Il canto di Un

di Blue_Rainbow592
(/viewuser.php?uid=1095273)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Tanti millenni or sono, Unilia madre di tutti gli dei, creò dalla Luce da cui era stata generata, la Terra, la plasmò in modo che le montagne s'innalzassero verso le nuvole con le loro teste canute, che i fiumi scorressero impetuosi come il sangue nelle vene, che l'erba fosse rigogliosa e di un verde così ricco da sembrare smeraldo, che le foreste fossero piene di ogni albero di ogni forma e grandezza, che le colline si innalzassero come dolci rigonfiamenti della terra stessa, che i deserti fossero delle magnifiche distese di sabbia arancio scuro, ricche di oasi sotto cui far riposare i cammelli ormai stanchi e che i mari fossero privi di tempeste. Finita la propria opera, Unilia piantò quattro alberi sacri, uno per ogni punto cardinale e li mise a guardia della propria creatura. A nord vi era un abete così grande da poter ospitare sulla propria chioma una città intera, fu chiamato l'Abete delle Sette Spade, ad est vi era un ciliegio dai petali rosati su cui fu edificato un tempio in onore della dea stessa, lo chiamarono l'Albero di Entaia secondo nome della dea, ad ovest nacque la Sequoia dei Venti così alta da poter toccare il cielo con i rami più alti, mentre a sud crebbe l'albero simbolo della dea, l'acero, a cui fu affidato il compito di preservare tutta la magia e di combattere l'Oscurità.

Dopo la terra, Unilia creò gli animali, centinaia di migliaia, uno più bello dell'altro e ad essi diede il compito di congiungersi con la natura e la terra stessa in modo da beneficiare di essa e allo stesso tempo di ricambiare il favore concimandola. Stanca della solitudine, in seguito, la dea decise di creare qualcosa che andasse ben oltre gli animali e le forme di vita più semplici, così decise di dar vita a degli esseri pensanti. Creò così gli elfi. Questi, dopo alcuni anni, decisero di spargersi per tutto il mondo adattandosi ai luoghi a loro scelti e dividendosi in cinque casati, uno per ogni punto cardinale e per ogni albero e ognuno con il nome del proprio fondatore. Ad est viveva il casato degli Entaia, formato da elfi di un'intelligenza straordinaria, le loro menti erano puntate verso le stelle, la terra e tutto quello che non si poteva spiegare senza uno studio accurato, erano interessati pure ai problemi che affliggevano le terre di Un e l'uomo stesso. Il casato Entaia divenne così il cuore pulsante dell'economia e del governo. Erano un esempio di democrazia perfetta, non vi erano guerre né scontri, ma solo dibattiti tra uomini e donne colte. Chi voleva studiare si recava nelle scuole della capitale e chi voleva recarsi da un buon medico chiedeva sempre degli Entaia. A nord si erano stanziati gli Zornir, un popolo di guerrieri, capaci di resistere alle temperature più estreme. Il loro esercito era il più potente mai visto capace di sconfiggere anche il nemico più potente. Essi vivevano tra le montagne, lontani da coloro che governavano nelle pianure dell'est. Tra di loro governavano solo i comandanti più potenti e ricchi per generazioni intere.  Ad ovest vivevano gli elfi di Wyren, abitanti delle foreste più folte e misteriose. Il loro spirito era indomito e coraggioso. Tra di loro si potevano contare i più grandi esploratori ed avventurieri. Erano liberi, non esisteva un governo, non esistevano leggi se non quelle della natura, eppure il casato Wyren era il più pacifico in assoluto. Il centro era abitato dal misterioso popolo degli Isaer, abitanti del deserto e esperti di magia, divisi in dodici tribù governate da uno sciamano. Infine, a sud vivevano i Lajer, gli elfi più cari alla dea. Essi vivevano nel sottosuolo, proprio sotto alle radici dell'Acero di Unilia. Il loro legame con la natura era uno dei più forti mai visti. Loro vivevano in comunione con la terra e la dea stessa, tuttavia, erano pochi e sempre molto timidi nei confronti delle altre razze.

Per secoli le creature di Unilia vissero in pace e in armonia, finché non apparvero altre creature, nate dalla fossa più oscura di Un, bestie feroci e invincibili, così orribili da far tremare coloro che incrociavano i loro sguardi. Erano il terrore di ogni elfo o creatura vivente. Tuttavia, Unilia strinse un patto con loro. Le fu promesso il riposo in cambio di Un. Volevano governare i territori degli elfi come aveva sempre fatto la loro creatrice per secoli interi. Tentata da questa promessa, Unilia accettò il patto e si ritirò nel luogo più a nord esistente, ancora più lontano dalle montagne che erano considerate il confine tra il mondo umano e il mondo divino, in un luogo in cui i due soli e le lune sembravano un tutt'uno con la terra. Unilia iniziò così la sua comunione con la terra e scomparve per sempre dalla faccia della terra.

Intanto, i nuovi sovrani di Un avevano già preso il possesso degli Alberi che da quel giorno iniziarono a perdere le foglie. Caddero sulle teste degli orchi, ma questi si limitarono solo a raccogliere le foglie argentee da terra, felici di essersi arricchiti ancor di più. 

Con il tempo, tutti si abituarono al governo degli orchi, tutti tranne Un stessa. Gli Alberi continuavano a perdere le foglie di anno in anno, una all'anno. Lentamente i loro rami iniziarono a diventare spogli e i loro tronchi iniziarono a trasudare resina come se fosse sangue. Gli orchi iniziarono a fare degli studi su di essi, senza riuscire a capire come mai perdessero le loro foglie senza mai fermarsi, ma allo stesso tempo gioivano per la ricchezza che quelle piante donavano a tutti loro.

Iniziò così la fine dell'età dell'oro per Un. La prosperità sparì totalmente. La terra iniziò a seccarsi, a non produrre più i propri frutti. Le piante iniziarono a sfiorire e a marcire, ma nessuno se ne accorse fin da subito, pensarono solo che fosse un periodo di carestia come un altro, anche se si protrasse per anni.


Angolo della scrittrice

Prima di tutto, vi ringrazio per esservi soffermati su questa storia e aver impiegato il vostro tempo nel leggerla. Questa storia è nata circa undici anni fa tra i banchi di scuola. Inizialmente era una raccolta di fiabe, tra la quale vi era proprio una intitolata "Il mondo degli elfi", la quale raccontava di una dea che, stanca della solitudine, aveva deciso di creare un mondo proprio. Con gli anni, la storia è riuscita a sopravvivere tra drive e quaderni di appunti. Dopo dieci anni, mi sono convinta che il destino voleva che io sviluppassi questa idea, dal momento che "Il mondo degli elfi" era l'unica fiaba sopravvissuta al tempo. Così decisi di sviluppare l'idea, creando "Il canto di Un". 
Spero che questo brevissimo prologo vi sia piaciuto e spero che qualcuno di voi voglia farmi sapere cosa ne pensa. Grazie ancora!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Akasha


Ogni cosa era avvolta da una tenue luce bluastra. Il fragore dell'acqua riempiva ogni angolo della grotta. Le stalattiti scendevano dal soffitto fino a toccare il pavimento, incrociandosi tra di loro fino a formare delle vere e proprie ragnatele di roccia. Da un foro sulla volta riusciva ad entrare un raggio di sole solitario che illuminava i petali dei fiori. Dei piccoli insetti dalle zampe rese arancioni dal polline, danzavano attorno alla vegetazione rigogliosa. Al centro della grotta in cui sorgeva la città, s'innalzavano le radici dell'Acero di Unilia, l'albero più vecchio di tutta Un. Neppure la foresta aveva tutti i suoi anni. Lui era stato il primo albero a mettere radici sulla terra della dea e sarebbe stato l'ultimo a morire. Morto lui, ogni cosa sarebbe andata in fiamme e Unilia sarebbe morta assieme a tutte le sue creature. Per questo motivo, il casato Lajer era stato incaricato dalla dea stessa di proteggere le radici dell'Albero a qualsiasi costo.

Poco distanti dalle radici dell'Acero dei vermi giganti dalla pelle blu scuro, affamati e rallentati dal lungo sonno, lanciavano i loro lamenti verso il fazzoletto di cielo che s'intravvedeva dal punto in cui si trovavano. 

Tra quelle mura di roccia e legno una ragazza aprì lentamente le palpebre pallide, osservando la propria dimora. Era nata e cresciuta in quel luogo. Non era mai uscita, in realtà erano secoli che nessuno usciva e che nessuno entrava. L'esterno, con ogni probabilità, li dava per scomparsi, estinti come un animale dalle carni pregiate che viene cacciato fino a che i morti divengono più dei nati o come una pianta che viene attaccata da un'altra fino ad esserne fagocitata. Gli unici abitanti dell'esterno che erano sicuri dell'esistenza del popolo eletto dalla dea erano le contesse, le quali avevano qualche contatto sporadico con colei che governava il sottosuolo, mentre gli altri elfi erano così lontani da loro da non saper neppure descrivere un appartenente alla stirpe di Lajer il Magnifico. Coloro che stavano al di fuori della grotta di Grimstirit erano solo i soggetti dello scherno di alcuni anziani che si divertivano a dare a loro qualche nomignolo, ma niente di più. L'esterno non parlava dei Lajer e i Lajer non parlavano dell'esterno, eppure quel fazzoletto di cielo ricordava a tutti loro che un tempo anche loro avevano abitato sotto alle stelle, che avevano corso sotto alla pioggia alla ricerca di un riparo e che avevano gioito di una giornata di sole dopo una lunghissima tempesta. 

Respirò a pieni polmoni l'aria che fischiava tra le stalattiti, creando un canto che si accordava alla perfezione con l'onnipresente ruggito delle cascate. Il vento s'insinuava tra i suoi capelli, facendo danzare le centinaia di trecce candide e spandendo il tintinnio dei gioielli e delle pietre intrecciati ad essi. Si concentrò sulla sensazione che sentiva sulla pelle ogni volta che il soffio vitale di Un l'accarezzava come un amante. I muscoli della schiena si tesero, mentre le ali si aprivano facendo cadere nel vuoto alcune piume grigiastre. Fece un passo in avanti e sentì il vuoto avvolgerle lo stomaco, la gravità iniziò a spingerla verso il basso. D'un tratto, le ali si tesero per frenare la caduta e lei iniziò a piroettare tra le correnti. Amava volare, sentire i muscoli lavorare in perfetta sincronia per far sì che i suoi movimenti si bilanciassero anche con l'aiuto del vento, sentire l'adrenalina scuoterle il corpo come una foglia e allo stesso tempo farla gridare di gioia. Ogni volta che apriva le ali e si lanciava nel vuoto, danzava con l'aria, danzava con Unilia stessa in un walzer molto più intimo di qualsiasi altro ballo mai danzato da qualsiasi coppia di ballerini. Riusciva a sentire il legame ancestrale che intercorreva tra la terra e coloro che discendevano da Lajer, farsi più forte.

Volò sfiorando con le dita la superficie liquida del lago attorno a cui si arrampicava la città e in cui si gettavano le cascate che scendevano dalla fessura sul soffitto. Osservò l'acqua lanciare alti spruzzi verso di lei, bagnandole i vestiti di pelle e il viso reso pallido dalla scarsa esposizione alla luce del sole. Volteggiò più e più volte, riprendendo quota, e si diresse verso i vermi dell'allevamento del padre. Come ogni mattina, diede a loro il cibo che serviva per sfamarli per tutto il giorno, poi salì verso la superficie rocciosa. Arrivata a un metro dall'unica porta verso l'esterno, chiuse gli occhi e smise di muovere le ali. Cadde verso il basso. Il vuoto la stava abbracciando, la morte la chiamava, però prima di schiantarsi al suolo tornò a sbattere le ali. Il brivido, era quello che le piaceva. Adorava sentire il proprio corpo ribellarsi all'estremo atto, adorava sentire l'oscurità della morte venir sconfitta dalla forza dell'istinto di sopravvivenza: - Buongiorno. - esclamò volando tra le vie della città. Coloro che venivano travolti dal vento che alzava il movimento delle sue ali, brontolavano, mentre i bambini correvano sotto di lei ridendo e tentando si alzarsi in volo, ma erano ancora troppo deboli per poter alzare il peso dei propri corpi. La loro stirpe era l'unica ad essere in grado di volare, gli unici con il privilegio di poter danzare con Unilia e di poter connettersi con gli alberi.
 
