Threnodia: In memoria dei Semidei

di Lumos and Nox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mr. Beauregard ***
Capitolo 2: *** Mr. Fletcher ***
Capitolo 3: *** Mr. Nakamura ***



Capitolo 1
*** Mr. Beauregard ***


Threnodia:
In memoria dei semidei

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Silena, figlia di Afrodite
Mr. Beauregard


“«Volete un bonbon?» offrì. «Me li ha mandati papà. Pensava… che potessero tirarmi su».
­­«E funzionano?» chiesi.
Lei scosse la testa. «Sanno di cartone».


Timothy Beauregard era abbastanza conosciuto in quel piccolo paesino sulle coste di un lago del Minnesota.
Non tanto per il suo aspetto, anzi: era piccoletto, minuto, con capelli castani in precisi ricci e con un paio di occhiali sempre poggiati a metà del naso lungo all'insù. Con i suoi perenni vestiti composti da giacchetta, camicia e cravatta, pareva quasi un topo, fuggito fuori da certi cartoni. Ma la gente lo adorava, perché, oltre ad essere quello che gli antichi greci avrebbero definito "polutropon" (ovvero un uomo veramente dalle mille risorse), tutto ciò che usciva dalla sua bocca si trasformava in poesia.
Bastavano poche frasi, un saluto, o magari qualche notizia della sua giornata, perché la gente si lasciasse cullare da ciò che raccontava. Perfino i motociclisti più rissosi, quando entravano nella sua cioccolateria, ne uscivano non con le tasche piene dell'incasso, ma con una grande quantità di storie in testa e una borsetta lillà con dei bonbons.
Timothy era fatto così. Le sue storie raccontavano il mondo. Perché d'altronde era proprio il mondo ciò che lui aveva vissuto. Di origini francesi, era nato in Canada, in una grande città; in seguito si era trasferito a studiare legge negli States e nell'intervallo tra la fine degli studi e la nascita della figlia aveva viaggiato qua e là prima grazie a varie borse di studio- e poi alle sue parole. Aveva fatto l'avvocato a Londra, il librario a Oslo, si era spostato in India per scrivere resoconti di viaggio su un blog, subito dopo in volata in Perù, a fare il facchino nel mezzo della giungla; poi ancora in Spagna e in Italia per imparare a cucinare, in Cina come insegnante di inglese, in Russia a seguito di un diplomatico, in Francia a studiare arte...
A vedere il suo musetto da topo, nessuno lo avrebbe mai detto. E nessuno, d'altronde, lo avrebbe mai collegato a Silena. Era una ragazza tanto bella che sarebbe bastato metà del suo fascino a far proliferare le chiacchere in paese- era credenza comune che fosse uscita da qualche favola di suo padre. Era come se il suo aspetto fisico potesse adattarsi alle ambientazioni delle storie.
Come il signor Beauregard aveva cambiato così spesso stato, così Silena sembrava cambiare aspetto con una facilità che faceva impazzire ragazzi e ragazze. Un giorno poteva avere occhi azzurri e capelli biondi, ma poi, al ritorno dal campo estivo dove si recava ogni anno, i suoi capelli potevano essersi fatti scuri o rossi o neri. Delle tinte così impeccabili non se ne vedevano spesso. In più era tanto alta e bella quanto Timothy era basso e dal naso a punta. L'unica cosa che potesse vagamente accomunarli era il gusto per l'eleganza.
Le signore del paese ritenevano che fosse un bene che Silena, per quanto bella e cara potesse essere, non fosse troppo spesso nel negozio del padre. Già i loro figli ritardavano a causa delle storie meravigliose del signor Beauregard: se c'era sua figlia in cioccolateria, sarebbero tornati forse forse alla chiusura del negozio.
Ma Timothy non dava troppo peso alla bellezza della sua figliola- bellezza che, tra l'altro, per forza doveva essere stata ereditata dalla madre della suddetta. Il signor Beauregard, nella sua miriade di valli profumate, cieli dai riflessi degli arcobaleni e mari fatti di sorrisi di onde, non aveva mai fatto una parola riguardo alla bellezza della sua bimba, né riguardo alla misteriosa donna da cui l'aveva avuta. Il paesino dove abitava era un posto tranquillo, dove tutti si conoscevano e andavano in chiesa la domenica. Questo implicava che si avvertisse la forte necessità di spettegolare su tutto ciò che potesse essere una novità o fuori dal normale. Il signor Timothy, quando era arrivato anni prima, era stato una novità e sua figlia era perennemente qualcosa di fuori dal normale: questo aveva portato a far nascere sulla storia di Silena quasi lo stesso numero di storie che il signor Beauregard inventava. Forse la madre di Silena era una signora tanto bella quanto crudele ed era fuggita con un amante, lasciando il povero Timothy a occuparsi di Silena? E come poteva aver abbandonato un uomo tanto... dalle mille risorse, un pozzo di favole e di cioccolato come lui? No, era più probabile che fosse morta, di parto, in un incidente, in una gita; o forse aveva solo chiesto il divorzio? O forse...?
Il signor Timothy, nonostante fosse praticamente impossibile non essere al corrente di tutte le abbondanti chiacchiere farcite di fantasia che Silena tendeva a catalizzare non appena metteva piede nel loro paesino, non sembrava per nulla turbato dal tutto. Accettava con un sorriso e un sospiro le continue domande, e rispondeva con storie variopinte, le più esplosive che quella sua testolina fosse in grado di elaborare. Storie bellissime che erano collegate alla sua Silena come potevano esserlo un cubetto di cioccolato e un sombrero- non che Timothy non avesse mai pensato di fare dei cioccolatini a forma di sombrero, si intende.
Il fatto era che il signor Timothy tendeva sempre a preoccuparsi più del dovuto, quando si ritrovava costretto a pensare alla madre della sua Silena. Raccontare storie mentre si preparava il cioccolato o si allestiva la vetrina era una cosa, mentre viverle in pieno, pensando a ciò che la sua Silena faceva al campo Mezzosangue... bè, era decisamente un altro paio di maniche. Doveva essere davvero fantastico, correre e allenarsi tra centauri, ninfe, satiri e altre creature del genere, ma era un altro paio di maniche rispetto al raccontare storie di cui lui aveva il controllo. Davvero. Proprio un altro paio di maniche.
Aveva viaggiato per il mondo così tanto da sentirsi cittadino di ogni stato, parte di ogni realtà, ma rimaneva comunque escluso e un po' lontano da quel mondo di dei ed eroi, e questo significava che non poteva farsi una vera idea di ciò che la sua piccola Silena stava facendo e stava vivendo.
Era il loro mondo, quello dei semidei, lo sapeva. In quanto mortale, c'erano cose che non poteva fare o capire- il Campo Mezzosangue sembrava una lunga distesa di fragole, sotto ai suoi occhi. Ma ricordava quel grosso signore con il puzzo di erba rancida che una volta li aveva inseguiti, quando Silena era piccola, e si era fidato immediatamente della definizione di "ciclope" che un baldo giovanotto dalle piccole corna sulla testa aveva gentilmente offerto loro. C'erano mostri come quelli, lì nel suo mondo, e per quanto avesse viaggiato o studiasse e cercasse di capire, era difficile per lui riconoscerli. Sapeva che nel mondo dei semidei e degli eroi e degli dèi era in corso una guerra, però, una brutta guerra: e le guerre rimanevano sempre uguali, orride in tutto il mondo e in tutti i mondi.
Giusto due giorni prima, venuto a mancare il povero Charlie, un ragazzotto silenzioso ma buono come una brioche che la sua piccola Silena stava frequentando. Dopo averne sentito parlare per quasi tre anni, lo aveva perfino conosciuto, quel Charlie, poco tempo prima, l'ultima volta che Silena era venuta a trovarlo. Alla sua povera bambina piaceva così tanto e quel ragazzone la ricambiava, con una timidezza e una gentilezza che non ci si sarebbe mai aspettati di vedere in un fisico da rugbista simile. Erano davvero innamorati, condividevano un amore spensierato, dolce e puro che non avrebbe fatto che bene a quei loro due mondi.
