cima, spegne la macchina davanti all'ingresso e scende afferrando le mie valigie.
 Quando dischiude la porta, un profumo di patchouli e di mobilio nuovo mi fa dimenticare lo sgradevole sentore misto dei disinfettanti chimici e del sudiciume del treno.
 Dopo un brevissimo corridoio, accediamo ad un'ampia sala, con una scalinata elicoidale che conduce al piano superiore, a sinistra, e una grande cucina con un lungo tavolo in stile liberty moderno, tutto di un immacolato bianco antico, a destra.
 In fondo, due porte conducono a un salottino poco praticato e a un bagno di servizio piastrellato di mosaico dorato.
 Mi fa cenno di seguirla al pian superiore.
 La scalinata è larga, di marmo lucido i gradini e di vetro trasparente le protezioni laterali. La prima porta che incontriamo è della mia camera, le successive sono della sua camera da letto e del suo studio privato.
 «Spero ti piaccia. Ho allestito un baldacchino due posti con dei tendaggi che puoi chiudere o lasciare aperti, a tuo piacimento. A destra hai la cabina armadio e la porta che dà sul tuo bagno personale. Qui a sinistra ho sistemato una grossa scrivania, e degli scaffali a muro. Riempili pure di libri, quaderni e diari.
 «Ho smesso di scrivere sui diari quando avevo dieci anni.»
 «Beh, ora ne hai diciassette, non siamo così lontani.» Ci sorridiamo e la vedo avanzare verso la finestra. La apre e mi accorgo che dà su un balconcino dal quale è possibile apprezzare tutta Withecliff a valle, il bordo della costa, le spiagge in fondo alla conca e infine il mare, di un verde smeraldo che difficilmente è possibile replicare.
 «Cosa ne pensi? Ti piace la tua camera?»
 «È perfetta... non avevo dubbi. Potrei viverci tutta la vita qui dentro.»
 Beky scoppia a ridere.
 «Non esageriamo. C'è molta più bellezza lì fuori che qui dentro.»
 Lascio la mia tracolla su una poltroncina e respiro l'aria calda a pieni polmoni, mi arriva un profumo di erba fresca tagliata da poco, salsedine e ciclamini. I grilli hanno iniziato a cantare ed è quasi sera.
 «Ho ordinato del cibo indiano che arriverà tra un'oretta circa. Tu mangi indiano?»
 «Raramente, ma non mi dispiace.»
 «Io lo ordino spesso. Che ne dici se nel frattempo non ci prendiamo un tè in giardino, e inizi a spiegarmi un po' bene cosa è successo?»
 Aspettavo quel momento con quiete angoscia. Sapevo che avrei dovuto riaprire quel capitolo e scontrarmi con la parte più fragile di me stessa a breve; era lo scotto da pagare per l'asilo concessomi in un paradiso del genere. E, in fondo, era anche giusto che mia zia Beky sapesse tutto.
 «Certo... mi sembra una buona idea.»
 Scendiamo al piano di sotto, Beky prende una caraffa di tè dal frigo e due bicchieri di vetro cilindrici. Ci sistemiamo sotto un gazebo, nella parte anteriore della villa, più o meno sotto il balcone della mia camera.
 Lei versa il tè nei bicchieri a attende che prenda parola.
 «Ecco... da dove iniziare.» Faccio un respiro profondo e chiudo gli occhi. 
 Crescere significa anche questo; significa avere la forza di affrontare se stessi. 
 E i lividi che avevo sul collo e sulla schiena mi sembrano riapparire all'improvviso.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - "L'inizio del racconto" ***


 «Se non te la senti, possiamo rimandare. Non sei costretta a raccontarmi tutto adesso.»
 «No, no... preferisco parlartene subito.» Le dico sorridendo.
 Espiro e stringo i pugni.
 «È iniziato tutto a settembre dell'anno scorso, precisamente in questi giorni, con l'inizio della scuola. Nella nostra classe era apparso un ragazzo nuovo, mai visto prima, nemmeno in zona. Era alto, occhi chiari, capelli neri, espressione rigida e severa. Non si è presentato a nessuno prima che il professore lo annunciasse alla classe. Si chiamava Ryan Felton e si era trasferito con la sua famiglia da poco. Era entrato con una media altissima e un curriculum da far invidia al migliore dell'istituto. Era anche il più bravo nell'atletica, un portento a football e nella pallavolo; si diceva che molte università prestigiose gli avessero già proposto l'iscrizione.»
 «Insomma, un soggetto noioso.»
 «Beh... se per noioso intendi freddo calcolatore, macchina da guerra, automa in grado di raggiungere la perfezione e batterla... allora sì.»
 «Io ho sempre preferito gli imperfetti. Ma continua pure.»
 «Ecco... lui non riusciva a interagire con nessuno di noi. Un po' perché non gli interessava farsi degli amici, un po' perché non ci riusciva. Non sapeva cogliere l'umorismo, non rideva mai, non stava mai al gioco, non raccontava mai nulla di se stesso. Non credo abbia mai pranzato al tavolo con qualcuno. Restava sempre in disparte. Mangiava soltanto cose crude o cotte al vapore. Non esultava, non sembrava mai stanco, non esprimeva mai un dissenso... era come... finto. Immaginavo che la sera, a casa, lo spegnessero e mettessero sotto carica, come un cellulare.»
 Beky rise e accavallò le gambe. La storia sembrava molto più articolata di quanto pensasse.
 «Poi... non ricordo bene quando... forse verso metà dell'anno, sia io che le mie amiche abbiamo notato una cosa per certi versi agghiacciante. Ovvero che... Ryan passava una buona parte del suo tempo... a fissarmi.»
 «Fissarti?»
 «Sì. Non soltanto mentre parlavo durante le interrogazioni, ma anche quando passavo nei corridoi... quando correvo con le altre durante le ore di ginnastica, mentre stavo immobile al mio posto o mangiavo in mensa. Era come se riuscisse a trovare sempre il punto migliore nel quale potersi accucciare e fissare come meglio credeva.»
 «Beh agghiacciante è il termine più corretto, allora.»
 «Sì... tanto che, infine, decisi di affrontarlo. Lo vidi fuori dai cancelli, un pomeriggio, mentre andava a prendere l'autobus. Lo chiamai da dietro e lui si fermò di colpo. Si voltò e rimase impalato. Mi avvicinai piano e quella che avemmo fu una delle conversazioni più strane della mia vita. -Ho notato che mi fissi per la maggior parte del tuo tempo. È cosi?- Gli chiesi. Inizialmente non mi rispose. -Non è molto piacevole sentirsi costantemente gli occhi addosso... c'è qualcosa che vuoi dirmi? Qualcosa di me che ti incuriosisce?- Non mi rispose. Pensai che non aveva molto da negare, che forse stava tentando di avere un approccio, ma che non ci riusciva. Da un lato mi irritava e dall'altro mi faceva quasi tenerezza. -Non importa. Scusa se ti ho disturbato... sarà stata solo una mia impressione.- Mi voltai per andarmene quando lui disse: -Non è un'impressione. Ti fisso perché ti trovo interessante.-
 A tali parole, dette con estrema fermezza e disinvoltura, rimasi stranita.
 -Perdonami. Forse il mio modo di fare è inconsueto. Di tutte le ragazze dell'istituto, tu sei l'unica che riesce a distrarmi quando mi concentro. Che riesce a farmi perdere il filo del discorso dei professori. Trovo aggraziato il tuo modo di parlare, di raccontare le tue riflessioni, sempre molto oculate. Non alzi mai i toni, anche quando ridi. Corri con decisione, ma non fai uso del tuo corpo per metterti in mostra. Sei risoluta ma non te ne vanti, né cerchi di dimostrarlo a parole. Sei una persona di fatti. E questo fa sì che io ti apprezzi.-
 Mi lasciò senza fiato. Nessuno mi aveva mai detto qualcosa del genere.»
 «Era segretamente innamorato di te.» Beky lo disse con naturalezza, poiché non ci vedeva nulla di marcio.
 «Non lo so. Non so se fosse innamorato o ossessionato. Non l'ho capito nemmeno dopo... »
 Restiamo in silenzio per pochi secondi. È importante che non vada subito al dunque ma spieghi gli eventi per bene.
 «Cosa gli hai risposto?»
 «Nulla... gli ho detto: -ti ringrazio. Sono molto positive le cose che dici di me-. -Sì, lo sono- mi rispose. -A tal proposito, mi piacerebbe conoscerti meglio. Anche al di fuori di qui.- Aggiunse.
 Ebbi un brivido freddo. Non sapevo bene cosa dirgli. Mi spiaceva escludere a priori una possibile amicizia, viste le difficoltà che aveva nell'approcciarsi agli altri, al contempo era fin troppo cupo e sinistro come soggetto. Mi creava disagio il solo immaginare di uscire da sola con lui o andare a studiare a casa sua.»
 «È molto comprensibile. Lo sarebbe stato per chiunque.»
 «Già... quindi mi limitai a dirgli -va bene, se vuoi parlare ogni tanto o passare del tempo insieme, possiamo farlo nelle pause o in mensa-, ma lui non sembrò molto soffisfatto della mia proposta.
 «Lui voleva che vi frequentaste all'esterno. Che fosse una cosa più intima.» Dedusse Beky.
 Presi il bicchiere con l'intento di bere, ma mi resi conto di avere già la gola chiusa per un orrore che stava pian piano salendo. Lasciai il bicchiere dov'era.
 «Nei giorni successivi continuò a fissarmi, sempre più insistentemente. Mi dissi che avevo due opzioni: dirgli in malo modo che doveva smetterla e lasciarmi in pace, oppure provare a instaurare quell'amicizia che, in qualche modo, gli avevo promesso. Decisi di fare un tentativo e mi avvicinai a lui durante una pausa, mentre sedeva da solo in cortile. Rimase sorpreso e iniziammo a parlare di esami, di come era fatta la sua scuola precedente, dei suoi vecchi professori, di quanto fosse stato difficile cambiare ambiente. Mi sembrò persino cordiale e gentile, molto meno psicopatico di quanto sembrasse.»
 «Oh beh... menomale. Non era un automa.»
 «Parlammo ancora due o tre volte, con la stessa tranquillità. Gli strappai persino un sorriso e pensai -ecco, aveva soltanto bisogno di qualcuno che lo aiutasse ad aprirsi-. Iniziammo a parlare nei corridoi, durante le pause delle attività sportive. Avvicinai anche alcuni dei miei amici, a coinvolgerli nei nostri discorsi. Ricordo che aveva il tablet bloccato e che lo misi in contatto con un ragazzo che sapeva maneggiare qualsiasi attrezzo tecnologico, infatti gli risolse il problema e ne fu molto contento. Insomma per circa due mesi, la cosa andò avanti così. Era primavera avanzata e pensavo che, tutto sommato, non mi dispiaceva che Ryan fosse mio amico. Io sono di natura introversa e taciturna, faccio fatica ad avvicinare gli altri, per cui comprendevo la sua situazione ed ero contenta di averlo aiutato.
 Poi un giorno... arrivai in classe e trovai un pacchetto sul mio banco. C'era scritto “per Mizu”. Piuttosto stranita lo aprii e all'interno ci trovai un bracciale d'oro, con diverse pietre incastonate in più punti. Scavai nel pacchetto alla ricerca di un qualche indizio e trovai un piccolo pezzo di carta, con la stessa calligrafia striminzita dell'esterno. Diceva “per tutto quello che hai fatto. Ryan”.»
 «Ma dai... non posso crederci.»
 «La cosa non mi piacque molto. In pausa pranzo lo cercai e lo trovai nel retro della scuola, seduto su una panchina di pietra a leggere. Mi avvicinai e mi sedetti accanto a lui. Gli dissi -ho ricevuto il tuo regalo... è davvero molto bello e te ne sono grata, ma è troppo... non posso accettarlo-. Come se non mi avesse sentito, continuò nella sua lettura.
 -Ryan... hai sentito?- Gli chiesi. Presi il pacchetto e glielo porsi. -Non posso accettarlo. Mi sentirei troppo in debito con te-. Ma lui nulla.
 Infine mi alzai e glielo lasciai vicino, feci un passo e lo sentii chiedermi: -hai mai avuto un ragazzo?-»
 «Così? A bruciapelo?»
 «Sì. Mi voltai e gli risposi: -no... -
 -come mai?- continuò.
 -Perché no... cosa ti importa?- 
 -quindi sei vergine, in tutti i sensi?-»
 Noto che le iridi di Beky si dilatano. Solleva il viso dalle dite su cui l'aveva appoggiato.
 «Ti ha detto così?»
 Annuisco con la testa.
 «Cosa gli hai risposo?»
 «Che lo ero. Ma poi me ne sono pentita. Non avrei nemmeno dovuto rispondere a una domanda simile.»
 «Sul momento ci può stare che non riesca a tenerti.»
 «Sì, ma avrei dovuto chiudere i rapporti in quel momento e fargli capire che non avrebbe più dovuto rivolgermi la parola. E invece... ho continuato a rispondergli.
 -Ti piacerebbe avere un ragazzo?- Mi chiese.
 -No... non lo so.-
 -Non c'è proprio nessuno che ti piace?-
 -Qui? A scuola?-
 -In generale.-
 -No. Nessuno?-
 -Nemmeno io? A me tu piaci molto. Io vorrei che tu fossi la mia ragazza. Staremmo bene insieme.-
 Rimasi senza parole.»
 «Ma lui ti piaceva?»
 «No! Assolutamente no! Ero contenta di averlo aiutato, ma non gli avrei nemmeno mai stretto la mano! Aveva uno sguardo che faceva raggelare il sangue nelle vene! Era inquietante, sinistro, cinico e indecifrabile.»
 «Cosa gli hai risposto?»
 «Gli dissi: -mi spiace, hai frainteso. Tutto quello che c'è tra di noi è amicizia, niente di più. Non potrei mai andare oltre.- E lui, come se non avesse udito una sillaba del mio discorso, mi disse: -io sì, ne ho avute di esperienze. Non tante, ma quelle che bastano per essere uomo. Dovresti fidarti di me. Non ti deluderei...- A quel punto non ho più retto. Ho farfugliato: -Lasciami in pace. Non ho bisogno di nessuno.- E sono fuggita.»
 Io e Beky restiamo in silenzio. Lei apre la bocca per dire qualcosa e io la precedo.
 «Lo so. Avrei dovuto dirgli: tu non mi piaci. Io non sarò mai la tua ragazza. Le tue domande sono inopportune, tu sei inopportuno e non devi più rivolgermi la parola, né fissarmi!»
 «Non è sempre così facile.»
 «Tu l'avresti fatto.»
 «Ma io ho trentasette anni. Tu diciassette. Alla tua età, probabilmente, non avrei avuto nemmeno il coraggio di affrontarlo la prima volta. Invece tu l'hai fatto e sei quasi riuscita a toglierlo dal suo stato di reclusione. Se non fosse stato per la sua mente bacata, il tuo sforzo avrebbe dato ottimi risultati. Ma a quanto pare... questo Ryan era un soggetto da evitare.»
 «Sì, lo era. Dovevo ascoltare le mie amiche.»
 «Magari le tue amiche danno confidenza a estranei conosciuti su chat anonime. Chi può dirlo? È facile parlare a fatti avvenuti.
 Ad ogni modo, è per questo motivo che hai preferito cambiare scuola? Per non incrociarlo più?»
 Sollevo lo sguardo nella sua direzione e mi viene istintivamente da piangere. Vorrei tanto che fosse così, che sia fuggita da casa per una conversazione scomoda. Che Ryan si sia limitato a farmi una proposta con un braccialetto da trecento dollari.
 «C'è altro che devo sapere?»
 «Beky... questa era solo una premessa.»
 Mia zia osserva con stupore il mio tentativo di trattenere le lacrime. Osserva il mio stringere i braccioli in ferro battuto della sedia da giardino, il rossore dei miei occhi sull'orlo dell'implosione, il tremore delle mie ginocchia spigolose, nascoste dai jeans neri.
 Solleva una mano nella mia direzione e fa per avvicinarla al mio viso, quando il cellulare le squilla e si ode per tutta la vallata. Lo afferra intenzionata a spegnerlo ma il nome del direttore di un'importante casa di moda la frena.
 Mi chiede scusa con gli occhi e mi fa segno di attendere un minuto. Nel frattempo cerco di calmarmi e di prendere fiato. Mi asciugo gli occhi con la manica della felpa e la vedo tornare alterata.
 «È successo un casino... devo correre. Maledizione. Non volevo lasciarti sola adesso. La cena sarà qui a momenti. Paga e mangia pure senza di me, in meno di due ore dovrei essere di ritorno, hai capito?»
 Mi bacia energicamente sulla fronte, tentennando come se non volesse andarsene.
 Poi mi allunga cinquanta dollari sul tavolino e va via a passi svelti.
 Il ragazzo delle consegne arriva dopo dieci minuti. Lo pago e comprendo di dovergli lasciare la mancia per la ripida salita fatta in bicicletta. Dopo aver mangiato qualcosa, più per farle piacere che per fame, metto tutto in frigo, tra cose improbabili quasi caviale di colore fucsia, frutta esotica a forma di stella e bibite drenanti al fucus, e vado in camera mia.
 Dovrei disfare le valigie, sistemare tutto nella cabina armadio e farmi una doccia. Ma preferisco restare immobile.
 Mia madre mi ha chiamata più volte, ma non voglio risponderle. Sentirla non farebbe altro che accrescere la mia malinconia. Tutto ciò di cui ho bisogno è di galleggiare nel vuoto e abbandonare il mio corpo, la mia carne e i miei sensi.
 Soltanto così potrei smettere di ricordare le sue mani sulla mia pelle.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - "Nuove amicizie" ***


 Un canto di gabbiani lontano mi riporta gradualmente alla realtà. Mi sveglio con la faccia sul cuscino e i capelli sparsi ovunque. Realizzo si essere lontana da casa, di essere al mare, nella mia nuova camera da letto e di dover alzarmi quanto prima perché, a tutti gli effetti, è il mio primo giorno nella scuola nuova. Un moto di ansia mi strizza l'intestino, mi metto seduta e mi stropiccio gli occhi. Se soltanto avessi messo a posto la valigia, ora non dovrei rovistarla fino in fondo per cercare la mia spazzola e le mie creme.
 Scendo lungo la scalinata di marmo lucido, e intravedo il tavolo della cucina imbandito per la colazione. Ci sono due scatole di biscotti aperte, tre marmellate di frutta dalle etichette in una lingua che sembra svedese, una caraffa di latte, del caffè in polvere, grissini e formaggio spalmabile, toast e tostapane annesso, uova da friggere e bacon confezionato. Metto a fuoco il tutto e scorgo un bigliettino su un piatto: “Non so bene cosa tu preferisca per colazione. Serviti pure! Io sono uscita alle sei per il mio footing mattutino sulla spiaggia. Suppongo che al mio arrivo sarai già andata via. Questa sera ti aspetterò con una bella cenetta, così mi racconterai della nuova scuola e finiremo il discorso di ieri. Se hai problemi chiamami a qualsiasi ora. Se la nuova scuola non ti piace ne cercheremo un'altra. Ti voglio bene. Becky”.
 Prendo del caffè lungo e mangio due toast con le marmellate svedesi. Poi rimetto tutto al suo posto e corro a cambiarmi.
 L'indirizzo della nuova scuola è sul foglio di iscrizione. Dal navigatore comprendo che dista poco meno di un chilometro, il più sta scendere dalla collinetta. Il cielo è di un azzurro sfacciato, il mare in lontananza è calmo, le case a valle si succedono lungo le strade per lo più strette e contorte. Il verde degli alberi è intenso, il profumo delle caffetterie è ovunque, diverse schiere di ragazzi mi precedono lungo un viale più ampio e mi rassicurano: non ho sbagliato indirizzo.
 L'edificio della “Crown” è piuttosto classico. Largo e squadrato, con un cortile antistante che mi ricorda le scuole giapponesi degli anime, un ingresso pieno di ragazzi, chi euforico, chi annoiato e quello che sembra un piccolo parco alle sue spalle.
 Mi avvicino con calma. Nonostante sia tendenzialmente pacata e molto brava a mantenere la calma, l'approccio ad un ambiente nuovo, popolato da occhi che ti squadrano dalla punta delle scarpe a quella delle ciglia, metterebbe ansia anche a una statua di marmo.
 Supero gli sguardi indagatori e entro. I corridoio sono tappezzati di armadietti arancioni. Il mio è fortunatamente intonso. Non è ammaccato né arrugginito ai lati. Ci trovo soltanto qualche scritta sul fondo. Poso la mia roba e prendo alcuni libri: la mia prima lezione è nell'aula di letteratura moderna.
 Quando entro la trovo piena per metà. Scorgo una ragazza, nel fondo, dai lunghi capelli ricci e vaporosi, di un biondo angelico. Ha un piccolo viso triangolare, dei grandi occhi azzurri e l'espressione di una bambina smarrita. Mi conforta il suo sentirsi più a disagio di me, così le vado vicino e mi siedo al banco accanto al suo. Nel farlo le sorrido e lei fa lo stesso di rimando.
 Dopo pochi minuti entra il professore. È un tipo sulla cinquantina, con gli occhiali spessi, i capelli neri e arruffati, una combinazione di abiti improbabile, forse perché scelti tra gli unici puliti e stirati che aveva. Ci dà il buongiorno, si siede e, prima ancora di aprire il registro, la porta si apre e in aula entra una ragazza. È alta e magra, ha il viso ovale, gli occhi sottili truccati con un nero molto carico, la bocca sottile e un piercing ad anello nel centro esatto del labbro inferiore. Indossa una maglietta a strisce molto aderente, una giacca di pelle, dei jeans a vita alta neri e degli scarponcini con la zeppa. Mi colpiscono le sue braccia così lunghe e filiformi, proprio come le gambe, il suo zaino tutto scritto e imbrattato, il chewingum che mastica con svogliatezza e il cenno di saluto che fa alla ragazza dai capelli angelici seduta accanto a me. Ebbene sì, la piccola e dolce figura spaventata al mio fianco aspettava proprio lei.
 «Quanto ci hai messo?» Le chiede sottovoce.
 «Mi sono svegliata tardi... » le sussurra la tipa alternativa.
 «Stavo per perdere il posto.» La rimprovera con dolcezza.
 Il mio spiarle viene bruscamente interrotto dal professore, il quale ha ignorato l'entrata tardiva della ragazza e ha già fatto il mio nome a voce alta. Mi giro a guardarlo e mi accorgo che tutta la classe si è voltata nella mia direzione.
 «Allora Mizu Allen... vuole presentarsi agli altri?»
 Ho sempre detestato parlare di me stessa, soprattutto agli estranei. Per cercare di accorciare quel momento il più possibile, prendo fiato, mi alzo e come una macchina pronuncio: «Mi chiamo Mizu e vengo da Shallville. Vivo a casa di mia zia, Rebecca Allen, ma i miei genitori sono rimasti a Shallville. Spero di ambientarmi subito. Grazie per avermi accolta. Cercherò di dare il meglio. Grazie.»
 Detto questo, mi siedo e il professore resta a fissarmi. Nel nominare mia zia, mi sono accorta che la ragazza alternativa ha strattonato l'amica da un braccio, e ha strabuzzato gli occhi.
 «Molto bene... grazie. Allora iniziamo... » il professore prende parola e finalmente inizia con la sua prima ora di lezione.

