Bad Wolf

di DrarryStylinson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il potere della solitudine: non avrei mai detto che questa pandemia avrebbe portato cose buone. Non pubblico qualcosa da tre anni (credo) e la noia mi ha fatto riscoprire il piacere della scrittura, lo stare svegli fino a notte fonda e vedere l’alba perché smettere di scrivere diventa quasi impossibile; l’avere gli occhi che lacrimano perché sei incollata al pc da troppo tempo e la luminosità comincia a darti problemi.
È dal 23 febbraio che sono chiusa in casa, sono uscita tre volte per fare la spesa, da oltre due mesi. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe potuta succedere una cosa del genere? Ragazz*, state a casa. State al sicuro.
Spero che questa storia vi faccia passare un po’ il tempo in queste giornate monotone. Perché è questo l’unico motivo per il quale l’ho scritta.

 

 



PROLOGO

 

Beacon Hills, California. Anno 2093
 

Aprii gli occhi e l’oscurità mi avvolse. Sentivo delle voci ovattate e distanti, tante voci che si sovrapponevano l’una con l’altra. Udivo il ronzio di qualche macchinario elettrico e delle porte che sbattevano. Percepivo l’acqua scorrere e l’odore di caramelle alla liquirizia. Sentivo una dozzina di cuori battere e un sentore di disagio perenne e di esaltazione.
Qualcosa mi pungeva le labbra e capii che erano i miei denti, i canini erano cresciuti fino a diventare zanne. Anche le unghie si erano allungate.
Appoggiai le mani alla parete che avevo davanti. Era freddo metallo. Un dolore mi percorse le braccia, come se tanti aghi fossero infilzati al loro interno. Cercai di muovere la testa ma il collo era come paralizzato e c’era qualcosa attaccato ad esso, come una specie tubo.
Udivo un bip bip artificiale e acuto e, dopo qualche secondo, capii che era il battito del mio cuore che veniva trasmesso da qualche computer che mi stava monitorando. Respirai affannosamente e i bip aumentarono di velocità.
Inaspettatamente cominciai a vedere, nonostante tutto quel buio. Distinsi le mie mani, con lunghi artigli al posto delle unghie, appoggiate al metallo. Nelle braccia erano veramente conficcati degli aghi, così come nelle gambe. Feci saettare gli occhi e capii di essere dentro una sorta di cilindro metallico. Un ringhio salì dalla mia gola, un verso ferino che non avevo mai sentito. Chiusi una mano a pugno, ferendomi il palmo con gli artigli affilati, e colpii la parete di fronte a me. Ruggii di dolore quando il botto, che rimbombò in quel piccolo spazio, ferì le mie orecchie troppo sensibili.
Le voci, al di fuori, divennero più pacate, come se avessero cominciato a sussurrare. L’atmosfera era troppo disturbata perché potessi distinguere quello che stavano dicendo, ma so che parlavano di me.
Un clangore metallico mi fece capire che la porta di stava aprendo. Quando la luce mi trafisse le pupille, che si abituarono immediatamente al chiarore, mi accorsi che non ero dentro ad un cilindro, ma dentro un’incubatrice.
“Abbassate la voce” sentii dire da una donna.
La fissai con sgarbo, soffermandomi sui suoi capelli rosso ramato.
I loro cuori battevano velocissimi e irrequieti e il loro disagio si trasformò in timore quando mi videro.
Misi un piede nudo fuori dalla capsula in cui ero stato per chissà quanti giorni e un dolore accecante mi attraversò la spina dorsale. Li guardai spaesato, poi tornai a fissare tutti i tubi che mi attraversavano il corpo. Me li staccai con violenza e un po’ di sangue zampillò dalle ferite che vidi richiudersi dopo pochi secondi. Allungai una mano dietro la testa e afferrai il tubo di plastica conficcato nel mio collo, lo strappai con un ringhio di dolore.
Troppi odori mi invasero le narici: deodorante, sudore, cibo, sigarette, quello schifo di caramelle alla liquirizia che qualcuno aveva in tasca.
Barcollai e un uomo si avvicinò a me afferrandomi per un braccio. Digrignai i denti facendogli vedere le zanne.
“Tranquillo” mi disse sussurrando. “Sei al sicuro”.
Teneva la voce bassa e controllata, come se sapesse che al mio udito i rumori forti avrebbero dato fastidio.
“Io sono il dottor Argent. Ti ricordi di me?” chiese.
Ebbi alcuni flash di me che firmavo qualche documento per dar via agli esperimenti e poi gli stringevo la mano.
Annuii con fatica mentre percepivo la ferita sul mio collo guarire da sola senza difficoltà.
“Ricordi il tuo nome?” chiese una donna avvicinandosi e tenendo una cartelletta in una mano e una penna nell’altra.
Mi scossi dalla presa di quel dottore e con le mani mi tastai il volto pieno di peli da animale. Guardai gli artigli che avevo al posto delle unghie poi mi specchiai sulla parete trasparente di fianco a me: ero completamente nudo e non provavo neanche un brivido di freddo.
Mi avvicinai alla parete e notai i miei occhi brillare minacciosamente: erano blu.
“Mi chiamo Derek” dissi. La mia voce era come la ricordavo, ma era mischiata ad un ringhio gutturale.

 




Non vedevo niente a causa del fumo, ma sapevo dal calore che diventava via via più insopportabile che le fiamme erano alte. “Mamma? Laura?” chiamai respirando fumo e tossendo subito dopo, sputando saliva. “Cora?” chiamai ancora mentre la gola si prosciugava a causa del calore elevato. Persi i sensi per qualche secondo e, quando rinvenni, ero sdraiato sull’asfalto, lontano di qualche metro dalla macchina ribaltata e ancora circondata dal fuoco. Vidi un’ombra avvicinarsi alla macchina e chinarsi per guardare al suo interno, poi con un balzo la oltrepassò e scappò via. Un uomo si avvicinò a me e si inginocchiò al mio fianco, mi prese la mano e poi chiamò i soccorsi.



 


La rabbia prese il sopravvento a causa di quel ricordo. Il bip artificiale si fece spaventosamente veloce.
Spinsi la donna che stava di fronte a me con la cartellina in mano e che scriveva, persino il rumore della penna sulla carta mi stava dando fastidio. Lei cadde a terra ma non me ne preoccupai. Mi avvicinai al computer e vidi il grafico del mio elettrocardiogramma. Sfondai il monitor con un pugno e le persone intorno a me si spaventarono, i loro odori divennero più acri.
“State tranquilli” disse il dottor Argent. “È solo turbato”.
Con le mani strinsi il bancone e notai tutta quella tecnologia avanzata che mi circondava. Riuscivo a percepire l’elettricità che ronzava nei cavi.
“Derek, sono la dottoressa Lydia Martin. Sai perché sei qui?” chiese la donna dai capelli rossi.
Mi presi la testa tra le mani, non riuscendo più a sopportare tutti quei rumori, quegli odori. La raggiunsi con due falcate e la presi per il collo sollevandola da terra di qualche centimetro, poi ringhiai come un lupo mostrandole i miei canini e gli occhi blu.
Sapevo perché ero lì. Ricordavo ogni cosa.
“Derek, lasciala andare. Noi siamo qui per aiutarti” disse Argent poggiandomi una mano sulla spalla. La sua mano sembrò quasi ghiacciata a contatto con la mia pelle bollente.
Posai la dottoressa a terra voltandomi verso di lui. Era il capo, era a lui che dovevo rivolgermi.
“So perché sono qui” mormorai con la voce roca, non utilizzata da troppo tempo.
Il dottor Argent annuì compiaciuto, mentre un particolare odore di soddisfazione si spandeva nell’aria coprendo quello della liquirizia che, non sapevo per quale motivo, era così forte.
“Allora possiamo cominciare il tuo addestramento” disse. “Dategli dei vestiti, fatelo mangiare. Tra mezz’ora lo voglio pronto” ordinò.
Un ragazzo giovane mi fece cenno di seguirlo e io obbedii sempre un po’ più calmo, cominciando ad abituarmi a quegli odori troppo speziati per un semplice essere umano.
Sapevo esattamente dove mi trovavo. Mi trovavo dove volevo essere. Ero pronto per l’addestramento, ero il secondo uomo modificato geneticamente per diventare un lupo mannaro. Mi ero offerto volontario per questo esperimento solo per poter catturare il primo licantropo: Stiles.



 


L’odore di benzina mi circondava, avevo in bocca il sapore metallico del sangue e mi trovavo a testa in giù, con la cintura che mi segava il collo per tenermi ancorato al sedile. Vidi una mano slacciarla, poi persi i sensi quando colpii il tettuccio della macchina con la testa. Sollevai le palpebre. Non ero più nella vettura, ma sul cemento caldo. Scorsi la luna piena e poi un’ombra passò davanti a me, la seguii per un po’ e la vidi spiccare un balzo inumano. Poi un volto da adulto, una voce gentile che mi diceva di rimanere sveglio, e la sua mano che stringeva la mia.





 

Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1


Passai diverse settimane senza vedere quasi nessuno. Solo la dottoressa Martin, il giovane ragazzo che si premurava di farmi avere da mangiare (che scoprii chiamarsi Scott) e qualche altro medico o scienziato che si occupava dei mei corsi intensivi.
Mi avevano detto che faceva parte del mio addestramento: prima di stare a contatto con le altre persone avrei dovuto imparare a controllare le mie nuove abilità. Perché, parola di Argent, se mi fossi trovato in mezzo alla folla con tutti quegli odori e rumori avrei rischiato di impazzire e di attaccare qualcuno. Questo non doveva succedere. C’era già un lupo mannaro aggressivo a Beacon Hills, impossibile da abbattere e da catturare, io dovevo essere l’esperimento perfetto.
E, per essere perfetti, c’erano sensazioni che non si potevano provare. Il dolore, per esempio. La dottoressa Martin mi legava ad una sedia e mi faceva l’elettroshock. All’inizio era terribile, continuavo a ringhiare e a sbavare, mi conficcavo gli artigli nella carne fino a lacerarmi la pelle. Poi, col tempo, divenne sopportabile. Era un segno che stavo diventando più forte e che quando avrei incontrato Stiles lui non avrebbe potuto fermarmi.
Stavo imparando a controllare la trasformazione. Prima diventavo un lupo mannaro ogni volta che mi arrabbiavo e capitava spesso a causa dei ricordi che rivivevo come sogni ad occhi aperti. Ora invece, se mi concentravo, riuscivo a trasformarmi in qualsiasi momento volessi. Potevo tirare fuori solo gli artigli, o le zanne, addirittura riuscivo a far illuminare gli occhi di blu quando era necessario.
Non vedevo il dottor Argent da un po’. Dicevano che aveva altre cose a cui pensare, che stava lavorando anche per me, per permettermi di uscire nel mondo reale senza combinare una strage.
Qualcuno bussò alla porta della mia stanza. Riuscii a riconoscere l’odore di Scott anche attraverso la parete che ci separava.
“Entra” dissi.
Lui obbedì e lo vidi varcare la soglia con un vassoio pieno di pietanze. Posò il cibo su una mensola, poi mi guardò insospettito. Avevo capito già da un po’ che aveva paura di me, di quello che ero. Sicuramente non riusciva a comprendere per quale motivo io avessi acconsentito a quest’esperimento.
“Il dottor Argent vuole vederti” esordì timoroso.
Mi alzai in piedi di scatto precipitandomi alla porta con una velocità disumana e lui sobbalzò dallo spavento per quel gesto fulmineo.
“Ha detto che prima devi mangiare” alzò la voce gridandomi dietro.
Non lo ascoltai e, servendomi dell’olfatto, cercai di raggiungere Argent. Distinsi la sua voce in mezzo alle altre e mi concertai su di lui. Presi le scale e saltai i gradini, feci quasi dieci piani in meno di trenta secondi e dopo pochi minuti ero al suo fianco.
Lui mi scrutò dalla testa ai piedi. “Deduco che tu sia ancora a digiuno” mormorò per niente sorpreso dalla mia comparsa improvvisa e silenziosa. Un altro uomo, con un camice azzurro, mi fissava sbigottito.
“Non ho tempo per mangiare. Voglio sapere tutto” dissi riuscendo a soffocare il ringhio che stava nascendo dalla mia gola.
“Bene” acconsentì indicandomi con una mano la sedia di fronte a me.
Mi accomodai con un gesto meccanico e lui prese posto dall’altra parte della scrivania piena di fascicoli. Con un cenno della testa invitò l’altro medico ad andarsene per lasciarci soli.
“Non c’è bisogno che ti dica quale sia il tuo scopo. Il motivo per cui ti ho creato” cominciò scrutandomi attentamente.
Scossi la testa.
“D’accordo” disse semplicemente. “Il tuo unico obiettivo è Stiles” spiegò aprendo una cartelletta e tirando fuori una mezza dozzina di foto.
Mi mise sotto gli occhi la prima in cui era ritratto uno Stiles bambino, all’incirca sui dieci anni che teneva tra le braccia un peluche a forma di koala. Era magrissimo, pallido e si vedeva chiaramente che era malato.
“All’età di nove anni gli venne diagnosticata una malattia: il morbo di Batten” illustrò il dottor Argent. “È una malattia neurodegenerativa e non c’è cura”.
Io annuii assorto mentre la seconda foto veniva posizionata sopra la prima. Il bambino era ancora più magro di prima ma era sdraiato e aveva gli occhi incavati e socchiusi. Dei tubi di plastica erano infilati nella braccia.
“Suo padre, il pioniere della licantropia, decise di sottoporre suo figlio alla mutazione per salvarlo da morte certa. A neanche quindici anni, Stiles divenne un licantropo”. Argent mostrò la terza foto di Stiles, ora adolescente, trasformato in lupo mannaro. I suoi occhi, a differenza dei miei, erano giallo oro.
La quarta immagine invece ritraeva il ragazzo in versione umana. Aveva le guance ancora pallide, ma era un colorito più sano. Gli occhi erano castani e i capelli quasi neri. Aveva un sorriso accennato mentre guardava qualcuno che non era incentrato nell’obbiettivo della macchina fotografica. Indossava una felpa rossa e tra le mani aveva una mela smangiucchiata.
La quinta foto non ritraeva Stiles. Nell’immagine si vedeva il laboratorio con la stessa incubatrice dalla quale ero uscito anche io solo poche settimane prima, era completamente distrutto e c’era un corpo a terra ricoperto di sangue. Mi soffermai su quell’immagine a lungo, non capendo.
“Chi è quest’uomo?” chiesi. Non riuscivo a distinguere il suo volto. Era macchiato di rosso ed era troppo lontano.
“Era suo padre” mormorò Argent. Sentii il battito del suo cuore accelerare e lo guardai. Aveva gli occhi lucidi e un’espressione addolorata. “Il mio migliore amico” aggiunse con voce tremante.
Stiles aveva ucciso il proprio stesso padre per scappare da quel posto.
“L’unica giustificazione che ho trovato per quello che ha fatto è…” si interruppe, la voce scossa dai singhiozzi. Si coprì il volto con le mani tenendo in mano l’ultima fotografia che non avevo ancora visto. “C’era la luna piena quella notte. È uno dei difetti di questo esperimento”.
“Che succede durante la luna piena?” domandai. Nessuno mi aveva detto niente quando mi ero offerto volontario e nei documenti che avevo firmato non si parlava di qualche falla nella mutazione.
“La luna piena vi rende più forti e più aggressivi. L’istinto del lupo prende il sopravvento” chiarì il dottore.
“Quindi non è stata colpa sua?” chiesi.
“Stiles, quando questo è avvenuto, era un licantropo da più di un anno. Sapeva già controllarsi” negò Argent.
“Per cui ha lasciato che il lupo prendesse il controllo” dedussi io. “Oppure sapeva quello che stava facendo” sussurrai tra me e me sapendo che il dottore mi avrebbe comunque sentito.

 

 


Ascoltavamo musica dalla radio locale e all’improvviso venne interrotta bruscamente dalla voce di una donna. “Chiunque si trovi nei pressi dell’azienda Stilinski Corporation è pregato di fare attenzione: polizia e ambulanze stanno convogliando sul luogo per un grave incidente. Alcune strade potrebbero essere chiuse al traffico”. Udii in quel momento un elicottero passare sopra le nostre teste, vidi Cora sporsi dal finestrino del passeggero per guardare mentre Laura cambiava stazione radio per rimettere la musica. Fu allora che mi madre urlò qualcosa di incomprensibile.

 

 


“Quando successe?” domandai allarmato.
“Hai capito, vero?” mi chiese lui.
“Capito cosa?” gli chiesi cominciando a perdere il controllo, gli artigli si conficcarono nel legno della scrivania.
Il dottor Argent posò l’ultima foto sopra le altre. Una macchina ribaltata, distrutta dal fuoco ormai spento. Un tappeto di vetri infranti. Tre cadaveri carbonizzati distesi uno di fianco all’altro: la mia famiglia. Mia madre e le mie due sorelle.
“Accadde tutto due anni fa: la stessa notte in cui Noah Stilinski morì, tu persi la tua famiglia”.

 

 


La vidi sterzare il volante per evitare qualcuno che si era messo in mezzo alla carreggiata. L’auto colpì qualcosa e inaspettatamente si ribaltò. Girò due, tre, quattro volte su se stessa. Un dolore lancinante mi colpì la gamba. I vetri dei finestrini mi perforarono la pelle, mi morsi la lingua dalla quale uscì sangue. Aprii gli occhi, sentivo un fischio nelle orecchie e vidi le fiamme che cominciavano a prendere vita.

 

 


“Derek? Derek, tutto bene?”.
Ritornai lentamente alla realtà mentre Argent mi richiamava. Guardai le mie unghie conficcate nel legno e ritirai gli artigli. Non volevo che pensasse che non ero in grado di ritornare umano quando si rivelava necessario. Doveva sapere che avevo imparato a gestire le mie abilità.
“Era Stiles, vero? Quello in mezzo alla carreggiata” chiesi anche se una risposta l’avevo già.
“Non sappiamo quello che sia scattato nella sua testa quella notte, forse un problema con la mutazione dovuta alla luna piena. Forse qualcuno lo aveva fatto arrabbiare” cercò di scusarlo.
Lo interruppi con un solo sguardo e Argent chiuse la bocca notando i miei occhi verdi diventare blu elettrico. “Ha ucciso la mia famiglia, non giustificarlo”.
Il dottore sollevò le mani in segno di scuse e abbassò leggermente il capo, assecondandomi.
“Dottor Argent, quando potrò affrontarlo?” chiesi impaziente.
Ero pronto. Volevo andare là fuori e catturarlo e poi lo avrei portato nel laboratorio e lo avrei torturato con ogni mezzo a disposizione. Tanto avrebbe potuto guarire in fretta, il che rendeva tutto più facile e più divertente.
“Ti prego, chiamami Chris” disse con un sorriso. “Non sei ancora pronto, esercitati per un altro paio di mesi. Non hai nemmeno affrontato la luna piena e non conosci il suo modo di pensare e di combattere. Dovrai studiare questi fascicoli, c’è scritto ogni cosa che c’è da sapere su Stiles”.
Sbuffai dal naso, irrequieto e in disaccordo.
“Lo so che sei smanioso e non vedi l’ora di testare le tue abilità all’aperto ma, fidati di me: in questo momento Stiles è molto più forte di te. Datti solo un po’ tempo e diventerai più forte di lui e allora catturarlo sarà come schioccare le dita”. Si alzò dalla sedia, aggirò la scrivania e mi raggiunse. “Facciamo un giro” ordinò radunando le cartellette e porgendomele.
Camminammo per i corridoi, io con i fascicoli su Stiles sottobraccio, lui con le braccia dietro la schiena. I medici, gli scienziati e tutte le persone che incrociammo evitavano il mio sguardo. Fiutai la loro paura.
“Quanto ci è voluto per farmi diventare così?” domandai al dottore.
“Ti sei sottoposto per otto mesi ad intensa attività fisica e il tuo corpo è stato bombardato a intervalli regolari di Felafol, Doramina, Prizmac, KL27, …”.
Aggrottai le sopracciglia mentre Chris Argent mi elencava i nomi di tutti i medicinali che avevo preso, per bocca, via endovena, addirittura iniettati nei muscoli e nelle ossa.
“Senza dimenticare la trasfusione di sangue, abbiamo mescolato il tuo DNA a quello di un lupo” spiegò come se mutare geneticamente gli umani fosse una cosa che faceva tutti i giorni. “Il dottor Stilinski era un genio” mormorò con nostalgia.
“Poi sei stato quindici mesi nell’incubatrice. Ad ogni luna piena studiavamo la tua metamorfosi e, quando sei riuscito a trasformarti anche senza l’aiuto della luna, abbiamo dedotto che fossi pronto” delucidò con cadenza regolare.
Mi meravigliai: otto mesi di medicinali e quindici rinchiuso in una capsula. Quasi due anni della mia vita per diventare un lupo mannaro.
“Stiles ce ne mise di più. Forse per via del morbo di Batten. Si sottopose a venticinque mesi di medicinali” rivelò mettendo le mani in tasca.
“E quanto restò in incubazione?” volli sapere.
“Tre anni”.
Inspirai profondamente, cercando di non farmi coinvolgere emotivamente. Quel ragazzino era un mostro e il mio compito era catturarlo per impedire che facesse del male ad altre persone. Ma tre anni, perdio! Tre anni dentro quella capsula di metallo buia e fredda, con tubi e aghi infilati nella pelle a provare dolore ad ogni trasformazione.
Senza che me ne accorgessi eravamo arrivati davanti alla stanza in cui alloggiavo. Chris aprì la porta ed entrò prima di me, lo seguii a ruota e notai che il vassoio di cibo che mi aveva portato Scott era sparito. Il dottore infilò una mano in tasca e tirò fuori un apparecchio elettronico, un cellulare. Si connesse ad internet, digitò qualcosa e mi fece vedere.
Era la prima pagina di un giornale e il titolo diceva a caratteri cubitali: LUPO-01 SVALIGIA NEGOZIO DI ALIMENTARI. QUATTRO FERITI, UNO IN PROGNOSI RISERVATA.
“Potrai anche provare pena” mi disse Argent “ma è questo quello che fa. La notizia risale a sei settimane fa, da allora non abbiamo avuto più notizie. Nessun avvistamento. È così già da un po’: lui compare una volta ogni tanto, ferisce qualcuno, terrorizza a morte gli abitanti di Beacon Hills, poi scompare nel nulla per giorni” disse gravemente guardandomi negli occhi.
Lo fissai di rimando stringendo i fascicoli in una mano e sentendo gli artigli cominciare ad uscire e bucare i fogli.
“Studia. Conosci il tuo nemico. Resisti alla luna piena. Appena sarai pronto potrai andare lì fuori e catturarlo”.
I miei occhi dovettero diventare blu perché l’espressione di Chris cambiò. Io non volevo solo catturarlo, volevo strappargli la gola con i denti, trafiggergli il cuore con gli artigli, volevo che soffrisse come soffrivo io da quella notte.
“Catturalo e poi portamelo qui, devo sapere perché ha ammazzato il mio migliore amico. Devo sapere perché ha ucciso suo padre e la tua famiglia e poi la giustizia farà il suo corso” disse puntandomi un dito contro, quasi come un ammonimento a non fare quello che la mia testa mi stava dicendo di fare.
Abbassai gli occhi e annuii.
Quando il dottore se ne andò lasciandomi da solo nella mia stanza fin troppo pulita e ordinata, mi sedetti sul letto e sfogliai il primo dei tanti fascicoli.

 

 

 

 


Altri tre mesi erano trascorsi. In quei novanta giorni c’era stata solo una segnalazione da parte di alcuni civili, studenti della Beacon Hills High School. Dicevano di averlo visto durante il ballo di primavera. Era fuori dalla loro scuola e gli occhi giallo fluo spiccavano nella notte. Aveva minacciato i ragazzi per farsi dare i loro soldi e aveva ferito una ragazza nel tentativo di strapparle una collana d’oro. L’aveva graffiata sul petto con gli artigli, ora stava bene (a parte gli incubi che avrebbe avuto per il resto della sua adolescenza).
Io avevo studiato. Sapevo ogni cosa su Stiles. Era nato il 27 settembre 2075, alle ore 2.41 del mattino. Bilancia. 175 centimetri, 66 chili. Sua madre era morta nel 2083 a causa di una malattia, suo padre - Noah Stilinski - non fece in tempo a sperimentare il gene della licantropia su di lei. Riuscì quando si ammalò suo figlio. Gli salvò la vita e in cambio venne ammazzato.
Durante i primi otto mesi, dopo la sua fuga dal laboratorio in cui uccise quattro persone (tre delle quali erano la mia famiglia), causò diversi incidenti, rapine, furti. Molte persone rimasero coinvolte. Ogni sua retata finiva sempre con qualche ferito. Da ormai quasi sedici mesi però le sue comparse erano diventate sporadiche. Veniva avvistato una volta ogni tanto, commetteva il suo crimine, feriva qualcuno e poi se ne ritornava nell’ombra.
La polizia della contea offriva ricompense a chiunque forniva informazioni utili, un paio di volte erano riusciti ad affrontarlo con il solo risultato di avergli scaricato le pistole e i fucili addosso senza fargli davvero tanto male. Stando alle mie ricerche, Stiles aveva meno forza di me, ma una capacità di guarigione più elevata della mia. Veniva colpito da un proiettile, il corpo rigettava la pallottola e la ferita si richiudeva in pochi secondi.
Avevo trovato dei video su internet di alcuni attacchi da parte di Stiles girati dai passanti che, anziché scappare, si fermavano a riprendere il mostro. Ero anche riuscito ad accedere ad alcune telecamere di video sorveglianza di negozi che aveva svaligiato, perlopiù di abbigliamento e alimentari. La sua tecnica era sempre quella: entrava nel negozio, i suoi occhi cominciavano a brillare di giallo e le zanne comparivano dalla sua bocca, tirava un ringhio potente tanto che persino la telecamera tremava. Intimava a tutti di stare immobili e con calma prendeva i prodotti alimentari che necessitava o i vestiti di cui aveva bisogno, poi svuotava la cassa e infine scappava prima dell’arrivo delle forze dell’ordine.
Gli abitanti di Beacon Hills erano stufi e qualcuno si era armato. Pessima decisione. Sparare ad un lupo mannaro come Stiles equivaleva solo a farlo diventare più rabbioso.
Udii i passi di qualcuno avvicinarsi alla porta e dopo una trentina di secondi distinsi l’odore del dottor Deaton, uno dei tanti con cui lavoravo. Guardai l’orologio appeso alla parete di fronte a me, segnava quasi la mezzanotte. Deaton si fermò ma non bussò. D’un tratto tutte le luci si spensero e il dottore spalancò la porta lanciando qualcosa dentro la mia stanza: una granata fumogena.
Mi alzai in piedi continuando ad ascoltare il rumore dei passi del dottore che si mescolava a quelli di altre persone. Non riuscivo a vedere nulla a causa del buio e del fumo. Percepii gli occhi cambiare colore, diventare automaticamente azzurri per adattarsi all’atmosfera improvvisamente cambiata. Il mio corpo si era ormai legato alla parte da lupo.
Corsi fuori dalla mia stanza e seguii Deaton con l’olfatto. Grazie solo all’udito riuscii a capire che si trovava al piano di sotto, avevo isolato il suo battito del cuore, riuscendo a distinguerlo da tutti gli altri.
Un uomo venne verso di me, il volto coperto da una maschera antigas e un dissuasore elettrico in una mano. Lo scopo era raggiungere Deaton senza perdere il controllo. L’uomo mi colpì con una scarica di cinquantamila volt. Mi piegai su me stesso restando umano. Incontrai altre dieci persone, tutte mascherate, tutte che mi attaccarono con oggetti contundenti o elettrificati. Mantenni il controllo. Solo i miei occhi erano trasformati per permettermi di vedere attraverso il fumo.
Arrivai all’ultima stanza. C’era un rumore assordante, una sorta di grido stridulo, come le unghie contro la lavagna. Strinsi i denti ma mi impedii di ringhiare. Lì c’era Deaton. Sentivo il battito del suo cuore. Il suo odore però era più sfuggente. In quella stanza piena di persone tutte vestite uguali e con addosso la maschera antigas c’era un insieme di profumi devastante. Odore di erba e di fiori, odore di gas lacrimogeno che su di me non aveva effetto, odore di liquirizia e caffè. Avanzai tra quelle persone scrutandole e mantenendo il mio aspetto umano nonostante i mille stimoli che mi spingessero a trasformarmi.
D’un tratto mi fermai e afferrai per il collo un uomo alla mia destra, mi avvicinai di scatto alla sua faccia coperta dalla maschera, spalancai la bocca e gli feci vedere i miei canini che crescevano davanti ai suoi occhi.
La luce si riaccese, il gas venne risucchiato dalle valvole d’areazione e quel grido fastidioso smise di trapanarmi i timpani. Un uomo applaudì.
Lasciai andare Deaton, il quale si tolse la maschera, e mi voltai a guardare Chris Argent che batteva le mani con forza per congratularsi con me. Avevo resistito all’elettricità, agli odori e ai rumori  e avevo trovato il dottor Deaton tra tutte quelle persone con il volto coperto.
Anche loro si tolsero la maschera, vidi i volti dei dottori e delle persone che lavoravano in quel posto. Notai Scott fissarmi confusamente e non ne capii il motivo.
“Sei pronto” annunciò Argent.
Lo guardai sorpreso. Ce l’avevo fatta: avevo superato l’ultima prova. Quella notte c’era la luna piena ed io, nonostante tutto, ero rimasto umano. Avevo il pieno controllo sul lupo. L’esperimento era riuscito.

 

 


La mattina dopo, quando mi svegliai, la prima cosa che feci fu andare su internet a cercare notizie di Stiles. Volevo sapere se nella notte appena trascorsa, con la luna piena alta nel cielo, aveva combinato qualche casino in città. Non trovai niente su di lui, ma inaspettatamente scovai un articolo che riguardava me.
“LUPO-02. IL SECONDO UMANO MODIFICATO GENETICAMENTE” diceva il titolo. C’era anche una mia foto di qualche anno fa allegata. Lessi qualche riga che parlava di come Chris Argent avesse preso le redini della Stilinski Corporation e avesse portato avanti il lavoro di Noah sulla mutazione genetica. Di come, con il consenso del governo, avesse creato me: un licantropo migliore e non difettoso per aiutarli a catturare LUPO-01.
Scorsi la pagina e lessi i commenti di alcuni lettori che si dicevano contrari a questo esperimento, arrabbiati del fatto che le loro tasse venissero utilizzate per creare abominevoli uomini-lupo. Altri lo ritenevano immorale, contro natura. Un atto contro Dio. Alcuni avevano scritto che sarebbe stato meglio se il morbo di Batten avesse ucciso uno Stiles di appena dieci anni e non ancora colpevole di tutti i crimini commessi. Altri dicevano che sarei dovuto morire anche io. Altri ancora speravano che ci ammazzassimo a vicenda durante uno scontro. Solo pochi dicevano cose razionali, come il fatto che Stiles fosse stato esposto a qualcosa di molto più grande di lui quando era appena un bambino e non aveva avuto nessuna voce in capitolo: stava morendo e il padre aveva deciso per lui di farlo diventare un lupo mannaro.
Sbuffai un ringhio e ripresi a cercare qualcosa che riguardasse Stiles. Era su di lui che mi dovevo concentrare. Presi la foto che diverse settimane prima Argent mi aveva mostrato, quella in cui sorrideva a qualcuno che era seduto al suo fianco ma che l’obbiettivo non inquadrava. In quei giorni avevo fissato quella foto, era diventata il mio chiodo fisso. Avevo imparato a memoria ogni sfaccettatura del suo viso in modo che se lo avessi riconosciuto in giro avrei potuto attaccarlo.
Il mio cellulare vibrò e lo schermò si illuminò. Era un messaggio da parte di Argent che mi diceva di andare all’ingresso dell’edificio. Mi alzai e presi la giacca di pelle dalla sedia, la indossai e infilai la foto nella tasca interna. Diverse settimane prima qualcuno si era premurato di andare a recuperare i miei effetti da casa mia. Io non ci avevo più rimesso piede da quel giorno e non avevo intenzione di viverci, per cui quella stanza e quell’edificio erano diventati la mia casa. Mi avevano portato i miei vecchi vestiti e avevo notato che ora mi stavano un po’ stretti dato che il processo di mutazione aveva influito anche sul mio aspetto umano, gonfiando i muscoli delle gambe, delle braccia e della schiena.
Quando arrivai all’ingresso vidi Chris Argent aprire la porta a vetri ed esortarmi ad uscire. Non rallentai, non volevo fargli sapere che avevo paura. Era la prima volta che mettevo il naso fuori dall’edificio. Subito il caos mi avvolse, il rumore del traffico, l’odore della città, dello smog. Il caos che regnava e le tante persone che passavano. Focalizzai la mia attenzione solo su Argent, isolai il battito del suo cuore e mi concentrai sul suo respiro e su quello che aveva in mano: la chiave di una macchina.
“Che vuol dire?” chiesi accigliato prendendo la chiave dalla sua mano.
“Un regalo” rispose semplicemente.
Schiacciai il pulsante dell’apertura centralizzata e i fari della macchina parcheggiata vicino al marciapiede si illuminarono con un bip bip elettronico. Era una Camaro nera, talmente lucida e pulita da potercisi specchiare.
“È mia?” domandai sbalordito. Era sempre stato il mio modello preferito e ora era lì davanti ai miei occhi.
“Va’ a farti un giro. Svagati un po’. Ne hai tutto il diritto” mi consigliò Argent.
Non me lo feci ripetere due volte. Salii in macchina e sgommai via. L’odore di pelle nuova arrivò come una zaffata alle narici.

 


Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.
I nomi delle medicine che avete letto in questo capitolo sono totalmente inventati.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***



CAPITOLO 2



Giravo in macchina per Beacon Hills appostandomi anche per delle ore fuori dai negozi che erano stati svaligiati dal ragazzo. Speravo che, un giorno o l’altro, si sarebbe fatto vivo.
Delle volte stavo fuori anche tutta la notte, convinto che il lupo che viveva in noi fosse un animale notturno e più a suo agio con le tenebre. Non ero stato così fortunato.
Ritornavo alla Stilinski Corporation sempre più arrabbiato e impaziente di catturarlo. Argent mi diceva di mantenere la calma. Stiles era là fuori da più di due anni ormai, un mese in più o uno in meno non avrebbe fatto la differenza.
Un giorno, preso dall’ossessione, ero sceso dalla macchina e mi ero messo a rincorrere un ragazzo qualunque in felpa rossa. Lo avevo raggiunto con una facilità sorprendente e lo avevo obbligato a voltarsi. Quello mi aveva fissato spaventato e aveva cercato di liberarsi dalla mia presa sulla sua felpa senza riuscirci. Lo avevo lasciato andare dopo qualche secondo, mi ero scusato bruscamente ed ero ritornato alla Camaro.
Il primo contatto con Stiles avvenne dopo undici giorni dal regalo di Chris Argent. Ero in giro per la città quando udii le sirene della polizia da lontano. Era lui. Doveva essere lui. Schiacciai il piede sull’acceleratore mentre sentivo il cellulare suonare all’interno della giacca di pelle. Non risposi.
Arrivai nel centro di Beacon Hills in pochi minuti, prima delle forze dell’ordine. Molte persone si erano riversate in strada, fuori dalle loro case, per ficcanasare. L’allarme di un’erboristeria era entrato in funzione, lampeggiava e suonava. Il negozio era chiuso perché era domenica ma la vetrina era stata sfondata. Mi avvicinai ed entrai calpestando i vetri che scricchiolarono sotto il mio peso.
Udivo le persone parlare, dirmi che quella era una scena del crimine e che stavo infangando le prove. Le sentivo confabulare tra di loro, un testimone disse ad un passante che aveva visto il ragazzo-lupo rompere il vetro con un pugno.
Inspirai profondamente il forte odore di erbe e riuscii a distinguere anche quello di un animale. Cercai di scannerizzare per bene quell’aroma, quello era l’odore di Stiles quando era trasformato, può darsi che da umano odorasse diversamente, anzi in realtà lo speravo. Il suo olezzo da licantropo era ripugnante. Sapeva di cane bagnato, di sconforto e sfiducia, sapeva di rimorso e di senso di colpa.
Quelle emozioni negative mi travolsero come un fiume in piena. Non era previsto che provassi empatia nei suoi confronti.
Isolai il suo odore , uscii dal negozio e mi avvicinai al testimone che lo aveva visto distruggere la vetrata. “Sai dirmi dov’è andato?” domandai.
“Certo. Da quella parte, verso la scuola” indicò con un cenno della mano.
Corsi verso la Camaro e misi in moto. Abbassai il finestrino e cercai di distinguere quel suo puzzo terribile in mezzo alla città. Non fu difficile localizzarlo, erano sentimenti talmente intensi e struggenti che avevano impregnato l’aria. Sorpassai un’auto ferma a bordo strada, aveva un’ammaccatura sul cofano segno che aveva investito qualcuno. Improvvisamente, lo vidi. Era in mezzo alla strada e correva a quasi 80 chilometri orari. Accelerai per raggiungerlo, mentre le auto che venivano nella mia direzione gli suonavano il clacson e facevano lampeggiare gli abbaglianti.
Sentii gli occhi cambiare colore e ne ebbi conferma guardandomi dal finestrino retrovisore e vedendoli blu. Ormai ero solo ad un centinaio di metri dal primo licantropo. Settanta. Quaranta.
Inaspettatamente, Stiles si bloccò nel mezzo della corsa, si voltò e lasciò cadere gli oggetti che aveva appena rubato. In un attimo vidi i suoi occhi diventare gialli, piegarsi sulle gambe e dare una manata al muso della Camaro mandandomi fuori carreggiata.
“Cazzo!” sbottai. Sterzai con il volante cercando di mantenere la vettura in strada, pigiai sul freno con entrambi i piedi e di colpo mi ritrovai con l’airbag esploso in faccia. Avevo appena colpito il guardrail. Bucai quel mega pallone con gli artigli e scesi dalla macchina con il cofano sfondato. Neanche due settimane era durata.
“Un altro dei loro leccapiedi, suppongo”.
Sobbalzai quando udii per la prima volta la voce di Stiles. Non era come la immaginavo. Era quasi infantile. Me l’ero aspettata aggressiva e spregevole. Mi girai a guardarlo mentre raccoglieva tutto il materiale che aveva fatto cadere. Non era come nell’immagine che avevo, dove aveva la felpa rossa e un sorrisetto sarcastico dipinto sul volto da adolescente: era cresciuto, non aveva più quindici anni, come nella foto che avevo in tasca anche in quel momento, ne aveva almeno diciotto, forse anche di più. Sì, i conti tornavano. Era stato un anno in laboratorio dopo la mutazione, poi era fuggito causando l’incidente e da allora erano passati più di due anni.
“Non sei un loro lacchè” mormorò. “Sei come me”.
Mi scrutò con i suoi occhi gialli, forse percependo la temperatura elevata del mio corpo da animale grazie ai segnali termici.
“Non sono come te” risposi e gli feci vedere i miei occhi diventare blu.
Nonostante fossimo distanti di almeno una decina di metri, percepii il suo sussulto. Me ne compiacqui. Sapevo cosa volesse dire la differenza del colore degli occhi durante la trasformazione.
Se erano rossi significava che la mutazione era stata un fallimento e che la cavia sarebbe morta tra atroci sofferenze, se erano gialli voleva dire che l’esperimento era riuscito ma presentava qualche difetto. Stiles, ad esempio, non poteva più controllarsi durante la luna piena. Se erano blu, come i miei, stavano ad indicare la riuscita massima nella mutazione genetica. Ero il licantropo perfetto.
Anche Stiles lo sapeva, per questo si arrabbiò. Ringhiò ferocemente mostrandomi i canini e io feci altrettanto. Lasciò di nuovo cadere gli oggetti rubati all’erboristeria e in due falcate mi fu addosso. Lo presi per le spalle e lo sbattei contro il portabagagli della mia auto ormai mezza distrutta. La carrozzeria si piegò a causa della forza utilizzata e le sue emozioni mi attraversarono le narici come una lama avvelenata. Mi agguantò i polsi trafiggendoli con gli artigli e lo guardai mutare sotto i miei occhi: vidi le orecchie allungarsi e i peli crescere sul suo viso immaturo.
Il sangue zampillò dalle mie braccia mentre cercavo di tenerlo fermo per le spalle per impedirgli di avvicinarsi con i canini a qualsiasi mia parte del corpo che avrebbe tranquillamente potuto azzannare. Aveva cominciato a scalciare per liberarsi ma Argent aveva ragione, ora che avevo completato il mio addestramento ero diventato più forte di lui.
Stiles continuava a tirarmi potenti ginocchiate contro il fianco ma la dottoressa Martin mi aveva reso quasi insensibile al dolore grazie agli esperimenti con l’elettricità, solo una ferita molto profonda avrebbe potuto farmi davvero male.
Ero furioso. Stiles emanava rabbia, incomprensione e disgusto. Ero io quello a dover essere disgustato da lui. Gli ruggii in faccia scaturendo tutto l’odio che provavo per lui in quel momento. Lo vidi prendere un enorme respiro e annusarmi a sua volta.
“Perché mi detesti così tanto?” chiese.
Lo afferrai per il colletto della felpa. “Guardami!” urlai ritirando i canini e ritornando umano. “Non mi riconosci?”
Stiles, ancora incastrato tra le lamiere dell’auto, mi osservò per bene con i suoi occhi gialli che pian piano, tornarono castani. Annusai la sua confusione.
“3 agosto 2091” delucidai semplicemente.
Sentii il suo cuore saltare un battito e poi accelerare improvvisamente. Vidi i suoi canini ritornare normali, anche se i suoi artigli erano ancora conficcati nei miei polsi.
“Il passeggero dell’auto 6 QGM 387” sussurrò con voce da umano.
Come poteva ricordare la targa dell’auto di mia madre?

 

 


Fuoco e puzza di benzina. Sentivo una donna gridare. Non sapevo se fosse mia madre o una delle mie sorelle. Ero a testa in giù e del sangue mi usciva dalle labbra a causa del morso che avevo dato alla lingua. Cercai di muovermi ma ero abbastanza sicuro di avere una gamba rotta e per di più la cintura mi teneva incollato al sedile e non riuscivo a slacciarla. Persi i sensi per un po’ e mi ritrovai poi a guardare il cielo. Sopra di me la luna era piena e luminosa, così bella. Tossii il sangue che mi era finito in gola e guardai l’ombra oscurare la luna e avvicinarsi alla mia macchina, la targa era l’unica cosa a non essere ancora carbonizzata: 6 QGM 387. La vidi chinarsi poi qualcosa di luminoso mi accecò. “Non osare farlo!” disse qualcuno. Scorsi l’ombra fuggire via con un balzo mentre uno sconosciuto si avvicinava a me.