Quando era venuto a mancare, in un'esplosione, Silena lo aveva chiamato al cellulare, nonostante tutto il pericolo che gli aggeggi tecnologici potessero causare ai semidei. Lo aveva chiamato in singhiozzi, piangendo tanto disperatamente che Timothy aveva avuto paura che potesse morire lì, per il dolore. Poi erano stati un'ora davanti a un messaggio Iride, e lui aveva cercato di confortarla come poteva, promettendole che, appena avesse voluto, avrebbero fatto qualcosa insieme, per ricordare bene Charlie, quel povero, povero ragazzo. Si era sentito così male per lui e per la sua Silena da non riuscire a formulare una storia decente per tutta la notte, e alla fine si era gettato a cucinare, per poi mandare subito un pacco intero di dolci e di cioccolato alla sua bambina, compresa una fornitura di nuovi bonbon.
Del resto, lui si era avvicinato ai dolci poco dopo aver scoperto chi era realmente la splendida donna che aveva conosciuto in Francia e con cui aveva avuto Silena- e anche se non si trattava precisamente della stessa cosa, le basi erano simili... un amore che non poteva esserci, per una vita eterna o per una orribile morte. Sperava davvero che tutti quei dolci avrebbero potuto aiutare la sua Silena. Le aveva anche proposto di andare lì, a prenderla al Campo, ma il suo pianto era aumentato così tanto da fargli capire che non fosse una bella idea.
E così, era ancora lì, nella cucina della sua cioccolateria ad armeggiare con una dozzina di ciambelle da intingere nel gianduia e senza nemmeno la calma necessaria a ideare una qualsiasi storia da raccontare a un qualsiasi cliente.
Sospirò, tirando su col naso, mentre si puliva le mani sull'apposito asciugamano, del tutto inconsapevole del fatto che, proprio in quell'istante, davanti alla vetrina della cioccolateria fosse comparsa nientemeno che il motivo delle chiacchiere del paese.
La porta del negozio si aprì dolcemente e lo scampanellio lieve dello scacciapensieri appeso alla maniglia attirò l'attenzione di un perplesso signor Beauregard: era sicuro di non aver ancora aperto ancora, quella mattina.
Si ritrovò a spalancare la bocca, quando vide, nel mezzo del negozio, quella donna- o quella dea.
Afrodite era a pochi passi da lui, splendida come lo era da sempre, in un volteggiante vestito verde che si intonava alla perfezione con i suoi occhi. Ricordava che, molto tempo prima per lui e molto poco per lei, la dea gli aveva confidato che ogni umano tendeva a vederla in modo diverso, in base ai propri ideali di bellezza, anche variabili di attimo in attimo. Eppure, per lui Afrodite rimaneva sempre una trentenne dai capelli mossi, di un nocciola più puro delle nocciole stesse, con gli occhi più verdi della menta. Il profumo di quell'erba, unito a qualcosa con le rose e il cioccolato, stava riempiendo di tanta delizia il negozio che Timothy avrebbe voluto chiederle un pizzico di quell'essenza, per cercare di trasmetterlo a Silena e chissà, magari anche nei suoi cioccolatini. Il sorriso, quello che stava nascendo in lui, sarebbe stato naturale in ogni persona, di ogni mondo, con un profumo del genere. Chissà se le guerre ci sarebbero ancora state allora.
«Afrodite» salutò, abbozzando un impacciato inchino. La voce gli tremolava un poco e dovette sistemarsi gli occhiali, scivolati giù fino alla punta del naso.
«Ciao, Timothy» gli rispose la dea, guardandosi intorno, incuriosita. «Vedo che il tuo buongusto è rimasto fantastico. Anche solo le tabelle lì sopra con i menù sono meravigliose».
«Si fa quel che si può». Si strinse modestamente tra le spalle, ma era da anni che non si sentiva così orgoglioso. «Mi assicuro soltanto di dare il mio tocco, lo sai. Ho anche fatto installare delle barriere per la mia- per la nostra Silena. Mi ha anche aiutato, sai. È così brava e così gentile!».
Qualcosa nella dea si era oscurato, tanto da farle abbassare lo sguardo, ma Timothy, preso dall'entusiasmo (aveva finalmente qualcuno con cui parlare sinceramente della sua piccola!) e dalla splendida sensazione che dava essere nella stessa stanza della bellezza stessa, non se ne accorse subito. «Ti assomiglia davvero tanto, e sono proprio sicuro che avrà successo, anche se confesso di essere un po' preoccupato, in verità... giusto due giorni fa è venuto a mancare il suo povero ragazzo. Ma... ma tu lo sai già, giusto?» Sorrise. «Mi dimentico sempre di quante cose sapete voi dei. E credo di essermi dimenticato anche delle buone maniere! Posso offrirti del cioccolato?»
Per quanto fosse difficile dare le spalle a una come Afrodite, si azzardò a farlo per arrivare fino alle confezioni più rifornite della sala. «O magari potrei raccontarti qualche mia storia, ne ho sicuramente qualcuna che non hai mai sentito» disse, arrampicandosi sulla piccola scaletta dietro al bancone e acchiappando le migliori tavole di cioccolata che gli erano riuscite negli ultimi tempi.
«Oh, adoro le tue storie» cinguettò Afrodite. Bastava la sua voce a portare allegria al mondo. «È con quelle che mi hai conquistato!». Quando si voltò a guardarla dalla scaletta, lei gli fece un occhiolino e mancò poco che lui non capitolasse per terra.
Una volta che ebbe ritoccato il pavimento, però... si cominciava a  percepire qualcosa di strano, quasi nell'aria. Sarebbe stato impossibile non notare la sfumatura di tristezza che alleggiava negli occhi della dea- occhi che ora sembravano color menta colpita dalla pioggia. Ma il signor Beauregard era tutto preso dal preparare la miglior combinazione di dolcezza cioccolatosa che le sue capacità gli concedessero e, all'inizio, nemmeno il tono cauto della dea lo sembrò scuotere troppo. «Tim... sai che cos'è successo a Manhattan ieri?»
Timothy cercò di ignorare il vago tremore all'udire il suono del suo nome da quella voce, mentre disponeva cioccolato di tutti i tipi in ordinate colonne sopra un piattino. «Ah, sì, ho visto giusto prima i notiziari. Una brutta tempesta, vero?»
«In verità... non era una tempesta, né qualche altro fenomeno completamente umano. È stata una battaglia, molto, molto violenta, contro le forze di Crono».
Gli ultimi quadratini di cioccolato scivolarono sul piattino, facendo tintinnare la porcellana candida.
«Silena era coinvolta e lei... lei...»
La dea non riuscì a concludere la frase.
Il piattino rovinò a terra con un tonfo terribile. Cioccolato e porcellana volarono ovunque, spargendosi in particolare tutto attorno al bancone. Afrodite non fece nulla, se non ripararsi con un pregiato fazzoletto: c'erano cose su cui nemmeno una dea poteva intervenire.
Quando finalmente la dea riuscì a incrociare lo sguardo di Timothy, lo trovò colmo di lacrime inarrestabili.
***
La cioccolateria "La Belle Silena" chiuse all'improvviso, in quella settimana d'agosto.
Le chiacchiere già presenti su quel simpatico signor Beauregard aumentarono decisamente di tono per questo, come per la sparizione dal paesino dello stesso signore: molti collegarono la cosa a quella sua figlia così bella o a quella donna misteriosa che alcuni dicevano di aver intravisto dalle parti del suo negozio. 
Fatto sta che nessuno seppe più nulla del signor Timothy e se a non tutti mancavano i suoi bonbon dal sapore di cartone, le sue storie di certo tolsero qualcosa alla comunità.
Mancavano così tanto che fu una bella sorpresa quando alcuni, anni dopo, sostennero di averne lette di simili, con uno stile che ricordava le sue parole e le sue fantasie- miriadi di valli profumate, cieli dai riflessi degli arcobaleni e mari fatti di sorrisi di onde. D'altronde, se avessero osservato con più attenzione, avrebbero potuto notare il particolare nome dell'autore, Al Elleb Anelis, fin troppo simile al nome di quella cioccolateria ormai divenuta una lavanderia a gettoni.
E se questo non fosse bastato, gente come una certa dea avrebbe di certo riconosciuto quella dedica:
Alla mia bimba mezza dea, perché rimanga sempre immortale, come nel mio cuore"
 