Si diresse verso le radici dell'Acero. Erano magnifiche, uscivano dalle acque del lago e andavano ad intrecciarsi tra di loro salendo verso l'alto e andando ad immergersi nella roccia per poi uscire alla luce del sole. Il loro colore, a causa del muschio era blu fosforescente e la resina colava a piccole gocce in una pioggia giallastra sotto cui passeggiavano gli anziani e i malati per trovare un po' di conforto dai dolori della vecchiaia o dalle pene della malattia. 

Sedutasi su una delle radici, accarezzò lentamente il legno, sentendo l'Albero connettersi con lei. Nelle sue orecchie iniziò a risuonare un canto. Era magnifico, potente, capace di scorrere nelle vene di chi lo ascoltava, cantava della vita e della fine di Un. Si ritrovò a canticchiare a bassa voce una melodia a lei ignota.

Fischia il vento nella landa dei sogni,
Canta l'elfo che tutto creò.                       
Non aver paura, Un non cadrà.                  
Scorre il fiume dove l'eroe pianse.            
La guerra urla come dei tuoni.             
Non aver paura! Nessuno  a prenderti verrà. 
L'eco della grotta rimbomba,         
Urla il soldato che cadere dovrà    


Un movimento al margine del suo campo visivo la costrinse a troncare il legame che aveva appena instaurato con l'Albero e a voltarsi di scatto. Non c'era nulla dietro di lei, eppure era sicura di aver visto un'ombra. Si guardò attorno più e più volte, sentendo uno scricchiolio. D'un tratto, lo vide. Era un cucciolo di verme gigante che mangiava il muschio cresciuto sotto alle radici: - Mi hai spaventata, piccolino. - rise avvicinandosi alla creatura. Non faceva parte del gregge del padre della giovane donna, quello era troppo chiaro, allora chi aveva smarrito un cucciolo? Pochi erano gli allevatori di Grimstirit e quei pochi non avevano festeggiato la nascita di un nuovo nato. Si chinò verso la creatura e le sfiorò la schiena viscida: - Non lo fare più. - lo rimproverò cogliendo un fiore da dargli. Mentre lo osservava nutrirsi, tornò a cantare a bassa voce.

Sogna la dea che tutto vede.
Nulla vincerlo potrà.
Non aver paura! Nessuno verrà.
Cavalca il guerriero disertore.
La sua armatura splende nel ciel.
Fuggi! Prima che venga per te.


La sua voce si spense lentamente. Nella sua mente iniziarono a delinearsi delle immagini. Vedeva un soldato cavalcare un destriero dal manto splendente. La sua armatura brillava alla luce della luna, mentre la sua spada era alzata verso la notte stellata. Era bello e fiero come solo i soldati delle leggende erano. La sua mente fu avvolta dall'eco del corno di battaglia del soldato. Mentre quel suono la stordiva, un dolore lancinante la costrinse a tornare nel mondo reale. Puntò lo sguardo sulla gamba. Un rivolo di sangue colava da una lacerazione. Il verme era poco distante da lei con in bocca un brandello di carne che continuava a masticare tranquillamente, quasi come se nulla fosse. Era cambiato, la sua pelle era diventata violacea, mentre i suoi occhi erano iniettati di sangue. Rimase immobile, scioccata da quello che stava guardando. L'animale le soffiò contro, saltandole addosso. Non era più lento come erano di suoi simili. D'istinto, prese un sasso e lo lanciò contro l'animale. Quello colpito al ventre, precipitò verso il basso andando a crollare a picco tra le onde del lago. 

La ferita, intanto, bruciava come se un fuoco le stesse consumando le carni dall'interno. Strinse i denti e si alzò lentamente, aprendo le ali. Si diresse verso la propria casa. Non appena fu a terra, crollò gridando di dolore: - Figlia mia! - esclamò una voce femminile. Cercò di comprendere chi fosse, ma la sua mente era ormai offuscata dal dolore: - Madre? - mormorò, stordita. La donna corse in suo soccorso, premendo sulla ferita: - Lothor, vieni! - urlò la donna, richiamando l'attenzione del marito impegnato con un gregge che pascolava poco distante: - Akasha è ferita! - esclamò la donna: - Cos'è successo? - chiese il padre prendendola in braccio. Oltre ad essere uno dei pochi allevatori, Lothor era pure uno dei guaritori migliori della città. Molti erano sicuri che le sue abilità fossero migliori di quelle degli Entaia: - Mi ha morso... un cucciolo. - ansimò, tremando dal dolore. L'ultima cosa che ricordò fu il volto della madre, poi il buio l'avvolse.

Aprì lentamente gli occhi. Il mondo brillava di una luce così forte da ferirle gli occhi abituati al buio. Era sotto ai raggi dei due astri che brillavano nel cielo di Un. "Dove mi trovo?" pensò coprendosi gli occhi con una mano. Avanzò incerta, mentre la sabbia del deserto le entrava nei sandali. Era completamente sola, eppure aveva la sensazione di essere seguita da qualcosa. Si voltò e vide se stessa voltarsi cento volte, verso altre cento creature identiche a lei, in un fruscio di ali così potente da assordarla: - Dove mi trovo? - domandò e quelle domandarono a loro volta. Fece un passo avanti e quelle la imitarono. D'un tratto, tutte quelle rappresentazioni di lei sparirono, andando in fumo, sostituite da un'unica Akasha seduta a terra che piangeva. Si avvicinò piano per non attirare l'attenzione di nessuno e così vide la scena. Erano in tre, una era una ragazza molto giovane dai lunghi capelli color rame legati in una treccia laterale, con addosso delle vesti pregiate. Se ne stava in piedi con una mano sulla bocca e l'altra tesa verso il basso, dove Akasha era china con un soldato dai lunghi capelli neri tra le braccia. Gli stava premendo la mano su una ferita che sanguinava copiosamente macchiando la sabbia. Si ritrovò a partecipare a quella scena in prima persona e al dolore che provava quella rappresentazione di sé. Il suo cuore sembrava sul punto di spezzarsi più e più volte. Non riusciva a respirare, il dolore era troppo forte, gli occhi le bruciavano e una lacrima solitaria le rigava il volto: - No. - urlò assieme agli altri. Tutto fu inghiottito da una luce violacea: - Unilia ti ha scelto, giovane elfa. - tuonò una voce. Cercò la fonte di quel suono, senza trovare nulla se non buio: - Per cosa? - domandò. L'oscurità sembrò muoversi, costringendola a girarsi su se stessa: - Per salvare Un. - fu l'ultima cosa che sentì prima di essere di nuovo avvolta dalla luce. 

Dischiuse le palpebre. Era nel proprio letto. Si rilassò, sentendo un peso all'altezza del petto. Alzò il capo e si ritrovò abbracciata alla sorella minore. Le accarezzò la schiena. "Quanto avrò dormito? " si chiese ripensando alla visione. Sentiva ancora la sofferenza che aveva provato di fronte all'agonia dipinta nel volto del soldato. Chi era? Perché si sentiva come se avesse perso una parte di sé? Richiuse gli occhi pensando e ripensando ancora. Cos'era successo al verme? Non attaccavano mai, anzi, erano i primi a fuggire di fronte ad un estraneo. Non poteva essere un atto voluto e poi perché la sua pelle era diventata viola dopo aver mangiato quel fiore? Nessun animale delle grotte era di quel colore, di solito la loro pelle tendeva sempre verso il blu, oppure verso il bianco, ma mai viola. " Per salvare Un." quelle tre parole le tornarono alla mente come un fulmine a ciel sereno. Doveva salvare Un, ma da cosa? Non sapeva nulla della superficie e nel sottosuolo tutto era identico da secoli. Tornò a concentrarsi sulla sorella: - Akasha, ti sei svegliata! - esclamò quella con la voce ancora impastata dal sonno: - Finalmente sì. - le sorrise, sentendo la porta della stanza aprirsi: - Thabita, scendi! - le ordinò il padre prendendola in braccio. La bimba cercò di divincolarsi, ma poi si arrese, lasciandosi portare fuori dalla stanza.
Rimasto solo con Akasha, l'uomo si sedette ai piedi del letto: - Vorrei sapere come hai fatto a ferirti, parlavi di un cucciolo o di una cosa simile. - esordì quello, senza fare troppi giri di parole. La ragazza si sedette, sentendo le ali scricchiolare: - Ero seduta sulle radici dell'Acero, stavo cantando quando ho visto un cucciolo . Gli ho dato uno di quei... fiori che amano tanto, quelli verdi, grandi quanto un pugno. Non è successo nulla finché non mi sono distratta. Ho distolto lo sguardo per un secondo e il cucciolo era mutato: gli erano apparse delle strane striature viola e i suoi occhi... erano accesi da una collera infinita. Mi ha morso la gamba come se volesse sbranarmi pezzo per pezzo... e io... l'ho ucciso è stato inevitabile: o io o lui. Però sono sicura che c'era qualcosa che non andava in quella creatura. - raccontò. L'uomo si passò una mano tra i pochi capelli che gli ricoprivano il cranio pallido: non c'erano precedenti ad un comportamento simile, però a volte con gli animali potevano capitare delle cose imprevedibili: - Sarà stato un caso isolato. La cosa buona è che tu stia bene. - provò a rassicurarla, anche se neppure lui era convinto di ciò che stava dicendo. 
Gli posò una mano sulla spalla e sorrise, rassicurante: - Ho bisogno di riposarmi ancora qualche ora, ne parleremo più avanti. - gli disse. Sola e nel silenzio della propria stanza, tornò a rimuginare. I Vermi amavano i fiori, in particolare quelli che crescevano sotto le radici dell'Acero, molti avevano tentato di fare delle congetture su quel fatto, ad esempio, che i fiori fossero un tramite grazie al quale gli animali si potevano congiungere ad Unilia stessa, mentre altri avevano semplicemente supposto che questi fossero gli unici che dessero abbastanza energia ai vermi, tuttavia, mai e poi mai si era sentito parlare di fiori che rendessero quelle creature dall'indole pacifica aggressive. Doveva tornare in quel luogo e scoprire il perché. 

Si scoprì la gamba: suo padre l'aveva ricucita e poi fasciata con delle bende imbevute in una specie di gelatina verdastra e dall'odore pungente. Con l'aiuto delle mani, riuscì a posare il piede a terra. Fece leva con le braccia e si mise in piedi, anche se la testa le girava vorticosamente. Aspettò qualche secondo, in modo che la testa smettesse di girare, e provò a fare il primo passo. Il dolore era forte, ma sopportabile. Zoppicò lentamente fino alla finestra e l'aprì. Era abbastanza grande da permetterle di uscire senza far troppa fatica, però era in alto. Si arrampicò cercando di non gridare dal dolore, finché non riuscì a sedersi sul davanzale. La sua stanza si affacciava sulle cascate, il luogo sacro in cui i Lajer lasciavano andare i corpi di coloro che morivano. Come un cadavere, si gettò verso le acque vorticose, ma ancor prima di vedere il fondo dello strapiombo, spalancò le ali, mentre il vento fece il resto. 