 

 


“Sei il sopravvissuto” mi disse Stiles guardandomi con ambivalenza. Capivo che non sapeva cosa provare nei miei confronti. Paura, sorpresa, risentimento e una punta di speranza arrivarono a stuzzicarmi l’olfatto.
“Bastardo” ringhiai sollevandolo dalle lamiere per spingercelo contro più forte di prima. Mi ritrasformai in un lampo mentre lui mi lasciò andare una mano che prontamente chiusi a pugno per colpirlo in volto. Uno squarcio mi dilaniò il petto. Gli artigli di Stiles si conficcarono in profondità oltrepassando la maglietta e infilzandosi nella carne.
Un’altra ginocchiata mi colpì il fianco destro. Indietreggiai barcollando. Gemetti di dolore e mi tastai la ferita. Osservai Stiles sollevarsi a sedere per poi scendere dalla macchina distrutta.
“Tranquillo, guarirai” cercò di rassicurarmi con un sorrisetto beffardo. Guardai la mia mano sporca di sangue mentre sentivo la ferita ricucirsi lentamente.
“Passeggero dell’auto 6 QGM 387, sappi che è stato un piacere” salutò.
Argent pensava davvero che lo avrei solo catturato? Io lo avrei ammazzato! Lì, in quel preciso momento. Con le macchine che si erano fermate in mezzo alla strada e suonavano i clacson, non capendo chi fossimo e quanto loro si stessero mettendo i pericolo. Sentii anche il mio cellulare squillare.
Balzai in aria e caricai la mano sporca di sangue. Atterrai alle sue spalle e gli lacerai la felpa con gli artigli sentendoli penetrare nella carne. Stiles si voltò con una smorfia dolorante ma mi riattaccò immediatamente con un calcio sul petto. Gli afferrai la gamba sollevata con una mano e con l’altra gli graffiai l’intera coscia. Il sangue fece diventare i suoi jeans blu scuro. Stiles guardò verso il cielo e ruggì dal dolore.
Guardai la sua gamba e vidi il segno dei miei artigli sparire ad una velocità elevatissima. Poi ricordai: io ero più forte, ma lui guariva più rapidamente. Fece leva sull’altra gamba e si sollevò interamente per calciarmi il volto. Cadde per terra quando lo lasciai andare.
Indietreggiai di un paio di passi e mi massaggiai la mandibola. Lui si rialzò fulmineo. Ero a malapena cosciente delle persone intorno a noi. Molti erano scappati, altri ci stavano filmando e in più sentivo anche le sirene avvicinarsi. Anche Stiles le aveva sentite.
Ringhiò dalla frustrazione lanciando un’occhiata agli oggetti rubati. Capii che voleva prenderli e scappare ma vidi dal suo sguardo che sapeva che l’avrei rincorso anche per chilometri e che avrei scoperto il suo nascondiglio.
Mi avvicinai velocemente e caricai un pugno con la mano destra. Vidi il giovane licantropo imitarmi. Afferrai il suo polso e lui fece altrettanto. Quella era una battaglia che non poteva vincere: io ero più forte e lo comprese anche lui. Sogghignai fissandolo negli occhi gialli. Lo spinsi, ringhiando minacciosamente contro il suo volto. Volevo farlo inginocchiare, volevo sottometterlo e farlo sentire impotente come mi aveva fatto sentire quella notte.
Stiles mi si avvicinò pericolosamente e affondò i canini nella mia spalla sinistra. Il mio ringhio minaccioso divenne un uggiolato di pena. Adottai la sua stessa tecnica e gli morsi il braccio che gli tenevo fermo. Latrò di dolore solo per un secondo e poi la ferita si ricucì immediatamente. Lo fissai infuriato vedendo il mio sangue gocciolare dai suoi denti. Fu lui a sogghignare.
“Sta arrivando la polizia” disse leccandosi i canini.
“Bene. Era quello lo scopo” affermai.
“Non pensi che ci possa scappare il morto?” mi domandò con finta innocenza.
Soppressi un altro ringhio mentre lui mi azzannava anche la spalla destra. “Può darsi. Sì, ho proprio voglia di ucciderti in questo momento” replicai con un po’ di sarcasmo che mi aiutava a non pensare al dolore lancinante. La dottoressa Martin aveva fatto un ottimo lavoro con l’elettricità, si era però dimenticata che per abituarmi al dolore fisico sarebbe stato utile anche farmi fare alcuni combattimenti con dei pitbull.
“La polizia arriva e ci ordina di mettere le mani dietro la testa. Se lo fai io scappo, se non lo fai loro sono autorizzati ad aprire il fuoco, in quanto considerato una minaccia pericolosa” elargì Stiles quasi divertito.
“Ora, io posso guarire, ma poi senza dubbio attaccherei colui che ha osato premere il grilletto, e riuscirei comunque a svignarmela, mentre tu staresti a terra a disperarti e a ululare di dolore come un lupetto” gongolò .
Dovetti ammettere che aveva ragione. L’unico modo sarebbe stato far arrivare qui la Stilinski Corporation a spiegare la situazione. La polizia non avrebbe mai dato retta ad uno con le orecchie a punta e gli occhi blu elettrico.
“Dubito che riusciresti ad attaccare qualcuno se ti sparassero un colpo in testa” risposi sempre più arrabbiato.
“Passeggero dell’auto 6 QGM 387, hai davvero intenzione di scoprirlo?” mi chiese con tutta la calma del mondo.
“Smettila di chiamarmi così!” urlai. Diminuii la presa sul suo polso e lo lasciai andare. Lui fece lo stesso. Si chinò per prendere le cose che aveva lasciato cadere prima dello scontro ma glielo impedii. “Lasciale lì”.
Si voltò a fissarmi, il suo aspetto era di nuovo umano. “Seriamente credi che ti dia ascolto?” mi sfidò.
“Hai davvero intenzione di scoprirlo?” rigirai la sua domanda ostentando serenità e non facendogli vedere quanto in realtà provassi dolore.
Sbuffò una risata e annuì. “D’accordo, Derek”.
Quella volta fui io a sobbalzare e lui se ne accorse. Non feci in tempo ad aggiungere nient’altro che lo vidi saltare su un’auto con uno slancio poi, con uno zompo, riuscì a scavalcare due moto ferme in mezzo alla strada e ad atterrare sul tettuccio di un minivan. Dopo pochi secondi scomparve nel nulla.
Le sirene divennero sempre più vicine. Mi massaggiai le spalle, quasi completamente guarite dai morsi del primo licantropo e mi chinai a raccogliere quei cinque oggetti che avevano causato tutto quel trambusto. Aggrottai le sopracciglia confuso. Aveva rapinato un’erboristeria per prendersi delle fottutissime tisane? Aveva davvero rischiato così tanto per così poco? Erano cinque confezioni di cinque diversi colori e gusto. Tisana alla fragola, al limone, al tè verde, allo zenzero ed infine… tisana alla liquirizia. Feci una smorfia di disgusto e mi allontanai dal luogo dell’incidente. Diedi un’ultima occhiata alla mia Camaro ormai distrutta mentre le persone che avevano assistito a tutto quello spettacolo mi lasciavano passare terrorizzate, alcuni mi fecero delle foto.
Il mio cellulare squillò per l’ennesima volta e decisi di rispondere: era il dottor Lahey. “Ti aspettiamo all’incrocio tra la palestra e il ristorante thailandese” mi disse, poi riagganciò.
Lo raggiunsi dopo una velocissima corsa che durò non più qualche minuto. Ed entrai nella sua macchina. Lui guardò la mia maglietta strappata e la giacca di pelle bucata all’altezza delle spalle ormai completamente guarite.
“Ho avuto una giornata intensa” mi giustificai.
Lui sbuffò e mi riportò alla Stilinski Corporation.

 

 


Entrai in ascensore e aspettai che le porte si richiudessero davanti a me.
“Indicare nome e numero del piano” disse la solita voce metallica.
“Derek Hale. Meno uno” tentai per l’ennesima volta in quei ultimi giorni.
“Derek Hale. Meno uno. Accesso negato” rispose.
Sbuffai un ringhio. Al piano meno uno sapevo che c’erano gli archivi e le scale erano state murate per impedire l’ingresso alle persone non autorizzate. Il dottor Argent mi aveva detto chiaramente che non potevo avere accesso. Negli archivi c’erano tutti i documenti, tutti i file riguardanti la mutazione e gli esperimenti fatti a me e Stiles. C’erano tutti i segreti della Stilinski Corporation e, a quanto ne sapevo, solo Argent ne aveva accesso.
“Derek Hale. Quattordici” pronunciai allora togliendomi la giacca e guardando i punti in cui Stiles l’aveva bucata con i denti.
“Derek Hale. Quattordicesimo piano. Alloggi. Accesso consentito”.
Le porte si riaprirono dopo pochi secondi con uno scampanellio simpatico. Mi diressi verso la mia stanza e non fui sorpreso di trovarci il dottor Argent all’interno, seduto alla mia scrivania strapiena di fascicoli.
“Sì, l’ho lasciato andare” esordii prima che potesse anche solo salutarmi. Lanciai la giacca sul letto e lo vidi osservare con ammirazione la maglietta bianca lacerata sul petto e all’altezza delle spalle.
“Lo so. Un incontro interessante?” chiese curioso.
Lo guardai in malo modo. “Mi ha distrutto la Camaro” mi lamentai.
“So anche questo” disse quasi divertito ricambiando il mio sguardo.
Dai segnali chimici che emanava capivo che non era deluso dal mio operato, né arrabbiato. Evidentemente sapeva meglio di me che non sarei riuscito a catturare Stiles alla prima occasione.
“Avete parlato di qualcosa?” curiosò. Il suo cuore aumentò di poco il battito. Cercava di sembrare indifferente ma era impaziente quanto me di avere il primo licantropo tra le mani.
Scossi la testa. Non volli dirgli che lui si ricordava di me, che rammentava addirittura la targa dell’auto su cui stavo viaggiando e che, cosa ancora più allucinante, sapeva il mio nome.
Chris si alzò dalla sedia e mi fronteggiò. Sapeva che stavo mentendo, riuscivo a fiutare i suoi dubbi. “Se hai bisogno di qualcosa, fammi sapere” disse per congedarsi.
“Una cosa c’è” esclamai avvicinandomi alla scrivania e aprendo un paio di fascicoli prima di trovare una delle foto che settimane prima Argent mi aveva mostrato: quella in cui uno Stiles bambino e malato stringeva un peluche a forma di koala. La mostrai al dottore. “Voglio questo” ordinai.

 

Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.
Il numero della targa è lo stesso numero della Jeep di Stiles in Teen Wolf.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 

Mi svegliai al mattino con una fame, be’, da lupi! Uscii dalla stanza infilandomi una canottiera e tenendo la tuta del pigiama. Salii le scale con i piedi scalzi diretto al piano superiore dove c’era la mensa. Il contatto dei piedi nudi con il pavimento fresco era una sensazione galvanizzante. Sospirai superando l’ultimo gradino. Già da diversi metri avevo cominciato a sentire l’odore di cibo.
Arrivai davanti alla porta e spinsi il pulsante per aprirla. La sala da pranzo era gremita di gente. Non sapevo precisamente quante persone lavorassero in quell’edificio. Ero a conoscenza del fatto che fosse un’azienda che guadagnava miliardi di dollari l’anno. Era un palazzo di diciotto piani con alloggi, docce e mensa e solo in quella stanza, alle 7.40 del mattino, potevo contare quasi una trentina di individui. Alcuni di loro mi fissarono quando presi un vassoio e cominciai a riempirlo di cibo: uova, bacon, salsicce, pancake, un paio di sandwich al burro d’arachidi. Tutto condito da una tazza di cappuccino e da un bel bicchiere di succo d’arancia. Mi soffermai a fissare la frutta e decisi di prendere anche una banana. Colsi dalla ciotola una bustina di ketchup e, soddisfatto, mi andai a sedere. Dopotutto, la colazione era il pasto più importante della giornata!
Ora più della metà delle persone mi stava guardando, compresi il cuoco e una signora che spingeva un carrello per le pulizie e sparecchiava i tavoli.
Diedi un’occhiata al mio vassoio strabordante di cibo e iniziai a mangiare con le mani, non curandomi dei loro sguardi insistenti e indiscreti. Sapevo che tanto nessuno mi avrebbe rivolto la parola, avevano troppa paura di me e forse non ne erano neanche autorizzati.
La signora con il carrello si avvicinò e mise sul mio tavolo delle posate pulite. La fissai con un sopracciglio sollevato. “Sarai anche un animale adesso, ma non perdere la tua parte umana” disse per poi allontanarsi. Annusai il suo profumo di prodotti chimici e serenità. Presi forchetta e coltello e mi decisi a mangiare come una persona normale.
Quando ritornai nella stanza percepii l’odore di Scott. Il ragazzo era stato in camera mia e aveva poggiato sul mio letto l’oggetto che avevo richiesto: il pupazzo koala. Senza che neanche me ne accorgessi mi ero avvicinato al letto e lo avevo preso tra le mani. Notai immediatamente le mie unghie trasformarsi in artigli.
Avvicinai il peluche al viso e ci premetti contro il naso sperando di rilevare il vero odore di Stiles, quello che aveva quando era umano. Annusai la polvere e un sentore di naftalina. Forse era stato rinchiuso in un armadio per qualche anno, per quello non percepivo nulla. Inspirai profondamente, affondando il naso nel pelo finto, e riuscii a sentire anche l’odore dei medicinali. Nessun segnale chimico che mi dicesse quale fosse la sua fragranza quando non era scosso da tutta la gamma di emozioni negative che un uomo possa mai provare nel corso della propria vita.
Seccato, ma con ancora un’idea in testa, feci schioccare la lingua contro il palato. Quel peluche era la mia esca per attirare il giovane mannaro: non avrebbe resistito alla tentazione di riavere con sé qualcosa appartenuto alla sua infanzia. Molto presto Stiles si sarebbe rifatto vivo, d’altronde gli avevo impedito di portarsi via gli oggetti che stava tentando di rubare dall’erboristeria.
In più ero sicuro di averlo incuriosito: ero un suo simile; l’unico della sua specie. Avrebbe tentato di rimettersi in contatto con me anche solo per sfogarsi in un combattimento alla pari. Dopotutto, quel sentore di speranza che il suo corpo aveva esalato non l’avevo certo immaginato.


 

 


Roteai gli occhi e guardai, con disappunto, il mio nuovo veicolo: un motorino del 2060 che sembrava aver percorso fin troppi chilometri. Sarei andato più veloce a piedi che con quel catorcio.
“Non posso spendere migliaia di dollari ogni qual volta deciderete di azzuffarvi in città” si giustificò Argent.
Lo fissai di traverso, sollevando il labbro in una smorfia.
“Ho anche dovuto pagare per la vetrina che ha distrutto e per la macchina che ha ammaccato nella fuga” aggiunse lanciandomi le chiavi. Le afferrai al volo e, con il koala sottobraccio, mi misi in sella. Fortunatamente la vettura andava senza difficoltà. Non indossai il casco e, già che ci facevo caso, Chris non me lo aveva neppure dato.
Stetti in giro un paio d’ore. Avevo infilato il peluche tra le gambe e mi guardavo attorno cercando di captare qualche suono o profumo particolare. Il giorno in cui avevo incontrato il primo licantropo avevo fatto caso al battito del suo cuore: era più potente e più veloce di quello di un comune umano. Non avrebbe dovuto essere difficile distinguerlo dagli altri, soprattutto se lo associavo a quel puzzo di cane bagnato che aveva addosso.
Passai per le vie del centro. La vetrina del negozio di erboristeria era stata riparata e c’era una coda di circa dodici persone all’esterno. Dubitavo che fosse sempre così. Quel negozio era la notizia del momento.
Inchiodai con il motorino quando vidi un’ombra sul tetto dell’edificio: era Stiles. Feci diventare i miei occhi azzurri per far scattare alcune abilità, riuscii infatti a vedere il mezzo lupo grazie ai rilevatori termici. Sgasai e accelerai, mentre lo vedevo saltare da un tetto all’altro, facendo anche un paio di capriole. Buffone.
Mi fermai alla fine della via e scesi dalla moto, afferrai il peluche e lo sollevai in aria sopra la mia testa. Guardai Stiles fermarsi sul cornicione di un palazzo e lo vidi fissarmi a sua volta con sorpresa. Il battito del suo cuore si fece più agitato, cominciò a galoppargli nel petto. Mise un piede oltre il bordo del palazzo a tre piani e si lasciò cadere giù. Atterrò con grazia sul marciapiede facendo spaventare le poche persone che aveva attorno e che iniziarono a fuggire strillando.
“Dove l’hai preso?” chiese a bassa voce, sapendo che l’avrei udito comunque.
Sogghignai e feci scattare gli artigli in una mano portandoli alla gola dell’animale di pezza.
Stiles, allarmato, fece un passo avanti e trattenne rumorosamente il respiro.
“Ora tu mi seguirai fino alla Stilinski Corporation ed in cambio il non squarterò il tuo animaletto” dissi minacciosamente.
“Davvero ti fidi di loro?” urlò di rimando.
Sollevai le spalle. “Sto ottenendo esattamente quello che voglio” ribattei afferrando la testa del pupazzo, pronto a staccargliela. Lo vidi asciugarsi rabbiosamente una lacrima solitaria sfuggita ai suoi occhi e provai un po’ di pena per lui: era così disperatamente solo da riuscire a trovare conforto addirittura da un giocattolo?
“Ti hanno creato solo per catturare me. Cosa credi che ti succederà dopo che io sarò morto?” mi chiese.
“Chi dice che saranno così clementi da ucciderti?” replicai malefico. “Ti tortureranno fino a farti sputare le viscere e io sarò in prima linea ad assistere e a ridere” provocai con gusto.
Udii il suo ringhio mal trattenuto. Mi guardai attorno sentendo molte auto avvicinarsi a noi. Da diverse curve vidi svoltare le auto della polizia a sirene spente. Era bastato quel secondo di distrazione e il licantropo mi aveva raggiunto. Teneva le mani sollevate a mezz’aria e non era trasformato.
“Non farlo” supplicò.
“Perché no? Hai già ucciso la mia famiglia, questo è solo un dannato pupazzo” ringhiai affondando gli artigli di pochi millimetri nel collo del koala. Un paio di cuciture saltarono.
Stiles scosse la testa con forza come per scacciare via quell’immagine che gli avevo messo in testa.
“D’accordo” acconsentii lasciando cadere l’animale per terra. “Staccherò la tua di testa”. Mi accorsi a malapena che Stiles non aveva alcuna intenzione di difendersi quando, improvvisamente e contro la mia volontà, mi immobilizzai. Gli artigli vicinissimi alla sua gola e i canini che mi crescevano.
La polizia, attorno a noi, si armò di pistole e fucili e ci intimò di non muoverci. Be’, decisamente io non mi stavo muovendo. Ma che stava succedendo?
“Cosa mi hai fatto?” chiesi a fatica.
“Non sono io. Sono loro” rispose tranquillamente.
“Loro chi?” sbavai senza avere il controllo sul mio corpo.
Stiles si mise davanti a me e i suoi occhi castani fissarono i miei, ritornati di nuovo verdi e naturali, poi fece un accenno di sorriso e io percepii ancora quel vago sentore di speranza.
“Credevi davvero che ti avrebbero fatto scorrazzare libero senza poter controllarti?” domandò toccando i miei artigli con la punta dell’indice. “Sei proprio ingenuo” aggiunse quasi intenerito continuando a studiare il mio viso come se stesse cercando qualcosa.
Gemetti e mi sforzai di muovermi mentre le forze dell’ordine ci intimavano di alzare le mani, altrimenti sarebbero stati costretti ad aprire il fuoco.
“Cos’è? Dimmelo!” ordinai mentre la bava mi bagnava il mento.
“È un dispositivo nel tuo collo. Si chiama AconiRAL” rispose. “Rileva la tua posizione e controlla i tuoi movimenti” spiegò con calma per niente intimorito. Tre poliziotti tentarono di avvicinarsi ma lui fece brillare gli occhi di giallo per solo mezzo secondo che quelli ci rinunciarono.
“Stronzate” rantolai evitando i suoi occhi che continuavano a scrutarmi.
Lo vidi inalare il mio odore pregno di frustrazione. “Non sono io quello paralizzato in mezzo alla strada” replicò con sarcasmo. “Fossi in te mi arrabbierei. Ora sei una preda facile, potrei ucciderti” mi fece notare.
Abbassai gli occhi per guardarlo in faccia, ma non mi sembrava che avesse intenzione di farmi del male. Il battito del cuore era regolare e non emanava nessun tipo di odore particolare che mi facesse pensare che fosse una minaccia. Per dire la verità, aveva l’aria di uno che non sarebbe riuscito a far del male neanche ad una mosca.
“Ce l’avevo anche io, sai?” conversò come se ci trovassimo in una situazione normalissima. “Un amico me l’ha rimosso. Fossi in te non proverei a toglierlo da solo. È un dispositivo molto delicato e, se solo sbagli qualcosa, quello si autodistrugge spargendo aconito nel tuo organismo e causando così la tua morte” disse quasi divertito. “Già, la persona per la quale lavori ha messo un’arma mortale nel tuo corpo. Carino, vero?”. Se stesse tentando di farmi arrabbiare ci stava riuscendo perfettamente.
Respirai affannosamente e ascoltai il battito del suo cuore: era regolare. Stava dicendo la verità o forse era davvero molto bravo a mentire. Ma, d'altronde, quale altro motivo poteva esserci? Io ero paralizzato lì come un idiota.
“Avete ancora cinque secondi, poi apriremo il fuoco” disse il capo della polizia.
Stiles si abbassò per prendere il suo peluche poi corse via. Degli spari mi trapanarono l’udito e un proiettile si conficcò nella mia coscia. Alcuni agenti risalirono in macchina e partirono all’inseguimento di Stiles.
Inaspettatamente, crollai in ginocchio. Mi fissai le mani e mossi le dita. La paralisi era scomparsa. Faticosamente mi rimisi in piedi mentre sentivo il mio corpo sforzarsi per rigettare il proiettile e cominciare così la guarigione.
“LUPO-02, ritorna immediatamente dal tuo padrone” mi ordinò lo stesso di prima. Diedi un’occhiata alla sua stella puntata sul petto.
“Io non ho nessun padrone” risposi zoppicando verso il motorino. Chris Argent me l’avrebbe pagata cara. Per quale diavolo di motivo aveva messo un dispositivo del genere nel mio corpo? E perché ero dovuto venirlo a sapere da Stiles anziché da lui?
Il proiettile venne espulso dalla mia gamba e la ferita, con lentezza, cominciò a guarire.


 

 


Entrai alla Stilinski Corporation e tirai un ruggito per far capire che ero arrivato. Ma se veramente quell’aggeggio serviva da localizzatore di certo Argent lo sapeva benissimo che ero lì.
“Derek, vuoi rompere tutti i vetri?” domandò il dottor Boyd tappandosi le orecchie. Era vestito normalmente. Non aveva nessun camice, segno che se ne stava andando a casa.
“Dov’è Argent?” domandai avvicinandomi. In quel momento le porte dell’ascensore si aprirono e vidi Chris. Lo raggiunsi e lui sollevò la mano per impedirmi di parlare.
“Indicare nome e numero del piano”.
“Christopher Argent. Sette” disse il dottore.
“Christopher Argent. Settimo piano. Laboratori. Accesso consentito”.
Mi guardò apertamente, come per sfidarmi a chiedergli qualcosa. Ansimavo e ogni volta che buttavo fuori l’aria udivo un rantolo scaturire dalla mia gola. Le porte si riaprirono e Chris si incamminò. Lo seguii fino ai laboratori. Entrammo in una stanza dov’erano già presenti Lydia e Scott, entrambi senza camice. Smisero di parlare appena ci videro.
Ascoltai i loro cuori spaventati e Scott cominciò ad emanare preoccupazione. Mi scrutava come se avessi origliato la loro conversazione, ma ero talmente preso dalla rabbia verso Chris che non avevo nemmeno percepito la loro presenza fino a quando eravamo entrati nella stanza.
Il dottor Argent si piazzò davanti ad un computer e girò il monitor per farmi vedere. Schiacciò qualche pulsante sulla tastiera e sullo schermo comparve un oggetto a me sconosciuto.
“AconiRAL” disse semplicemente. “Sta per Aconito Rilevatore Automatico Licantropi” spiegò il significato dell’acronimo come se fosse sufficiente, come se credesse veramente che mi sarebbe bastato quel chiarimento per farmi sbollire l’incazzatura. “Il governo ha preteso che sia tu che Stiles ne aveste uno”.
“Questo non giustifica il motivo per il quale tu non me l’abbia detto. E nemmeno il fatto che mi sia ritrovato paralizzato davanti a lui” sbottai stringendo lo schienale di una sedia con le mani e modificandolo con la forza.
“Lo stavi per uccidere” si alterò e, per la prima volta, lo vidi arrabbiarsi.
“Toglimelo immediatamente!” ordinai avvicinandomi con la super velocità e prendendolo per la gola, lo sollevai da terra con una mano sola.
“Tu portamelo qui e io te lo rimuovo” negoziò parlando a fatica. “Ora mettimi giù” sibilò autoritario.
Obbedii e lo guardai massaggiarsi la gola e sistemarsi la camicia prima di uscire dalla stanza lasciandosi dietro la puzza di panico e preoccupazione. Mi voltai verso le altre due persone presenti, le quali abbassarono lo sguardo.
“Scott” chiamai. Il giovane tirocinante riprese a guardarmi con timore. “Ho bisogno che tu mi faccia avere una lavagna in camera mia”.
Lui annuì forsennatamente. “Subito” mormorò andando via.
Fissai ancora il monitor del computer che mi restituiva l’immagine dell’AconiRAL: un cilindro lungo quasi sei centimetri e con una circonferenza di otto millimetri. Stiles mi aveva detto di non provare ad estrarlo da solo, altrimenti sarebbe scattato il meccanismo che avrebbe attivato lo spargimento del veleno nel mio corpo. Mi sedetti sulla sedia rovinata dalle impronte delle mie dita, digitai la parola “Aconito” su internet cercando di informarmi sulla pericolosità di quella pianta.
“Bastano sei milligrammi per uccidere un uomo” venne in aiuto Lydia.
Guardai la dottoressa Martin con sospetto.
“È conosciuta anche come Strozzalupo ed una delle vostre poche debolezze” spiegò.
“Ce l’aveva anche Stiles, vero?” le chiesi sfiorandomi il collo con la punta delle dita e percependo il dispositivo sotto di esse.
“Non sappiamo come abbia fatto a toglierselo. Bisogna incidere la pelle in un determinato modo e rimuoverlo con precisione chirurgica. Un solo movimento errato e sei morto, in più la vostra pelle guarisce in fretta e l’incisione si chiude in pochi secondi” mormorò torturandosi una ciocca di capelli rossi. Il suo odore di shampoo all’aloe era svanito del tutto lasciando spazio all’agitazione.
Non le dissi che Stiles mi aveva rivelato che era stato aiutato da un amico per rimuovere l’AconiRAL. In testa mi frullavano migliaia di pensieri. Ringraziai la dottoressa Martin e tornai in ascensore. Quando arrivò sei persone uscirono e mi ritrovai solo al suo interno.
“Derek Hale. Quattordici” dissi prima che la voce cominciasse a rompere.
“Derek Hale. Quattordicesimo piano. Alloggi. Accesso consentito”
Misi la mano in tasca e tirai fuori dalla giacca di pelle bucata sulle spalle la foto di Stiles. Lo osservai, stretto nella sua felpa rossa. La nascosi appena arrivai al piano. Entrai in camera e la lavagna che avevo appena chiesto a Scott era già lì: era trasparente e appoggiata ad un cavalletto con le ruote. La spinsi di fianco alla scrivania dove trovai tre pennarelli cancellabili: uno bianco, uno nero e uno rosso. Presi quello nero e, in alto a sinistra, scrissi un’unica data: 3 agosto 2091.
Raccolsi un fascicolo dalla scrivania e lo rilessi da capo. Ricominciai a studiare tutto quello che Stiles aveva fatto dal giorno della fuga. Scrissi le date degli incidenti che aveva causato, delle persone che aveva ferito. Aveva fatto deragliare un treno; seguito uno scuolabus squarciandogli le ruote e causando un tamponamento a catena; era andato in un McDonald’s e aveva fatto razzia di panini spaventando a morte i dipendenti e i clienti. Quest’ultima non era proprio una cosa da lupo cattivo…
Una volta che finii di scrivere mi ritrovai a contemplare la lavagna. Avevo segnato tutte le apparizioni che Stiles aveva fatto a Beacon Hills in ordine cronologico a partire da quel famoso 3 agosto 2091 in cui uccise quattro persone. Da allora non c’erano stati più morti ma molti feriti (alcuni anche gravi). Notai che nell’ultimo anno, oltre a farsi vedere meno in giro, le sue vittime presentavano solo qualche graffio, come se fosse diventato più docile. L’unica persona che aveva ferito gravemente era il proprietario di un minimarket che lo aveva attaccato mentre cercava di derubarlo. Era stato dieci giorni in prognosi riservata.
Morsicai il tappo del pennarello nel tentativo di concentrarmi, di trovare uno schema logico in quegli attacchi.
3 agosto 2091: uccide quattro persone, tra cui suo padre, per quasi un anno terrorizza la città, poi dal 2092 fino ad adesso commette solo furti e rapina i negozi ferendo qualcuno di tanto in tanto come fosse un gioco. Un anno è un assassino e l’anno dopo un semplice criminale da due soldi.
Il tappo si spezzò tra i miei denti. Sputai i resti della plastica per terra e mi sedetti davanti al computer cercando le fasi lunari dell’anno 2091. Argent aveva detto che durante la notte della sua fuga la luna era piena. La notte in cui causò l’incidente io ero sdraiato sull’asfalto e fissavo la luna tonda e luminosa mentre la mia famiglia, dentro la macchina, bruciava.
Digitai le altre date e scoprii che tutte le sue aggressioni, dal 2091 al 2092 avvennero con la luna piena o uno o due giorni prima. Poi, da maggio 2092 fino ad oggi ogni sua apparizione avveniva sempre due settimane prima del plenilunio.
Appoggiai i gomiti alla scrivania e presi la testa tra le mani. Soffocai un ringhio e osservai il fascicolo aperto sotto i miei occhi. Lo sfogliai con calma con una mano mentre tenevo la testa appoggiata sull’altra.
7 aprile 2090, il giorno in cui Stiles era diventato il primo umano geneticamente modificato della storia. Aveva neanche 15 anni e si era ritrovato a fronteggiare un potere molto più grande di lui. Per più di due anni lo avevano bombardato e drogato con ogni tipo di medicina, per poi chiuderlo in un’incubatrice per tre anni. Da bambino, con una sentenza di morte già dichiarata a causa del morbo di Batten, era diventato un essere sovrannaturale quasi invincibile.
Continuavo a non capire, però. Del 7 aprile 2090 aveva passato più di un anno qui dentro e poi, improvvisamente, il 3 agosto 2091 aveva dato di matto e ammazzato suo padre a sangue freddo e, non contento, si era diretto su una tangenziale qualunque e fatto cappottare l’auto di mia madre, uccidendo lei, le mie due sorelle e per poco anche me.
Dovevo avere accesso agli archivi. Era successo qualcosa, quella notte. Una persona normale non perde la testa da un giorno all’altro. Qualcosa lo aveva turbato. Non solo turbato, lo aveva sconvolto talmente tanto da perdere il controllo sul lupo. Poi, la luna piena aveva contribuito a farlo diventare più aggressivo e assetato di sangue. Sete che aveva placato diventando un assassino.
Dovevo sapere cos’era accaduto e l’unica persona che mi sembrava degna di fiducia era Scott. Certo, fiutavo la sua paura ma aveva qualcosa di rassicurante.
Infilai le mani nelle tasche della giacca di pelle, che non avevo ancora tolto, e aggrottai le sopracciglia. Da una parte c’era la fotografia di Stiles ma l’altra era vuota. Avevo perso il cellulare.
“Impossibile” sussurrai tra me e me. Non lo avevo perso: Stiles me lo aveva rubato.


 

Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4


Fu prevedibilmente facile rubare un cellulare. Mi trovavo in ascensore con altre tre persone e infilai furtivamente la mano nel camice di un uomo anziano sottraendoglielo. Me lo misi in tasca e uscii fischiettando dalle porte che si aprirono con uno scampanellio. Quando fui al sicuro controllai che non avesse la suoneria accesa. Essendo un cellulare aziendale fortunatamente, quel vecchio, non si era neppure premurato di mettere un codice pin.
Entrai in palestra continuando a fischiettare. La dottoressa Martin mi aspettava insieme ad altri due medici e tre uomini in smoking che non avevo mai visto. Indossavano un cartellino con la parola “Visitor” appuntato sulla giacca. Mi tolsi i vestiti, piegandoli con cura e appoggiandoli su una sedia. Restai in intimo mentre uno degli scienziati si avvicinava per prepararmi.
Era il giorno dei test. Una routine che svolgevo ogni settimana, da quando ero uscito dalla capsula, per tenere monitorate le mie abilità. Prova di resistenza, dove correvo ad una velocità esorbitante sul tapis roulant mentre indossavo una maschera, degli elettrodi alle tempie e sul petto e dei tubi infilati in entrambe le braccia in cui scorreva un liquido.
Olfatto, vista, udito. Tutto sotto stretta osservazione. Ogni settimana mi accorgevo di diventare sempre più forte.
Notai interesse sul volto di quegli sconosciuti silenziosi.
“LUPO-02” mi chiamò Lydia. Sapevo che lo faceva solo per sembrare professionale, ma quel nome lo detestavo. Mi faceva assomigliare a Stiles. “Trasformati” ordinò.
Abbassai la testa e guardai il mio petto nudo, solo velatamente sudato per colpa dello sforzo fisico a cui ero stato sottoposto, gli stimolatori appiccicati al petto e agli addominali, i fili che conducevano ad un computer. Vidi la maschera appannarsi a causa dei miei respiri. Non era ossigeno quello che stavo inalando, era gas nervino e su di me non faceva alcun effetto. Ero un fenomeno da circo.
Sollevai la testa spalancando gli occhi blu e respirando affannosamente. Io mi ero offerto volontario per diventare un lupo mannaro solo per catturare Stiles!
Vidi il liquido entrarmi nel corpo attraverso i tubi nelle mie braccia. Erano sonniferi, tranquillanti che avrebbero steso un elefante in meno di dieci secondi. Gli artigli scattarono e i peli mi si allungarono sul volto. Mi levai la maschera dalla faccia e uno dei dottori spense l’afflusso del gas.
Mentre percepivo le orecchie allungarsi e i canini cominciare a pungere, pensai ancora a Stiles. Anche lui aveva subìto questi trattamenti. Che razza di vita aveva avuto quel ragazzo? La morte della madre per demenza frontotemporale a otto anni; il morbo di Batten; cinque anni della sua vita sprecati tra medicine ed incubazione e quando finalmente avrebbe potuto essere libero, nonostante non fosse più totalmente umano, lo avevano sottoposto pure a questi test.
Ringhiai con quanto più fiato avessi in gola. La stanza tremò e le persone si tapparono le orecchie. “Soddisfatti?” domandai grugnendo.
Mi strappai gli elettrodi e mi rivestii in fretta mentre la dottoressa Martin invitava i tre uomini a uscire. Sentii che dicevano che avrebbero parlato con il dottor Argent, poi i loro passi si allontanarono. Lei rientrò, marciò velocemente verso di me e mi prese per un braccio. Mi lasciai trascinare davanti al computer. Indicò il monitor con una mano aperta, poi incrociò le braccia al petto e iniziò a tamburellare nervosamente per terra con un piede.
“Derek” disse il mio nome sussurrando. “Stavi per perdere il controllo” mi sgridò con fare materno.
Guardai lo schermo luminoso: segnava che il mio cuore era arrivato a 272 battiti al minuto. Sì, lo avevo percepito. Avevo pensato a lui e il lupo aveva quasi preso il comando. Strinsi la sua foto all’interno giacca.
“A cosa pensavi?” mi chiese preoccupata.
Annusai il suo sincero dispiacere. Forse, pensai, oltre che di Scott mi potevo fidare anche di lei.
“Alla notte dell’incidente” mentii. Non potevo certo dirle che stavo pensando a Stiles. Che provavo pena per il suo passato.
“Sai chi erano quelle persone?” domandò armeggiando con il computer e cancellando quel risultato anomalo sotto i miei occhi.
“Sai benissimo che non lo so” replicai scrutandola con gratitudine.
“Agenti del governo. Sono interessati a te” spiegò.
Mi allarmai. “Per quale motivo?”.
“Una volta che avrai catturato Stiles dovrai pur trovarti un altro impiego” borbottò a disagio. Il suo cuore ebbe un breve aumento quando pronunciò il nome del licantropo.
“Lavorare per il governo?” chiesi alzando la voce. Loro erano quelli che avevano ordinato ad Argent di mettermi l’AconiRAL nel collo! Sovrappensiero, toccai con la punta delle dita la base del collo sentendo il dispositivo muoversi sotto la pelle. “Tu sapresti toglierlo?” le chiesi.
Si morsicò il labbro inferiore. “Mi arresterebbero se lo facessi” disse stringendosi nelle spalle.
Annusai la sua sensazione di colpevolezza e la tranquillizzai poggiandole la mano sul braccio e accarezzandolo. Il suo cuore batté rilassato. “Solo che… non mi piace l’idea di essere manipolato” mi giustificai stupidamente. A nessuna persona al mondo sarebbe piaciuta l’idea di avere un dispositivo nel corpo in grado di localizzarti e paralizzarti, lasciandoti solo la facoltà della parola. Mi ero sentito così vulnerabile, una macchina nelle mani del dottor Argent e forse era così che Stiles si era sentito per tutta la sua vita.
“Meglio che vada a farmi una doccia” mi congedai.


Sotto l’acqua quasi fredda pensai al mio cellulare. Era così ovvio che Stiles voleva che lo contattassi. Non era una decisione saggia, anzi era una stronzata colossale! Per quale motivo avrei dovuto chiamare la persona che avevo tentato di uccidere? No, non lo avrei mai fatto, non ero così stupido. E allora perché avevo già rubato un altro cellulare?
D’accordo, gli avrei dato trenta secondi. Se in mezzo minuto non mi avrebbe detto nulla di interessante allora ciao, basta. Una sola possibilità.
Ancora in accappatoio, mi sdraiai sul letto e composi il numero del mio telefono. Fece solo uno squillo, poi udii un respiro dall’altro capo. Non era sicuro che fossi io quindi preferiva non parlare, lo capivo.
“Mi hai rubato il cellulare” mi palesai.
Lui stette in silenzio, forse per capire se fossi solo. Se avesse sentito altri respiri o battiti oltre al mio avrebbe riattaccato.
“Che spirito di osservazione” parlò allegramente.
“Voglio risposte” andai subito al dunque. Chris Argent mi nascondeva qualcosa e io avevo un disperato bisogno di sapere la verità.
“Le avrai. In cambio voglio qualcosa” disse, ogni traccia di allegria scomparsa per lasciare spazio alla serietà.
“Cosa vuoi? Che dica ad Argent di smettere di darti la caccia perché in fondo sei un bravo lupetto?” sbottai guardando il telefono e notando che i trenta secondi erano passati.
“Voglio una tua maglietta”.
Mi sollevai a sedere. Spalancai la bocca ma non ne uscì alcun suono.
“Devi averla indossata almeno da due giorni e non lavata” aggiunse non finendo di stupirmi.
“Prego?” domandai con la voce diventata quasi acuta a causa della sorpresa.
Stiles sbuffò una risata dall’altro capo del telefono. Ero sicuro che stesse ascoltando il battito del mio cuore tamburellare nel petto ad una velocità anomala. Che voleva farci con una mia maglietta usata?
“Incontriamoci stanot-”.
Chiusi la chiamata prima che potesse finire di parlare. Mi sentivo sottosopra. Chiamarlo era stata una pessima idea. Provavo sentimenti troppo contrastanti per quel ragazzo. Il cellulare del vecchio vibrò per un messaggio: “So come togliere l’AconiRAL” diceva semplicemente.
“Oddio” mormorai. In che situazione mi stavo cacciando?
Guardai la lavagna: 3 agosto 2091, la data scritta con il pennarello nero e sottolineata due volte in rosso. Qual era il modo migliore per sapere la storia di quella notte? Semplice: farsela raccontare dalla persona che l’aveva vissuta.
Lo chiamai di nuovo e, senza nemmeno aspettare una sua risposta, dissi: “Stanotte, alle tre. Sul tetto della scuola”. Riattaccai immediatamente. Non avevo il coraggio di sentire di nuovo la sua voce.
Mi alzai dal letto e diedi un’occhiata ai vestiti che avevo messo nella cesta e che l’indomani mattina sarebbero passati a prendere per lavarli. Raccolsi una maglietta grigia e la nascosi sotto il cuscino. Ripresi in mano il cellulare e cancellai ogni traccia della conversazione avuta con Stiles.

 

 


La luna era piena e illuminava il cielo insieme al fuoco. Le fiamme diventavano sempre più alte. Cercai di parlare ma ero intossicato dal fumo e un fiotto di sangue mi uscì dalla bocca dopo un colpo di tosse. Guardai l’ombra coprire la luna, stagliarsi sopra di me e fissarmi con i suoi occhi gialli. Poi si avvicinò alla macchina ribaltata e in fiamme. Tentai di nuovo di dire qualcosa. La vidi abbassarsi per guardare all’interno dell’auto e sporgersi per fare qualcosa. “Non osare farlo!” urlò una persona. L’ombra sussultò, portò una mano dietro la testa e spiccò un balzo. Attraversò le fiamme e sparì nel buio. Uno sconosciuto si inginocchiò al mio fianco e mi tenne la mano mentre chiamava i soccorsi. Guardai la macchina continuare a bruciare. 6 QGM 387, fu l’unica cosa che riuscii a leggere. Cercai di chiedere aiuto. In quella vettura c’erano altre tre persone. Dovevano tirarle fuori. Sentii una lacrima scivolare via da un occhio, percorrere la tempia e incastrarsi tra i capelli. Guardai di nuovo il cielo con gli occhi offuscati, mentre sentivo le prime sirene avvicinarsi. La luna era piena. Così bella e letale.