 Al suono della campanella, tutti si alzano e si stiracchiano, come se un'ora di fermo sia troppo dopo due mesi di vacanze. Metto i miei libri nello zaino e aspetto che i primi escano. Intanto vedo la tipa alternativa avvicinarsi.
 «Ehi... ciao! Io mi chiamo Fely e lei è Greta. Piacere.» Mi dice, indicando la ragazzina bionda al suo fianco.
 «Piacere mio... sono Mizu.»
 «Sì... che nome particolare. Sei per metà orientale?»
 Greta la strattona.
 «Non è carino.» Le dice.
 «Tranquilla... sì, mia madre è giapponese. Mizu l'ha scelto lei. Significa acqua.»
 «Wow! Davvero forte... e tua zia è davvero Rebecca Allen?»
 Greta la strattona di nuovo.
 Io sorrido. «Sì.»
 «Non ci posso credere... io adoro quella donna! È una diva. È forte, intraprendente e affascinante. Ha carisma e carattere e... ha potere, soldi, rispetto, un'auto bellissima. È il mio idolo!»
 «Ti ringrazio... » le rispondo divertita dal suo entusiasmo. Non immaginavo che mia zia avesse dei fan.
 «Come mai ti sei trasferita qui? Proprio l'ultimo anno?» Mi chiede ancora.
 «Adesso basta. Smettila! Scusala Mizu... è davvero maleducata.» Greta prende parola e fa indietreggiare l'amica mettendosi tra di noi.
 «Nessun problema... sono nuova e non conosco nessuno. Mi fa piacere parlare con voi.» Nel risponderle cerco di sviare l'argomento. Sono contenta che si siano approcciate a me, ma non ho voglia di montare su delle false scuse.
 «Che lezione abbiamo adesso?»
 «Due ore di biologia... vieni con noi? Possiamo pranzare insieme nella mensa, più tardi, così te la mostriamo e poi ti facciamo fare un giro nell'istituto.» Risponde Greta.
 «Ah, grazie! Sì, in effetti dovrebbero avermi già assegnato un tutor per la visita della scuola... ma... »
 «Tranquilla. Ci pensiamo noi... ci parlo io con la tipa della segreteria.» Fely indossa il suo zaino e mi mette una mano sulla spalla. Il suo fare così disinibito e spontaneo mi mette allegria.
 Usciamo dall'aula e ci dirigiamo verso il piano inferiore.
 «Devi sapere che questa scuola è popolata da secchioni tristi e noiosi, da galline agghindate ogni giorno come se fossero sul red carpet e da giocatori di football che vanno dietro alle galline. Poi ci sono le tipe in gamba che conquisteranno il mondo, come me e Greta, immerse in un mare di tanti altri volti anonimi, di cui nessuno si ricorda. Hai avuto fiuto nello scegliere di sederti accanto a noi. Questo ti dà punti.» Continua Fely.
 «Beh, i secchioni, le galline e i giocatori di football sono praticamente in tutte le scuole americane.»
 «Ma non le tipe in gamba come noi. Posso assicurartelo.» Mi fa l'occhiolino e entriamo in aula.
 La lezione di biologia scorre rapida e il professore sembra piuttosto simpatico. Osservo le due ragazze sedute davanti a me, e non posso far altro che sorridere. Sembra l'accoppiata di uno spettacolo televisivo, dove l'una è l'opposto dell'altra e insieme si compensano. Greta piccola e delicata come una bambola di porcellana, Fely irrequieta e grossolana come uno scimpanzé in gabbia. Spero tanto che non perdano la voglia di conoscermi e di diventarmi amiche.
 A fine lezione, ci dirigiamo verso il cortile esterno.
 «Ora ti mostriamo i giardinetti dove si può studiare o stare nelle pause. Quando il tempo è bello, preferiamo portarci il vassoio fuori e mangiare all'aperto.» Dice Greta, avvicinando alla mia destra.
 «In realtà non perdiamo occasione di isolarci dagli altri e tenerli a debita distanza.» Aggiunge Fely alla mia sinistra.
 «Beh, anche io preferisco mangiare all'aperto.» Affermo
 «Fantastico! Il tuo punteggio sale.»
 «Di che punteggio parli?» Chiedo a Fely ridendo.
 «Lasciala stare... è una sua invenzione. Non ascoltarla.» Interviene Greta.
 «È un ottimo meccanismo di selezione! Ci sono i punti positivi e quelli negativi. In genere li raccogliamo durante la prima settimana di conoscenza. Se quelli positivi superano quelli negativi, allora sei dei nostri. Altrimenti... »
 «Non mi parlerete più?»
 «Smettila Fely!»
 «Sì, esatto.» Fely fa un gesto di stizza e mi fa capire che non scherza.
 «Quindi deduco che in questi quattro anni nessuno abbia accumulato più punti positivi dei negativi.»
 «Ah no, ti sbagli. Lei ne aveva più positivi.» Dice Fely indicando Greta.
 «E poi qualcun altro c'è stato, ma... sai... chi si è trasferito, chi ha cambiato giro... » Continua.
 «Betty e Sarah se ne sono andate per colpa tua.» Irrompe Greta.
 «Non è colpa mia se hanno preferito la compagnia delle galline alla nostra! Ci hanno sfruttate fintanto che erano sole e che nessuno le considerava!»
 «Si può essere amiche di più persone... te l'ho già spiegato.»
 «Non nel mio club.»
 «Non hai nessun club!»
 «Questo lo dici tu. Magari c'è ma non ne fai parte.»
 Mentre Fely e Greta discutono in modo bizzarro, rallento attratta da un gruppo di tre ragazze molto appariscenti, che sopraggiungono dal cortile. La prima delle tre spalanca le porte ed entra con la stessa solennità con cui Beyoncè sale sul palco a cantare.
 «Chi sono quelle?»
 Fely smette di sbraitare e si volta a guardarle.
 «Ah... nulla di importante. Sono le galline superiori. Quelle più potenti di tutte...»
 Ci passano accanto senza rivolgerci lo sguardo e tutti i ragazzi presenti in corridoio si scostano per farle passare. La scia del loro profumo ci travolge e mi toglie quasi il fiato.
 «La prima è Sasha. È la figlia del sindaco, ha un sacco di soldi e un cervello grosso quanto una noce. Il primo anno ci siamo picchiate per un posto in mensa.» Aggiunge Fely.
 Le seguo con lo sguardo e noto che rallentano all'avvicinarsi di un altro gruppo, tutto maschile.
 «Ah... e quelli sono i giocatori di football. L'incontro ufficiale è avvenuto, ora possono partire le danze.» Sbuffa Fely.
 Nell'osservarli, uno di loro attira la mia attenzione e resto imbambolata a guardarlo.
 «Ehi... Mizu?» Fely sventola la mano davanti ai miei occhi.
 Quel ragazzo ha qualcosa di familiare, qualcosa negli occhi e nella bocca che mi ricorda qualcuno.
 «Come si chiama quello?» Chiedo
 «Chi?»
 «Quello più alto, biondino... » il suo modo di sorridere, di tenere le mani sui fianchi e spingere il bacino in avanti...
 «Si chiama Andy... Andy Tyler. È il ragazzo di Sasha.» Greta risponde con un sottilissimo velo di malinconia.
 «Perché? Non dirmi che ti piace.» Ruggisce Fely.
 «No... » affermo dopo aver finalmente ricordato tutto.
 «Ma lo conosco bene... eravamo amici da piccoli. Per la precisione... lui era il mio miglior amico

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - "Sei proprio tu, Andy?" ***


Andy-Luke-Eisner

 Chi avrebbe mai immaginato che il goffo e tondetto Andy sarebbe diventato, un giorno, altissimo e snello, con spalle e braccia ben definite, folta chioma bionda e sorriso ammiccante. Rimango a fissarlo incredula, soprattutto per come regge il confronto con la ragazza snob e appariscente che sembra pendergli dalle labbra. L'Andy che ricordo aveva paura della sua ombra, era timido e maldestro, arrossiva in presenza di mia zia o di altre bambine della nostra età, era impacciato e sudava di continuo.
 «Migliori a... amici?» Mi chiede Greta con un fil di voce.
 «Sì... sua madre Nelly e mia zia sono cresciute insieme. Quando Nelly veniva a trovarci, portava sempre Andy con sé; negli anni siamo diventati “gli amici delle vacanze”. Ci conosciamo da quando ho memoria. Tutte le estati io tornavo a Whitecliff e riprendevamo i nostri spettacolini e piani di conquista della città esattamente da dove li avevamo lasciati.»
 «Non ci posso credere... » aggiunge sconvolta. I suoi grandi occhi azzurri brillano di una luce strana e sembrano essere ancora più ampi.
 «Scommetto che faceva il figo già allora. Me lo immagino... occhiali da sole e bicicletta sempre nuova di pacca.» Interviene Fely.
 «No ti sbagli... era molto diverso. Non era così alto, era timido e goffo ma molto gentile. Si prendeva sempre cura di me, era premuroso e molto amichevole. Mi portava un sacco di biscotti che rubava alla nonna, inventava storie e giochi di ogni tipo per intrattenermi e quando mi rivedeva, dopo i mesi di scuola, gli scoppiava letteralmente il cuore dalla gioia.»
 Le mie parole piene di affetto sembrano ferire Greta, la quale si eclissa e indietreggia a volto basso. Fely se ne accorge e le mette una mano sulla spalla.
 «Che ne dici se andiamo in mensa adesso?» Mi chiede Fely.
 «Sì... andiamo.» Le rispondo rivolgendole lo sguardo, ma quando dirigo nuovamente gli occhi verso il fondo del corridoio, mi accorgo che Andy e la sua ragazza stanno venendo verso di noi, che lui mi ha individuata nella folla e che non riesce a smettere di fissarmi. Avanza gradualmente, con un braccio intorno al collo della tipa e aggrotta le sopracciglia fino ad assumere un'espressione tra l'incredulo e lo stranito.
 Infine si arresta, esattamente di fronte a me. I suoi amici giocatori di football frenano alle sue spalle, la tipa appariscente inchioda e tutti i presenti si voltano a guardarci in un silenzio paradossale.
 Andy non può credere ai suoi occhi. Saranno cinque anni che non ci vediamo.
 «Tu... sei... »
 Io non posso negare di non essere Mizu, né fingere di non conoscerlo. Nonostante fossimo molto amici, non ci siamo mai sentiti con frequenza al di fuori delle vacanze estive. Avevamo entrambi i nostri numeri, ma li usavamo pochissimo. Era come se il nostro mondo fosse lì, a Withecliff, nei mesi caldi, e che tutto il resto dell'anno fosse soltanto una triste parentesi. Negli ultimi anni ci siamo persi di vista e nessuno dei due sapeva come fossimo diventati.
 Sollevo una mano, gli sorrido e lo saluto con estrema naturalezza: «ciao Andy, sono io: Mizu.»
 Andy sgrana gli occhi, toglie il braccio dal collo della sua ragazza e si avvicina.
 «Non ci posso credere... »
 Mi viene addosso, mi avvolge le spalle con le braccia e mi stringe a sé con una forza tale da sollevarmi da terra. Poi mi lascia, mi afferra con le mani e mi riguarda in viso: «ma cosa ci fai qui? Quando sei cambiata! Come mai sei alla Crown?»
 Greta e Fely spariscono all'ombra degli armadietti. Il gruppo del football inizia a guardarmi come fossi un trofeo mai confessato, la sua ragazza mi rivolge uno sguardo carico di odio e un vociare imbarazzante riempie tutto il corridoio, fino alle aule aperte.
 «È... una lunga storia.» Gli confesso stentatamente.
 Andy si accorge del mio imbarazzo e dell'attenzione che abbiamo suscitato, così mi prende per mano e mi conduce verso l'esterno. «Ci vediamo dopo... » dice ai suoi amici e alla sua ragazza. Spalanca la porta e si dirige verso una scalinata di pietra, che conduce a una parte del giardino sopraelevato.
 «Ma sai che stavo pensando di scriverti proprio l'altro ieri? Volevo chiederti come stessi e che fine avessi fatto... volevo sapere se saresti mai tornata qui, se ci saremmo più rivisti.» Rallenta il passo e mi lascia la mano. Arriva in prossimità di una panchina e si siede, indicandomi il posto accanto.
 «Beh... siamo sempre stati un po' telepatici.» Sorrido accomodandomi.
 «Mi sono trasferita ieri da mia zia Beky. Sai mia nonna è mancata alcuni fa... e da allora non siamo più venuti.»
 «Sì, lo so bene. C'ero anch'io al suo funerale.»
 «Hai ragione... perdonami.» Per un attimo avevo dimenticato la sua vicinanza e la sua mano quel giorno, che ha stretto la mia durante tutta la cerimonia.
 «Da allora non ci siamo più visti. È stata forse l'unica volta in cui eri qui e c'era la neve... »
 In effetti non avevo mai visto Withecliff d'inverno. Ricorda molte più cose di me.
 «E perché questa scelta? Sei venuta per tutto l'anno scolastico o solo per un periodo?»
 «No, per l'intero anno. Beh... diciamo che ho avuto qualche problema con delle persone, nella mia vecchia scuola.»
 «Bulli? Professori?»
 «No... amicizie poco piacevoli.» Abbasso lo sguardo e prego che non mi chieda altro. Non ho né la forza, né la voglia di affrontare l'argomento.
 «Capisco... mi spiace tanto.» Andy comprende di non dover andare oltre.
 «In realtà ne sono contento.. non sai quanto. Insomma... è una sorpresa immensa. Sono felice in modo spudorato. Mi sembra un sogno... non posso ancora crederci. Tu sei qui e ci starai per il resto dell'anno. Proprio tu... Mizu Allen: la mia migliore amica!»
 Andy ha un sorriso così dolce e solare da scaldarmi fin dentro le ossa. Ricordo quel bagliore che si accendeva nei suoi occhi quando era particolarmente contento, le fossette nelle guance, l'entusiasmo sconfinato e la pazienza immensa che ha sempre avuto nel cercare di stemperare la mia negatività.
 «Anche io sono molto contenta di averti rivisto... sei cambiato tantissimo!»
 «Eh sì, ho guadagnato diversi centimetri in altezza.»
 «Direi tantissimi! Quanto sei alto?»
 «Un metro e ottantanove.»
 «Diamine!» Gli do una pacca sulla spalla.
 «Ho faticato un bel po' a riconoscerti! È stato come trovare il piccolo Andy rimescolato e ridistribuito su un corpo adulto.»
 Ridiamo insieme. «Anche io ci ho messo un po'... non tanto per la diversità, quanto per l'incredulità che fossi proprio tu!»
 «Non mi trovi cambiata per nulla?»
 «Sì... sei più adulta, ma hai gli stessi capelli lunghi, lo stesso ciuffo a sinistra, gli stessi occhi sottili e la stessa espressione imbronciata.» Scoppio a ridere.
 «Hai già conosciuto qualcuno? Hai trovato il tuo armadietto? Hai fatto il tour della scuola?»
 «Sì, ho già trovato l'armadietto e ho conosciuto due ragazze particolari ma simpatiche. So soltanto che si chiamano Fely e Greta. Erano come me in corridoio. Si sono offerte loro di farmi fare il tour.»
 «Uhm... sì, forse ho presente Fely: una tipa alternativa, alta e magra come un chiodo?»
 «Esatto.»
 «Greta, invece, non mi dice nulla.»
 «È piccolina, ha i capelli ricci e lunghi, biondissimi, gli occhi azzurri... un viso da bambola di porcellana.»
 «Uhmm no... me la presenterai.»
 «Certo... »
 «Stavi andando a mangiare con loro? Ho interrotto la vostra conoscenza?»
 «In effetti volevano portarmi in mensa, ma non importa. Le recupererò più tardi. E tu? Sei fidanzato con la più bella dell'istituto?» Gli dico con tono scherzoso. Andy solleva il braccio e inizia a grattarsi la testa.
 «Sì... abbiamo una storia molto altalenante. Nulla di particolarmente serio... »
 «Capisco... storie tra cheerleader e giocatori di football.» Gli spingo la faccia con la mano. Lui la prende e mi tira a sé. Si porta la mia testa al petto e mi spettina i capelli. Mi libero e mi risistemo.
 «Non approfittare del fatto che sei molto più alto di me, adesso.» Ridiamo ancora.
 «Sarò contento se riuscirai ad integrarti bene. Sappi che, in realtà, hai già tutta la scuola ai tuoi piedi. Ti basta schioccare le dita e farò sparire chiunque ti stia antipatico.»
 «Ti ringrazio... molto confortante.»
 «Non scherzo... sei sotto la mia custodia. Per qualsiasi problema, screzio o difficoltà, corri subito da me.»
​ Annuisco con la testa. Le sue parole mi rassicurano molto e mi danno un conforto concreto .
 Ci guardiamo ancora sorridendo, profondamente felici di esserci ritrovati.
 «Ora vado a cercare le mie probabili due nuove amiche. Non voglio che pensino che le ho mollate solo perché il più bello della scuola mi ha sequestrata e portata via.»
 «Hai ragione... potrebbero iniziare irrimediabilmente a odiarti . Restiamo d'accordo per sentirci più tardi? Oggi ho gli allenamenti, ma domani dovrei essere più libero. Tanto ho il tuo numero... ti avviso tramite messaggio.»
 «Niente di più semplice. Ti ringrazio.» Mi bacia sulla fronte e insieme ci dirigiamo verso la mensa.
 Ritrovo Fely e Greta sedute a un tavolo solitario, distante dal resto degli studenti. Per fortuna non mi odiano, né hanno iniziato a formulare strani aneddoti su di me. Mi chiedono dettagli sulla mia amicizia con Andy e rispondo loro con leggerezza, addentando un panino al pollo. Mi sento sollevata e piena di positività, ma la malinconia che leggo nello sguardo di Greta mi apre un piccolo vuoto nella mente. Se mai dovessimo approfondire la nostra amicizia, cercherò di capire cos'è che la turba tanto.
 Al termine delle lezioni, ci scambiamo i numeri di telefono e ci salutiamo. Ai loro occhi sono la studentessa sconosciuta, dai tratti orientali, che senza dare nell'occhio si è infilata silenziosamente nel loro mondo e ha raggiunto l'apice della posizione sociale, senza alcuno sforzo. Come al solito, ci metteranno tempo a inquadrarmi. Ma a questo sono abituata.
 Nel rientrare, scopro che Beky è già a casa e mi aspetta in cucina.
 Indossa un grembiule e nell'aria c'è odore di qualcosa, ma non so definire cosa.
 Mi saluta con un enorme sorriso e mi manda un bacio: ha le mani occupate e girare mestoli e scuotere padelle.
 «Come è andata oggi?»
 La racconto la mia giornata per filo e per segno. Mentre iniziamo a mangiare le spiego di Fely e di Greta, poi di Andy e della scena nel corridoio, di quanto sia stato bello rivederlo e parlargli.
 «Andy è cresciuto molto in questi anni. È diventato un ragazzo bellissimo. Molto spesso viene da me in agenzia perché lo contattano per dei servizi fotografici. Se soltanto volesse intraprendere quella carriera... avrebbe la strada spianata. Sono contenta che vi siate ritrovati.»
 Ci spostiamo in giardino e Beky accende tre grosse candele che tengono lontani gli insetti. Qui fa ancora molto caldo la sera.
 Mi siedo sulla sedia in ferro battuto e mi allungo, rilassando tutto il corpo.
 «Allora... dove eravamo rimaste?» La domanda di mia zia mi riporta con i piedi per terra. La guardo mentre prende posto dinnanzi a me. Vorrei dirle: -no, nulla... lascia stare. Sono qui soltanto perché mi andava, perché volevo cambiare aria- e fingere che non sia successo nulla.
 Ma non è possibile farlo. Beky è lì, pronta a sorreggere tutto lo schifo che non ho ancora vomitato.
 Quindi perché tentennare? Che lo schifo abbia inizio.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - "Termine del tour" ***


 

 Il canto dei gabbiani mi sveglia anche questa mattina. Credo proprio che ci farò l'abitudine e che sarà difficile sostituirli in futuro. Mi metto seduta e mi stropiccio gli occhi. Scendo in cucina e trovo nuovamente la tavola apparecchiata.
 Mi siedo e inizio a spalmare della marmellata color rubino su una fetta di pane. D'improvviso mi torna in mente la faccia sconvolta di Beky di ieri. Mi fermo per un istante, poi torno a raschiare la fetta di pane col coltello.
 Beky si è sentita male. Non l'avevo mai vista così. È scoppiata in lacrime, le mancava il fiato. È corsa in bagno a vomitare la cena, ho cercato di calmarla al meglio, ma veniva da piangere anche a me. Così sono crollata accanto a lei. Mi ha stretta con tutta la forza che aveva. I suoi occhi verdi spiccavano in tutto quel mascara sbavato, sembravano dei fari accesi. Mi sembra di averli ancora davanti. E di sentire ancora le sue parole strozzate in gola.
 Mia madre non reagì in modo così teatrale; lei piangeva con contegno, in sala d'attesa, mentre ero dentro per gli esami, le medicazioni e le cuciture. Quando entrò con mio padre, però, notai che il suo sguardo era spento e disilluso. Fu come se d'un tratto avesse realizzato di essere fragile e impotente, incapace di rimediare a un male che ci avrebbe cambiati tutti. Proprio lei che aveva sempre gestito il suo studio di commercialisti con estremo rigore e precisione, a cui non sfuggiva uno sbavo su un foglio, un numero di troppo o una cartella fuori posto, si era trovata lì, in quel momento e in quella situazione, a dover sopportare uno dei torti più gravi che si possano augurare a una madre.
 Beky, invece, ha dato fondo a tutto il suo sgomento e l'ha fatto stringendomi le mani e chiedendomi come potessi sopportare che quell'individuo fosse ancora in giro, impunito.
 «Lo scoprimmo solo dopo, che Ryan era il figlio del nuovo capo della polizia di Shellville. Aveva una reputazione solidissima, anni di voti eccellenti, di partecipazioni alla vita religiosa, nonché il supporto dei migliori avvocati della regione. Quando denunciammo tutto al distretto, il poliziotto che compilava il verbale sbiancò nel sentire il suo nome. Si rifiutò quasi di continuare e mi accusò implicitamente di essere una bugiarda. Per lui era impossibile che quel Ryan avesse potuto commettere ciò che gli avevo appena confessato. Mi ritirai dalla scuola e avviammo un processo, che non è mai avvenuto. È tuttora sospeso e rinviato a data da destinarsi.»
 «Per cui, se non fossi venuta a stare qui, avresti fatto l'ultimo anno a Shellville, in classe con lui? Come se non fosse successo nulla? L'avresti avuto davanti agli occhi tutti i giorni? Con il rischio che potesse di nuovo avvicinarsi e farti del male?»
 Ho annuito senza aggiungere altro. Ho chiesto io ai miei genitori di non dire nulla a Beky e di lasciare che fossi io a farlo. Non voglio che nessun altro parli della mia storia, se non io stessa. Chi vuole udirla deve chiedere a me, chi vuole sapere come sto o come sto combattendo per superarla, deve parlare con me.
 «Sono sicura che prima o poi il processo partirà, e faremo di tutto per vincerlo. Io ti starò vicina e metteremo in gioco tutte le armi che la nostra famiglia è in grado di procurarsi, pur di dimostrare che quel bastardo è colpevole. Non è finita qui... è solo l'inizio, te lo garantisco.»
 «Grazie Beky... » le ho sorriso e siamo rimaste sedute accanto alla vasca, in bagno, dove era corsa a vomitare.