 
 
 
 
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Note dell’autrice
 
Questa storia marciva nel mio archivio da tempo immemore.
Davvero, credo che perfino il titolo e l’idea generale abbiano accumulato una quantità eccessiva di polvere. Che cosa porta a galla la quarantena, eh?
Avrei davvero mille spiegazioni da dare su questa storia, ma non vogliamo sentire un capitolo dedicato solo a questo, no? No.
Cominciamo con due parole sui protagonisti di questa shot: io ho davvero rivalutato Silena. La prima volta che ho letto la serie ero davvero giovincella ed ero talmente presa dagli eventi da fare poco caso ai personaggi… ma Silena. Cucciola. È un’Eroina con la E super maiuscola. Il suo ruolo di spia di Luke non fa altro che portare più profondità al suo personaggio: perché, diciamocelo, l’approfondimento psicologico dei personaggi non è propriamente il cavallo di battaglia dello zio Rick, ma in questo caso ha fatto un bel lavoro. A proposito, la citazione iniziale è tratta direttamente dal “Lo Scontro Finale”, cap. 4 (non sapevo se inserire i dati del libro all’inizio, mi sembrava poco aesthetic).
Che dire, spero onestamente che la storia non sia troppo datata: l’ultimo libro della prima serie di Percy Jackson è uscito nel 2009, ragazzi- 2012, se consideriamo la versione italiana (tre anni per tradurlo mi sembra strano, però) e di conseguenza non so se qualcuno ricordi ancora le storie e le avventure dei personaggi originari, che sono quelli a cui, bè, personalmente mi sentivo più legata.
Comunque sia, bando alle ciance e ciancio alle bande: Threnodia sarà una raccolta di one-shots che incredibilmente riuscirò a terminare, dato che sono tutte in gran parte pronte. Ho idea di pubblicarne una a settimana, per sei settimane. Saranno dal punto di vista dei genitori mortali dei nostri eroi, saranno dedicate per il momento a sei personaggi, come ho già detto, della prima serie, e non saranno in ordine cronologico. Il titolo è tratto da "threnodies"/"treno", il canto funebre greco- ho scelto la sua traduzione inglese, in quanto si avvicina maggiormente a livello fonetico e be', Percy e gli altri parlano inglese- that'so intelligent, I'm a genius *inserire sarcasmo qui*
Mi sembra sia tutto. Se non avete altro da fare e avete internet (cosa non scontata, dato che il mio è davvero agli sgoccioli e il wi-fi potrebbe essere compianto assieme ai ragazzi della storia), vi consiglio di dare un’occhiata agli animatic del musical “The Lighting Thief”: they’re so good, folks!
Qui passo e chiudo!
 
Baci,
- Nox

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Capitolo 2
*** Mr. Fletcher ***


Threnodia:
In memoria dei semidei

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Lee, figlio di Apollo
Mr. Fletcher



“Fra i morti, Lee Fletcher della casa di Apollo, abbattuto dalla mazza di un gigante.
Fu avvolto in un drappo dorato senza nessuna decorazione”.

