Due notti: anno 2013

di ItalianDork
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stanza 201 ***
Capitolo 2: *** Cantando sotto la doccia ***



Capitolo 1
*** Stanza 201 ***



                                                                                 Stanza 201



L’infermiera si stiracchiò sbadigliando e fissò pigramente la tazza che solo poco prima era colma di caffè, chiedendosi quale parte malata del suo cervello l’ avesse convinta ad accettare il turno notturno.
“Non farti domande stupide. E’ perché non hai trovato nulla di meglio.” Si rispose mentalmente.
Sbadigliò nuovamente. Sì, aveva decisamente bisogno di altro caffè.

Sì alzò dalla sua sedia di plastica con un lamento sommesso e si diresse alla macchinetta; odiava ammetterlo, ma i pavimenti e le pareti chiari e lucidi, uniti alla luce biancastra del manicomio (o casa di cura, come avrebbe dovuto chiamarlo) la inquietavano un po’. Improvvisamente, proprio mentre si frugava in tasca alla ricerca di una monetina, udì una risata provenire da una stanza vicina. Alzò lo sguardo.

Stanza 201.

Incuriosita, aprì la porta ed entrò. Seduta in fondo alla stanza col la schiena contro al muro e la testa china, proprio sotto alla finestra, c’era la paziente che aveva riso in precedenza, intenza a parlare fra sé e sé e a ridacchiare. L’infermiera si accovacciò di fronte a lei; la giovane alzò la testa di scatto, fissando la persona nella sua stanza con occhi spalancati, quasi curiosi.

“Sei la nuova infermiera?” chiese. La donna annuì sorridendo, malgrado l’ inquietudine che le stringeva la gola.

Suo zio, uno dei dottori, le aveva parlato di quella ragazza: era schizofrenica e affermava in continuazione che il suo fidanzato (morto in un incidente) era ancora vivo, dato che poteva vederlo e sentirne la voce. Era stata internata il giorno in cui qualcuno l’aveva trovata al cimitero, che cercava di disseppellire il suo amato per provare a tutti che non era pazza. Lo zio le aveva anche detto qualcos’altro,  ma non riusciva a ricordare cosa.

“Ti stavo disturbando?”  domandò la paziente.

L’ infermiera quasi sobbalzò, da quanto era stata persa nei suoi pensieri. “Uh,  cosa?”

“Ho chiesto: ti stavo disturbando?”

“N-no, volevo solo vedere se stavi bene.”

“Oh, benissimo.” La sua bocca screpolata si allargò in un sorriso. “Stavo parlando con il mio ragazzo, sai? Gli avevo promesso di dimostrare a tutti che non era morto, ma non posso farlo se sono qui!” cominciò a ridere, come se trovasse la cosa estremamente divertente. In realtà si trattava molto probabilmente di isteria, pensò l’ altra donna.

“Anche tu credi che io sia pazza, vero?” chiese la ragazza abbassando nuovamente la testa, così che i capelli scarmigliati e scuri le coprissero gli occhi. “Non mi piace quando la gente pensa che io sia pazza…” aggiunse sottovoce, sorridendo in modo strano.

L’infermiera aprì la bocca per dire qualcosa, ma notò un dettaglio: c’era una pozza d’ acqua per terra.

“Mh, a quanto pare il tetto perde… Se cominci a camminare, fa’ attenzione, potresti scivola-“ si interruppe.

Ora ricordava quello che lo zio le aveva detto.

Sentì il suo cuore mancare un battito.

La paziente schizofrenica della stanza 201 pochi giorni prima era scivolata, sbattendo la testa contro la testata del letto.

Ed era morta.

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  • NOTE DELL'AUTRICE (CRESCIUTA): So che l'idea dietro queste storie era scrivere raccontini horror a mo' di creepypasta, ma rileggerle mi crea tanta tenerezza. Questa qui, poi, in origine doveva essere solo un compito a casa, ma alla prof di Italiano era piaciuta così tanto che aveva voluto farla mettere sul giornalino scolastico. Il ricordo della gioia provata in quel momento mi fa ancora sorridere.

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Capitolo 2
*** Cantando sotto la doccia ***


                                                                   Cantando sotto la doccia
 
Si alzò di scatto, il corpo ricoperto di sudore freddo e il respiro affannato, poggiandosi una mano sul cuore che le batteva con tanta forza che sembrava stesse per romperle la cassa toracica.
Deglutì a fatica e si lasciò cadere sul materasso, coprendosi gli occhi con l’incavo del gomito.

Odiava gli incubi.

Soprattutto i suoi  incubi, dove le sue paure regnavano sovrane, affiancate da sangue e oscurità.
“Magari un po’ di cioccolato aiuterebbe…” rifletté stiracchiandosi. “No, no, cosa sto pensando… Il
cioccolato rende felici, ma lo zucchero ti tiene sveglio. E poi…” scosse la testa, cercando di allontanare un pensiero sgradito.