 Mentre mi avvicino alla scuola, sento qualcuno chiamarmi dall'altra parte della strada. Mi volto e scorgo Greta ferma, con la mano alzata e un sorriso enorme sulla bocca, mentre Fely è alle sue spalle e rovista nel suo zaino. Le raggiungo stando attenta a non farmi investire.
 «Ciao Mizu! Come stai? Hai dormito bene?»
 «Ciao ragazze... sì, benissimo, grazie.»
 «Ma dove diavolo l'hai messo? Non c'è qui! Ciao Mizu... » Fely tira la testa fuori dallo zaino di Greta.
 «Ieri mi hai detto: metto il plettro nel tuo borsellino. Hai fatto tutto tu, io non l'ho preso, né spostato. Non è colpa mia se non lo trovi.»
 «Cazzo... è il plettro di Leto.»
 «Lo cerco con calma più tardi... ora andiamo!»
 «Sì... ok, andiamo.» Fely procede sbuffando.
 «Avete perso qualcosa?» Chiedo.
 «No... è che Fely è molto sbadata. Dopo le prove, ha messo il plettro di suo fratello nel mio zaino e ora non lo trova.»
 «Prove di cosa? Suona in una band?» Le chiedo, ma Fely rallenta e si volta.
 «Sì. Sono la fondatrice, nonché frontman e chitarrista del mio gruppo: gli “Ophelia's”.»
 «Wow... come mai questo nome?»
 «Perché in realtà mi chiamo Ophelia, come il personaggio di Shakespeare.»
 «Sua madre è una grande appassionata delle tragedie shakespeariane... ne parla di continuo e le conosce quasi a memoria. Ha una piccola libreria dove le conserva tutte gelosamente.» Risponde Greta.
 «Eh già... in diciassette anni me ne ha rotte di scatole con Shakespeare... »
 Rido divertita. «E Leto da dove viene?»
 «Da Hamlet... ovvio.» Fely svolta l'angolo e supera il cancello principale. La marea di studenti ci travolge e ci avviciniamo alla porta d'ingresso.
 «Davvero molto interessante... e cosa suonate?»
 «Rock... sperimental rock e un po' di elettronica. Se vuoi puoi venire a sentirci! Facciamo le prove tre volte a settimana e, ogni tanto, suoniamo al Belfast: un pub in centro.»
 «In quanti siete, oltre te e tuo fratello?»
 «No... mio fratello non suona con me. Lui vive a Londra, ha una band molto più famosa e forte della mia... ha iniziato prima di me. È stato lui ad avermi trasmesso la passione per la musica.» Fely si annebbia un po' ed entra in aula.
 «La band è composta da lei, Riky che suona la batteria e Ben la pianola. Provano nel suo garage, io sono la loro mascotte.» Mi dice Greta sorridendo.
 Ci sediamo e il professore entra subito dopo.
 A mensa le ragazze mi mostrano i piatti da evitare e quelli che vanno presi prima degli altri. Finiamo in un tavolo piuttosto isolato, Fely inizia a mangiare e Greta infila il suo braccio sottile nello zaino stremato. Dopo poco lo ricaccia e sbatte la mano sul tavolo.
 «Ecco il tuo plettro!»
 «Ohh piccolo elfo dei boschi... grazie!» Esclama Fely masticando. Afferra il tondino di plastica e se lo posa sul petto, guardando in cielo.
 «Perché non hai cercato nel borsellino? Hai detto di averlo messo lì!»
 «Perché è minuscolo! Ero convinta che fosse uscito e si fosse perso tra i libri! Comunque... adesso lo riaggancio al bracciale e non lo stacco più.»
 Greta sospira rassegnata, poi mi rivolge lo sguardo.
 «È il suo portafortuna... »
 «È il primo plettro di Leto. Me l'ha regalato quando è partito per Londra con il suo gruppo. È molto più che un portafortuna.»
 «Immagino... torna spesso a Whitecliff?»
 «No... più o meno una volta all'anno.» Fely si alza per andare a prendere del ketchup.
 «È molto legata a Leto... lo adora come una divinità, è il suo punto di riferimento... gli scrive tutti i giorni, anche quando lui sparisce per settimane.»
 «Sparisce?»
 «Sì, beh... i musicisti hanno una vita frenetica. Con il suo gruppo girano l'Europa... sono molto richiesti e sono sommersi di fan.»
 «Come si chiamano?»
 «Loro sono i C.S.D.»
 «Crazy Sons of Dioniso.» Aggiunge Fely nello spremere il tubo di ketchup sul suo hamburger bruciacchiato. «Anche loro fanno rock.»
 «Andrò a cercali su YouTube!»
 Fely mi fa l'occhiolino e addenta il suo pranzo. Ora capisco tanto del suo atteggiamento e del suo modo di porsi.
 «E tu? Hai qualche hobby?» Mi chiede Greta.
 «Beh... non in particolare. Leggo molto, ogni tanto disegno. Da piccola dipingevo enormi tele con mia madre e poi le esponevamo in giardino.»
 «Divertente! Anche io disegnavo molto con mia madre... ma non sono affatto brava.»
 «Le persone che disegna Greta sembrano tutti degli gnomi grassocci. Hanno il corpo, le mani e i piedi tondeggianti, perfino l'acconciatura e le scarpe.»
 «Almeno io non ripeto lo stesso cerchio nero all'infinito, manco fossi la bambina traumatizzata di un film horror!»
 «Sono spazi soffocati dal marcio della società. Rappresentano la mia libertà mentale, circondata e oppressa dalla mediocrità della gente comune.»
 Greta emette uno sbuffo derisorio, mentre Fely la punzecchia con la forchetta.
 «E tu invece? Cosa fai nel tempo libero?» Chiedo a Greta.
 «Lei saltella con un ridicolo tutù rosa.»
 «Si chiama danza classica!» La riprende.
 «Wow! Adoro la danza classica. Da quanto la studi?»
 «Avevo tre anni quando ho iniziato... ora sono la prima ballerina della compagnia.»
 «Davvero?» Le rispondo con sorpresa.
 «Sì, è il capo di tutti. Fossi in lei, girerei con un lungo bastone per picchiare chi mi manca di rispetto, e farei la stronza con i più piccoli, quelli appena arrivati. Mi farei servire e riverire dall'inizio alla fine, incutendo paura e soggezione a chiunque si addentri nel mio territorio.»
 «Sei una stupida... » Ribatte Greta. Io non posso far altro che ridere. I loro battibecchi sono la cosa più divertente a cui abbia assistito nell'ultimo anno.
 Improvvisamente percepisco un'ombra avvicinarsi alle mie spalle e noto che le ragazze di zittiscono. Mi volto e sollevo la testa: Andy è proprio lì, accanto a me e sta per sedersi al mio fianco.
 «Ciao Mizu! Buongiorno ragazze!»
 Mi accorgo che tutta la mensa ci sta guardando. Andy è raggiante come ieri, indossa una maglietta celeste e dei jeans scuri, i suoi capelli sono così folti e lucidi da sembrare finti. Il suo sorriso illumina tutto il tavolo.
 «Ciao Andy!» Gli rispondo.
 «Andata bene la mattinata? Ti stai ambientando?»
 «Sì, benissimo. Oggi ho visto il laboratorio di chimica e l'aula di storia. Questa scuola sembra piccola ma è davvero ben tenuta e attrezzata.»
 «Sì, c'è un po' di tutto... e ti hanno mostrato anche la palestra e la biblioteca?»
 «Uhm no, ancora no. Magari ci andiamo più tardi?» Mi rivolgo a Fely e Greta, le quali sono rimaste in silenzio. Fely ha assunto uno sguardo di sfida, misto a un celato imbarazzo che tutta quell'attenzione le sta provocando; Greta è rossa come l'avessero presa a schiaffi, ha gli occhi increduli e la bocca serrata come prima di un attacco di panico.
 «Oh... scusami... ti presento le mie amiche: Fely e Greta.»
 «Piacere!» Andy solleva una mano e le saluta. Fely solleva la forchetta e ripete il suo gesto, riprendendo a mangiare. Greta emette un gemito intraducibile e abbassa lo sguardo.
 Io comprendo di averle messe in difficoltà e indico ad Andy di allontanarci un attimo.
 Usciamo in cortile e ci accostiamo al muretto che lo delimita.
 «Ti va se più tardi andiamo a prendere un tè da Bonnie?»
 «È quel bar dove ci portavano da bambini?»
 «Esatto. È rimasto identico. Fanno ancora quei biscotti giganti con i pezzi di cioccolato e cannella.»
 «Allora sì... assolutamente.»
 «Fantastico! Così mi aggiorni un po' su tutto quello che è successo in questi anni!»
 Annuisco con entusiasmo. Scambiamo ancora due parole, poi ci salutiamo e torniamo dentro. Mentre raggiungo le ragazze, vedo che Fely sta rimproverando Greta sottovoce, mentre lei ha gli occhi gonfi di un pianto trattenuto, il piccolo viso stravolto e le mani intrecciate in grembo.
 Rallento per lasciare chi finiscano. Infine sopraggiungo e Fely mi sorride.
 «Ha ragione il tuo amico. Dobbiamo mostrarti ancora la palestra e la biblioteca.»
 La palestra è piuttosto grande, ha diversi attrezzi per l'aerobica, persino una trave e degli anelli. Gli spogliatoi sono mediamente puliti, con le solite porte e pareti tappezzati di scritte. Per andare in biblioteca, scendiamo di un piano rispetto al piano terra. Attraversiamo un lungo corridoio e superiamo una sorta di banco-informazioni alla nostra destra, vuoto.
 Le porte della sala hanno gli oblò e sono piuttosto cigolanti. Suppongo che questa sia l'area meno trafficata e frequentata dell'intero istituto.
 «Qui ci trovi tanti... libri. Ed è dove ci mettono in punizione quando facciamo qualcosa di sbagliato. Il mio posticino è lì... tra il settore di storia antica e quello di biologia marina.» Indica Fely.
 «A me non piace molto venire qui... non ci sono finestre e c'è sempre la stessa luce, sia giorno che di sera.» Aggiunge Greta.
 «Le biblioteche sono così... sono un po' isolate dal mondo. Io le trovo molto affascinanti.»
 Mi addentro al suo interno e scorgo volumi molto interessanti, apparentemente antichi, dalle copertine rigide e i titoli in parte scoloriti.
 Faccio qualche passo tra gli scaffali e mi ritrovo in un piccolo spazio attrezzato, con una scrivania e alcune sedie. Su di essa c'è un portatile acceso, diversi libri aperti, uno sull'altro, delle cuffie, fogli e penne sparse, una lampada retrò accesa nel mezzo, presa in prestito dalla segreteria o dall'ufficio di qualche professore.
 «No... andiamo via.» Dice Fely con tono annoiato.
 «C'è qualcuno che studia qui?»
 «È un tipo asociale, che nessuno vede mai in giro. Un tipo strano, solitario, per nulla simpatico, che sarebbe meglio non incrociare.»
 Quei pochi dettagli sono sufficienti a farmi accapponare la pelle.
 «Ha ragione Fely, se ci vede intorno alle sue cose inizierà a trattarci male. Andiamo... tra poco inizia la lezione di fisica.»
 Non me lo faccio ripetere due volte. Una certa agitazione mi sale dalle gambe e mi viene l'istintiva voglia di correre via. Cerco di trattenermi e di camminare al loro fianco. L'ultima volta che un tipo strano e solitario è sbucato nella mia vita, l'ha distrutta e fatta a pezzi.
 Risalite a piano terra, il vociare dei ragazzi e il suono della campanella mi ristabilizzano. La biblioteca era l'ultimo spazio della Crown da visitare. Ora che l'ho vista tutta posso reputarmi parte integrante di essa e della sua schiera di studenti.
 Il passato, con tutti i suoi dolori, resterà ben chiuso nel cassetto, in attesa di tempi migliori.
 Da adesso, godiamoci l'inizio della risalita.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - "Il libro del treno" ***


 Per raggiungere il Bonnie mi sono  persa già tre volte.
 Non ricordavo se bisognasse imboccare il secondo o il terzo vicolo di Green Street. Alla fine ho attivato il navigatore e ho scoperto di averlo dietro le spalle, a pochi metri dal mio naso.
 Mi avvicino e scorgo Andy già seduto all'interno, che spulcia il menù.
 «Ciao!» Gli dico andandogli incontro.
 Andy sobbalza e mi fa un enorme sorriso dei suoi.
 «Ciao Mizu!» Si alza e mi abbraccia. Gli arrivo giusto al collo e sento tutto il profumo che avrà messo dopo gli allenamenti e la doccia. È come un peluche appena uscito dalla lavatrice.
 «Come è andato il secondo giorno di scuola?»
 «Molto bene direi.»
 «Fantastico! La Crown è un ambiente piccolo, i ragazzi si conoscono tutti, i professori sono spesso dei casi umani o disperati. Venendo da Shallville, sarai abituata a grandi strutture, piene di corsi e di iniziative, con professori ultra-qualificati.»
 «Beh... sì, la mia vecchia scuola era molto grande, eravamo più di duemila studenti, ma non mancavano di certo gli squilibrati o i fanatici.»
 Il cameriere si avvicina e gli ordiniamo del tè con i famosi biscotti giganti.
 «Non posso ancora crederci che vivi qui... per quanto resterai?»
 «Penso fino alla fine dell'anno scolastico.»
 «E poi? Hai già fatto i test di ammissione? Hai scelto qualche università?»
 La sua domanda mi riporta velocemente indietro nei mesi, a quei pomeriggi passati con Ryan per studiare, in vista degli ACT di maggio. Se penso a quanto mi fossi avvicinata a lui per quelle stupide lezioni di matematica...
 «Sì... li ho già sostenuti. E ho fatto alcune domande, ma non ho ancora ricevuto risposte.»
 «In quali università?» Mi chiede con veemenza, come se speri che abbia scelto le stesse che ha scelto lui.
 «Ho fatto domanda alla Emory University e al Baylor college of medicine, ma la mia speranza più grande è quella di entrare alla John Hopkins, dove si è laureato mio padre.»
 «Oh... capisco. Vuoi fare medicina, quindi?» Il suo entusiasmo si affievolisce.
 «Sì, è sempre stato il mio sogno.»
 «Lo so... come dimenticare tutte le visite che mi hai fatto con lo stetoscopio di tuo padre? E quegli intrugli di succhi che mi davi per curarmi?»
 Scoppio a ridere fragorosamente.
 «Sei stato la mia prima cavia! Direi che ti ha fatto bene!» Andy sbuffa divertito.
 «Beh, ti auguro davvero di riuscire a entrare alla Hopkins. Dicono che sia difficilissimo entrare, ma sono sicuro che ce la farai. Peccato che sia così lontana.»
 «Perché? Tu dove andrai?»
 «Ho fatto domanda alla Jacksonville University, al Florida International University e alla Miami University... tutte in Florida, per la facoltà di economia. Sai, mi piacerebbe entrare nell'azienda di famiglia.»
 «Wow... sarebbe fantastico. Ti ci vedo bene a dirigere un esercito di dipendenti, tutto vestito a puntino, con una bella segretaria al servizio e tanti consiglieri che ti stanno alle calcagna notte e giorno.»
 Arrivano il tè e i biscotti. Resto sconvolta e meravigliata: sono esattamente come li ricordavo. Ne addento uno e mi sembra di riascoltare la voce di mia nonna che li ordina, nonostante Beky li avesse proibiti per il loro folle quantitativo calorico.
 «Sono buonissimi... grazie per avermi portata qui!»
 «Di nulla... » mi risponde soddisfatto.
 «E per il resto? Cosa hai fatto di bello in questi anni? Io sono stato in India con tua zia per un servizio fotografico. Te l'ha detto?»
 «Sì, mi ha accennato che hai lavorato per loro in alcune occasioni!»
 «Ai miei non va molto giù che entri in quell'ambiente... sono convinti che sia pieno di gente senza scrupoli, in attesa di sfruttarti. Eppure, ogni tanto, mi piace accettare le loro proposte. Mi fa salire l'autostima alle stelle.»
 «Come se ne avessi bisogno! Tutto avrei potuto immaginare, tranne che venissi ingaggiato come modello.»
 «Perché tu ricordi l'Andy grassoccio e sgraziato. Hai idea di quanto si possa cambiare in cinque anni?»
 «Ora sì!» Poso il biscotto e faccio una pausa. Il mio stomaco è già pieno.
 «Comunque anche io ho viaggiato, sono stata in Francia, in Italia e in Australia per degli scambi culturali. Sono stata anche in Giappone, dai parenti di mia madre. È stato il viaggio più bello della mia vita...»
 «Come stai vivendo il distacco da casa? Ti mancano i tuoi?»
 «Non posso negarlo... un po' mi mancano.»
 «Ti capisco... deve essere stata dura decidere di andarsene così lontano.»
 Intuisco che voglia arrivare a indagare sui motivi della mia partenza. Ma non è quello il momento e il luogo per parlarne. Devo sforzarmi di cambiare argomento.
 «E tu invece? Ti sei dato da fare...»
 «A cosa ti riferisci?»
 «Alla tua ragazza!»
 «Ah sì... ma te l'ho spiegato. Non è una cosa seria... stiamo insieme da due anni, ma suppongo che non durerà ancora molto. Lei non ha intenzione di iscriversi all'università, per cui staremo lontani e questo finirà per dividerci.»
 «In breve... la lascerai prima di partire?»
 Ci guardiamo negli occhi e scoppiamo a ridere.
 «È così che va la vita... » Aggiunge sarcastico.
 «Tu, invece? Hai spezzato qualche cuore?»
 «Io? Uhmm... direi di no. Lo sai bene, sono molto selettiva.» Mi sforzo di sorridere.
 «Proprio nessuno? Impossibile. Non ci credo.»
 «Eppure è così. Credimi.»
 «Nessuna dichiarazione?»
 «No.»
 Sta per salirmi un fiotto d'ansia. Ho già iniziato a tremare. Nascondo le mani sotto il tavolo.
 Vedo che Andy mi osserva incredulo; ha capito che sono leggermente turbata. Apre la bocca per dire qualcosa, ma si ferma subito. Ha scorto qualcuno alle mie spalle e gli ha indirizzato lo sguardo.
 «Professor Clark!»
 Mi volto e scorgo un uomo sulla cinquantina, robusto, con la testa tonda e lucida, le labbra carnose e due folti baffi grigi guardarsi intorno, alla ricerca di un tavolo libero. Quando Andy lo chiama, lui ci individua e ci viene vicino.
 «Ciao Andy!»
 «Si sieda con noi! A quest'ora è difficile trovare un posto.»
 «Ti ringrazio!» Si siede di fianco a lui, davanti a me, e posa la sua enorme tazza di caffè e un libro che ho già visto, anzi, che ho già letto.
 «Lui è il nostro professore di storia. Forse vi siete già incontrati.» Dice Andy.
 l professore mi osserva e poi esordisce: «sei la ragazza nuova, o mi sbaglio?»
 Distolgo lo sguardo dal libro e metto per un istante a fuoco il suo viso.
 «È vero, mi scusi... sono proprio io.»
 «Noi ci conosciamo dall'infanzia. Da piccola veniva a trovare sua nonna qui.» Andy racconta brevemente la mia storia e la nostra amicizia.
 «Ti stai trovando bene alla Crown?» Mi chiede.
 «Per ora sì... anche se sono passati soltanto due giorni.»
 «Quali materie preferisci?»
 Il professore ha un tono amichevole e confidenziale. Sembra un tipo alla mano.
 «Quelle scientifiche... chimica e biologia. Ma adoro anche la storia e la letteratura.»
 «Molto bene! Hai già fatto qualche domanda universitaria?»
 «Sta aspettando risposta dalla Hopkins!» Anticipa Andy.
 «Davvero? Notevole! Ci vuole un punteggio molto alto per entrare... »
 «Ho raggiunto il 34 nell'ACT.»
 «Complimenti... è davvero tanto! Abbiamo guadagnato un ottimo elemento direi... » afferma guardando Andy, che annuisce fiero.
 «La ringrazio... »
 Adesso che ricordo bene, quello che ha posato sul tavolo, è il libro che ho finito di leggere in treno mentre venivo a Whitecliff. Unico elemento di svago che sia riuscito a distrarmi. Il professore si accorge che lo sto fissando e mi chiede: «lo conosci?»
 «Sì... ho finito di leggerlo due giorni fa.»
 «E ti è piaciuto?»
 «Molto... l'ho comprato in una fiera quest'estate. Mi avevano colpito la trama e soprattutto la copertina.»
 «Di cosa parla?» Chiede Andy.
 «È la storia di un uomo che si reincarna molteplici volte dopo essere morto, e ricorda esattamente tutte le sue vite passate.» Risponde il professore.
 «Un uomo che pur conoscendo alla perfezione tutti i rischi e i pericoli della società, i difetti dell'animo umano e le sue debolezze, continua a commettere gli stessi errori, continua a soffrire e a sperare di non rinascere più.» Aggiungo io.
 «Anche se dopo ogni morte, rinasce con una voglia sempre più forte di vivere la sua vita al meglio.» Conclude.
 «Wow... molto interessante. Chi è l'autore?»
 «Un certo Dorian Smith. La fiera era piena dei suoi libri, intere bancarelle tappezzate dai suoi romanzi. Ne ho trovati tantissimi persino nelle librerie del mio quartiere.»
 Gli rispondo.
 «Questo è il suo terzo romanzo. È considerato un fenomeno, un genio letterario come pochi negli ultimi decenni. Si pensa che conquisterà il mercato mondiale, ha già vinto diversi premi importanti e, se continua così, entrerà nell'olimpo della letteratura americana.»
 I suoi occhi piccoli e neri si sono accesi come due fari. L'entusiasmo e l'orgoglio con cui parla gli gonfiano il petto. Sembra quasi che lo conosca.
 «L'ha mai incontrato di persona?» Gli chiedo.
 «... no. Nessuno sa chi sia. Non lo sapevi?»
 «In che senso?» Chiede Andy.
 «Nessuno conosce il suo volto. Nemmeno questo nome sarà reale. Ha scelto di rimanere nel totale anonimato. I romanzi arrivano all'editore, col quale ha un regolare contratto, per via telematica e basta. Nessuno l'ha mai intervistato, né è mai riuscito a capire da dove arrivi il suo materiale. È particolarmente bravo a non lasciare alcuna traccia di sé.»
 Restiamo tutti in silenzio.
 «Che storia incredibile.» Afferma Andy.
 «Non mi sono mai chiesta che faccia avesse. La copertina è enigmatica, c'è un volto oscuro, di profilo, che guarda verso un orizzonte inesistente. Mi ha subito dato l'impressione che non fosse il protagonista del romanzo, ma proprio lui, l'autore. È come se attraverso la copertina e le parole stesse del libro, voglia dire qualcosa di se... voglia trasmettere un messaggio. Forse è molto solo, ha commesso degli errori, sente di avere delle colpe e non sa come rimediare. Forse ha soltanto bisogno di essere compreso.» Mi lascio andare a intime osservazioni. Presa come sono dai miei problemi, dimentico quanto ci sia di bello e interessante, intorno a me, di cui parlare. Quel libro mi ha dato conforto e mi ha aiutata a sopportare il silenzio e la solitudine del mio cuore.
 Il professor Clark mi ha ascoltata con attenzione.
 «Sei una lettrice molto attenta... oltre che una bella mente.» Mi dice con fermezza. Continua ad osservarmi, come se fosse stato colpo da un'idea o da un'illuminazione improvvisa. Reggo il suo sguardo, fino a quando non inizio a sentirmi a disagio, così lo abbasso. Cosa starà pensando?
 «Adesso devo andare ragazzi... è stato un piacere. Vi saluto. A domani!»
 Salutiamo il professore e decidiamo di andare via. Andy si offre di darmi un passaggio con la sua decappottabile rossa.
 Arriviamo davanti casa e vedo che Beky è già rientrata.
 «Grazie del passaggio e della chiacchierata.» Gli dico aprendo lo sportello.
 «Sai che diventerà uno dei nostri ritrovi?»
 «Quei biscotti mi faranno uscire una marea di brufoli.»
 «Impossibile... » mi dice sorridendo. La sua dolcezza è come una ventata di aria fresca in un giorno di caldo torrido. Non ne percepivo così tanta da molto tempo.
 Lo saluto e chiudo lo sportello.
 Mia nonna diceva sempre che per una brutta persona ce ne sono almeno due bellissime, altrimenti l'uomo si sarebbe estinto.
 Io penso di aver trovato la prima.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - "Il progetto di storia" ***