 

 


La notte arrivò troppo alla svelta. Più volte ero stato tentato di rinunciare ma alla fine radunai tutto il mio coraggio e uscii dalla stanza con le chiavi del motorino in una mano e la maglietta grigia in un’altra. Incontrai solo una persona a quell’ora, ma non fece domande. Non era insolito vedermi uscire nel pieno della notte, dopotutto ero pur sempre un lupo!
Arrivai alla Beacon Hills High School troppo presto. Mi arrampicai con facilità sul tetto e lui era già lì.
“Sei in ritardo” esordì immediatamente. I suoi occhi erano gialli per potermi vedere meglio al buio. La luna, quella notte, era sottile come un filo di lana.
“Sei tu ad essere in anticipo” borbottai.
Stiles sfilò il mio cellulare dai suoi jeans e mi mostrò l’ora: le 3:17. Ero in ritardo. Me lo lanciò e lo afferrai al volo. Restammo qualche minuto in silenzio e a debita distanza, poi fu lui a rompere il ghiaccio.
“Vedo che l’hai portata” spezzò la quiete indicando la maglietta che penzolava dalla mia mano.
“Che spirito di osservazione” risposi a disagio.
Stiles sorrise. “È la seconda volta che copi una mia battuta” mi rimproverò bonariamente. Fece un passo in avanti ma, quando vide i miei occhi diventare blu, si bloccò.
In quel momento nessuno sapeva dove fossi. Dubitavo che qualcuno mi stesse monitorando a quell’ora di notte quindi, se avessi provato di nuovo a staccargli la testa, l’AconiRAL non si sarebbe attivato. Mi ero risvegliato da due mesi e mezzo e avevo vissuto inconsapevolmente per tutto quel tempo con un’arma nel collo. Riusciva difficile fidarmi ancora del dottor Argent. Ma come potevo fidarmi di Stiles?
“Immagino che ti stia domandando per quale motivo hai accettato di incontrarmi” intuì il ragazzo continuando ad avvicinarsi un passo alla volta.
Era maledettamente bravo nel percepire le mie emozioni.
“So che sei giunto a qualche conclusione”.
Annuii guardando i suoi occhi gialli e luminosi. Gli stessi che avevo visto quella notte. “Oggi, durante i test, sono venuti tre sconosciuti a studiarmi” rivelai. “Il loro odore non mi è piaciuto”. Sapevo che mi avrebbe compreso. Forse era l’unico che poteva concepire il modo in cui mi ero sentito per tutto quel tempo.
“Agenti del governo?” chiese. “Vennero anche da me” fugò ogni mio dubbio.
Strinsi la maglietta tra le dita bucandola con gli artigli.
“Non sei stupido, Derek” disse ormai a due passi da me. “Avrai già dedotto la fine che farai una volta che mi avrai catturato”.
Sì, l’avevo capito. Sarei diventato un’arma nelle mani del governo e avrei dovuto fare qualsiasi cosa mi ordinassero (una missione suicida in Corea del Nord; infiltrarmi nell’MI6 di Londra; assassinare il Presidente americano). Sarei diventato uno schiavo al loro servizio e l’AconiRAL nel collo era la chiave per tenermi legato a loro per tutta la vita.
“Toglimelo” ringhiai.
Il cuore nel suo petto batté più forte. “Seguimi” mormorò solamente, lanciandosi giù dal tetto della scuola. Presi una breve rincorsa e lo imitai. Atterrammo davanti all’ingresso. Stiles forzò la serratura ed entrò. Lo seguii silenziosamente nel corridoio pieno di armadietti fino a quando svoltò in un’aula vuota. Facemmo entrambi una smorfia quando il tanfo di prodotti chimici ci avvolse.
Sfilò una sedia da sotto un banco. “Siediti” ordinò mentre lo vidi prendere degli attrezzi.
“Cosa sono?” chiesi diffidente.
“Questo serve ad incidere la pelle” rispose facendomi vedere una lama tagliente. “E questo serve per togliere il dispositivo” aggiunse indicando una pinzetta.
“Tutto qui?” chiesi confuso. “Posso farlo anche da solo” borbottai.
Lui mi fissò con un sopracciglio sollevato. “Prego, accomodati” disse annoiato mentre mi porgeva i due strumenti che teneva tra le dita.
Roteai gli occhi blu. Lydia mi aveva già detto che farlo da solo era impossibile. La ferita si richiudeva in pochi secondi e la precisione doveva essere millimetrica.
“E gli artigli a cosa ti servono?” domandai sarcastico.
Stiles fissò le proprie mani, sbuffò un piccolo ringhio e le guardò in mano modo, come se stesse ordinando alle granfie di ritirarsi con la forza del pensiero.
“A niente” borbottò prendendo uno straccio e squarciandolo a metà. “Sono usciti perché sono agitato”.
“Rassicurante” lo schernii annusando il suo odore di nervosismo.
“Ora ti vuoi sedere a cavallo della sedia e poggiare i gomiti sulla spalliera?” chiese quasi supplicandomi e invitandomi con un gesto plateale delle braccia. Gettai la maglietta grigia sul banco e vidi Stiles lanciarle un’occhiata. Era davvero un tipo strano. Mi sedetti a cavalcioni e feci come richiesto.
“Bravo. Ora mi servono i tuoi artigli” disse sardonico posizionandosi dietro di me e inspirando profondamente. Mi stava, per caso, annusando?
“Perché?” sbottai voltandomi a fissarlo.
Spalancò gli occhi gialli e mi sbuffò sonoramente in faccia. Fiutai il suo alito: emanava aroma di liquirizia.
Feci scattare gli artigli di entrambe le mani. “Solo gli indici”. Poggiai i gomiti sullo schienale e tenni gli indici sollevati in aria. Mi sentivo davvero stupido.
“Okay, ora praticherò un’incisione di circa nove centimetri” spiegò. “Tu puoi ringhiare, sbavare, dirmi parolacce, ma resta immobile”.
Annuii abbassando la testa e lasciando visibile il collo. Ero esposto. Vulnerabile. Fragile. Poteva uccidermi con facilità.
La lama perforò la mia pelle. Strinsi i denti e i canini cominciarono a crescere. Stiles gettò per terra il coltellino e mi afferrò i polsi portando le mie mani dietro la testa.
“Tieniti la ferita aperta” ordinò posizionandomi con cura gli artigli degli indici. Un breve ringhio mi scappò dalla gola mentre mi artigliavo la pelle, che sentivo chiudersi velocemente, per aprirla.
“Ancora un po’” mormorò Stiles. Stava diffondendo sempre più odore di agitazione. Era davvero in ansia all’idea di uccidermi.
Percepivo delle gocce di sangue scendermi dal collo e udii qualcos’altro in lontananza: battiti di cuori. Tanti battiti. Qualcuno stava per far irruzione nella scuola.
“L’ho preso” esultò Stiles alitandomi addosso.
Sarebbe stato fin troppo facile – in quel momento – girarmi, metterlo fuori combattimento e portarlo da quelle persone.
“Fatto. Puoi togliere gli artigli”.
Mi alzai dalla sedia, presi lo straccio che Stiles poco prima aveva disintegrato per sfogarsi e mi tamponai la ferita piena di sangue. Guardai il ragazzo che puliva l’AconiRAL con un pezzo di stoffa. Mi avvicinai e studiai il dispositivo: era una fiala piena di liquido viola.
“Distruggilo. Che aspetti?” lo esortai.
Stiles scosse la testa. “Anche così è pericoloso” disse osservando l’oggetto con curiosità quasi morbosa. Era talmente concentrato che non si era nemmeno accorto che delle perone erano entrate nella scuola e tra poco ci avrebbero scoperto.
“Cosa vuoi farci?” chiesi ancora indeciso su come agire.
“Loro non si fermeranno mai” mormorò. “So che sono qua fuori. Li ho sentiti” bisbigliò. I suoi occhi gialli si spensero, prese la maglietta che avevo portato e si sedette sulla sedia che avevo appena utilizzato.
“Vattene, Derek” disse stringendo in mano l’AconiRAL. “Resteresti intossicato e moriresti nel giro di novanta secondi”.
Intuendo la sua decisione mi piazzai davanti a lui. Non ero più indeciso. Sapevo quello che dovevo fare: la cosa più giusta. Certo, la scelta giusta non era la più facile e andava contro tutto quello in cui avevo creduto negli ultimi due anni ma, come si dice, solo gli stupidi non cambiano mai idea.
Sollevò gli occhi castani e guardò il blu dei miei. “Abbiamo all’incirca quaranta secondi. O distruggi l’AconiRAL uccidendo anche me, oppure ci lanciamo dalla finestra e scappiamo assieme” proposi.
Sorpresa, dubbi, speranza. Il mio naso fu sopraffatto da una valanga di sensazioni.
“Vuoi diventare un latitante per me?” mi chiese sbalordito. Allungai una mano con il palmo verso l’alto e mossi le dita un paio di volte.
“Venti secondi” dissi.
Stiles guardò la porta dell’aula. Udiva i passi delle persone e il rumore metallico delle loro armi che venivano caricate.
“Dieci” sussurrai. I suoi occhi ritornarono gialli e mi porse l’AconiRAL. Lo poggiai con attenzione sulla scrivania insieme al mio cellulare mentre la porta veniva aperta con un calcio.
Corremmo verso la finestra e le prime scariche di proiettili ci raggiunsero. Uno mi prese la spalla e Stiles venne colpito al braccio e alla schiena. Saltammo quasi contemporaneamente e frantumammo il vetro. Atterrai con malagrazia nel giardino della scuola e Stiles cadde al mio fianco ringhiando di dolore a causa del colpi subìti.
“Sto bene” ansimo ruggendo e voltandosi a pancia in su. Si era già trasformato per velocizzare il processo di guarigione.
Gli uomini si affacciarono e, prima che potessero riprendere a spararci, afferrai Stiles per un braccio e lo aiutai a sollevarsi. Per terra vidi i due proiettili che il suo corpo aveva espulso.
Una volta in piedi ricominciammo a correre. Avevo appena tradito Chris Argent.  Avevo appena sputato sul mio passato e sulla mia missione. Mi ero offerto volontario per farmi trasformare in un lupo mannaro per catturare Stiles e ora mi ritrovavo a scappare con lui.
Nel mezzo della riserva di Beacon cominciammo a rallentare. La ferita alla spalla si era appena rimarginata.
“Sei lento a guarire” mi fece notare divertito rallentando il passo e camminando.
“Però sono più forte di te” mi vantai.
Lui si bloccò. “Oh, no!” si lagnò pestando un piede per terra. “Ho perso la tua maglietta” cantilenò dispiaciuto.
“Ma posso sapere a cosa ti serve?” chiese sinceramente curioso.
“Per annusarla” rispose come se fosse ovvio e per niente morboso. Dovette percepire quello che stavo provando perché fece una smorfia e si allontanò infastidito a passo di marcia, mentre un verso per niente umano usciva dalla sua bocca.
“D’accordo, fermati. Puoi annusare questa” lo accontentai.
Stiles si voltò e mi raggiunse ad una velocità da lupo. I suoi occhi gialli rimasero fissi sulla mia maglietta nera, la percorsero interamente con lo sguardo e mi annusò a distanza di sicurezza.
Presi il bordo della maglietta e la sollevai per fargliela arrivare sotto il naso.
“Posso?” mi chiese tentando di celare l’entusiasmo, come se ne valesse della sua stessa vita.
“Sì, ma non renderlo più imbarazzante di quanto già non sia” borbottai cominciando a sentire un anomalo calore affluire alle guance.
“Sta’ zitto, devo concentrarmi. Non so se me lo ricordo ancora” sussurrò quasi rapito. Posò una mano sulla mia, che ancora stringeva il bordo della maglietta, senza nemmeno accorgersene e si avvicinò. Lo scrutai con gli occhi blu e lo vidi socchiudere le palpebre e affondare il naso nel tessuto di cotone. Inspirò profondamente e…



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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5


Stiles cadde all’indietro. Un attimo prima mi stava annusando la maglietta e quello dopo era per terra. Fu un movimento talmente veloce che mi spaventai e non riuscii a farlo restare in equilibrio. Lo sentii emettere un verso di dolore quando l’osso sacro sbatté su una radice sporgente.
Che cosa era appena accaduto? Sembrava così in ansia all’idea di annusarmi e adesso era così triste e spaventato da quello che aveva sentito.
“Stai bene?” chiesi stralunato abbassandomi un po’ per arrivare alla sua altezza e aiutarlo.
Stiles, puntellandosi sui talloni e sui gomiti, indietreggiò. Udii il fruscio delle foglie e alcuni rami che si spezzarono sotto il suo peso.
Il mio odore doveva essere molto particolare se aveva avuto quella reazione. Il suo cuore batteva forsennato e stava cominciando a respirare affannosamente: un attacco di panico.
Mi inginocchiai al suo fianco e lo vidi portarsi una mano al petto. “Ehi, ascolta. Respira” dissi stupidamente.
Lui mi fissò in malo modo annaspando alla ricerca d’aria e scommetto che se non fosse stato tanto disperato mi avrebbe riso in faccia per la mia uscita sciocca.
“Sei un licantropo” esclamai. “Non puoi farti sottomettere da un attacco di panico” aggiunsi tentando di risollevargli il morale. Lo issai prendendolo da sotto le ascelle e appoggiai la sua schiena al mio petto per tenerlo sollevato e farlo respirare meglio.
I suoi occhi gialli brillarono nel buio del bosco. Giusto: i suoi occhi erano gialli perché era difettoso, se fosse stato perfetto li avrebbe avuti blu, come i miei, e probabilmente non avrebbe sofferto di questi sintomi non da lupo.
Dovevo fare qualcosa. Era completamente trasformato sotto i miei occhi eppure non mi era mai sembrato più umano.
“Stiles” lo chiamai per nome per la prima volta e lo vidi spalancare gli occhi per la sorpresa. “Fa’ come faccio io” ordinai.
Lui continuò a guardarmi artigliandosi la felpa e bucandola con gli unghioni.
“Inspira” dissi inalando dal naso e osservandolo imitarmi. Tenne a fatica l’aria nel polmoni. “Espira” buttai fuori dalla bocca e lui fece altrettanto. Ripetemmo quel gesto quasi trenta volte prima che il battito del suo cuore tornò alla normalità. Lo vidi riprendere le fattezze da umano.
Si sdraiò per terra, con gambe e braccia spalancate, e restò a fissare il cielo coperto qua e là dai rami degli alberi. Mi sedetti, con un braccio sopra un ginocchio, e lo fissai insistentemente in attesa di una spiegazione.
Si asciugò il sudore con le mani sporche di terra, poi si tirò su a sedere davanti a me. “Perdonami” si scusò non trovando il coraggio di guardarmi in faccia. L’odore della tristezza stava lasciando il posto all’imbarazzo.
Lasciai che si prese il suo tempo, sapevo che prima o poi avrebbe cominciato a parlare senza che ci fosse bisogno di fargli alcuna domanda. Era latitante da più di due anni ed ero la prima persona al mondo ad avere intenzione di ascoltarlo.
“Hai un odore così simile al suo” disse abbracciandosi le ginocchia. Poggiò una guancia su di esse e mi contemplò e il suo sguardo mi sembrò così indifeso.
“Al suo?” domandai confuso. Forse avevo una fragranza che assomigliava a quella di una persona che aveva conosciuto.
“Talia” rivelò infine.


Conosceva mia madre?


Esalai un sospiro tremulo e cercai di controllare i segnali chimici che il mio corpo, di lì a poco, avrebbe emanato. Fu tutto inutile perché l’espressione sul viso di Stiles mutò rapidamente.
Si alzò velocemente in piedi e si spolverò i jeans. “Scusa” borbottò incamminandosi nella radura. “Nessuno dei due è pronto per questa conversazione” decretò lasciandomi lì a fissare il vuoto.
Adesso ero io che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a respirare meglio.
“Derek?” mi chiamò già allontanatosi di una decina di metri. Si riavvicinò con cautela, allungò una mano e cercò di poggiarmela sulla spalla per darmi un po’ di conforto ma fui più veloce: gliela afferrai e la strinsi talmente forte da rompergli un paio di dita. Sentii lo schiocco delle ossa e il suo ringhio di dolore.
Mi alzai in piedi continuando a stringergli la mano, percependo le dita guarire e mi venne voglia di spezzargliele un’altra volta. Lo sovrastai in tutta la mia altezza e, non per la prima volta, mi accorsi di quanto fosse piccolo se paragonato a me.
Lui non fece niente per liberarsi. Mi guardò e, mentre mi trasformavo, infilai gli artigli nella carne bianca che divenne subito rossa per via del sangue. Mi fissò colpevole e delle lacrime cominciarono a rigargli le guance. Non aveva alcun diritto di piangere la sua morte. Lui l’aveva uccisa. Le aveva uccise tutte e tre.
“Come conosci il suo nome?” ringhiai.
Chiuse gli occhi e li strinse, continuando a piangere.
“Parla!” urlai e la voce rimbombò tra gli alberi facendo bubolare qualche gufo spaventato.
“Quello che ho fatto è imperdonabile ma non volevo, ti giuro che non volevo” singhiozzò. Percepii il suo corpo tremare a causa del pianto.
“Le tue scuse non le riporteranno indietro” grugnii. “Come la conoscevi?” chiesi di nuovo.
“Lavorava lì” rispose non cercando nemmeno di liberarsi dalla mia presa.
“Lì dove?” domandai sempre più arrabbiato.
Stiles spalancò gli occhi e mi guardò con sorpresa. “Lì. Alla Corporazione. Lavorava per mio padre” rivelò.
Scossi la testa, sconvolto. Non era possibile. Ascoltai il battito del suo cuore: era spaventato ma regolare. Non stava mentendo.
Che ci faceva mia madre alla Stilinski Corporation e perché non ne aveva mai parlato a nessuno?

 

 


“Mamma, dove ci porti?” chiese Cora allacciandosi la cintura. Io mi voltai a fissare mia sorella minore e le feci una smorfia per farla ridere. “Ve l’ho detto: andiamo in vacanza” rispose lei girando le chiavi nel quadro e partendo. “Devi essere davvero importante per la clinica se ti permettono di prendere vacanze da un giorno all’altro” osservò Laura accendendo la radio per rallegrare l’atmosfera con la musica. “È estate. Voglio passare un po’ di tempo con i miei figli” esclamò lei stringendo il volante con forza. “Non è che sta succedendo qualcosa e non vuoi dircelo?” chiesi dubbioso. "Insomma, è quasi mezzanotte, potevamo aspettare la mattina prima di partire” aggiunsi. Tutti e tre la guardammo mentre lei ricambiò la mia occhiata dal retrovisore. Dopo pochi minuti eravamo in tangenziale, la musica venne interrotta per lasciare spazio ad una notizia locale dell’ultima ora: un incidente nell’azienda multimiliardaria della città. Dopo pochi secondi, mentre Laura era impegnata a cercare una stazione radio decente e Cora aveva la testa fuori dal finestrino per guardare l’elicottero che sfrecciava sopra di noi, l’ombra comparve in mezzo alla carreggiata. “Mamma!” urlò Laura spaventata. “Stiles!” gridò invece mia madre sterzando il volante.

 

 


Aveva detto il suo nome prima di morire, ora lo ricordavo chiaramente. Stiles. Lo aveva urlato a squarciagola ed era stata l’ultima persona a cui aveva pensato quando l’airbag non era esploso, né il suo né quello di Laura. Un difetto della macchina, così mi era stato detto. I suoi occhi gialli, inumani e spaventosi, erano stati l’ultima cosa che aveva guardato.
Mia madre conosceva Stiles. Mia madre aveva mentito. Eravamo tutti convinti che lavorasse in una clinica veterinaria ed invece era segretamente implicata in uno degli esperimenti più costosi e famosi a livello internazionale. Tutto il mondo conosceva il lavoro di Noah Stilinski sulla licantropia e mia madre ne aveva fatto parte.
Quella notte… Le valigie preparate in fretta, l’agitazione, il suo modo brusco di risponderci. Tutti i tasselli si stavano incastrando: non stavamo partendo per una vacanza, stavamo fuggendo. Forse sapeva che Stiles aveva intenzione di ucciderla e si era data alla macchia, era stata minacciata da qualcuno o forse era semplicemente una persona che sapeva troppo e doveva essere eliminata. Quante congetture, quante ipotesi. Ma qual era la verità?
Stiles, in tutto questo, trasudava dispiacere, senso di colpa e una sensazione di perdita che non riuscivo a spiegare.
Afferrai il ragazzo per la gola e affondai gli artigli nella carne di pochi millimetri. Stiles spalancò la bocca, alla ricerca d’aria. Era veloce a guarire, ma cosa sarebbe successo se gli avessi spezzato l’osso del collo? Forse sarebbe lo stesso riuscito a curarsi. Era meglio strappargli il cuore dal petto e stritolarlo tra le dita, avrei così concluso la mia missione: quello che mi ero prefissato di fare quando avevo firmato i documenti che acconsentivano alla sperimentazione.
Strinsi più forte la gola. La mia mano era grande attorno ad essa. Gli occhi di Stiles smisero di brillare. Guardò il blu dei miei con il castano naturale dei suoi. Con il poco fiato che aveva trovò la forza di dire un’altra frase: “io le volevo bene”.
Lo lasciai andare come se mi fossi scottato. Lui indietreggiò fino ad appoggiarsi con la schiena al tronco di un albero, si massaggiò la gola arrossata che guarì rapidamente.
“Le volevi bene?” ripetei oltraggiato. “L’hai ammazzata!” urlai conficcandomi gli artigli nei palmi.
Lui incassò, stringendosi nelle spalle e lasciandosi sopraffare da altri singhiozzi. “Non volevo” bisbigliò.
“Cosa?” domandai anche se lo avevo udito benissimo. Come si poteva uccidere tre persone senza volerlo?
“Non ricordo quello che successe. C’era la luna piena, non riuscivo a controllarmi” spiegò cercando inutilmente di giustificarsi.
“Questo è tutto quello che hai da dire?” chiesi pronto a riaggredirlo.
Scosse la testa. “La stavo cercando” disse guardandosi le scarpe. “Sì, mi pare di ricordare che avessi bisogno di lei”.
“Per quale motivo tu, dopo aver ammazzato tuo padre, saresti andato a cercare mia madre?” cercai di farlo confessare. Volevo che mi dicesse che volontariamente aveva fatto cappottare la nostra auto per ucciderla.
“Era mia amica” rispose spiazzandomi. “Una delle poche che mi vedeva per com’ero davvero” disse indicandosi il petto all’altezza del cuore.
“Mia madre era una veterinaria. Per quale motivo lavorava lì?” domandai cominciando a riprendere le sembianze umane.
“Era la mia veterinaria. Mio padre l’assunse due settimane dopo che uscii dall’incubatrice” replicò.
Mi passai una mano sulla fronte e strinsi le tempie. Sollevai lo sguardo al cielo che si stava schiarendo per lasciare spazio al nuovo giorno. Mi avvicinai a lui, con il solo intento di tirargli un pugno.
“È accaduto qualcosa” riprese dopo diversi secondi di silenzio.
Mi fermai a due passi da lui, che ancora non osava ricambiare il mio sguardo.
“Io le dissi di scappare” esclamò colto da un’illuminazione. Si aggrappò con le mani alle mie braccia e mi scosse guardandomi dritto in faccia con gli occhi spalancati per l’incredulità. “Avevamo scoperto… No, lei aveva scoperto qualcosa” si corresse affondando gli artigli nei miei bicipiti e distruggendomi ancora di più la giacca di pelle.
Non mi accorsi neanche del dolore, troppo preso dalla verità che stava pian piano venendo a galla. “Cosa?” lo esortai a rispondermi.
Si morsicò il labbro inferiore e strinse gli occhi cercando di concentrarsi sui suoi ricordi. “Qualcosa di brutto”.
Fin lì c’ero arrivato anche da solo. Dovevo sapere per quale motivo la mia famiglia era morta. “Stiles” lo chiamai.
Mi guardò con gli occhi lucidi e pieni d’affetto per Talia.
“Ti prego” supplicai sentendo il suo cuore battere agitato che si mischiava al canto dei merli che cominciava a riempire la radura.
“Mi aveva detto che mio padre aveva fatto qualcosa e quindi non eravamo più al sicuro”.
Inspirai rumorosamente cercando di mantenere la calma e percepii di nuovo quell’aroma di liquirizia che mi aleggiava attorno dal giorno in cui ero uscito dall’incubatrice.
“Le dissi di scappare. Di portare con sé la sua famiglia” continuò.
Per la prima volta dopo tanto tempo i miei occhi divennero lucidi. Li sentii pizzicare fastidiosamente e ritornare verde naturale. Stiles mi guardò percependo la mia sofferenza a livelli elevati a causa della natura mannara.
“Lei aveva paura per me” disse con la voce rotta dall’ennesimo singhiozzo. “E io, per rassicurarla, le promisi che l’avrei raggiunta”.
Abbassò di nuovo la testa quando mi vide piangere. Non feci in tempo ad asciugarmi le lacrime che altre due caddero contemporaneamente dai miei occhi.
“Credo che andò così” mormorò. “Non ricordo più. Era notte, ero fuori controllo. La luna…” disse parole a caso, cercando di riordinare i ricordi.
“Aveva paura di me” si corresse. “Non per me. Di me”. Lo vidi socchiudere le palpebre e concentrarsi ancora un po’. “La obbligai ad andarsene. Ero trasformato, la luna era piena e il lupo mi stava dominando”.
Non sapevo più a cosa credere, prima diceva una cosa e l’attimo dopo la modificava. Gli occhi gli si illuminarono di giallo per un istante prima di ritornare normali. Il suo odore impazzì invadendomi le narici. “Ho ucciso mio padre a causa di quello che lei aveva scoperto” confessò.
“Cos’aveva scoperto?” chiesi afferrandolo per le spalle. “Stiles, cosa scoprì mia madre?”. Dispiaciuto, scosse la testa. Non se lo ricordava.
Le mie teorie erano sensate. A Stiles, quella notte, era successo qualcosa di orribile che gli aveva fatto perdere il controllo sulla parte umana. Tutto riguardava Noah, suo padre, e Talia, mia madre.
“Basta, per oggi” conclusi. Stiles aveva davvero bisogno di riposare. Delle occhiaie scure erano presenti sul suo volto ed emanava fatica e stanchezza.
Lui annuì, pieno di gratitudine. La conversazione era lungi dall’essersi conclusa ma potevo assorbire quelle notizie un po’ per volta.
Chris Argent non mi aveva mai detto che mia madre lavorava per la Stilinski Corporation quando morì.
Stiles barcollò davanti a me. Non lo aiutai. Continuai a seguirlo in quella radura per altri sei chilometri fino a che raggiungemmo una casa, proprio nel centro del bosco. Era incompleta e mezza diroccata ma era sicura e, per il momento, bastava così. Entrammo in casa e l’odore di Stiles mi avvolse, il vero odore. Non quello impregnato di tristezza e che sapeva di cane bagnato. Odore di sapone e sicurezza, di solitudine e liquirizia. Viveva da più di due anni senza la compagnia di nessuno.
Si tolse le scarpe e, una volta arrivato in salotto, si lasciò cadere sul divano con un grugnito da lupo.
“Posso fare come se fossi a casa mia?” chiesi retorico. Lui mugugnò una frase incomprensibile.
Girovagai ritrovandomi in cucina. Stetti seduto sulla sedia a riflettere per un po’ su tutto quello che avevo scoperto, poi preparai la colazione. Era pieno di cibo. Le mensole straripavano e mi ricordai dei furti che compiva nei negozi di alimentari e di abbigliamento. Stavo per mangiare cibo rubato in un supermercato. Pazienza, avrei convissuto anche con quel fardello. L’aria si riempì di profumo di cibo ma Stiles non si svegliò. Con un piatto in una mano e una forchetta nell’altra ripresi a gironzolare per casa.
L’arredamento era scarno e c’erano libri sparsi ovunque, alcuni più impolverati di altri, molti con le pagine consumate come se fossero stati letti centinaia di volte. Era un grande lettore.
Notai che non aveva la tv ma aveva un computer e una quantità insormontabile di DVD. Sollevai il monitor per cercare informazioni su di noi ma scoprii che non aveva nessun accesso a internet.
Sbuffai e mi diressi verso un’altra stanza: il bagno. Ne approfittai per lavarmi velocemente e togliermi tutta la terra che avevo addosso. Non aveva l’acqua calda ma tanto quella era una delle cose di cui non avevamo bisogno. La nostra temperatura corporea era talmente elevata che di rado sentivamo freddo.
Arrivato all’ultima stanza aprii la porta e mi ritrovai nella sua camera. Una scrivania, un armadio, una chitarra appoggiata al muro e un letto e, al centro di esso, il peluche koala che avevo utilizzato per cercare di catturarlo. Sorrisi a quel ricordo. Ero stato proprio un idiota: minacciare di decapitare un pupazzo per indebolire Stiles.
L’armadio, come previsto, era stracolmo di vestiti. Sulla scrivania c’era un foglio con scritto un indirizzo e un numero di telefono.
Nessun poster, nessuna foto, nessun oggetto che facesse pensare che quella fosse veramente la camera di un diciottenne. Solo quel koala.
Uscii dalla stanza chiudendomi la porta alle spalle e annusai. Di nuovo liquirizia. Era più forte stavolta. Continuai a fiutare come un cane e seguii quell’odore che mi portò davanti ad una porta a muro. Cercai il pulsante per aprirla e, una volta che vidi la porta scorrere davanti ai miei occhi, la zaffata di liquirizia mi investì.
“Woah” mormorai quasi asfissiato. Scesi gli scalini davanti a me e mi ritrovai in una cantina buia e umida. Era vuota, eccetto che per tre catene conficcate nel muro, due nel pavimento e una mensola di ferro che conteneva diversi alimenti, tutti alla liquirizia. Caramelle, stecche, tisane.
Sbattei le palpebre numerose volte e fissai le catene inchiodate al muro. Ne presi una: era pesante e spessa, quasi impossibile da rompere. La cinghia, all’estremità, era di metallo e dentro c’erano degli spuntoni sporchi di sangue raggrumato. Non mi fu difficile riconoscere l’odore: era quello di Stiles.
“Non avresti dovuto vederlo”.
Sussultai al suono della sua voce e lasciai cadere la catena che si schiantò rumorosamente al pavimento.
“Cosa significa?” chiesi spaventato.
Fece brillare i suoi occhi di giallo e se li indicò con un dito. “Sono difettoso, ricordi?”.
“E quindi?”.
“Da quella notte, dopo quello che ho fatto, è stato impossibile controllarmi durante la luna piena” spiegò imbarazzato.
Lo sapevo. Era scritto nei fascicoli che avevo studiato. Dalla notte della fuga, ad ogni luna piena per circa dieci mesi, Stiles aveva causato diversi incidenti e poi, improvvisamente, aveva smesso e ora sapevo il motivo.
“Quindi tu, durante il plenilunio, ti incateni al muro?” domandai sconvolto.
Si strinse nelle spalle. “È l’unico modo per tenere la città al sicuro da me”.
“Ma è da pazzi” ribattei.
“Tu non sai come sono” mi aggredì lui alzando la voce. “Le cose che ho fatto… io non avevo il controllo. Non sono più umano in quelle notti e ho già fatto del male a troppe persone” si giustificò.
“Quindi la soluzione è incatenarsi come un cane? Come un animale rabbioso?” domandai incavolato. Non potevo credere che Stiles avesse una così bassa opinione di sé. Che fosse costretto a fare quella vita. Aveva già sofferto abbastanza.
“È ciò che sono” disse calmandosi, forse percependo anche il mio sconvolgimento. “Durante la luna piena non sono più Stiles. Sono LUPO-01, una bestia aggressiva e pericolosa”.
“E la liquirizia?” chiesi prendendo una manciata di caramelle nere e gettandogliela ai piedi.
“Ma Argent non ti ha spiegato niente?” domandò seccato chinandosi per raccoglierle. “La liquirizia ci calma. Indebolisce i nostri sensi e la forza, rendendoci più… docili” spiegò.
Forse era per quello che sentivo quell’odore anche alla Stilinski Corporation. Le persone si tenevano in tasca delle caramelle perché sapevano che avrebbero placato il lupo. Eppure, ora che ci pensavo bene, solo in compagnia di una persona sentivo quell’aroma: Scott. Quando c’era lui nei dintorni c’era anche il profumo di liquirizia.
Avrei già dovuto sapere quelle cose. Chris avrebbe dovuto raccontarmele prima che firmassi quei documenti. Mi avevano detto che la licantropia mi avrebbe reso invincibile, l’arma perfetta. Ma in poco tempo avevo scoperto che la luna piena mi rendeva più aggressivo, la liquirizia più mansueto e che una stupida pianta poteva uccidermi. Quali altre debolezze avevo di cui non ero ancora a conoscenza?
Fissai con tristezza le catene mentre Stiles mi si avvicinò. “So che se potessi torneresti indietro” sussurrò.
Aveva ragione. Se avessi saputo tutto quello di cui ero a conoscenza ora non avrei mai acconsentito all’esperimento. Con il senno di poi, c’erano tante cose che avrei potuto fare in quei due anni anziché sprecarli alla ricerca della vendetta.
“Ci sono anche degli aspetti positivi” disse, riferendosi alla nostra natura.
“Ad esempio? Farci odiare dal mondo intero?” supposi.
“Hai mai ululato alla luna?”.
Lo guardai. Mi stava sorridendo. Per la prima volta, da quando ero uscito dall’incubatrice, mi sentii bene. Non ero più accecato dalla vendetta. Non lo avevo di certo perdonato. Credo che non sarei mai riuscito a perdonarlo, ma ora sapevo una parte di verità. Quando avrebbe ricordato allora avrei saputo tutta la storia.
Infilai la mano in tasca. La foto di Stiles era ancora lì, ormai stropicciata talmente erano tante le volte in cui l’avevo stretta tra le dita.
“No, non ho mai ululato alla luna” risposi.
Stiles mi prese sottobraccio e mi riportò in casa. “Lo faremo insieme” promise.


 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6


Sollevai le palpebre e le sbattei diverse volte. Soffocai uno sbadiglio contro la mano, poi mi stropicciai gli occhi impastati dal sonno. Mi sollevai a sedere sul divano e, guardandomi attorno, mi resi conto di non essere più nella mia solita stanza alla Stilinski Corporation. Quella era la casa di colui che sarebbe dovuto essere il nemico numero uno, la nemesi per eccellenza.
Avevo dormito come non mi capitava da settimane: senza pensieri e senza sogni.
Mi stiracchiai e appoggiai i piedi nudi sul pavimento. Feci per alzarmi quando mi accorsi di non percepire nessun rumore, nessun battito del cuore. Stiles non era in casa.
Infilai le scarpe e uscii. La radura, al chiarore del giorno, era straordinariamente bella. Inspirai l’odore di foglie e della natura, odori che non avevo mai sentito in città. Vidi uno scoiattolo rincorrerne un altro e un picchio bucare il tronco di un albero rumorosamente.
Mi incamminai quando fiutai la solita liquirizia. Dopo pochi minuti di cammino riconobbi il profumo di Stiles e il battito forte del suo cuore da licantropo.
“Stiles?” lo chiamai con la voce roca dal sonno.
Lui si mise l’indice davanti alla bocca, esortandomi a fare silenzio. Era inginocchiato per terra e aspettava impazientemente qualcosa. Lo raggiunsi e restai in piedi al suo fianco. Passò solo qualche secondo prima di sentire il rumore dei rami che si spezzavano. Vidi Stiles sorridere e mi inginocchiai accanto a lui. Allungò una mano e indicò un punto preciso. Aguzzai la vista ma non vidi niente. Stiles, a quel punto, mi circondò le spalle con un braccio e mi fece abbassare ancora di qualche centimetro per portarmi alla sua altezza.
Ci guardammo solo per un istante prima di riportare l’attenzione a quello che succedeva tra gli alberi e li vidi: una cerva e un cervo che camminavano uno di fianco all’altra. Erano la cosa più bella che avessi mai visto. Il rumore degli zoccoli sulle foglie rimbombava nel bosco.
Sorrisi anche io quando il cervo cominciò a bramire per richiamare la compagna. “È la stagione degli amori” delucidò Stiles a bassa voce. Poco tempo dopo altri tre cervi transitarono a pochi metri da noi.
“Passano da qui ogni giorno” disse sussurrando ancora più piano. “Tra un po’ di tempo arriveranno anche i piccoli”.
“Immagino che questo sia uno degli aspetti positivi di cui mi parlavi” dedussi risollevandomi.
Stiles, dal basso, mi scrutò e annuì.
Non volevo interrompere quel momento di serenità, perciò restai in silenzio ad ascoltare i cervi che si allontanavano. Stiles si rialzò in piedi e spolverò la terra dalle ginocchia.
C’era una cosa che non capivo: parlava di ululare alla luna, si emozionava guardando gli animali nel bosco, si incatenava ad un muro per proteggere la città, eppure ogni qual volta compiva un furto nei vari negozi finiva sempre per ferire qualcuno. Perché lo faceva? Quando ancora non lo conoscevo pensavo che lo facesse perché si divertiva ma ora che sapevo qualcosa di lui avevo capito che non era così.
“Torniamo dentro?” chiesi spezzando la quiete.
Lui non rispose. Mi sorpassò e si diresse verso casa.
Lo raggiunsi a passo felpato e lo affiancai. ”Quindi è questo quello che fai tutto il giorno: spii gli animali” lo derisi bonariamente.
Sbuffò una risata. “Leggo, corro, cucino e suono”.
Mi ricordai della chitarra che avevo visto in camera sua. “Corri nel bosco insieme ad altri lupi?” domandai.
“In California non ci sono lupi da più di cento anni” rispose saccente. “A parte noi, ovviamente”.
“Ovviamente” ripetei roteando gli occhi.
“Però, una volta, ho incontrato un leone di montagna” disse esaltandosi.
“E cioè un puma?” chiarii meravigliato vedendolo annuire. “E cosa hai fatto?”.
“L’ho azzannato alla giugulare e l’ho mangiato” disse con una scrollata di spalle.
Lo guardai schifato, poi ascoltai il battito del suo cuore. “Mi stai prendendo in giro” capii.
“Sì, stupido. Sono scappato” replicò con sarcasmo. Abbassò la testa per nascondermi un sorriso.
Rientrammo in casa più sereni di come ci eravamo arrivati all’alba. Nessuno dei due disse più una parola. Vidi Stiles prendere un libro e sedersi sul divano, controvoglia feci lo stesso afferrando il primo romanzo che mi capitò sottomano e sedendomi sulla poltrona. Si alzò uno sbuffo di polvere, segno che Stiles non era molto attento alle pulizie e che non la utilizzava mai per sedersi.
Il ragazzo tirò fuori dalla tasca della felpa una stecca alla liquirizia, la scartò e mise in bocca un’estremità cominciando a succhiarla.
Feci una smorfia al forte aroma che esplose nel salotto. “Devi proprio?” domandai irritato.
Stiles si tolse la stecca dalla bocca e soffiò nella mia direzione. Riuscii ad annusare il suo alito anche a quella distanza. Sventolai una mano davanti alla faccia per far disperdere l’odore.
Lui cominciò a ridacchiare. “Guarda la finestra” consigliò.
Lo feci e vidi il mio riflesso attraverso il vetro: avevo gli occhi blu. Li chiusi e li riaprii un paio di volte prima che ritornassero normali. “Come hai fatto?” chiesi. Quel ragazzino non finiva mai di stupirmi. I miei occhi avevano cambiato colore senza che me ne accorgessi.
“Trucchi del mestiere” rispose stringendosi nelle spalle.
Già. Troppo spesso dimenticavo che Stiles era un lupo mannaro da più di tre anni e io solo da pochi mesi. Erano tante le cose che non sapevo sulle mie abilità. Forse nemmeno Chris era al corrente di cosa potessi fare, per questo ogni settimana mi sottoponeva a tutti quei test.
“Ci sono altre cose che vuoi farmi vedere?” domandai poggiando il libro, che non avevo nemmeno aperto, sul bracciolo della poltrona.
Stiles emanò imbarazzo e arrossì. Solo in quel momento mi accorsi che la mia domanda poteva avere anche un doppio senso, feci per dire qualcos’altro ma lui parlò prima di me: “un mago non rivela mai i propri trucchi”.
“Andiamo, non è che stai in compagnia di licantropi tutti i giorni” cercai di blandirlo. “Non sei impaziente di condividere qualcosa?”.
Stiles chiuse il libro e mi fissò. “Vuoi davvero sapere quello che possiamo fare?” domandò alzandosi.
Annuii con entusiasmo osservando Stiles andare nella sua camera. Lo sentii cambiarsi i vestiti, sussultai quando tornò in salotto.
Mi scrutò preoccupato. “Stai bene?”.
Strinsi le labbra ricambiando il suo sguardo e poi feci correre gli occhi su tutto il suo corpo. Si era messo addosso una felpa rossa. Era molto simile a quella che aveva nella foto che tenevo sempre in tasca, in cui continuavo a chiedermi chi stesse guardando con così tanta devozione.

 

Ritornammo in città. Saltavamo da un tetto all’altro per non farci vedere. Ormai le nostre facce erano su ogni telegiornale, tutti sapevano chi fossimo. Ci fermammo sul tetto di un edificio e Stiles si avvicinò ad una porta con la serratura già scassinata. Ma dove mi stava portando?
Scendemmo le scale e Stiles si infilò furtivamente in una stanza. Lo seguii con sospetto annusando l’odore di disinfettante al limone, medicine e prodotti chimici. Mi aveva portato in un ospedale. Mi lanciò un camice bianco, che indossai sopra la giacca di pelle bucata in più punti, e una mascherina per nascondermi il volto e non farmi riconoscere. Mi coprii naso e bocca guardando il ragazzo fare lo stesso.
Con un cenno della testa mi fece capire di continuare a seguirlo. Non avevo idea di cosa venisse a fare Stiles in un ospedale, né cosa tutto quello aveva a che fare sul rivelarmi i segreti della licantropia.
Attraversammo il corridoio, senza attirare fortunatamente l’attenzione di nessuno, ed entrammo in una stanza. Stiles si abbassò la mascherina e si toccò il naso con un dito. Mi stava dicendo di annusare. Lo feci e il mio naso inalò un tanfo che non avevo mai sentito, era la cosa più disgustosa che avessi mai odorato in vita mia e mi venne quasi un urto di vomito.
Mi rimisi la mascherina per proteggermi. “Cos’è?” domandai sottovoce con la voce ovattata.
Stiles si avvicinò ad un letto su cui stava dormendo un signore anziano. “Sta morendo” rispose.
Quello era il fetore della morte? Era questo l’odore di una persona che stava per passare dall’altra parte?
“Vuoi sapere che altro sappiamo fare?” chiese mentre il vecchio paziente sollevava le palpebre e ci guardava. Sollevò le sopracciglia quando riconobbe Stiles e si sforzò di fare un sorriso senza riuscirci.
Stiles mi prese la mano e sobbalzai a quel contatto, me la sollevò e la poggiò sul braccio raggrinzito dell’uomo. Aveva la pelle congelata e piena di macchie.
Si alzò sulle punte dei piedi e avvicinò la bocca al mio orecchio. “Concentrati” sussurrò.
Lo guardai. Non comprendevo quello che volesse farmi fare. Aggrottai le sopracciglia continuando a fissarlo confuso.
Stiles abbassò gli occhi e sorrise. Osservai le vene della mia mano diventare nere e un dolore bruciante mi percorse tutto il braccio fino ad arrivare al petto. Gemetti e guardai l’espressione di puro sollievo prendere vita sul volto dell’anziano signore.
Riuscii a resistere solo pochi secondi, prima di staccare la mano e massaggiarmela. Fissai Stiles sconvolto mentre ripeteva tutto quello che avevo fatto io. Le vene della sua mano diventarono nere e cominciò ad emanare odore di sofferenza. Il suo volto, però, rimase impassibile.
Il vecchio si riaddormentò serenamente.
“Cos’ho fatto?” chiesi osservandomi la mano.
“Hai assorbito il suo dolore” rispose. Vidi le vene del suo collo scurirsi e ritornare normali. “Non tutto, solo un po’. L’hai reso sopportabile”.
Mi portai la mano, ancora dolorante, al petto. “È questo quello che fai?” domandai sconvolto. “Stai negli ospedali ad assorbire il dolore della gente?”.
Stiles si strinse nelle spalle. Quello che avevo letto su di lui… possibile che fosse tutto falso? Nei fascicoli che mi aveva dato il dottor Argent c’era scritto che Stiles, nei suoi attacchi, finiva sempre con l’aggredire qualcuno. Ora che lo conoscevo non mi sembrava proprio il tipo da fare una cosa del genere. Ma tutti i video che avevo visto, tutti gli articoli di giornali letti… erano stati tutta una menzogna architettata da Chris per farmelo odiare ancora di più?
“Non eri tu” mormorai.
“A fare cosa?” chiese fermandosi davanti alla porta.
“Non hai ferito tutte quelle persone in questi ultimi mesi” dedussi.
“L’ho fatto durante la luna piena” rispose appoggiandosi alla porta con la schiena. “Ma nell’ultimo anno non ho più ferito nessuno. Ho però rubato quello che mi serviva per sopravvivere: cibo e vestiti”.
Erano tutte bugie. Non c’era niente di vero. Tutto inventato da Argent.
Era per quello che Stiles aveva un odore così sgradevole: sprigionava tutto il dolore e la sofferenza che assorbiva a quelle persone.
Senza pensarci due volte gli presi entrambe le mani. Lui sussultò a quel tocco e spalancò gli occhi e la bocca, guardandomi prima con paura poi con comprensione. Percepii il suo dolore entrare nel mio corpo. Un po’ di quel dolore che aveva assorbito in tutti quei mesi entrò dentro di me, liberandolo di un peso.
I suoi occhi divennero giallo oro e brillarono a causa delle lacrime di sollievo.
Sottrassi un po’ del suo dolore e mi sembrò talmente tanto che quasi ringhiai. Stiles conviveva con quella sofferenza da tantissimo tempo e mi stupivo di come non lo avesse ancora consumato. Lasciai andare velocemente le sue mani e sibilai a causa di tutto il patimento che mi stava attraversando annerendo le mie vene.
Stiles respirò affannosamente sentendosi liberato di un peso e i suoi occhi, con lentezza, diventarono color miele quando si mescolarono all’oro, poi tornarono castani. Mi guardò intensamente, con gratitudine ed emanando gioia.
Quello era forse il primo gesto gentile che qualcuno aveva fatto per lui in più di due anni. Gli abitanti di Beacon Hills lo vedevano come il mostro delle favole da cui mettere in guardia i bambini.
“Grazie” sussurrò appoggiandosi con la fronte contro il mio petto. Il suo odore era mutato.
Sorrisi da sotto la mascherina e restammo lì ancora qualche secondo. Quando uscimmo dalla stanza, senza farci notare, facemmo visita ad altre persone. Prendemmo il loro dolore fino a che non riuscimmo più a sopportarlo, poi tornammo nella casa nel bosco.
Eravamo stanchi, deboli e affaticati ma mi sentivo bene. Avevo fatto qualcosa di buono. Il volto di quelle persone sofferenti cambiava quando le toccavamo. Era una sensazione portentosa.

 

I giorni trascorsero. Scivolarono via velocemente come acqua contro la roccia. Il sole lasciava spazio alla luna che diventava sempre più grande ogni notte che passava.
Avevo cercato di far parlare Stiles, ma si ricordava veramente poco di quello che aveva fatto durante le notti di plenilunio. Il lupo prendeva il sopravvento fino a soffocare la parte umana. Avevo però avuto la conferma che molti degli attacchi descritti dai vari telegiornali erano notizie false e i video, probabilmente, modificati con l’aiuto di qualche programma.
Durante le rapine aveva ferito gravemente una sola persona e ne era talmente costernato da non riuscire neppure a raccontarmelo. Quello lo aveva colpito alla testa con una spranga di metallo talmente forte da farla piegare. Aveva cominciato ad insultarlo e, non contento, se l’era presa pure con sua madre. Gli aveva detto che sarebbe dovuta morire prima di partorirlo e l’aveva chiamata con epiteti volgari che non aveva alcuna intenzione di ripetere. Stiles non ci aveva visto più e, nonostante fosse giorno e la luna piena ancora lontana, gli aveva conficcato gli artigli nella pancia. Era quasi morto dissanguato.
Io gli raccontai di quello che fece durante il primo anno dopo la sua fuga. Gli dissi dello scuolabus, del treno deragliato. Lui mi ascoltava senza battere ciglio, vergognandosi di ciò che era. Quando gli raccontai del McDonald’s che aveva derubato quasi non ci credette. Un lupo mannaro con le voglie di McBacon… era esilarante.
Ridemmo talmente tanto da farci venire le lacrime agli occhi.
Ogni giorno che passava mi sentivo sempre meno arrabbiato e più rilassato in sua compagnia. Non era niente male se si pensava anche al fatto che non fosse mai andato a scuola e quindi non sapeva neppure interagire con qualcuno che avesse più o meno la sua età.
Era sempre stato circondato da persone adulte. Dubitavo che alla Stilinski Corporation ci fossero bambini presenti. Ero probabilmente la persona più giovane con cui avesse mai conversato e se la stava cavando egregiamente.
Passai una mano tra la barba, ricordandomi che la mia gioventù stava bruciando. Ripensavo troppe volte ai due anni sprecati per la mutazione e spesso me ne pentivo. Soprattutto perché mi ero fidato dell’uomo sbagliato: Chris Argent.
Stiles consumava sempre più liquirizia, segno che la luna piena si stesse avvicinando. Ogni tanto monitoravo il suo odore e lo stato d’animo sentendolo scostante e irascibile. Io non sentivo nessun cambiamento ma immaginavo fosse diverso per me che non avevo subìto nessun trauma durante il plenilunio e in piena trasformazione.
Percepii Stiles svegliarsi e aguzzai le orecchie. Lo udii sbuffare e soffiarsi il naso. Depositai sulla tavola i bicchieri per la colazione e mi diressi in camera sua. Mi appoggiai allo stipite della porta e lo osservai asciugarsi gli occhi con la stoffa della maglietta. Il peluche koala era sul bordo del letto e stava per cadere. Stiles lo afferrò e lo poggiò sul cuscino. Si mise a sedere e mi fissò con gli occhi ancora lucidi e il naso arrossato.
“Brutto sogno?” domandai.
Scosse la testa. “È stato un bel sogno” mi rassicurò.
“E perché piangi?” chiesi incrociando le braccia al petto.
“Perché mi sono svegliato”. Mi contemplò per secondi interminabili.
Aggrottai le sopracciglia pensando che volesse dirmi qualcosa ma non parlò. Continuò a guardarmi dritto negli occhi fino a mettermi a disagio, come se cercasse di scrutarmi nell’anima. Non potei fare altro che guardarlo a mia volta con altrettanta intensità, perché anche volendo non sarei riuscito ad interrompere quel gioco di sguardi. Fortunatamente ci pensò lui.
“Hai i suoi occhi” mormorò con un sorriso.
Capii subito di chi parlasse. Gli occhi verdi appartenevano al lato materno della famiglia. Io cercavo sempre di fargli ricordare la notte dell’incidente ma non gli avevo mai chiesto quale fosse il tipo di rapporto che li legasse. Lui l’aveva definita come un’amica ma in realtà non sapevo assolutamente nulla e non ero nemmeno sicuro di voler ricordare mia madre attraverso di lui, farla rivivere dal suo punto di vista.
Non sapevo nemmeno che lavorasse per la Corporazione e non volevo certo cambiare l’opinione che avevo di lei. La consideravo una donna responsabile, leale. Una madre dolce e premurosa che si era fatta in quattro per la famiglia e avevo paura di scoprire che sul lavoro fosse un’altra persona, qualcuno che non mi sarebbe piaciuto.
“Parlava sempre di te” rievocò Stiles. Allungò una mano sul materasso e ci picchiettò sopra due volte per esortarmi a sedermi lì con lui. Titubante, lo feci e mi accomodai in mezzo al letto con le gambe incrociate.
“Era così bello sentirla parlare. Io so tutto di te. Mi ha raccontato ogni cosa”.
Poggiai i gomiti sulle ginocchia e mi torturai le mani, ansioso e spaventato.
Stiles si appoggiò alla testiera del letto, con il pupazzo tra le gambe. Prese a torturargli le orecchie qualche secondo poi ricominciò a parlare: “mi disse della tua nascita tragicomica. Saresti dovuto nascere con parto cesareo il 5 di aprile ma il primo tua madre entrò in travaglio. Le si ruppero le acque mentre era sola in casa”.
Sollevai gli occhi al soffitto. Quella era una storia che veniva raccontata spesso dalla mia famiglia, era il classico aneddoto divertente da raccontare durante le cene con gli amici.
“Chiamò tuo padre al telefono e gli disse che stavi per nascere. Lui non ci credette. Pensava che fosse un pesce d’aprile” proseguì ridacchiando.
Risi anche io. Stiles stava narrando una storia che apparteneva alla famiglia Hale e che non avrebbe dovuto conoscere nessun altro.
“Mi ha raccontato di come l’hai aiutata a crescere Cora. Tuo padre morì pochi mesi prima, a causa del cancro, e lei doveva lavorare e pagare gli studi di tua sorella maggiore. Si sentiva così in colpa” mormorò melanconico.
Aggrottai le sopracciglia. Sapevo che non le piaceva chiedermi di saltare la scuola per badare a Cora ma io le avevo sempre detto che non avrebbe mai dovuto preoccuparsi, che lo facevo volentieri. Quando mi chiedeva di rinunciare ad un’uscita con gli amici perché alla clinica veterinaria era arrivata un’emergenza io lo facevo perché era giusto, perché lei si era presa cura di me e mi sembrava naturale ripagarla. Perché eravamo una famiglia e, con Laura lontana e Cora troppo piccola, dovevamo prenderci cura l’uno dell’altra.
“Eri il suo orgoglio. E io ho imparato a conoscerti tramite i suoi racconti” sussurrò. “Immaginavo come fossi: che aspetto avessi, come fosse la tua voce” disse concentrando la sua attenzione sul pupazzo di pezza. “Avevo quindici anni e sei stato il mio primo amico” confidò emanando imbarazzo. “Ti sentivo così vicino. Avrei dato qualsiasi cosa per far parte della tua famiglia, per vederti anche solo una volta”.
Il suo cuore batteva così forte che temevo di vederlo uscire dalla cassa toracica.
“Eri la mia sola compagnia. Tutto quello che bramavo erano gli incontri con Talia perché lei era l’unica che capiva quanto mi sentissi solo e quanto fosse diventato importante sentirla parlare di te” si giustificò. “Ti descriveva come il suo eroe e, come uno stupido, mi innamorai di te tramite lei” confessò infine.
Percepivo le sue emozioni: si sentiva patetico e inadeguato. Si stava pentendo di avermi confessato i suoi sentimenti. Non sapevo se lui riuscisse a sentire quello che provavo io o se era talmente agitato da non accorgersene.
“Sai qual è il vero problema?” sbottò di colpo.
Scossi la testa anche se non mi stava guardando.
“Il problema è che non ti conoscevo, eppure sapevo di amarti” disse guardandomi. “Ora ti conosco e non è cambiato niente”.
Si era innamorato di me tramite le parole che sentiva dire da mia madre. Lei mi descriveva come un angelo caduto dal cielo, come tutte le mamme vedono i propri figli.
Sorrisi, perché sapevo che mia madre era esattamente come la conoscevo e se mi aveva tenuto segreto il suo lavoro doveva avere delle buone motivazioni.
Sorrisi, perché Stiles aveva le guance più rosse di un pomodoro maturo e continuava ad esalare un turbinio di emozioni che solleticavano i miei sensi deliziosamente.
Sorrisi e mi alzai dal letto porgendogli la mano, mentre sentivo un calore che non provavo dai tempi delle prime cotte a scuola. Lui, con un sospiro, l’afferrò e si lasciò trascinare in piedi.
Smisi di sorridere e lo baciai. Un bacio caso e pulito, uno scontro di labbra chiuse che si premettero le uno contro le altre. Socchiusi gli occhi nel bacio e vidi che a Stiles tremavano le palpebre. Mi strinse forte la mano e si allontanò di pochi millimetri dalle mie labbra.
Ci guardammo. Aveva gli occhi gialli ed ero sicuro che i miei fossero appena diventati blu.
“Era il tuo primo bacio?” chiesi poggiando la fronte contro la sua e inalando rumorosamente il suo profumo calmo e sereno. Solo una punta di eccitazione riuscivo a percepire, ma era talmente labile che non le diedi peso.
Anche Stiles monitorò le mie emozioni. Lo vidi annusarmi senza alcuna discrezione e inalare la mia fragranza forte e decisa. Riusciva a capire che avevo fatto esattamente quello che volevo e che ne ero felice.
“Può darsi” rispose regalandomi il più bel sorriso che avessi mai visto.


Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7


Quella mattina, Stiles, era più nervoso di quella precedente. Avevo tentato di parlare con lui durante la colazione ma non c’era stato verso. Volevo fargli capire che, prima o poi, sarebbe arrivata un’emergenza: non potevamo nasconderci a lungo, dovevamo seriamente prendere in considerazione l’idea di prepararci al peggio. Non saremmo stati al sicuro per sempre, nemmeno in una casa mezza diroccata nel fitto della foresta.
Stiles mi rispondeva con mugugni incomprensibili e mi aveva ringhiato quando gli avevo messo una mano sulla spalla.
Avevamo trascorso quasi l’intera giornata precedente a scambiarci effusioni sul divano e oggi sembrava che persino la mia presenza lo infastidisse. Spesso vedevo che cercava di nascondere gli artigli che crescevano senza preavviso e i suoi occhi lampeggiavano di giallo troppo spesso. Mancava ancora una notte alla luna piena e Stiles stava lasciando il lupo prendere il sopravvento. Non cercava neanche più di controllarsi, non lo combatteva. Era totalmente in balia dell’animale.
Frugai in un mobile in cucina e presi la tisana alla liquirizia. Feci scaldare l’acqua e gliela preparai. Solo l’odore mi trasmetteva calma, potevo immaginare cosa si provasse a berla. Non volevo scoprirlo, dovevo stare lucido ed essere nel pieno delle forze per star vicino a Stiles in un momento così delicato.
Lui si sedette sul divano con un grugnito di ringraziamento e sorseggiò la bevanda calda. Per tutto il giorno non fece altro che mangiare quelle caramelle nere e gommose a forma di rotella: le srotolava e poi le risucchiava in bocca come degli spaghetti.
Non cercai più di parlargli. Restai nei paraggi per monitorare i suoi comportamenti ma lo disturbai il meno possibile.
Quando il sole calò, e la luna quasi piena illuminò la notte, Stiles restò seduto sul divano, che era ormai diventato il mio letto, con le gambe accovacciate sotto il sedere. Leggeva un libro ma era da quasi dieci minuti focalizzato sulla stessa pagina.
Annusai il suo odore. Era nervoso e agitato e sapeva sempre più di cane bagnato. Potevo solo immaginare che odore avrebbe avuto la notte successiva col plenilunio. Mi svaccai sulla poltrona, poggiando la schiena contro il bracciolo e lasciando penzolare le gambe fuori. Mi appisolai dopo diverse ore, nel pieno della notte, quando anche Stiles si lasciò cullare dal richiamo di Morfeo.
Mi svegliai a pomeriggio inoltrato perché avevo sentito il ragazzo alzarsi. Socchiusi gli occhi, vedendolo già con una stecca di liquirizia in bocca, e lo osservai inspirare ed espirare lentamente. Era in piedi davanti alla porta della cantina.
Quella notte ci sarebbe stata la luna piena.
“Stiles?” lo chiamai ancora mezzo addormentato.
“Qualsiasi cosa sentirai, devi promettermi che non scenderai” disse succhiando con forza il bastoncino.
“Che cosa?” chiesi alzandomi in piedi.
“Promettimelo” ripeté continuando a calmare il respiro che altrimenti sarebbe diventato veloce e affannato.
“Perché?” domandai avvicinandomi.
“Non voglio che tu mi veda così” rispose stringendo i pugni e continuando a fissare la porta chiusa.
“Così come?” volli sapere. Gli appoggiai una mano alla base della schiena e sentii i suoi muscoli rigidi contro il palmo. Il suo odore era selvatico e pungente.
“Come un mostro” disse voltandosi a guardarmi. Aveva gli occhi gialli e le orecchie stavano cominciando a crescere.
Spostai la mano dalla schiena al fianco e lo presi per una spalla obbligandolo a girarsi verso di me. Gli circondai il volto con entrambe le mani, accarezzandogli gli zigomi con i pollici, e lo costrinsi a guardarmi.
“Se tu sei un mostro, lo sono anche io” dissi illuminando gli occhi di blu.
Sollevò le sopracciglia, diventate più folte a causa della semi-trasformazione, e sgranocchiò la stecca rumorosamente. Presi l’estremità e gliela sfilai di bocca.
“Mi aiuta” si giustificò alitandomi in faccia.
“Lo so. Ma non preoccuparti, starò con te tutta la notte”.
Stiles scosse la testa e mi premette una mano sul petto per spingermi via. Non riuscì a spostarmi nemmeno di un millimetro.
“Smettila. Sono più forte di te” gli rammentai.
“Me l’avevi promesso” mi ammonì guardandomi storto.
“Non mi pare proprio” replicai schiaffeggiandogli via la mano e incrociando le braccia.
“Derek” disse il mio nome in modo deciso, ma non arrabbiato.
“Non ti lascio solo” risposi convinto sentendo il suo cuore battere alterato. Sbuffò e un forte aroma mi riempì le narici. Mi stavo quasi abituando a quella fragranza.
Stiles premette il pulsante e la porta si aprì. Scese le scale pestando i piedi e io lo seguii. Non mi piaceva l’idea che si incatenasse ma dubitavo di poterlo convincere a non farlo. Quella sarebbe stata la prima luna piena insieme e non sapevo ancora con cosa avrei avuto a che fare. Confidavo nelle mie capacità: sapevo di essere abbastanza forte per tenerlo fermo ma non sapevo se avrei potuto resistere tutta la notte.

 


Mezzora prima che il sole tramontò, Stiles si alzò in piedi. Eravamo stati seduti sul pavimento umido della cantina senza mangiare, né bere, né fare altre cose indispensabili per la natura umana.
Lo guardai smarrito mentre si avvicinava alle catene. Mi sollevai in piedi a mia volta e mi accostai. Volevo dire qualcosa, fargli cambiare idea, ma avevo il sentore che si sarebbe infuriato sul serio se anche solo avessi provato a dissuaderlo.
Prese una cinghia da terra e se la legò alla caviglia. Percepii distintamente l’odore del sangue quando gli spuntoni gli bucarono la tuta e penetrarono nella carne.
Arricciai il naso, leggermente infastidito.
Si legò l’altra caviglia poi si rimise in posizione eretta. Infilò una mano in tasca e ne tirò fuori una caramella alla liquirizia, la scartò e se la mise in bocca, gettando l’involucro per terra. Mi guardò di sfuggita prima di prendere una delle catene incastonate nel muro, quella che si trovava più in alto, e si mise la cinghia al collo.
Distolsi lo sguardo per non vederlo incatenato come un cane. Ascoltai il rumore metallico delle catene e il cuore di Stiles che batteva irregolarmente. Quando lo guardai nuovamente si era legato il braccio sinistro.
Aveva le maniche corte, perciò riuscivo distintamente a vedere gli spuntoni di ferro dentro la carne magra del suo polso. Con la destra teneva la catena ed essendo l’unica mano libera non riusciva a stringerla.
Mi avvicinai senza che mi chiedesse niente, non potendo fare a meno di domandarmi come aveva fatto ad incatenarsi durante le altre notti e, soprattutto, come riusciva a liberarsi una volta che la luna piena fosse passata.
Presi la cinghia e gliela arrotolai al polso.
“Più stretta” gemette Stiles.
Obbedii e il sangue cominciò a fluire dalle ferite. L’osservai di sottecchi mordersi le labbra e stringere gli occhi per impedire alle lacrime di uscire.
Mi allontanai di qualche passo e lo rimirai con un groppo in gola: aveva le gambe divaricate, le braccia spalancate e la testa leggermente piegata verso il basso. Sembrava l’uomo vitruviano.
“Sento la tua compassione” disse Stiles a fatica.
“Non parlare” ordinai. Quel collare attorno alla gola doveva fare un male del diavolo e non volevo che provasse più dolore di quanto già non ne sentisse.
“Vattene” cercò di obbligarmi.
Scossi la testa.
“Guarda che tanto da qui non mi muovo” ritentò con un minimo di sarcasmo.
“Nemmeno io” risposi appoggiandomi al muro con la schiena.
Chiuse gli occhi, infastidito. “Non gongolare troppo” mi punzecchiò.
“Che vuoi dire?” chiesi sospettoso annusando il suo odore di sfida.
“Deve essere appagante vedere il mostro che ha ucciso la tua famiglia in queste condizioni” ansimò agitando un po’ le braccia tentando di liberarsi.
“No, Stiles. Non lo è” risposi duramente.
Sentii un ringhio nascere dal fondo della sua gola e il suo odore diventare sempre più selvatico e indomabile e fu allora che sprigionò quella puzza di cane bagnato che gli sentivo addosso dalla prima volta che lo avevo incontrato.
Spalancò gli occhi di un giallo talmente incandescente che quasi me ne spaventai. Si trasformò in un lampo con un ruggito di rabbia e dolore e iniziò a dimenarsi con tutta la forza che gli scorreva nelle vene.
Udii il rumore degli spuntoni entrare più a fondo nella carne e il sangue cominciò a sgocciolare sul pavimento. La maglietta azzurra che indossava venne schizzata e sporcata di rosso, così come i pantaloni grigi che divennero quasi neri all’altezza delle caviglie.
Lo guardai con la bocca spalancata mentre lo sentivo ansimare come un cane affaticato e troppo affamato. “Stiles?” lo chiamai con cautela.
Lui si fermò e mi osservò per un secondo. Dai suoi canini colava la bava e lo vedevo che cercava di avvicinare i polsi alla bocca per poter strappare le cinghie con i denti.
“Stiles” ripetei con più decisione. “Mi riconosci?”. Mi avvicinai di un paio di passi. Allungò velocemente le braccia nella mia direzione ma le catene bloccarono il movimento dopo pochi centimetri. Si mosse con le gambe, ringhiando di dolore per le ferite che non si stavano richiudendo.
Non c’era niente di umano in ciò che stavo vedendo.
“Ehi” sussurrai illuminando gli occhi di blu.
Mi fissò le iridi in silenzio per qualche secondo, come se avesse riconosciuto che ero un suo simile, poi riprese a ruggire più forte di prima.
Mi osservai attorno e guardai lo scaffare pieno di alimenti alla liquirizia. Presi la confezione di tisane e corsi al piano superiore. Feci scaldare l’acqua e inzuppai due bustine. Tornai giù da Stiles, ancora intento a contorcersi, con una tazza in mano.
Mi avvicinai a lui il più possibile, ma stando comunque a distanza di sicurezza. Portai la tazza davanti alle labbra, inalando anche io quell’odore che mi tranquillizzò, e soffiai.
Il fumo si propagò davanti a me, finendo sul viso del ragazzo. Vidi il suo naso muoversi per inalare l’aroma. Mi guardò scoprendo le gengive e mordendo a vuoto un paio di volte. Soffiai un’altra volta e Stiles si immobilizzò. Mi scrutò con la testa piegata da un lato.
“Ti conosco” disse con una voce disumana, quasi demoniaca. “Sei quello a cui ho ucciso la famiglia” aggiunse divertito. “Ricordo le sue grida” grugnì dimenandosi.
Chiusi gli occhi, imponendomi di pensare che era LUPO-01 a parlare, che Stiles non aveva alcun controllo e che per nessuna ragione al mondo mi avrebbe mai detto qualcosa in un modo così crudele.
“Ricordi?” chiesi osservando con gli occhi blu quell’oro brillante.
Quando non mi rispose soffiai un’altra volta. Gli occhi di Stiles brillarono ad intermittenza, mescolandosi al castano.
“Ho fatto ribaltare la macchina” riprese. “Le femmine sono morte sul colpo. La più piccola aveva il collo spezzato” disse ghignando.
Percepii i canini cominciare a crescere, così come gli artigli. Me li conficcai nel palmo, costringendomi a riprendere il dominio delle mie emozioni. Non volevo dare di matto durante la luna piena e rischiare di fare la sua fine.
“Lei era ancora viva. Mi ha chiesto di salvarti” disse con la voce rauca. “Era ancora viva quando la macchina esplose”. Cominciò a ridere e piangere contemporaneamente.
Mi passai una mano sul volto premendo le dita sugli occhi per scacciare le lacrime. Diedi un’ultima soffiata alla tisana e chiesi: “perché lo hai fatto?”.
Lui mi guardò leccandosi i canini con la punta della lingua. “Perché era divertente” disse quasi innocentemente.
Guardai la tazza che tenevo in mano piena di liquido scuro fino all’orlo. Con un gesto di stizza gli gettai il contenuto bollente in faccia. Gemette dal dolore solo un istante poi continuò ad annusare quell’odore.
Avrei dovuto lasciare che si incatenasse e stesse solo tutta la notte come aveva sempre fatto e io sarei dovuto restare su in casa a sentire i suoi latrati di disperazione fino al sorgere del sole. Indietreggiai lentamente fino a trovarmi con le spalle al muro. Scivolai contro di esso e mi sedetti per terra con le gambe allungate davanti a me. Poggiai la tazzina vuota al mio fianco e me ne stetti lì, con la testa incassata nelle spalle, ad aspettare che l’incubo si concludesse.


La notte, in un modo o nell’altro, finì. Stiles aveva ringhiato e ruggito tutto il tempo ma non aveva più parlato. Appena la luna era tramontata gli occhi gialli del ragazzo si erano rovesciati all’indietro e lui era svenuto. Aveva le gambe e le braccia spalancate e si era lasciato cadere in avanti, indifeso, con la testa a penzoloni.
Mi sollevai in piedi a fatica e mi avvicinai al suo corpo inerme. Gli slacciai la cinghia del collo e vidi tutti quei buchi, causati degli puntoni in metallo, richiudersi. Rimossi quelle alle caviglie ed infine gli liberai le braccia.
Le ginocchia cedettero e, prima che cadesse per terra, lo sollevai di peso prendendolo in braccio. Mi incamminai su per le scale inalando il suo odore di disperazione. Lo portai nella sua camera e lo adagiai sul letto. Non si svegliò.
Osservai i suoi vestiti sporchi di sudore, sangue e tisana alla liquirizia e pensai che non era umano lasciarlo in quelle condizioni. Gli sfilai i pantaloni e gli strappai letteralmente la maglietta dal petto, gettandoli in un angolo della stanza. Ne presi una pulita dall’armadio, gli sollevai il busto e, con non poca fatica, gliela infilai.
Lui mugugnò, infastidito.
“Va tutto bene. È finita” lo tranquillizzai accorgendomi che la maglietta gliel’avevo messa al rovescio.
“Derek” borbottò sfinito afferrandomi per un polso e trascinandomi sul letto con lui.
Spostai il peluche koala e mi sdraiai al suo fianco.
“Resta” disse con voce roca e impastata dal sonno. Mi abbracciò i fianchi con un braccio e posò la testa sul mio petto. Ignorai la fame, ignorai il sole che entrava dalle finestre e ignorai anche il mio cuore che aveva cominciato a battere forsennato. Incastrai una mano tra i suoi capelli sudati e, dopo pochi minuti, mi addormentai anche io.
Mi risvegliai dopo diverse ore, ricordando la notte in bianco appena trascorsa. Percepii che Stiles era già sveglio ma ci trovavamo nella stessa posizione in cui c’eravamo addormentati.
Non aveva voluto muoversi, chissà da quanto tempo era lì, con gli occhi aperti, che decideva se spostarsi e svegliarmi oppure restare così, in quella posizione anomala e un po’ scomoda, con la quale però riusciva ad assaporare il mio calore. Chissà quante volte, mentre dormivo, aveva affondato il naso nella mia maglietta per inspirare l’odore di Talia. Il mio odore.
Mi ritrovai ad arrossire a quei pensieri.
“Tutto okay?” chiese avendo percepito alterarsi qualcosa nel mio stato d’animo.
Gli massaggiai la schiena con una mano, in segno affermativo.
“Cos’è successo?” domandò, non ricordando niente della notte appena passata. “Ho fatto qualcosa? Ho detto qualcosa?” volle sapere.
“No” dissi semplicemente.
Stiles sapeva che stavo mentendo, lo capiva benissimo da battiti del cuore e dall’odore che emanavo.
“Qualsiasi cosa abbia detto… non la pensavo” cercò di scusarsi.
“Lo so” risposi infilando la mano sotto la sua maglietta e tastando i suoi muscoli irrigidirsi e poi rilassarsi sotto il mio tocco.
“Comunque, essere in mutande sul letto in questa situazione per niente ambigua non mi sta causando alcun effetto” disse sarcastico.
Fermai la mano tra le sue scapole odorando una punta di eccitazione nell’aria.
“Lo sento” dissi con tono canzonatorio.
Lui sospirò accarezzandomi un fianco.
“Così come sento la tua puzza di sudore” aggiunsi sfilando la mano da sotto la maglietta.
Lo ascoltai ridacchiare poi si mise a sedere sul letto. Si alzò e prese dei vestiti puliti. Stava per lasciare la stanza ma lo richiamai. Si immobilizzò sulla soglia della camera e mi guardò.
“Vieni qui” dissi facendogli cenno con due dita. Quando fu abbastanza vicino gli arpionai la maglia bianca e lo tirai giù verso di me. I vestiti caddero per terra e si puntellò con le mani ai lati della mia testa per non cadermi addosso. Pressai con fin troppa forza la mia bocca contro la sua, lo costrinsi ad aprire le labbra e incontrai la sua lingua, poi lo lasciai andare con uno schiocco rumoroso.
Lui riprese i vestiti e, con un enorme sorriso, si defilò in bagno.
Sorrisi anche io, non potendo farne a meno. Inevitabilmente però non riuscii a non pensare a quello che mi aveva detto quella notte: si era davvero divertito ad ammazzare quattro persone? Magari sì e non se lo ricordava. O era solo il lupo selvatico e influenzato dalla luna che parlava? Perché poi mi aveva salvato se era così divertito all’idea di ucciderci?
Ci doveva essere un modo per ricordare. Non delle reminiscenze frammentate, ma qualcosa di concreto che avrebbe potuto finalmente mettermi il cuore in pace.
Mi alzai in piedi ascoltando Stiles lavarsi e monitorando il suo umore, era stanco ma stabile. Mi avvicinai alla scrivania e lessi di nuovo quell’indirizzo accompagnato da un numero di telefono sul foglio. Pensieroso mi accostai alla porta del bagno e bussai. “Stiles?” lo chiamai. “Se non ci fossi stato io chi ti avrebbe liberato dalle catene?” domandai.
“Ti ricordi che ti ho detto di un amico che mi ha aiutato a togliere l’AconiRAL?” mi chiese.
“Sì. Quindi?” replicai.
“Lui veniva ad incatenarmi e poi la mattina dopo a slegarmi” rispose.
“E di chi si tratta?” curiosai.
“Be’, credo che lo scoprirai presto” disse enigmatico.
Era chiaro che non voleva fare il suo nome, forse perché non si fidava abbastanza o forse perché quella persona glielo aveva proibito.
Sbuffai sonoramente. “Pranzo o colazione?” chiesi.
Stiles spense l’acqua e uscì dalla doccia. Aprì la porta di pochi centimetri per far sbucare i suoi occhi castani. “Pranzo” rispose guardandomi grato. “Sei un angelo” aggiunse. Richiuse la porta e quindi non mi vide sorridere anche se ero abbastanza sicuro che mi stesse monitorando anche lui.
Mentre si vestiva cucinai il pranzo. Ero più tranquillo: la luna non sarebbe stata piena per un altro mese, avevamo tutto il tempo.
Dopo pochi minuti mi raggiunse per aiutarmi. I capelli bagnati sgocciolavano sulla maglietta, messa stavolta nel verso giusto, e nell’aria si sparse il profumo del bagnoschiuma. Mi affiancò e prese a mescolare le verdure in padella.
“Stai bene?” chiesi anche se non avevo bisogno di sentirmelo dire, lo potevo capire facilmente grazie ai segnali chimici.
“Meglio delle altre volte” sussurrò.
“C’entra qualcosa il fatto che ti sei svegliato avvinghiato a me?” lo derisi senza cattiveria.
Sollevò il volto per guardarmi e vidi le sue guance diventare deliziosamente rosse. “Quella è stata la parte migliore” confermò sfacciato sfarfallando le ciglia.
Vidi i suoi occhi posarsi sulle mie labbra ma non fece nulla, si riconcentrò sulle verdure che aveva davanti mescolandole con attenzione. Non voleva baciarmi di sua spontanea volontà, forse pensava che non lo volessi, che in qualche modo mi sentissi in dovere dopo che mi aveva confessato i suoi sentimenti.
“Annusami” ordinai girandomi verso di lui.
“Perché?” chiese sospettoso guardandomi di striscio.
Lo afferrai per un braccio e lo obbligai a mettersi davanti a me. “Fallo e basta”.
Si avvicinò di un passo e appoggiò il naso sul mio petto, dal lato opposto del cuore. Inspirò per due secondi poi tentò di allontanarsi. Portai una mano dietro il suo collo e glielo impedii. Si aggrappò con le mani ai fianchi della mia maglietta stringendola con forza poi mi annusò ancora, rumorosamente e a pieni polmoni.
“Lo senti?” domandai.
Sollevò la testa e mi guardò. Annuì.
“Cosa senti?” volli sapere.
“Che hai voglia di toccarmi” rispose lui sussurrando.
“Mi sto trattenendo perché riesco a sentire quanto tu sia esausto e che non riusciresti a fare niente” dissi prendendo le sue mani e appoggiandomele sulle spalle. Lui capì l’antifona e mi circondò il collo con le braccia mentre lo stringevo per i fianchi.
“Quindi non mi baci solo perché senti che io ne abbia bisogno?” mi chiese ancora dubbioso.
Roteai gli occhi e sollevai un sopracciglio. “No” dissi risoluto. “Ti bacio perché ne ho bisogno anch’io. Perché mi fa stare bene” risposi fugando ogni incertezza. “E se pensi che in questo momento tu possa stare meglio baciandomi… be’, puoi farlo”.
Mi guardò con quegli occhi castani grandi e innocenti. Lo vidi abbassare le palpebre mentre si avvicinava a me e mi tirava a sé con le braccia. Ci incontrammo a metà strada e quel bacio fu diverso da quello che ci eravamo scambiati in quei giorni. C’era più passione, più frenesia. Era un gioco di lingue che si incontravano e respiri che si infrangevano.
Non seppi per quanto tempo restammo lì, abbracciati l’uno all’altro a dipendere da quel bacio.
“Le verdure” biascicò Stiles con la bocca ancora pressata sulla mia. “Stanno bruciando”.
Gli morsi il labbro inferiore tirandolo leggermente e mi staccai dalle sue labbra. Ci separammo lentamente e controvoglia e spensi il gas. Con la coda dell’occhio lo vidi leccarsi le labbra.
Ci mettemmo a tavola in silenzio, uno di fronte all’altro. Mangiammo iniziando un gioco di sguardi che durò per tutto il pranzo. Stiles mi annusò ancora, a distanza, e percepì in me un sentimento che stava cominciando a sbocciare e che stava prendendo posto fin troppo velocemente. Mi stavo innamorando.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8


Erano passati solo tre giorni da quella luna piena. Stiles ci aveva messo un po’ a riprendersi. Lo vedevo affaticato e aveva due occhiaie enormi a scurirgli il viso.
La corrente era saltata per mezza giornata poi, fortunatamente, era ritornata e ci eravamo messi a guardare diversi film al computer, alcuni erano vecchissimi e ancora in bianco e nero, per il quale mi ritrovai a scoprire un amore folle. Il mio preferito era “Il buio oltre la siepe”.
Eravamo sdraiati sul letto, con il laptop sulle mie gambe. Stiles teneva la testa poggiata alla mia spalla e ogni tanto si assopiva, ancora stremato a causa di tutte le energie che aveva consumato durante il plenilunio.
Molto spesso mi ritrovavo ad ammirarlo e a fare pensieri impuri. Stiles non lo dava a vedere ma ero quasi certo che se ne fosse accorto. Non volevo costringerlo a fare niente, volevo che fosse pronto e a suo agio e, soprattutto, completamente in sé.
Ero stato due anni alla Stilinski Corporation senza avere nessun contatto umano, quell’assenza stava cominciando a diventare quasi insopportabile specialmente quando ci trovavamo vicini, come adesso.
Molte volte, quando lui dormiva e non poteva accorgersene, mi ritrovavo a sfiorare la sua pelle e ad assorbigli un po’ del dolore che si portava sempre dentro. Il suo odore tramutava all’istante rendendolo più sereno e in pace. Sembrava che ormai fosse diventata la mia missione far stare bene Stiles. Ci era voluto tanto per ignorare il fatto che fosse lui il responsabile del giorno più brutto della mia vita.
Si mosse tra le mie braccia e si accomodò meglio contro la spalla. “A cosa pensi?” chiese mormorando sonnacchioso. Appoggiò la mano sul mio stomaco e ci tamburellò sopra con le dita.
“A te” risposi sovrappensiero. “Ci penso fin troppo spesso” ammisi.
Pensavo a lui, a quando aveva cappottato l’auto di mia madre; alla voglia che avevo di vendicarmi di lui fino al punto di acconsentire a modificarmi geneticamente; al nostro primo incontro; a quando mi aveva tolto l’AconiRAL e mi aveva annusato nel bosco; al nostro primo bacio e a tutti quelli che si erano susseguiti. Lenti, casti, bagnati, dolci, affamati, bisognosi. Così tanti tipi di baci.
Accarezzai la sua schiena e infilai furtivamente la mano sotto la maglietta. Era bollente. Avevamo una temperatura più elevata rispetto a quella di un semplice umano ma la sua pelle sotto le mie dita sembrava incandescente.
Anche lui infilò la mano sotto la mia maglietta. Odorai i suoi dubbi mentre le dita scorrevano sui miei addominali.
“E cosa pensi di me?” chiese di nuovo sollevando la testa e appoggiandola accanto alla mia sul cuscino.
Il film andava avanti ma nessuno dei due ci stava più prestando attenzione.
“Penso alla voglia che ho di toccarti” dissi sollevandogli la maglietta fino alle scapole per accarezzare più porzione di pelle.
Lui mi imitò salendo con la mano per toccarmi il petto con la punta dei polpastrelli. Mi sfiorò un capezzolo di sfuggita ma fu abbastanza per far sì che si inturgidisse.
“Penso alla voglia che ho di vederti nudo” aggiunsi guardandolo.
I suoi occhi castani erano lucidi, velati di un desiderio che mai aveva provato.
Lo avevo già visto senza vestiti dopo la notte di luna piena. Lo avevo spogliato per togliergli gli indumenti sporchi ed era rimasto in mutande. La situazione però era diversa e il suo corpo non mi aveva fatto alcun effetto. In più era praticamente privo di sensi!
Stiles si avvicinò al mio collo, appoggiò il naso sotto l’orecchio e mi annusò. Probabilmente sentì che il mio corpo stava emanando feromoni nel tentativo di attirarlo. Non che ce ne fosse veramente bisogno. Anche l’odore di Stiles era inequivocabile.
Si sollevò di scatto e prese il computer poggiato sulle mie gambe, chiuse lo schermo e lo mise per terra di fianco al pupazzo di pezza a forma di koala. Mi dava le spalle quando lo vidi togliersi la maglietta. Mi sedetti e guardai la sua pelle pallida costellata da nei. Sentivo i nostri cuori aumentare il ritmo. Mi misi in ginocchio dietro di lui mentre voltava solo la testa per guardare i miei movimenti. Appoggiai le mani sulle spalle poi, con il dorso delle dita, gli accarezzai le braccia osservando la pelle d’oca formarsi sul suo corpo e il suo odore farsi più acceso.
Infilai una mano tra i capelli e lo baciai. La sua bocca si aprì per lasciare spazio alla mia lingua. Gli tirai debolmente i capelli per fargli piegare la testa e avere così libero accesso al suo collo. Lo tempestai di baci umidi e lascivi, risucchiando il lobo dell’orecchio tra le labbra e mordendolo piano.
Il suo respiro divenne più affannato. Anche se non lo vedevo in faccia potevo immaginarlo mordersi le labbra tenendo gli occhi chiusi.
Una sua mano prese magicamente vita e si poggiò sulla mia testa per spingermi di più contro il suo collo.
Gli diedi una serie di baci a bocca aperta poi gli spinsi delicatamente la testa verso il basso per poter poggiare le labbra sul retro del collo, nel punto in cui una volta si trovava l’AconiRAL. Stiles emise il primo gemito e lo visi stringere le coperte e sollevarle verso l’alto.
Inginocchiato dietro di lui, presi a baciargli la schiena, soffermandomi su ogni neo. Stiles respirava rumorosamente e, di tanto in tanto, lo avevo udito mormorare il mio nome. Quando mi ritenni soddisfatto tornai a guardarlo: teneva le gambe leggermente divaricate per lasciare un po’ di spazio al rigonfiamento che si vedeva nitidamente da sotto la tuta.
“Vieni qui” sussurrai.
Lui non se lo fece ripetere due volte. Si girò e si inginocchiò sul letto davanti a me. Presi le sue mani, notando che tremavano leggermente, e le portai ai bordi della mia maglietta. Lui li afferrò e li tirò su. Sollevai le braccia, lasciando che me la sfilasse.
Con esitazione, poggiò le mani sul mio petto e le fece scorrere verso il basso fino a sfiorare il bordo dei pantaloni.
Mi sdraiai per metà, restando sollevato sui gomiti. Stiles mi guardò dall’alto verso il basso deglutendo rumorosamente la saliva in eccesso. L’odore di eccitazione si mischiò al nervosismo.
“Non devi fare niente che non vuoi” lo rassicurai.
“Tu cosa vuoi?” chiese rimirandomi con adorazione.
Gli presi una mano e lo trascinai al mio fianco. “Voglio quello che sei disposto a darmi” risposi sinceramente.
Stiles posò una mano sulla mia guancia coperta di barba e mi baciò lentamente. Ci sdraiammo di nuovo sul letto appoggiando la testa sul cuscino, senza mai staccare le nostre labbra. Eravamo sdraiati su un lato e gli circondai il busto con un braccio attirandolo più vicino in modo che neanche l’aria potesse passare, gli accarezzai la schiena.
Lui infilò una gamba tra le mie e, inevitabilmente, mi strusciai contro la sua coscia. Stiles si staccò dalle mie labbra e mi annusò profondamente con le palpebre socchiuse. Andò in estasi all’odore che stavo emanando.
Non era mai stato così, prima. Quando ero solo umano il sesso non era arrivato neanche lontanamente a questi livelli e non mi riferivo ai baci o ai preliminari, quelli erano gesti sempre uguali, ma alle sensazioni. Il tutto era amplificato a causa dei sensi più sviluppati e non solo l’olfatto, che mi permetteva di odorare la miriade di fragranze che Stiles stava sprigionando, e nemmeno l’udito, che mi faceva sentire come i nostri cuori battessero quasi in sincrono sovrapponendosi l’uno all’altro.
Mi riferivo anche alla vista. Vedevo ogni cosa nei minimi particolari: dall’unghia scheggiata della mano, alla ciglia che aveva sulla guancia. Per non parlare del tatto: la sua pelle era come una calamita per le mie mani. E come dimenticare il gusto. La mia lingua era stata solleticata da tanti sapori: il sale del sudore; il bagnoschiuma; il dentifricio; la liquirizia che lo avvolgeva sempre e che ormai era diventato un suo tratto distintivo.
Prima non era mai stato così. Era bello ma adesso, che eravamo solamente sdraiati a non far altro che strofinarci l’uno contro l’altro, era straordinario. Potevo solo immaginare cosa si provasse a fare di più.
Mi misi in posizione supina con la schiena contro il materasso, potendo percepire chiaramente che non ero il solo ad essere stravolto da tutte queste sensazioni meravigliose.
Stiles si sdraiò per metà su di me, affondando il bacino contro il mio fianco e gemendo timidamente. Lo afferrai per i fianchi e lo adagiai sopra di me. Lui mi guardò pieno di sorpresa poi, di sua iniziativa, si spinse contro di me.
Ansimammo insieme.
Poggiò la fronte sulla mia spalla e ripeté il movimento. Io inarcai i fianchi per andargli incontro mentre le nostri pelli sudate scivolavano l’una contro l’altra.
Indossavamo ancora le mutande e i pantaloni ma non avevo nessuna voglia di muovermi e fermare quella frizione deliziosa che mi stava mandando fuori di testa.
“Derek” gemette spingendo il bacino con più frenesia.
Il suo odore si fece più speziato e mi stuzzicò i sensi.
Mi morsicai un labbro per impedirmi di gemere il suo nome. “Non fermarti” implorai stringendogli i fianchi e bucando la sua pelle con gli artigli che erano fuoriusciti senza controllo.
Lui non si fermò. Continuò a muoversi fino a che raggiunse il piacere e nemmeno allora smise. Imperterrito, strusciò il bacino contro il mio fino a che, con un gemito mal trattenuto, mi unii a lui.
Sollevò la testa per guardarmi e vidi che aveva gli occhi gialli, le guance arrossate e la bocca spalancata alla ricerca di fiato. Sapevo di non essere messo meglio di lui.
“Ops” sussurrò osservando quello che aveva fatto con gli occhi spalancati.
Mi voltai per vedere che aveva artigliato il cuscino ai lati della mia testa e lo aveva distrutto.
Notando che ancora gli stavo stringendo i fianchi con le unghie da lupo feci rientrai le granfie. “Andava bene?” chiesi anche se avevo già la risposta sotto i miei occhi e sotto il mio naso.
“Altroché” rispose sorridendo.

 

 

Una mattina mi svegliai ritrovandomi sul bordo del letto. Se mi fossi girato avrei fatto un capitombolo non indifferente. Percepii subito l’assenza di Stiles. Il suo odore era flebile e sfuggente.
Mi sollevai a sedere sul letto annusando l’aria e cercando di captare qualcosa. Sul suo cuscino c’era il koala che teneva tra le zampe un foglietto strappato. Lo presi e lessi, in una calligrafia sottile e ordinata: “vieni a cercarmi”.
Spostai il peluche e affondai il naso nel cuscino per sentire il suo odore. Niente. Era irriconoscibile.
Dalla finestra aperta udii il rumore di un ramo che si spezzava. Mi infilai una maglietta e scavalcai il davanzale finendo con i piedi nudi sulla terra. Continuai ad inspirare profondamente e, quando capii che il fiuto non mi avrebbe aiutato, mi concentrai sull’udito e sui segnali chimici. Feci brillare gli occhi e osservai tra gli alberi. Le mie orecchie erano disturbate dai rumori della natura. Dovevo solo trovare il battito del suo cuore, isolarlo e poi raggiungerlo.
Cominciai a camminare attorno alla casa, sbuffando di frustrazione poi, improvvisamente, qualcosa cadde dall’alto.
Cascai per terra e una zaffata familiare mi entrò nelle narici. “Stiles!” grugnii voltandomi a pancia in su.
La sua figura, illuminata dai raggi del sole che filtravano tra i rami, si stagliava eretta sopra di me. Teneva le braccia incrociate al petto e mi guardava divertito. Allungò una mano per aiutarmi. Era bello vederlo di buon umore.
“Perché non ti sentivo?” chiesi afferrando la sua mano e tirandolo verso il basso.
Cadde in ginocchio con un verso di sorpresa. “È un’altra delle nostre abilità” disse lui schiaffeggiandomi il fianco per averlo fatto ruzzolare a terra. “Possiamo mascherare l’odore e confondere il battito del cuore insieme ad altri rumori” spiegò alzandosi.
Era già vestito e indossava una felpa nonostante noi non provassimo particolarmente freddo.
“E che utilità avrebbe questa abilità?” chiesi non cogliendo il senso. Gli altri umani non avrebbero certo potuto odorarci!
“Be’, quando sarai inseguito da quattro pastori tedeschi ne riparleremo” borbottò lui rioffrendomi la mano. La presi e mi aiutò ad alzarmi.
“Sei stato inseguito da un branco di cani?” domandai non sapendo se esserne divertito o sconvolto.
“Argent ha provato di tutto per catturarmi” rispose.
Sospirai. Era da un po’ che il suo nome non saltava fuori in una conversazione. Di solito ero sempre io ad intavolare una discussione sul suo passato.
Ci incamminammo verso l’ingresso ma capii che non aveva intenzione di aggiungere altro e io non volevo forzarlo a parlare.
Sempre più spesso mi ritrovavo a pensare a quello che avremmo fatto quando ci avrebbero trovato. Non ero stupido, prima o poi qualcuno si sarebbe ricordato di una casa nel bosco, o magari un cacciatore sarebbe passato di qui e avrebbe visto che la casa era abitata. Dovevamo avere un piano di riserva.
“Devi insegnarmelo” dissi salendo i due gradini e varcando la porta già aperta.
“È un’abilità inutile” disse cercando di imitare la mia voce. Svoltò verso la cucina, dove la tavola era già apparecchiata per la colazione. Al centro c’era una ciotola piena di frutta già lavata e tagliata, toast già imburrati e spalmati di marmellata, bicchieri pieni di succo di frutta e il caffè ancora caldo.
“Hai preparato tutto questo e io non ti ho sentito” mormorai.
Lui mi fissava con orgoglio e potei percepire la sua soddisfazione. “So essere molto silenzioso” si giustificò.
“E anche molto rumoroso, spero” lo punzecchiai malizioso.
Mi guardò con disappunto non riuscendo però a impedire alle sue guance di tingersi di rosso.
Lo osservai compiaciuto mentre, con un silenzio imbarazzato, si metteva a sedere. Quando presi posto davanti a lui, dall’altra parte del tavolo, mi tirò un calcio colpendomi la tibia con la punta della scarpa.
“Che male” dissi senza nessuna sfumatura nella voce.
Lui me ne diede un altro, colpendomi il ginocchio. Lo guardai male ma questo non gli impedì di continuare a calciarmi. All’ennesimo calcio aprii le gambe e le richiusi velocemente intrappolando il suo piede tra i polpacci.
Spinsi indietro la sedia e lo afferrai per la caviglia. Lui ridacchiò, puntellandosi con le mani sul bordo del tavolo.
“Lasciami” ordinò divertito.
“Solo se la smetti di fare lo scemo” replicai sorridendo.
“Te lo giuro” disse allegramente portandosi la mano destra sul cuore.
Lasciai la sua caviglia e mi rimisi comodo con la sedia. Senza dire più nulla si mise a mangiare e quando non mi arrivò più nessun calcio sulle tibie iniziai a far colazione. Osservai la frutta già tagliata e aggrottai le sopracciglia. Non avevamo cibo fresco nel frigorifero.
“Dove l’hai presa?” domandai prendendo un acino d’uva.
“Ehm, dalle piante” mentì spudoratamente.
“Sei andato in città da solo?” esclamai alzando la voce.
“Sì, quindi?” replicò drizzandosi sulle sedia e guardandomi con le sopracciglia sollevate. Era sinceramente confuso.
“È pericoloso. La nostra faccia è ovunque” lo sgridai. Possibile che non capisse quanto si metteva in pericolo ogni volta che si mescolava tra la gente?
Si strinse nelle spalle, un gesto che faceva spesso, e borbottò: “l’ho sempre fatto”.
“Da adesso non lo farai più. Quando resteremo senza cibo, ovvero tra qualche settimana basandomi sulle cose che abbiamo, andremo in città” dissi perentorio. “E faremo le cose a modo mio” aggiunsi deciso.
Stiles strinse le labbra evitando di guardarmi ed esalando una sensazione fastidiosa. Si sentiva come se mi avesse deluso ma non era così. Io ero solo preoccupato che potesse succedergli qualcosa.
Guardai l’acino d’uva che ancora tenevo tra due dita e glielo tirai addosso. Lo colpii proprio al centro della fronte. Rimbalzò sul tavolo e cadde per terra.
“Ora mangia” ordinai addolcendo il tono di voce.
Addentò un toast e io lo imitai. Quando continuò a guardarmi colpevole poggiai i gomiti sul tavolo e allargai le braccia. “Che c’è?” chiesi.
“Non sei arrabbiato?” domandò.
“Annusami, sai benissimo che non lo sono” risposi infilando un cucchiaio nella macedonia colorata.
Stiles sospirò. Sorrise e nell’aria cominciò a spandersi un odore di felicità.
Sorrisi anche io quando la sua fragranza arrivò alle mie narici riempiendole fino a quasi stordirmi. Era un profumo delizioso che si mischiava a quello della frutta e del pane tostato. Era un po’ come essere a casa.