Volò per qualche minuto attorno alla casa per accertarsi di essere in grado di allontanarsi senza rischiare la vita. Sicura di poter arrivare fino alle radici, si diresse proprio verso l'Albero. Tornò a sedersi sulla radice in cui era stata attaccata ed osservò meglio i fiori che crescevano nella zona. I petali erano striati di quella strana sfumatura violacea. Allungò una mano verso uno di essi... D'un tratto il mondo che la circondava sembrò andare in frantumi. L'Albero scomparve: - Bambina mia, perché non mi ascolti? - la rimproverò una voce vecchia come Un stessa. Cercò la fonte di quel suono, sperando di trovare la bocca dalla quale erano uscite quelle parole, ma non vide altro che buio: - Chi sei? - chiese, aggrottando le sopracciglia: - Io sono Un e tu mi devi salvare. - fu la risposta secca dell'entità: - Da cosa? - domandò la giovane donna. Il vento soffiò tra le sue ali, spostando leggermente le piume che andarono a solleticarle il collo. Fu costretta a voltarsi di nuovo e vide due occhi blu illuminare il buio di quella visione: - Dalla morte. - una luce malinconica illuminò per un attimo quelle due iridi così magnifiche. Gli occhi di Un erano così belli da farla perdere in quel mare color cobalto e zaffiro, però nel profondo di quell'oceano c'era pure una piccola macchia, così piccola da non essere visibile ad occhio nudo, di un viola cupo, pulsante e pronto ad inghiottire il blu: - Bambina, ora tocca a te salvare chi ti ha generato. - furono le ultime parole che sentì prima di tornare in sé. 

La prima cosa che percepì delle grotte fu un lieve dondolio, poi di nuovo il tenue bagliore bluastro che illuminava ogni cosa. Alzò lo sguardo. Urlò dal terrore: stava penzolando con la gamba sana stretta alla radice e l'altra che pulsava dal dolore, abbandonata nel vuoto assieme al resto del corpo: - Aiuto! - gridò cercando di tirarsi su, ma senza riuscirci, anzi, scivolando sempre di più, strappando i punti di sutura e le bende: - Unilia, aiutami! - mormorò lasciandosi andare. Rotolò per qualche metro, andando a sbattere contro al muro di pietra di una piccola casetta: - Cosa ci facevi attaccata alla radice, ragazzina? - tuonò una voce femminile. Cercò di parlare, ma nei suoi polmoni non c'era abbastanza aria per muovere le corde vocali. Tentò di prendere un respiro profondo, ma il dolore la fece bloccare. Prese la donna per le spalle, senza neppure guardarla in volto e dopo qualche minuto disse: - Ho... parlato... con... Un. -

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Onilai

I raggi del sole entravano dalle finestre che si intervallavano regolarmente lungo i muri della torre, un leggero tepore scaldava la sala. Il vento entrava da una finestra lasciata aperta, muovendo appena le pagine ingiallite delle centinaia di tomi che erano stati lasciati sui tavoli della biblioteca. Il silenzio avvolgeva ogni cosa, interrotto a volte dal lieve russare del vecchio bibliotecario seduto su una poltrona di velluto rosso, in mano teneva un calice con all'interno ancora una goccia di vino, mentre nell'altra mano stringeva ancora la bottiglia vuota. Probabilmente era così ubriaco da non essersi neppure accorto che si era addormentato sul posto di lavoro.
Silenziosamente, lo superò e salì le scale. La biblioteca di Tallir era una delle più grandi in assoluto. Occupava un'intera torre che s'innalzava per decine di piani colmi di libri, migliaia tra volumi e pergamene catalogati e riposti diligentemente in altre migliaia di scaffali. Arrivata sulla sommità della torre, si sedette nella sala da lettura che la sua famiglia aveva fatto edificare secoli or sono. Con le sue pareti finemente decorate e le sue poltroncine di velluto nero, quello era l'unico luogo in cui i conti della famiglia Entaia potevano ritirarsi a studiare.

Aprì un piccolo libro che aveva lasciato sul tavolo la notte prima ed iniziò a leggere. Il titolo in oro recitava "Storia di Un e dei suoi abitanti". Lo aveva trovato quasi per sbaglio due settimane prima. Quel giorno il bibliotecario, ormai novantenne, si era ritrovato bloccato a causa del mal di schiena e aveva deciso di mandarla a riordinare gli scaffali. Tra un libro e l'altro, la giovane contessina aveva trovato il diario di viaggio di un tale Sifar di Lajer. Tra quelle righe, l'autore narrava un viaggio attraverso Un, ma era un mondo totalmente diverso da quello in cui lei viveva, un mondo ricco e pieno di vita, un'utopia magnifica governata da una figura benevola, Unilia divinità madre, colei che aveva creato tutto per poi cederlo agli orchi in cambio di un po' di riposo. 

Accarezzò il cuoio consumato dal tempo e dall'umidità e aprì il volume al punto in cui si era fermata. Sifar, dopo aver lasciato le grotte, aveva deciso di fare un pausa in un villaggio Zornir e lì si era ritrovato a pensare ad Unilia:

La madre di tutta Un, vive sulla cima del monte più alto esistente. La sua dimora è umile, priva di  ogni tipo di lusso Ella dorme a terra e mangia ciò che la terra le offre spontaneamente. Sa cacciare, ma non desidera cibarsi delle proprie creature. Ella aveva un'indole benevola, ci amava tutti e avrebbe amato in eterno coloro che Un stessa avrebbe generato. Finché non predisse l'arrivo di creature superiori persino a lei. Da quel giorno decise di proteggere i propri figli da quella minaccia. Fu così che
lasciò la propria dimora per recarsi tra gli elfi.


Tutto iniziava con la visione della dea. Certo, Onilai sapeva che l'opera di Sifar era per la maggior parte una proiezione della fantasia dell'folle avventuriero. Da quello che Onilai aveva studiato, Sifar era sempre stato indicato come un pazzo che credeva fermamente di aver avuto una relazione con una dea e di aver ottenuto dei poteri eccezionali proprio grazie a questa unione. Comunque, la giovane non riusciva a non staccarsi da quel libro, lo leggeva avidamente, vogliosa di conoscere di più quella visione di Un che lei non avrebbe mai sperimentato sulla propria pelle.

Il primo popolo che incontrai fu quello degli Entaia, nostri lontani parenti. Tallir è la città più fiorente della superficie. C'è acqua ovunque, le sue fontane monumentali sembrano quasi creare dei giochi di colori ogni volta che i raggi dei soli colpiscono le loro acque. La calma circola tra le sue vie e i giardini sono sempre in fiore...

Un movimento improvviso la costrinse ad interrompere la lettura: - Chi va là? - domandò sperando che fosse il bibliotecario. Un fruscio di vesti le fece venire i brividi. I ragazzini raccontavano che la biblioteca fosse infestata dal fantasma della moglie del bibliotecario, morta prima che le contessina nascessero a causa di una malattia rarissima: - Chi è? - chiese di nuovo, sempre più spaventata. Delle mani le tapparono gli occhi, facendola strillare dal terrore. Una risata a lei conosciuta le giunse alle orecchie: - Come sei fifona, Oni. - esclamò sua sorella Sorana. Quel giorno era più bella del solito, i capelli biondi le scendevano sulle spalle in morbide volute color miele, le orecchie appuntite erano lasciate scoperte, mostrando un paio di orecchini di giada, il collo sottile era messo in risalto da una collana della stesso materiale, che le scendeva delicatamente sul seno candido, stretto dal corpetto dell'abito verde smeraldo: - Cosa ci fai qui? - le chiese la più piccola, ancora rossa per la vergogna. L'altra le sorrise: - Nostra madre vuole che venga anche tu ad accogliere l'imperatore. - annunciò allungano la mano affusolata verso di lei in segno di pace. Onilai le scansò la mano: - Possibilmente dopo che le serve di abbiano dato una belle strigliata. - scherzò la giovane donna affondando le dita tra i ricci ramati della sorella: - Nostra madre mi vuole ad un evento pubblico?  - domandò stupita. Dopo l'incidente di due anni prima, la contessa l'aveva esclusa da qualsiasi evento pubblico fino a nuovo ordine: - Dare fuoco alla veste della contessa Zornir non è stata una grande idea, però papà pensa che sia un bene farti partecipare agli eventi pubblici. - rispose la più grande dandole una pacca sulla spalla. 

Per delle contessine come loro, accogliere gli ospiti e accompagnare la madre nei viaggi diplomatici era una cosa da tutti i giorni. Di solito era la contessa stessa a costringerle, ma per loro non era la stessa cosa. Lumia di Entaia non era quel genere di donna, anzi, preferiva viaggiare in completa solitudine piuttosto che portarsi dietro le figlie. Era il conte quello che cercava di coinvolgerle il più possibile nella vita di corte. Onilai la ringraziava per questa sua caratteristica. Non le era mai importato della vita di corte, come non le era mai importato di ottenere il potere, preferiva la biblioteca e lo studio. Quella adatta alla vita di corte era sua sorella, ambiziosa e sempre pronta a seguire la madre in modo da imparare il più possibile. Ancora stupita da quel fatto, uscì dalla biblioteca, lanciando un'ultima occhiata al vecchio ubriaco che dormiva, e si diresse verso la propria stanza dove la balia la stava aspettando, euforica come non mai.

                                                                                            *******************************                 

Il canto della balia risuonava tra le pareti della stanza, dolce come miele. La spazzola le passava tra i capelli, tirando e strappando. Dopo neppure dieci minuti, iniziò a lamentasi e a scostare il capo prima che quella potesse immergere i dentini tra i riccioli: - Signorina, non riesco a lavorare se vi muovete. - si lamentò quella. La ragazzina le tolse la spazzola dalle mani: - Ci penso io, Astra. - le disse, mentre la donna le lanciava un'occhiata capace di incenerire pure una divinità, ma poi le sorrise: - Vado a preparavi il vestito. - mormorò la donna chinando lievemente il capo in segno di rispetto. Rimasta sola con il proprio riflesso, si osservò. Era sempre stata una ragazza carina, certo, nulla a che vedere con la bellezza eterea tipica della madre e della sorella. I tratti delicati e gli zigomi alti erano incorniciati dai riccioli rossi che le facevano risaltare l'incarnato lievemente scuro a causa delle lunghe giornate passate a studiare botanica sotto ai raggi del sole; gli occhi erano grandissimi, di un verde ipnotico, mentre la bocca sottile era rossa come i petali di una rosa: - Questo vestito sembra che sia stato cucito pensando a voi. - annunciò la balia riemergendo dall'armadio stringendo tra le braccia un lunghissimo abito rosso fuoco con dei ricami in argento. Avrebbe visto i signori di Un da vicino. Era la prima volta in sedici anni di vita che si ritrovava di fronte ad un orco: - Siete pronta, bambina mia. - annunciò la donna spingendola fuori dalla stanza. 