 
La "Queen Anne" fece il suo ingresso nel porto nove ore dopo il tempo previsto. Nove ore.
Un ritardo che Hector Fletcher, ritto sul molo 17, non era disposto a tollerare, soprattutto considerando che era il suo compagno a comandare la nave.
Sbuffò e rimase per tutto il tempo necessario all'attracco ad aspettare, immobile, sul molo. Gli schizzi d'acqua e le imprecazioni del resto del porto lo toccavano a malapena, come anche faceva il caldo estivo- sebbene la sua gamba destra non fosse più quella di un tempo e di tanto in tanto si facesse sentire con qualche fitta fastidiosa.
Finalmente, la sua nave si diresse verso il molo. Con la sua andatura lenta, pareva volesse dare a tutti la possibilità di ammirarla e di bearsi del fatto che quella grande e grossa nave merci stava per attraccare proprio in quel porto, con nove fottute ore di ritardo. La sua ombra oscurava le acque della Florida mentre devastava lieta i timpani di chiunque nei paraggi con lo sferragliare dei suoi motori.
Fu un pensiero strano ma ormai piuttosto consueto, per il signor Fletcher, collegare quel frastuono a suo figlio Lee. Il ragazzo era stato piuttosto costretto a crescere nel porto, tra tutte le navi, e Hector si era convinto che prima o poi si sarebbe stancato dei rombi dei motori, delle sirene e delle urla dei marinai. Invece, il ragazzo era sempre stato affascinato da qualsiasi forma di suono, tanto da arrivare a convincersi che quello che per Hector era un indifferente baccano infernale fosse in realtà la “musica del porto”. L'aveva chiamata decisamente e precisamente in quel modo, la “musica del porto”. Era qualcosa che di certo non aveva ereditato da lui: no, da lui aveva preso i capelli ricci e rossi, le lentiggini, una peluria piuttosto consistente e… vediamo, forse anche la testardaggine. Sì, di sicuro, e la vena autoritaria. Tutte le cose un po’ più utili, insomma.
Hector sbuffò, mentre una corrente d'aria particolarmente forte rincorreva sventolava i suoi capelli come se fossero la coda di una bandiera. La "Queen Anne" aveva finalmente cominciato le manovre d'attracco e in sorprendente poco tempo, specie considerando il ritardo precedente, Hector ebbe la possibilità di salire sulla sua nave e di capire perché quell'idiota di John Teague ci avesse messo così tanto. Senza preoccuparsi nemmeno di salutare il resto dell'equipaggio- guardò in cagnesco un ragazzetto sui vent'anni e dovette perfino urlare qualche insulto e comando per mantenere una vaga parvenza d'ordine- arrivò nella sala comandi.
John Teague ovviamente era lì, e ovviamente stava giocando con l’iPad che teneva in mano. Certo, il suo sguardo era fisso e concentrato sull'elenco delle merci, ma Hector avrebbe scommesso il suo cappello che fino a qualche minuto prima John stesse facendo altro, riconducibile a un gioco con gli zombie a cui si era appassionato.
«Ah, Hector!» gli sorrise con innocenza, dopo aver aspettato qualche secondo per sottolineare quanto fosse stato preso da quella inesistente lettura. Aveva perfino aperto le braccia verso di lui, in un gesto di evidente scherno.
Hector lo ignorò nel suo angolo e arrivò fino ai comandi della nave, per controllare che tutto fosse stato svolto almeno ai limiti della sufficienza. «Nove ore. Dovevi essere qui almeno nove ore fa. Nove. È così difficile condurre una nave da un porto all'altro, Teague?»
Il suddetto Teague si diede una spinta con le gambe, e la sedia girevole sfrecciò a una velocità moderata sino ad Hector. «Potrebbero esserci stati degli imprevisti» borbottò, premendo qualche tasto in corrispondenza a spie che non avrebbero dovuto essere lampeggianti.
Hector alzò un sopracciglio. «Ovvero? E non permetterti», aggiunse, «di parlarmi ancora del tuo schifoso vino come scusa».
John aprì la bocca, alzano l'indice. Poi la richiuse, si grattò la fascia e i capelli castani e boccheggiò ancora, alla ricerca di qualcosa da dire.
«Joooohn» sibilò Hector. «Non è professionale né vagamente accettabile che la mia nave...»
«La mia nave!»
«... la nostra nave arrivi così in ritardo per una tua fottuta sbornia».
Con un salto, John si inginocchiò sulla sedia, così da poterlo raggiungere in altezza senza dover abbassarsi a stare sul pavimento come i comuni mortali. Appoggiandosi malamente sul tavolo dei comandi, si protese verso di lui quel tanto che bastava per guardarlo chiaramente in faccia e tentare di ammaliarlo con lo sguardo. Fece mostra dei denti in un sorriso che non si allargò agli occhi scuri mentre gli punzecchiava la guancia. «Non è stato per una mia sbornia e mi considero molto offeso!»
«E allora spiegami il perché!» ringhiò Hector chinandosi verso di lui con un mezzo inchino sarcastico.
Gli occhi di John saettarono da quelli di Hector alla sua bocca, e non fu così difficile capire che, baciandolo, avrebbe effettivamente dimostrato un alito fin troppo al vino per uno che non si era ubriacato. Hector Fletcher alzò le sopracciglia, un'espressione di sufficienza sul viso segnato dal mare e dai suoi cinquantotto anni, preparandosi già alla strigliata che avrebbe dovuto fare a John, quando...
Quando quest'ultimo lanciò un'occhiata alle sue spalle, per poi cominciare a indicare freneticamente l'ingresso della stanza con una vittoria appositamente mal celata nella sua felicità. «Ecco! Il mio ritardo è del tutto giustificato e assolutamente dovuto a lui!»
Hector si girò, sospettoso. La sua bocca si chiuse leggermente alla vista del nuovo arrivato, poggiato sullo stipite della porta. Dimostrava qualche anno in meno di John, anche se a prima vista gliene avrebbe dati di più, con quel suo completo blu da pilota. Gli occhi azzurri gli scintillavano mentre guardava lui e John e i capelli profumati e biondi sembravano racchiudere parte del sole. Cosa che, d'altronde, era effettivamente vera.
«Apollo» lo salutò Hector con un cenno del capo.
John, incapace di stare per troppo nell'ombra (specie poi con un dio del sole nei paraggi), scattò in avanti con la sedia. «Hai pensato a ciò che ti ho detto tempo fa, divino dio? Possiamo provare quella cosa a tre?»
Hector si massaggiò la testa, cercando di ignorare la risposta e la risata di Apollo. Non capiva perché proprio a lui dovesse essere capitato un compagno del tutto affascinato dal suo ex, e del tutto deciso a combinare qualcosa tra loro. Ma perché non poteva mostrare un po' di sana e normale gelosia?
In più non solo John non si era sconvolto di fronte al fatto che Lee non fosse nato da una madre mortale, ma da un dio- Hector aveva rinunciato a cercare di capire come funzionasse- ma da circa il momento di quella dannata confessione, cercava di approfondire la conoscenza di Apollo in modi davvero imbarazzanti. Se fosse stato lui il dio in questione, John sarebbe stato molto molto morto.
«Come stai, Hector? Sempre stupito dalla mia magnificenza?» chiese Apollo, mentre John, come ogni volta in cui non riusciva prontamente nei suoi scopi sessuali assatanati, si fiondava in un armadietto della sala comandi alla ricerca di alcool.
Hector si soffermò appena sul viso perfetto di Apollo per poi sogghignare. «Stupito quanto basta da essermene stancato».
Gli occhi del dio diedero in un luccichio difficile da definire, ma poi Apollo rise. «Mi manca spesso il tuo sarcasmo, amico. E quando guardo voi due, poi... bè, non riesco mai a capire se io voglia più rubare te a John o John a te».
«Se vuoi prendertelo, non hai che da farlo».
Dal suo angolo, John si espresse con un mormorio irritato che avrebbe potuto essere un consenso, un dissenso o un'ordinazione di un cheeseburger piccante.
Hector lo ignorò. «Cosa ti porta stavolta qui?» chiese al dio, senza aspettarsi una vera e propria risposta. Non era la prima volta che Apollo capitava a trovarlo e non era mai chiaro esattamente perché lo facesse. John era del parere che fosse ovviamente per trascorrere del tempo a rimirare quanto perfetto potesse essere un John Teague in carne, ossa e tartaruga, mentre Lee sosteneva semplicemente che di tanto in tanto ad Apollo facesse bene sentirsi non troppo considerato un dio. Lee faceva sempre analisi molto accurate delle persone, quasi vedesse delle canzoni anche in loro, ma Hector era certo che si sbagliasse nel caso di Apollo. Gli sarebbe piaciuto che questo almeno si fosse fatto vivo quando Lee era nei paraggi, o perlomeno in Florida, ma sembrava invece capitare quasi soltanto quando in estate il ragazzo se ne andava al Campo Mezzosangue.
Era uno dei fattori principali per cui Apollo non gli dava più lo stesso brivido di un tempo. L'immortalità spesso conduceva gli dei ben lontani da un qualsiasi concetto di maturità personale.
E questo era evidenziato anche in quel momento, con Apollo che eludeva la sua domanda con qualche poesia- Lee li chiamava haiku- pur di non rispondergli.
«Anche Lee tira fuori sempre poesucole del genere» affermò John con la stessa saggezza che può dimostrare un quarantacinquenne accovacciato a brandire una bottiglia di rum.
A quel punto, lo sguardo del dio si fece scuro più o meno come quello di Hector alla vista di quante bottiglie di alcool in meno ci fossero nella scorta. Con la differenza che il temperamento di Apollo aveva ripercussioni anche sul mondo circostante: l'estate della Florida sembrò farsi più un autunno improvviso. Ventate di vento violento si abbatterono sulle finestre e la luce del sole parve decidere di allontanarsi, lasciando la stanza comandi in una penombra grigia.
Hector avanzò di un passo verso il dio, la gamba destra indolenzita dal brusco cambio di temperatura. «John non intendeva offendere quel particolare genere di poesie, Apollo» disse, cercando di sembrare diplomatico. Non vedeva l'ora di levarsi da una situazione così spinosa. «Semplicemente, ha espresso una sua opinione».
Il dio spostò il suo sguardo da John ad Hector. Pareva confuso. «Non... non sono qui per parlare di poesia, anche se ammetto che i miei ultimi componimenti erano un vero schianto!». Un'ombra di un sorriso passò sul suo viso, prima che ritornasse a vestire quell'altra sua anomala espressione, amara, fin troppo cupa considerando il tipo che era.
Hector lo conosceva da decenni, forse da quando aveva l'età di Lee, e, pur non apprezzandolo più come un tempo, lo inquietava vederlo in uno stato del genere.
Forse... forse sarebbe stato meglio non chiedere nulla. Fingere che Apollo non fosse venuto a trovarli e fare almeno una telefonata al Campo, per avvisare Lee che avrebbe dovuto prepararsi. Dopotutto, anche Hector discendeva da un dio, di conseguenza aveva avuto le sue grane a combattere mostri e sapeva quello che comportavano. E se un dio era inquietato da qualcosa, lui preferiva avere suo figlio dove poteva vederlo.
Ma John rovinò tutto.
Anche lui doveva aver percepito qualcosa di sbagliato, ma per quella volta fu fin troppo diretto. «Cos'è quell'aria depressa?» chiese, facendosi avanti, un po' barcollante per com'era rizzato all'improvviso in piedi. «Oh, andiamo, è morto qualcuno?»
La battuta non ottenne risposta. Rimase lì, vaga nell'aria, mentre Apollo fissava Hector con occhi azzurrissimi diventati lucidi come due specchi d'acqua.
No.