  Il mattino seguente, mi alzo di buon umore, faccio la mia solita colazione ed esco in anticipo. Voglio godermi la discesa dalla collinetta, percorrere la scalinata in pietra con calma e osservare il mare in lontananza, mentre riflette i raggi chiari e nitidi del sole.
  Arrivo davanti la scuola ed entro nell'aula di letteratura ancora deserta. Man mano che tutti i miei compagni mi raggiungono, mi accorgo, per la prima volta, che il banco in fondo a destra è vuoto. Anzi, che lo è sempre stato. Sì, perché nell'ultima fila ci siamo sempre e soltanto io, Greta e Fely. Le ragazze arrivano poco prima del professore, mi salutano con un grande sorriso e si siedono alla svelta.
  Dopo le prime due ore, ci spostiamo nell'aula di storia.
  «Sei poi andata al Bonnie, ieri?» Mi chiede Greta con lo sguardo timido.
 «Sì... » le rispondo. Le sue strane reazioni ai miei incontri con Andy mi mettono ormai in difficoltà, poiché non so bene cosa dirle. Non capisco se la irritano o entusiasmano.
  «Quindi verrai a sentire le prove oggi?» Interviene Fely, infilandosi tra di noi.
  «Certo! Dimmi solo dove abiti e vi raggiungerò!»
  «Ma no... puoi venire con noi subito dopo le lezioni! Mangiamo qualcosa al volo e poi iniziamo.»
  «Fely... magari Mizu ha da fare... » la riprende Greta.
  «No, affatto. Per me va benissimo! Allora verrò con voi.»

  Nell'entrare in aula, troviamo il professor Clark seduto alla cattedra, che divide dei fogli in gruppi.
  Lo salutiamo e ci mettiamo al nostro posto. Anche durante la lezione di storia, l'ultimo banco in fondo a destra è vuoto.
  «Buongiorno ragazzi... allora, oggi ho un bel progettino da proporvi.» Esordisce mettendosi in piedi. Ieri al Bonnie mi ha davvero colpita; i professori del mio liceo privato erano piuttosto rigidi e scostanti, nessuno di loro si sarebbe mai seduto al tavolo con degli studenti, a condividere una tazza di caffè.
  «Come ben sapete, durante l'ultimo anno di scuola superiore è molto importante accumulare punti per accrescere il vostro curriculum e fare punteggio. Ogni progetto, iniziativa o corso che le vostre piccole menti in fermento riescano a reggere, può davvero aiutarvi a fare la differenza. Dunque, ho pensato di avviare un fantastico programma di riscoperta dei personaggi più illustri della contea, dal reduce di guerra, allo scienziato, dal politico che ha assistito alla nascita della Costituzione al viaggiatore che è arrivato in Cina ed è tornato più ricco di prima. Il vostro compito sarà quello di rintracciare quante più fonti relative al personaggio che vi assegnerò e di ricostruire la sua vita nei minimi dettagli, attraverso testimonianze, interviste, documenti e racconti.»
  Fely sbuffa e si solleva la cerniera della felpa fin sotto il naso, per poi mettersi a braccia conserte. Immagino che detesti queste iniziative. Mi sorge persino il dubbio che non voglia frequentare alcuna università; non mi sembra il tipo.
  «Vi dividerò in coppie. Ogni coppia riceverà il fascicolo con una scheda relativa al personaggio da approfondire, e tutti i canali percorribili per rintracciare il maggior numero di notizie su di lui. Avete un mese per completare il tutto. Alla fine del mese dovrete consegnarmi un video, nel quale esponete la vostra ricerca e mostrate le eventuali interviste o studi fatti, e che vedremo tutti insieme qui, in aula. Poi riceverete un voto. Più la ricerca è dettagliata ed esaustiva, più alto sarà il voto. Avete qualche domanda?»
  Fely alza subito la mano: «potrei stare con Sullivan? Abbiamo già lavorato in coppia e ci siamo trovate molto bene.»
  «Tranquilla Milton, ti ho già accoppiata con lei. Non voglio assegnarti come penalità a nessuno... »
  Fely fa un respiro di sollievo. Il professore prende il suo registro e inizia a elencare le coppie. Procede in modo piuttosto spedito. Alcuni miei compagni esultano, altri alzano gli occhi al cielo. Inizia a salirmi una certa trepidazione. Non ho socializzato con nessun altro al di fuori delle ragazze, per cui sarà imbarazzante a prescindere. Spero soltanto che sia un soggetto semplice e tranquillo, tipo il secchione con gli occhiali spessi e i capelli arruffati al primo banco, o la ragazza con le trecce e l'apparecchio ai denti seduta in seconda fila.
  «Infine Mizu Allen va con... beh, magari ne parliamo a fine lezione, ok? Bene, ora iniziamo!»
  Resto di sasso.
  Che significa? Che salto il progetto? Proprio io che ho un bisogno disperato di punti? Non può farlo...
  Le ragazze mi guardano e fanno spallucce. Nemmeno loro hanno ben capito cosa il professore abbia in mente per me.
  Al suono della campanella, tutti escono baldanzosi per andare a mensa.
  «Ti aspettiamo al solito tavolo.» Bisbiglia Fely passandomi accanto.
  Io attendo che siano tutti usciti e mi avvicino al professore.
  «Ah Mizu... perdonami se ti ho lasciata in sospeso... è che volevo parlarti in privato.»
  «Va bene, nessun problema. Vuole farmi saltare il progetto?»
  «No, assolutamente. Anzi... in realtà sei stata proprio l'imprevisto che aspettavo per farlo partire al meglio.»
  «Imprevisto?» Gli chiedo sorpresa.
  «Esatto. Sai, se non ti avessi conosciuta meglio ieri, al Bonnie, non sarei mai giunto a questa conclusione. Invece abbiamo parlato e ho realizzato subito quanto tu sia intelligente e perspicace. Hai una preparazione al di sopra della nostra media, lo sai? Ho spulciato nel tuo curriculum e mi hai meravigliato. Cercavo proprio una persona come te.»
  «Come me? Per cosa?»
  «Ecco ti spiego... tu sei qui da pochissimo tempo, per cui non sarai ancora riuscita a incontrarlo... ma devi sapere alla Crown abbiamo uno studente particolare. È molto dotato, ha il QI tra i cinque più alti dello Stato ed è stato ammesso in tutte le più prestigiose università d'America. In realtà, è stato gentilmente invitato ad iscriversi... da Yale ad Harvard, dalla Brown a Princeton... sono tutti in attesa di una sua risposta. Entro dicembre comunicherà la sua scelta.»
  Tutto molto interessante, ma non riesco ancora a capire dove voglia arrivare.
  «E se da un lato rappresenta per noi un enorme motivo di vanto, dall'altro... sai... è sempre stato un soggetto difficile da gestire. Dopo aver frequentato le classi nei primi anni, ha deciso di darsi a un isolamento volontario. Abbiamo cercato in tutti i modi di farlo tornare in aula, con gli altri studenti, ma si è sempre fortemente rifiutato. Per noi è davvero difficile minacciarlo... lui si presenta puntuale a tutti i test e ai compiti in classe, li termina in pochi minuti e ha sempre dei voti altissimi. Spesso è complicato persino per noi professori stargli dietro... lui studia per conto suo, con delle tecniche sconosciute. Non c'è nulla nella sua condotta o nei suoi risultati che possa giustificare una sua espulsione, né vorremmo mai perderlo, per alcuna ragione. Quando uscirà da una di quelle università prestigiose e diventerà un professionista affermato, vogliamo poter godere del suo prestigio e vantarci di averlo avuto tra i nostri banchi. Capisci?»
  «Sì... » affermo con aria di circostanza.
  «Ora ti starai chiedendo: cosa c'entro io, in tutta questa storia?» Mi sorride.
  «Tu sei la prima persona che mi abbia colpito al punto da poter pensare che... forse potresti avvicinarti al nostro studente prodigio e tentare di riavvicinarlo a noi.»
  Devo aver strabuzzato eccessivamente i miei occhi sottili, perché il professore passa subito ai ripari.
  «Non che tu debba iniziare a perseguitarlo e minacciarlo di tornare in aula! Vorrei soltanto che provassi a... »
  «A... ?»
  «A spiegargli che vi ho messi in coppia per il progetto di storia. E che se si tira indietro, io... gli darò un giudizio negativo... così negativo da intaccare il suo curriculum impeccabile. Tu sei la persona giusta per farlo.»
  «Io?»
  «Sì... tu. Immagina che prestigio potrebbe darti l'aver fatto un progetto con lui. Sei l'unica alla sua altezza, l'unica con cui potrebbe accettare di collaborare e a cui darebbe ascolto. Con gli altri studenti non parla da quasi tre anni. Viene a scuola solo perché costretto; dipendesse da lui... starebbe già in isolamento totale, sulla cima della montagna più alta del mondo.»
  Sono confusa e spiazzata. Questa piega ha oscurato la mia giornata insolitamente allegra e soleggiata.
  «Non so... cosa dire. Insomma... io sono nuova, non conosco nessuno e... non ho mai visto questa persona. Non credo di riuscire ad avvicinarmi a lui con così tanta facilità. Non sono nemmeno così brava a socializzare.»
  «Beh... nemmeno lui! È per questo che siete compatibili.»
  «Ma... come fanno due persone introverse a venirsi incontro? Io non sono sociale e carismatica... non sono una trascinatrice. Finiremmo per scambiarci degli insulti e odiarci prima ancora di conoscerci.»
  «No Mizu... non dire così. Lui è molto astuto. Gli basterà parlarti poche volte, ascoltare qualcuna delle tue riflessioni e arriverebbe da solo a capire che sei diversa dagli altri. Prova a fargli qualche battuta sul libro di cui parlavamo ieri, ricordi? Quello dell'uomo che muore e si reincarna decine di volte. Lui adora quel libro. Prova a esporgli la tua interpretazione... vedrai che si aprirà molto nei tuoi confronti.»
  Tutto questo discorso e questo enorme sforzo richiesto, mi appaiono ancora incredibilmente oscuri. Ho già provato a cambiare qualcuno, in passato. Ho già provato a recuperare l'irrecuperabile, a dare una mano a chi mi sembrava fortemente a disagio con gli altri. E non è andata bene.
  Li conosco i tipi così, gli asociali con forti problemi di autostima. E non ho bisogno di salvarne altri.
  «Mi spiace ma... non credo di potercela fare. Non me la sento. Potrei partecipare da sola. Non mi serve un compagno.»
  «È esattamente quello che mi ha risposto lui... quando gli ho parlato del progetto.»
  Continuo a negare con la testa. A cosa può portarmi un sacrificio del genere? E poi? Non conosco né lui né il professore. Perché dovrei prendermi questa rogna?
  «Mizu... ascoltami bene: il voto e il giudizio che guadagneresti da questa avventura, potrebbero farti davvero molto comodo. Credimi.»
  I suoi occhi neri, pieni di speranza, mi incollano al banco sul quale mi sono appoggiata.
  «Fidati di me... lo so che ci conosciamo poco, ma ti assicuro che non ho doppi fini, né cattive intenzioni. Voglio coltivare al meglio le menti più pregiate, perché credo nel potenziale della vostra generazione. Io sono un insegnante e il mio scopo è quello di tirar fuori il meglio da voi. Sono sicuro che da te e Samuel, potrebbe venir fuori qualcosa di eccezionale.»
  Non so davvero cosa fare.
  «Dagli una possibilità! Incontralo... parlagli e vedi cosa succede. Se proprio non va... pazienza. Continuerò a essere sempre una spalla e un supporto per te e per lui, indistintamente.»
  Quando esco dall'aula, una forma di rabbia, mista a incredulità, mi risale dalle ginocchia. Non posso credere di avergli detto di sì. Di aver accettato la sua proposta, e avergli promesso che domani raggiungerò il fantomatico genio, nel suo covo sotterraneo, per tentare un avvicinamento fallimentare in partenza.
  Raggiungo le ragazze in mensa e racconto loro tutto l'accaduto.
  «Cosa? Non ci posso credere!» Urla Fely sputacchiando il suo riso alla cantonese.
  «Quell'individuo è pazzo! È un arrogante, sociopatico, cocciuto come un mulo!»
  «Ma se il primo anno ti piaceva... » Afferma Greta.
  «A me? Piaceva? Ma cosa hai bevuto? Sì... l'ho trovato affascinante le prime settimane, aveva quel non so ché di misterioso e oscuro... poi però siamo quasi arrivati alle mani due o tre volte... e la passione è diventata odio.»
  Abbandono la forchetta sul tavolo e mi fascio la testa con le mani.
  «Ma perché a me? É soltanto il mio terzo giorno di scuola»
  «Stai tranquilla Mizu... Samuel è meno male di quello che dicono. È soltanto un po' particolare, ma è un ragazzo per bene, non ha mai fatto del male a nessuno. Vuole soltanto starsene per conto suo, in silenzio, con i suoi studi, nel suo mondo. Chissà che non abbia vissuto qualche trauma o situazione sgradevole in passato.» Greta mi appoggia la mano sul braccio e mi rassicura molto.
  «Domani verremo in biblioteca con te. Resteremo fuori ad aspettarti, così saprai che per qualsiasi cosa... noi siamo pronte a intervenire.» Continua Fely.
  «Intervenire? Perché? Cosa potrebbe farmi?»
  «Nulla! Smettila di spaventarla! Sei una stupida... »
  «Stupida lo sarai tu.» Fely tira un chicco di riso a Greta.
  «Oggi passeremo il pomeriggio insieme e ti dimenticherai di questa storia. Domani si vedrà! Ora muoviamoci o faremo tardi alla lezione di chimica!»
  Le ragazze prendono i vassoi e li portano ai carrelli. Io resto a fissare la mia Cesar salad e mi chiedo cosa mi spinga, delle volte, ad andare contro me stessa.
  Forse sarà il mio tacito autolesionismo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - "Gli Ophelia's" ***


 Mentre percorriamo la strada verso casa di Fely, continuo a pensare allo studente prodigio che incontrerò domani, e mi chiedo quale sia il modo migliore per approcciarmi a lui. Forse dovrei mostrarmi sicura e risoluta, senza scrupoli, come quelle persone che ti mettono subito dinnanzi a un bivio e pretendono una scelta immediata: prendere o lasciare. O forse dovrei avvicinarmi con gentilezza; potrei fingere di essere onorata di poterlo affiancare e di non vedere l'ora di imparare da lui il più possibile.
 No... sarebbe patetico. Credo che farò a modo mio; lo raggiungerò, gli spiegherò brevemente i motivi per i quali l'ho cercato e al primo rifiuto, batterò in ritirata. Lavoro semplice e pulito.
 A un tratto Fely rallenta, guardando il suo cellulare.
 «Lo sapevo... Riky è in ritardo. Ha perso l'autobus.»
 Greta le dice di non preoccuparsi, che non abbiamo molto da studiare per domani e che non abbiamo fretta, me Fely continua a inveire contro il suo batterista.
 Il quartiere che abbiamo appena imboccato mi è nuovo. Potremmo considerarlo un po' fuori mano, pieno di villette di vecchia costruzione, squadrate, molto semplici, dai colori sbiaditi. Quando arriviamo davanti casa sua, la porta è dischiusa e da questa esce un buon profumo di biscotti. Fely si avvicina e la spinge con un gomito perché ha le mani ficcate nelle tasche dei jeans.
 «Ciao!» Urla così forte che persino mia zia Beky l'avrà sentita, dall'altra parte di Withecliff.
 «Ciao!» Arriva di rimando dal piano superiore.
 Entriamo e ci troviamo in un salottino dall'arredamento un po' antiquato, ma pulito.
 Fely lascia cadere lo zaino per terra, vicino al divano, e si dirige nella stanza adiacente, che suppongo sia la cucina. Dalle scale difronte all'ingresso, scende una donna sulla quarantina, molto magra, con il viso fine e i capelli racconti in una coda bassa; indossa una divisa da infermiera e delle scarpe da ginnastica dalla suola consumata.
 «Ciao ragazze!» Dà un bacio sulla guancia a Greta e poi mi rivolge uno sguardo dolce, ma leggermente appesantito da una stanchezza recidiva.
 «Tu sei Mizu, vero?»
 «Sì, piacere.» Le rispondo sorridendo.
 Intanto Fely sbuca con un biscotto in bocca e diversi altri in un piatto.
 «Ah si, quelli li ho appena sfornati. Siete arrivate in tempo, stavo per uscire. Fely, ricordati di portare fuori la plastica stasera. E dai da mangiare ai gatti dopo cena. Ah, stendi la lavatrice quando finisce, altrimenti resta dentro bagnata e poi puzza di muffa. Capito?»
 Fely le fa un cenno in stile militare e si lancia di peso sul divano.
 «Scusatemi se non resto con voi, ma sono davvero in ritardo.»
 «Fai il turno di notte?» Le chiede Greta.
 «Sì... sono ormai due settimane. Mancano dei colleghi e siamo costretti a coprire dei turni più lunghi.» Ha le occhiaie appesantite da un'evidente mancanza di sonno.
 «Prima o poi riusciremo a stare un pomeriggio insieme. Promesso.»
 Dà un altro bacio sulla fronte a Greta e mi sfiora il mento con la mano. Afferra la sua borsa, le chiavi della macchina e corre via salutandoci.
 «Tua mamma è proprio una forza.»
 «Sì... uff, li ha fatti al cocco. Io odio il cocco.» Afferma Fely posando il biscotto su un tavolino posto tra il divano e un televisore a tubo catodico.
 «Ma voi prendeteli se vi piacciono.»
 La ringrazio e ne prendo uno. Sono davvero buonissimi e mi stupisco di come non possano piacerle. Si vede che è abituata a mangiarne tanti. In casa mia biscotti così grandi e pieni di burro sono altamente proibiti. Mia madre è sempre molto attenta alla nostra alimentazione e compra soltanto cibi ipocalorici, privi di grassi saturi e carichi di fibre, che spesso sanno di cartone.
 «Ah, non vi ho mostrato il mio ultimo gioiellino!» Esordisce e si alza in piedi, per poi correre verso la scala all'ingresso. Greta mi fa cenno di seguirla e ci dirigiamo tutte al piano superiore.
 Entriamo nella sua camera da letto e la trovo esattamente come la immaginavo, ovvero sopraffatta dal caos. Le pareti sono un'unica sovrapposizione di poster mangiucchiati di gruppi musicali e di cantanti a me sconosciuti, la scrivania è ricoperta da quaderni, spartiti, riviste, pennarelli, ciondoli e bracciali appesi a ogni sporgenza. L'armadio ha un'anta aperta, dalla quale sbucano degli abiti ingarbugliati, per lo più neri, viola e di pelle. Vedo un enorme libro sulla moquette scura, rivestita da incisioni argentate; vi leggo sopra “Introduzione alla magia oscura”.
 «Ah sì, poi te ne parlerò... » mi dice, dopo aver notato il mio sguardo indagatore.
 «Eccola!» Urla, brandendo quella che sembra una piastra per capelli.
 «Me l'ha portata mia cugina da Denver! Dice che è un portento! Non l'ho ancora usata... beh in realtà pensavo di testarla su di te.» Dice, guardando Greta.
 «Perché sempre me? Non puoi testarla prima sui tuoi capelli?»
 «Te l'ho già spiegato... i miei capelli son troppo rovinati. I tuoi sono vergini! E poi sono così ricci che se una piastra riesce a domarli, vuol dire che è un portento!»
 Greta sbuffa e si siede su una sedia imbottita, con le rotelle.
 «Anche i tuoi saranno vergini... sono lisci naturali, vero?» Mi chiede con un certo luccichio nelle iridi.
 «Non farci caso. Ha l'ossessione per i capelli lisci. Ha provato ogni tipo di piastra e di stiratura chimica dall'età di tredici anni.»
 In effetti avevo notato l'aspetto leggermente stressato della sua chioma. I capelli di Fely sono lisci e corti poco sopra le spalle, direi scalati o così spezzati in punta da sembrarlo.
 «Sì, sono irrimediabilmente lisci. Non esiste piega o trattamento in grado di modificarli. È per questo che li ho sempre portati così, lunghi e pari. Se li accorciassi sembrerei un maschietto con il casco.» Le ragazze ridono.
 «Non sai quanto pagherei per averli come i tuoi...» Fely attacca la piastra alla presa e fa ruotare Greta sulla sedia, proprio come in un salone di bellezza.
 