 

 

Ci trovavamo nel bosco. Stavamo correndo da diversi chilometri. Non l’avevo mai fatto, era liberatorio e mi resi conto che ne avevo bisogno non solo io ma anche il lupo che viveva dentro di me. Era da un po’ che non mi trasformavo e tenevo sopita la parte selvaggia. Liberarla fu piacevole.
Stiles era molto più veloce di me ed era un grande arrampicatore. Conosceva il bosco a memoria e sapeva dove si trovavano persino le buche in cui ero più volte inciampato. Mi ero slogato una caviglia, che era guarita in pochi minuti, sotto gli occhi divertiti del ragazzo che rideva sguaiatamente di me.
Ritornammo a casa quando fece buio. Eravamo stanchi, sudati e affamati.
“Il bagno è mio” esclamai togliendomi la maglietta fradicia di sudore.
“Ehi. Prima io!” disse invece lui.
“Non pensarci neppure. Comincia a cucinare” ordinai chiudendo la porta del bagno e riempiendo la vasca. Ero talmente privo di forze che non sarei riuscito a stare in piedi nella doccia.
Quando l’acqua fu abbastanza alta mi spogliai del tutto e mi ci immersi. Era congelata ma per niente fastidiosa per la mia temperatura da lupo. Mi lavai con calma poi percepii la presenza di qualcuno dietro la porta. Mi fermai ad ascoltare quello che Stiles stava combinando poi vidi la maniglia abbassarsi e la porta aprirsi.
Il ragazzo, completamente nudo e con in mano un vassoio di cibo, fece capolino sulla soglia.
Mi drizzai bene a sedere, poggiando la schiena sul bordo. “Non è molto comodo cenare in una vasca” gli feci notare non riuscendo a focalizzare l’attenzione sui suoi occhi e fissandolo con bramosia. Lui si strinse nelle spalle compiaciuto dall’occhiata che gli avevo riservato, posò il vassoio sulla lavatrice, e infilò un piede in acqua.
Si sedette davanti a me e prese la spugna. Lo guardai insaponarsi corpo e capelli per diversi minuti, rilassandomi solo ispirando il suo aroma, poi con una voce bassa e maliziosa mi chiese se potessi lavargli la schiena.
“Girati” dissi divertito e apprezzando l’atmosfera che si stava creando.
Lui obbedì. Si mosse talmente velocemente che l’acqua rischiò di straripare dai bordi. Allargai le gambe e ci si accomodò in mezzo.
Lo lavai con precisione e con lentezza e lo obbligai a poggiare la schiena contro il mio petto. Sistemò la testa sulla mia spalla sinistra e mi guardò con un misto di lussuria e affetto. Posai la spugna sul suo stomaco e lo lavai centimetro dopo centimetro, scendendo inesorabilmente verso il basso e raggiungendo il suo membro semi eretto. Lasciai andare la spugna, che si allontanò galleggiando, e glielo afferrai.
I suoi fianchi scattarono per la sorpresa e spalancò la bocca in un gemito silenzioso.
Lo masturbai in silenzio e lentamente, godendomi i suoi ansimi e il modo in cui sussurrava il mio nome all’orecchio, come una preghiera. Cercavo, mentre gli donavo piacere, di sfregarmi contro la sua schiena senza grande successo.
Quando venne mi dedicai a me. Stiles mi lasciava deboli baci sul collo mentre mi toccavo freneticamente, tutto l’opposto di come avevo toccato lui.
Gli morsi una spalla prima di venire, lasciandogli il segno dei canini che erano spuntati a causa della stanchezza e dell’eccitazione.
Restammo lì ancora un po’, nell’acqua fredda pregna dei nostri umori, poi mi alzai a prendere il vassoio e mangiammo dentro la vasca da bagno parlando di cose stupide e divertenti.

 

 

Eravamo seduti sul divano. Il computer appoggiato al tavolino con i titoli di coda di un film che scorrevano. Stiles spense il monitor e chiuse lo schermo.
“Devo andare a prendere altri DVD. Questi li ho visti tutti” si lamentò.
“E con ‘prendere’ intendi ‘rubare’, giusto?” domandai retorico.
Lui mi fece una smorfia scartando una delle solite caramelle e mettendosela in bocca.
“Se hai portato qui dei soldi, di cui ignoro l’esistenza, potrei usare quelli” replicò sarcastico lanciandomi addosso la carta.
“Ma non sei stanco di questa vita?” chiesi indicando la casa incompleta e gettando l’involucro sul pavimento.
“Non l’ho mica scelto” si difese.
“Lo so, ma se solo ti comportassi in modo diverso, forse la gente non avrebbe paura di te” dissi.
Lui mi guardò annoiato. “Sarei dovuto morire quando ero ancora un bambino e invece mi sono trasformato in un muta forma dagli occhi fluorescenti con quattro canini affilati e degli artigli che avrebbero bisogno di una manicure!” rimbeccò esasperato.
Sorrisi perché non poteva fare a meno di parlare di cose serie senza utilizzare l’ironia.
“Per non parlare dei peli” aggiunse simulando un brivido.
“Quindi torneresti indietro, se potessi?” chiese sinceramente curioso.
“Tu non lo faresti?” domandò a sua volta.
Annuii in affermazione. “Ma se tuo padre non ti avesse fatto diventare così saresti morto” gli feci notare.
“Ma la tua famiglia sarebbe ancora viva” mormorò affondando la schiena tra i cuscini.
Abbassai gli occhi. Non aveva tutti i torti.
“Per quel che ricordo, ho amato mio padre. Ma non credo lo perdonerò mai per questo” disse indicandosi. “E non perdonerò mai nemmeno me stesso per quello che ho fatto a te, per non essere riuscito a salvare Talia” continuò tristemente emanando rimpianto e senso di colpa.
“Avevi sedici anni” gli ricordai. Poggiai una mano sul suo ginocchio per tranquillizzarlo.
“Quello che ho fatto sarà qualcosa che mi porterò dietro per tutta la vita e non so nemmeno come tu faccia a sopportare la mia presenza” esclamò alzando la voce. “Dovresti odiarmi” aggiunse agitato.
Mi avvicinai di più, fino a che le nostre cosce entrarono in contatto. “Odio quello che hai fatto” spiegai. “Ma ora so che non eri tu”.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

Eravamo entrati in tangenziale da pochi minuti. Cora si era slacciata la cintura per sporgere la testa dal finestrino aperto e guardare l’elicottero che passava sopra le nostre teste. “Riallacciati la cintura” le dissi. Lei non mi ascoltò e io non insistei. Laura stava cambiando stazione radio e, quando sentì un famoso assolo di chitarra, smise di premere tasti a caso. La mamma stringeva il volante con entrambe le mani e le nocche erano diventate quasi bianche. Mi lanciava occhiate indecifrabili dal retrovisore. “Mamma!”. L’urlo di Laura rimbombò nella macchina facendomi sobbalzare. “Stiles!” gridò mia madre con una voce acuta e spaventata. Sterzò con il volante e vidi di sfuggita il fianco della macchina investire l’ombra comparsa improvvisamente in mezzo alla carreggiata. Allungai una mano per prendere quella di Cora ma non ci riuscii. La macchina cominciò a ribaltarsi mentre le urla delle mie sorelle si facevano più acute. I vetri dal mio lato si ruppero e mi tagliarono un braccio e il volto conficcandosi sotto la pelle. Cercai di chiamare mia madre ma mi morsicai la lingua che prese a sanguinare. La macchina si fermò. Mi fischiavano le orecchie e sentivo odore di benzina. Aprii gli occhi, ritrovandomi a testa in già. Ansimai di dolore quando una fitta mi trapassò la gamba. “Mamma?” la chiamai con un filo di voce. “Laura?”. Guardai mia sorella Cora. Era incastrata tra due sedili e il collo penzolava in una posizione innaturale. “Cora?”. Le fiamme cominciarono a sollevarsi. Dalla bocca mi usciva sangue che aveva cominciato a colarmi sulle guance ed entrare nel naso. Cercai di slacciare la cintura ma qualcosa la bloccava. Dal finestrino distrutto vidi due gambe. Tentai di chiedere aiuto ma non ce la feci. I piedi nudi di quello sconosciuto calpestarono i vetri sull’asfalto. All’improvviso l’interno della macchina venne illuminato dal fuoco che aveva cominciato a divampare. Tossii a causa del fumo. Il fischio nelle orecchie diminuì e udii la voce di mia madre. “Salva loro”. Solo due parole ero riuscito a sentire prima di vedere un braccio allungarsi verso di me e strappare la cintura, che mi segava il collo, con le unghie troppo lunghe per appartenere ad un essere umano. Persi i sensi e quando rinvenni mi trovavo sull’asfalto. La luna piena fu la prima cosa che vidi, la seconda fu l’ombra che si stagliò davanti ad essa. Era una persona ma aveva gli occhi di un giallo brillante, come oro. Respirai affannosamente, spaventato. L’ombra si allontanò e io la seguii con lo sguardo. Si riavvicinò all’auto rovesciata e si piegò per guardare al suo interno. Le fiamme si erano alzate e il fumo, che mi riempiva i polmoni, era scuro e fitto. Aprii le labbra per chiedere a quel misterioso individuo dagli occhi fluorescenti di salvare la mia famiglia quando due fari mi abbagliarono. Una macchina si era avvicinata a noi. La portiera si aprì e qualcuno urlò: “non osare farlo!”. Era una voce aggressiva e da uomo. L’ombra si rimise in posizione eretta e si portò una mano dietro la testa. Vidi il suo viso, a causa del chiarore delle fiamme. Era sudato e aveva le guance ricoperte di peli, le orecchie erano appuntite e dei denti affilati spuntavano dalla sue labbra. Gorgogliai un lamento di stupore e altro sangue schizzò dalla mia bocca. L’ombra con il viso da lupo mi osservò un’ultima volta poi spiccò un balzo e, senza alcuna difficoltà, scavalcò la macchina e non la vidi più. Guardai la macchina in fiamme e la sola cosa che riuscivo a vedere era: 6 QGM 387. Il resto era offuscato. Un paio di lacrime caddero dai miei occhi mentre tornavo a fissare la luna, così bella e letale. Quell’uomo, lo stesso che aveva urlato contro l’ombra dagli occhi gialli, mi prese da sotto le ascelle e mi trascinò lontano. Si inginocchiò accanto a me e, tenendomi per mano, parlò al telefono con i soccorsi che stavano già giungendo sul posto. In lontananza, cominciavo a sentire il suono delle sirene. Udii una donna urlare. “Ma-mma” balbettai privo di forze. Era lei che stava gridando. Riconoscevo la sua voce. Fu in quel momento che l’auto, sotto i miei occhi spalancati e velati di lacrime, esplose.

 

 


Mi sollevai di scatto a sedere sul divano artigliandomi la maglietta e annaspando alla ricerca d’aria.
“Derek, grazie al cielo!” esclamò Stiles preoccupato.
Arricciai il naso alla puzza di paura e panico che iniziai a sentire. Poi capii che ero io, quell’odore veniva dal mio corpo.
“Non riuscivo a svegliarti” disse Stiles agitato.
Lo guardai solo per un secondo prima di portare gli occhi sulle mie mani modificate dagli artigli. Mi ero trasformato nel sonno. Inspirai profondamente tentando di riprendere il controllo. Mi ero addormentato sul divano e avevo sognato. Niente di più, non c’era motivo di perdere la testa.
Vidi Stiles infilare una mano in tasca e tirare fuori una delle sue solite stecche. Strappò l’involucro coi denti e me la offrì. Feci una smorfia e scossi la testa, non volevo drogarmi di liquirizia.
“Ti può aiutare” cercò di convincermi. Si sedette al mio fianco e mi prese la mano da lupo con la sua. “Fidati di me” aggiunse.
Mi specchiai nei suoi occhi e, in quel riflesso, vidi il blu dei miei.
Stiles avvicinò la stecca alla mia bocca e io aprii le labbra. La strinsi tra i denti e, appena la toccai con la lingua, venni invaso da una potentissima sensazione di benessere. Era come fluttuare in assenza di gravità. Lo fissai stralunato mentre il mio respiro si calmava e il cuore decelerava. Mi appoggiai allo schienale del divano morsicando la stecca alla liquirizia e continuando a guardare Stiles.
“Non riuscivo a svegliarti” ripeté ricambiando il mio sguardo smarrito, in cerca di una spiegazione.
Sapeva, dal mio odore, che qualcosa di brutto mi era appena successo.
“Solo un incubo” cercai di tranquillizzarlo senza riuscirci granché.
“Doveva essere davvero terribile” sussurrò stringendomi la mano e assorbendo il mio dolore emotivo senza rendersene neppure conto.
“Era più un ricordo” ammisi.
Stiles comprese. “Scusa” mormorò.
“No. Non fare così” lo fermai prima che potesse cominciare a sentirsi in colpa. Non avrei potuto sopportarlo. Lui sorrise, tristemente, ma non poté fare a meno di esalare rimorso. Tolsi la liquirizia dalla bocca e la lanciai sul tavolino. Presi Stiles per le guance e lo baciai con impeto. Lui ricambiò con urgenza e mi morsicò le labbra.
“Vorrei averti conosciuto in altre circostanze” mormorò riprendendo a baciarmi con foga.
Sapevamo entrambi che, in una situazione normale, non ci saremmo mai conosciuti. Lui sarebbe morto da piccolo, a causa del morbo di Batten, e io avrei continuato a vivere la vita con la mia famiglia senza nemmeno sapere della sua esistenza. Forse avrei letto di lui sul giornale o avrebbero fatto un servizio al telegiornale riguardo al padre proprietario di un’azienda multimiliardaria che in pochi anni aveva perso sia la moglie che il figlio. Lo avrei compatito ma la mia vita non sarebbe cambiata di una virgola.
Non c’erano altre circostanze in cui ci saremmo potuti conoscere. Ero quasi sei anni più grande di lui e non conoscevamo l’uno l’esistenza dell’altro, per cui non risposi a quell’osservazione totalmente insensata e continuai a baciarlo con irruenza e spingendolo per farlo sdraiare sul divano.
Poggiò la testa sul bracciolo e la gettò all’indietro per lasciare libero accesso alla sua gola che azzannai con denti umani. Gemette morsicandosi le labbra e allargando le gambe per lasciarmi accomodare. Senza perdere tempo, affondai contro di lui e nel frattempo gli tirai la maglietta verso l’altro. Sollevò il busto per farsela togliere poi prese la mia per il colletto e me la fece passare dalla testa.
Mi slacciò con frenesia i jeans e io scalciai per toglierli il più velocemente possibile. Con solo i boxer addosso, mi sdraiai di nuovo sul suo corpo seminudo baciandogli il petto e soffermandomi sui capezzoli già turgidi.
Lui infilò una mano tra i miei capelli e mi spinse più giù senza troppa forza. Gli abbassai la tuta e gliela sfilai, poi ritornai sul suo ombelico infilandoci dentro la lingua e scendendo sempre più giù. Quando poggiai le labbra aperte sul suo membro coperto dall’intimo lui gemette rumorosamente e sprigionò un aroma di freschezza ed eccitazione.
Anche le mutande fecero compagnia agli altri vestiti sul pavimento.
Eravamo nudi, sudati e, uno sopra l’altro, ci dondolavamo in una frizione deliziosa scambiandoci baci esageratamente bagnati.
“Girati” sussurrai con urgenza. Lui si avvinghiò con i polpacci alle mie gambe e inarcò la schiena per venire incontro alle mie spinte. “Ti prego” aggiunsi quando vidi che non aveva intenzione di farlo.
Mi ignorò, risucchiando il lobo del mio orecchio nella sua bocca.
“Tutto bene?” chiesi rallentando le spinte fino a fermarmi e fu maledettamente faticoso.
“Sì” rispose baciandomi una spalla.
“Non vuoi farlo?” domandai per essere sicuro fin dove fosse disposto a spingersi.
“Non credo sia una buona idea” rispose avvolgendomi le spalle con un braccio. “Possiamo fare altro” propose infilando una mano tra i nostri corpi appiccicati di sudore e afferrando il mio sesso.
Gemetti contro il suo orecchio e lo guardai. “C’è una ragione particolare?” chiesi non potendo fare a meno di spingermi nella sua mano.
“Non sai niente di lupi, vero?” chiese retorico.
Aggrottai le sopracciglia e mi sollevai poggiando i gomiti ai lati della sua testa. “No” ammisi.
Stiles lasciò andare il mio membro. Sospirò e mi guardò dubbioso. “I lupi sono animali molto fedeli” esordì studiando le mie reazioni. “Quando scelgono il proprio compagno rimangono legati ad esso per tutta la vita” spiegò.
Percepii una punta di speranza esalare dal suo corpo, la stessa che avevo sentito quando ci eravamo incontrati la prima volta e, finalmente, compresi. Lui mi aveva già scelto. Mi aveva scelto quando ancora non mi conosceva e sentiva Talia raccontargli di me. Lui sarebbe stato solo per tutta la vita senza trovarsi nessun altro compagno perché il lupo mi aveva scelto quando aveva solo quindici anni.
“Non voglio obbligarti a stare legato a me” disse spaventato. Aveva paura che lo rifiutassi ma anche di costringermi a stare con lui contro la mia volontà.
Con lentezza mi alzai in piedi e, completamente nudo, mi diressi verso la camera. Emanò incomprensione e tristezza vedendomi allontanarmi. Presi la mia giacca di pelle, quella che mi aveva bucato sulle spalle con i canini al nostro primo incontro, e la portai in salotto.
Fece per alzarsi a sedere ma lo fermai. “Resta così” dissi sedendomi a cavalcioni sul suo bacino. Le nostre erezioni si erano affievolite ma, quando rientrarono a contatto, entrambi dovemmo trattenerci dal boccheggiare per il piacere. “All’inizio non capivo per quale motivo la portassi con me, ma ora credo di saperlo” mormorai.
Mi fissò confusamente mentre infilavo una mano nella tasca. Tirai fuori la sua fotografia spiegazzata e bucata i tre punti. Era ormai rovinata a causa di tutte le volte in cui l’avevo stretta tra le dita e infilzata con gli artigli.
Stiles la prese tra le mani e la osservò. Si riguardò in quella felpa rossa con in mano una mela già morsicata e con i capelli molto più corti. Sorrideva ad una persona non inquadrata e aveva un’espressione divertita come se avesse appena fatto una delle sue tipiche battute sarcastiche.
Stiles spostava lo sguardo dalla foto a me, sempre più scioccato.
“Mi sono sempre chiesto chi guardavi con così tanto affetto, ma ora lo so” dissi riprendendo la fotografia e rimettendola al suo posto. “Guardavi mia madre”.
Non sapeva cosa dire, ma il fatto che nessun sentimento negativo aleggiava nell’aria era un buon segno.
“Anche io ti ho scelto” dissi infine. “E credo che sia stato il lupo il primo ad accorgersene e obbligarmi a portare sempre con me una tua foto” confessai.
Stiles, restando sempre sdraiato sul divano, sorrise e mi guardò come se fossi la persona più importante della sua vita e, molto probabilmente, era così: lui non aveva nessuno a parte me e, senza la mia famiglia, anche io avevo solo lui.
“Hai detto che mi amavi senza nemmeno avermi mai visto” ricordai la sua confessione. “Credo che per me valga lo stesso: il lupo si è innamorato di te solo guardandoti e io mi sono innamorato appena ho imparato a conoscerti”.
Prese la giacca di pelle, che ancora tenevo in mano, e la fece cadere sul pavimento insieme agli altri vestiti che ci eravamo tolti con frenesia. Mi prese per le spalle e mi tirò verso di sé. Mi abbracciò con tutta la forza che aveva in corpo, baciandomi una guancia ispida di barba diventata troppo lunga. Stiles, in confronto a me, aveva solo qualche peletto sul mento e pochi baffi, sembrava che fosse ancora in una fase puberale perché i peli sul suo viso non avevano intenzione di crescere, a parte quando si trasformava, ovvio.
Incastrai le mani tra la sua schiena e il divano e ricambiai l’abbraccio.
Ripensai al sogno che avevo avuto, ai suoi occhi gialli che erano stati l’ultima cosa vista da mia madre prima che la macchina esplodesse.
“Possiamo riprovarci, se vuoi” propose allentando l’abbraccio.
“Guardami” dissi. Lui obbedì e mi fissò normalmente. Le pupille erano dilatate ma, nonostante questo, si vedeva la profondità di quegli occhi castani. “Non così” aggiunsi.
Capì subito cosa volevo che facesse. In un attimo l’oro prese il posto del marrone. Quelli erano gli occhi visti da Talia e ora avevo la certezza che mai li aveva guardati con disprezzo o paura, ma li aveva guardati con speranza, chiedendogli di salvarmi ed era così che, da adesso in poi, avrei ricambiato il suo sguardo: con gratitudine, per avermi salvato la vita trascinandomi fuori dalla macchina in fiamme, e con la speranza che avrebbe continuato a salvarmela.
Successe così: Stiles si voltò a pancia in giù dandomi il permesso di entrare dentro di lui. Non fu facile mantenere il lato umano una volta che il mio membro fu seppellito tra le sue carni. Per restare concentrato e non perdere il controllo vezzeggiavo la sua schiena bianca e sudata ricoperta di nei, stavo sviluppando un’ossessione morbosa per quella parte del corpo. Infilai il naso tra i suoi capelli e lo annusai senza ritegno inebriandomi del suo odore oltre che del suo corpo.
Fu appagante sentire i suoi gemiti quando venne macchiando il copridivano e fu sensazionale venire dentro di lui aumentando le spinte d’intensità. Sapevo che era la sua prima volta, per cui tenni sotto controllo i segnali chimici ma non captai nessun senso di dolore e nessun ripensamento. Essere licantropi voleva anche dire avere una soglia più elevata di dolore e sopportarlo meglio.
Ansimai contro il suo orecchio sdraiandomi completamente sul suo corpo nudo e bollente. Non volli uscire da lui. Desideravo stare al suo interno per sempre. Era così che mi volevo sentire per il resto della mia vita: sereno e in pace con il mondo.
“Derek” ansimò Stiles senza fiato a causa dell’eccitazione e del mio peso che lo comprimeva sul divano. “Credo che questa sia stata la cosa più bella che sia successa in tutta la mia vita” dichiarò.
Con un sospiro, lentamente, sfilai il mio membro dal suo corpo. Stiles gemette un’altra volta a quella sensazione. Gli baciai una spalla e mi sollevai, lui mi imitò con calma, testando quella sensazione di vuoto che stava cominciando a provare a causa della mia assenza, sfuggendo al mio sguardo e sedendosi di fianco a me con le cosce e le braccia ancora a contatto.
Lo afferrai per il mento e voltai il viso verso di me. “È stato fantastico” dissi facendolo arrossire più di quanto già non fosse. Le sue guance erano di un rosso vivace a causa dell’eccitazione ma vedere la sua faccia farsi quasi color porpora fu divertente. “Vorrei poter provare questo per sempre” confessai.
Stiles posò il mento sulla mia spalla, mi fissò intenerito emanando così tanto calore da renderlo accattivante.
“Puoi provarlo ancora, finché ne avrai voglia” mi blandì. La sua frase era stata poco più di un sussurro ma era come rimbombata nelle mie orecchie.
Senza farmelo ripetere due volte lo presi per i fianchi e lo sollevai per farlo mettere a cavalcioni sulle mie gambe. Affondai la schiena tra i cuscini e lo condussi sulla mia erezione non completamente formata.
Fu lui a dirigere i giochi: scelse il ritmo e quando baciarmi. Io tenevo solo le mani strette ai suoi fianchi e lo aiutavo quando percepivo che stava esaurendo le energie. Venni di nuovo dentro di lui e cominciai a toccarlo fino a che raggiunse il piacere sporcandomi la mano e il petto.
Restammo in quella posizione, come se ne valesse della nostra vita.
Lo facemmo altre due volte nel corso della notte. Entrai al suo interno sporcandolo e riempiendolo e drogandomi del suo odore, non potendo più fare a meno di lui. Era maledettamente bello dipendere da lui ma sapevo che poteva diventare pericoloso.
Andammo a letto e ci addormentammo nel giro di pochi minuti, stremati da tutto il sesso che avevamo fatto e che aveva impregnato persino i muri di casa. Al nostro risveglio, la prima cosa che Stiles mi chiese fu: “fai di nuovo l’amore con me?”. Non rifiutai. Il lupo scalpitò per uscire ma lo obbligai a restarsene buono e notai che anche Stiles si stava sforzando sempre di più per combatterlo, un paio di volte avevo visto i suoi canini crescere.
Forse un giorno avremmo potuto sfogarci senza paura e mostrare l’un l’altro anche il nostro lato animale creato dalla licantropia, forse un giorno saremmo stati liberi.

Poco più tardi mi resi conto che quello sarebbe stato l'ultimo bel ricordo associato a quella casa nel bosco.

Era pomeriggio inoltrato quando accadde.
Stavamo leggendo sul divano. Io ero seduto con le gambe allungate sul tavolino di fronte a me mentre Stiles era sdraiato e aveva infilato le punte dei piedi sotto la mia coscia. Era tutto pacifico e tranquillo, una situazione domestica e piacevolmente intima.
Lo sentimmo nello stesso istante: il motore di un elicottero che si stava avvicinando.
Stiles si sollevò con il busto mentre io poggiavo il libro sulle mie gambe.
“Forse sta solo passando” sperai.
Vidi il naso di Stiles arricciarsi per annusare. “Umani” dichiarò.
Odorai anche io. Qualcuno si stava avvicinando alla casa. Dopo l’odore sentimmo anche il rumore delle foglie e dei rami che si spezzavano e tanti battiti arrivarono alle nostre orecchie.
Mi alzai in piedi di scatto. “Dobbiamo scappare” esclamai. L’incubo era diventato realtà: ci avevano trovati, non eravamo più al sicuro.
Stiles non si mosse. Aveva il viso stravolto e spaventato. Si guardava attorno osservando quella casa che lo aveva tenuto al sicuro per oltre due anni.
Lo presi per un gomito e lo sollevai con uno strattone. “Andiamo” ordinai mentre gli occhi mi diventavano blu e il mio corpo iniziava a trasformarsi.
Anche Stiles cominciò la mutazione rapidamente. I tratti da lupo sovrapposero quelli umani.
Mi affacciai alla finestra più vicina. Il rumore dell’elicottero era diventato più energico, la forza delle pale scuoteva le piante della radura e molti uccelli si levarono in volo, intimoriti dal frastuono.
Spinsi Stiles per farlo uscire prima di me quando, improvvisamente, scappò in camera.
“Dove vai?” mi sgolai inseguendolo.
Prese il foglio poggiato sulla scrivania, con un indirizzo e un numero di telefono sconosciuti. Io rimirai quella stanza un’ultima volta, ripensando ai baci scambiati su quel letto sfatto e a tutto il sesso che avevamo fatto appena svegli.
Stiles si sporse oltre la finestra e poggiò i piedi nudi sul davanzale. “Derek, sei con me?” mi chiamò balzando oltre.
L’odore degli umani si era fatto più intenso e c’erano talmente tanti cuori che battevano che era impossibile sapere quanti fossero. Mi catapultai fuori dalla finestra e Stiles, di nuovo, cercò di tornare indietro.
“Il koala!” urlò.
Lo afferrai per un polso, infilzandogli accidentalmente gli artigli nella carne, e gli impedii di rientrare in casa.
“No! Devo prenderlo!” gridò.
I primi umani sbucarono dal folto della foresta. Erano completamente vestiti di nero e indossavano caschi a proteggere il viso. L’elicottero, sopra le nostre teste, ci ostacolava i sensi con il suo rumore insopportabile. Non dissero niente. Non ci chiesero di arrenderci, né ci diedero nessun preavviso. Aprirono il fuoco principalmente su Stiles, perché sapevano che guariva in fretta e dovevano impedirglielo.
Pensai che forse non avevano l’ordine di catturarci. Avevano l’ordine di ucciderci.


Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10


Dovevo pensare in fretta, ma era difficile farlo quando ti sparavano addosso. Non potevamo rientrare in casa altrimenti ci avrebbero circondato e non avremmo più avuto via di scampo.
Stiles, completamente trasformato, evitava quanti più proiettili possibili ad una velocità inumana.
Appena avevo capito che le loro intenzioni non erano pacifiche, ero balzato su uno dei soldati strappandogli il mitra dalle mani e facendomi scudo col suo corpo. Non esitarono a sparare addosso a lui per arrivare a me. Morì tra le mie braccia e lo lasciai andare.
Una raffica di colpi mi trapassò le gambe. Caddi in ginocchio tra le foglie secche. I pantaloni chiari si macchiarono di rosso mentre i soldati mi impedivano di guarire continuando a spararmi alle braccia, alle gambe, prendendo punti non vitali ma proibendomi di rialzarmi da terra.
Ruggii dalla frustrazione sentendo l’odore del sangue di Stiles arrivarmi alle narici. Urlava dal dolore ad ogni colpo che subiva ma guariva talmente velocemente che quasi non ci faceva caso. Non lo vidi, ma lo sentii attaccare i soldati disarmandoli e graffiandoli. Udivo le loro grida di dolore quando Stiles affondava i canini nella loro carne.
Inspirai profondamente. Ero crollato a terra in un attimo, sdraiato in posizione fetale, e cinque uomini mi avevano circondato. Mi sparavano alternandosi. Ogni tre secondi un proiettile mi perforava la pelle facendomi uggiolare come un cane bastonato. Percepivo l’elicottero sopra di noi, il rumore metallico delle armi quando venivano ricaricate e dei bossoli che cadevano sulle foglie.
Udivo i ringhi disperati di Stiles mentre continuava a difendersi e a sopportare tutto quel dolore. L’odore del suo sangue era diventato pungente e si era mischiato al sudore e alla paura.
Era terrorizzato. Riconoscevo quella sensazione chiaramente e la odiavo. Non volevo che si sentisse così.
Cercai di risollevarmi ma un proiettile mi colpì la schiena. Non era niente, non dovevo dare importanza al dolore, era solo qualcosa con cui dovevo imparare a convivere. La dottoressa Martin mi aveva addestrato a sopportare l’elettricità. Le pallottole non erano così diverse.
Ci riprovai ancora. Mi sollevai con il busto restando comunque a terra con gomiti e ginocchia e la fronte poggiata su un mucchio di foglie macchiate con il mio sangue.
Stiles ringhiò l’ennesima volta quando un’altra scarica di proiettili lo colpì. Non riuscivo a vederlo ma lo stavo monitorando. Era allo stremo ed ero sicuro che anche lui stesse captando quello che mi stava accadendo. Sentiva che non riuscivo a reagire perché non possedevo la sua capacità di guarire così in fretta. Mi stavano sottomettendo come se non possedessi alcun potere e io non riuscivo a ribellarmi.
Il rumore degli spari era assordante, così come i battiti dei loro cuori. La natura, invece, si era fatta silenziosa, turbata nel suo delicato equilibrio dall’invasione di quegli uomini.
Fu quando Stiles gridò come un umano che la mia mente andò in bianco. Aveva smesso di ringhiare. Lo udivo ansimare e gemere di dolore come una persona normale e non più come un lupo. Una sequenza di spari arrivò alle mie orecchie e Stiles urlò furiosamente.
Un altro proiettile mi colpì la spalla, poi una coscia e un fianco, innescando nuovamente il processo di guarigione.
Stiles ormai non stava più combattendo, anche lui si era arreso e sopportava quella violenza inaudita sbraitando e piangendo ad ogni colpo che riceveva.
Per quanto tempo avremmo potuto resistere prima di morire dissanguati come cani rabbiosi? Perché non ci sparavano in testa e la facevano finita?
“Derek…” . La sua voce arrivò flebile alle mie orecchie. “Derek, mi senti?”.
Spalancai gli occhi, fissando il sangue che copriva il terreno e concentrandomi sulla sua voce. “S-sì” balbettai dolorante.
“Pensa a noi. Pensa a quello che abbiamo fatto stamattina” mormorò ansando.
Capii subito quello che stava cercando di fare. Era convinto che stessimo per morire e voleva che pensassi a qualcosa di bello per l’ultima volta. Voleva che pensassi a lui e non a quelle persone che ci stavano massacrando, che ci odiavano e che emanavano disgusto ogni volta che un proiettile ci colpiva e noi non morivamo.
Così pensai a quello che era avvenuto in quella casa. In quel luogo sicuro e solitario dove ci eravamo sentiti protetti e amati. Pensai a Stiles che, convinto di morire, si premurava di farmi stare bene per un’ultima volta e il dolore scomparve lasciando spazio alla voglia di continuare a vivere, insieme a lui, una vita felice.
Mi spinsi verso l’alto, spiccando un balzo e atterrando con i piedi nudi sulle spalle di uno di quei soldati che mi circondavano. Cadde per terra a causa del mio peso. Gli presi il fucile tra le mani e, con gli artigli che stavano ricrescendo, lo spezzai a metà.
Mi alzai in piedi mentre la mia schiena veniva continuamente trivellata da proiettili. Era il momento di dimostrare la differenza tra me e Stiles. LUPO-01 guariva più rapidamente ma io, LUPO-02, ero molto più forte.
Mi voltai verso i quattro soldati rimanenti. Due di loro stavano ricaricando l’arma. Spalancai le braccia e aprii la bocca per far vedere loro i miei canini e ritrasformandomi completamente sotto i loro occhi.
Ruggii. Era un verso talmente animalesco da non farmi sembrare nemmeno più un lupo ma piuttosto un leone molto arrabbiato. Li vidi guardarsi tra di loro e poi cercare di riprendere a spararmi. Non glielo permisi. Balzai addosso a uno di loro, lo colpii in pieno petto con un piede e lo calciai per terra, poi mi dedicai a un altro graffiandogli il petto con gli artigli che trapassarono la tuta antisommossa. Un altro proiettile mi colpì la scapola, lo sentii entrare in profondità ma non badai al dolore. Rapidamente, mi avvicinai all’uomo che aveva sparato e gli afferrai le mani stringendole tra le mie e rompendogli le dita.
“Prova a sparare, adesso” ringhiai rabbiosamente coprendo le sue urla di dolore.
Stiles, forse percependo il mio cambiamento, trovò la forza di reagire. Il suo odore si fece più intenso e lupesco e lo udii di nuovo ringhiare. Nonostante tutto, non riuscii a vederlo ma sentii che stava avendo la meglio sui soldati che urlavano a causa delle ferite che lui stava infliggendo.
Mi avvicinai all’ultimo uomo che aveva appena finito di ricaricare il mitra e me lo aveva già puntato contro. Mi specchiai attraverso il vetro scuro del suo casco vedendo i miei occhi blu. Non erano mai stati così brillanti e feroci.
Un rumore ferino nacque lentamente dalla mia gola mentre i segnali chimici mi facevano capire che quell’uomo aveva paura di me. Bene, doveva sentirsi così. Doveva sentirsi nello stesso modo in cui si era appena sentito Stiles. Doveva avere paura di morire.
Schivai un proiettile prima di trovarmi davanti a lui, con un calcio gli colpii il ginocchio rompendogli la rotula. Cadde a terra agonizzante lasciando andare l’arma. Mi chinai sul suo corpo e, non contento, lo azzannai all’altra gamba per impedirgli di muoversi. Calciai il mitra lontano e mi guardai attorno.
I soldati vestiti di nero si trovavano a terra. Alcuni erano svenuti, altri urlavano tormentati dal dolore.
Cercai Stiles utilizzando tutti i miei sensi: era nel bosco. Corsi nella sua direzione e vidi una distesa di uomini sanguinanti a terra. Erano tutti vivi, ma feriti. Uno di loro si stava rialzando. Arrivai da dietro e gli squarciai la schiena con gli artigli ormai rossi.
Mi fermai quando vidi Stiles, circondato da sei uomini, correre verso un albero e arrampicarsi come una scimmia. I suoi vestiti erano ricoperti di sangue, così come il suo viso dolce e innocente.
I soldati puntarono le armi verso l’alto senza sparare. Stiles si era nascosto tra i rami folti, lo vidi grazie ai segnali termici. Anche lui mi aveva notato.
“Ora” mormorai sapendo che lui mi avrebbe udito chiaramente.
Scattai in avanti afferrando la testa di due uomini e facendola scontrare l’una contro l’altra. Il casco si ruppe a causa della forza. Stiles cadde dall’albero di fronte a un uomo, lo disarmò con un calcio e gli tirò un pugno sul petto facendolo volare all’indietro e beccandosi un’altra pallottola che il suo corpo risputò dopo pochi secondi. Si girò per fronteggiare colui che gli aveva appena sparato mentre io mi occupavo di un altro che perse i sensi fin troppo velocemente.
Un solo soldato rimase in piedi. Mi affiancai a Stiles e lo fissammo con aria di sfida. Stiles mostrò le gengive e ringhiò quasi sottovoce. Il suo petto vibrò a quel suono.
L’uomo ci puntava il mitra contro, prima a me e poi a Stiles, non sapendo a chi dei due sparare per primo.
“Puoi gettare l’arma e andartene senza un graffio, o sparare ad uno di noi e ritrovarti con le gambe spezzate” gli lasciai scegliere.
Lui respirò affannosamente da sotto il casco e abbassò l’arma.
Afferrai Stiles per il polso e lo obbligai ad incamminarsi nella foresta. Ci lasciammo la casa alle spalle e, con lei, tutti i ricordi vissuti là dentro.
L’elicottero, sopra di noi, si allontanò.
Corremmo per un paio di chilometri e, quando fummo abbastanza distanti, obbligai Stiles a fermarsi. Mi piegai poggiando le mani sulle ginocchia e lasciando che gli ultimi proiettili uscissero dal mio corpo. Guarii, finalmente, e la sensazione di dolore perenne scomparve.
“Stai bene?” chiese appoggiandomi una mano sulla spalla.
Mi risollevai e lo guardai. Aveva il volto quasi interamente coperto di sangue, eccetto che per le due righe sulle guance formate dalle lacrime che avevano pulito la pelle, così come il resto dei vestiti, ma non ne sembrava particolarmente turbato.
“Non è la prima volta che ti attaccano in questo modo, vero?” domandai.
Scosse la testa. “È già successo che riuscissero a circondarmi quando ero in città” rispose sedendosi per terra per riposarsi un po’. “Ma quando ti attaccano a casa è diverso” sussurrò strappando l’erba dal terreno. “Come hanno fatto a trovarci?”.
Non seppi rispondergli. Sapevo che prima o poi ci avrebbero scoperti ma non pensavo che sarebbe accaduto in un modo così violento. Non avevano nemmeno provato a convincerci ad arrenderci, ci avevano attaccato senza pietà. Come se non fossimo neppure umani…
“E adesso…” iniziai guardandomi attorno e puntando poi gli occhi su Stiles. Mi sentivo spaesato e mi auguravo che lui avesse le risposte alle mie domande. Lo guardavo sperando che capisse quanto mi aveva turbato quello che era appena avvenuto. “… dove andiamo?” finii la frase.
Lui, ancora provato, si alzò in piedi lentamente.
Fissai il suo volto, reso irriconoscibile a causa del sangue che lo ricopriva, il suo e quello di quegli uomini. Una goccia rossa e liquida, che si era mischiata al sudore, gli scivolò dalla mascella fino al collo.
Stiles mise una mano in tasca e tirò fuori quel famoso foglio che aveva sempre tenuto sulla scrivania. Lo sporcò immediatamente lasciando le impronte delle dita. Il sangue era ancora fresco.
Deglutii rumorosamente e mi misi davanti a lui.
“Dovrebbe esserci un torrente più ad est” mormorò. “Potremo lavarci là” propose abbassando lo sguardo ai nostri piedi nudi. Emanò tristezza. Era da tanto che non sentivo quell’odore su di lui.
“Stiles…” sussurrai poggiandogli una mano sulla spalla e stringendogliela senza forza, proprio come aveva appena fatto lui.
“Io voglio solo essere libero” singhiozzò alzando gli occhi lucidi. “Sono stato costretto a vivere in una casa che rischiava di crollare in mezzo ad un bosco, senza acqua calda, dovendo rubare il cibo per sopravvivere. Tutto per colpa di quello stronzo che non vuole lasciarmi andare!” sbraitò. La sua voce riecheggiò tra gli alberi. “Perché mi rivuole così tanto? Perché non può solo dimenticarmi?” domandò ad alta voce.
“Stiles” ripetei circondandogli le spalle e tirandomelo addosso. Lo abbracciai e infilai il naso tra i suoi capelli sporchi per respirarlo meglio. Le sue braccia mi avvolsero i fianchi e poggiò una guancia contro il mio petto.
Percepii il suo cuore decelerare e il suo respiro calmarsi. La tristezza non svanì ma almeno si mischiò al sollievo che provava nel non dovere più vivere tutto quello da solo.
Lui, che era pronto a distruggere l’AconiRAL e morire avvelenato in poco più di un minuto, adesso sospirava di sollievo per essere ancora vivo.
“Andiamo al torrente” dissi pacato.
Annuì, ma non staccò la guancia dal mio petto. Restammo così immobili un’altra manciata di secondi poi ci staccammo e ci dirigemmo verso il rumore dell’acqua che sentivamo nitidamente grazie all’udito sviluppato.
Ci lavammo nell’acqua fredda e limpida, sporcandola di terra e sangue. Bevvi prima di lavarmi il viso e vedere la corrente portare via il rosso. Stiles era entrato completamente e sciacquava la maglia per farla tornare al suo colore originale. Non ci riuscì.
Mi avvicinai e lo guardai con cura. La sua pelle pallida era ricomparsa. Era di nuovo lui.
Con la mano bagnata gli levai una macchia rossa dal collo che stava iniziando a raggrumarsi. Lui posò la sua mano sulla mia e se la portò alla guancia, piegò il volto per spingersi contro il mio palmo. Con il pollice gli accarezzai lo zigomo e mi abbassai per posare un bacio delicato a fior di labbra. Esalò un sospiro tremulo e chiuse gli occhi beandosi del calore della mia mano contro la sua pelle.
“Dobbiamo andare” dissi controvoglia. Avrei voluto restare a guardare la sua espressione, mentre si godeva anche un tocco così semplice, per sempre. Il bosco, però, non era più un posto sicuro.
Attraversammo la foresta mentre i nostri vestiti sgocciolavano sulla terra ricoperta di foglie e rami. Stiles, più volte, si asciugò la fronte per togliere le gocce d’acqua che gli cascavano dai capelli.
Raggiungemmo il limitare del bosco dopo diversi chilometri. “Aspettiamo il buio” dissi. Era meglio nascondersi ancora un po’. Stiles annuì e ci allontanammo dalla strada. Ci sedemmo contro un tronco, mano nella mano, ad aspettare che il sole calasse. Poggiai la testa su quella di Stiles calmandomi con il suo odore e facendomi cullare dal battito, ora sereno, del suo cuore.
Fu quando sorse la luna, poco più grande della metà, e il cielo si ricoprì di stelle, che ci mettemmo di nuovo in piedi.
“Dovremo passare per i tetti” dichiarò Stiles.
Eravamo nella parte industriale della città, dove passava meno gente. Tra tutti gli edifici, uno era il più riconoscibile: quello più alto e maestoso.
Mi voltai verso Stiles. Guardava la struttura dove era cresciuto, e dove suo padre lo aveva trasformato, con odio.
“Andiamo” esortai prendendo di nuovo la sua mano.
Salimmo sul tetto di un edificio e saltammo tra le varie aziende. Il vento primaverile ci sferzava il viso galvanizzandoci un po’. Raggiungemmo in fretta il centro e l’indirizzo segnato sul foglio.
Guardai oltre il palazzo e osservai le ville dall’altra parte della strada. Stiles si sporse dal bordo e guardò il marciapiede sotto di noi per vedere se passasse qualcuno. Un uomo e una donna stavano passeggiando con un cane. Aspettammo che svoltassero l’angolo poi, una volta appurato che non ci fossero telecamere, ci lasciammo cadere giù.
Stiles si avvicinò alla villa. Tutte le luci erano spente. Controllò un’ultima volta il numero civico e bussò adagio. Nessuna luce si accese e nessuno venne alla porta.
“Mi puoi dire chi ti ha dato l’indirizzo?” chiesi sussurrando e guardandomi attorno, nel timore di vedere qualcuno.
Stiles poggiò le nocche sulla porta e bussò ancora tre volte. Niente.
Sollevò il viso per guardarmi e si strinse nelle spalle. “Mi ha detto di venirci quando non sarei più stato al sicuro” spiegò confuso.
“Chi ti ha detto di venirci?” domandai.
“Scott” rivelò.
Aggrottai le sopracciglia cominciando a capire fin troppe cose: l’odore di liquirizia che sentivo alla Stilinski Corporation solo quando c’era lui; il modo in cui mi fissava, come se avesse paura che potevo capire che era lui quello che stava nascondendo Stiles; lui e Lydia che parlavano e temevano che io avessi origliato le loro conversazioni. Capii che anche Lydia era dalla nostra parte, lo era sempre stata.
Afferrai la maniglia della porta per forzare la serratura. Spinsi un po’ e quella si aprì con facilità. “Di chi sarà questa casa?” domandai tra me e me.
“Be’, di Scott” suppose Stiles oltrepassando la soglia.
“La casa nel bosco… era sua, vero?” chiesi chiudendomi la porta alle spalle.
“Di sua madre. La stavano demolendo, per questo era così” rispose. “Quando ha saputo della mia fuga mi ha rintracciato con l’AconiRAL, me l’ha tolto e mi ha detto di andare lì a vivere” mormorò entrando nel salotto.
“Era lui che veniva a incatenarti prima della luna piena” compresi.
Lui strinse le labbra e annuì. “Lui ha suggerito di legarmi durante il plenilunio. Ha progettato lui le catene e le ha incastonate al muro” mormorò passando un dito su una mensola e guardandolo. “Strano” disse a bassa voce.
“Che cosa?” chiesi annusando la casa. Sentii odore di umani ma non era quello di Scott.
Stiles mi mostrò il dito. “Niente polvere” mi fece notare. Prese una cornice appoggiata alla mensola e guardò la foto che conteneva. I suoi occhi divennero gialli. “Qui ci abita qualcuno”.
Non fece in tempo a finire la frase che una macchina entrò nel vialetto. Udii due portiere aprirsi e poi chiudersi. “Dobbiamo scappare” dissi con urgenza.
“No” ribatté riappoggiando la fotografia. “Scott mi ha detto di venire qui per un motivo”.
Mi avvicinai a lui afferrandolo per un braccio. “Non puoi fidarti” esclamai sentendo due voci giovanili accostarsi alla porta. Erano due ragazzi.
“Devo” rispose divincolandosi dalla mia presa.
“Ma che succede?” chiese uno di loro fuori casa.
“Che ti prende, ora?” domandò l’altro sospirando teatralmente.
“La porta è rotta” disse.
Sentimmo i loro cuori aumentare il battito mentre la porta veniva riaperta e i due entravano.
“Chiamo la polizia” parlò di nuovo.
La luce si accese e i due trattennero il fiato vedendoci fermi nel loro salotto. Quello che stava per chiamare gli sbirri riattaccò velocemente e mise il cellulare in tasca. Erano due ragazzi giovani, forse universitari, e stavano emanando confusione. Erano preoccupati ma non sembrava che avessero paura di noi. Si guardarono per un istante poi, quello con il cellulare, si schiarì la voce e inaspettatamente ci fece una domanda: “cosa volete mangiare?”.
Guardai Stiles. Era lui quello ad aver ricevuto l’indirizzo da parte di Scott e pensavo che conoscesse quelle due persone ma, a giudicare da come le stava fissando, non era così.
“Chi siete?” domandò continuando a far brillare gli occhi.
“Mi chiamo Theo” si presentò quello che ci aveva appena chiesto cosa volessimo da mangiare a quasi mezzanotte. Diede una gomitata all’altro ragazzo e quello parlò: “io sono Liam” disse non smettendo di guardarci con la bocca spalancata.
L’altro, Theo, roteò gli occhi. “Ci è stato chiesto di non farvi nessuna domanda personale” disse. “Siete al sicuro. Nessuno alla Stilinski Corporation ci conosce. Qui, in pieno centro, è un posto insospettabile: vi nasconderete in mezzo alla gente” spiegò con calma Theo.
Sembrava più grande dell’altro ragazzo con gli occhi azzurri che forse aveva sui diciannove anni, un bambino. Scott aveva messo la sicurezza di Stiles nelle mani di due ragazzini.
“Chi siete?” domandai ripetendo la domanda di Stiles.
“Sono un amico di Scott” rispose Theo. Liam annuì con la bocca aperta.
Mi voltai a fissare la foto che aveva guardato anche Stiles poco prima: ritraeva i due ragazzi che sorridevano all’obbiettivo e, sullo sfondo, il ponte di San Francisco.
“E lui?” chiesi indicando il più piccolo con un cenno della testa e squadrandolo in malo modo.
“Lui sta con me. Non ti serve sapere altro” rispose Theo con uno sguardo di sfida.
Non mi fidavo. Come potevo, d'altronde? Quanto era stato stupido Scott a riporre la nostra sicurezza nelle loro mani. La polizia offriva ricompense a chiunque dava informazioni, avrebbero potuto fare molti soldi vendendoci.
“Non siamo noi il nemico” disse Theo continuando a fissarmi.
Annusai il loro odore. Loro non ci detestavano, non provavano odio né paura. Il battito dei loro cuori era rassicurante e non potevano fingerlo.
Guardai di nuovo Stiles. Non aveva aperto bocca ma anche lui li aveva osservati per un po’ con sospetto, poi si era tranquillizzato, probabilmente percependo le mie stesse sensazioni.
“Quindi immagino che abbiate fame” riprese Theo. “Qualche preferenza?”.
Scossi la testa. Era dalla sera precedente che non mangiavamo. Immaginavo che anche a Stiles sarebbe andata bene qualsiasi cosa.
Liam si defilò in quella che doveva essere la cucina e si sentì rumore di padelle. “Se volete darvi una ripulita, intanto che cuciniamo, il bagno è di sopra sulla sinistra” disse osservandoci i vestiti che avevamo cercato di lavare al torrente. Ci invitò, con un cenno della mano, a salire le scale.
Stiles si incamminò e, dopo qualche secondo, lo imitai.
“Mi assicurerò di farvi trovare degli altri vestiti” disse quando arrivai in cima.
Mi voltai a fissarlo e ascoltai ancora il battito sereno del suo cuore. Aveva in casa due mutanti. I ricercati più famosi dell’intera California e forse di tutta l’America e ci stava offrendo asilo come se nulla fosse.
“Grazie” mormorai.
Theo annuì e, senza dire niente, raggiunse Liam in cucina.
Andai da Stiles, che aveva appena aperto la porta del bagno. Ci spogliammo lentamente. Sotto i vestiti la pelle era ancora sporca di sangue e terra. Ci lavammo insieme sotto la doccia senza parlare e ci immobilizzammo quando sentimmo i passi di qualcuno salire le scale. Osservai Stiles irrigidirsi e tendere le orecchie. Riconobbi Liam che si fermò davanti alla porta chiusa del bagno e poi se ne andò.
“Ci ha portato i vestiti” lo rassicurai con un sussurro. Le sue spalle si rilassarono.
Una volta finito li raggiungemmo in cucina e mangiammo tutto quello che avevano preparato con voracità. Avevamo un metabolismo più veloce e bruciavamo più di un essere umano, quindi dovevamo mangiare più spesso e più abbondante e invece era da quasi trenta ore che non mettevamo qualcosa sotto i denti.
Quando finimmo Liam accompagnò Stiles, esausto e fin troppo silenzioso, nella camera degli ospiti.
Osservai Theo che, a sua volta, guardava Liam uscire dalla cucina. Nei suoi occhi notai un sentimento che assomigliava a quello che provavo per Stiles.


Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.
Chiedo scusa se gli aggiornamenti sono a rilento, ma ho ripreso a lavorare e ho meno tempo per scrivere.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

Mi trovavo nella radura. Ai miei piedi i corpi dei soldati che ci avevano attaccato. I raggi del sole filtravano tra gli alberi e illuminavano il bosco silenzioso. Era tutto così calmo. Ora che quegli uomini avevano smesso di sparare riuscivo a sentire di nuovo il rumore degli uccellini che tornavano nel loro nidi. Vidi Stiles sbucare da dietro un albero. Era vestito completamente di bianco e i piedi nudi erano sporchi di terra. Guardai le mie mani intrise di sangue e, noncurante, mi avvicinai a lui e lo abbracciai sporcando il candore di quegli abiti. Mi accarezzò il viso con una mano poi mi spinse via quando un soldato, l’ultimo sopravvissuto, ci lanciò addosso una fiala piena di liquido viola. Colpì Stiles sulla spalla e si ruppe macchiandogli la giacca bianca e facendo esplodere nell’aria una polverina lilla. Stiles la inalò e cadde in ginocchio privo di forze. Ansimò raucamente, boccheggiando alla ricerca d’aria.
“Stiles!” urlai mentre si accasciava a terra. Mi inginocchiai al suo fianco guardando quell’uomo. Si tolse il casco e rivelò il suo volto: era Chris Argent.
“Dovevi solo portarlo da me” disse. “Non sarebbe successo se avessi fatto quello per cui ti ho creato” mi incolpò.
Ringhiai ferocemente mentre percepivo il battito del cuore di Stiles indebolirsi. Era aconito. Quella stupida pianta ci poteva uccidere in novanta secondi. Un’arma letale, una delle nostre poche debolezze. Stiles non riusciva più a respirare, la polvere viola gli aveva riempito i polmoni. I suoi occhi divennero gialli.
“Dai, trasformati” lo incoraggiai afferrandogli una mano e tentando di assorbire il suo dolore. Non riuscì a mutare completamente e divenne paonazzo a causa della mancanza di ossigeno.
“Non riesco a prenderti il dolore” dissi confuso. La vista mi si era offuscata a causa delle lacrime. Lo stavo perdendo. L’unica persona che mi era rimasta mi stava abbandonando.
“È perché…” iniziò a fatica boccheggiando per lo sforzo. “… non ne provo” concluse. I suoi occhi smisero di brillare e ritornarono castani. Il cuore si fermò e il suo odore cessò semplicemente di esistere. Poggiai le mani incrociate sul suo petto iniziando un massaggio cardiaco. Imprecando e pregandolo di risvegliarsi. Gli tappai il naso e insufflai aria nel suoi polmoni pieni di aconito. Non funzionò. Restò a terra, completamente immobile.
“No, no, no” mormorai disperato infilzando gli artigli nel suo braccio. Glielo ruppi sperando di attivare il processo di guarigione ma niente, sentii solo lo schiocco dell’osso che rimbombò nella radura.
Mi voltai per affrontare Chris Argent ma era sparito. Guardai di nuovo Stiles ma non c’era più neanche lui. Mi alzai in piedi di scatto iniziando a guardarmi attorno. Il bosco cominciò a ruotare intorno a me facendomi finire in un vortice di rami e foglie. “STILES!” gridai con quanto più fiato avessi in gola e tutto si illuminò.


Spalancai gli occhi. Il sole entrava dalla finestra colpendomi le pupille e accecandomi. Li richiusi e inspirai profondamente il familiare odore di Stiles che mi riempì e rassicurò. Era stato solo un incubo, solo un brutto sogno causato dalla terribile esperienza vissuta nel bosco. Stiles era sdraiato di fianco a me. Mi voltai verso di lui e lo vidi ricoperto di sangue, con gli occhi vitrei e spalancati che fissavano il vuoto.


Fu allora che mi svegliai sul serio. La stanza era seppellita nell’oscurità grazie alle tende che coprivano le finestre. Stiles stava ancora dormendo al mio fianco. Era talmente stanco che non si era svegliato a causa del mio incubo, non aveva percepito il mio stato d’animo mentre sognavo la sua morte. Con il dorso di un dito gli accarezzai una guancia calda e rosea. Era vivo, stava bene. Eravamo al sicuro.
Cosa avrei fatto se lo avessi perso? Cosa mi sarebbe rimasto? Niente, questa era la risposta. Sarei potuto scappare in Canada dall’unico parente che avevo e che non vedevo da quando ero piccolo: Peter, il fratello di mia madre. O, più probabilmente, senza Stiles avrei perso l’unica ragione che ancora avevo per combattere e mi sarei lasciato uccidere dalla Stilinski Corporation o peggio… avrebbero potuto fare molto più che uccidermi.
“Ti sento pensare” mormorò rocamente Stiles.
Sussultai, non avendolo percepito svegliarsi, e mi chinai sulle sue labbra dischiuse.
Lui mugugnò, infastidito. “Non mi sono nemmeno lavato i denti” disse voltandosi.
Le mie labbra, ancora sulle sue, finirono sulla sua guancia, che avevo continuato ad accarezzare sovrappensiero per tutto quel tempo. Gliela morsicai giocosamente.
“Mi fai male” borbottò non muovendosi.
“Hai rifiutato un bacio, ora devi subire la mia ira” mi giustificai.
Stiles si asciugò la guancia, bagnata di saliva, e si voltò dall’altra parte richiudendo gli occhi. Lo annusai discretamente percependo il suo malessere. Mi sdraiai dietro di lui, circondandolo con un braccio e stringendolo. Lui si accoccolò contro il mio petto e, silenziosamente, cominciò a piangere.
Lo consolai senza fargli domande, sussurrandogli all’orecchio che sarebbe andato tutto bene e assorbendo il suo dolore finché si riaddormentò. Quando fui sicuro che non si sarebbe svegliato gli baciai una spalla e mi alzai. Esattamente, com’era accaduto? Quando avevo cominciato a vivere in sua funzione? Mi aveva detto che i lupi erano animali monogami e fedeli ma non che la mia vita sarebbe dipesa dalla sua, che sarei stato felice solo se lo fosse stato anche lui.
Pure lui si sentiva in questo modo, lo potevo percepire chiaramente. Sapevo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggermi e questo mi terrorizzava. Non era salutare.
Cosa gli sarebbe accaduto se non mi avesse mai incontrato? E, soprattutto, cosa gli sarebbe accaduto se fossi morto?
Uscii dalla camera per timore che mi sentisse di nuovo pensare. La casa era silenziosa, eccetto che per una voce che proveniva dal televisore. Entrai di soppiatto nel salotto. Liam e Theo, seduti vicini sul divano, stavano guardando il telegiornale. Vidi sullo schermo le immagini della casa nella radura vista dall’alto e i corpi dei soldati a terra. Capii che quell’elicottero era lì per riprenderci. La donna alla TV diceva che avevamo ammazzato più di venti persone.
Non era vero. Solo un uomo era morto: quello con cui mi ero fatto scudo dai loro proiettili. Era morto perché loro continuavano a sparare per cercare di colpire me. Stavano manipolando la notizia così come avevano fatto inventando attacchi inesistenti da parte di Stiles.
“Credi che sia sicuro tenerli qui?” domandò Liam sottovoce non sapendo che ero proprio dietro di loro.
“Sì” rispose Theo deciso. Liam annuì e rilassò le spalle. Si fidava ciecamente dell’altro ragazzo.
Infilai una mano in tasca e presi il foglio scritto da Stiles con l’indirizzo che ci aveva portato lì e il numero di telefono. “Di chi è questo numero?” chiesi.
Loro sobbalzarono. Liam si portò una mano al petto mentre Theo si voltò per fissarmi male. I loro cuori avevano accelerato per lo spavento ma erano tornati subito alla normalità.
Mostrai il foglio a Theo e lui comprese. “Dovrebbe essere il numero di Lydia. Lei ha un metodo per far ricordare a Stiles tutto quello che ha dimenticato” spiegò.
Sollevai un sopracciglio fissando il numero della dottoressa Martin. Le mie intuizioni si erano rivelate esatte: anche lei era dalla nostra parte, avevamo già quattro alleati.
“Solo quando sarà pronto” aggiunse puntandomi contro un dito.
Aveva paura che trascinassi Stiles da lei per obbligarla a restituirgli la memoria? Ormai quello che aveva fatto non mi faceva più arrabbiare, mi rendeva triste ma sapevo che non era lui, che il mio Stiles – quello vero – non era un assassino.
“So perché hai deciso di sottoporti a questo” rivelò Theo alzandosi in piedi per fronteggiarmi e guardarmi dall’alto verso il basso. “Scott mi ha detto che il tuo piano all’inizio era di ucciderlo e non mi capacito di come voi due possiate essere venuti qui insieme” disse avvicinandosi.  Era più basso di me e più piccolo, sia di corporatura che di età.
Sorrisi, ammirando il modo in cui difendeva gli interessi di Scott.
“So che Stiles è una brava persona e che tutto quello che è stato mostrato di lui è un’invenzione, ma tu…” disse osservando i miei occhi con sospetto.
Li feci brillare di blu. Detestavo il modo in cui mi accusava ma rispettavo il suo punto di vista.
Avevo acconsentito a farmi modificare geneticamente per uccidere un ragazzino, questo non mi rendeva migliore di Chris Argent né della Stilinski Corporation.
Liam si alzò in piedi e afferrò Theo per la spalla. Lo fece indietreggiare di un paio di passi e gli sussurrò di smetterla. “Scott mi ha chiesto di proteggere Stiles”.
Roteai gli occhi. Dubitavo che uno come Stiles avesse bisogno di qualcuno che lo proteggesse, più che altro necessitava comprensione e qualcuno che non lo giudicasse.
Theo stava per aggiungere qualcos’altro ma lo interruppi: “che rapporto c’è tra te e Scott?” chiesi ignorando Liam che si stava nascondendo dietro il corpo dell’altro ragazzo. I suoi occhi azzurri sbucavano da sopra la sua spalla.
“Diciamo che gli devo un favore, se è la mia lealtà a preoccuparti” ribatté supponente.
“Bene, anche io devo un favore a Stiles, se pensi che non stia dalla sua parte” replicai canzonatorio incrociando le braccia al petto.
Strinse gli occhi e mi scrutò ancora per qualche secondo. “Mh” emise senza nemmeno aprire la bocca. Si voltò e andò in cucina lasciando lì Liam a fissare come uno stoccafisso i miei occhi ancora blu.
Mi sedetti sul divano e finsi di ascoltare il resto delle notizie. In realtà pensavo di nuovo. Lydia aveva trovato un modo per far rammentare a Stiles quello che avvenne la notte del 3 agosto. Avevo l’occasione di conoscere tutta la verità. Stiles, però, come ne sarebbe uscito? Avrebbe sopportato un’altra batosta psicologica come quella? La verità lo avrebbe distrutto o era forte a sufficienza?
Sapevo che se gli avessi detto che la dottoressa Martin poteva fargli riavere i suoi ricordi, lui avrebbe accettato senza esitazione solo per accontentare me. Avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avessi chiesto anche se questo significava restare ferito. Non potevo essere così egoista.
Liam si sedette al mio fianco e cambiò canale, fece zapping fermandosi su un programma di musica. Mi soffermai ad ascoltare quella canzone e sorrisi, ripensando a Stiles che, nella casa nel bosco, suonava con la chitarra scordata quelle stesse note e canticchiava stonato.
Percepii lo sguardo di Liam su di me. Non mi voltai e lasciai che continuasse a fissarmi, poi parlò: “tu lo ami, vero?” chiese senza ombra di dubbio.
Ricambiai il suo sguardo indagatore senza rispondergli.
“Non sai nemmeno tu come sia potuto accadere, ma è successo” aggiunse osservando i miei occhi di nuovo verdi e scrutandoli attentamente, come se lì dentro avesse potuto trovare la risposta alla sua domanda.
“Non sono affari tuoi” ribattei scorbutico.
“Suppongo che questo sia un sì” disse divertito. Mi diede una pacca sulla spalla e mi lasciò solo. Lo sentii parlare con Theo ma feci di tutto per non ascoltare.
Dopo qualche minuto, Liam uscì di casa con una sacca sportiva sulle spalle. “Dove va di domenica?” chiesi ad alta voce.
La testa di Theo sbucò dalla cucina. “Per quanto stiamo dando asilo a dei licantropi ricercati in tutta la California, siamo ancora ragazzi normali” rispose sarcastico. “Va all’allenamento di lacrosse con la squadra”.
Sbuffai forte dal naso. Non mi fidavo del ragazzino. Era troppo giovane e non ero sicuro che capiva la gravità delle leggi che stava infrangendo e dei crimini che stava commettendo tenendoci nascosti. Se ci avessero scoperti sarebbero finiti in galera.
“Noi sappiamo quello che stiamo facendo” mormorò Theo come se mi avesse letto nel pensiero. “Abbiamo previsto tutti i rischi e siamo pronti ad affrontare le conseguenze” disse deciso guardandomi come a sfidarlo a mettere in dubbio le sue parole.
Annuii captando i segnali chimici che emanava. Era molto convinto di quello che diceva e, a giudicare dalle emozioni che stavano trasudando nitidamente dal suo corpo, sembrava quasi una cosa personale, come se la Stilinski Corporation gli avesse fatto qualche torto e lui volesse vendicarsi.
Era pericoloso lasciarsi guidare dai propri sentimenti, soprattutto da quelli negativi. Io ne sapevo qualcosa.
Inspirai profondamente sentendo il profumo di Stiles farsi più intenso e il battito del suo cuore accelerare di poco: si era svegliato. Dopo pochi secondi lo vedemmo comparire in salotto. Guardò prima me, poi Theo e – infine – la TV con un’espressione ancora assonnata e i capelli sparati in tutte le direzioni.
La canzone che aveva suonato nella casa nel bosco era quasi finita ma lui la riconobbe ugualmente. Il suo sguardo divenne nostalgico.
Non mi aveva mai detto come aveva imparato a suonare la chitarra. Io credevo che, preso dalla noia, l’avesse rubata e imparato da autodidatta ma forse non era così. C’era un’altra persona che conoscevo appassionata di musica: mia madre. Chissà perché mi veniva in mente solo in quel momento. Non avevo mai pensato che potesse essere stata lei ad insegnargli a suonare. Lui diceva che era sua amica quindi aveva perfettamente senso che lei non fosse solo la sua veterinaria ma anche un’insegnante.
Gli sorrisi e lui ricambiò. Ritrovavo tante parti di lei in Stiles e questa cosa mi faceva innamorare sempre di più.
“C’è da mangiare?” chiese in un sussurro, quasi vergognandosi di chiedere aiuto e di approfittare della disponibilità dei due ragazzi.
“Certamente” rispose Theo facendo un cenno della testa per invitarlo a seguirlo.
L’ora della colazione era passata da un pezzo ma a Theo non sembrò importare. Si mise a cucinare per entrambi con piacere mentre Stiles se ne stava seduto, sulla sedia della cucina, a rimuginare su tutto quello che era avvenuto.
Mi appoggiai al lavello e lo scrutai con serietà. “Ci incolpano per la morte dei soldati” rivelai.
Theo, al mio fianco, si girò a guardarmi sorpreso con un cucchiaio di legno sospeso a mezz’aria.
Stiles non ebbe nessuna reazione.  Aggrottò le sopracciglia e si guardò le mani confusamente, come se temesse di vedere del sangue sotto le unghie. “Ma io non ho ucciso nessuno” disse.
“Nemmeno io. Ma lo stanno facendo credere” spiegai.
“Oh…” sospirò a bassa voce. “Be’, che sarà mai un morto in più sulla mia coscienza?” cercò di sdrammatizzare.
Roteai gli occhi e Theo sbuffò una risata riprendendo a cucinare.
Non gli dissi che Lydia sapeva come fargli riavere i suoi ricordi e lui sembrò non rammentarsi di quel numero di telefono che aveva segnato sul foglio. Forse, per il momento, gli bastava avere un tetto sopra la testa, un letto su cui dormire e, soprattutto, qualcuno che non gli sparasse addosso.
“Non possono arrivare a voi tramite Scott, vero?” chiese quando Theo gli riempì il piatto.
Il ragazzo gli rispose con un occhiolino e uscì dalla stanza per lasciarci soli.
“Grazie” esclamò Stiles prima che chiudesse la porta. “Non lo avevo ancora detto” aggiunse infilzando il cibo con una forchetta e infilandoselo in bocca velocemente.
Theo non rispose ma il suo odore si fece più dolce.
“Sei sempre così tenero” lo presi in giro sedendomi al suo fianco.
“Si chiama riconoscenza” ribatté divertito. “E non sono tenero” disse facendo il broncio.

 

Un paio di giorni più tardi, dopo che i due proprietari di casa ci avevano fatto trovare dei vestiti nuovi e, per la prima volta, non rubati, Stiles scattò in piedi e si infilò le mani nei capelli. Theo, che stava scrivendo qualcosa al computer, e Liam, che teneva la testa immersa in un libro da più di un’ora e leggeva sottovoce, lo fissarono sorpresi.
“Che ti prende?” chiesi allarmato.
“Come farò durante la luna piena?” domandò preoccupato cominciando a tastarsi le tasche dei pantaloni alla ricerca di una caramella alla liquirizia. Quando non la trovò sbuffò inferocito andando in cucina e iniziando ad aprire la dispensa. Tutti e tre lo seguimmo, uno più preoccupato dell’altro.
A quel problema non avevo proprio pensato. Dieci giorni mancavano al plenilunio e le catene della casa nel bosco non erano più a disposizione per contenere la sua furia animalesca.
“Che succede durante la luna piena?” mi domandò Theo mentre Liam si accostava a Stiles per chiedergli cosa stesse cercando. Quando glielo disse Liam rispose che a loro la liquirizia non piaceva e che in casa non avevano niente.
Stiles, con gli occhi improvvisamente gialli, afferrò l’altro ragazzo per la maglia e lo strattonò con forza verso di sé. Sia io che Theo ci precipitammo per dividerli: Theo prese Liam per le spalle e lo tirava indietro, mentre io cercavo di fargli aprire le dita strette attorno alla stoffa della maglia.
“Stiles, lascialo!” esclamai. “Non hai bisogno di quella schifezza per calmarti” cercai di convincerlo. Sembrava un tossico in astinenza da metadone.
“C’è un supermercato qui vicino. Vado a prenderla” tentò invece Liam.
Stiles incassò la testa nelle spalle e ringhiò.
“Ehi!” lo sgridò Theo. “Abbiamo dei vicini” disse avvicinandosi a Stiles per affrontarlo. “Se ci scoprono siamo fottuti. Tutti e quattro” continuò tenendo un tono di voce deciso ma senza urlare. “Non vorrai certo che Derek finisca nelle mani di Argent. Non lo vuoi, vero?” provocò.
Stiles lo guardò minacciosamente e sbuffò dal naso mentre mi domandavo cosa si fosse messo in testa di fare quel ragazzo.
“Suppongo che questo sia un sì” disse ripetendo la stessa frase che mi aveva detto Liam quando mi aveva chiesto se amassi Stiles. “Quindi, ora sta’ buono per una ventina di minuti che vado a comprarti la tua dannata liquirizia” concluse.
Stiles lasciò andare Liam e ritirò gli artigli. Incazzoso, tirò un calcio alla lavastoviglie ruggendo sottovoce. Guardai Theo meravigliato mentre si assicurava che Liam stesse bene e gli allisciava le pieghe della maglia ormai bucata. Stiles aveva lo strano vizio di rovinare i vestiti delle persone.
“Sbrigati” grugnì  con urgenza.
Theo annuì, prese le chiavi della macchina, e se ne andò. Liam mi guardò, ancora un po’ sconvolto. “Vado a finire di studiare” annunciò cercando di defilarsi a tutti i costi.
Non mi curai di lui, la mia attenzione era totalmente concentrata su Stiles. “Devi smetterla di farti sopraffare dal lupo” dissi sedendomi sul tavolo. “In questi giorni dovrai mantenere il controllo perché non possiamo fare niente durante la luna piena. Non potrai incatenarti da nessuna parte” gli spiegai con calma anche se in realtà ero preoccupato. Lo avevo visto quella notte, incatenato al muro, rabbioso e selvaggio. Avrebbe potuto far male a qualcuno di nuovo e non potevo lasciare che accadesse.

 


Lavorammo molto, in quei giorni, sull’autocontrollo. Quando i due uscivano per la scuola o per il lavoro io aiutavo Stiles. O, almeno, ci provavo. Seguivamo insieme un corso su internet di meditazione e per qualche ora aveva anche funzionato poi, ovviamente, si era annoiato e mi aveva letteralmente mandato a quel paese.
“Dobbiamo trovare una soluzione” disse Theo tre giorni prima del plenilunio.
“Grazie per le tue perle di saggezza” ironizzò Stiles sempre più irritato.
“Non hai pensato che ricordare potrebbe aiutarti a superare i tuoi traumi?” aggiunse scocciato per il modo in cui veniva trattato. Liam, invece, sembrava divertito dall’eccessivo sarcasmo di Stiles che non gli aveva più messo le mani addosso dopo aver ricevuto di nuovo la sua dose di liquirizia che, per la cronaca, stava sgranocchiando anche in quel momento.
“Se sapessi come, lo farei” borbottò mentre io mi premuravo di tirare un calcio a Theo colpendogli la caviglia.
Lui mi fissò con una smorfia dolorante. “Non gliel’hai detto?” chiese.
“Detto cosa?” si insospettì Stiles.
Inspirai profondamente, preparandomi ad ogni sua possibile reazione. “Lydia sa come farti tornare la memoria” gettai tutto d’un fiato.
Il suo cuore saltò un battito, poi cominciò a scalpitare forsennatamente. Era stravolto. Da più di due anni si chiedeva come avesse fatto ad uccidere il suo stesso padre e si tormentava sulle ragioni che lo avevano spinto ad un gesto così estremo e, ora che finalmente c’era una soluzione, io lo avevo privato di scegliere.
“Avrei dovuto dirtelo sin da subito” mi scusai pateticamente.
“Da quanto lo sai?” chiese. I suoi occhi lampeggiarono dalla rabbia. “Da quanto sai che posso riavere i ricordi?” ripeté. Il suo odore si fece più selvatico, segno che l’animale rischiava di nuovo di controllarlo.
“Me lo ha detto Theo quando siamo venuti qui” confessai.
“Stiles” lo chiamò Liam. “Pensavo te lo avesse detto ma se non lo ha fatto è perché credeva che fosse meglio per te” disse tentando di rimediare.
“Non ho bisogno di essere difeso” ribattei scortese.
“Non parlargli in questo modo” si intromise Theo, che era stato seduto ad osservarci.
“Credo di sapere perché non me l’hai detto” mormorò Stiles scostando la tenda e guardando fuori dalla finestra. “Hai paura che scoprendo la verità, sapendo esattamente quello che ho fatto e come l’ho fatto, tornerai ad odiarmi” suppose esalando frustrazione.
“No. Ho paura che tu possa odiare te stesso” replicai avvicinandomi a lui e richiudendo la tenda. Non potevamo rischiare che un passante ci vedesse e ci riconoscesse.
“Io mi odio già” disse guardando con rabbia le sue unghie che diventarono artigli, appuntiti e letali.
“So che non è vero” dissi prendendo le sue mani lupesche nelle mie. “Ami il modo in cui ti senti quando ascolti la natura, captando rumori che nessun altro può sentire. O quando salti tra i tetti dei palazzi o ti arrampichi sugli alberi. Quella sensazione di libertà e spericolatezza che ti scorre nelle vene” gli ricordai. “Mi hai parlato di ululare alla luna ma non lo abbiamo ancora fatto” gli ricordai. “Forse odi il modo in cui gli altri ti fanno sentire ma, in fondo, essere un licantropo non è così male” ammisi.
Lui mi guardò sorpreso annusandomi e studiandomi attentamente, poi capì: io avevo accettato la mia natura. Ero stato io a volerlo, avevo scelto di diventare così e, se non lo avessi fatto, sarei stato incompleto per sempre.
“Sai, non ti avrei mai conosciuto altrimenti” sussurrai per fare in modo che gli altri due non mi sentissero.
Stiles mi gettò le braccia al collo, si sollevò sulle punte dei piedi e mi baciò con passione e necessità. Ricambiai con entusiasmo mentre sentivo Liam bisbigliare a Theo: “che ti avevo detto?”.
Si staccò dalle mie labbra con uno schiocco e mi guardò severamente. “Non ti ho ancora perdonato” disse.
Io ridacchiai e ricercai di nuovo la sua bocca per scambiarci un altro veloce bacio.
Theo si schiarì la gola ed entrambi lo squadrammo senza imbarazzo. “Quindi… per la questione dei ricordi” disse aspettando che prendessimo una decisione.
Guardai Stiles. Era a lui che spettava l’ultima parola. Annuì. “Voglio sapere quello che è successo quella notte. Tutti e due meritiamo la verità” disse deciso.
Infilai una mano in tasca e cercai il foglio sempre più stropicciato. Theo prese da un cassetto un telefono nuovo e mai usato, un modello vecchio. Lo accese e compose il numero che gli dettai.
“Pronto?” sentimmo dopo due squilli. Riconobbi la voce della dottoressa Martin.
“Dimmi quando” mormorò Theo conciso.
“Tra due notti” rispose lei.
Theo spense il telefono, rimosse la scheda e la spezzò a metà. Distrusse la batteria con un piede e mi lanciò il cellulare esortandomi a fare lo stesso. Senza sforzo, chiusi la mano a pugno e sbriciolai il telefono tra le mie dita.
Ancora due giorni e la verità sarebbe venuta a galla e, intanto, la luna piena si avvicinava inesorabilmente.

Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12


Stiles era in uno stato di perenne agitazione. I suoi occhi erano costantemente gialli e il suo odore sempre più sgradevole. Per non parlare del suo carattere irritabile e scortese. Consumava una dose troppo alta di liquirizia, ormai mangiava solamente quello.
Doveva resistere ancora qualche ora: quella notte Liam e Theo ci avrebbero portato da Lydia e l’indomani ci sarebbe stata la luna piena.
Il suo nervosismo era contagioso e creava un’atmosfera tesa per tutta la casa. In più, tutti eravamo preoccupati per quello che sarebbe accaduto quella notte. Troppe cose potevano andare storte: avrebbero potuto scoprirci e ucciderci; catturarci e torturarci fino a farci perdere il senno; la missione sarebbe potuta fallire e Stiles non avrebbe riavuto indietro i suoi ricordi; oppure sarebbe stata un successo e quello che avrebbe rammentato lo avrebbe portato alla pazzia, facendo sì che il lupo lo dominasse completamente e per sempre.
I due ragazzi, quel giorno, non erano andati all’università. In quel momento noi tre stavamo mangiando in cucina mentre Stiles se ne stava in salotto sdraiato per terra con un cuscino del divano sotto la testa.
L’unico rumore che si sentiva era il tintinnare delle forchette contro i piatti. Eravamo tutti molto silenziosi e pensierosi sino a quando Stiles si alzò in piedi velocemente, passò di corsa davanti alla porta della cucina e aprì la porta di casa. Fui sorprendentemente rapido: tirai indietro la sedia e, con un balzo, scavalcai il tavolo sotto gli occhi sbalorditi dei due ragazzi che mi seguirono per aiutarmi. Mi precipitai da Stiles, che aveva appena finito di girare le chiavi nella toppa, e aveva spalancato la porta di casa rischiando di farci scoprire. Il sole illuminò il corridoio.
Mi ero trasformato senza nemmeno accorgermene. Forse l’avvicinarsi della luna piena stava influenzando i miei riflessi rendendoli più veloci. Afferrai Stiles per una spalla, infilzando gli artigli nella sua carne che guarì rapidamente, e lo gettai per terra con fin troppa forza.
Richiusi immediatamente la porta mentre Stiles si rialzava con un balzo e Liam e Theo lo afferrarono per le braccia cercando di immobilizzarlo. Stiles, senza nessuno sforzò, si liberò dalla loro presa. Spinse Theo contro il muro e fece cadere Liam per terra. Si piazzò davanti a me e si mise in posizione di attacco. “Spostati” grugnì facendo due passi avanti.
Liam, ancora sul pavimento, circondò le gambe di Stiles per farlo cadere mentre Theo gli saltò sulla schiena circondandogli il busto con le gambe e il collo con le braccia. Caddero per terra con un tonfo attutito. Stiles afferrò un braccio di Theo per toglierlo e, nel farlo, lo graffiò. Mollò la presa quando Stiles rischiò di rompergli un polso.
Mi abbassai sul suo corpo e lo presi per la maglietta, lo sollevai di peso e lo appesi al muro. “Stiles” lo chiamai facendo brillare gli occhi blu. “Calmati o ti farai male” gli consigliai.
Lui cominciò a scalciare. “Voglio andare nel bosco” ringhiò con una voce non del tutto umana.
“È pieno giorno. Non puoi uscire” dissi mantenendo la calma e cercando di proiettarla verso di lui. Lo annusai e capii che non era il lupo a volere scappare, ma lui. “Se vuoi, stasera, prima di riavere i tuoi ricordi potremo fare un giro nel bosco” proposi.
Theo cercò di intromettersi, per dirmi che non era una buona idea, ma Liam lo fermò.
Stiles spalancò gli occhi dorati e cominciò a calmarsi. Quando ritornò umano lo rimisi a terra con attenzione e osservai la maglietta che gli avevo appena bucato, tutta sgualcita e spiegazzata. Stiles cercò di ricomporsi: passò le dita tra i capelli sempre più lunghi per pettinarseli e si tirò su i pantaloni scivolati un po’ giù dai fianchi a causa della lotta. Si avvicinò a Theo, che si massaggiava il polso dolorante, e gli posò una mano sull’avanbraccio per prendergli il dolore che gli aveva causato.
“Ora sai che non si può affrontare un licantropo a mani nude” sdrammatizzò Liam. “Perché non vai a farti un bagno caldo?” suggerì poi guardando Stiles dritto negli occhi. Lui annuì, prese un pacchetto di caramelle gommose alla liquirizia, e andò a nascondersi in bagno. Quando sentimmo l’acqua cominciare a scorrere tirammo un sospiro di sollievo.
Vidi Theo roteare il polso, completamente indolore, e Liam che si infilava un dito in bocca e iniziava a mangiarsi l’unghia. Aveva uno sguardo corrucciato e stava esalando tanti dubbi. Lo fissai con sospetto non capendo a cosa stesse pensando così intensamente.
“Siete stati molto coraggiosi” mi complimentai.
Loro mi fissarono con sorpresa e sorrisero nello stesso istante.
“E anche molto stupidi” aggiunsi.
Il sorriso di Liam si allargò mentre quello di Theo si trasformò in una smorfia di disappunto.
Ascoltai Stiles entrare nella vasca e borbottare qualche lamentela tra sé e sé. Ridacchiai e i due ragazzi mi guardarono male. Giusto, loro non lo avevano sentito.
“Non è una buona idea andare nel bosco, stasera” disse Theo tornando serio. “Potrebbe succedere qualsiasi cosa e siete così vicini a conoscere la verità” proseguì preoccupato.
“Lo so, ma lo faremo comunque” risposi irremovibile sapevo che, molto probabilmente, Stiles stava ascoltando la nostra conversazione. “Non sappiamo cosa ci rivelerà Lydia, né se quello che scopriremo cambierà qualcosa tra noi” rivelai i miei dubbi, le mie insicurezze. Avevo cercato la verità così a lungo e ora mi terrorizzava. Se avessi scoperto che Stiles aveva davvero avuto intenzione di uccidere la mia famiglia, come mi sarei comportato ora che lo avevo persino scelto come compagno? “Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, anche se solo per un paio d’ore” mormorai sdraiandomi sul divano.
“E il bosco è la normalità?” chiese Theo piazzandosi davanti a me mentre Liam si lasciava cadere pesantemente su una poltrona non smettendo di invadermi i sensi con tutte le sue indecisioni.
“È stata la nostra casa e ha protetto Stiles per più di due anni” risposi.
“Mi piacciono i vostri occhi” si decise finalmente a parlare Liam. “Diventano elettrici quando vi trasformate”.
Lo guardai annoiato, sollevando un sopracciglio. Non capivo perché avesse cambiato discorso né cosa centrasse quello che stava dicendo. L’unica cosa che avevo notato era che Theo improvvisamente aveva iniziato ad essere triste.
“Dimmi un po’…” esclamò curioso Liam dando un’occhiata di sfuggita all’altro ragazzo “… perché avete colori diversi?” chiese poggiando un gomito sul ginocchio e posando il mento sulla mano aperta.
“Chris Argent mi ha spiegato che il blu, il giallo e il rosso rappresentano quanto l’esperimento abbia avuto successo” dissi ricambiando il suo sguardo insistente. “Il blu, come il mio…” spiegai illuminando le iridi “vuol dire che la mutazione è perfetta. Non ho nessun difetto, né rischio di avere qualche sintomo ancora da umano” mormorai ricordandomi dell’attacco di panico che Stiles aveva avuto quando mi aveva annusato per la prima volta da vicino.
“Continua” mi disse Liam impaziente.
“Se sono gialli, come quelli di Stiles, allora la mutazione non è riuscita al cento percento. Può darsi che questo sia avvenuto a causa della malattia di cui soffriva quando era solo umano: il morbo di Batten” raccontai.
Liam annuì e, con un cenno della testa, mi esortò a proseguire. Theo lo guardava emanando rabbia. Li annusai. Liam stava cercando di farmi capire qualcosa di cui loro erano già a conoscenza e voleva che ci arrivassi anche io. Sapeva già che significato avesse il colore dei nostri occhi, voleva solo che io lo dicessi ad alta voce.
“Mentre se gli occhi sono rossi vuol dire che la terapia non ha funzionato, la mutazione non è avvenuta e il paziente è morto soffrendo atrocemente” conclusi, ripetendo quello che mi aveva spiegato il dottor Argent mesi prima e continuando a non comprendere per quale motivo Liam me lo stesse facendo raccontare.
Il ragazzo, soddisfatto, poggiò la schiena tra i cuscini e le braccia sui bracciolo. L’odore invadente di Theo mi arrivò alle narici. Aveva gli occhi lucidi e sembrava la persona più triste che avessi mai visto. Anche l’odore di Stiles si speziò e, senza che ebbi nemmeno il tempo di alzarmi, me lo trovai alle spalle. Si era rivestito senza asciugarsi e aveva gli indumenti fradici e i capelli che sgocciolavano. Anche lui aveva compreso.
“Ce ne sono stati altri!” esclamò emanando paura, ansia, confusione e mandando in tilt il mio olfatto che venne massacrato dalle sue emozioni.
Mi alzai in piedi e mi affiancai a Stiles. “Che stai dicendo?” chiesi afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza.
“Pensaci!” urlò. “Come farebbe Argent a sapere che un esperimento fallito ha gli occhi rossi?” mi chiese.
Theo esalava rabbia e sentivo l’odore salato delle lacrime che aveva appena cominciato a versare.
“Perché non siamo gli unici” compresi. “Ce ne sono stati altri, prima di noi, con gli occhi rossi”. Come avevo fatto a non arrivarci prima? Quanti esperimenti avevano dovuto fare prima che arrivassero alla perfezione?
Theo singhiozzò e Liam si alzò per abbracciarlo.
“Vuoi due come lo sapevate?” chiese Stiles.
Il ragazzo si asciugò gli occhi bruscamente. “Mia sorella aveva una rara patologia al cuore” raccontò con la voce tremante. “Quando si aggravò, tuo padre in persona è venuto in ospedale promettendo ai miei genitori che l’avrebbe curata con un metodo sperimentale”.
“Non è sopravvissuta, vero?” domandai sottovoce.
“Non si sarebbe salvata comunque, ma il modo in cui è morta…” si interruppe per prendere un respiro più profondo e calmarsi. Le sue emozioni ci investivano come un fiume in piena.
“È uscita dall’incubatrice con gli occhi rossi e incandescenti, completamente trasformata. I peli erano cresciuti ovunque e urlava di dolore, strillava e guaiva come se la stessero torturando” ricordò. I suoi occhi lucidi erano fissi in quelli di Stiles. Sapeva che lui avrebbe capito il modo in cui si sentiva.
“Urlò per più di un’ora e, quando non ce la fece più, si strappò il cuore dal petto con gli artigli. Nessuno provò a fermarla. Se ne sono stati tutti immobili a fissarla, a studiarla senza dire niente e hanno cercato di insabbiare tutto” disse tirando su col naso e lasciando, senza vergogna, che Liam lo consolasse.
“Come hai scoperto la verità?” chiesi sconvolto.
“Scott” rispose. “Fece una copia dei video delle telecamere di sorveglianza prima che cancellassero tutto e me li fece vedere. Non ho mai detto niente ai miei genitori, non volevo che sapessero che la loro figlia fosse morta in un modo così brutale e che, in fondo, era colpa loro perché si erano lasciati abbindolare dal famigerato Noah Stilinski” disse con disprezzo.
Quello era il motivo per cui ci stava aiutando: sperava che i crimini compiuti dalla Stilinski Corporation venissero resi pubblici. Voleva vendicare la sorella persa in un modo crudele punendolo, così come io volevo vendicare la mia famiglia facendo male a Stiles. Non eravamo poi così diversi, dopotutto. Entrambi eravamo stati accecati dalle nostre emozioni, ci avevano guidato e controllato per tanto tempo e noi lo avevamo permesso.
“Quando sei venuto in questa casa, con Stiles, ho capito che dovevo smetterla” mi disse. “Se tu eri riuscito a superare la tua voglia di vendicarti, finendo addirittura per innamorarti di colui che avevi pianificato di uccidere, forse potevo provarci anche io a dimenticare” sussurrò pressando le labbra. Liam aveva poggiato il mento sulla sua spalla e gli accarezzava dolcemente i capelli guardandolo con malcelato orgoglio.
“Non ve l’ha detto subito perché altrimenti non avreste pensato ad altro” spiegò Liam guardando Stiles con preoccupazione. I suoi occhi erano di nuovo gialli.
“Mio padre ha fatto soffrire tua sorella” grugnì soffocando un ringhio. Lo afferrai saldamente per un braccio per paura che cercasse nuovamente di scappare. “Chissà quante altre persone ha fatto soffrire nel tentativo di farle diventare come noi” disse divincolandosi dalla mia presa e andando più vicino a Theo. “Mi dispiace per quello che ti ha portato via” si scusò come se fosse colpa sua.
“A me dispiace per quello che ti ha fatto” replicò Theo posandogli una mano sulla spalla e accarezzandola delicatamente.
“Anche a me dispiace di essermi offerto volontario non sapendo quante persone avessero sofferto prima di me” mi scusai anche io. Avevo accettato di farmi modificare geneticamente nonostante avessi una vita normale e godessi di perfetta salute. I genitori di Theo avevano messo la loro figlia malata nelle mani di Noah Stilinski nella speranza che lui la salvasse. Quanto ero stato egoista.
“Bene, siamo tutti dispiaciuti” ironizzò Liam a bassa voce.
“E se tutte le persone sottoposte alla mutazione fossero state malate?” chiese Stiles all’improvviso. “E se il segreto per avere il licantropo perfetto…” disse indicandomi “sia il non avere malattie pregresse?”.
Era un’ipotesi azzardata ma non totalmente insensata.
“Potrebbe rifarlo” compresi. “Ora che ha scoperto che è fattibile avere una mutazione perfetta potrebbe sottoporre qualsiasi persona al trattamento” aggiunsi sovrappensiero.
“Prima di entrare nell’incubatrice devono però venire bombardate con tutte quelle medicine” mi ricordò Stiles. “Prizmac, Felafol… dio, quella schifezza mi provocava allucinazioni, anche a te?” chiese sollevando la testa per guardarmi.
“No…” risposi scrutandolo a mia volta. I farmaci a cui eravamo stati sottoposti non mi avevano causato alcun effetto tranne quello di rendermi più affamato e muscoloso. Stiles aveva sofferto anche a causa delle medicine.
“Che tipo di allucinazioni?” chiese Liam.
Stiles si morsicò il labbro inferiore. “Rivedevo mia madre” rivelò. “Non ricordo molto di lei, è morta che avevo otto anni ed ero già malato. Non passavamo chissà quanto tempo insieme” raccontò sussurrando ed emanando calore.
Anche se non ricordava di lei sapeva di averle voluto bene e i segnali chimici reagivano alle sue emozioni.
“La rivedevo che mi regalava un peluche con un fiocco rosso sulla testa”.
“Il koala” dedussi chiedendomi che fine avesse fatto quel pupazzo.
Stiles annuì e, con le braccia, si circondò la pancia. Sembrava che si stesse abbracciando da solo. Erano passate poche settimane da quando avevo minacciato di decapitare quel koala, ed ora eccoci qui. Uniti a causa del fato che aveva intrecciato i nostri cammini.
“Dobbiamo far sapere a tutti la verità” dichiarò Theo.
Stiles lasciò penzolare le braccia lungo i fianchi e raddrizzò la schiena. Lo guardò e annuì solo una volta.
“E non per vendetta” aggiunse. “Ma perché tutte le persone che sono morte meritano giustizia” concluse. Liam lo fissò con fierezza.
Ammirai la loro sicurezza e il loro coraggio ma ne ebbi anche paura. Stiles mi scrutò con attenzione percependo chiaramente le mie emozioni contrastanti che si prendevano a pugni dentro di me. Allungò una mano e prese la mia, i suoi occhi erano ancora gialli a causa dell’influenza della luna, che sarebbe stata completa in poco più di trenta ore, ma non erano pieni di rabbia come sospettavo, erano calmi come se finalmente avesse ritrovato un po’ di pace. Aveva scoperto che Theo condivideva le sue stesse sofferenze, che non eravamo mai stati soli e che erano disposti ad aiutarci a qualunque costo.
Strinsi con più forza la sua mano nella mia e, oramai come fosse una cosa meccanica, assorbii il suo costante dolore fisico ed emotivo.
Ci sarebbe mai stata una fine a tutto quel patimento? Stiles sarebbe mai stato felice? Solo felice, senza tutto quel contorno di sentimenti negativi che gli aleggiava sempre attorno. Volevo solo questo. Ormai vivevo in sua funzione e non mi sarei dato pace fino a che anche solo un’oncia di quella sofferenza avrebbe attraversato le sue vene.
Stiles si rilassò quando un po’ di dolore evaporò via da lui come se niente fosse ed entrò dentro di me. Feci una smorfia addolorata poi tornai a fissare i tre ragazzi in quella stanza. Erano tutti più giovani di me ma, in quell’esatto momento, mi sembrarono dei giganti.