La gamba destra cedette all'improvviso. Hector barcollò.
John scagliò via la bottiglia e, nel frastuono del vetro che si infrangeva sul muro, scattò in avanti per afferrarlo giusto in tempo, aiutandolo a scivolare piano sul pavimento.
I capelli scuri del capitano più giovane erano scivolati fuori dalla bandana e, mentre sussurrava conforti, coprivano tutto il viso di Hector.
Apollo sentì una vampata di dolore unita a una sorta di consapevolezza che si trovò a odiare. Era un dio, ma rimaneva di troppo. Hector aveva chiuso con lui molto tempo prima, considerando gli anni umani, e c'era un mortale ad aver preso il suo posto, quasi fosse migliore di lui, che invece aveva portato solo una notizia come quella. Diede le spalle ai due, prima che la rabbia prendesse il sopravvento sulla sua magnificenza di dio.
«Com'è successo?» gli arrivò dalla sala la voce gracchiante e spezzata di Hector.
«Un gigante» disse piano Apollo, senza voltarsi. Poi scomparve in un vento tiepido: era l’unico modo in cui poteva portare calore a quei due mortali.
***
Apollo osservò dall'alto del carro le coste della Florida. Precisamente 34,5° più a ovest doveva trovarsi il porto dove aveva visto per l'ultima volta Hector Fletcher. Non ricordava esattamente quando era stato- gli anni umani sfrecciavano a una velocità impressionante.
Ma non era stato troppo tempo prima che Ecate gli aveva confidato l'ultimo pettegolezzo.
Un certo discendente di Nereo (ed Hector era l'unico ancora vivo) aveva richiesto delle gocce del fiume Lete per sé e per il suo compagno, solo per dimenticare l'esistenza degli dei e vivere in pace.
Apollo gettò un'occhiata giù. Non sarebbe servito nemmeno controllare, di per sé, ma voleva accertarsene di persona.
Eccoli lì. Su una strada poco distante dal porto, Hector e John stavano passeggiando con una bambina di tre, quasi quattro anni. L’avevano chiamata Leah, in onore del figlio che ora credevano di aver perso in un incidente stradale. Bastò un'occhiata perché Apollo aumentasse la velocità e si allontanasse, prima di scagliare via qualcosa.
La storia di quei mortali aveva fatto piuttosto scalpore nell'Olimpo, tanto che alcuni avevano addirittura proposto di cancellare dalla faccia della terra quegli odiosi che avevano preferito dimenticare esseri perfetti come loro. Alla fine, Zeus aveva lasciato in sospeso quella situazione, specialmente perché sembrava si stessero creando dei problemi non da poco con la parte romana della loro natura.
Afrodite però aveva preso in disparte Apollo, osando ammonirlo sul fatto che i suoi bambini avessero bisogno di amore e di cure- proprio lei, che ne aveva tipo il triplo in giro per il mondo- e che Hector si fosse allontanato da lui specialmente perché non aveva dimostrato il minimo interesse per Lee. Al ricordo di quanto facesse schifo che quella divina svampita avesse forse in parte ragione, si passò nervosamente una mano tra i suoi perfetti capelli biondi.
Avrebbe davvero voluto avere un altro bambino con Hector- e tutto a causa di quelle maledette frecce di quello stupido di Eros- così da magari risolvere la questione una volta per tutte. Lo avrebbe preso in braccio sotto gli occhi di Hector e guarda come sono un bravo genitore, stronzo! Amami!
Cavolo, gran parte degli altri dei nemmeno si prendeva la briga di conoscere quanti marmocchi avevano generato. Lui lo aveva fatto da ben prima di quelle richieste di Percy Jackson, ed era anche uno di quelli più impegnati!
Uff, sembrava non bastare mai. Avrebbe quasi voluto scendere di nuovo in Florida e spiattellare davanti ad Hector e al suo perfetto John e alla loro piccola bimba quanto lui potesse essere veramente ottimo in tutto. Avrebbe mostrato loro la sua vera natura. Li avrebbe letteralmente folgorati!
Ma poi gli tornavano in mente le storie con Dafne e con Giacinto. Non serviva nemmeno il dono della profezia per capire che se avesse provato qualsiasi altra cosa con Hector, si sarebbe aggiunto un altro nome ai suoi rimpianti.
Eppure, moriva dalla voglia di fargliela vedere.
In quel momento, aveva tra le mani il copione che Lee aveva scritto, un musical davvero promettente, e si sarebbe mosso al più presto perché venisse pubblicato e ottenesse il giusto successo. E dopo aver fallito anche nel proteggere Michael Yew, stava cercando di aiutare i suoi figli più in difficoltà.
Uno in particolare.
Anche se non aveva gli stessi capelli rossi di Lee o non fosse proprio suo diretto figlio, Octavian di Nuova Roma avrebbe avuto tutto il suo supporto.