Mentre andiamo in cortile per incontrare Ben e Rick, Greta cerca di tirarsi su i capelli ancora caldi per il trattamento, ma Fely la richiama.
 «Non toccarli! Sono bellissimi! Questa piastra è fenomenale!»
 I suoi grandi occhi azzurri spuntano ancora più di prima e riempiono tutto il piccolo viso. A volte mi parte l'istinto incontenibile di accarezzarle la testa, come si fa con i bambini, ma mi sforzo di non cedere; in effetti potrebbe prenderla male.
 Riky e Ben sono seduti su un muretto di fianco alla porta del garage.
 «Eccovi finalmente!» Sbraita Fely.
 «Ci hanno trattenuti a scuola per un controllo degli armadietti e ho perso l'autobus, non ho colpa!»
 «Riky smettila. Lo so che ti vedi con quella tipetta con i dentoni.»
 «Non ha i dentoni!»
 «Sì, li ha... però state bene insieme.»
 Riky è piuttosto alto e robusto. Ha la faccia paffuta, i capelli neri, dritti come spaghetti, tenuti a mo' di riccio e due piccoli occhi scuri, nascosti da un paio di occhiali sottili ma dalla montatura spessa.
 «E tu? Perché non sei arrivato prima?» Chiede Fely a Ben, mentre solleva il portone del garage. Ben è un ragazzo filiforme, mediamente alto, ma più basso di Fely di pochi centimetri. Ha un viso pulito ed essenziale, i capelli castani, folti e scalati lungo la fronte e la nuca. A primo impatto sembra uno di quei modelli dall'aspetto etereo e angelico, dall'età indefinibile, asettici e privi di difetti, come un manichino.
 «Io aspettavo Riky al discount. Dovevamo comprare della birra prima di venire.» Risponde a sguardo basso, ma non per timidezza. È come se fosse arrabbiato per qualcosa.
 «Birra? E dov'è adesso?»
 «È rimasta nel furgone. Più tardi la scarico.»
 «Ok... comunque questa è la nostra nuova amica, Mizu.»
 Mi presenta ed entrambi mi salutano. Riky mi sorride e mi dà il benvenuto, Ben solleva appena la mano.
 Dopo aver sistemato gli strumenti e aver stabilito la scaletta, finalmente gli Ophelia's iniziano. Io e Greta ci siamo sedute su due bidoni di vernice rigirati e continuiamo a mangiare i biscotti al cocco della mamma di Fely.
 Man mano che le canzoni si succedono, mi rendo conto di quanto sia effettivamente brava a cantare. Ha una voce graffiante e potente, rauca in alcuni momenti. Le sue lunghe braccia reggono la chitarra con naturalezza e il suo corpo sembra tutt'uno con lo strumento. Si accosta al microfono come una star consumata, ormai esperta di palchi e concerti. Apprezzo molto la disinvoltura e la sensualità che trasmette. Si intuisce subito che quello è il suo mondo è che lei è fatta per cantare e per dirigere una band.
 Dietro di lei, Riky suona con grande entusiasmo e trasporto. Ha sempre un sorriso goliardico sul volto e ogni tanto fa la linguaccia. Mi diverte vederlo battere con quelle bacchette sui piatti. Ben, invece, è concentrato sulla sua tastiera, osserva gli spartiti con lo sguardo corrucciato e, solo di rado, solleva gli occhi su Fely. È come se si fosse calato in una concentrazione assoluta, dove niente e nessuno può raggiungerlo e distrarlo. Deve essergli successo qualcosa, o non si spiegherebbe quel suo stato adirato.
 Dopo le prove, abbassiamo il portone del garage ci sistemiamo tutti all'interno, a bere una birra.
 Fely accende alcune lampade al neon di svariati colori, montate sulle pareti a formare delle ambigue forme geometriche. Lei e Ben affondano in un divano piuttosto sfondato nel mezzo, rimasto nascosto da scatoloni pieni di giacche eccentriche, di pelle o borchiate.
 «Quelli sono i tuoi costumi di scena?» Le chiedo.
 «Uhm... no. È robaccia di mio padre.» Risponde Fely trattenendo un rutto nella gola.
 Ben continua a mantenere lo sguardo basso, ogni tanto le bisbiglia qualcosa e lei annuisce o risponde, mantenendo una certa pacatezza. Riky, invece, ha iniziato a raccontare alcune delle sue avventure estive in un villaggio in Messico. Greta lo ascolta e ride tanto, forse anche a causa della birra.
 «Che ne dici? Ti siamo piaciuti?» Mi chiede Fely.
 «Sembra che suoniate da sempre. Mi siete piaciuti molto.»
 «Che musica ascolti? Non te l'ho ancora chiesto... »
 «Ecco... » mi coglie alla sprovvista.
 «Non ho dei cantanti preferiti in particolare. Vado molto a ispirazione.»
 «Eh no, non va bene. Devi affinare i tuoi gusti. Non può piacerti un po' di tutto. Devi sviluppare la tua personale fede verso un artista e supportarlo. Cosa ci resta di bello, se non la musica e la voglia sfrenata di andare a un concerto?» Mi chiede Riky.
 «Fatti gli affaracci tuoi! Lei ascolta quello che le pare. Non ha preconcetti, né limitazioni. Questo è bello!» Si inserisce Fely, sollevando la bottiglia di birra in mio onore.
 Il fatto che abbia voluto giustificarmi mi fa sorridere. Non è semplice comprendere i suoi atteggiamenti, né capire se le stai simpatica o antipatica.
 «Ha ragione Fely. Io non ho preconcetti. In me regna la meritocrazia... le belle canzoni vincono sulle altre a prescindere dal genere e dall'autore.» Aggiungo, e Fely stappa la sua seconda bottiglia. Ho come l'impressione che dormirà di sasso stanotte.
 Verso le otto, io e Greta decidiamo di tornare a casa. Salutiamo tutti e ci incamminiamo.
 «Non bevono sempre così tanto... cioè, non bevono così tutti i giorni.»
 «Nessun problema, non mi dà fastidio. Sono tutti... particolari.»
 «Per stare con Fely lo devi essere.»
 Le sorrido. «Ben mi è sembrato un po' arrabbiato. Forse non gradisce la presenza di estranei alle prove?»
 «Ben? Ah no... lui è sempre così. Non l'ho mai visto sorridere. Lui è un tipo molto cupo, parla poco, ma se ci entri in confidenza ti accorgi subito che è un bravissimo ragazzo. Sa ascoltare e consigliare bene. Certo... le sue sono delle massime, più che dei consigli. Però è davvero un buon amico.»
 «Con Fely ha parlato tanto.»
 «Sì. Lei è l'unica con cui si apre. Le raccontata molte cose e spesso le scrive dei messaggi lunghissimi. Io sono convinta che sia profondamente innamorato di lei! Fely dice che mi sbaglio, che sono come fratelli e che lui non ha alcun secondo fine.»
 «Quindi Ben avrebbe una cotta per Fely? Non l'avrei mai detto.»
 «Io ne sono certa. Ben non fa nulla senza il suo consenso. Quando litigano per qualche motivo, lui è sempre il primo a riavvicinarsi. Non riesce a starle lontana per più di due giorni di fila. Lei dice che io sono l'unica a pensarla così. Che mi piace fantasticare e sguazzare nel mio romanticismo.» In effetti, nel dirmi ciò, i suoi occhi brillano di luce propria.
 «Sei ansiosa per domani?»
 «Uhm... no.» Il pomeriggio insieme alle ragazze mi ha distratta dal pensante compito che il professor Clark mi ha assegnato.
 «Ho affrontato di peggio... »
 Greta mi guarda con i suoi occhi dolci e accomodanti. Non c'è nulla in lei che non esprima dolcezza.
 «Andrà benissimo. Cerca soltanto di non apparirli debole. Non abbassare il tono della voce, né lo sguardo. Non balbettare, parla in modo preciso e sicuro. Se ti mostrerai decisa, avrai qualche possibilità di essere almeno ascoltata.»
 «Davvero un bel tipo... dove lo tenevate nascosto?» Affermo in modo sarcastico.
 «Noi non l'abbiamo mai nascosto... è lui che lo fa. Samuel non vuole essere circondato che da silenzio. Forse il suo cervello va così veloce che nel caos non riesce a seguirlo. Magari tra gli altri si perde e fa fatica a ritrovarsi... »
 Sembra che Greta mi abbia lento nella mente. Nel treno, durante il mio viaggio verso Withecliff, pensavo proprio a questo: a quanto mi sentissi persa e incapace di ritrovarmi.
 Questo posto, i ricordi del passato, la loro amicizia, la scuola nuova, Andy e zia Beky mi stanno aiutando a ricostruirmi, pezzo per pezzo, come fossi un puzzle infinito.
 Chissà che questo Samuel non abbia qualche tassello, nascosto nelle tasche.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - "Lo studente prodigio" ***


Samuel-Nolan-Hollway
 

Sono le 16:24 e lezioni sono appena finite.
È dal laboratorio di chimica delle 12:00 che sono assalita da uno strano batticuore. Non è da me.
Non è da me aver paura di parlare con uno sconosciuto, di affrontarlo per spiegargli i i motivi per i quali l'ho cercato. Non è da me temere che possa arrabbiarsi, sbraitare, urlarmi contro o anche soltanto deridermi.
 Eppure è così. Sono diventata più fragile. Sono più debole di un tempo e ho perso la mia sicurezza; la sensazione di essere costantemente in pericolo non mi abbandona mai.
«Sei pronta?» Mi chiede Fely, avvicinandosi a me in corridoio.
«Sì. Mi aspettate qui?»
«No... veniamo in biblioteca con te, se vuoi. Ti aspettiamo nell'atrio all'ingresso.» Aggiunge Greta.
Quando arriviamo in prossimità dell'information-desk, e superiamo le porte a spinta, le ragazze lasciano gli zaini in un angolo, vicino a una lunga scrivania, e mi fanno capire che mi aspetteranno lì.
«Nel frattempo, potresti spiegarmi gli appunti di matematica?» Chiede Fely a Greta e io penso che affronterei molto più volentieri gli studi di funzione che l'individuo mitologico.
Le saluto con un cenno della mano e mi addentro tra gli alti scaffali della sezione di storia. Poi ricordo di aver intravisto la sua base segreta tra quelli di letteratura moderna, così inizio a scandagliare tutti i cartelli segnalatori. Supero la sezione di filosofia, arte, filologia e infine scorgo la dicitura scolorita che cercavo.
Faccio un sospiro e mi dico che tanto, prima o poi, dovrò affrontare e superare le mie paure, o queste mi annienteranno. Potrebbe anche risolversi in brevissimo tempo: potrebbe dirmi un "no" categorico e invitarmi a sparire. In quel caso andrei dal professore e gli richiederei di lasciarmi lavorare al progetto da sola.
Ok. Ci siamo... è solo un ragazzo. È un essere umano. Un individuo qualunque. Non posso battere in ritirata così.
Svolto l'angolo e mi ritrovo dinnanzi allo spazio attrezzato, con la scrivania centrale, ricoperta di libri e quaderni, una lampada antiquata, uno zaino aperto su una delle sedie antistanti e un pc acceso.
La luce dello schermo si riflette sul volto pulito ed essenziale di un ragazzo all'apparenza innocuo. Nello specifico, gli illumina e schiarisce gli occhi castani, gli ripassa il contorno del naso dritto, degli zigomi alti, delle labbra serrata e del mento a punta.
Si accorge della mia presenza, assolutamente inaspettata, e solleva lo sguardo per un impercettibile istante; ma non proferisce parola.
Mi schiarisco la voce.
«Ciao. Mi chiamo... io sono Mizu.» Greta mi aveva suggerito di parlare con fermezza e non lasciargli percepire la mia agitazione.
«Mi manda il professor Clark, per il progetto di storia. Mi ha detto che sei già a conoscenza di come è strutturato e di cosa c'è da fare per portarlo a termine. Io sono stata messa in coppia con te. Sono la tua compagna. Dobbiamo lavorare insieme e cercare di prendere un buon voto. È molto importante per me... e per te, suppongo.»
Ho terminato tutto il fiato. Socchiudo la bocca e inspiro con le narici.
Il ragazzo prodigio resta impassibile, come se non avessi mai parlato. Continua a scrivere sulla sua tastiera e a fissare lo schermo con un'espressione fortemente concentrata.
«Il professore tende a precisare che se non accetterai di collaborare, ti lascerà un feedback molto negativo. Tanto negativo da poter incidere sul tuo giudizio complessivo.»
Nulla.
Non reagisce. Cosa diavolo dovrei fare? Non posso di certo sbattere i pugni sul tavolo e pretendere che mi risponda.
«Hai sentito una sola parola di quello che ti ho detto? Non mi muoverò da qui se non mi risponderai.» Ho riesumato un briciolo di coraggio dalla punta delle scarpe.
Faccio qualche passo verso di lui e inizio a spazientirmi. Sbuffo ed espiro con forza dalle narici.
«Non è il massimo fingere di non vedermi! Credi che sia divertente. Puoi almeno guardami in faccia?»
Vorrei prendere quel pc e farglielo volare. La sua indifferenza mi accende un fuoco nel petto e nelle mani. Adesso gliene dico quattro. Mi sfilo lo zaino e lo lancio sulla sedia vicina, dove c'è già il suo. Apro bocca per parlare ma lui mi interrompe.
«Chi stai cercando?» Mi chiede alzando gli occhi.
«Sto cercando... Samuel Hyden.» Ho letto il suo cognome sul foglio del professore, poco prima di entrare in biblioteca.
«Non sono io, mi spiace. Cerca altrove.» E ritorna a fissare lo schermo.
Ma come? Che sta dicendo? In effetti... non ho idea di come sia fatto. Nessuno me l'ha mai descritto. Che abbia davvero sbagliato persona?
«Ma... mi hanno detto che, di solito, è qui che passa il suo tempo, proprio nella sezione di letteratura moderna.»
«Quella moderna va dal cartello in avanti. Qui sei nella zona retrostante, ovvero quella antica.»
Il ticchettio delle sue dita sui tasti sta accompagnando tutto il nostro sterile dialogo.
Indietreggio. Che idiota. Vuoi vedere che ho sbagliato davvero persona?
Ok, niente panico.
Vado per riprendere il mio zaino e mi accorgo che sulla cintura del suo, fissato da una sottile cornice di plastica, c'è un cartellino riportante un nome, un numero di telefono e un indirizzo. Cerco di mettere a fuoco il più possibile e, mentre l'ira mi schizza nuovamente al cervello, leggo distintamente “Samuel Hyden”.
Il furbone mi sta prendendo in giro. Vuole farmi credere di non essere lui e spera di liquidarmi così, nel mondo più semplice e pulito possibile.
Beh, posso assicurarti di aver affrontato situazioni molto più complesse di queste, caro il mio prodigio.
Mi allontano di qualche passo, apro lo zaino e vi rovisto all'interno. Finalmente trovo quello che cercavo e torno indietro.
«Visto che non ho tempo da perdere, mi faresti un favore? Ecco... oltre che parlargli del progetto, dovevo anche dargli questo libro. Il professor Clark dice che potrebbe piacergli molto, ne abbiamo parlato a lungo l'altro giorno, in caffetteria, poiché io l'ho letto tutto d'un fiato, e l'ho trovato bellissimo. Se mai dovesse passare da qui, potresti darglielo? Aggiungi anche lo vorrei indietro. È mio e ci sono molto legata. Grazie.»
Ho appena sbattuto il libro sull'uomo che si reincarna innumerevoli volte sulla sua scrivania. La mia mano è ancora aperta a cinque dita sulla sua copertina e i miei occhi sprigionano fiamme roventi. L'avevo portato con me, perché il professore mi aveva consigliato di giocarmelo come jolly.
Egli sposta subito lo sguardo sul libro e noto un leggerissimo stupore.
Nel tornare sui miei passi, la sua voce risuona nello spazio ristretto, senza più il sottofondo delle dita sulla tastiera.
«Lo conosco bene.»
«Cosa?» Gli chiedo voltandomi lentamente.
«Questo libro.»
«Buon per te. Io lo sto lasciando a Samuel. E tu non sei Samuel, o mi sbaglio?»
«Chi te l'ha regalato?» Mi chiede ignorando la mia domanda.
«L'ho comprato durante una fiera. L'ho scelto io volontariamente.»
«E perché? Cosa ti ha convinta a farlo?»
«La copertina... il volto scuro, di profilo, che guarda verso un orizzonte inesistente. È vuoto lui, è vuoto l'orizzonte. È come se stesse cercando se stesso in un cielo che non ha risposte. Perché le risposte non sono nel cielo... ma dentro di lui.»
Mi fissa come non mi ha mai fissato alcuno. Noto che i suoi occhi sono di un castano cangiante, tendente al verde, che ha alcune lentiggini sul dorso del naso e sulle guance, molto chiare. E che era da tanto tempo che non parlava con qualcuno.
«Hai dedotto tutto questo da un'immagine?»
«Non mi hai risposto. Sei tu o no Samuel Hyden?» Gli chiedo con tono duro, stringendo i denti.
Il ragazzo volta la testa nell'altra direzione. È come se non volesse sbottonarsi, aprirsi o lasciarsi avvicinare.
«Sì. Sono io. Ho già spiegato al professore che non ho intenzione di lavorare in coppia. Gli ho detto che procederò da solo. Farei comunque meglio di chiunque altro in gruppo.»
«È la stessa identica proposta che gli ho fatto io. Sono nuova alla Crown. Non conosco nessuno, non so chi detiene la media più alta, né chi se la cava meglio in storia. E questo è un problema. Ho bisogno di consegnare un progetto di altissimo livello, con cui assicurarmi un voto eccellente e una buona parola da parte del professore.»
«Dove vuoi entrare?» Mi chiede a bruciapelo. Comprendo che si sta riferendo all'università.
«Alla Hopkins.»
«E quanto hai raggiunto nell'ACT?»
«34... »
Il nostro sembra più un duello che un dialogo.
Resta in silenzio a riflettere. Lo schermo del computer si oscura e lo lascia in penombra.
«Ok.» Esordisce d'un tratto.
​«Faremo così: ci divideremo i compiti. Tutto il materiale che produrrai, me lo consegnerai volta per volta, così lo sistemerò e inserirò nel progetto.»
«Perché io dovrei farti visionare e correggere le mie ricerche e io non posso fare lo stesso con le tue?»
«Perché le mie non hanno bisogno di correzioni.»
«Davvero? Sei così sicuro di poter fare un lavoro perfetto? E come la mettiamo con le interviste e le riprese? Dobbiamo montare un video, lo sai? Vuoi apparire soltanto tu? O fare un montaggio delle nostre facce così che escano insieme nella stessa inquadratura?»
«Possiamo riprenderci in video diversi e montare le nostre domande alternate.»
«Quindi dovrei riprendermi mentre faccio le domande al muro? Perché scommetto che delle interviste non me ne assegnerai nemmeno una.»
«In realtà quelle... puoi farle tutte da sola.»
«Da sola?»
«Sì.»
Intuisco che abbia qualche difficoltà a mostrarsi in video. In effetti, se non si mostra dal vivo, quanta voglia avrà di essere proiettato su uno schermo?
«Queste sono le mie condizioni. Non ci sono alternative. Lasciami il tuo indirizzo e-mail. Ti spiegherò nei dettagli cosa dovrai fare e di cosa ti dovrai occupare. Ti darò anche dei tempi di consegna e una scaletta da rispettare. Il più lo farò io... sia per montare che per unire il tutto.»
Sono senza parole. È davvero l'individuo più arrogante e irritante della storia.
«Voglio partecipare al montaggio. E voglio essere accompagnata alle interviste. Non posso andarci da sola. Infine voglio vedere il progetto finale montato, prima della consegna. Non mi va di vederlo per la prima insieme agli altri altri.»
«A cosa ti serve l'accompagnatore? »
«Sono nuova, non conosco le strade, né le persone. E poi non so dove potrei andare a finire. Se fosse a casa di qualche vecchio pervertito?»
Samuel sbuffa, come se stessi montando delle stupide storie, solo per collaborare. Si alza, spingendo la sedia alle sue spalle.
«Ok. Ti accompagnerò alle interviste. Ma non ho videocamere, né alcun tipo di strumentazione per riprendere. A quello devi provvedere tu.»
Annuisco. Mi sembra di aver contrattato per la spartizione dei bottini di guerra tra due fronti nemici. Strappo un pezzo di carta da un mio quaderno, afferro una delle sue penne e gli scrivo il mio indirizzo e-mail. Poi glielo porgo.
«Allora è deciso.»
Samuel prende il pezzo di carta, sfiorandomi le dita. Lo osserva e lo mette in tasca.
Quel libro mi ha davvero spalancato le porte della sua testa di marmo. Chi sa quale diavolo di nesso esiste tra lui e il fantomatico romanzo?
«A presto allora... » gli dico, e mi riprendo il libro.
«Non dovevi lasciarmelo?»
«Lo conosci fin troppo bene, non ne hai bisogno.» Gli rispondo. Chiudo la cerniera del mio zaino e lo saluto con la mano. Mi volto ed esco da quello spazio sospeso nel tempo.
Alle ragazze dirò che è andata benissimo. Che non ho avuto alcuna paura. Che Samuel è un agnellino e che io l'ho convinto senza troppi giri di parole.
In effetti, nonostante fosse palesemente introverso ed enigmatico, lui non mi ha mai intimorita, nemmeno per un secondo. Non c'era cattiveria nei suoi occhi cangianti. Non c'era follia nel suo volto chiaro, né ossessione o violenza nelle sue rapide dita sulla tastiera.
Samuel è un altro tassello, e io l'ho incastrato nel puzzle.
Spero solo di averlo posizionato nel modo corretto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - "Io amo il mare!" ***