La sala del trono era gremita, tutti i cittadini di Tallir, dai più nobili ai meno, erano accorsi per vedere l'imperatore porgere i propri omaggi ai signori di Un. Avanzò tra la folla cercando di non pestare qualche gonna e di non inciampare tra le centinaia di gambe che si scontravano tra loro. Arrivata affianco alla sorella, lanciò un'occhiata a ciò che la circondava. C'erano nobili provenienti da ogni parte di Un. C'era la contessa del Zornir seduta poco distante da loro, vicino a lei c'era la contessa del casato Wyren. Erano così vicine che parlavano tra di loro sussurrando, mentre poco più in là la contessa degli Isaer stava seduta a gambe incrociate, avvolta in un mantello di pelliccia candida: -Amania Zornir e Nora Wyren sono sorelle nate da madri diverse. - le spiegò Sorana non appena notò l'interesse di Onilai per quelle due donne: - Ho avuto l'onore di parlare con Nora ed è una donna molto intelligente, secondo me ti piacerà. - continuò prendendola per un braccio: - Non posso andare da loro, Amania si ricorderà ancora di quello che ho fatto due anni fa durante la sua incoronazione. - le disse puntando i piedi. L'altra rise: - Devi socializzare con gli altri nobili. Forza, non aver paura. - rispose candidamente. Come si era aspettata, non appena Amania la vide, aggrottò le sopracciglia, preoccupata, di sicuro si ricordava ancora il loro primo incontro: - Salve, mie signore. - le salutarono le due ragazze in coro. Nora le accolse con un sorriso così caloroso da illuminarle il volto: - Non siete eccitate all'idea di vedere il nostro imperatore? - domandò quella strappando un risolino isterico alla sorella che si coprì il volto con la mano resa callosa dai lunghi allenamenti con la spada: - Certo, non vedo l'ora di chiedere agli orchi come sia vivere nel Palazzo e di chiedere qualche approfondimento sulla loro cultura. Sapete che vengono da una terra formata solo da vulcani e roccia lavica? Mi meraviglio che riescano a trovare del cibo e a coltivare il terreno. - esordì Onilai, cercando di allentare la tensione che si era andata a creare dopo la domanda di Nora. Sorana arrossì. Odiava quando la sorella faceva così, tuttavia si morse la lingua e rimase in silenzio: - Oh, siete un ragazza veramente curiosa! - osservò Nora, dando una gomitata ad Amania la quale tornò ad osservare la folla, proprio nel punto in cui doveva fare il proprio ingresso la contessa Lumia di Entaia, la più anziana dopo la leggendaria contessa dei Lajer la quale resa cieca dalla vecchiaia, non lasciava le proprie grotta da decenni, mentre Lumia adorava sfruttare quelle situazioni per mostrare la propria potenza: - Pure io ero così prima di diventare contessa. - esordì un voce incrinata da un fortissimo accento esotico: - Benvenuta a voi, Baya di Isaer. - sorrisero le altre due contesse. Vedere di persona un membro del casato Isaer era raro quasi quanto incontrare i loro cucini del sottosuolo, ormai reclusi nella città di Grimstirit. Pochi potevano vantarsi di aver parlato con un Isaer sia per la timidezza tipica dei membri di quel casato, sia per la loro violenza. Baya chinò il capo verso le due contessine in segno di saluto, mentre strinse l'avambraccio delle due guerriere: - Poi cosa vi è successo? - domandò la ragazzina, spinta dalla curiosità. L'altra sospirò indicando le porte che si stavano per aprire: - Ho conosciuto la scomoda verità sui nostri sovrani e ho capito che è meglio essere ignoranti piuttosto che vivere conoscendo la verità. - rispose, osservando la contesse Entaia fare il suo ingresso. Tutta la folla si inchinò di fronte alla donna più influente di Un, dopo l'imperatrice. Alle spalle della donna vi erano dei cavalli immensi dal pelo così scuro da sembrare intessuto di pura Oscurità, la sostanza mitica dalla quale gli Alberi proteggevano le creature di Un: - Facciamo i nostri onori ai nostri signori! - esclamarono i presenti. Rialzato lo sguardo, Onilai poté vedere meglio le figure a cavallo. Erano avvolti in pesantissime armature nere, pure i volti erano celati dagli elmi a forma di scheletro di cervo. Strinse la mano della sorella, sentendo le gambe tremare: - Sono loro? - chiese in un sussurro a Sorana che le rispose annuendo, spaventata pure lei da quell'ingresso: - Saluti,miei signori, siete i benvenuti nella mia umile dimora. - annunciò la donna sedendosi sul proprio trono. 

Come tutti gli anni, l'imperatore passava un mese in ogni contea, tranne quella dei Lajer, ritenuti estinti, per vedere l'efficacia dell'amministrazione e per ritirare le tasse che sarebbero andate al Palazzo di Cristallo per pagare i soldati che difendevano Un. Ogni anno i più ricchi festeggiavano quell'avvenimento, mentre i più poveri pregavano invano che quel giorno ritardasse il più possibile: - Grazie per la vostra grande ospitalità, contessa. - rispose l'imperatore. La sua voce sembrava il rombo di un tuono che squarciava la calma di una giornata di sole. La ragazzina sentì i brividi scuoterle la spina dorsale. Era bassa minacciosa, resa ancora più forte dall'eco che si produceva all'interno dell'elmo grottesco. Per un attimo si ritrovò a ringraziare la madre per averla costretta per la bellezza di sedici anni a passare quella settimana nella loro villa in campagna assieme al padre: - Gli Entaia, come ogni anno, rinnovano il patto di fedeltà fatto a voi. - ribatté la donna, lanciando un'occhiata nella direzione delle due figlie: - Spero che la nostra breve vacanza non vi sia di alcun peso. - annunciò l'imperatore smontando dal cavallo. 

D'un tratto, alle loro spalle, una risata risuonò per tutta la sala: - In realtà penso che sia un peso. - rispose una voce femminile. Tutti si voltarono verso la fonte di quel suono. Era Baya. Stava deridendo il loro imperatore? Perché voleva rischiare la vita a quel modo? Con una lentezza esasperante, l'orco si voltò verso di lei: - Chi ha osato? - domandò, la voce era carica di un'ira profonda pronta ad esplodere come una bomba appena innescata. La donna fece un passo in avanti, orgogliosa del proprio coraggio: - Io. - rispose battendosi il petto con la mano. L'orco, con una velocità impressionante, le si avvicinò. Era una spanna più alto, tuttavia la donna non sembrò provare nessuno tipo di paura: - Scusatevi! - ordinò un'altra voce. Quella scoppiò di uovo a ridere: - Non mi scuserò mai con colui che sta uccidendo dalla fame e dalla sete il mio popolo. - rispose quella. Senza che lei se ne accorgesse, la mano dell'imperatore le si era stretta attorno al collo. Quella spalancò gli occhi dallo stupore: - Ti permetti di dire una cosa simile a colui che ti ha protetto per così tanti anni? - domandò l'imperatore stringendo la prese sempre di più, finché la pelle di quella non divenne pallida come quella di un cadavere: - Non... ci hai... mai... protetti... bastardo. - rantolò quella prima che uno schiocco risuonasse per tutta la sala assieme alle urla dei soldati del casato Isaer. Il corpo della contessa crollò al suolo. Privo di vita.

Note dell'autrice

Buongiorno o buonasera, lettori e lettrici! Cercherò di essere breve. Nel capitolo precedente mi sono dimenticata di avvisarvi che ogni capitolo gira, a rotazione, attorno ai vari personaggi. A seconda del ruolo scriverò più o meno capitoli su un tale personaggio piuttosto che su altri. Le vicende, comunque, non seguono una linea temporale fissa. Nella maggior parte dei casi avvengono in contemporanea, in altri qualche settimana prima o dopo.
Vi ringrazio per aver letto fino a questo punto.


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Altaik


Le catacombe erano deserte, l'oscurità era la sua unica compagna di ronda e l'unica cosa ad inghiottire ogni cosa fino alle viscere più nascoste del palazzo. A volte si chiedeva perché gli orchi mandassero i soldati a pattugliare quei maledetti corridoi. Il Palazzo era inespugnabile e, di sicuro, se non lo fosse stato, nessuno si sarebbe mai messo in testa di entrare da quelle catacombe fatte solo di muri ed ossa. Non esistevano altri passaggi verso l'esterno se non qualche condotto d'aria così piccolo che neppure gli insetti vi riuscivano ad entrare e l'ingresso principale pattugliato sia di giorno che di notte da due soldati.

Mentre camminava, diede un calcio ad un cranio che rotolò qualche metro più in là, puntando le proprie orbite vuote su di lui. Era un elfo morto chissà quanti secoli prima. Le leggende narravano che, molti secoli prima, il suo casato aveva costruito il Palazzo e che la prima contessa Zornir fosse proprio nata, cresciuta e morta tra quelle mura. All'idea che il proprietario di quel cranio potesse essere un suo qualche antenato, lo prese delicatamente da terra e lo depositò in una delle nicchie: - Mi dispiace. - mormorò sperando di non aver dato un calcio allo scheletro di qualche nobile Zornir o addirittura del fondatore stesso del casato: - Veloce! - esclamò un voce femminile, squarciando il silenzio di quel luogo sacro. Si voltò lentamente verso la fonte di quel suono, sorridendo feroce, era arrivato il momento di un po' d'azione: - Forza. - mormorò un'altra voce. Avanzò piano, in modo da non far rumore, tenendo la mano stretta attorno all'elsa della spada. Erano vicinissimi, probabilmente erano nascosti dietro alla prima svolta. L'importante era non allarmarli subito. Appoggiò la schiena al muro e lanciò un'occhiata nel corridoio successivo. Erano lì. Due ombre illuminate appena dalla luce tenue delle fiaccole: - Chi va là? - domandò. Di solito gli schiavi non erano mai inclini alle ribellioni, però sapevano rubare come pochi esseri viventi in assoluto. Sembravano attratti dagli averi degli orchi, li desideravano e a volte riuscivano ad ottenerli, pur rischiando la vita. 

Si guardarono attorno, confusi: - Guardia! - urlò la voce della donna. Lasciarono andare il loro bottino ed iniziarono a correre. Sospirò. Non avevano nessuna possibilità di scampo con lui. Erano ormai dieci anni che inseguiva i ladri, nessuno era veloce quanto lui. Infatti, li raggiunse dopo neppure cento metri. Si scagliò sul primo che gli capitò a tiro, il più anziano. Il volto era solcato da una ragnatela di rughe e gli occhi erano velati dalla cataratta. Tra le mani stringeva un tozzo di pane ammuffito. L'altro ladro, una ragazza dai capelli cortissimi, si lanciò all'attacco, urlando. Prima ancora che quella potesse prendergli la spada dalla schiena, le puntò contro un pugnale. Quella fece qualche passo indietro, con il volto deformato dalla paura: - Vi prego, non fatele del male. - lo implorò il vecchio. Il giovane, con un sospiro, si alzò da terra e lo liberò: - Mangiate quel pane in fretta e non dite a nessuno che vi ho lasciato andare. Siamo intesi? - domandò dando una spinta al vecchio e abbassando lentamente il pugnale. Poco prima di prendere il vecchio a braccetto, la ragazza si voltò verso Ataik ed annuì: - Grazie. - mormorò correndo via.
 
A volte non poteva fare a meno di chiedersi come facessero gli schiavi a vivere a quel modo. Nessuno in tutta Un sarebbe mai riuscito a sopravvivere ad una vita simile. Erano privi di qualsiasi diritto, di qualsiasi cura e di qualsiasi rispetto. Se eri uno schiavo eri destinato a perire di fame e di stenti, oppure a causa della collera dei padroni. 

I Signori di Un erano tutti orchi e tutti diversi. L'unica cosa che li accomunava era il desiderio di appropriarsi delle ricchezze del pianeta che avevano conquistato. La loro società era una piramide al vertice della quale vi era l'imperatore, Thornin. Personalmente, lo aveva sempre odiato, era una creatura sempre concentrata sulla mossa successiva e sul suo obiettivo finale, sostituire in tutto e per tutto Unilia, la dea madre. Il suo animo iniziava e finiva nello stesso posto, la sala dei tesori. Dopo Thornin  c'era il suo braccio destro Gartor, il comandante assoluto dell'esercito, una creatura così rabbiosa da fare venire i brividi a chi osava sfidarlo in duello, sullo stesso piano di Gartor si trovava il braccio sinistro dell'imperatore, nessuno poteva definire la sua posizione, non era né un soldato e neppure uno studioso, molti la chiamavano solamente la Spia. Nessuno conosceva veramente il suo aspetto, però circolavano moltissime leggende sul suo conto. C'erano coloro che erano sicuri che fosse un elfo, altri addirittura una dea in grado di leggere nel pensiero. L'unica cosa su cui erano tutti d'accordo era che lei o lui conosceva tutti i segreti del Palazzo dal più semplice al più scabroso, anzi, sembrava a conoscenza di un tradimento ancor prima che si compisse. Dopo questi tre individui, c'erano l'imperatrice e tutte le sue cortigiane. Loro erano le più capricciose della corte, le uniche che non facevano altro che chiedere, chiedere e ancora chiedere, pretendendo che servi e soldati facessero tutto ciò che volevano senza battere ciglio. Alla fine della scala gerarchica vi erano i letterati, i maghi, i mistici e tutti coloro che facevano parte dei clan elfici. Molti di questi vivevano ai margini di quella piccola corte, sperando di non essere presi di mira dagli altri.