 
 
 
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Note dell’autrice

Buonsalve!
Sono le 00.05 e avevo promesso che avrei aggiornato la storia oggi: avete davanti a voi uno straordinario esemplare di Nox in grado per la prima volta di rispettare le scadenze che si era data. Cosa più unica che rara.
Ho rinunciato al continuare un’altra storia per allestire le ultime cose di questo capitolo… vedrò di essere breve con le note, che sono giornate lunghe e stanche e che la suddetta storia mi sta aspettando. Spero ne sia valsa la pena ahah
Lee Fletcher mi è sempre rimasto particolarmente scolpito nella memoria, e non so bene perché. Sarà che avevo e ho tutt’ora tutta una mia teoria su un’eventuale maledizione sulla Casa di Apollo (che mai racconterò ma vabbè), sarà che è un altro dei personaggi di cui sappiamo troppo poco che ha trovato una morte brutaletta, la mia testa è particolarmente partita in viaggi mentali nei suoi confronti.
In questo modo è nato Hector, suo padre insieme da Apollo- ah, e anche John. Hector ha conosciuto Apollo da giovane, quando aveva circa la stessa età di Lee, ma la loro storia è cominciata molto dopo, tanto che è diventato padre quando già era oltre i quarant’anni. Hector è ispirato un po’ ad un vecchio pirata e discende da parte di mamma (cit.) da Nereo, Il Vecchio del mare (incontrato anche da Percy, se non sbaglio). Il vecchio Ner è suo bisnonno, perciò il sangue divino in Hector è molto annacquato e, di conseguenza, è totalmente assente in Lee- almeno per quanto riguarda Nereo, si intende.
Anche Hector e John si conoscono da decenni, ma hanno iniziato a sviluppare una relazione amichevole e poi vera e propria solo quando Lee aveva circa cinque anni. Lee li ha sempre shippati e ha aiutato un po’ suo padre Hector a capire che John era effettivamente l’uomo giusto per lui. I due non si sono mai sposati, ma sono giunti a convivere e la cosa ha reso particolarmente felice Lee. John ha vomitato la prima volta che gli è stato riferito dell’esistenza degli dei&co. ed Hector ha dato di matto perché credeva che lo avrebbe lasciato. Avrei anche tutta una serie di cose da dire su Leah e sul rapporto tra Apollo ed Hector, ma non è questo il giorno.
Quindi le mie pare mentali terminano qui.
La citazione iniziale è direttamente tratta dal 19° capitolo del “La Battaglia del Labirinto”. Ridandoci un’occhiata, mi sono resa conto che Dedalus mi manca e non capisco nemmeno il perché. Ma tant’è.
Ovviamente, la parte finale con Apollo si svolge appena prima degli eventi narrati in “Eroi dell’Olimpo”—ho voluto un po’ dare una motivazione alla sua scelta piuttosto ambigua di supportare Octavian. Non credo fosse stata mai chiaramente esplicitata, no? Correggetemi se sbaglio.
Ringrazio le due anime pie che hanno recensito la mia storia e chrisiliae che l’ha inserita tra le preferite: grazie mille!
Qui chiudo. Ci si vede lunedì prossimo!
 
Baci,
- Nox

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Capitolo 3
*** Mr. Nakamura ***


Threnodia:
In memoria dei semidei

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Ethan, figlio di Nemesi
Mr. Nakamura



“Ethan indietreggiò, reggendosi lo stomaco. Una scheggia della sua stessa spada era rimbalzata e gli aveva trafitto l’armatura.
Crono si alzò faticosamente in piedi, ergendosi minaccioso di fronte al suo servitore. «Tradimento» ringhiò. La musica di Grover continuava a suonare e l’erba crebbe attorno al corpo di Ethan. Lui mi guardò, il volto contratto dal dolore.
«Meritano di più» boccheggiò. «Se solo… avessero dei troni».
Crono batté il piede a terra e il pavimento si squarciò. Il figlio di Nemesi cadde in un baratro che arrivava fin nel cuore della montagna, e di qui dritto nel vuoto.”