Niente male.
Sì. Davvero niente male.
Mentre salgo lungo la collina che conduce a casa, rivolgo lo sguardo al sole che sta per tramontare sul mare in lontananza. La giornata sta volgendo al termine e l'avanzare del buio non mi sta mettendo alcuna ansia, come succede ultimamente. Questo perché ho affrontato un piccolo ostacolo e mi sembra di aver intravisto la vecchia Mizu in fondo al baratro. Mi sembra di averne scorto gli occhi, per un brevissimo istante. Di aver avuto la sua voce e la sua forza, finalmente, dopo tanto tempo.
Arrivo davanti la porta di casa e mi accorgo che c'è un auto parcheggiata di fianco a quella di Beky. Quando entro, percepisco subito un profumo di caffè arabo nell'aria.
«Ah eccola... è arrivata. Mizu, siamo in salotto!»
Seguo la voce di mia zia e mi fermo all'ingresso della stanza. Ho ancora un leggero fiatone per lo sforzo della salita, i miei abiti profumano di salsedine e di smog cittadino. La mia mente è trionfante, il mio cuore un tantino più leggero.
«Ciao tesoro. Ti presento Niba, è un mio amico.»
Un uomo sulla cinquantina, dai tratti orientali, quasi sicuramente indiano, si alza dal divano rigido, in pelle, e mi sorride, porgendomi la mano.
«Ciao Mizu.»
«Buonasera.» Gli rispondo, avanzando la mia.
«Siediti qui, con noi. Niba è un avvocato... »
Nel sentire la parola avvocato, un lampo nero mi oscura la vista. Mi siedo di fianco a lei, ma resto con lo sguardo basso.
«Ecco... gli ho raccontato la tua storia, quello che hai vissuto e... gli ho descritto Ryan, la sua posizione sociale e quanto sia complesso attaccarlo, dal punto di vista legale, per via della sua ottima reputazione.»
«Non... voglio che qualcun altro racconti la mia storia. Soltanto io posso farlo... » sussurro piano, cercando di mantenere la calma.
«Sì, lo so, ma non volevo farti rivivere l'evento ancora una volta. L'hai già dovuto fare con me, due giorni fa.»
Non controbatto. Mi limito a socchiudere gli occhi e stringere i pugni.
«Mi spiace che non fossi presente quando Rebecca mi ha parlato di te e di quello che ti è successo. Ma voleva farlo nel mondo più preciso e accurato possibile. È molto importante che si affronti la cosa con calma e si cerchi di individuare tutti i punti deboli di questo individuo. Comprendi?»
Comprendi? Mi sta chiedendo se comprendo? Io che l'ho vissuto fin dentro la pelle e le ossa, io che rivedo la sua faccia e le sue mani appena si fa buio, che sento la sua voce e l'eco delle sue parole nelle orecchie ogni volta che cala il silenzio, dovrei ancora comprendere qualcosa?
«Abbiamo passato mesi a studiare un modo per colpirlo. Ma lui non ha punti deboli.» Gli rispondo, mentre un sibilo insopportabili inizia a fischiarmi nella testa.
«Questo non è possibile... bisogna scavare nel suo passato, indagare tra tutti coloro che l'hanno conosciuto prima che arrivasse a Shellville, raccogliere testimonianze e pareri, anche quelli più inutili.»
«L'abbiamo già fatto. Mio padre l'ha già fatto. Mia madre l'ha già fatto.» Alzo gli occhi nella sua direzione. Non volevo che la serata si concludesse così. Non volevo che l'immagine di quel tramonto, visto mentre salivo lungo la collina, mi venisse strappato così rapidamente dalla mente.
«Io l'ho già fatto. Nei pomeriggi e nelle sere, nelle notti infinite, passate sveglia, davanti a un computer. Siamo andati in tutte e sei le scuole che ha frequentato nel corso della sua vita. Abbiamo parlato con professori, studenti, tutor, assistenti, amici di famiglia, vicini di casa e gruppi di preghiera. Persino con i macellai, i panettieri e i giornalai dei suoi quartieri. La loro risposa era sempre la stessa: “Ryan è un bravissimo ragazzo. Ryan è serio. È altruista. È gentile e generoso. Lui è massimo che dei genitori possano desiderare. Ryan è un angelo.»
I miei occhi si stanno riempiendo di lacrime. Ma non sono lacrime di tristezza. Sono lacrime di rabbia. Il ricordo di me e di mio padre in auto, stanchi e sconsolati, di ritorno a casa, dove mia madre ci aspettava con le luci spente, è sempre qui, nella testa. E non andrà mai via.
«Calmati tesoro... non vogliamo ferirti o sminuire quello che avete fatto. Noi vogliamo soltanto cercare di riprendere in mano questa storia e riaffrontarla insieme, per darti giustizia. Chissà che non venga fuori qualche particolare che vi è sfuggito, che magari escano altri testimoni o che qualcuno si sia convinto a testimoniare.»
«Non ora... » Sussurro.
«Se lasciamo sfumare gli eventi, tutto questo passerà nel dimenticatoio, e se adesso abbiamo poche speranze di raccogliere qualche indizio, immaginiamoci tra mesi o anni. Non possiamo far passare tutto questo tempo. Dobbiamo muoverci... e agire in fretta.» Continua l'avvocato.
«Non ora. Non adesso.» Dico a denti stretti.
«Perché non adesso? Niba è un avvocato molto in gamba, il migliore di tutta la contea. Suo padre era un grande amico del nonno. Sai quante volte mi ha salvata da false accuse o tentativi di mettermi in ginocchio? Niba è una certezza... possiamo fidarci ciecamente di lui.»
«Ho detto non ora!» Mi alzo in piedi. La rabbia mi sta sommergendo e mi tremano le mani.
«Ho appena iniziato una scuola nuova! Sto conoscendo gente diversa e sto cercando di integrarmi! Sai cosa significa avere di nuovo degli amici? O parlare con dei professori che non ti guardano come se fossi una patetica bugiarda? Una disperata in cerca di attenzioni?»
Prendo lo zaino che ho lasciato a terra.
«Non è ancora il momento per riaprire quel capitolo! Sai quanto mi costa? Sai quanto è doloroso e straziante? Pensi che se ne possa parlare amabilmente seduti in salotto, con una tazza di caffè? No! Non è così! Io non ce la faccio! Non ce la faccio... ancora.»
Non posso più reggere. Scoppio a piangere. Maledizione. Odio piangere davanti agli altri, soprattutto se sconosciuti. Complimenti Becky, sei stata approssimativa e superficiale come in tutti i precedenti casi che hanno riguardato la nostra famiglia.
«Mizu... » mi dice sollevandosi, con lo sguardo affranto.
Io esco dalla stanza e vado verso la scalinata. Corro al piano di sopra e mi chiudo in camera.
Lancio lo zaino sulla scrivania e mi avvicino al letto. Non riesco a respirare... mi manca l'aria. Ho bisogno di ossigeno ma non voglio uscire fuori, non voglio aprire il balcone, nemmeno soltanto avvicinarmi alla finestra. Vorrei chiudermi in un sarcofago e farmi sotterrare sotto metri di terra.
Papà, mi spiace per tutti quei pomeriggi silenziosi, passati davanti alla tv, per quelle telefonate andate a vuoto, per le umiliazioni che ti ho fatto subire quando, parlando con la gente, si rivolgevano a noi con astio e arroganza. Mi spiace per tutto il tempo che ho passato chiusa in bagno, senza risponderti, immersa nella vasca, a cercare di far andare via i lividi col sapone. E mi spiace se ho iniziato a rispondere male alla mamma, soltanto perché quella sera ha fatto tardi a lavoro e non è passata a prendermi. Mi spiace se vi ho lasciati in quel silenzio malato. Se ve l'ho portato in casa e ve l'ho lasciato come il peggiore degli amici mai ospitati.
Crollo a terra e continuo a piangere disperata. La mia ferita si è riaperta. Non doveva succedere. Non ora. Non adesso.

Il mattino seguente, i gabbiani mi svegliano, ma non sono allegri come sempre. Il cielo è bianco. Suppongo che verrà a piovere.
Ho la bocca impastata, i capelli arruffati e lo stomaco che brontola. Non sono uscita dalla mia camera, ieri sera. Non ho fatto cena e sono crollata sul letto come un sacco di farina, dopo lo sfogo.
Mi faccio una doccia. Scendo al piano di sotto e di fianco ai biscotti e alla marmellata rubino, trovo un bigliettino di Beky: “Sono profondamente dispiaciuta. Perdonami. Volevo iniziare a fare qualcosa, ma ho sbagliato a non chiederti il permesso. Questa sera ne riparleremo. Ti voglio bene da morire.”
Mentre scendo lungo la collina, osservo le notifiche del cellulare e trovo un'e-mail spedita da un indirizzo sconosciuto. Mi fermo per aprirla. Diamine... avevo dimenticato quello stupido progetto di storia. Samuel Hyden mi ha spedito la bellezza di tre pagine di istruzioni, scalette e link dai quali attingere per fare le mie ricerche. In fondo trovo scritto in grassetto: “da consegnare entro tre giorni”.
Tre giorni? Ma è pochissimo! Maledetto... vuole mettermi pressione e costringermi a lasciargli il controllo di tutto. Vuole dimostrarmi che non riesco a stare ai suoi ritmo.
Tranquillo caro Samuel. Adesso ti mostro come si studiava nel mio vecchio istituto.
Accelero il passo e arrivo a scuola con una furia che mi riempie il petto come una pentola a pressione.
Le ragazze sono già in aula e restano leggermente stranite dalla mia espressione, a metà tra un toro inferocito e un foglio accortocciato.
«Tutto bene?» Mi chiede Greta, ma il professore di letteratura è appena entrato e ha sbattuto i suoi libri sulla cattedra. Dannato uomo stanco, se soltanto la smettessi di trascinarti come un bradipo avresti la forza di reggere quei tre manuali che ti porti costantemente dietro.
A mensa le ragazze continuano a guardarmi preoccupate. Mi rendo conto di non potermela prendere con loro e che se inizio a trattarle male, resterò sola di nuovo.
«Scusatemi... ho litigato con mia zia e ho dormito male. In più quel Samuel mi ha messa alla prova con un quantitativo di ricerche infinito, da consegnargli entro tre giorni.»
«Litigato con Rebecca Allen? Non ci credo... non è possibile.» Afferma Fely.
«Avrà avuto i suoi buoni motivi. Mi spiace tanto... spero nulla di grave.» Continua Greta, avanzando una mano sottile e delicata sulla mia. I suoi enormi occhi azzurri mi sciolgono un po' del catrame che ho accumulato dentro.
Le sorrido.
«Sì, nulla di grave.»
«Comunque quel Samuel è davvero un deficiente. Io andrei a dirgliene quattro! Ti sta soltanto provocando, lo sai?» Fely fa roteare la sua forchetta.
«Sì, lo so. Infatti ho intenzione di andare in biblioteca, prendere un bel po' di libri di storia e passargli davanti. Voglio mostrargli che non mi ha affatto spaventata.»
«Ben detto! Se vuoi veniamo anche noi e prendiamo altri libri! E poi ci sediamo al suo tavolo e iniziamo a leggerli a voce alta!»
«Questa non mi sembra una buona idea... è solo una sottile dimostrazione, quella che vuole fare Mizu, non un teatrino sguaiato.» Greta la richiama, come sempre, e mi fanno scoppiare a ridere. Le adoro.
Dopo le lezioni, saluto le ragazze e vado in biblioteca. Sarà anche un gesto infantile, ma siccome di maturo, qui, c'è ben poco, allora abbassiamoci al suo livello e facciamogli vedere con chi ha a che fare.
Supero il settore di storia moderna e mi avvicino a quella di storia antica, ma non vedo alcuna luce provenire dallo “studio” di Samuel. Giro l'angolo e mi accorgo che la sua scrivania è spoglia, le sedie vuote, nessun libro o quaderno aperto, nessun pc acceso o mucchio di penne e matite.
Di Samuel neanche l'ombra.
Sarà già andato a casa. Ripasserò domani.
Esco da scuola e imbocco il viale principale, quando da dietro mi sopraggiunge una voce famigliare.
«Mizu!» Mi volto e vedo Andy sopraggiungere dal cortile, a bordo di un motorino color crema, dalle rifiniture nere, molto elegante.
«Sono due giorni che non ti vedo!»
«Ho avuto un po' di cose da fare... sai, instaurare amicizie, costruirmi una vita sociale, abbindolare i professori... »
Andy mi sorride arricciando il naso. La luce aranciata del sole gli colora il viso e gli arriva giusto negli occhi, che sembrano ancora più verdi.
«Sali su, ti do un passaggio!»
Non me lo faccio ripetere due volte. Infilo il casco e salgo alle sue spalle. Mi invita ad aggrapparmi, ma intravedo, in lontananza, la sua ragazza mentre sale in auto con due amiche. Il suo sguardo carico di incredulità e odio mi arriva fino alle ossa. Mi sa che Andy non passerà una piacevole serata.
Partiamo e sfrecciamo lungo il viale, ma non svoltiamo a destra, verso la collina, ma a sinistra, verso le spiagge.
«Mi sa che da quando sei qui... non hai ancora toccato il mare.» Mi urla e una sensazione di infinito sollievo mi stempra tutto il fumo che mi annebbiava la testa.
Arriviamo alla prima spiaggia della conca nella quale giace e si estende Whitecliff.
Il mare è calmo, le onde sopraggiungono con costanza e pazienza. Sono di un incredibile color corallo, così come il cielo, ove le nuvole del mattino si sono dipanate e sono violacee al centro, magenta nei bordi spampanati. Lascio il casco ad Andy. Mi tolgo le scarpe e infilo un piede nella sabbia, subito dopo il marciapiede. È ancora leggermente tiepida, ma fredda in profondità. Cammino lentamente, un venticello salino e dolciastro mi scuote i capelli. Siamo nel centro esatto della semiluna circondata a destra e a sinistra dalle bianche scogliere. Withecliff è davvero un angolo di paradiso nascosto in una tasca, come mi raccontava sempre mio nonno.
Mi bagno i piedi e l'acqua porta con sé il mio rancore. Lo vedo scivolare via e allontanarsi, verso le profondità marine.
Ci sediamo poco dopo il bagnasciuga.
«E tu? Cosa hai fatto di bello in questi due giorni?» Gli chiedo.
«Allenamenti... impegni con mio padre. Ah, e poi ho perso un mucchio di tempo dietro al progetto di storia.»
«Quello del professor Clark?»
«Sì. Ve ne ha già parlato?»
«Sì... »
«E vi ha già divisi in coppie? Io sono finito con un tipo squilibrato, che passa il suo tempo ad allevare ragni esotici e serpenti. Non poteva capitarmi di peggio... »
«Ah beh, a me non è andata meglio.»
«Con chi ti hanno messa?»
«Con Samuel Hyden. Scommetto che ne hai già sentito parlare.»
«Impossibile... » sogghigna come se lo stessi prendendo in giro.
«È vero. Te lo giuro! Come potrei conoscerlo altrimenti?»
«Puah... ma se quel tipo non esce dalla biblioteca da due o tre anni. Non parla con nessuno, nemmeno con la signora Mandy dell'information-desk.»
«Eppure è così! Il professor Clark mi ha fatto uno spiegone sul fatto che collaborare con lui potrebbe assicurarmi un voto altissimo, che io sono l'unica sua speranza di riuscire ad avvicinarlo al mondo degli umani.»
«E ha accettato? Sei riuscita davvero a convincerlo?» I suoi occhi colmi di incredulità mi divertono.
«Certo! Non è stato semplicissimo... ma ce l'ho fatta. Collaboriamo... per modo di dire. Lui fa la ricerca, io partecipo compilando schede e rintracciando fonti che mi chiede espressamente. E non basta: ho anche dei tempi ben precisi di consegna.»
«Ma dai... non ci credo. Quindi sei andata lì, ti ha vista e... ha accettato.»
«Prima abbiamo quasi litigato, ha finto di non essere il Samuel che cercavo e ho dovuto inventarmi una storiella infantile su quel libro che avevo letto in treno... però sì, ha accettato.»
Andy inizia a fissarmi con le labbra e le sopracciglia imbronciate.
«Che c'è?» Gli chiedo.
«Secondo me ti trova carina.»
Sbando.
«Cos... cosa?»
«È l'unica giustificazione che riesco a trovare.»
«Ti assicuro di no. Ha lo sguardo di un automa programmato per conquistare l'universo. È come se davanti agli occhi vedesse grafici e formule di provenienza aliena. Ti assicuro che fossi stata un rinoceronte con le orecchie da coniglio non se ne sarebbe accorto.»
«È pur sempre un ragazzo, come me... come tanti.» Continua, stringendo le spalle.
«E tu sei... tu sei Mizu.» Rivolge lo sguardo alle onde e diventa improvvisamente più serio.
Il vento gli scompiglia i capelli color paglia, ma non li scosta dal volto. Insieme alla salsedine, mi arriva il suo profumo di muschio. Se fosse stato mio fratello lo avrei picchiato per quanta bellezza la natura gli ha concesso.
«Ti assicuro che non mi ha trovata carina. Scommetto che mi vedesse adesso per strada, non mi riconoscerebbe. Ha accettato perché... sono stata convincente!»
«Non ho dubbi. Lo ammetto: è molto più intelligente di me. Io avrei accettato e basta, senza nemmeno chiederti il motivo per il quale mi avevi cercato.»
Scoppio a ridere e mi stendo sulla sabbia, a braccia aperte.
«Grazie per avermi portata qui. Io amo il mare!» Urlo con i polmoni spiegati.
«Io amo il Withecliff!» Urlo ancora.
Andy si stende al mio fianco e urla insieme a me.
«Io amo il mare!»
Ci guardiamo con una certa complicità e mi sebra di essere tornata bambina. Di essere tornata a quei momenti in cui gli adulti iniziavano a sistemare la roba da portar via, tra asciugamani, ombrelloni, ciotole e bottiglie d'acqua, e io e il mio amico ci aggrappavamo alla sabbia per non farci portare via. 
Ti sono grata Andy, perché senza di te sarebbe tutto meno semplice.
E grazie papà, per avermi convinta a partire.
Grazie mamma per avermi incoraggiata ad andarmene.
Grazie per esservi tenuti il silenzio e avermi salvata da lui.
Spero di rivedervi presto, perché mi mancate tanto.
Mi mancate come l'aria.


Piccola nota dell'autrice:
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo la mia storia e che si stanno inoltrando nei meandri della sofferenza di Mizu. Capitolo un po' lungo ma ho faticato a interromperlo, perché ho davvero un mucchio di cose da raccontare. Siamo solo all'inizio e spero di riuscire a portarvi con me fino alla fine.
Un abbraccio a chiunque sia passato di qui. :)
Adele MT

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - "A casa di Samuel" ***


Sono le dieci e un quarto. La lezione di matematica sembra infinita.
E io odio la matematica.
Ieri sera Beky mi aspettava in lacrime, seduta al tavolo della cucina. Pensava che non volessi tornare a casa per quanto la odiassi. Quando mi ha vista sporca di sabbia e con i bordi dei jeans bagnati, è scoppiata a ridere e mi ha abbracciata. L'ho stretta anch'io, nonostante non sapessi bene se, dentro di me, l'avevo perdonata del tutto o provassi ancora del rancore. Mentre mi chiedeva scusa e mi diceva di aver sbagliato a non consultarsi prima con me, ho pensato che, in fin dei conti, stava soltanto provando ad aiutarmi. E che avrei dovuto apprezzare i suoi sforzi, anziché preferire che ignorasse il mio problema.
Fely mi fa “ciao” con la una manina di plastica attaccata sulla punta della sua matita. Forse odia la matematica più di me.
A mensa ci sediamo a un tavolo quasi centrale, perché unico libero.
«Sei passata davanti a Samuel con i libri, ieri?» Mi chiede Greta ridacchiando.
«Uhm... no. Non c'era.»
«Oh... strano. Davvero strano.»
«L'avranno richiamato a casa gli alieni. Finalmente è tornato con i suoi simili.» Afferma Fely masticando un pezzo di arrosto bruciacchiato.
«Oggi provo a ripassare. Ieri sera ho studiato fino a mezzanotte. Il bello è che si aspetta che gli mandi tutto per e-mail, così potrà copiare e incollare le mie ricerche comodamente, senza perdere troppo del suo prezioso tempo. Ma io... » apro lo zaino e sfilo un quaderno stracolmo di fogli e fascicoli.
«Sto facendo tutto a mano! Dovrà riscriversi decine di pagine come un umile scribacchino.» Le ragazze ridono e io me la godo soddisfatta.
«Sei davvero degna di stare nel nostro club. Cinismo gratuito e odio incondizionato. È così che si fa.»
«Ma io non sono cinica e non odio in modo incondizionato.» Greta ribatte e i suoi riccioli sembrano prendere vita.
«Stai calmina... o non ti passerò più la piastra!» Le risponde Fely.
«Ma chi la vuole la tua piastra! Io adoro i miei capelli!»
Durante il loro piacevole battibecco, mi viene in mente che dopo la scuola dovrò accompagnare Beky a svolgere alcune commissioni. Dunque non avrò il tempo di passare dalla biblioteca a mostrare a Samuel il mio bottino di appunti.
«Ragazze... corro un secondo in biblioteca, perché dopo le lezioni passerà subito mia zia a prendermi. Vi lascio lo zaino. Sarò rapidissima!»
«Vai pure!» Mi rispondono, così afferro il quaderno e mi dirigo velocemente al piano inferiore.
Cammino a passi svelti verso la biblioteca deserta, mi addentro tra gli scaffali, supero le sezioni, che ormai conosco a memoria, e svolto verso lo spazio sospeso nel tempo dello studente prodigio.
E che dire.
Non c'è nessuno. La scrivania è spoglia, esattamente come ieri. La luce è spenta e non c'è alcun segno di vita, né aliena né robotica.
Vado all'information-desk e aspetto due minuti, in attesa che la signora Mindy esca dal gabbiotto in legno.
«Oh, buongiorno. Non ti avevo sentita, cara.»
«Buongiorno a lei! Sono passata di qui perché cercavo Samuel... quel ragazzo che... »
«Sì, Samuel... certo. Sai, ti dirò: è il secondo giorno che non lo vedo. Non è passato nemmeno stamattina presto.»
«Succede spesso che si assenti?»
«A dire il vero no... è abbastanza raro. A ogni modo, vuoi lasciargli un messaggio? O un quaderno?» Mi chiede lanciando un'occhiata ai miei appunti.
«No... grazie. Proverò a ripassare domani. Scusi il disturbo.»
«Di nulla, cara. Buona giornata.» Mi sorride e torna nel gabbiotto.
Sta' a vedere che il furbone non si sta presentando a scuola per evitarmi. Se anche domani non si farà vedere, saranno trascorsi i tre giorni e io non potrò consegnargli tutto il mio materiale. Dunque sarò automaticamente esclusa dal progetto, secondo le regole che lui stesso ha stabilito.
Ma che rabbia. Non posso crederci che sia così meschino... è la persona più infantile e puerile che abbia incontrato qui a Whitecliff.
Torno in mensa e racconto l'accaduto alle ragazze, le quali concordano subito con me che questo ragazzo è seriamente disturbato.