 


Uscimmo di casa al tramonto, durante l’ora di cena, per evitare che qualcuno ci vedesse. Faceva caldo, segno che l’estate si stava avvicinando.
Liam e Theo, soprattutto quest’ultimo, ci fecero migliaia di raccomandazioni. Sembravano dei genitori apprensivi e invadenti. Gli promisi che saremmo stati via per un massimo di due ore e che saremmo stati nel bosco senza farci vedere da nessuno. Lui, ovviamente, brontolò. Ripeté che non era una buona idea e che eravamo degli sprovveduti irresponsabili. Lo sapevo, ma lo facevo solamente perché Stiles ne aveva bisogno.
Arrivammo nella radura in poco tempo, saltando sopra i tetti dei palazzi e godendoci quella sensazione che era in grado di farci provare la licantropia: era libertà e, con la luna quasi piena, era amplificata.
Stiles si era trasformato per lasciar sfogare la parte da lupo e, nel mezzo del bosco in penombra, i suoi occhi risaltavano come fanali.
Si inginocchiò, raccolse una manciata di foglie umide da terra e le annusò. Si inebriò col profumo della natura e io lo tenni sotto controllo monitorando i segnali chimici ogni volta che il suo umore sballava.
Camminammo per una ventina di minuti. Stiles si era tolto le scarpe e le faceva penzolare dalla mano. “Stanotte potrebbe cambiare tutto” mormorò tranquillo passeggiando con la testa rivolta al cielo che si stava riempiendo di stelle. Si fermò e, con i piedi scalzi, cominciò a spostare i rami da terra.
Mi limitai ad osservarlo per un po’ poi il suo odore divenne più pungente. “Stiles?” lo chiamai sospettoso.
Lui si imbarazzò. “È troppo?” chiese senza guardarmi e continuando ad emanare quel profumo inconfondibile.
“Perché?” domandai avvicinandomi.
“Perché poi potresti non guardarmi più nello stesso modo” confessò voltandosi. “Ho così paura di quello che scoprirò stanotte e ce l’hai anche tu, lo sento” disse fissandomi con quegli occhi gialli.
Gli accarezzai una guancia ascoltando il suo cuore battere con forza, il ritmo aumentato a causa della trasformazione. Pian piano, rallentò e Stiles ritornò umano. I canini si ritirarono e le orecchie si accorciarono, gli occhi smisero di brillare nel buio e i peli sparirono.
“Se per te va bene, voglio fare l’amore con te ora che siamo ancora noi stessi” sussurrò spaventato da un mio rifiuto che non sarebbe mai potuto avvenire perché, neppure io sapevo come, era diventato impossibile fare del male a Stiles anche involontariamente. “Dopo quello che ricorderò, forse non mi vorrai più” mormorò.
“Ti ho scelto” gli ricordai. Anche se non lo avessi più voluto non mi sarebbe stato possibile lasciarlo e quella consapevolezza era ancora più terribile.
“Anche io ho scelto te” rispose con un sorriso posando la mano sulla mia e inclinando il viso per andare incontro alla mia carezza. “Ti ho scelto quando neppure ti conoscevo e continuo a farlo ogni giorno” aggiunse voltandosi per baciare il palmo della mia mano con flebili schiocchi dolci e delicati.
Il suo profumo mi inebriò e i suoi occhi ritornarono gialli, bruciarono come fiamme sotto il mio sguardo.
Spostai il pollice sulla sua bocca dischiusa accarezzandogli il labbro inferiore. Poi la mia bocca prese il posto del dito. Lo baciai con talmente tanta irruenza che indietreggiò di un paio di passi per non perdere l’equilibrio. Gli circondai il collo con entrambe le mani per impedirgli di allontanarsi. Lui mi abbracciò in vita, arpionandomi i fianchi e tirandomi più vicino a sé. Si alzò sulle punte dei piedi per cercare di arrivare alla mia altezza.
Nel bel mezzo del bacio cominciai a togliermi le scarpe mentre le sue mani finirono sotto la mia maglia per accarezzarmi l’addome. Presi l’indumento per il colletto e lo tirai verso l’alto rimanendo a petto nudo. La gettai insieme alle scarpe che avevo calciato pochi secondi prima. Cominciò a baciarmi la pelle tesa a causa del suo tocco.
Sollevai il viso per guardare le stelle e la luna quasi piena. Respirai più velocemente annusando il profumo di quello che era il mio compagno.
Afferrai la sua maglietta a maniche lunghe, cercando di tirarla verso l’alto, ma la sua lingua umida lambì il mio capezzolo facendomi fermare. Quel suo gesto mi fece grugnire.
Lo spinsi per farlo sdraiare a terra ma attutii la sua caduta circondandolo con le braccia e spalmandomi sopra di lui. Emise un verso sorpreso ma non protestò quando si ritrovò sdraiato sopra un mucchio di foglie.
Sentii i miei occhi bruciare e li vidi risplendere di blu nel riflesso dei suoi. Gli afferrai i bordi dei pantaloni mentre lui si disfaceva della maglia.
Ben presto, ci ritrovammo nudi l’uno sopra l’altro, ad assaporarci e ad annusare ogni più piccola sensazione che traspirava dai nostri corpi.
Fu in quel momento che capii che avrei continuato ad amarlo, nonostante tutto. Niente di quello che avremmo scoperto quella notte avrebbe fatto sì che mi privassi di tutto questo.
Mi misi a cavalcioni sul suo corpo sudato e tremante e lo vidi spalancare gli occhi gialli e guardarmi con la bocca aperta sia per il respiro affannato che per quello che stavo per fare. Afferrai il suo sesso e lo condussi lentamente dentro di me per la prima volta.
“De-erek” boccheggiò sprigionando tutta l’adrenalina e l’eccitazione.
Deliziato dal modo in cui disse il mio nome cominciai a muovermi sul suo corpo sentendolo entrare sempre di più. Mi chinai per baciarlo e assaporare quel sentore di liquirizia che non lo abbandonava quasi mai. Posai la mia guancia accanto alla sua, graffiandolo con la barba sfatta e ascoltandolo gemere contro il mio orecchio.
Venne dentro di me dopo tanti minuti sussurrando il mio nome e rovesciando gli occhi all’indietro. Il colore si alternava dal castano all’oro, segno che comunque riusciva a tenere a bada il lupo nonostante alla luna piena mancassero solo una ventina di ore.
Ogni minuto che passavo con lui diventava sempre unico e indimenticabile. Non mi sarei mai potuto abituare alle emozioni che mi scatenava quel ragazzo, né il modo in cui si era fidato di me senza neppure conoscermi.
Mi sollevai dal suo corpo e mi inginocchiai tra le sue gambe, che aprì per lasciarmi spazio, gliele alzai prendendole da sotto le ginocchia ed entrai dentro di lui con una spinta secca e decisa. Sibilò solo una volta a causa del dolore, che gli assorbii immediatamente, poi riprese ad ansimare.
Lo facemmo per quasi un’ora, in modi diversi, in posizioni diverse, ma provando la stessa cosa.
Sdraiati nell’erba, tra le foglie, completamenti nudi, sporchi e sudati ci fissammo negli occhi senza dirci niente fino a quando, con un mezzo sorriso, Stiles posò la sua mano sul mio petto disegnando con la punta del dito indice un cuore attorno al mio capezzolo.
Lo studiai mentre compiva quel semplice gesto. Aveva gli occhi velati di passione ma erano calmi e sereni. Il suo dito si spostò sul mi viso voltato verso di lui, si fermò sull’orecchio tracciandone i contorni, e si spostarono sullo zigomo. Mi spostai leggermente verso di esso, sentendolo vicino alla bocca e beandomi del suo tocco quando iniziò a toccarla con attenzione. Sporsi le labbra in avanti proprio quando il suo dito si fermò al centro di esse, baciandolo e sollevando gli occhi blu verso il suo viso serio e pensieroso. Aggrottò le sopracciglia, togliendo l’indice dalla mia bocca e sollevandosi con il busto, restando con il gomito poggiato a terra.
Lo osservai guardare il bosco con la bocca aperta piena di stupore. Inarcò le labbra in un sorriso e mi sollevai anche io per ammirare la radura illuminata da una distesa di lucciole che danzavano nel buio. Uno spettacolo che non avevo mai visto, e che suggellò uno dei momenti più belli passati assieme.
Ci rivestimmo in silenzio, senza fretta, timorosi di spaventare le creature che non avrebbero più prodotto la luce e poi mi sedetti di nuovo nell’erba con le gambe aperte, invitando Stiles a sedersi in mezzo ad esse. Quando lo fece lo abbracciai da dietro posando il mento sulla sua spalla mentre lui rilassava la schiena contro il mio petto.
Ormai non avrei più potuto immaginarmi senza di lui accanto. I lupi erano fedeli per natura e io non esistevo più senza Stiles. Questa era la sola cosa che sapevo e a cui mi aggrappavo.
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13

Eravamo saliti in macchina che era quasi passata la mezzanotte. Io e Stiles ci eravamo seduti sui sedili posteriori e tenevamo la testa bassa, anche se il rischio di incontrare qualcuno era pressoché inesistente. Theo guidava con le mani strette sul volante, le nocche bianche e tese, e Liam cambiava stazione radio ogni cinque secondi rammentandomi della notte dell’incidente quando Laura compiva gli stessi gesti. Era una situazione fin troppo simile. Tirai un sospiro di sollievo quando entrammo in tangenziale e nessun’ombra comparve in mezzo alla strada per farci cappottare.
Stiles, alla mia sinistra, era teso come una corda di violino. Respirava affannosamente e sgranocchiava rumorosamente una stecca di liquirizia. I suoi occhi, perennemente gialli, erano pieni di ansia.
Lo guardai e annusai discretamente. Era spaventato. Non riuscivo a percepire nient’altro che paura.
Con due dita presi la stecca mangiucchiata e gliela sfilai dalle labbra. Mi avvicinai a lui e sostituii la liquirizia con la mia bocca secca, scontrandomi con la sua bagnata di saliva.
Lo sentii inspirare profondamente nel bacio e aprì le labbra per fare in modo che lo approfondissi. Le nostre lingue si scontrarono per qualche secondo poi si separarono. Poggiai la mia fronte contro la sua tenendo gli occhi chiusi e respirando il suo odore che il mio bacio aveva leggermente modificato. Gli presi la mano e feci incastrare le nostre dita. Stiles mi guardò da sotto la cortina di ciglia con quei suoi occhi dorati e luminosi. Gli sorrisi, cercando di trasmettergli tranquillità, e rubai ancora il suo dolore che non cessava mai di esistere nel suo corpo. Ne aveva assorbito talmente tanto alle persone che ormai era parte di lui.
Posò la testa sul sedile e chiuse gli occhi rilassandosi.
Sollevai lo sguardo e vidi Theo fissarmi dallo specchietto retrovisore. Sia lui che Liam emanavano determinazione ma ora sentivo anche una punta di timore. Erano preoccupati per quello che ci sarebbe potuto succedere. Gli feci un cenno con la testa e lui tornò a guardare la strada.
Stiles riaprì gli occhi improvvisamente e fissò l’asfalto. “Successe lì” disse poggiando la mano aperta sul finestrino.
Guardammo tutti. Stavamo percorrendo il tratto di strada in cui era avvenuto l’incidente, con la sola differenza che mia madre stava scappando dalla Stilinski Corporation mentre noi ci stavamo dirigendo lì.
Stiles fissò il punto in cui la macchina si era ribaltata e deglutì rumorosamente. Un silenzio inquietante calò nella macchina, accompagnato solo da una melodia soffusa che usciva dalla radio e che stava pian piano svanendo. Strinse le mie dita, ancora incastrate insieme alle sue, con forza e io continuai ininterrottamente a prendere il suo dolore che stava scemando lentamente.
Arrivammo alla Stilinski Corporation troppo presto. Avrei voluto che quel viaggio in macchina durasse ancora qualche ora o anche qualche minuto in più per poter stare lì con Stiles senza preoccuparci di come tutto sarebbe potuto cambiare da un momento all’altro.
“C’è ancora la guardia all’ingresso?” chiese Stiles.
Io annuii. “Ci sono anche le telecamere. Può darsi che abbia già visto la macchina”.
I due ragazzi davanti a noi sospirarono quasi in sincrono. “Scendo prima io” disse Theo aprendo la portiera e uscendo dall’auto.
Lo guardammo avviarsi verso l’entrata dell’edificio e sbirciare all’interno delle porte a vetri. Dopo qualche secondo si voltò e, con un cenno della mano, ci disse di avvicinarci. Scendemmo dalla macchina in completo silenzio. Mi affiancai a Stiles e insieme percorremmo i pochi metri che ci separavano dall’edificio nel quale eravamo stati modificati. Liam si avvicinò a Theo borbottando le sue insicurezze.
Non c’era nessuno dietro la scrivania all’ingresso. L’uomo che si occupava della sicurezza era sparito.
Vidi Stiles avvicinarsi alla porta e afferrare la maniglia, poi la tirò versò di sé. Si aprì senza produrre alcun suono. Mise un piede nell’edificio e vidi le sue unghie allungarsi e diventare appuntite quando l’odore di cera per pavimenti arrivò al naso. Io distinguevo nitidamente l’odore delle persone che avevo conosciuto lì dentro: Argent, Scott, Lydia, il dottor Deaton e altre fragranze che appartenevano agli uomini e le donne che lavoravano in quel posto.
Uno scampanellio familiare ci vece voltare. Le porte dell’ascensore si aprirono e apparve Scott.
Stiles lo guardò con gli occhi spalancati mentre Theo gli andò incontro. Si strinsero la mano poi Scott si voltò a guardare Stiles. “Hai messo su un po’ di peso” esordì emanando affetto e ricordandomi che in effetti era molto magro la prima volta che lo avevo incontrato su quella strada dopo che aveva appena rapinato un’erboristeria.
“Non sei più venuto nella casa nel bosco” lo rimproverò Stiles senza cattiveria.
“Sapevo che non avevi più bisogno di me” replicò dandomi una veloce occhiata.
Stiles avanzò velocemente e lo abbracciò di slancio. Il giovane dottore ricambiò senza esitazione stringendolo con forza e affondando il viso nel suo collo. Liam li guardava con un sorriso sereno mentre Theo si osservava attorno preoccupato che qualcuno ci vedesse dalle porte a vetri.
Occhieggiai le telecamere e mi avvicinai alla scrivania per guardare i monitor. Mi rilassai quando vidi che erano spenti e le telecamere non stavano registrando. Notai sul tavolo una tazza di caffè ancora fumante. Lo annusai e ci percepii dentro un sonnifero: la guardia era stata drogata e spostata da un’altra parte per permetterci di entrare.
Sorrisi guardando i due abbracciarsi. Non si vedevano da tanto e il viso di Scott rivelava il suo sollievo e la preoccupazione che gli sentivo addosso quando vivevo qui stava ora lasciando il suo corpo. Scott sollevò gli occhi e mi guardò con gratitudine, poi lasciò andare Stiles e si avvicinò a me. “Non sapevo se avrei potuto fidarmi” rivelò. “Eri così determinato ad ucciderlo”.
“Lo so” risposi. “Grazie per averlo fatto”.
Liam fece un paio di passi verso di noi e Scott gli circondò le spalle con un braccio e gli schioccò un bacio contro la tempia. “Andiamo” sussurrò avviandosi verso l’ascensore ancora ferma al piano.
“Indicare nome e numero del piano” disse la voce metallica quando fummo entrati tutti e le porte si richiusero.
“Scott McCall. Sette” disse il tirocinante.
“Settimo piano. Laboratori. Accesso consentito”.
Quando entrammo nel laboratorio la prima cosa che mi saltò all’occhio fu l’incubatrice dalla quale ero uscito neanche quattro mesi prima. Era tirata a lucido come se Argent la stesse preparando per utilizzarla di lì a breve. Se la teoria di Liam era esatta, ora che sapeva che la mutazione perfetta era possibile, forse in giro c’era già qualcuno che aveva cominciato ad assumere i nostri stessi farmaci. Dovevamo impedirgli di creare un LUPO-03.
La prima cosa che notò Stiles fu invece una folta chioma di capelli mossi rosso ramato. La dottoressa Martin scriveva a computer quando noi cinque varcammo la soglia.
Appena vidi il volto tumefatto di Lydia ebbi uno spasmo alla mano che si aprì e si chiuse a pugno facendo crescere gli artigli che mi bucarono la pelle facendo cadere sul pavimento qualche goccia di sangue. Stiles e Liam, ai miei fianchi, emanarono rispettivamente rabbia e disgusto mentre Theo, dietro di me, si fece largo per guardare il viso della dottoressa Martin. Aveva un occhio gonfio che non riusciva a tenere completamente aperto e il labbro spaccato e deturpato da una crosta di sangue raggrumato, la tempia e gran parte dello zigomo erano viola scuro. I capelli rosso ramato circondavano il suo volto, una volta bello e sensuale e ora una maschera d’orrore.
“Che ti è successo?” ebbe la forza di chiedere Stiles mentre lei si alzava barcollando dalla sedia per avvicinarsi a noi. Notai che trattenne una smorfia di dolore.
Con un po’ di sforzo riuscì a sorridere e si avvicinò al ragazzo. Appena fu alla sua portata lo abbracciò. Stiles ricambiò delicatamente per paura di farle ulteriormente male e la annusò affondando il naso tra la folta chioma di capelli mossi.
“Che ti è successo?” ripetei io affiancandomi.
Lei mi guardò e posò una mano sulla mia guancia guardandomi con dolcezza. “Sono contenta che vi siate trovati” disse senza rispondere alla nostra domanda. “Quando sei sparito, quella notte, temevo che lo avessi individuato e volessi ucciderlo”.
“Volevo che mi togliesse l’AconiRAL e poi sì, l’intenzione era di ucciderlo” dissi facendo ridacchiare sia Scott che Liam. Guardai Stiles roteare gli occhi mentre Lydia mi lanciava un’occhiata di ammonimento. Perché negare? Tutti sapevano che intenzioni avessi con Stiles all’inizio.
“E cosa ti ha fatto cambiare idea?” domandò portando una mano sul fianco e massaggiandolo, forse aveva dei lividi anche lì.
“Ho aperto gli occhi e ho visto chi era veramente Argent e, soprattutto, ho visto Stiles” mormorai senza vergogna.
Lydia annuì compiaciuta e poi fece una smorfia.
“È stato lui a farti questo, vero?” chiesi alzando una mano e toccando con due dita la sua guancia viola e gonfia.
La sua testa fece di nuovo su e giù.
Con la punta dei polpastrelli premetti leggermente sulla sua pelle e vidi le vene delle mia dita diventare nere per assorbire il dolore di Lydia. Lei chiuse gli occhi ed emise un sospiro calmo e soddisfatto.
“Perché ti ha picchiata?” chiese Theo disgustato.
“Ultimamente è fuori controllo” rispose. “Si arrabbia per qualsiasi cosa e l’altro ieri mi ha fatto questo. Non è capitato solo a me, ha colpito anche altre persone”.
Stiles aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse immediatamente e si morsicò un labbro per impedirsi di parlare.
“Ti starai chiedendo perché non l’abbia denunciato, giusto?” intuì lei.
Stiles annuì.
“Se lo avessi fatto non avrei più potuto lavorare qui” rispose osservando prima Stiles e poi me. “E se non avessi più lavorato qui non avrei più potuto aiutarvi”.
“Siete sempre stati dalla nostra parte” commentai fissando Scott e ricordandomi di quando, appena dopo la trasformazione, si premurava di portarmi da mangiare in camera lasciando sempre dietro di sé il profumo delle caramelle alla liquirizia.
“Mi hai torturato con l’elettricità ma eri dalla mia parte” dissi guardando l’unica donna nella stanza.
“Ora però non sei più vulnerabile all’elettricità, a differenza di Stiles” osservò lei.
Voltai la testa per guardarlo e lui sollevò gli occhi per ricambiare la mia occhiata e confermò: “una scossa troppo forte può farmi ritornare umano. Se viene sfruttata in modo opportuno rallenterebbe così il processo di guarigione impedendomi di ritrasformarmi in licantropo” spiegò.
“Ti ucciderebbe” conclusi io.
“Probabilmente sì” ammise.
“Quindi tu, torturandomi con tremila watt al giorno, mi stavi facendo un favore?” chiesi rivolgendomi a Lydia con un sopracciglio sollevato.
“In realtà mi stavo anche vendicando” rispose innocentemente. “Insomma, volevi uccidere Stiles. Meritavi un po’ di dolore”.
Abbassai la testa per nascondere un sorriso ma le mie spalle sobbalzarono per la risata che stavo cercando di trattenere e lei se ne accorse.
“Possiamo pensare alle cose importanti?” domandò Theo infastidito da come stavamo perdendo tempo.
“Ha ragione” lo sostenne Scott. “Dobbiamo iniziare”.
Calò il silenzio nella stanza. Percepivo distintamente i battiti dei loro cuori e il rumore dei loro respiri. Vidi Stiles tastarsi le tasche alla ricerca di qualcosa al gusto di liquirizia che potesse placarlo, ma non trovò niente. Percepii il suo odore di cane bagnato sovrapporsi a quello umano e notai che stava stringendo i pugni per non fare vedere gli artigli.
“Qualsiasi cosa scopriremo questa notte non scordiamoci chi è il vero nemico” dissi guardando tutti loro uno per uno. Ricambiarono il mio sguardo con serietà e determinazione. Theo esalava rabbia e le sue sopracciglia aggrottate rendevano il suo sguardo cattivo. Era la prima volta che lo vedevo così minaccioso e mi sembrò anche molto pericoloso.
Liam, Theo e Scott si allontanarono mentre Lydia ci disse di seguirla davanti all’incubatrice. Lo sportello era aperto e l’interno era buio e spettrale. Deglutii al pensiero di dover entrare lì dentro di nuovo. Anche Stiles fissò quell’enorme cilindro con orrore. Era stato chiuso lì dentro per tre anni al freddo e nell’oscurità, con le medicine che gli provocavano allucinazioni e provando dolore ad ogni luna piena. I suoi occhi erano i nuovo gialli e sentivo i suoi respiri farsi sempre più profondi per cercare di mantenere il controllo sul lupo.
“Per riottenere i ricordi dovrai entrare nella mente di Stiles” disse Lydia cominciando a smanettare con il computer e pigiando i tasti velocemente.
Io e Stiles ci scambiammo un’occhiata scettica e poi l’interno dell’incubatrice si illuminò emettendo un ronzio.
“Io devo entrare nella sua mente?” cercai delucidazioni.
“Sì, e non sbagliare. Altrimenti rischi di paralizzarlo e nessun’abilità speciale di guarigione potrà curarlo” rispose prendendo da un portamatite un pennarello indelebile blu. Si avvicinò a Stiles e gli sollevò i capelli alla base del collo, poi segnò quattro punti sulle vertebre.
La guardai con curiosità mentre rimetteva il tappo sul pennarello e se lo infilava nel taschino della camicia. Vidi il sudore imperlarle la fronte e lei se lo asciugò con il dorso della mano.
“Dovrai penetrare nella carne, con gli artigli, in questi punti esatti” spiegò.
“Che cosa?” strepitò Stiles poggiandosi la mano sul collo e coprendoselo per paura che facessi quanto detto dalla donna. Guardò Scott sconvolto, come per cercare il suo supporto in questa situazione, ma lui fece solo un cenno d’incoraggiamento. Stiles inspirò profondamente ma fu inutile perché le orecchie cominciarono ad allungarsi e i canini a crescere. I peli spuntarono sul suo viso immaturo.
“Ehi, ehi” sussurrai mettendomi davanti a lui, afferrandogli il volto con entrambe le mani e sollevandolo un po’ verso l’alto in modo che mi guardasse.
“La luna piena è vicina” si giustificò con voce gutturale. “Devi portarmi nella casa nel bosco ed incatenarmi” quasi ringhiò. “Sono pericoloso”.
“Mancano ancora diciotto ore alla luna piena. È lontanissima” risposi. “Puoi resistere e posso farcela, posso entrare nella tua testa senza farti del male”. Stavo mentendo. Non ero sicuro di quello che dicevo, forse non ne ero capace, non avevo mai provato ad infilare gli artigli nel collo di qualcuno per accedere alla sua memoria.
Stiles mi annusò e capì la mia bugia ma non disse niente. Forse si fidava talmente tanto che non gli importava.
“Coraggio” lo esortai, poi premetti le mie labbra sulle sue per pochi secondi.
Lui tirò su col naso e annuì.
“Dobbiamo entrare lì?” chiesi a Lydia che ci guardava con un misto tra tristezza e tenerezza.
“Vi serve un posto tranquillo e sufficientemente insonorizzato per non farti distrarre” disse invitandomi ad entrare. “Vi troverete entrambi nella sua mente, dovrete fare attenzione a non perdervi e ritrovare la forza per uscire” spiegò enigmatica.
Entrammo tutti e due nell’incubatrice. Era più piccola di come la ricordavo e in due stavamo stretti.
“Tu come le sai queste cose?” domandai mentre Stiles si girava e poggiava la schiena al mio petto. I puntini blu, appena disegnati, spiccavano sul bianco latteo della sua pelle.
Lei non rispose e chiuse la porta metallica. Il clangore rimbombò nel cilindro claustrofobico. Mi guardai attorno: la luce al neon dava un po’ fastidio alle mie pupille sensibili. Stiles era ancora trasformato ma la sua indole aggressiva sembrava domata. Anche lui era impaziente di riavere i suoi ricordi.
Poggiai la mano alla base del suo collo e lo massaggiai sentendolo contratto. Sfiorai con la punta delle dita la sua pelle sudata e tesa e sentii il suo respiro farsi più affannato.
“Posso?” chiesi mentre le unghie si trasformavano in artigli. Li posai esattamente su quei quattro puntini blu e riuscii anche a percepire i cuori delle quattro persone fuori dall’incubatrice battere all’impazzata.
“Sì” sussurrò Stiles abbassando un po’ la testa per lasciarmi più accesso.
Con un colpo fluido e fin troppo semplice, i miei artigli entrarono nella sua carne che sentii immediatamente cercare di guarire e ricucirsi senza successo. Mi trasformai all’istante ma quasi non me ne accorsi. Entrai nella testa di Stiles senza incontrare alcun ostacolo e lo vidi, con gli stessi vestiti che indossava nella realtà. Anche lui mi vide. Aveva gli occhi color caramello spalancati e si guardava attorno. Non era trasformato e non percepivo nessun odore provenire da lui e notai che anche lui stava cercando di annusarmi non sentendo assolutamente nulla. Eravamo tornati umani.
La seconda cosa che vidi, dopo Stiles, fu la stanza dell’incubatrice. Aveva una luce strana, quasi soffusa, e una leggera nebbiolina aleggiava nell’aria. Sembrava di essere in un film dai tratti horror in cui sai che, prima o poi, un jump scare ti farà spaventare e battere forte il cuore, solo che non era un film di paura, era la mente di Stiles annebbiata a causa del tempo che trascorreva e dei ricordi che cominciavano a svanire. I computer erano accesi e illuminati da uno screensaver pieno di pesci di tutti i colori che nuotavano su uno sfondo nero. Tutti tranne uno, evidentemente utilizzato da qualcuno fino a pochi secondi prima.
Stiles si guardava attorno confusamente e si avvicinò allo schermo. Nel quadratino in basso a destra lesse, ad alta voce, la data: “2 agosto 2091, ore 23:39”. Era il giorno dell’incidente alla Stilinski Corporation. La notte in cui aveva ucciso suo padre. Significava quindi che, in quel momento, la mia famiglia era ancora viva e che sarebbe morta in meno di un’ora.
Ci voltammo entrambi quando qualcuno entrò nel laboratorio gridando e quasi piangendo. Era Stiles, e dietro di lui c’era un uomo che copriva le sue urla con una voce alterata e altrettanto arrabbiata.
Stiles, quello vero di fianco a me, fece un passo in avanti. “Papà…” sussurrò. L’uomo non lo udì e non lo vide.
Quindi quello era Noah Stilinski: l’uomo che avevo visto in foto, riverso sul pavimento, in una pozza  sangue. Lo stesso che aveva ucciso la sorella di Theo.
“Sappiamo quello che hai fatto. Talia lo ha scoperto” sbraitò Stiles nei ricordi.
Sussultai quando pronunciò il nome di mia madre e mi guardai attorno sperando di vederla ma, quasi sicuramente, a quell’ora era già arrivata a casa per dirci di preparare le valigie perché dovevamo partire per una vacanza improvvisata.
“Sono morti per causa tua” lo accusò Stiles con la voce colma di delusione ed amarezza.
“Sono morti perché tentavo di salvare tua madre e poi ho tentato di salvare te e, finalmente, ci sono riuscito!” replicò Noah.
Nei suoi occhi azzurri notavo la tipica insofferenza e rabbia circondata dall’amore incondizionato che provava per il figlio.
“Ho fatto di tutto per permettere a te di sopravvivere e lo rifarei altre mille volte” confessò. “Non importa se tutte quelle persone siano morte” disse Noah avvicinandosi al figlio ormai completamente trasformato. “Tu sei vivo. È questo che conta”.
Stiles, nel ricordo, cominciò a respirare affannosamente. Gli occhi dorati gli divennero incredibilmente lucidi e si fissò le mani decorate dagli artigli con odio e poi fissò suo padre con lo stesso sguardo.
“Sono morti per causa mia” realizzò. “Li hai uccisi a causa mia”. Gli tremavano le labbra e dalla gola gli stava salendo un ringhio ferino e animalesco.
Così questo era avvenuto, pensai osservando i due protagonisti del ricordo: Noah Stilinski aveva inventato la licantropia alla ricerca di una cura che avrebbe salvato prima sua moglie poi suo figlio; aveva sperimentato la mutazione su decine di persone innocenti sacrificandole nel tentativo di trovare la combinazione perfetta di farmaci, temperatura dell’incubatrice e tempo che serviva per la trasformazione. Stiles ci aveva messo molto più tempo di me per diventare un licantropo e quindi potevo solo immaginare quanto impegno ci avesse messo Noah per farlo uscire vivo da quel maledetto cilindro metallico.
Stiles, quello vero, di fianco a me, aveva gli occhi spalancati e fissi sul se stesso più giovane.
“Ora tu mi devi aiutare” mormorò Noah afferrando le spalle di Stiles con forza e facendolo uggiolare a causa di tutti i sentimenti negativi che lo stavano sopraffacendo. “Devi dirmi dov’è andata Talia”.
Il nome di mia madre riscosse Stiles. “Perché?” chiese con la voce che gli tremava incontrollabile.
“Devo convincerla a non andare dalla polizia” rispose lo scienziato.
Vidi le narici di Stiles allargarsi e il suo petto riempirsi d’aria. Lo stava annusando.
“Stai mentendo” capì con tristezza che ben presto divenne orrore quando comprese cosa avesse intenzione di fare suo padre. “Tu vuoi ucciderla!” gridò indietreggiando e rischiando di perdere l’equilibrio talmente tanto era lo sconvolgimento. I suoi occhi saettarono in tutte le direzioni.
“Ricordo cosa stavo pensando” parlò Stiles al mio fianco.
Sobbalzai e mi voltai a fissarlo.
“Riaffiora tutto” sussurrò osservando se stesso. “Pensavo alla conversazione avuta con Talia. Le avevo appena detto di tornare a casa e portare via i suoi figli. L’avevo obbligata a scappare e in quel momento ero terrorizzato da quello che mio padre avrebbe potuto farti” disse a bassa voce, come se temesse di disturbare la scena che era avvenuta nella sua testa.
“Farmi?” chiesi confuso.
“Lui voleva uccidere Talia e io riuscivo a pensare solamente al fatto che, in quel momento, lei fosse insieme a te e inevitabilmente ne saresti rimasto coinvolto” aggiunse chinando il capo e fissando le sue stesse scarpe. “Quanto sono stato egoista” si colpevolizzò per l’ennesima volta. “Sarei dovuto morire quando avevo otto anni, almeno non avrei causato tutta questa sofferenza”.
Non feci in tempo a rispondergli, a dirgli di smetterla di dire cose prive di senso. Qualcosa accadde nei ricordi di Stiles: lui cominciò a ringhiare e le sue pupille si dilatarono talmente tanto che quasi coprirono il giallo che contraddistingueva i suoi occhi.
“Stiles?” chiamò suo padre osservandolo per la prima volta con timore. “Che ti succede?” chiese facendo un paio di passi indietro.
“Non riesco…” ringhiò mentre la bava cominciava a colargli dai canini “… a tornare umano” finì la frase.
Noah si voltò di scatto e guardò fuori dalla finestra: la luna era piena. “No” mormorò stupefatto. “Tu hai già il controllo”.
“Non ti permetterò di ucciderla” esclamò Stiles completamente trasformato. I peli gli erano cresciuti persino sulle mani e notai che anche le unghie dei piedi si erano allungate e avevano bucato le scarpe. In qualche modo Stiles le calciò via e rimase a piedi nudi con le granfie che ticchettavano sul pavimento talmente erano lunghe.
Non era mai successo che le caratteristiche da lupo fossero così evidenti. Di solito mutava solo il viso e le unghie delle mani ma Stiles era come se si stesse trasformando in un lupo vero e proprio. I peli sulle mani e sulle braccia si moltiplicarono ed ero convinto che gli fossero cresciuti anche sotto i vestiti.
Il vero Stiles guardò se stesso con disgusto. I tratti da lupo erano mostruosi e sembrava che il volto si stesse allungando per tramutarsi nel muso di un enorme cane aggressivo.
“Oh, mio Dio” mormorò Noah guardando il suo stesso figlio e forse pentendosi per la prima volta di quello che aveva creato.
Le sue orecchie divennero incredibilmente lunghe e pelose e gli occhi brillarono e risplendettero sotto le luci al neon e fu un attimo, durò solo una frazione di secondo, ma quegli occhi divennero blu pervinca e poi ritornarono giallo oro.
“Tu non farai del male a Talia” ringhiò Stiles. La sua voce rimbombò e poi, improvvisamente, il ragazzo lupo allungò il collo e ululò.
Sobbalzai a quel rumore. Non avevo mai sentito un suono più melodioso e al tempo stesso spaventoso di quello.
Al mio fianco, Stiles si portò le mani a coprirsi la bocca spalancata. Sapeva quello che stava per accadere: in quei secondi che sarebbero susseguiti avrebbe ucciso suo padre.
“Stiles?” lo chiamò Noah.
Il lupo smise di ululare e lo fissò.
“Mi dispiace per quello che ti ho fatto” mormorò affranto.
Il licantropo sollevò la mano destra, con gli artigli incredibilmente lunghi, e scagliò un fendente contro la gola dell’uomo.
Il vero Stiles, di fianco a me, crollò in ginocchio.



Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14

Non era così che immaginavo sarebbe andata. Di sicuro non pensavo che Lydia Martin avesse escogitato questo metodo per far ricordare a Stiles il proprio passato. Non pensavo neppure che solo noi due potevamo assistere a tutto questo e forse, in fondo, speravo che Stiles ricordasse qualcosa di mia madre e invece eravamo finiti lì, in quello stesso laboratorio che ci aveva visto rinascere e che ci stava ospitando anche in questo momento nonostante la nostra testa fosse altrove, in un altro tempo.
Stiles, in ginocchio al mio fianco, aveva incassato la testa nelle spalle e fissava il proprio padre, che teneva una mano premuta sulla gola ferita. Noah Stilinski boccheggiò indietreggiando e appoggiandosi alla scrivania. Guardò suo figlio con sgomento e cercò di parlare ma dalla sua bocca uscì solo uno strano gorgoglìo.
Il giovane Stiles, che stava man mano perdendo le sembianze da lupo, fissava le proprie unghie ricoperte di sangue.
“Guarda cosa mi hai fatto fare!” urlò arrabbiato. Piangeva e singhiozzava con disperazione.
Io osservavo la scena senza comprendere: Stiles aveva graffiato suo padre. All’inizio sembrava una ferita mortale ma ora che guardavo bene non stava uscendo tanto sangue e Noah aveva preso dei kleenex dalla scrivania per tamponarsi il taglio che, a una prima occhiata, risultava fatale. Presi Stiles per un braccio, aiutandolo a rimettersi in piedi, e lo obbligai a guardare quella scena surreale.
“Avrei potuto ucciderti” aggiunse il ragazzo trasudando senso di colpa.
In quell’istante, un uomo spalancò la porta del laboratorio entrando trafelato. “Noah!” esclamò con urgenza. “Sei ferito?” chiese stupidamente.
Trattenni il fiato quando riconobbi Chris Argent, aveva i capelli più corti ma non era cambiato di una virgola.
“Che cosa hai fatto?” sbraitò voltandosi verso il ragazzo e minacciandolo con un taser che aveva estratto dalla tasca interna della giacca.
Stiles sembrò rimpicciolirsi alla vista dell’arma e mi parve anche di vederlo tremare.
Mentre lo teneva sotto tiro, Argent si avvicinò allo scienziato per constatare in quale condizione si trovasse. Esaminò la sua ferita e si tranquillizzò. “Te la caverai” decretò.
Io e Stiles ci scambiammo un’occhiata sospettosa mentre lo Stiles dei ricordi, fin troppo giovane ed ingenuo, tirò un sospiro di sollievo.
“Tutto procederà come stabilito” annunciò Chris prendendo da un armadio una cassetta con un kit di pronto soccorso per curare l’amico. “Suo figlio diventerà un mutaforma” aggiunse prendendo garze e disinfettante.
“Suo figlio?” chiese immediatamente Stiles mentre Noah lo rimirava con rammarico.
“Il figlio di Talia ha tutti i requisiti necessari per arrivare ad avere la mutazione perfetta, una condizione fisica e mentale da far invidia ad un maestro di yoga” disse divertito.
Parlavano di me. Avevano deciso sin dall’inizio che sarei dovuto diventare un licantropo ma, anziché costringermi, mi avevano fatto credere che fossi io a volerlo, con la vana speranza che, in quel modo, avrei catturato l’assassino della mia famiglia.
“Tu non toccherai Derek” ringhiò il ragazzo.
“Piantala, Stiles” sibilò Argent. “Non importa a nessuno della tua stupida cotta adolescenziale” disse con cattiveria guadagnandosi un’occhiataccia da Noah. “Non l’hai mai neanche conosciuto… ma potrai farlo. Lui diventerà come te”.
Fissai il giovane Stiles, arrabbiato e spaventato da quello che volevano farmi, e in quel momento mi voltai per stringergli la mano. Avevo intenzione di dirgli che ero stato uno stupido a fidarmi di Argent, che mi dispiaceva per essere stato così cieco e aver tentato di togliergli la vita e che lo amavo, perdio se lo amavo.
Non potei fare nulla di tutto questo perché Noah parlò: “Ha ragione” disse a fatica. L’amico si voltò a fissarlo con rabbia. “È ora di fermarsi. Troppe vite sono già state distrutte” riprese Stilinski guardando Chris con dispiacere mentre quello, deluso, scuoteva la testa.
Stiles sorrise e si avvicinò a suo padre.
“Ora farò tutto quello che vuoi” sussurrò mentre gli occhi gli diventavano lucidi.
Il figlio allungò una mano e la posò sulla sua spalla, gli assorbì il dolore che stava provando a causa sua e disse: “voglio che ti costituisca alla polizia e che lasci Talia in pace con la sua famiglia”.
“Tutto quello che vuoi” ripeté suo padre.
“Grazie” mormorò Stiles.
Non capivo quello che vedevo. Noah non era morto e aveva appena chiarito con suo figlio che, decisamente, non era il suo assassino. Cos’era successo quella dannata notte? L’orologio segnava le 00:04, era il 3 agosto e mia madre stava per morire… ma per mano di chi?
“È troppo tardi” si intromise Argent. “La mia squadra sta già cercando Talia e hanno l’ordine di non prenderla viva”.
Spalancai gli occhi. “No” bisbigliai.
Lui. Era stato lui sin dall’inizio. Mi ero fidato. Avevo messo la mia vita nelle sue mani. Avevo lasciato che mi trasformasse e mi usasse per catturare Stiles. Stupido. Uno stupido buono a nulla in cerca di vendetta.
Stiles ringhiò e lo guardò con disgusto mentre Argent gli puntava contro il taser.
“Vai!” lo incoraggiò suo padre e lui non ebbe bisogno di sentire altro: prese la rincorsa e si lancio contro il vetro antisfondamento della finestra mandandolo in frantumi. Mi affacciai e lo vidi precipitare per sette lunghi piani e cascare al suolo sui piedi e sulle mani, formando un cratere nel punto in cui era caduto.
Lo guardai correre e saltare sulle auto nel parcheggio per raggiungere mia madre, poi lo scenario cambiò: non eravamo più nel laboratorio, stavamo seguendo Stiles che galoppava più veloce del vento per salvare la mia famiglia.
Avevamo lasciato indietro Noah e Chris e non sapevamo cosa stesse succedendo alla Stilinski Corporation ma di una cosa adesso eravamo certi: quando Stiles era uscito dall’edificio Noah era ancora vivo. Non era stato lui ad ucciderlo.
Riuscivo a vedere l’espressione sul suo volto. Era terrorizzato e stava sudando copiosamente. Respirava a fatica a causa dell’ansia e della folle corsa.
Era guidato dall’olfatto. Probabilmente aveva isolato l’odore di mia madre per trovarla. Arrivò in tangenziale e, con il rettilineo, la velocità aumentò. Superò un paio di macchine e potei distinguere i guidatori al volante fissarlo stralunati e lanciare imprecazioni con la testa fuori dal finestrino. Non vidi nessuno degli uomini di Argent. La strada era sgombra.
“Talia!” chiamò Stiles sollevato, gli occhi che brillavano come tormalina.
Spalancai gli occhi quando, con velocità elevata, lo vidi avvicinarsi alla macchina. 6 QGM 387. La targa dell’auto diventava sempre più leggibile man mano che ci avvicinavamo.
Poi, di nuovo, accadde qualcosa di incomprensibile: Stiles urlò di dolore e spiccò un salto. Atterrò diversi metri più avanti, davanti alla nostra auto, e si immobilizzò in mezzo alla carreggiata.
Vidi mia madre spalancare gli occhi e lessi il suo labiale: aveva detto il nome del licantropo. Poi sterzò con il volante mentre Laura protendeva le mani in avanti e io cercavo invano di afferrare la mano di Cora che aveva la cintura slacciata e la testa fuori dal finestrino.
Stiles, illuminato dai fari, sbatté le palpebre e venne colpito violentemente dalla fiancata dell’automobile. Lo udii gridare mentre la macchina cominciava a cappottarsi su se stessa una, due, tre volte. Il rumore delle lamiere e dei vetri infranti mi trapanò i timpani. L’auto si fermò, capovolta e distrutta.
Vidi me stesso muovere la testa e gemere dal dolore. Il sangue cominciò ad uscirmi dalla bocca quando tentai di parlare senza successo.
Stiles, nel frattempo, era stato sbattuto a terra e si stava rialzando a fatica. Sentii le sue ossa scrocchiare quando guarirono e cominciò a barcollare verso la vettura. “Talia?” chiamò quasi senza voce e ricominciando la trasformazione a causa dello shock.
Dall’interno sentii la mia voce che chiamava la mia famiglia: “Mamma? Laura? Cora?”.
Una scintilla fece scatenare le fiamme mentre Stiles si avvinava calpestando i vetri dei finestrini che scricchiolarono sotto i suoi piedi nudi. Lo guardai abbassarsi e cercare di aprire la portiera distrutta con la mano trasformata e le unghie lunghe.
“Salva loro” esalò mia madre. Teneva un solo occhio aperto, perché nell’altro si erano conficcati dei vetri.
Stiles guardò all’interno e non sentì il battito del cuore di Laura, né di quello di Cora. Venne verso di me e allungò una mano per strapparmi la cintura che si era incastrata. Mi tirò fuori dalle lamiere che ero ormai svenuto e lo vidi guardarmi. “Derek?” sussurrò il mio nome. Mi trascinò lontano dalle fiamme mentre io riprendevo i sensi e cominciavo a fissare la luna piena, poi guardai lui che si riavvicinò all’auto, facendosi largo tra il fumo sventolando le braccia, e si piegò per guardare all’interno.
“Ora ti tiro fuori, Talia” disse afferrandola per un braccio e assorbendo il suo dolore, con l’altra mano cercò di slacciare la cintura ma due fari che illuminarono la scena glielo impedirono.
“Non osare farlo!”.
Mi voltai per vedere Chris Argent puntare una pistola spara dardi elettrici in faccia a Stiles. Lui si rimise dritto e portò una mano dietro la testa per massaggiarsi il collo.
Vidi me stesso, sdraiato sull’asfalto, fissare la scena con gli occhi sbarrati e non credendo a quello che stavo vedendo: Stiles era di nuovo trasformato.
“È morto, Stiles” disse. “Sei stato tu” lo colpevolizzò.
“Papà?” chiese confuso.
“La ferita era troppo grave” disse tenendolo sempre sotto tiro.
“No. Stai mentendo!” ringhiò.
“Annusami, ascolta il battito del mio cuore. Sai che è la verità” rispose Argent con una strana luce negli occhi. “Sei un assassino” gridò. “Hai ucciso tuo padre. Hai ucciso Talia e le sue due figlie e hai quasi ucciso Derek”.
Stiles, con il viso da lupo, mi guardò disperato. Vedeva il sangue uscirmi dalla bocca e la gamba piegata in una posizione innaturale. Una lacrima cadde dai suoi occhi gialli.
“Ora verrai con me” disse Chris Argent sparando i dardi elettrici.
Stiles, però, spiccò un balzo evitando il colpo e scavalcò la macchina in fiamme. Mia madre iniziò a gridare mentre l’odore di benzina diventava sempre più forte e, all’improvviso, il boato.