Quel giorno era iniziato come tanti altri.
Al brusco risveglio, era stato accolto da quelle solite quattro mura grigiastre, dello stesso colore della sbobba ammuffita che osavano definire colazione. Trecentoventiquattro- stando ai documenti, Azuma Nakamura- l'aveva rifiutata con un cenno sdegnoso del capo, preferendo ancora una volta a cibarsi della semplice aria, condita con vendetta. Era da poco cominciato il suo decimo anno al penitenziario e la sua pazienza stava lentamente scemando.
Giusto il giorno prima aveva violentemente spaccato la faccia a una matricola che aveva osato tagliargli la strada.
Un qualcuno che probabilmente era nulla di più che un mezzo spacciatore si era permesso di tagliare la strada a lui, a Azuma Nakamura, il mercenario criminale per eccellenza del Michigan. Il suo onore ne era stato ferito. Era il minimo che quel pezzente, ottocentoventinove, lo avesse ripagato con il proprio sangue.
Ora era solo da comprendere se la convocazione che aveva ricevuto nella sala colloqui avesse a che fare con quella questione. Per lui, il risolvere un problema d'onore era fondamentale, una tradizione che gli avevano trasmesso i suoi avi attraverso suo padre, ma per il resto della società americana era una qualcosa di difficile comprensione. Faticavano ad anche solo comprendere l’importanza dei gesti di rispetto. Si erano permessi di inquinare il Giappone con le loro presenze e con i veleni della loro cultura, senza il minimo valore, senza la minima idea di ciò che stavano calpestando sotto i loro stivali stellati. Era stato a causa loro se la sua famiglia era stata costretta a trasferirsi lì, nella fogna assoluta degli States, dove regnava la totale ignoranza dell’onore. Azuma si era sempre scagliato contro chi non lo comprendeva o lo feriva e sempre sarebbe rimasto in piedi davanti a quei luridi uomini bianchi. Potevano convocarlo quanto volevano e cercare di convertirlo alla loro assenza di valori giorno dopo giorno. Non facevano che aumentare il desiderio di porre loro fine e il suo disprezzo.
Sputò a terra, mancando di poco la scarpa del patetico agente che lo stava scortando. Quell'essere che a malapena poteva essere definito umano rivolse verso di lui i suoi occhi nascosti dietro delle lenti a specchio: lo sguardo che forse avrebbe dovuto essere una minaccia finì per essere soltanto il riflesso del viso dello stesso Azuma.
Quasi si fosse fatta coinvolgere dalle tonalità del carcere, la sua carnagione era diventata simile per tonalità al grigio, ma i suoi tratti mantenevano la sua consueta fierezza. Il suo corpo si era mantenuto massiccio nonostante le varie privazioni volontarie di quel cibo che lì servivano, ma a dare il contributo maggiore erano gli occhi che più che castani tendevano verso un colorito ocra, quasi giallo. Risaltavano ancor di più grazie alle guance ora incavate. Azuma rivolse a se stesso e a quel patetico essere un sorriso affilato, un gesto di sfida che lui stesso avrebbe punito, ma, com'era prevedibile, non ottenne nulla. Cercavano di convertirlo a parole, senza nemmeno il coraggio di provare fisicamente a toccarlo.
Erano arrivati alla sala colloqui. La guardia lo spinse a entrare e poco dopo Azuma si ritrovò seduto ad aspettare in una stanza quasi totalmente vuota. Gli avevano bloccato anche quella volta le braccia sulla sedia, come se quello potesse bastare a salvarli dalla sua forza.
A separarlo da una porta dall’altro lato della stanza, c'era uno spesso vetro, a cui era collegato un dispositivo telefonico. Non c’era nient’altro, nessuna altra sedia, nessun altro detenuto. Non era la solita sala, a cui tutti andavano per gli incontri con i parenti o con stupidi funzionari.
Azuma strinse i pugni, ma non si mosse di un centimetro, esaminando con cura i muri ipnoticamente bianchi della sala. C'erano sicuramente telecamere lì intorno, tese a scrutare ogni suo singolo spostamento: tipica viltà americana, neanche la minima ombra di coraggio o onore necessari a conferire con lui faccia a faccia.
Stava per sputare nuovamente il suo disprezzo, quando la porta dall'altra parte si aprì.
Fece il suo ingresso una persona che mai si sarebbe aspettato.
Azuma assottigliò gli occhi, mentre questa faceva due passi in avanti, la luce anonima delle lampade che la inondava, e per un attimo la consapevolezza di sé vacillò, portandolo a pensare di essere stato in qualche modo drogato.
Eppure, lei era lì.
Non la vedeva da anni, da quando si era presentata con quel neonato alla sua porta, precisamente. Ma il tempo pareva non essere trascorso per lei, in un modo tanto letterale che per un attimo gli parve di essere ritornato a quel vicolo dove si erano conosciuti. I capelli neri, onde ricciolute indomabili, erano costretti nello stesso chignon, lo sguardo era fatto di puro onore ed equilibrio, e la stessa giacca di pelle rossa che lui anni prima le aveva sfilato via nella foga della passione ora era drappeggiata sulle sue spalle e ricordava quasi una corazza. Le labbra rimanevano impassibili, senza azzardare un ghigno o un qualsiasi altro movimento, e forse era anche quella sua impassibilità a creare quell'aura di puro potere attorno a lei.
Era così che ricordava l'unica americana per cui avesse provato rispetto ed era così che ora lei gli si presentava.
Non avendo la possibilità di inchinarsi come di dovere, si limitò a un Mokurei: chinò rispettosamente il capo- mantenendo però lo sguardo fisso su di lei. «Youkoso, Nemesi-chama».
Doveva averlo sentito anche attraverso il vetro: l'utilizzo del suffisso di pari dignità- qualcosa che lui aveva concesso solo a un’altra persona nel corso della sua vita- accese un luccichio quasi divertito (lo stesso che compariva in lei ogni volta che lui la chiamava in quel modo) negli occhi di Nemesi, che rispose al suo saluto in un giapponese tanto perfetto da dargli i brividi. Prese posto nell'altra sedia, senza staccargli gli occhi di dosso.
Azuma si inumidì le labbra prima di parlare. «Cosa ti ha condotto nell'umile luogo che ora sono costretto a chiamare casa, mia signora?»
La donna lo fissò con una tale intensità che lui si sentì scrutato nell'anima, arrivando perfino al poco onorevole pensiero di desiderare ancora Nemesi-chama nella sua vita e soprattutto nel suo letto. «Ti porto una notizia spiacevole, Azuma-chama. Ma sai quanto sia fondamentale l'equilibrio: per questo, riceverai anche il dono della verità».
Azuma sbatté le palpebre, in un unico segnale della sua perplessità, ma riassunse immediatamente il controllo. Annuì una singola volta, per poi tentare un Shiken-rei, l'inchino necessario a dimostrare l'attenzione per un determinato discorso.
La voce di Nemesi-chama non ebbe un unico sussulto mentre le sue parole tracciavano morte nell'aria. «Ethan è rimasto coinvolto in una guerra. È morto».
Azuma non si mosse di un centimetro.
Aveva trascorso poco tempo con Kokashita- il nome che solitamente attribuiva a Ethan. Aveva visto i cinque anni di suo figlio, prima che di essere incarcerato, e in seguito Kokashita era di tanto in tanto venuto a fargli visita insieme a Jun, l'altro figlio che Azuma aveva avuto da una cameriera. Poi, dopo sei anni di carcere, le visite di Kokashita si erano affievolite fino a scomparire: veniva solo Jun, per rispondere ai giusti doveri di figlio. Kokashita (o Ethan) non aveva avuto onore nello scomparire senza fornire una spiegazione e di conseguenza nei pensieri di Azuma era stato relegato in un angolo lontano e irritato. Eppure... eppure sentiva ugualmente un senso di vago vuoto ora, proprio in quell'angolo.
«Non ho più avuto rapporti con lui, Nemesi-chama. È scomparso dalla casa di Rin verso gli undici anni».
«Si è recato in quello che avrebbe dovuto essere un luogo adatto ai suoi simili».
Azuma sollevò lentamente lo sguardo. «Mia signora, intendi per i nippo-americani o per quelli che in America definiscono giovani problematici?»
«Niente di tutto questo. Ethan è stato identificato nella sua vera natura, quella di semidio».
La parola risuonò nella sala come il tintinnio di una moneta lanciata in aria, seminando attorno a sé la tensione dell’attimo prima che il metallo ritorni a toccare terra.
Sotto il suo sguardo, quella che credeva essere Nemesi-chama, la sua Nemesi, si fece scivolare in mano dal nulla una piccola bilancia in ottone. «Io non solo sono Nemesi-chama. Sono Nemesis, dea dell'equilibrio e della distribuzione del Fato».
Qualsiasi compagno di prigione di Azuma avrebbe gridato, insultato e imprecato, cercando di liberarsi per aggredire quella donna e quelle che avrebbero ritenuto essere stupide menzogne, ma non lui. Ora finalmente comprendeva quell'aura di potere attorno a Nemesi-chama, o meglio, Nemesi-sensei, comprendeva qualcosa di più sulla natura di quella donna tanto perfetta.
E avrebbe reagito con onore. Facendo leva sulla sedia, si fece cadere direttamente a terra. L’impatto col pavimento freddo e il peso della sedia sulla schiena gli mozzarono il fiato, ma Azuma non ci fece caso. Strinse i denti e si prostrò in un Dogenza, per quanto fosse possibile con le mani ancora legate.
Nemesi-sensei attraversò lo specchio di vetro come se fosse stato di nebbia e sfiorò con le dita i capelli che Azuma teneva raccolti in una coda. La sua voce manteneva un tono normale, ma nella sala vuota rimbombò con la forza di una delle antiche preghiere degli antenati. «Nostro figlio ha combattuto onorevolmente per la mia causa, l'essere riconosciuta tra gli altri dei. La tua perdita sarà ricompensata, Azuma-chama».
Quando le sue calde dita arrivarono a toccargli la fronte, Azuma spalancò gli occhi, trattenendo a stento un mezzo grido, mentre tutta la verità su Kokashita e gli dei scivolava dentro di lui come un ruscello in piena.
***
La vita nel carcere, nelle settimane e poi nei mesi seguenti, trascorse senza particolari avvenimenti. Risse e complotti erano all'ordine del giorno, come in qualsiasi altro penitenziario.
Ma nella cella numero trecentoventiquattro, Azuma Nakamura, nonostante non parlasse l'inglese molto più del semplice necessario, aveva richiesto molti volumi di quella che sembrava mitologia greca.
In un angolo della stanza, vicino a una delle due finestrelle, due candele bruciavano costantemente ai lati della foto di un ragazzino scarno, dai tratti mediorientali.