Appena la campanella suona, afferro il mio zaino e mi lancio lungo le scale, salutando le ragazze.
Fuori dai cancelli, Beky mi aspetta nella sua decappottabile lucente, con un paio di occhiali da sole larghi quanto il parabrezza. Salgo a bordo e inizia a sfrecciare per le strade della cittadina.
«Devo ritirare due abiti da una sarta e incontrare il mio assistente al parco centrale, per il servizio fotografico di domani.»
«Mi sta bene tutto. Dovrei soltanto tornare a casa in tempo per completare alcune ricerche.»
«Stai tranquilla.» Si volta e mi sorride. Ha un rossetto rosso così intenso che brilla più di quello dei semafori.
L'atelier che deve consegnarci gli abiti è nell'esatto centro della strada principale di Withecliff. Entriamo in pompa magna e mi sento leggermente osservata. Al passaggio di Beky, diverse assistenti alle vendite, eleganti e raffinate, ci salutano con un luccichio agli occhi. Se soltanto avessi immaginato il livello di sciccheria di questo posto, avrei evitato di indossare una felpa con il cappuccio e dei jeans grigini.
«Questa è Mizu, mia nipote.» Afferma mentre bacia sulle guance la donna bassina e impettita che ci attende nel retro. Ha i capelli raccolti a tubo dietro la testa, una veste leggera, di lino, dalle stampe floreali, in tinte pastello, che le nascondono la forma tozza e tondetta. Le manine a punta, sorreggono degli aghi da una parte, un paio di occhiali dall'altra. Quando mi avvicino, infila le sue lenti e mi osserva dal basso verso l'alto.
«Davvero notevole. Fai anche tu la modella?» Mi chiede.
«No... mai fatto nulla del genere.»
«Peccato.» Mi dice sorridendo.
«Ho sempre provato a convincerla, ma nulla. Vuole intraprendere carriere ben più gratificanti.»
«Come darle torto.» La sarta solleva un abito adagiato sul tavolo e lo allunga, per quanto riesce, tra un braccio e l'altro.
«Questo è il primo. Come ti dicevo, ho applicato una piega laterale, per sovrapporre la seta alla tela più rigida. In questo modo fa un gioco molto particolare.»
«Hai ragione. Vogliamo vederlo? Dov'è il manichino?»
«Ma che manichino, fallo indossare a lei!» Afferma divertita, indicandomi con un cenno del viso.
«Io?»
«Sì... perché no! Dai, il camerino è lì.»
Non faccio in tempo a dire la mia che sono già mezza nuda, davanti a uno specchio altissimo. Entrambe mi passano intorno e mi infilano l'abito dalla testa, tirandomelo da tutti i lati. Resto incastrata nella cucitura, poi ci restano i miei capelli, e infine prendo fiato mentre mi stringono una cerniera sulla schiena. Che fatica.
Beky mi fa uscire e salire su un mezzo piedistallo, posto al centro di una saletta tonda, dalle pareti di un leggero rosa antico.
«Sei stupenda. Ne ero convinta.»
Mi guardo allo specchio e resto stranita. Non mi ero mai vista in quel modo, con un abito così particolare: un corpetto mi stringe la vita e mi avvolge il seno, da una stretta cintura parte una gonna rigida, con un profondo spacco laterale; un velo morbido di seta rosso, sovrapposto al tessuto rigido della gonna, dà al vestito una forma e una sinuosità che, da dentro, non si percepisce affatto.
«Penso che potresti fare qualche scatto. Hai il viso adatto. Sei un'interessante combinazione tra un volto occidentale e uno orientale. Ci hai mai pensato?» Mi chiede la donna.
E cosa avrei di interessante? Gli occhi neri e sottili? Il naso piccolo e dritto? O forse la bocca tonda, che sembra sempre imbronciata.
«Dobbiamo fare qualcosa per quelle occhiaie.» Aggiunge Beky, guardandomi con le braccia incrociate.
«È mancanza di sonno!» Mi rimprovera amorevolmente la sarta.
E forse ha ragione.
Chissà quanto sonno ho perduto.

Dopo l'incontro con Martin, l'eccentrico assistente di mia zia, voliamo verso casa e mentre lei mi prepara un sandwich, io sfilo dallo zaino i miei appunti e riparto subito da dove mi ero fermata. Devo recuperare un sacco di tempo perso, ma sono a buon punto.
Domani rintraccerò Samuel e gli scaraventerò davanti tutta la mia roba, così imparerà a sfidarmi.
La nottata si prospetta lunga e Beky mette su un caffè molto concentrato. Si offre di aiutarmi, ma la congedo. È molto stanca e fa persino fatica a girare lo zucchero nel caffè. Mi saluta con un bacio sulla fronte e mi lascia alla mia personale battaglia. Che la ricerca abbia inizio!

Ore 7:55. I gabbiani stanno cantando da un po', ma credo di non averli sentiti.
Sollevo una palpebra e leggo l'ora sull'orologio appeso al muro. La richiudo. Poi salto come un salmone appena pescato e corro in bagno. Mi vesto con gli abiti di ieri, afferro tutta la mia roba e mi catapulto di sotto, rischiando di inciampare e spezzarmi l'osso del collo.
Mentre scendo lungo la collina, a passi lunghi, mastico e butto giù le mie fette biscottate con la marmellata. Samuel sopporterà anche il mio alito di ribes e bacche del Madagascar.
Le prime quattro ore del mattino passano veloci. Ho il volto appesantito dal sonno, ma il racconto dell'abito e della prova fatta nell'atelier della sera prima, accende sia il mio entusiasmo che quello delle ragazze. Entrambe hanno gli occhi foderati di quella seta rossa, riescono persino a sentirne la morbidezza sotto le dita e affermano di invidiarmi in modo spudorato. Dal canto mio, prometto loro che, prima o poi, le poterò con me a fare “dei giri con Beky”.
La campanella suona e io mi carico come un boxeur prima di affrontare il suo avversario sul ring. Sciolgo le spalle e le gambe, indosso il mio zaino, afferro il mio quaderno ancora più spesso e stracolmo di fogli, saluto le ragazze e mi incammino verso la biblioteca. Se penso che questa sarà la mia vita fino alla fine del progetto, mi viene da piangere.
Arrivo nei pressi dell'information-desk e saluto con un cenno la signora Mindy, la quale prova a dirmi qualcosa, ma non ci riesce.
Mi dirigo a passo pesante e deciso verso “il fantastico mondo di Samuel” quando, svoltato il solito angolo tra lo scaffale di letteratura russa e quella ungherese, mi accordo, con estremo disagio e sconforto, che la scrivania è ancora drammaticamente spoglia, le sedie vuote, la luce spenta e un certo flutto d'aria dei condizionatori ha rinfrescato la zona, diversamente riscaldata dalla presenza di un assente Samuel.
Inizio a maledire il professor Clark, poi lo studente prodigio e infine me stessa, per aver accettato di partecipare a questa follia autodistruttiva.
Ma io non mi arrendo. No. Io non getto mai l'ascia di guerra.
Così poggio lo zaino sulla scrivania, lo apro con foga ed estraggo la scheda primaria compilata dal professore, dove sono indicati i dati dei partecipanti al progetto, ovvero nome, cognome e indirizzo.
Nel visualizzare il suo, mi brillano gli occhi. Sono più che determinata. Nemmeno un'apparizione divina può fermarmi.
Risalgo a piano terra velocemente, esco dall'edificio e inizio a cercare con il navigatore, il punto preciso dove vive quel mostro diabolico che chiamano Samuel Hyden.
Scopro che si trova in una zona un po' periferica, spostata verso i boschi dell'entroterra.
Vado alla fermata dell'autobus e leggo, sul tabellone, che la linea numero diciannove passa nei pressi della sua casa.
Attendo mezz'ora, tempo durante il quale provo a mandargli una e-mail. In pratica, dall'ultima mandatami il giorno stesso del nostro primo incontro, lui è completamente scomparso. Non mi ha più contattata, né mi ha mandato altre istruzioni o chiarimenti sul come lavorare al meglio, né si è presentato in alcun locale scolastico.
Il tutto mi snerva e mi lascia basita.
Il pullman arriva e salgo al volo. È vuoto, tranne che per una donna anziana, seduta nel centro, che si tiene alla maniglia del sedile dinnanzi a lei e osserva il paesaggio dal finestrino, manco fosse su una giostra.
Il tragitto è piuttosto lungo. Saliamo lungo la montagna che fa da scudo alla vallata, terminante con le spiagge. La vegetazione è sempre marittima, ma più fitta e intravedo diversi pini e abeti, persino alcuni cipressi. Le strade diventano sterrate, circondate da boschi o recinzioni di legno. Per fortuna il sole non è ancora tramontato, perché è sabato e siamo usciti subito dopo pranzo, per cui ho ancora qualche ora di sole.
Quando arrivo in prossimità dell'indirizzo che cerco, scendo rapidamente e le porte cigolanti si richiudono alle mie spalle. Il pullman riparte e resto completamente sola, nel ben mezzo del nulla.
Il navigatore mi dice di seguire una strada a destra di quella principale, e di cercare l'abitazione dopo circa duecento metri. Faccio esattamente così e, dopo alcuni minuti, mi imbatto in una casetta di legno, immersa nella vegetazione, con un piccolo cortile antistante, raggiungibile con una breve stradina. Sembra una baita di montagna, immersa nel silenzio e sospesa nel tempo, proprio come il suo rifugio nella biblioteca.
Mi avvicino piano. Suppongo che sua madre o suo padre saranno in casa, che vorranno sapere chi sia e soprattutto perché stia cercando loro figlio. Immagino che non siano molti i ragazzi o le ragazze che vengono fin qui a trovarlo. Penseranno che non sono tutta normale.
Più mi avvicino e più ho la sensazione che la casa e tutta la tenuta intorno siano deserti. Non ci sono rumori, se non il fischiettio sporadico di qualche uccellino e un cantare leggerissimo di cicale.
Arrivo ai gradini che portano a un basso soppalco e quindi alla porta di ingresso. Salgo e inizio a cercare il campanello, ma non lo trovo.
Magari busso. Sì, busso.
Sollevo la mano richiusa con le nocche ben sporgenti, ma qualcosa attira la mia attenzione. Da una finestra alla mia sinistra, noto che uno dei fornelli della cucina è acceso e che c'è una pentola sopra, con qualcosa che vi bolle dentro. Deduco, quindi, che ci sia per forza qualcuno in casa. Rifaccio per bussare, ma un dettaglio attira nuovamente il mio sguardo.
C'è qualcosa a terra, sul pavimento della cucina.
Mi avvicino alla finestra e mi faccio ombra con le mani. Osservo bene e sbando subito dopo.
Samuel è a terra.
È a faccia in giù, disteso, come se fosse caduto e fosse rimasto in quella posizione.
Mi sale un certo affanno. Cosa faccio?
Al diavolo l'educazione. Afferro la maniglia della porta e spero che sia aperta.
Incredibile: lo è.
La apro pian piano, infilo la testa e guardo dentro. Non c'è nessuno, ma proprio nessuno.
Allora entro e vado verso la cucina. Trovo Samuel lì, disteso, mentre nella pentola sul fuoco, l'acqua è quasi del tutto evaporata e resta un alone bianco sui bordi.
Mi chino su di lui e gli tocco la fronte, tremando come una foglia. E se fosse morto? E se fossi capitata sul luogo di un delitto? Chi ci crederebbe mai? Chi crederebbe mai che ho rincorso l'uomo senza amici fino a casa sua?
Incredibilmente è caldo, molto caldo. Se non altro è vivo.
Inizio a chiamarlo e scuoterlo. Non sembra avere lividi o ecchimosi.
La sua fronte scotta. Lo rigiro a pancia in su, lo schiaffeggio leggermente ma non risponde. Infine decido di chiamare l'ambulanza. Prendo il telefono e compongo il numero.
Mentre l'operatore mi risponde, vedo che Samuel apre gli occhi e, dopo avermi studiata dalla testa ai piedi, finalmente mi riconosce.
«Pronto.. sì, chiamo perché c'è qui un mio amico che si è sentito male... »
Samuel realizza che ho appena chiamato l'ambulanza e una certa smania lo prende, così violenta da dargli la forza di mettersi seduto e afferrare il bordo dei miei pantaloni.
«Butta giù.» Mi intima. Ma l'operatrice mi sta già chiedendo i particolari.
«Chiudi... chiudi!» Mi urla.
Io balbetto. Non so che fare.
«Vuole dirmi cosa ha avuto? È cosciente o no?» Mi chiede con insistenza la donna.
«Ecco... si è appena svegliato. Non saprei... »
Samuel fa per alzarsi, ma crolla e stavolta mi stringe la caviglia.
«Attacca quel cazzo di telefono!» Il suo tono è perentorio.
Allora obbedisco. Dico all'operatrice che il mio amico si è ripreso e che mi spiace averli disturbati. Chiudo la chiamata e resto lì a fissarlo, come un'ebete.
Non ha la forza di mettersi in piedi, ma l'ambulanza è l'ultima delle cose che avrebbe voluto vedere.
Mi abbasso e gli porgo la mano.
«Ti accompagno al divano, aggrappati.»
A questa proposta non si oppone. Mi metto il suo braccio intorno al collo e facendo forza sulle gambe, lo sollevo. Arriviamo lentamente al divano, dall'altro lato della stanza. Lo aiuto a distendersi e gli allungo una coperta addosso.
Prendo fiato e faccio un lungo sospiro, osservandolo con le mani poggiate sui fianchi.
«Penso tu abbia una febbre molto alta. Hai un termometro? Del paracetamolo e del ghiaccio?»
Gli chiedo, ma Samuel è nuovamente crollato.
Non mi resta che spegnere il fuoco della cucina e rovistare nei cassetti alla ricerca di qualcosa che possa fargli scendere la temperatura.

Ma che razza di sabato è questo?

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - "Non avrei dovuto leggere... " ***


Ok.
Ho appena rovistato nei cassetti della cucina, in quelli del mobiletto su cui è sistemato il televisore e in una sorta di gabbiotto vicino la porta d'ingresso, ma non ho trovato alcun tipo di farmaco. Dovrei provare a guardare nel resto della casa, ma sono pur sempre una sconosciuta; è la seconda volta che vedo questa persona in vita mia e se contassi il numero totale di parole che ci siamo rivolti, non arriverei a cento.
Mi siedo su una poltroncina, di fianco al divano, e mi limito a fissarlo. Cosa posso fare? Se andassi a comprargli dei farmaci con l'autobus, tra l'attesa alla fermata e il viaggio di andata e ritorno, si farebbe notte e non sarei più sicura di poter tornare a casa.
Ci sono! Ma certo... mio padre mi diede un piccolo kit di pronto-soccorso da tenere nello zaino, con cerotti, garze, disinfettante e alcuni farmaci d'emergenza.
Afferro lo zaino e cerco nelle tasche laterali. Mio padre ha sempre provveduto a rifornire sia me che la mamma di questi stupendi kit. Infilo le dita più in fondo possibile e, dopo un assorbente e un pacchetto di liquirizie, lo trovo.
All'interno distinguo immediatamente una bustina di paracetamolo, di quelle da sciogliere in bocca. Ma come lo sveglio? E come lo convinco ad assumere una polvere di cui non sa la provenienza?
Ok, mi serve dell'acqua. Prendo un bicchiere, lo riempio dal rubinetto e dissolvo la polverina al suo interno..
Mi avvicino a lui e provo a svegliarlo, punzecchiandogli una spalla.
Quando il mio punzecchiare diventa una sorta di scuotimento, mi accorgo che prende coscienza e dischiude gli occhi.
«Ecco... sono sempre io. Ho qui del paracetamolo, per farti abbassare la febbre. Ti aiuto a berlo.»
Incredibilmente mi ascolta e beve tutto quel liquido biancastro, dal gusto terribile.
Poi si accascia di nuovo. Ha il respiro accelerato e il volto paonazzo; è sudato e ha le labbra asciutte.
Torno in cucina e cerco degli strofinacci puliti. Ne ho visti alcuni nel secondo cassetto a destra. Con un leggero imbarazzo per la dimestichezza assunta in questo ambiente a me estraneo, prendo lo strofinaccio e lo bagno con dell'acqua fredda. Poi glielo adagio sulla fronte.
Mugugna qualcosa e stringe le mani sotto la coperta, ma poi si acquieta.
Resto ferma a fissarlo.
Che sia stato così male in tutti e tre i giorni di assenza?
Forse è per questo che non è venuto a scuola. E io che l'ho odiato dal profondo del mio cuore...
Ti ho odiato e disprezzato, Samuel. E tu eri qui, con la febbre alta.
Mi allungo leggermente sul divanetto. Posso aspettare che tornino i suoi genitori. Forse sono usciti, lui era a letto, si è alzato per spegnere il gas ed è svenuto.
Non avrebbero dovuto lasciarlo da solo. Soprattutto con un fornello acceso.
Do un'occhiata al sito degli autobus cittadini; l'ultima corsa dell'unico mezzo che passa di lì è alle sette. Beh, sono appena le quattro, non resterò di sicuro così tanto.
Che faccio nel frattempo?
Ma sì... diamo una sistemata agli appunti, così sarà più facile ricopiarli.
Inizio a suddividere i fogli per argomento, creando quattro pile distinte. In alcuni punti la mia scrittura è indecifrabile - se mai mi chiamerà per insultarmi, dovrò dargli ragione-.
Toh, guarda: ha il libro dell'uomo che si reincarna decine di volte, nella sua libreria a muro.
Mi alzo e lo sfilo dalla sua posizione. Nell'aprirlo, cade un qualcosa riposto tra la copertina e la prima pagina. Guardo in basso e lo vedo: è un cartoncino rigido, di quelli che si usano per fare gli auguri di compleanno o di Natale. Lo raccolgo. Sulla facciata esterna c'è un paesaggio stilizzato, dai colori tenui, con dei gabbiani che volano verso il tramonto. All'interno intravedo delle parole, scritte con una bellissima grafia, dai tratti dolci ed eleganti, sicuramente femminile.
Dovrei rimetterlo subito a posto.
Sì, adesso lo faccio.
No, non sarebbe giusto, né corretto leggerlo.
Non potevi rendermi più fiera...” Cavoli. Ho intravisto l'inizio. Non dovevo.
Lo richiudo e inserisco tra la copertina e la prima pagina del libro.
Ma di cosa è fiera? Cosa avrà mai fatto Samuel?
Ok. Leggerò soltanto le prime righe. Lo risfilo velocemente, controllando rapidamente che lui stia ancora dormendo. Ecco. Ci siamo.
Non potevi rendermi più fiera...
Sono contenta che tu abbia raggiunto il tuo obiettivo. Te lo meritavi più di chiunque altro.
Ma ho saputo cose... che mi hanno fatta stare molto male. Ho saputo che, da quando sono partita, hai ripreso a isolarti. Che non parli più con nessuno, che non rispondi alle chiamate e che esci soltanto per andare a scuola. E ho pianto per questo. Non volevo che accadesse... non volevo andare via e lasciarti lì...
Tu lo sai, Samuel, che io...”
Ok. Basta. Maledizione. Mizu: posalo.
Posalo. Adesso!
ci sarò sempre per te, qualunque cosa accada.
Non lasciarti andare. Non abbatterti. Non dimenticare tutto il tempo passato insieme.
Fallo per me.
Cercherò di venire a trovarti il prima possibile e recupereremo il tempo perso.
Nel frattempo, provvedi a te stesso e non essere triste.
Con affetto.
Lisa.”

Ammetto che mi batte leggermente il cuore. Ma non so perché.
Che tu stia soffrendo d'amore, Samuel? La ragazza che ami è stata costretta ad andarsene, e sei crollato in una depressione silenziosa?
Lo rimetto a posto con una certa riverenza. Se sapessi che ho sbirciato nella tua vita e nei tuoi affetti, come una meschina ficcanaso, mi cacceresti di casa all'istante. E avresti ragione.
D'improvviso lui si muove e lo strofinaccio che ha in testa gli cade. Lo raccolgo e sento che è caldo. Lo inzuppo nuovamente nell'acqua fredda e glielo ripongo sulla fronte. Chi sa a quanto sarà arrivata la temperatura?
Sta sognando, vedo le sue pupille muoversi sotto le palpebre. Muove la bocca, fa dei versi leggeri. Ho paura che stia soffrendo.
Spero soltanto che qualcuno della sua famiglia arrivi quanto prima.