Altaik, con gli anni, aveva imparato a fare di quella scelta di vita  una religione, vivacchiava in giro per i corridoi e quello gli bastava. Non pretendeva né la gloria e neppure la ricchezza. Con questi pensieri, tornò indietro: - Comandante? Siete qui? - gridò una voce a lui familiare, sembrava agitato: - Sì, Bastian. - rispose avvicinandosi all'amico, un elfo robusto dalla pelle così scura da perdersi nell'oscurità. Molti tendevano ad evitare Bastian, perché era stato cacciato dal proprio clan, mentre per Altaik era stata amicizia fin da subito. Lo aveva conosciuto quando era ancora un ragazzino impertinente. Si ricordava ancora quel giorno come se fosse stato quello prima. Aveva appena sfidato Gartor ed era stato rovinosamente sconfitto. Giaceva a terra con due costole rotte e la testa che gli vorticava. Tutti avevano deciso di lasciarlo a terra, mentre Bastian si era avvicinato e l'aveva portato via, accudendolo come se fosse stato suo figlio: - Finalmente, ti ho cercato da ogni parte. - mormorò quello prendendolo per le spalle. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. Non lo cercavano mai se non per casi gravi: - Che è successo? - domandò. L'altro lo lasciò andare: - Abbiamo un problema ai piani superiori. Degli schiavi hanno deciso di ribellarsi. - rispose l'altro iniziando a correre. 

Quelle parole caddero a terra con la forza di un martello. Per quanto le loro condizioni di vita fossero orribili, gli schiavi non si erano mai ribellati, perché avevano deciso proprio quel momento? Non c'erano orchi se non l'imperatrice e le guardie erano dimezzate, perché mettere nei guai i propri simili solo per un momento di libertà? Perché rovinare la vita a centinaia di soldati per nulla? L'imperatrice aveva ancor meno pietà del marito, perché fare una cosa così stupida? Tra quelle domande, seguì Bastian fino all'atrio del Palazzo, luogo in cui si era consumata quella piccola rivolta. 

I soldati si erano messi tra la folla urlante di schiavi e una decina di soldati sanguinanti, mentre uno schiavo poco distante continuava ad incitare gli altri a combattere per la libertà: - Non fatevi intimidire, miei compagni! I soldati non sono elfi, ma orchi con il nostro aspetto! - sbraitava gesticolando animatamente anche se due guerrieri lo stavano tenendo: - Lasciatelo! Gli alti hanno bisogno di aiuto! - ordinò avvicinandosi al prigioniero. Quelli che stavano tenendo il capo dei rivoltosi si allontanarono. Non appena fu libero, l'uomo si lanciò all'inseguimento dei due soldati, ma fu bloccato prima ancora di poter fare un passo: - Dove pensi di andare? - domandò Altaik costringendolo a voltarsi. Quello non appena se lo trovò di fronte sbiancò iniziando a parlottare nel proprio dialetto. Il giovane gli prese il mento tra il pollice e l'indice e lo costrinse a guardarlo negli occhi: - Sai cosa non sopporto? - domandò a bassa voce, in modo che solo il capo dei rivoltosi potesse sentire. Quello spostò freneticamente lo sguardo da una parte all'altra della stanza: - No. - rispose dopo un lungo istante di silenzio. Dopo quella risposta tentò di liberarsi, ma Altaik gli bloccò le braccia dietro la schiena: - Quelli che incitano la folla a mettere nei guai i propri simili e loro stessi. Pensi che l'imperatrice ve la faccia passare liscia, prima punirà voi, poi i soldati e infine ti torcerà il collo e, ti giuro, starò a guardare mentre quella ti sgozzerà. - rispose lasciandogli andare le braccia. Lo schiavo, approfittando di quel momento, tentò di dargli una gomitata al basso ventre, ma si ritrovò con il gomito fermo a mezz'aria e una lama puntata alla gola: - Fallo per loro. Di' a tutti di smetterla e di darsi una calmata! - gli ordinò, però quello in tutta risposta sputò a terra: - Va bene, te la sei cercata. - sospirò. Fu tutto così veloce che lo schiavo non capì neppure cosa fosse accaduto finché non sentì il dolore e non vide il sangue colargli sulla casacca. Il guerriero gli sorrise pulendo la lama del pugnale: - Sappi che questa volta hai perso un orecchio, ma la prossima non sarò così clemente. - lo minacciò: - Medicatelo e portatelo in prigione! - ordinò ai propri soldati. 

Mentre quello veniva portato via ancora urlante, gli altri si immobilizzarono, terrorizzati: - Tornate a lavorare! - urlò. A quell'ordine, tutti tornarono al proprio lavoro. Solo una ragazza era rimasta al centro del salone. Sembrava frastornata, come se non sapesse cosa fare. Le si avvicinò, riconoscendo la giovane delle catacombe: - Cosa fai? Aspetti la prossima rivolta? - le chiese rimettendo il pugnale nel fodero. Quella sorrise scuotendo il capo: - Gli altri schiavi ti temono perché hai sconfitto un orco, però non sanno che alle spalle dei signori ci aiuti. - rise quella guardandosi attorno, come se volesse assicurarsi che non ci fosse qualcuno nelle vicinanze. Non c'era nessuno se non loro due: - Vi ho salvato anche adesso. - rispose lui osservandola avvicinarsi. In mano teneva un bracciale d'oro: - Dove lo hai rubato? - le chiese prendendola per un polso. Lei scosse il capo mostrandogli la rosa dei venti incisa sopra: - So che la riconosci. La nostra contessa mi ha mandata a Palazzo proprio per dartelo. Mi ha detto di dirti che Baya di Isaer è stata uccisa dall'imperatore proprio la settimana scorsa. - annunciò la ragazza mettendogli il bracciale al polso: - Qual è il vostro nome? - le chiese. Quella si lasciò sfuggire un sorriso: - Anyal, una settimana fa facevo parte della scorta di Amania di Zornir. - rispose divincolandosi dalla stretta: - Spero che tu te ne possa andare da questo Palazzo. - furono le sue ultime parole prima di fuggire. Rimasto solo, abbassò lo sguardo sul bracciale. Era un codice. Gli Zornir ne avevano creati a centinaia, dai più ai meno originali, in modo da comunicare con coloro che si infiltravano tra le file nemiche. Nessun casato oltre al loro conosceva quei codici e quelle magie. Strinse l'oro e si diresse verso la terrazza. 

Era una giornata di sole, i raggi scaldavano la terrazza panoramica e il terreno privo di qualsiasi tipo di vegetazione che circondava il Palazzo di Cristallo, neppure il deserto era così morto come quel luogo. Ignorò quel panorama che ormai conosceva a memoria e posò il polso sul parapetto, dove un raggio di sole andò ad illuminare la rosa dei venti che iniziò a mutare. Le linee cambiarono diventando parole. " Le montagne di Un sentono la tua mancanza. La nostra stirpe si prepara a marciare e vuole te al proprio fianco. " 

Rilesse varie volte quel messaggio, sperando si aver letto male, ma ogni volta il messaggio era sempre il solito. La contessa lo stava chiamando alle armi. Voleva che lui tornasse. Erano anni che non vedeva l'ora di rivedere casa, però temeva l'ira dei Signori di Un e temeva di ritornare nel luogo in cui aveva perso tutti i suoi famigliari dal primo all'ultimo: - Che ti succede? Sembra che hai visto un fantasma! - scherzò Bastian dandogli una pacca sulla spalla. Altaik si voltò di scatto nascondendo il bracciale: - Devo tornare a casa. La mia contessa ha bisogno di me. - esordì. L'altro sembrò confuso: - Mi abbandoni così. Quella donna non sa neppure chi sei. Non è stata sua madre a mandarti in questo buco perché non sapeva come accudirti? - gli chiese. Il più giovane si morse un labbro: - Gli Zornir sono leali al proprio clan. Comunque non ho detto che ti abbandono. Verrai con me. In questa faccenda è coinvolto pure il tuo casato. - rispose. L'altro aggrottò le sopracciglia facendosi più attento: - Perché? - ringhiò. Bastian non parlava mai del suo vecchio clan, cercava di evitare il proprio passato, però in quel momento era costretto: - Baya, la contessa degli Isaer, è stata uccisa dall'imperatore. - 

A quelle parole Bastian sbiancò, privo di parole. Altaik si sarebbe aspettato moltissime reazioni, ma non quella: - Quando? - urlò il soldato: - Abbassa la voce, maledizione! - lo sgridò tappandogli la bocca. Quando fu sicuro che quello si fosse calmato, allontanò la mano e sospirò: - Una settimana. Non so altro. Bastian, so che è strano che una contessa venga uccisa sono cento anni che non succede... - cercò di dire, ma l'altro lo prese per le spalle: - Non è per quello. Io non sono stato esiliato per aver ucciso qualcuno, o meglio, un uomo molto potente ha costretto la mia contessa ad esiliarmi perché ho ucciso suo figlio che stava organizzando un colpo di stato ai danni di Baya. - gli spiegò passandosi una mano tra i capelli: - Dovevo sposare Baya. - aggiunse dopo un lungo momento di silenzio. Lo Zornir abbassò lo sguardo fissando il complicatissimo disegno che formava il mosaico sotto ai loro piedi: - Stai dicendo che tu dovevi essere il loro conte? Allora devi venire a Fajsha pure tu. - 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Akasha