 
 
 
 

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Note dell’autrice

Buonsalve!
Eccomi qui, con una parte stavolta dedicata a Ethan Nakamura. The best boi.
Tanto per cambiare, anche la sua storia mi piace molto e, tanto per cambiare 2.0, avrei voluto venisse approfondito di più. Comunque sia, in questa shot ho deciso di approfondire le origini asiatiche di Ethan: il suo cognome, ho scoperto, è direttamente tratto da un serial killer giapponese, Seisaku Nakamura. Di conseguenza, ho deciso un po’ per questo, un po’ per la storia di abbandono che Ethan sembrava racchiudere, di ambientare la shot in un contesto carcerario. Mi sono anche basata sul fatto che il tasso di criminalità di giovani nippo-americani, stando ad alcuni dati da me letti tempo fa, fosse particolarmente elevato, proprio a causa del distacco e dell’abbandono che sentono rispetto al resto della società.
Azuma significa, inoltre, “est” in certi dialetti giapponesi- in riferimento al fatto che, rispetto al Giappone, lui e la sua famiglia si siano trasferiti ad est. Kokashita, il nome che Azuma usa per riferirsi ad Ethan, fa riferimento a un particolare stato di debolezza o fragilità (almeno da quanto ricordo… purtroppo ho perso la fonte).
Anche i vari inchini e i suffissi di rispetto utilizzati da Azuma sono esistenti: li trovate qui e qui. Per sintetizzare, il Mokurei consiste in un chinare semplicemente il capo ed è spesso usato quando si intravede una persona che si conosce da parecchio tempo; lo Shiken-rei, come ho scritto, dimostra invece la propria attenzione al discorso trattato, mentre il Dogenza, che prevede il prostrarsi completamente a terra, assume il significato di un pentimento per un’azione particolarmente grave che si è compiuta- nella testa di Azuma, quest’azione è stata il non mostrare da subito il dovuto rispetto a Nemesis. Per quanto riguarda i suffissi, il “chama” è utilizzato tra persone che si considerano pari all’interno di una discussione (credo che Nemesis lo faccia in modo un po’ ironico, ad essere sincera). Per il “sensei”, non credo ci sia bisogno di approfondite spiegazioni ahah
La citazione iniziale è tratta da “Devastiamo la città sacra”, 19° capitolo del “Lo Scontro Finale”.
Credo sia tutto. Un po’ mi dispiace non aver approfondito tanto questa shot come le altre, ma in parte è una scelta stilistica: Azuma è un uomo di decisamente poche parole e non gli andava di raccontare più di tanto. Fun fact, mi pare che il suo sia anche il primo capitolo che ho scritto per questa raccolta.
Detto questo vi saluto, ringraziando Manonloso per avere inserito la storia tra le preferite (nickname divertente, by the way!) e anche Lady White Witch per avere recensito entrambi i capitoli della storia.
Fatemi sapere che ne pensate, se vi va!
Baci,
                   - Nox

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