Accipicchia.
Sono le sei. Che diavolo faccio adesso? Gli ho cambiato lo strofinaccio almeno una quindicina di volte e ho una fame che sto per svenire.
Chiamo mia zia e le spiego che sono a casa di un mio compagno di classe, il quale si è sentito poco bene e che sto aspettando il ritorno dei suoi. Mi dice di non preoccuparmi, di stare tutto il tempo che voglio perché verrà a prendermi, se necessario.
Verso le sette e un quarto, mi accorgo che Samuel ha gli occhi leggermente dischiusi e che sta fissando un angolo del soffitto. Sbando e mi cadono i fogli che stavo diligentemente inserendo in un raccoglitore.
Sembra morto.
Si volta lentamente nella mia direzione, e inizia a fissarmi accigliato.
Io prendo fiato, ma resto impietrita.
«Ci... ciao. Come ti senti?»
«Chi sei?» Mi chiede con un fil di voce.
«Sono Mizu... la ragazza del progetto di storia. Ero venuta a portarmi il mio materiale e... ti ho trovato a terra.»
Raddrizza la testa e rimane per un attimo a riflettere, forse a metabolizzare quanto gli ho detto.
«Ti ho dato del paracetamolo e ti ho messo uno strofinaccio freddo sulla fronte ogni quarto d'ora. Sei molto meno caldo di prima, adesso. Perdonami se sono rimasta mentre dormivi ma... aspettavo che tornassero i tuoi genitori.»
Non so se mi abbia sentita.
Mi rimetto dritta. Immagino che abbia ignorato quanto ho detto.
«Pensi che... torneranno a breve? Perché io... dovrei andare.»
«Vai pure. Ti ringrazio.» Mi dice con fermezza.
«Sicuro?»
«Sì.» Mi risponde, poi si fa forza e si solleva, restando poggiato sugli avambracci piegati.
«Non dovresti muoverti. Cerca di stare disteso... potresti svenire di nuovo. Ti ho sistemato altre bustine di farmaco sul tavolino. Puoi prenderne una ogni otto ore. Magari lo lascio scritto a tua madre o... tuo padre.»
«Non tornerà nessuno, quindi non serve.»
Resto per un attimo in silenzio.
«Cosa vuoi dire? Vivi da solo?» Gli rispondo con una punta di sarcasmo.
«Sì... » la sua risposta è netta, non lascia spazio ad alcuna supposizione.
«Ok... non volevo farmi gli affari tuoi. Scusami.»
«Nessun problema. Chiuditi la porta alle spalle, per favore. Grazie.» Nel dirmi questo, si volta verso lo schienale del divano e si ridistende, dandomi le spalle.
Questo è tutto?
Sono stata più di tre ore al suo capezzale, e questo è il suo ringraziamento? Ho bruciato il mio sabato pomeriggio per cambiargli gli strofinacci sulla testa, cercando di capire cosa fosse meglio fare per alleviare le sue sofferenze, e mi congeda così?
Prendo le mie cose e le ripongo nello zaino, lo chiudo e lo infilo. Mi sollevo di scatto e vado verso la porta.
Poi torno indietro.
«La mia ricerca è sul tavolo. È completa, dettagliata e soprattutto è scritta a mano. Spero avrai la forza di ricopiarla al pc e dirmi se ti aggrada. Siamo soltanto all'inizio e c'è ancora molto da fare. Ho deciso che seguirò un altro percorso, maturato durante le tre ore passate al tuo capezzale. Spero che ti vada bene, anche perché non hai alternative. Alla prossima.»
Vado verso la porta, esco e la sbatto alle mie spalle.
Percorro la stradina che conduce a quella principale e solo dopo alcuni secondi mi rendo conto di non aver ancora avvisato Beky di venire a prendermi.
Maledizione.
La chiamo: ci metterà più di venti minuti.
Qui fuori è buio pesto e fa molto più freschetto che giù a valle.
Torno verso l'ingresso della sua casa, illuminata da due faretti esterni, posti alla base della tettoia.
Mi siedo sul primo gradino della serie e faccio un lungo respiro.
D'un tratto, sento la porta dischiudersi.
Mi volto e vedo Samuel fare capolino dall'interno.
Ci guardiamo negli occhi.
«Vuoi aspettare dentro?»
Come avrà fatto a sentirmi? Ho parlato a voce così alta?
«No... sarà qui a breve.»
Scompare. Poi riappare con una coperta sulle spalle. Esce sul porticato e si avvicina con passo lento e trascinato.
«Ho scoperto che ci sono alcuni registri anagrafici in una biblioteca, poco lontano da Whitecliff. Potremmo andarci lunedì, se vuoi. Dopo la scuola.»
La sua proposta non è timida, né stentata. È piuttosto fatta con una certa riluttanza. Sono convinta che ci sarebbe voluto andare da solo ma che, accortosi di essere in gran debito con me, ha optato per un coinvolgimento del tutto eccezionale nei suoi programmi.
«Dopo la scuola?»
«Sì... »
Non voglio indagare sul come mi ci porterà. Voglio proprio che mi stupisca.
«Va bene... ci sto.» Affermo.
Annuisce leggermente con la testa, mantenendo lo sguardo basso.
Poi lo solleva nella mia direzione. I suoi occhi sono pungenti come spilli e fermi come roccia viva. Sono impassibili, come quelli d'avorio di alcune statue antiche.
«Perché sei venuta fin qui?» Mi chiede.
«... perché erano passati i tre giorni che mi avevi dato per completare le mie ricerche. Pensavo che non fossi venuto a scuola per farmi perdere la sfida e impedirmi di partecipare ulteriormente al progetto.»
«Sfida? Chi ha parlato di sfida?»
«Non l'hai detto esplicitamente, ma l'hai lasciato intuire. Volevi mettermi alla prova? Volevi testarmi e verificare che riuscissi a completare tutto in pochissimo tempo? Ti ho accontentato.»
«A quanto pare non è servito. La febbre mi è salita giovedì sera, poco dopo averti inviato l'e-mail, e sono rimasto a letto per due giorni. Dunque sono a zero. Non ho preparato nulla. Sei molto più avanti di me. Contenta?»
Apro la bocca, ma le parole mi restano sulla lingua.
Che razza di battaglia sto combattendo? Chi è questo individuo? Perché mi sforzo di odiarlo e di andargli contro?
«Mi spiace che non ci fosse nessuno ad aiutarti... » gli dico, stemperando i miei toni.
Sento un'auto provenire dal fondo della strada. Mi alzo e mi sistemo lo zaino.
«Intendo... in questi giorni. E scusa se ti sono piombata in casa senza preavviso. Ti ho visto svenuto dalla finestra... e non ho esitato.»
Resta a fissarmi.
«Ti ringrazio.» Afferma, dirigendo lo sguardo verso il buio della boscaglia.
«Ma so cavarmela... » Conclude.
L'auto di Beky arriva proprio dinnanzi alla stradina che conduce alla casa di Samuel.
Mi volto senza salutarlo. Non so chi dei due sia più sulla difensiva. Se io, con la mia incurabile sfiducia nel prossimo, o lui col suo profondo disprezzo per l'intera umanità.

«Chi è quel ragazzo? Un tuo compagno di classe?» Mi chiede Beky, mentre chiudo lo sportello dell'auto.
«Sì... dobbiamo lavorare insieme a un progetto di storia.»
«E che tipo è? Tranquillo?»
L'auto inizia a percorrere strade a me sconosciute, ingoiate da un buio diradato soltanto dalla luce della luna.
«Sì. Un tipo tranquillo.»

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - "Il concerto per salutare l'estate - parte prima" ***


«Non ci posso credere. Tu sei un mito.»
Dalla video-chiamata sul cellulare, riesco a vedere Fely che solleva le braccia al cielo, come un credente dinnanzi alla statua della propria divinità.
«Nessuno ha mai visto dove vive Samuel. Nessuno è mai andato a casa sua. Sei la prima e l'unica che abbia avuto il coraggio di farlo.» Greta è nell'altro angolino dello schermo, a destra; i suoi capelli occupano tutta l'inquadratura.
«Non è stato così complicato. Ho semplicemente preso l'autobus e ho seguito il navigatore!» Sorrido soddisfatta. Le ragazze hanno ascoltato il racconto del mio sabato pomeriggio con gli occhi sgranati e la bocca penzoloni.
«Ah dimenticavo: dalla settimana prossima si torna al vecchio orario. Ingresso alle sette e trenta e sabato a casa!»
«Ma a chi importa degli orari scolastici? Non interromperla! E quindi... vive da solo?» Fely abbaia virtualmente contro Greta. La sua curiosità è alle stelle.
«A quanto pare sì.»
«E cosa ti ha detto quando vi siete lasciati? Continuerete a collaborare o ti metterà un'enorme X sulla testa, per aver osato entrare nel suo covo segreto?» Continua Fely.
«Siamo rimasti d'accordo che lunedì andremo insieme in una particolare biblioteca, che conserva alcuni antichi registri anagrafici.»
«Ovvero... tu e lui? Da soli? E come ci andrete?» Mi chiede Greta.
«Non ne ho idea. Prederemo un autobus, suppongo.»
«Che storia incredibile... chi l'avrebbe mai detto. Samuel Hyden che dà un appuntamento a qualcuno. Deve essersi verificata una qualche rara congiunzione astrale.» Fely sbuffa meravigliata. Poi sparisce dall'inquadratura.
«Chi può dirlo? Spero di terminare questo progetto il prima possibile, e tornare alla mia vita.» Dopo quest'ultima affermazione, mi zittisco d'istinto. Ma che sto dicendo? Tornare alla vita di prima?
Ad un tratto Fely riappare con una locandina.
«Ah, perdonami se non te l'ho detto ieri... ma me ne sono completamente dimenticata! Stasera, al parco centrale, facciamo un concerto insieme ad altre due band del posto. È una sorta di festa di chiusura ufficiale del periodo caldo, che si fa tutti gli anni, in questi giorni . Ti va di venire?» Mi chiede. La sua locandina riporta la scritta “Ophelia's” insieme ai nomi di altre due band, con dei fuochi d'artificio sullo sfondo, e un annuncio che invita a salutare l'estate e prepararsi all'arrivo dell'autunno.
«Puoi venire con me, tanto ci andrei da sola. Fely sarà lì molto prima per le prove.» Mi dice Greta, sorridendo.
Ma sì, perché no? Una festa locale in un parco pubblico è quello che ci vuole per distrarmi. Inoltre non vado a una festa da diverso tempo.
«Va bene! Ci sto... a che ora ci vediamo?»
«Alle otto davanti la fontana del delfino?»
E alle otto sia.

La mia domenica mattina era iniziata con lo squillo del telefono. Avevo appena aperto gli occhi e risposto a un messaggio di Fely, riguardo la sera precedente, quando, in meno di un minuto, sia lei che Greta si erano materializzate in una video-chiamata e mi avevano beccata con i capelli arruffati, la bocca impastata e gli occhi ancora più sottili del normale.
Scendo giù per la colazione e, per la prima volta, trovo zia Beky seduta al tavolo bianco della cucina, che beve caffè e sfoglia tre grandi riviste di moda.
«Buongiorno tesoro!»
La saluto con un bacio sulla guancia.
Mi siedo al mio solito posto e cerco la marmellata color rubino.
«Dormito bene? Hai recuperato un po' di sonno?»
«Sì, sono crollata come un sasso. Mi sono risvegliata nella stessa identica posizione in cui mi ero messa ieri.» Non trovando la mia marmellata, opto per un'altra di colore ambra. Vi leggo sopra: noci Pecan, maracuja e ginger. Dall'odore, sembra dentifricio al miele.
«Bene! Hai bisogno di recuperare le forze perché stasera verrai a un party privato con me! E si farà molto tardi... »
Butto giù il biscott ancora intero, rischiando di strozzarmi.
«Ah... no, ecco... in realtà sarei stata già invitata a una festa.»
«Festa?»
«Sì... una sorta di concerto di addio all'estate, che organizzano al parco centrale. Ci suona Fely con il suo gruppo... ricordi? Gli Ophelia's.»
​Osservo Beky assumere un'espressione greve. Temo che ci sia rimasta male. Forse avrei dovuto parlarne con lei, prima di accettare.
Poi, d'improvviso, il suo volto si illumina. Fa saltare la rivista e mi afferra per le braccia.
«Ma è fantastico! Andrai a un concerto con le tue amiche! È grandioso! Altro che party privato... quelli sono noiosi, pieni di bacucchi e vecchiacce inghirlandate che ti squadrano dalle scarpe alle punte delle ciglia!»
«Oh... sono contenta che non sia un problema per te, se vuoi posso sempre rinunciare.»
«Assolutamente no! E sai già cosa mettere? Casual o rock? Punk o aggressive? Capelli? I capelli come li facciamo? Anfibi bassi o scarponcino a tacco largo?»
«Non ne ho idea... non ci ho pensato ancora. L'ho appena saputo.»
«Non importa. Rimanderemo le prove a più tardi! Ora preparati, andiamo a fare una passeggiata rigenerante sulla spiaggia, poi pranzo leggero a base di pesce e pomeriggio dal mio assistente Martin: ha ospitato un gruppo di modelle ucraine in casa sua, e terrà un aperitivo con il suo compagno Tom, per presentarcele.»
Sorrido masticando il biscotto al dentifricio, che pian piano diventa sempre più gradevole. Questo mondo edulcorato è davvero molto distante dal mio grigio e opaco. È come se qui tutti gli affanni della vita, la malinconia e la disillusioni non fossero mai arrivati. Tutto è più vivido, caotico, leggero e immediato. Non c'è tempo per fermarsi e riflettere, non c'è tempo per deprimersi.
E non aspettavo altro.

Nel tornare a casa dall'aperitivo di Martin e Tom, mi accorgo che Beky bisbiglia qualcosa sottovoce.
«Cos... cosa stai dicendo?»
«Ti piacciono i leggings di pelle?»
«Uhm... non saprei, non li ho mai indossati.»
«Ok. E lo zebrato?»
«Oh no... detesto tutto ciò che imiti la pelliccia animale. E io amo gli animali.»
«Ok, capito. Mi sto facendo un'idea, non è semplice. Sei sempre così neutra.»
Arrivate alla villa, parcheggiamo e andiamo dentro.
Beky mi invita a salire in camera sua. Oltre a un enorme letto a baldacchino, rivestito da lenzuola di raso magenta e cuscini di un malva pastello, e una consolle per il trucco simile a quella dei truccatori professionisti, c'è una cabina armadio stretta e lunga, attrezzata di mensole sulle pareti laterali, un tavolo a cassettoni centrale e uno specchio a muro sul fondo.
Dopo aver declinato gentilmente alcuni indumenti dai colori improbabili e i tessuti alieni, opto finalmente per un abito leggero di cotone, dalla gonna svolazzante, la cui stampa è: microfiorellini rossi su sfondo nero, una giacca corta di pelle e degli stivaletti autunnali, con il tacco medio.
Mi trucca leggermente gli occhi, me li ingrandisce con un gioco di matite e mi spruzza del profumo dolciastro.
«Sei perfetta. Sei la bambola che ho sempre chiesto alla nonna! Vuoi che ti accompagni mentre vado al mio party?»

Usciamo di casa in pompa magna e risaliamo in auto gonfie di un'autostima che ci siamo fomentate a vicenda. Il suo entusiasmo mi contagia e rifletto sul quanto sia profondamente felice di avermi con sé, di poter accudirmi e trattarmi come la figlia che non ha mai avuto.
Scendo in prossimità della fontana del delfino e la saluto. La strada è molto illuminata e il traffico è stato interrotto da quel punto, in direzione del parco. Cerco Greta tra la folla di gente, per lo più giovanile, e dopo poco intravedo una grande testa riccioluta, che osserva il proprio cellulare. La raggiungo e la saluto da lontano.
«Ah, eccoti! Ti ho appena inviato un messaggio.» Mi dice sorridendo. Anche lei indossa un abito leggero e svolazzante, di un rosa tenue, e una giacca corta di jeans. I capelli biondi e sinuosi, così come i grandi occhi azzurri le donano sempre quel non so ché di angelico ed etereo. Penso che sia davvero una bellissima creatura.
«Hai aspettato molto?» Le chiedo.
«No, anzi! Sono appena arrivata.»
«Seguiamo la massa?»
Mi annuisce entusiasta, così imbocchiamo il viale e procediamo verso il parco.
«Hai visto Fely?»
«Non ancora. Sarà dietro il palco che schiaffeggia i poveri Rick e Ben, per incoraggiarli. Lei dice che non è così, ma io sono sicura che sia un modo per scaricare l'ansia da prestazione.»
«Ha paura di sbagliare? Non ci credo... non è da lei.»
«Infatti non è per quello. Ha paura di sfigurare rispetto al fratello. Teme che qualcuno possa sentire le sue canzoni e dire: -non ci siamo... Leto è molto più bravo! Nulla a che vedere con lei!-.»
«La vive come una competizione?»
«Uhm... no. È piuttosto un desiderio di non deluderlo. È consapevole che Leto non sia nel pubblico e che probabilmente non ascolterà mai tutte le sue canzoni, ma sa, dentro di sé, cosa potrebbe deluderlo o renderlo fiero di lei. È una sua personale lotta interiore. Leto rappresenta il massimo a cui possa aspirare.»
«Da un lato la invidio. Io sono figlia unica, e ho sempre desiderato avere un fratello o una sorella da amare e ammirare in questo modo.»
«Già... » mi risponde con dolcezza.
«Anche tu sei figlia unica?»
«No. Ho un fratello e una sorella più piccoli; sono gemelli, si chiamano Sarah e Liam. Hanno cinque anni e sono due piccole creature malefiche.»
Scoppio a ridere. Li immagino con gli stessi ricci biondi di Greta e lo sguardo satanico.

Finalmente arriviamo ai cencelli del parco e li varchiamo. Ammetto che è molto più grande di quanto pensassi. Oltre ai sentieri bordati da alberi, cespugli e panchine di legno, c'è un enorme spazio ovale, nel quale hanno sistemato un palco di medie dimensioni. Mentre ci addentriamo nella folla di ragazzi schiamazzanti, brandenti sigarette di varia natura e bicchieroni di birra dorata, sento qualcuno tastare il microfono sul palco e alcuni fari colorati illuminarsi alla base.
«Stanno per iniziare... » afferma Greta a voce alta.
«Sai chi uscirà per primo?»
Mentre lei mi descrive il programma della serata, il mio sguardo si posa su un volto famigliare, a pochi metri da noi. Senza pensarci due volte, mi viene da urlare: «Andy!»
Andy si volta nella mia direzione, mette a fuoco il mio circondario e in pochi secondi mi riconosce.
«Mizu! Ero sicuro di incontrarti!» Si avvicina a me, bypassando la folla sempre più fitta, e si ferma a pochi centimetri dal mio viso.
«So che suona la tua amica Fely, giusto?»
«Sì! È la cantante degli Ophelia's. Greta mi stava appunto dicendo che usciranno per ultimi, vero?»
Rivolgo lo sguardo nella sua direzione e mi spavento quando la ritrovo rigida e paonazza. Mi annuisce con un movimento rapido e scattante, per poi tornare sull'attenti.
«Ecco... lei è Greta. Ma dovrei avervi già presentati in mensa.» Affermo senza distoglierle gli occhi di dosso; temo che possa stramazzare da un momento all'altro.
«Ciao Greta! Sì, forse sì, in mensa.» Andy solleva una mano e le sorride.
Greta risponde con un cenno e abbassa subito lo sguardo, ma Andy non se ne accorge: un velo di amarezza ha preso posto sul suo viso.
«Perdonami se non ti ho chiamata per invitarti a venirci insieme ma... »
Rivolgo lo sguardo dietro di lui, e noto che la sua ragazza, Sasha, e un gruppetto di altri amici ci sta osservando. Deduco che lei non fosse molto d'accordo su una mia ipotetica aggregazione, né le facesse piacere che lui la lasciasse a casa per venirci da solo con me.
«Stai tranquillo! Non puoi abbandonare i tuoi amici, lo capisco perfettamente! E poi... siamo tutti qui lo stesso, anche senza esserci messi d'accordo.» Gli dico affabilmente.
La folla lo spinge e strattona, così mi sfiora la fronte con i capelli più volte. Arriva persino a toccare Greta con un braccio e lei, nonostante sia riuscita ad accucciarsi abilmente nel mio fianco destro, salta indietro come una molla. Comprendo di averla messa in grande difficoltà e corro ai ripari.
«Allora ci vediamo dopo! Torna pure dai tuoi o li perderai!»
«Magari andiamo a prendere qualcosa da bere, più tardi, ok?»
Sollevo un pollice in senso di approvazione e gli sorrido per convincerlo del fatto che non sono affatto risentita dal suo non avermi invitata.
Mi assicuro che torni dalla sua dolce metà, e mi volto preoccupata verso Greta, ma non la trovo. Sbando stranita e inizio a cercarla con lo sguardo. Si è dileguata, l'ho letteralmente persa. Inizio a farmi strada nella folla, a chiamarla, a sollevarmi sulle punte per aumentare la visuale, ma nulla.
Ad un tratto, scorgo la sua folta chioma in un angolo poco illuminato, uno spazio dove la gente è molto meno accalcata e si riesce persino a respirare. Mi tuffo tra la gente e, con non pochi sforzi, esco dalla compatta matassa . Le vado dietro e la raggiungo, mentre si siede su una panchina, ai bordi di un piccolo stagno ormai buio.
«Greta... ma che succede?»
Mi siedo accanto a lei e le prendo la mano.
«Mi spiace se ho fatto qualcosa che ti ha disturbata.»
«No... lascia stare. Non è colpa tua.» Mi dice con gli occhi lucidi.
«Perdonami se te lo chiedo, ma... ormai ho notato che Andy... insomma... ti scatena delle strane reazioni. Noi siamo amici da una vita, quasi fratelli, per cui ho paura che dovrai sopportare la sua presenza diverse altre volte. Ma se c'è qualcosa di lui che ti... fa stare così male, possiamo parlarne. Ti ha fatto qualcosa? Ti ha umiliata o trattata male, in passato?»
Greta si asciuga gli occhi con la manica della sua giacca, è sull'orlo di una crisi di pianto.
«Ehi... puoi fidarti di me. Non farei mai nulla per ferirti... voglio soltanto aiutarti.»
La abbraccio.
Non abbracciavo una persona al di fuori della mia famiglia da molto tempo. È strano, ma mi è salito l'istinto di farlo. Vorrei provare a trasmetterle sicurezza e protezione.
Mi stringe con la mano e capisco di non aver sbagliato.
Quando la lascio, fa un profondo respiro e butta fuori tutta la tensione. Poi si schiarisce la voce.
«Andy non mi ha fatto nessun torto... anzi. È proprio questo il punto.
In realtà Andy... è la mia più grande ossessione.»

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