Malgrado le sue grida di dolore, la vecchia le posò le mani sul costato. Quello che seguì quel contatto le sembrò una scossa, come se un fulmine l'avesse colpita in pieno. Strillò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, imprecando contro quella sconosciuta: - Fa silenzio! - le ordinò la vecchia prima di iniziare a mormorare una lenta litania. Non conosceva il significato di quelle parole, però era sicura di averla già sentita. D'un tatto, un calore benefico s'irradiò dalle mani della donna al suo corpo. Il dolore diminuì all'istante e il respiro tornò regolare. Rimase senza parole, era la prima volta che qualcuno utilizzava la magia di fronte a lei e soprattutto su di lei: - Come diavolo hai fatto? - le chiese con un filo di voce. Si sentiva ancora meglio di come si era sentita prima dell'attacco del Verme. La donna chiuse gli occhi e le si allontanò: - Come puoi aver visto Un? - le chiese, ignorando la domanda della sua giovane interlocutrice. Dopo quella che sembrò un'eternità, la riconobbe. Era la contessa Hannya di Lajer, la contessa più vecchia di tutte: - Contessa?! - esclamò. L'altra sospirò, continuando a fissare il vuoto con i suoi occhi ciechi: - In carne ed ossa. - rispose solamente. Le si sedette vicino, ancora stupita: - Mi vorrai dire come hai fatto a vedere Un, mia cara? - le chiese di nuovo prendendola per un polso. La ragazza spalancò gli occhi sentendo il cuore in gola, non voleva più ricordare quelle maledette visoni, solo il pensiero la faceva stare male: - Ho visto due occhi azzurri. Non so se fosse una visione o la realtà, ma sono sicura di averli visti, poi una voce mi ha detto di essere Un e che Unilia mi ha scelta. - le spiegò, era l'unica cosa che ricordava della propria visione. Non c'era nient'altro oltre a quelle poche parole e a quei due zaffiri che la squadravano da capo a piedi: - Cosa ti è successo prima della visione? - domandò la vecchia sempre più incuriosita da quella giovane apparentemente caduta dal cielo. Una variabile inaspettata nel circolo infinito di cose che la donna vedeva direttamente dal futuro. Era diventata cieca, però la dea le aveva permesso di vedere oltre lo spazio e oltre il tempo: - Ho fatto un giro per la città, come faccio ogni mattina. Mi sono seduta su una delle radici e per un istante ho sentito Un cantare, poi un Verme mi si è avvicinato. Mio padre li alleva quindi so cosa mangiano di solito e dove trovare il cibo. Infatti, sotto alle radici c'era uno dei fiori che a loro piacciono tanto e gliel'ho dato da mangiare. Poi mi sono distratta un attimo. Giuro, non me ne sono neppure accorta, so solo che il Verme era diventato di colpo viola e che stava cercando di sbranarmi viva. Dopo ho iniziato ad avere delle visioni di guerra. - le raccontò senza tralasciare nessun particolare. Non riusciva a spiegarsi perché l'Albero avesse deciso proprio lei. Aveva pensato a varie teorie, ma tutte sembravano troppo assurde per essere plausibili. La vecchia sembrò leggerle nel pensiero: - L'Albero non ti ha scelto personalmente, hai solo deciso di aprire le orecchie e di ascoltare ciò che ha da dire tutti i giorni. Molti hanno dei legami particolari con la natura, probabilmente la resina, entrandoti in circolo ha rafforzato questo legame rendendoti parte dell'Albero. - le spiegò, convinta di quella mirabolante teoria: - Tornando a noi. Hai detto che il Verme ha mangiato il fiore e poi ha cambiato inspiegabilmente colore? - le chiese. La ragazza annuì, fissando la cascata gettarsi nel lago come un tuffatore esperto: - Conosci la leggenda della Luce e dell'Oscurità? - domandò d'un tratto l'altra. Akasha aggrottò le sopracciglia, ne aveva sentito parlare, ma era solo una storia per bambini, nulla di più. La donna sospirò: - In pratica, Unilia decise di creare Un dalla Luce, tuttavia, questa Luce ha una controparte, l'Oscurità. Quest'ultima, è in grado di corrompere tutto ciò che la Luce ha creato. L'unica sfortuna è che nessuna di queste sostanze più prevalere sull'altra, troppa Luce porta alla distruzione e troppa Oscurità porta alla stessa fine. Quindi dalla loro unione è nato l'Equilibrio, l'unica cosa che può tenere a bada queste due essenze. Tornando a noi, la leggenda afferma che pure gli esseri viventi sono influenzati in maniera costante da queste due essenze, soprattutto dall'Oscurità, si pensa che un'intossicazione da Oscurità porti a comportamenti aggressivi privi di qualsiasi fondamento e che negli esseri viventi più complessi porti a visioni, aggressività e poi ad un lento decadimento fisico che porta con sé la morte. - le spiegò l'anziana: - L'Albero vuole farti capire che l'Oscurità sta prendendo il sopravvento. - aggiunse a bruciapelo. Akasha non riusciva a capire cosa volesse dire con tutti quei discorsi. Stava prevedendo che la fine del mondo? Le stava chiedendo di salvarlo? Oppure la stava assecondando per non dirle che era completamente impazzita? Alzò lo sguardo verso il punto da cui era precipitata. Per un istante, fu sicura di aver visto le radici muoversi: - Sei stata scelta come campione per salvare Un. Questo vuol dire che la superficie sarà la tua prossima meta. Verrai con me ad avvisare le altre contesse che l'Oscurità sta prendendo il sopravvento. - quelle parole non le piacquero: - Cosa?! Io devo andare là fuori? - domandò spalancando gli occhi totalmente neri. La vecchia contessa annuì: - Non so nulla dell'esterno! - esclamò, poco prima che il rumore di qualcuno che si avvicinava di corsa non le distraesse: - Mia signora? - urlò un elfo facendo il proprio ingresso in scena. La due donne lo fissarono: - La contessa degli Isaer è morta oggi! - esclamò quello allungano una lettera nella direzione della propria signora. L'anziana la diede da Akasha, passandosi una mano nodosa tra i capelli radi: - Ti prego, leggi la lettera, mia cara. - le chiese. La giovane aprì lentamente la busta, temendo ciò che avrebbe letto: - Cara Hannya. Mi dispiace scrivervi in un momento così delicato e per chiedervi una cosa come questa. Ma abbiamo deciso di darvi questa notizia il più in fretta possibile. Io e le altre contesse, siamo a Tallir per la cerimonia della consegna della Foglia, tuttavia, durante la cerimonia, sono successi dei fatti molto spiacevoli. Comunque, vi abbiamo scritto per avvisarvi che Baya, contessa delle terre del casato degli Isaer, nonché nostra carissima amica è stata uccisa a sangue freddo dal nostro imperatore. Sapete che nostra sorella era molto impulsiva, però non aveva mai tentato di mancare di rispetto ai Signori, ieri, per la prima volta, lo ha fatto e le conseguenze sono state catastrofiche. Non sappiamo come comportaci, abbiamo paura che ci uccida tutte. Desidero vendicare Baya, ma so che ogni azione potrebbe portare ad una guerra. Per questo motivo, saremmo grate se voi vogliate unirvi a noi nella città di Fajsha per trovare una soluzione a questa spiacevolissima situazione. So che arrivare fino a Fajsha è chiedervi tanto, però abbiamo bisogno dell'opinione di una persona più saggia di noi. Con tutta la preoccupazione nel cuore, la vostra Amania di Zornir. - lesse senza neppure pensare alle parole, lesse senza comprendere ciò che stava dicendo, lo fece solo per non pensare alla conversazione di poco prima: - Povera Baya, era quella che mi scriveva più spesso. Jenna potresti accompagnare la nostra ospite a casa? Probabilmente i suoi genitori la stanno cercando. Ah, Akasha, pensaci, domani partirò per Fajsha e sarei molto lieta se tu venissi come me. - annunciò la donna, mentre il messaggero si preparava ad accompagnare Akasha a casa: - Non mi serve un accompagnatore. Dirò io stessa ai miei genitori che voi volete essere accompagnata a Fajsha da me. - annunciò spalancando le ali.

Voleva un momento di solitudine, senza che nessuno le stesse attorno o che le parlasse. Aveva bisogno di volare il più lontano possibile in modo da schiarirsi le idee. Chiuse gli occhi zigzagando tra le stalattiti. Conosceva ogni angolo della propria città, l'aveva attraversata così tante volte da averne perso il conto. Forse aveva veramente bisogno di andare in superficie alla ricerca di nuove avventure e di nuovi posti da esplorare. " Cosa diavolo stai facendo? Perdi tempo? " quella domanda le risuonò nella mente. Spalancò gli occhi ritrovandosi di fronte ad una stalattite che riuscì a scansare per puro caso. Con il cuore a mille, atterrò su una sporgenza rocciosa: - Perché ti sento ancora? - chiese, sicura di essere totalmente sola. "Voi mortali siete proprio lenti! Eppure non avete tanto tempo da perdere." la schernì la voce di Un. La ragazza si portò le mani alle tempie: - Perché ti sento? - domandò di nuovo. Un sospirò. "Mi senti perché io e te ora siamo connesse in maniera indissolubile. Le siamo sempre state, ma la resina che ti è entrata in circolo dopo che il Verme ti ha morsa, ha reso il legame molto più forte. La vecchia ha detto la verità." rispose quella. Akasha non avrebbe mai voluto far parte di quel legame, non voleva andare via e lasciare i propri famigliari. Non voleva diventare un eroe, voleva solo ascoltare le gesta di chi aveva più coraggio di lei. "Ma potrebbe essere l'esperienza della vita. " si disse attratta dall'idea di uscire da quella comunità chiusa in sé. "Non hai molta scelta, bambina! Sei obbligata da aiutarmi. L'Albero per qualche strana ragione ti ha scelta come suo campione e tu sarai il campione." ribatté quella: - E se non volessi? - la sfidò. La voce scoppiò a ridere, una risata cupa che le rimbalzava da una parte all'altra del cranio. "Potrei costringerti. Non è un compito difficile. Segui la vecchia, parla con le altre contesse e poi potrai tornare a casa." le spiegò ammorbidendo il tono della voce. Le bastava solo fare un viaggio con la contessa e poi sarebbe tutto finito lì. "Ora torna a casa! Tuo padre non ti ha ancora scoperta, però se aspetti ancora un po' si accorgerà che sei andata in giro a combinare dei guai. " le consigliò Un.

Rientrata in casa si stese sul proprio letto, pensando a come spiegare ciò che le stava capitando ai genitori. Non poteva dire che il mondo in cui vivevano comunicava con lei, senza essere ritenuta pazza anche dalla mente più aperta di Grimstirit, però poteva dire una parte di verità. Aspettò che il padre facesse il suo ingresso nella stanza per medicarla. Non appena si accorse che la figlia era completamente guarita, posò le erbe su un tavolo ed aggrottò le sopracciglia: - La ferita? - domandò quello iniziando ad irritarsi. La ragazza si sedette, accarezzandosi distrattamente il polpaccio: - Sono uscita... - esordì, ma quello la interruppe: - Cosa vuoi dire con "sono uscita"? Non eri nelle condizioni di volare e neppure di andartene in giro per la grotta. Hai rischiato di morire per andare a prendere un po' d'aria. - la rimproverò. Lei gli sorrise: - Pensa al lato positivo, durante la mia uscita ho incrociato la contessa che mi ha guarita con le sue abilità magiche e ha detto che vuole parlarmi pure domani riguardo ad un suo possibile viaggio in superficie. - 

Quello non sembrò molto convinto delle parole della figlia maggiore: - Padre, vuole chiedermi se la posso accompagnare a Fajsha dove si terrà un dei più grandi consigli di guerra mai visti. Solo elfi di ogni clan. Penso che sia un'esperienza unica. Vedere ciò che c'è là fuori, non è magnifico! - esclamò, cercando di celare il disappunto che provava pure lei. L'uomo sospirò, sedendosi al suo fianco: - Sì, è un'esperienza unica, però, capisci che io non posso lasciarti andare così. Non posso farti andare là fuori, in un mondo che non conosci, per fare chissà che cosa. Molti non tornano neppure perché s'innamorano della luce dei soli. - le spiegò così i suoi timori. Gli posò la mano su una spalla, stringendola con delicatezza, in un gesto che doveva essere rassicurante: - Hai paura che io decida di restare in superficie? - chiese con un filo di voce, non aveva neppure vagliato quell'idea, per lei l'esterno era una cosa nuova e spaventosa: non aveva mai visto le lune ad occhio nudo, non aveva mai camminato sotto alla luce dei due soli, non aveva mai visto un vero tramonto, non aveva mai visto gli altri elfi, non aveva mai sentito la sensazione dell'erba, o della sabbia, oppure del fango sotto ai piedi, ma solo la nuda roccia che gelava la pelle e rendeva difficile camminare senza le scarpe. Non aveva mai pensato che quel mondo così misterioso potesse piacerle a tal punto da farlo diventare la propria casa. L'uomo annuì: - Tua sorella è piccola e mi dà una gioia infinita ogni giorno che la guardo crescere, ma tu sei il mio orgoglio. Non voglio perderti. - le rivelò, stringendola a sé. Abbassò lo sguardo, colpevole: qualsiasi cosa avesse detto quell'uomo non avrebbe potuto allontanarla dalla superficie: - Padre, forse è più corretto che ti racconti tutto seriamente. Promettimi che non mi giudicherai, che non mi darai della pazza e soprattutto che non lo dirai a nessuno, neppure alla mamma! - gli disse. L'uomo annuì. Con un sospiro, iniziò a raccontare quella giornata al di fuori del comune. L'uomo non ebbe nessun genere di reazione, rimase solamente immobile, con gli occhi puntati verso il vuoto, come un cadavere, poi si decise a parlare: - Credi che Un ti abbia scelta per accompagnare la contessa a Fajsha? - domandò, senza credere ancora a ciò che aveva appena ascoltato: - In teoria, sì. In pratica non lo so neppure io. Non so se fidarmi, oppure no. - gli rivelò. Il padre le sorrise, tornando per un attimo serio: - Cosa ti dice il tuo cuore? Si fida, oppure no? - quella domanda la lasciò spiazzata. Lei si fidava, anzi, voleva fidarsi di ciò che la voce le stava dicendo, perché Akasha era sicura che quella fosse veramente Un e non un frutto della propria immaginazione: - Io mi fido. Mi fido di ciò che sento e di ciò che mi dice. - rispose, portandosi una mano al petto, proprio dove il cuore batteva con forza. Lei sarebbe andata all'esterno, ne era certa, il resto era ancora un mistero.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Gartor

Il tempo era rallentato, ogni cosa si muoveva con una lentezza tale da sembrare avvolto dalla gelatina. Il corpo era immobile, sul pavimento gelido, gli occhi puntati verso l'alto, verso la mano tesa del proprio assassino. Sembrava che con quell'occhiata volesse mostrargli la gravità di ciò che aveva appena fatto. Ne era certo, quel morto sarebbe pesato come un macigno sulle schiene di tutti loro. Era l'inizio di qualcosa di enorme da cui nessuno di loro sarebbe uscito indenne. 