Si passò poi una mano fra i capelli sudati che le si erano appiccicati al collo e pensò che una doccia sarebbe stata l’ ideale per pulirsi e rilassare i muscoli doloranti. Però…
Si alzò di scatto scuotendo nuovamente il capo e ridacchiando.

“Che stupida: alla tua età hai ancora paura della tua ombra come una bambina!”

Si alzò col cuore che cominciava nuovamente a batterle sempre più forte, unico rumore nella notte, facendo svanire il sorriso dalle sue labbra. Camminò con gambe tremolanti (“Dev’essere il freddo…”) verso il bagno, per poi afferrare quasi con violenza la maniglia, sbattersi la porta alle spalle e fiondarsi verso l’interruttore della luce.

Appoggiò la fronte sul muro fresco con un sospiro  e si sforzò di ridere nuovamente, i sorrisi alzavano le endorfine o roba del genere, l’aveva letto su una qualche rivista, ma il suono che le usci dalle labbra somigliava più a un ansito spaventato che a una risata vera e propria.
Mentre si svestiva pensò che non sarebbe mai cambiata, che, nel profondo, sarebbe sempre rimasta la piccola bambina spaventata dal buio, che la notte correva urlando nella camera dei suoi genitori, per dormire accoccolandosi a sua madre, circondata dal suo profumo e dalla sua voce rassicurante, mentre suo padre andava a cacciare il mostro.
L’ acqua calda sulla pelle era quasi una benedizione, un elisir che le scioglieva le membra indolenzite e le scaldava l’ anima, sciogliendo le sue paure e liberandola dalla prigione di ghiaccio in cui l’ avevano intrappolata; eppure, non riusciva a levarsi di dosso la sensazione che qualcuno o qualcosa la stesse fissando, calcolando la prossima mossa, aspettando il momento giusto per attaccare.

Si sfregò la spugna insaponata sul corpo e sbuffò irritata, cominciava a odiarsi, davvero: sarebbe dovuta essere forte anche di notte, non solo durante il giorno, quando era spavalda e si prendeva gioco delle paure delle sue amiche; e invece eccola lì, spaventata e ansiosa come una bimba di cinque anni. L’acqua calda non sembrava avere più alcun effetto e l’angoscia aveva cominciato di nuovo a strozzarla lentamente, facendola respirare affannosamente e dilatandole le pupille.

“Perché diamine non mi sono fatta una camomilla o non mi sono presa un cavolo di sonnifero?!  Stupida, stupida, stupida…” non sapeva se sbattere la testa contro il muro per la frustrazione  o mettersi a piangere per la paura, tanto, si diceva, nessuno poteva vederla in quello stato.

All’improvviso,  però,  ebbe un’idea: cominciò a cantare una vecchia ninna nanna, che sua madre aveva sempre usato per calmarla durante quelle notti di terrore e mostri; era incredibile come, dopo tanto tempo, ricordasse ancora la melodia e le parole.
E, anche più incredibile,  essa sortiva ancora lo stesso effetto rilassante.
Quindi cantò, cantò fino a che il suono della sua stessa voce le riempì il cervello, cantò fino a che l’acqua non ebbe lavato via tutto il sapone e tutto il terrore, cantò finché non fu avvolta in una nuvola di vapore, cantò fino a che l’acqua non divenne fredda; non smetteva di cantare neanche quando l’acqua e lo shampoo le entravano negli occhi, non poteva.

Quella ninna nanna era la sua ancora di salvezza, smettere di cantare voleva dire annegare in quell’ abisso nero come la pece che era la paura.

Tuttavia, l’acqua divenne così ghiacciata che finalmente decise che era ora di tornare a letto.

Mentre si strizzava i capelli per eliminare l’eccesso d’acqua,  ridacchiò, finalmente tranquilla, e pensò che lei e le sue paure erano veramente ridicole.

Poi si sentì come se un vento gelido le avesse congelato le membra, la gola le si strinse e la risata morì.

“Perché hai smesso di cantare? Era una canzone così bella…”

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NOTE DELL'AUTRICE (CRESCIUTA)
Se siete arrivati fino a qui voglio ringraziarvi di cuore per aver voluto dedicare un attimo del vostro tempo ai miei ricordi d'adolescenza. Credo che sia sempre molto importante prendersi un momento per ripensare a quando e a come sia iniziato un hobby, una passione o un sogno: ci permette di rivivere ogni passo, tutte le gioie, le delusioni, le frustrazioni, ci ricorda che abbiamo già fatto molta strada e che non dobbiamo avere paura di continuare a camminare. Questi sono i primi racconti che, all'età di quindici anni, ho voluto condividere con qualcuno; ora solo un mese mi separa dall'essere una ventiduenne e spero di poter continuare a condividere le mie storie per molti anni ancora. Vi ringrazio ancora, a presto!
P.S.: Mannaggia, quanto mi piacevano i paragrafi brevi. 

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