Non appena riuscì a sentire di nuovo i suoni, le sue orecchie furono invase dalle grida degli elfi che avevano assistito alla scena. Tutto stava per precipitare. L'imperatore si stava muovendo verso la folla. Corse verso quella figura mostruosa in armatura, la creatura che era stato costretto a seguire per salvare la propria imperatrice, legata a vita ad un mostro privo di qualsiasi gratitudine. Lo prese per il mantello e lo spinse via, il più lontano possibile da qualsiasi elfo e da qualsiasi azione ben peggiore di quella appena compiuta. 
Coloro che si erano immobilizzati per il terrore di essere travolti da quella furia omicida, si avvicinarono al cadavere, mentre le contesse rimasero ancora immobili, come delle statue di ghiaccio. I loro volti erano sfigurati dal terrore, le loro bocche spalancate in un grido muto, mentre i loro occhi erano così spalancati da sembrare sul punto di uscire dalle orbite. Fiutava la loro paura, probabilmente sospettavano di essere le prossime. Il suo compito era proprio quello di evitarlo. L'imperatore tentò di liberarsi, ma vanamente, non se lo sarebbe lasciato sfuggire tanto facilmente.

Intanto, le contesse iniziarono a muoversi, la prima fu Lumia, la più anziana della presenti. Corse verso il cadavere, le lacrime ad inumidirle il volto, la figlia maggiore le si avvicinò stringendola a sé: - No. - strillò un'altra quella che indossava l'armatura e aveva le mani rovinate dagli allenamenti con la spada. Era caduta in ginocchio, il volto arrossato dalle lacrime e talla tristezza. Dietro di lei accorse la sorellastra che la spinse contro la propria spalla costringendola a distogliere lo sguardo dalla scena che si apriva di fronte a loro. L'unica che sembrava non essersi scomposta di fronte ad un omicidio così brutale era la contessina più piccola. La sedicenne stava ferma con gli occhi puntati proprio verso il punto in cui pochi minuti prima si era alzata Baya. Non riusciva a fiutare nulla in lei, forse era quello l'odore di un elfo spezzato dalla paura, forse era proprio quello l'odore di chi ha provato così tanto spavento da non sentirne più, da perdere ogni genere di emozione, diventando un pupazzo inanimato: - Lasciami! - gli ordinò l'imperatore, distogliendolo dai propri pensieri. Si accorse solo in quel momento che era riuscito a liberarsi e che stava marciando verso gli elfi che si erano accalcati attorno a cadavere. Cosa doveva fare? Era arrivato il momento che aveva tanto temuto, se non lo fermava in tempo sarebbe scoppiato un genocidio. Allungò una mano verso di lui, ma, prima dell'inevitabile, accadde il miracolo: - Oggi, di fronte a tutti voi, Baya d'Isaer è stata giustiziata per alto tradimento nei confronti della corona imperiale. - annunciò una voce giovanile. All'inizio, nessuno capì chi fosse, Gartor pensò che fosse Unilia risvegliatasi per salvare il suo popolo, poi si accorse che chi aveva salvato i presenti, non era per nulla una dea, bensì un'elfa dai lunghi capelli biondi e il viso da adolescente. Ringraziò Sorana per aver evitato il disastro diplomatico più grande mai visto.

Thornin si voltò verso di lui. Non disse nulla e l'elmo celava la sua espressione, ma probabilmente in quel momento stava sorridendo come il giorno in cui aveva strappato la corona dalle mani malate della moglie: - Continuiamo a festeggiare! Dimetichiamoci di questo incidente! - ordinò quella. Una marea di teste che si alzavano investì la sala del trono di Tallir. Nessuno sembrava disposto a dimenticare. Gartor si ritrovò a pregare. Dovevano andarsene prima che l'imperatore perdesse di nuovo la pazienza. D'un tratto, quelli che non si erano avvicinati uscirono dalla sala, seguiti da coloro che non facevano parte della scorta della contessa e infine questi tenendo in braccio la donna che li aveva governati per anni, in una lenta marcia funebre. 

                                                                                  *************************

Spinse il proprio imperatore contro ad un muro: - Non penso che tu abbia fatto la scelta migliore là dentro. Hai quasi compiuto un genocidio di massa. - lo rimproverò togliendosi l'elmo. L'altro lanciò via a sua volta l'elmo e posò una mano sull'elsa dello spadone che portava legato dietro alla schiena, pronto a combattere. Gartor non avrebbe esitato, erano secoli che non aspettava altro che quel momento: - Ho fatto la cosa giusta. Mi sono liberato da un peso. Erano anni che tentava di far rivoltare gli elfi. Di sicuro non ci riuscirà dalla tomba. - rispose l'altro passandosi una mano sul volto. Per essere uno degli orchi più potenti in assoluto, aveva ancora il volto di un ragazzino, i capelli neri erano tenuti legati in una lunga treccia, gli occhi erano di un grigio spaventoso, il volto leggermente allungato era ancora del colore delle rocce e non del verde tipico dell'età matura, le zanne sottili spuntavano appena dalle labbra carnose e le corna da capro gli si arricciavano tra i capelli in una corona. Era spaventoso quanto i loro tratti fossero vicini a quelli della dea che aveva creato tutto, ma anche, allo stesso tempo, totalmente diversi. 

Gartor aveva avuto la fortuna, se così si poteva definire, di aver visto Unilia di persona. Era una donna di una bellezza straordinaria, un raggio di sole nelle tenebre, tuttavia sapeva pure essere tra le persone più spietate mai viste. Era rimasto fin da subito stupito da quanto assomigliasse sia fisicamente che caratterialmente  ad un elfo e a quanto assomigliasse pure agli orchi. Per anni, quella constatazione l'aveva reso sicuro di sé a tal punto da credersi pure lui un dio, ma tutto era cambiato il giorno in cui l'imperatrice si era ammalata, solo allora aveva compreso la propria mortalità. Certo, gli orchi avevano avuto l'onore di vivere molto più a lungo degli elfi, decine di secoli aspettavano a loro, ma prima o poi la morte li avrebbe colti, giovani o vecchi che erano, dietro l'angolo c'era sempre una spada pronta a tagliare loro la gola, una malattia pronta ad insinuarsi in loro e l'ombra peggiore di tutte, la vecchiaia, pronta a consumarli fino ad ucciderli.

Si sedette vicino a Thornin: - Le contesse sono intoccabili! Lo avevamo deciso assieme, se non ti ricordi. Uccidendole, rischieresti di far scoppiare una rivolta senza precedenti. - lo rimproverò. L'altro si guardò i palmi delle mani, le stesse con cui aveva appena spezzato il collo ad una giovane donna. Non lo aveva mai visto così pensieroso: - Preferivo la vecchia generazione di contesse, almeno si odiavano. Adesso per colpa di quella Lumia si amano a tal punto da chiamarsi tra di loro sorelle. - sputò l'imperatore. Un secolo prima una situazione simile si sarebbe risolta in fretta. Morta una contessa ne sarebbe salita al potere un'altra, nessuna regnante aveva un legame profondo con l'altra, anzi, per prevalere l'una sull'altra avevano rischiato di far scoppiare una guerra. Poi, trent'anni prima, era salita al potere lei, Lumia di Entaia. La guerra era diventata un'ombra lontana, finché non era scesa la pace, tuttavia, uno dei cinque clan si era distaccato completamente, probabilmente arrivando ad estinguersi. I Lajer erano spariti, non consegnavano le foglie, ma non tentavano neppure di fermare gli orchi quanto andavano a raccogliere la Foglia dalle radici dell'Acero: - Questa situazione ricorda la profezia di Unilia. - disse d'un tratto l'imperatore. Il cuore del comandante perse un battito. Aveva quasi cancellato dalla memoria quel momento. Prima di ritirarsi, Unilia aveva previsto che un giorno, Un si sarebbe ribellata a loro, lasciando che l'Oscurità iniziasse ad impadronirsi di ogni cosa, tuttavia un guerriero, nato dall'unione tra la dea e un elfo, avrebbe fermato l'Oscurità, assieme ad una creatura di cui nessuno conosceva le origini: - Aveva previsto che quando gli Alberi avrebbero iniziato a morire, una contessa sarebbe caduta violentemente e uno dei figli di Faraj sarebbe tornato al fianco di una dea capace di plasmare la Luce, per spodestarmi dal trono. Metà della profezia si è appena avverata, temo il giorno in cui il figlio di Faraj arriverà. - mormorò. Gartor gli posò una mano sulla spalla: - Quando arriverà mi occuperò io di lui. - promise.

Un lieve fruscio li costrinse a voltarsi. Nascosta dietro ad una colonna c'era la più grande delle contessine. Il vestito verde e lo sguardo determinato la facevano sembrare la fotocopia della madre, ma entrambi gli orchi potevano fiutare il suo animo e non era puro come quello della donna che l'aveva generata, c'era un'oscurità celata in un angolo e tenuta a bada dal desiderio di ottenere il successo sperato per tenerlo per sé e, chissà, allargarlo a tutte le contee: - Cosa vuoi, ragazzina? - domandò l'ufficiale, fulminandola con un'occhiata. Quella, scossa da un tremito, fece un passo indietro: - Stavo solamente passeggiando e ho sentito le vostre voci, credevo che foste degli invitati fuggiti dalla festa. - stava mentendo. Il soldato balzò in piedi, sovrastandola con la propria mole: - Piccola bugiarda, non permetterti di mentire al tuo Signore! - esclamò, sorridendole, feroce come un lupo di fronte ad una preda facile da catturare e dilaniare.
 
Tutti avevano paura di quell'espressione, pure gli orchi indietreggiavano di fronte a quel sorriso. Solo un elfo era stato in grado di tenergli testa, ma quello era a Palazzo a controllare che gli schiavi non decidessero di ribellarsi mentre il signore erano fuori. Come si era aspettato, quella sbiancò, mordendosi un labbro: - Va bene, mi arrendo. Sono qui per chiedervi di perdonare la contessa Baya d'Isaer. So che vi ha mancato di rispetto e che le sue parole sono state molto offensive, ma fino a questa mattina era un vostro suddito fedele. Probabilmente è impazzita. - disse quella inginocchiandosi a terra. Ne aveva di coraggio per chiedere proprio a Thornin di fare una cosa simile. Il luogotenente non poté fare a meno di lanciare un'occhiata nella direzione dell'imperatore. Perdonare un cadavere non sarebbe stato uno sforzo eccessivo e avrebbe evitato una rivolta, tuttavia sapeva benissimo che quell'uomo non avrebbe di sicuro piegato la testa di fronte ad una contessa, figurarsi di fronte ad una ragazzina insulsa come Sorana di Entaia: - Vi ha mandato vostra madre? - domandò, invece, l'altro. La sua voce era così calda e morbida da far venire i brividi a Gartor. La ragazzina si rilassò ed annuì. Stava ancora mentendo: - Pensa che sia l'unico modo per calmare gli animi e per placare del contesse Amania e Nora, non che vogliano rivoltarsi, ma sono molto giovani e molto spaventate, credono che vogliate uccidere pure loro... cosa assurda, vero? - domandò ridacchiando. Stava divagando. Era così ingenua che non si accorgeva neppure che le proprie parole avrebbero veramente influito sulla vita di quelle due stupide ragazzine. Thornin le sorrise, il fascino stava facendo così tanto effetto che quella gli avrebbe portato la testa della madre senza neppure battere ciglio: - Va bene, la perdonerò questa sera durante la cerimonia di benvenuto e mi scuserò per il mio comportamento impulsivo. - rispose quello. 

Era stato troppo semplice. C'era qualche imbroglio sotto. La giovane s'innorgogli; era riuscita a convincere l'imperatore di tutta Un e di tutti i popoli uniti degli elfi ad evitare una possibile rivolta. "Lo chiama comportamento impulsivo. Ha ucciso una donna solo perché gli ha riso in faccia. Non lo perdoneranno mai. " pensò, senza staccare gli occhi dall'uomo che aveva giurato di proteggere a costo della propria vita. " Ho promesso di proteggere sua moglie e quindi anche lui." si disse: - Vi ringrazio, mio Signore. - mormorò la ragazza facendo un lieve inchino, ma, prima che questa potesse correre via più veloce di un lampo, l'imperatore disse: - Vorrei venire da vostra madre assieme a voi, se non vi è di disturbo. - a quelle parole la ragazzina sbiancò nuovamente. Il suo corpo fu scosso da un brivido. Era ad un bivio, non poteva rifiutare, avrebbe gettato molti sospetti su di sé, ma allo stesso tempo non poteva accettare, visto che la madre avrebbe negato fermamente di aver mandato la figlia a portare quell'ambasciata: - Va bene, ma lui non può venire. - disse indicando la figura massiccia di Gartor. Per un istante, il soldato rimase pietrificato. Non poteva abbandonare il proprio signore rischiando che quella ragazzina lo portasse nel bel mezzo di una trappola mortale: - Hai sentito? Vatti a divertire! - ordinò l'imperatore, lasciandolo solo nel bel mezzo del giardino. 

                                                            **************************************

In una città piena di elfi non vi erano molti divertimenti per un orco come Gartor. Le sale da gioco esistevano pure in una città come Tallir, però, per quanto lo accogliessero come un signore, nessuno sembrava avere il coraggio di sfidarlo in qualsiasi cosa. Gli elfi di città erano troppo codardi. Gli mancavano i suoi soldati, loro sì che avevano il coraggio di sfidarlo, anzi, di solito gioivano per le vittorie e, non appena si riprendevano dalle ferite, lo sfidavano nuovamente a duello.

Arresosi all'idea che non avrebbe mai giocato d'azzardo o combattuto con qualcuno, decise di avventurarsi per i giardini di Tallir. Molti soldati provenienti da quel casato gli avevano descritto quel giardino come un luogo magnifico, un paradiso in terra, dove i fiori sembravano essere di colori più accesi che in altri posti, dove  le foglie erano più grandi e più verdi e dove gli alberi sembravano più alti e rigogliosi a tal punto da assomigliare agli Alberi Sacri. Un giardino costruito in onore della dea e dove, secoli prima si professava proprio il culto di quest'ultima. Inoltre, era lì che si trovava il Ciliegio, proprio al centro di un labirinto immenso in cui, coloro che vi si avventuravano senza una guida, morivano di fame e di sete, sperduti tre le centinaia di vie. Fu proprio di fronte a quel labirinto che incrociò la più piccola della figlie della contessa. Era totalmente diversa e allo stesso tempo identica alla sorella. Era una ragazzetta bassina e magra come poche, tuttavia non fu la sua conformazione fisica a lasciarlo senza parole bensì i suoi capelli riccioli, così crespi da sembrare un nido, erano pochissimi gli elfi con i capelli ricci, mentre gli orchi tendevano ad averli crespi e ricci come Onilai di Entaia. Non appena lo notò, aggrottò le sopracciglia: - Salve. - lo salutò continuando a camminare a passo svelto in modo da seminarlo, ma tenendo sempre una mano immersa nella siepe che costeggiava il labirinto, in modo da non perdesi: - Mi hanno detto che qui cresce il Ciliegio. - le disse, tentando di iniziare una conversazione. Sapeva che gli elfi avevano il compito di curare quelle piante e di cedere agli orchi le foglie che quelli stavano vergognosamente perdendo, una l'anno, una foglia ogni volta che i Signori di Un si recavano da un popolo, un anno di vita eterna in più, senza le foglie non esistevano gli orchi, senza gli orchi le foglie non sarebbero mai cadute, finite le foglie, Un sarebbe morta e assieme ad essa gli orchi e Unilia: - Se non ci si perde. - rispose la ragazzina, distrattamente. L'orco le sorrise: - Ma tu mi accompagnerai, vero? - chiese, prendendola per un braccio. Onilai tremò impercettibilmente, ma resse il suo sguardo. "Ecco un altro elfo coraggioso." pensò leccandosi le labbra. Si ricordava ancora la prima volta che aveva ripreso Altaik personalmente, era ancora un bambino, doveva avere undici anni, un nulla in confronto ai secoli che aveva Gartor, ma, per la prima volta, l'orco non aveva fiutato paura, bensì rabbia e fastidio. Quelle due sensazioni lo avevano convinto che quel piccolo elfo sarebbe diventato comandante delle truppe elfiche e, infatti, c'era riuscito proprio l'anno prima, all'età di vent'anni, battendo ogni primato. Quella ragazzina, invece, aveva la stoffa per diventare contessa e probabilmente la sarebbe diventata: - Lasciatemi! - ordinò divincolandosi dalla stretta. Di fronte a quella reazione, l'orco si lasciò sfuggire una risata: - Altrimenti? - domandò, stringendo la presa con più forza. La ragazzina iniziò a digrignare i denti dal dolore: - Altrimenti non vedrete l'Albero. - rispose. Il comandante la lasciò andare: - Hai coraggio da vendere. - 

Camminarono più di mezz'ora. Più il tempo passava e più si stava convincendo che quella ragazzina lo stesse portando sulla strada sbagliata, ma, proprio mentre stava per dar voce ai propri dubbi, lo vide. 

La chioma argento e rosa era composta di centinaia di migliaia di piccoli fiori dal profumo inebriante, la sua chioma era una cupola perfetta che andava a protendere le proprie dita di legno scuro verso un piccolo lago di acqua cristallina. Il tronco era spesso, di un colore così cupo da sembrare nero e si andava a diramare in centinaia di rami a da quelle centinaia ne partivano altri cento, andando a sfiorare il cielo con i fiori che crescevano più in alto, mentre le radici, lunghissime, s'intrecciavano come un pavimento perfetto. Se lo si guardava dall'altro lato, però, si potevano vedere i rami spogli a causa dei fiori che aveva perso, le radici erano raggrinzite e il trono trasudava una resina grigiastra che puzzava di putrefazione. Rimase stupito di fronte a quel gigante sofferente. Era la prima volta che vedeva un Albero che non fosse l'Acero e, anche se quello non si avvicinava lontanamente alla bellezza della pianta coltivata personalmente da Unilia, il Ciliegio aveva un fascino divino: - Gartor? - lo chiamò una voce proveniente dal tronco di quell'immensità di legno. Ebbe quasi la sensazione che qualcosa lo attirasse verso di esso: - Avvicinati! - sussurrò ancora, si voltò verso la ragazzina, ma quella guardava altrove, persa nei propri pensieri. Le sue gambe si mossero da sole, passo dopo passo, giunse all'ombra di quella chioma rosea. Alzò una mano e con le dita sfiorò la corteccia ruvida. Inizialmente non accadde nulla, poi, un flauto iniziò a suonare. Si guardò attorno alla ricerca della fonte di quel suono, poi Un iniziò a cantare:
 
Fischia il vento nella casa d'oro dei signor.
Vola l'elfo che a batter  l'usurpator verrà.
Canta l'albero che in eterno vivrà.
Canta l'orco che cacciato fu.
I suoi simili lo chiameranno traditor.


Allontanò la mano, sciogliendo il legame con l'Albero e con la terra. Un brivido gli percorse la schiena. Non poteva cantare quella canzone, Un non poteva disprezzare i propri Signori, Un viveva grazie a loro e non grazie ad Unilia che l'aveva lasciata nelle mani di un popolo straniero. Si fece coraggio e posò di nuovo la mano sul tronco. Risentì il flauto e i tamburi scandire il tempo di quel canto di guerra:

Urla il soldato disertor,
Chiama la donna che in eterno amerà.
Canta l'albero che in eterno vivrà
Canta l'orco che cacciato fu.
 Eretico e traditor diverrai.


Questa volta non poté fare a meno di allontanarsi da quella maledetta pianta. Si era alzato il vento, un vento così forte da gonfiare il mantello dell'orco e da scompigliare i capelli della sua giovanissima accompagnatrice: - Tutto bene? Sembra che abbiate visto un fantasma. - domandò la ragazzina, lanciandogli un'occhiata preoccupata, ma allo stesso tempo anche divertita. In effetti, Gartor aveva visto qualcosa, ma non era uno spirito che cercava vendetta, bensì se stesso che condannava a morte il proprio popolo, uccidendo Thornin a sangue freddo: - Ho avuto una visione terribile. - strillò poco prima di fuggire via, lasciandola sola, ignorando che di fronte a lui vi era uno dei labirinti più complessi mai costruiti. 

Corse veloce come il vento, senza controllare dove stesse andando. Le siepi erano tutte uguali e tutte sembravano portarlo ad un vicolo cieco. La canzone continuava a risuonargli nella testa. Non sarebbe mai diventato un eretico e un traditore, non voleva diventarlo, lui non avrebbe mai pugnalato il proprio imperatore e non avrebbe mai aiutato l'elfo incaricato fin dalla nascita di uccidere Thornin, lo avrebbe ucciso con le proprie mani, strappandogli le ali una ad una, ne era certo, eppure quella visione gli era sembrata così vera e così bella allo stesse tempo. Non poteva negare di aver provato una felicità senza eguali mentre immergeva il pugnale nel petto di quella bestia priva di cuore.


Note dell'autrice

Buongiorno, cari lettori e care lettrici! Questo è il primo capitolo incentrato su un antagonista, anche se non sembra tanto un antagonista... chissà cosa accadrà? Comunque, ho faticato molto nella stesura di questo capitolo, è stato riscritto così tante volte che ho perso il conto, tuttavia è un capitolo chiave per capire alcuni pezzi della storia degli orchi e per comprendere anche queste figure. Gartor è sempre stato uno dei miei personaggi preferiti, anche se è molto complicato da caratterizzare, probabilmente non sarò riuscita al cento per cento nel mio intento, però ne sono soddisfatta. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate pure voi. Vi ringrazio tutti per aver letto questi cinque capitoli di apertura! 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3894069