 

 

Strappai la mano via dal suo collo e ascoltai Stiles grugnire dal dolore. Non me ne curai quando il sangue zampillò dalle ferite procurate dai miei artigli dentro la sua carne. Sferrai un pugno contro la porta di metallo lasciando il solco delle mie nocche e sentendo vibrare tutto il cilindro. Il boato si propagò nell’incubatrice e rimbombò nelle orecchie.
“Fatemi uscire!” gridai battendo con la mano aperta contro la superficie fredda e liscia.
“Derek…” mi chiamò Stiles.
Annusai il suo malessere ma non mi importò. Sentivo il suo cuore battere forsennato e il mio non era da meno: scalpitava talmente forte che lo percepivo persino nelle orecchie, nelle vene dei polsi e sul collo.
“Fatemi uscire” ripetei cominciando a spingere la porta con tutte le mie forze e sentendola cedere e piegarsi. La aprii a fatica, spossato dal viaggio che avevo fatto nei ricordi di Stiles.
Lui l’aveva uccisa senza motivo. Era saltato davanti alla sua macchina improvvisamente e non si era più mosso. Poi aveva tentato di tirarla fuori e rimediare ma quel bastardo di Argent glielo aveva impedito e lui si era arreso senza neppure provare a combattere.
La colpa era di tutti e due. Entrambi erano responsabili della morte della mia famiglia. E poco importava se la luna era piena e Stiles fosse in uno stato confusionale: poteva spostarsi dalla traiettoria, poteva evitare di farsi investire e di far cappottare la macchina.
Uscii dall’incubatrice arrancando e inciampai. Caddi sul pavimento imprecando e soffocando un ringhio.
“Derek?” mi chiamò di nuovo Stiles. La sua voce tremava ed era flebile. Riuscivo ad annusare il suo sudore e percepivo che era privo di forze. L’intrusione avvenuta nella sua testa lo aveva stremato.
Mi sollevai in piedi. Le gambe mi tremavano ma riuscirono a sorreggermi. Guardai il laboratorio e spalancai gli occhi: era tutto sottosopra. I computer avevano lo schermo in frantumi, una scrivania era rovesciata per terra. Penne, matite, fogli e altra cancelleria era sparsa sul pavimento.
Lydia, Scott, Theo e Liam erano scomparsi e c’era del sangue sul pavimento: Theo era ferito. C’era stata una lotta mentre eravamo nell’incubatrice e non me n’ero minimamente accorto.
“Derek!”. Stiles ringhiò e mi voltai a fissarlo. Era inginocchiato nel cilindro metallico e mi fissava con gli occhi gialli e i canini sporgenti.
La luna.
Guardai fuori dalle vetrate e vidi che il sole stava per tramontare. Eravamo stati chiusi lì dentro per più di quindici ore e la luna piena sarebbe sorta di lì a poco e Stiles era debole e soggiogato da quello che aveva visto. Era spaventato e questo lo rendeva pericoloso.
Riuscii a percepire che l’edificio era sgombro e che nessuno aveva lavorato lì dentro in quella giornata appena trascorsa. Erano stati tutti evacuati. Eravamo soli. Dovevo decidermi se aiutare Stiles o se cercare Theo che, molto probabilmente, era ferito e aveva bisogno di aiuto.
Mi avvicinai al mio compagno e lo presi per un braccio tirandolo su di peso. Stiles ringhiò in protesta e cercò di graffiarmi senza successo.
“Sta’ fermo” ordinai prendendogli anche l’altro braccio e torcendoglielo dietro la schiena. Lo spinsi in avanti e lo esortai a camminare. Percepivo i suoi sensi di colpa e le sue intenzioni di dirmi qualcosa ma la parte da lupo stava diventando opprimente e ogni volta che apriva bocca un piccolo ruggito sfuggiva alle sue labbra.
Dovevo portarlo lontano. Se avesse perduto il controllo decidendo poi di scappare in città ci sarebbe stato il delirio. Dovevo rinchiuderlo da qualche parte e poi andare a cercare le quattro persone che ci avevano aiutato ed erano scomparse nel nulla.
Lo spinsi nell’ascensore. “Indicare nome e numero del piano”. Sobbalzai al suono della voce elettronica.
“Stiles Stilinski. Meno uno” disse tentando di regolarizzare il tono tremolante della voce.
“Stiles Stilinksi. Meno uno. Accesso consentito”.
Spalancai gli occhi. Per mesi avevo tentato di accedere al piano inferiore senza successo. “Cosa c’è al meno uno?” domandai.
Abbassò il capo fino a sfiorare il petto con il mento. “La mia gabbia” rispose inspirando profondamente. “Quando mi comportavo male mio padre mi chiudeva dietro le sbarre”.
Stava scherzando, vero?
Quando Stiles non voleva sottoporsi alle visite mediche, farsi trafiggere dagli aghi o fare da giullare per quelli del governo interessati a lui, Noah Stilinski lo rinchiudeva in una gabbia come un animale da circo.
“Smettila di provare pietà per me” mi rimproverò annusandomi e ritrovando un po’ di lucidità. “Dove sono gli altri? Prima ho sentito odore di sangue”.
“Sono spariti e credo che il sangue fosse di Theo” risposi nell’esatto momento in cui le porte dell’ascensore si aprirono e ci ritrovammo di fronte una stanza illuminata da una potente luce bianca. Chiusi gli occhi per far abituare le pupille sensibili e quando li riaprii fu impossibile non notar l’enorme gabbia con spesse sbarre di metallo al centro della stanza.
“Non posso chiuderti lì dentro” decretai. Ero furioso con lui per quello che avevo visto ma non potevo trattarlo come una bestia. Lo avevo già incatenato una volta ad un muro e mi sentivo ancora uno schifo.
“Presto perderò il controllo e tu devi trovare Scott e gli altri. Non hai scelta” disse liberandosi dalla mia presa e camminando verso la parete con appesa la chiave per aprire la gabbia.
“Okay” mi arresi. Aveva ragione. Gli altri erano scomparsi e Theo era pure ferito. Dovevo trovarli. Riuscivo a sentire il loro odore, era mischiato alla paura. Era avvenuta una lotta nel laboratorio e qualcuno li aveva portati via. Non ci avrebbero mai lasciato lì dentro da soli.
Stiles entrò nella gabbia e chiuse la porta. Si aggrappò alle sbarre e mi fissò con gli occhi perennemente gialli. “Chiudila” ordinò con un ringhio soffocato.
Girai la chiave nella toppa e la lanciai dove lui non avrebbe potuto prenderla.
“Non ho ancora capito perché hai fatto quello che hai fatto” sussurrai.
Lui poggiò la fronte su una sbarra e mi guardò colpevole.
“Nemmeno ora che l’ho visto con i miei occhi ho compreso” confessai ripensando a lui che balzava davanti all’auto facendola cappottare.
“Perdonami” disse solamente.
“Ci vorrà del tempo” risposi.
Fu in quel momento che lo sentimmo. Vidi persino le orecchie appuntite di Stiles vibrare a quel suono penetrante che ci perforò i timpani.
Stiles spalancò gli occhi che brillarono ad intermittenza, come per segnalare un pericolo. “È impossibile” sussurrò.
Mi guardai attorno spaesato per cercare da dove provenisse quel rumore: qualcuno aveva appena ululato.

 

 

Era un ululato vero, come quello che avevo sentito nel ricordo di Stiles. Ma lui era qui davanti a me e aveva l’aria smarrita e preoccupata.
“Ce n’è un altro” comprese.
Un altro licantropo di cui non eravamo a conoscenza e che aveva deciso di palesarsi proprio durante la luna piena, quando sarebbe stato più forte e Stiles invece sarebbe stato sopraffatto dalla rabbia e dall’istinto omicida.
In tutti quei mesi non avevo mai pensato alla possibilità che potessero essercene degli altri. Liam ci aveva fatto venire dei dubbi ma speravo che non fosse così, che stessero ancora sperimentando. D'altronde, prima di me non era mai avvenuta una mutazione perfetta. Solo Stiles era riuscito a sopravvivere ma la licantropia aveva causato problemi: attacchi di panico, nessuna resistenza all’elettricità e, ovviamente, sensibilità alla luna piena.
Non poteva essercene stato un latro prima di noi. Lo avremmo saputo, lo avremmo percepito o annusato: come aveva fatto a nascondersi per tutto quel tempo?
“Derek, devi andare” esclamò spaventato e sempre più confuso.
“Come posso affrontare un licantropo?” chiesi arrabbiato.
“Hai affrontato me!” replicò ricordandomi della nostra prima lotta, quando l’avevo rincorso per strada dopo che aveva rapinato un’erboristeria e quando avevo cercato di ricattarlo con il pupazzo koala che aveva smarito dopo l’attacco nella casa nel bosco.
“Non mi pare di averti battuto” dissi.
Stiles roteò gli occhi gialli ma un angolo delle labbra si sollevò nell’accenno di un sorriso, poi si piegò su se stesso come se una fitta lo avesse trapassato.
“La luna sta sorgendo” mormorò con la voce rotta dal dolore. Afferrò le sbarre e tentò di piegarle con la forza.
“Stiles, no!” esclamai poggiando le mie mani sulle sue.
Sollevò le labbra per mostrarmi i canini e ringhiò. La bava colò dalla sua bocca e mi guardò con vergogna in un ultimo sprazzo di lucidità. Poi tentò di azzannare la mia mano.
Mi allontanai dalla gabbia quando fece passare un braccio tra le sbarre per afferrarmi. Gli artigli erano scuri e affilati.
Non volevo lasciarlo solo. Dovevo stargli vicino in un momento così difficile. Nonostante la rabbia per quello che aveva fatto era sempre lo Stiles che avevo imparato ad amare e non meritava di affrontare la luna piena senza nessuno accanto.
Un altro ululato, stavolta più aggressivo, arrivò alle mie orecchie. Stiles ringhiò d’istinto, come per competere con quello sconosciuto.
“Perdonami, Stiles. Tornerò presto” promisi incamminandomi all’indietro verso l’ascensore e avviandomi verso la tanto agognata verità. Verso la fine.

 

Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15

Cominciai a trasformarmi già in ascensore e quando ritornò al piano terra ero pronto: un licantropo arrabbiato e molto pericoloso. Riuscivo ancora a sentire Stiles che ringhiava e speravo che non riuscisse a rompere le sbarre della gabbia e fuggire. Non ne ero molto convinto: più i minuti passavano, più la luna gli dava potere.
Mi catapultai fuori dalla porta scorrevole senza neppure aspettare che si spalancasse del tutto. Mi feci guidare dall’udito e dall’istinto, dato che il mio naso non captava nessun odore diverso dal solito. Riconobbi solo quello dei miei amici (ormai potevo definirli così, credo): Scott, Liam e Lydia, di Theo nessuna traccia e cominciai a preoccuparmi: forse la ferita era più grave di quello che pensavo.
Le mie orecchie appuntite vibrarono al suono di alcune voci: era Scott. Stava dicendo di smettere di toccarlo, che lavorava in quel posto da quasi tre anni e aveva dei diritti. Mi incamminai verso di lui, attraversando l’ampio atrio di fretta e spingendo con fin troppa forza la porta a vetri (i quali tremarono violentemente) per uscire all’esterno.
I raggi lunari mi colpirono e assaporai il potere che mi infusero. Vidi il blu dei miei occhi aumentare d’intensità attraverso il riflesso di una pozzanghera. Inspirai profondamente, tentando di inalare quella forza, ma l’ennesimo ululato mi distrasse. Era lì, proprio dietro l’angolo. Percepivo la sua presenza. Cominciai a correre verso il retro dell’enorme edificio e mi fermai solo quando lo raggiunsi.
Christopher Argent stava minacciando i miei amici puntando alla gola di Liam i suoi lunghi artigli.
Come avevo fatto a non accorgermene?, pensai sentendo la rabbia impadronirsi di me e cominciare a crescere.
“Finalmente sei qui” disse senza nemmeno voltarsi. La sua voce era diversa: più profonda e lugubre.
Sentii gli occhi pizzicare. Quell’uomo non aveva fatto altro che deludermi e manipolarmi. Era arrivato quando, dopo l’incidente, ero sdraiato in un letto d’ospedale con una gamba rotta e una commozione cerebrale. Si era approfittato della mia debolezza dovuta al lutto e mi aveva persuaso a diventare un licantropo promettendomi una vendetta che non era mai avvenuta; aveva cercato di farmi odiare Stiles e, per un po’, c’era anche riuscito. Era stato la mia guida, mi ero affidato a lui e nei ricordi di Stiles avevo compreso che voleva mia madre morta.
Mi sfuggiva il senso di tutto quello: perché orchestrare questa messa in scena?
Negli occhi dei miei amici, e grazie ai segnali chimici che emanavano, riuscivo a scorgere tre sensazioni predominanti: negli occhi di Scott c’era disgusto, in quelli di Lydia paura e Liam esalava preoccupazione. Non sapevo se per gli artigli puntati alla sua gola o se perché Theo era scomparso. Forse entrambe, forse nessuna delle due.
“Chris” chiamai per farlo voltare. Volevo che mi guardasse dritto negli occhi. Non poteva più evitare di dirmi la verità. Basta bugie, il loro tempo era finito.
Argent si mosse veloce ma non tanto quanto mi aspettassi. Si girò a guardarmi e li vidi: due occhi rosso rubino che baluginavano dalla rabbia e dalla frustrazione.
Non era possibile. Chi aveva gli occhi rossi non sopravviveva. Era il primo segno del fallimento della mutazione.
Scossi la testa, troppo sbigottito per parlare e cercai di nuovo di sentire il suo odore da lupo o di scannerizzare la temperatura corporea che sarebbe dovuta essere più elevata rispetto a quella di un uomo comune. Non percepivo niente. Il battito del cuore non era potente come il mio o quello di Stiles, era normalissimo, solo leggermente più veloce per via dell’adrenalina causata dalla situazione in cui ci trovavamo.
“Sorpreso?” mi domandò il dottore afferrando il collo di Liam e parandosi dietro di lui, facendosi scudo col suo corpo.
“Ha perfettamente senso” borbottò Lydia, che si trovava leggermente in disparte al fianco di Scott. Il livido violaceo spiccava notevolmente sulla sua pelle pallida dalla paura. “Mi hai colpito perché sentivi la luna” disse lei.
Argent soffocò un ringhio. Anche lui quindi sentiva l’influenza della luna piena.
“Perché?” domandai semplicemente. Meritavo una spiegazione.
“Perché è ora che mi riprenda ciò che è mio” sibilò all’orecchio di Liam che chiuse gli occhi estremamente lucidi.
Sollevai il labbro superiore per mostrargli i denti appuntiti e mi accorsi che lui non li aveva. Era un licantropo non completamente formato, neppure le orecchie gli si erano allungate. Era difettoso e non come Stiles, il quale aveva problemi legati solo alle emozioni troppo forti.
“Sei un fallimento” compresi. Aveva gli artigli e gli occhi brillanti, ma niente di più. Per questo non lo avevo mai capito.
“Sono il primo sopravvissuto agli esperimenti di Noah Stilinski. Sono LUPO-00” disse arrabbiato. “Io gli ho insegnato tutto: come perfezionare la mutazione, quali farmaci eliminare, le dosi da utilizzare… Tutto” disse sollevando la testa per guadare la luna. La fissò con astio per pochi secondi, poi riprese a guardare me.
“Io ho detto a Noah che servivano soggetti in salute per avere successo, ma a lui non importava” sputò con rabbia. “Voleva a tutti i costi salvare la moglie e quando poi il figlio si ammalò ormai era sull’orlo di un esaurimento nervoso” disse allentando un po’ la presa sul collo di Liam, il quale riprese a respirare senza fatica.
“Quindi tu eri malato” supposi.
“Soffrivo di crisi epilettiche” rispose con una scrollata di spalle. “La licantropia mi ha guarito”.
“Perché volevi me?” chiesi tentando di distrarlo il più a lungo possibile, avvicinandomi di qualche passo.
“Sapevo quanto saresti diventato forte. Un potenziale del genere non avrei permesso che andasse sprecato”.
Annuii, ma non compresi. Cosa se ne sarebbe fatto della mia forza?
“Convinsi Noah che era solo una questione di soldi, che nessuno avrebbe sospettato nulla se la tua famiglia avesse avuto un incidente…”.
Strinsi i pugni talmente forte che il sangue cominciò a colarmi dalle mani. Udii Scott esalare un sospiro di sorpresa e Lydia trattenere un singhiozzo ma non mi voltai a guardarli.
“Si era quasi convinto ma quell’impiccione di Stiles ha scoperto tutto e ha obbligato Talia ad andarsene” disse con disprezzo. “Avrei dovuto saperlo che mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote. Era così preso da te. Si era infatuato a causa di quello che gli raccontava tua madre” ricordò Argent. “Patetico” sibilò con disgusto.
Stiles non aveva nessuno. Era cresciuto in un laboratorio e, dopo la prematura scomparsa di sua madre quando aveva appena otto anni, non c’era stato più nessuno a volergli bene. Era un bambino alla disperata ricerca di affetto e l’unica ad averlo trattato come un figlio e gli aveva voluto bene, senza avere alcun secondo fine, era stata mia madre.
“Si è innamorato di te senza neppure averti mai visto. Sentiva il tuo odore addosso a Talia e ne è rimasto soggiogato: come un incantesimo” spiegò confuso. “Eri già potente prima ancora di trasformarti in licantropo” disse con ammirazione.
Sbuffai una risata ironica e per niente allegra. “È una cosa da lupo” lo contraddissi. “Quando scelgono un compagno sono legati ad esso per tutta la vita” dissi quello che mi aveva spiegato Stiles tempo addietro. “Non ero potente…” dissi sputando quella parola con sprezzo.
Chris sorrise con malignità e sollevò un sopracciglio. Liam, approfittando di quel momento di distrazione, cercò di liberarsi dalla presa del lupo ma quello non si fece cogliere impreparato: gli diede una gomitata sulla tempia, lo prese per la gola e lo guardò dritto negli occhi. Liam gli sputò in faccia e mi avvalsi di questa disattenzione per balzare dietro il licantropo e affrontarlo.
Argent lasciò andare Liam spingendolo e facendolo ruzzolare a terra. Si girò di scatto per parare il mio pugno. Barcollò e continuò a ripararsi dai miei ripetuti attacchi. Scott avanzò per aiutare Liam a rialzarsi e lo trascinò lontano.
Lo graffiai più volte sulle braccia e sul volto con gli artigli. Squarciai la sua maglietta facendolo sanguinare copiosamente dal petto. Lui cercava di difendersi come meglio poteva e non contrattaccava. Aveva ragione: ero troppo forte.
I suoi occhi rossi brillavano, pieni di energia e astuzia.
Crollò su un ginocchio e si riparò la testa con le braccia. Iniziai a prenderlo a calci sui fianchi, ringhiando di frustrazione a ogni colpo che sferravo. Cadde per terra a causa della troppa forza che ci stavo mettendo. Volevo fargli male. Meritava tutto il dolore che stava provando. Aveva ucciso la mia famiglia e finalmente potevo avere la vendetta che mi promise mesi prima.
Lo udii ridere, nonostante tutto il sangue che stava perdendo.
“Lo trovi divertente?” domandai infuriato scagliando un altro calcio.
“Prova a sentire” rispose enigmatico.
Mi fermai per osservarlo mentre se ne stava pateticamente sdraiato sull’asfalto, come un cane rabbioso messo ormai al tappeto. Guardai Scott che teneva una mano sulla spalla di Lydia, la quale era chinata sul pavimento a tranquillizzare Liam. Ascoltai il loro cuore e annusai il loro odore, ma non era mutato nulla in loro tre.
Argent cercò di alzarsi ma appoggiai il piede sul suo petto e lo obbligai a starsene giù. “Cuccia” ordinai mostrandogli i canini affilati.
Le mie orecchie sensibili scattarono e il naso si arricciò quando sentii lui: Stiles stava uscendo dall’ascensore che scampanellò simpaticamente per segnalare l’arrivo al piano terra.
Non era solo: con lui c’erano altre persone. Percepivo la loro presenza. Annusai il suo odore, o meglio, il suo tanfo di cane bagnato che aveva quando ci eravamo conosciuti. Era disperato e provava dolore. Perché doveva sempre provare dolore?
Sentii lui e quegli uomini uscire dall’edificio e incamminarsi verso di noi. il rumore delle loro scarpe si moltiplicò e divenne fastidioso e assordante.
Cosa ci faceva lì Stiles? Era chiuso nella gabbia perché non riusciva più a controllarsi, come aveva fatto ad uscire?
Lo vidi sbucare da dietro l’angolo. Era umano. La luna piena non stava avendo alcun effetto su di lui. Sudava copiosamente e aveva il viso contratto in una smorfia addolorata. Al collo aveva un collare nero e spesso. Dietro di lui marciavano i soldati di Argent, forse gli stessi che ci avevano attaccato nella casa nel bosco appartenuta a Scott.
Sentii il crepitio di una scossa e notai Stiles irrigidirsi e resistere a fatica dallo stramazzare al suolo. Era un collare elettrificato che aveva la capacità di impedire a Stiles di trasformarsi e guarire. In quel momento era un essere umano qualsiasi ed era vulnerabile. Gli uomini che lo circondavano possedevano pistole spara dardi e manganelli elettrici e tenevano Stiles sotto tiro.
“No!” urlò Scott cercando di avvicinarsi al giovane lupo e venendo subito bloccato da due soldati in nero che gli puntarono contro una mitraglietta.
“Stiles” lo chiamarono Liam e Lydia quasi contemporaneamente. Il primo si rialzò in piedi, sostenuto dalla donna, e li fissò con sguardo di sfida.
Apprezzai il loro coraggio ma la loro presenza era del tutto inutile. Argent non si sarebbe fatto scrupoli ad ucciderli, come non se li era fatti in tutti quegli anni alla Stilinski Corporation quando aiutava Noah a sacrificare persone innocenti solo per puro egoismo.
Chris si rialzò e lo guardai inerme. Stiles aveva una colt puntata alla tempia, le mani legate ed era continuamente sconquassato da scariche elettriche che gli impedivano di trasformarsi.
“Cosa vuoi fare ora che siamo qui entrambi?” chiesi afferrando Argent per un braccio per impedirgli di avvicinarsi al mio compagno. Un brivido mi attraversò quando, per sbaglio, risucchiai un po’ del suo dolore. Chris mi guardo sorpreso a quella sensazione e si divincolò.
“Non voglio fargli del male. Voglio prendermi ciò che mi appartiene” rispose zoppicando verso i suoi soldati. Quattro di loro avanzarono e, senza nemmeno scambiarsi un cenno, spararono.
“NO!” sbraitò Stiles subito zittito da una manganellata.
Restai immobile, aspettando che le loro armi si scaricassero per avere il tempo di guarire e contrattaccare. Mi riparai il volto con le mani e ascoltai Chris avvicinarsi a Stiles.
“Ti sono mancato?” domandò ironico.
“Lascialo andare. Prendi me” tentò di convincerlo.
“Devo prendere te. Solo in questo modo potrò prendere anche lui” vaneggiò.
Gli uomini mi scaricarono addosso le loro armi. Avevano fatto l’errore di colpirmi tutti insieme e, nel poco tempo che ci misero a caricare, mi ero già ripreso anche grazie alla luna piena che amplificava le mie abilità.
Li attaccai senza pensare, disarmandoli con facilità e rompendo qualche osso. Urlarono di dolore. Atterrai l’ultimo facendolo volare tre metri più indietro con una spinta.
Vidi Argent far scattare gli artigli e Stiles tentare di trasformarsi, ma solo i suoi occhi mutarono e divennero dorati.
“Dammi il tuo potere” ringhiò Argent conficcando gli artigli nello stomaco di Stiles.
Mi paralizzai, non comprendendo quello che stava avvenendo, e in più avevo paura che se avessi provato ad allontanare Chris, Stiles si sarebbe fatto male.
Un altro colpo di pistola mi trapassò una rotula e mi fece inginocchiare e, impotente, percepii l’energia di Stiles venire meno. Lo vidi roteare gli occhi gialli, dai quali scendevano grosse e lucenti lacrime. Il viso divenne pallido ed emaciato e delle enormi occhiaie comparvero sotto i suoi occhi.
Argent ritirò gli artigli pieni di sangue e Stiles crollò in ginocchio. Era umano. I suoi poteri da licantropo erano appena stati rubati.
Si accasciò al suolo, privo di sensi, mentre Argent, inebriato dalla nuova forza ottenuta, rideva sguaiatamente.
Mi avvicinai di corsa, spingendolo via per avvicinarmi a Stiles. “Ehi, ehi” sussurrai delicatamente.
Aprì gli occhi, erano ancora gialli, ma non riuscì a muoversi. Spezzai le manette che legavano i suoi polsi, notando che aveva ancora gli artigli e gli levai il collare elettrificato che aveva arrossato la pelle pallida. I soldati indietreggiarono.
“Derek” mi chiamò Lydia. “Il morbo di Batten” mi ricordò.
Stiles era tornato umano ed era tornata anche la sua malattia. Stava per morire.
“Stiles, ascoltami. Non ti serve tutto quel potere. Puoi trasformarti comunque. C’è la luna piena e tu sei un lupo mannaro” dissi senza senso. Non sapevo come funzionasse. Non sapevo neppure che eravamo capaci di sottrarre la forza ad un altro lupo.
Udii Chris avvicinarsi. Percepii l’energia di Stiles al suo interno. Lo sentii sguainare gli artigli per farmi la stessa cosa che aveva fatto a Stiles: voleva privare anche me della licantropia. Non osavo immaginare come sarebbe diventato se fosse successo. con la mia forza e la capacità di guarigione di Stiles sarebbe stato invincibile. Non potevo permetterlo.
Afferrai la mano del mio compagno, la portai alle labbra e la baciai. Fissai i suoi occhi gialli, con il timore che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui li avrei visti.
Feci un giro su me stesso di centoottanta gradi e afferrai Argent per il polso. Aveva tentato di infilare gli artigli nella mia carne per rubare la mia licantropia. Lui mi aveva tramutato in un lupo mannaro solo perché catturassi Stiles e lo portassi da lui. Quello era il suo piano fin dall’inizio ed io, come uno stupido, non avevo mai sospettato di nulla.
“Ridagli i suoi poteri” esclamai adirato spezzandogli le ossa del polso e sentendole guarire. I suoi occhi erano ancora rossi e ne fui sollevato: non avrei sopportato vedere gli occhi gialli di Stiles su un volto che non fosse il suo.
“Non si possono restituire, solo rubare” rispose con voce gutturale. I suoi canini erano cresciuti, così come le orecchie appuntite e pelose.
“Lo stai uccidendo” urlai disperato colpendolo più volte ai fianchi. Tirandogli pugni e ginocchiate che avrebbero rotto le costole di un uomo comune. Lui gemeva di dolore ma guariva rapidamente e incassava senza contrattaccare.
Era come se stesse studiando fino a che punto poteva spingersi oltre. Quanto avrebbe potuto sopportare prima di cedere e quanto fosse alta la soglia del dolore. Si stava godendo il suo nuovo status da licantropo evoluto.
Al mio ennesimo affondo, Argent mi bloccò. Sollevò le braccia davanti al volto per parare il colpo e mi fissò sorridendo divertito. “Sarebbe dovuto morire nove anni fa” disse malignamente. “Ha vissuto fin troppo”.
Scagliò un fendente e mi graffiò il volto. Il sangue zampillò dalla guancia ferita.
“Se non fosse stato per me non avrebbe vissuto così a lungo” esclamò balzando di qualche metro per atterrare dietro di me e attaccarmi alle spalle.
Non feci in tempo a girarmi che mi afferrò entrambe le braccia e affondò i denti in una spalla. Ringhiai dal dolore e lo presi per il collo con una mano. Gli feci fare una capriola in aria e lo sbattei per terra davanti a me. Sdraiato sulla schiena, mi prese le caviglie e mi fece cadere.
Vidi di sfuggita Scott avvicinarsi a Stiles. I soldati non glielo impedirono, ormai non era più una minaccia.
Ruzzolai al suolo e rotolai verso Chris. Mi arrampicai su di lui e mi misi a cavalcioni sul suo corpo. Chiusi le mani a pugno e iniziai a colpirlo ripetutamente, gli ruppi il naso, gli zigomi e la mascella, ma guarirono in pochi secondi per cui continuai ringhiando e ruggendo di frustrazione.
Argent infilzò gli artigli nel mio fianco sinistro. “Io ho detto a Noah come salvare Stiles. Senza di me quell’uomo non avrebbe curato neanche un raffreddore”.
Le unghie entrarono in profondità nella mia carne. Stava tentando di sottrarmi il potere. I soldati si avvicinarono, li scrutai con gli occhi azzurri e brillanti, sperando che desistettero. Uno di loro mi pungolò con il bastone elettrificato e fece partire una scarica nella speranza di farmi tornare umano. Non funzionò.
“Di nuovo, idiota!” urlò Argent sotto di me.
Mi spararono i dardi elettrici ma sentii solo il solletico. Non mi ero mai sentito così felice di essere stato torturato da Lydia durante gli addestramenti. Forse lei aveva previsto che per me sarebbe finita male e, in questo modo, mi aveva dato una chance.
“Sono immune all’elettricità, stronzo” ringhiai strappando i suoi artigli da dentro il mio corpo. Mi rialzai in piedi e gli feci un cenno con la mano, piegando tutte le dita, di venirmi a prendere. “Finiamola una volta per tutte” dissi deciso. Ruggii ai soldati in nero che si allontanarono intimoriti.
Argent, già guarito, si rimise in piedi con un balzo e si succhiò via il sangue dalle dita. I suoi occhi rossi brillavano come rubini nel buio della notte illuminata solo dai lampioni e dalla luna piena.
Combattemmo per minuti infiniti e nessuno dei due riusciva ad avere la meglio sull’altro. Lui guariva velocemente, ma io ero più forte.
Sentivo l’energia di Stiles scorrere dentro di lui, la percepivo così come percepivo il vento ghiacciare il sudore sulla mia pelle. Volevo, anzi dovevo, restituirgliela.
Più volte cercai di trascinare Argent da Stiles. Aveva ancora fuori gli artigli e forse avrebbe potuto riprendersi il suo potere altrimenti, se fosse stato troppo tardi, gli avrei dato il mio. Ma c’era ancora tempo, Stiles stava resistendo con tutte le forze che gli erano rimaste.
“Non meriti questo dono. Ridaglielo!”
Argent rise ancora della mia stupidità.
“Ti prego. Sta morendo” tentai la strategia della supplica. “Non provi neppure un po’ di pietà?”.
“Certo che la provo. Gli risparmierei questa sofferenza” rispose. “Posso ucciderlo subito, se vuoi” aggiunse crudele.
Respirai affannosamente. “Sai quello che hai fatto a questo ragazzo, vero?” chiesi cercando di prendere un po’ di tempo per guarire. “La tua sete di potere lo ha reso un assassino”.
Chris aggrottò le sopracciglia. “Dopo tutto questo tempo ancora non l’ha capito?” domandò quasi tra sé e sé. “Io ho ucciso Noah Stilinski” confessò ad alta voce cosicché anche Stiles, che non aveva più l’udito super sviluppato, potesse sentirlo. “L’ho colpito nello stesso punto in cui Stiles lo aveva graffiato e l’autopsia ha riscontrato che era stato un animale ad ucciderlo e nessuno sapeva della mia natura. Così ho fatto ricadere la colpa sul ragazzino e l’ho ingannato modificando il battito del cuore e l’odore, per far sì che anche lui mi credesse” spiegò senza alcun rimorso. “E mi ha creduto. Era talmente sconvolto che non ha pensato di indagare lui stesso”.
La verità tanto agognata era finalmente venuta a galla.
Lo guardai con disprezzo e sentii Stiles singhiozzare di sollievo. Percepii un po’ di senso di colpa evaporare dal suo corpo. Era ancora con noi, era partecipe e stava ascoltando la confessione di Chris Argent.
“Calmo, Stiles. Sta’ tranquillo” lo consolò Scott asciugandogli il sudore dalla fronte.
“Era solo un ragazzino e ha lasciato che quella notte lo segnasse a vita. La luna piena poi ha fatto il resto e ha reso il lupo ingestibile” mormorò con disinteresse. “Stiles non ha mai ucciso nessuno, non avrebbe il fegato di farlo”.
“Gli hai fatto credere di essere un assassino!” gridò Lydia oltraggiata.
“Se lui non ha mai ucciso nessuno… chi ha ammazzato la mia famiglia?” chiesi anche se dentro di me sapevo già la risposta. La sapevo fin dall’inizio.
Argent sbuffò una risata dal naso. “Sapevo che se gli avessi fatto credere di aver messo qualcuno sulle tracce di Talia, lui avrebbe voluto raggiungerla per proteggerla. A me è bastato solo aspettare che fosse vicino a lei e utilizzare l’AconiRAL per controllare i suoi movimenti” rivelò e sorrise orgoglioso del suo operato.
“Hai manipolato i suoi movimenti per far sì che facesse schiantare la macchina?” domandai ricordandomi di quando aveva utilizzato l’AconiRAL per paralizzarmi durante uno scontro diretto con Stiles, prima che fuggissimo insieme.
“Lui non l’ha mai sospettato e ha creduto di aver perduto il controllo durante il plenilunio”.
“Hai idea di quello che ha vissuto?” chiese Liam senza veramente aspettarsi una risposta.
“Non avevo intenzione di uccidere anche le tue sorelle, tua madre era l’obbiettivo” aggiunse. “Scusami” mi schernì senza provare il minimo rimorso.
Ringhiai scoprendo le zanne e preparandomi per un altro attacco ma mi bloccai: Stiles cominciò a far fatica a respirare. Il suo odore divenne più acre, gli artigli si ritirarono e gli occhi tornarono a loro colore naturale. Era il momento: doveva prendersi il mio potere. Corsi verso di lui ma Argent mi saltò letteralmente addosso.
“Non ti permetterò di salvarlo” esclamò.
“Devo farlo” mi divincolai mentre i sensi di colpa mi sopraffecero. Avevo sempre creduto che fosse un assassino, la causa di ogni male. Era solo un’altra vittima del gioco malato di Christopher Argent.
I soldati mi spararono addosso e mi rallentarono notevolmente. Udivo le grida di Liam e Lydia, sentivo Scott praticare a Stiles la respirazione artificiale e il massaggio cardiaco.
Avevo isolato il cuore di Stiles. Non era forte e vigoroso come quando lo avevo conosciuto. Era debole e lento. Troppo lento.
Mi inginocchiai al suo fianco, grondante di sangue e sudore, presi la sua mano e cercai di infilare i suoi artigli dentro di me. “Ti prego, tirali fuori” supplicai agitandogli la mano mentre Scott tentava di rianimarlo. “Prendi il mio potere” lo incoraggiai con la voce rotta.
Il morbo di Batten lo stava portando via. La malattia, scomparsa grazie alla licantropia, era di nuovo la causa della sua morte.
Argent mi afferrò per la maglietta sporca di sangue e mi scaraventò a terra. Cercai di rialzarmi ma lui si chinò su un ginocchio, dietro di me, e affondò le granfie tra le mie scapole. Spalancai le labbra senza emettere alcun suono.
Liam corse verso di me ma venne atterrato da un uomo in nero. Lydia chiamò aiuto con quanto più fiato avesse in gola e Scott non smetteva di insufflare aria nei suoi polmoni.
Sentii che era sereno. Aveva scoperto di avere ancora un’anima candida e di non aver ucciso né il padre né Talia, l’unica persona a cui voleva bene. Poteva bastare? Era una morte degna per Stiles o avrebbe voluto di più?
E io, cosa avrei potuto fare?
Un lupo è fedele per natura. Ha un solo compagno e quando lo sceglie rimane legato ad esso per tutta la vita. Ma cosa succedeva se il compagno moriva? Avrebbe vissuto il resto della sua esistenza in solitudine e sentendo la sua mancanza giorno per giorno e ogni minuto di vita senza di lui sarebbe stato più agonizzante del precedente
La mia agonia era appena iniziata: Stiles era morto.

 

Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori
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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


So che molto probabilmente mi avrete odiato nello scorso capitolo. Spero di farmi perdonare con questo e vi prego di leggere le NdA alla fine.



CAPITOLO 16

Stavo urlando.
Gridavo così forte che presto mi ritrovai senza fiato e con la gola riarsa.
Lydia e Liam continuarono a correre verso di me. Ero inginocchiato sull’asfalto umido e avevo gli artigli di Chris Argent conficcati tra le scapole: stava provando a risucchiare il mio potere proprio come aveva fatto con Stiles.
Liam scansò i soldati e ci raggiunse per primo, afferrò Argent per un braccio e tentò di allontanarlo da me. Arrivò anche Lydia, lo prese per l’altro braccio e tirò con quanta più forza avesse per far uscire le sue granfie da dentro di me. I soldati si avvicinarono e li trascinarono via senza gentilezza, li spinsero a terra ma loro non si diedero per vinti: si rialzarono e li affrontarono a mani nude senza riuscire nemmeno a scalfire la tuta antisommossa.
Vidi Scott, ma ancora di più lo percepii. Sentivo l’odore salato delle sue lacrime che avevano pulito la polvere dalle sue guance. Lo guardai chinarsi sul volto di Stiles, tappargli il naso con le dita e poggiare la bocca aperta sulla sua per insufflargli aria nei polmoni. Lo vidi sollevare un pugno in aria e batterglielo sul petto con forza per far ripartire il suo cuore da licantropo, dato che il semplice massaggio cardiaco non era più sufficiente.
Volevo dirgli di smetterla, di lasciare stare il suo corpo ora così fragile. Non sopportavo di vederlo così.
Gemetti di dolore piegandomi in avanti e poggiando anche le mani a terra, proprio dentro una pozzanghera. Mi trovavo a quattro zampe, apparivo miserabile e mi sentivo allo stesso modo senza di lui. Lo avevo perduto. Il suo cuore non batteva più da una manciata di secondi. Era finita. Non trovavo più niente per combattere: il lupo aveva appena perso il suo compagno e stava scalpitando per reclamare la sua vendetta. Ma non lo avrei permesso. Volevo fare in modo che Argent mi togliesse il potere per non essere più un licantropo. Volevo tornare come prima e affrontare il lutto come un semplice essere umano. Non volevo provare quel senso di perdita come se il mondo avesse smesso di girare, come se adesso fosse solo la gravità a tenermi incorato a terra mentre prima era lui.
Se mi concentravo riuscivo ancora a sentire il sapore delle sue labbra sulle mie. Non avrei più potuto baciarlo, né sentirlo ridere. Non avrebbe mai scoperto la libertà, né avrebbe mai avuto dei veri amici. Era morto solo, mentre tutto il mondo lo considerava un assassino.
Liam e Lydia stavano ancora lottando con i soldati quando d’un tratto udii uno sparo. Argent smise di succhiarmi via il potere e si guardò attorno: uno degli uomini in nero aveva appena sparato un colpo in aria di avvertimento, poi aveva puntato l’arma contro Liam. Mi ritrovai a pensare a Theo, scomparso nel nulla e ferito per di più, se avesse visto una scena del genere sarebbe accorso a salvarlo. In quel momento avrebbe fatto comodo la sua rabbia.
“Lo senti, vero?” mi domandò Argent. “È l’odore della sconfitta” proseguì appoggiando il petto alla mia schiena e circondandomi la gola con l’avanbraccio.
“Ho vinto io” disse stringendo la presa e affondando gli artigli più in profondità.
“Cos’avresti vinto?” volli sapere.
“Quando avrò finito con te, sarò un dio”.
Sentii Scott smettere di piangere ed emanare un debole verso di sorpresa.
“Non stai neppure reagendo, me la stai rendendo fin troppo facile” continuò quasi lamentandosi.
Scott, improvvisamente, scaturì uno dei sentimenti più puri e positivi che avessi mai avuto il piacere di annusare e non ne compresi il motivo.
“La sua morte ti sta annientando, riesco a percepirlo. Tra un po’ potrai fargli compagnia e –“ si interruppe e sentii il suo sconvolgimento. “No. Non ci posso credere” disse sbalordito.
Mossi la testa per cercare di vedere ma la posizione era scomoda e avevo la guancia di Argent quasi premuta contro la mia.
“Credici, figlio di puttana”.
Era la voce di Stiles. Era la sua. Era tremante e debole ma era la sua fottutissima voce. Avrei potuto riconoscerla anche in un’arena affolata, pieno di gente che cantava.
Chris si stava per staccare da me. Voleva andare da Stiles per completare il lavoro. Lo afferrai per il braccio che teneva premuto contro il mio collo e cercai di impedirgli di muoversi.
“Ridammi il mio potere!” urlò Stiles arrancando.
Argent strappò via gli artigli dal mio corpo e mi diede un pugno sulla ferita aperta e sanguinante. Si liberò dalla mia presa e si rimise in posizione eretta.
Avevo bisogno di vederlo. Dovevo sapere che stava bene. Mi sollevai con il busto, restando con le ginocchia piantate nel terreno, e mi voltai per guardarlo. Era davvero lui. Ma com’era possibile? Lo avevo sentito morire.
Stiles mi lanciò una veloce occhiata piena di preoccupazione. Ero zuppo di sangue. Non riuscivo nemmeno più a distinguere il colore della mia maglietta. Sentivo la ferita sulla schiena richiudersi con esasperante lentezza: Argent era riuscito a sottrarmi un po’ delle mie abilità.
“Come hai fatto?” domandò Chris non sentendosi minimamente minacciato.
“Non sei il solo a saper mascherare il proprio odore e a confondere il battito del cuore con i rumori che ci circondano” rispose. “Sono ancora un licantropo” esclamò facendo scattare gli artigli.
I suoi occhi brillarono di giallo ma non accadde nient’altro: niente canini, niente orecchie appuntite, nessuna capacità di guarigione. Era difettoso, come Argent prima che gli rubasse i poteri. Aveva solo gli artigli come unica arma di difesa e di attacco.
Dovevo aiutarlo.
Mi alzai in piedi e mi massaggiai le spalle doloranti. Argent mi guardò di sbieco, pronto a difendersi nel caso avessi avuto intenzione di attaccarlo.
“Può finire in un altro modo” dissi invece piazzandomi in mezzo a lui e al mio compagno. "Puoi lasciare che si riprenda il suo potere e noi ti lasceremo andare” tentai.
Argent sollevò le labbra in un ghigno, scoprendo le zanne più del necessario, e mi fissò con i suoi inquietanti occhi rossi.
“Oppure potete andarvene voi e lasciare a me il potere” ribatté. “Oppure, ancora meglio, posso attaccarvi. Non sarai in grado di proteggere tutti quanti” minacciò. “Che ne dici? Un ordine ai miei uomini e la testa di Liam salta per aria” disse sollevando la mano.
Liam si irrigidì e chiuse gli occhi lucidi mentre il soldato toglieva la sicura alla colt e gli premeva la gelida canna sulla tempia.
“Derek, ho paura” sussurrò con le guance rigate dalle lacrime.
“Avete già perso uno di voi” aggiunse Chris.
“Perso?” domandò Scott ancora accasciato in terra e tenuto sotto tiro a distanza.
“Eravate in sei quando siete arrivati. Ora siete cinque”.
“Theo” mormorò Liam con la voce rotta dal pianto.
“Ssh” lo zittì Lydia. Teneva le mani sollevate e si guardava attorno come se cercasse qualcosa.
“Lasciami prendere il tuo potere e vi lascerò andare” propose il lupo.
Stiles cercò di ringhiare ma non ci riuscì. Mi voltai a guardarlo alla ricerca di un consiglio. Se avessi rinunciato alla mia forza, Argent sarebbe diventato invincibile. Fissai uno per uno i miei compagni e amici: erano terrorizzati ma determinati a non lasciarlo vincere. Ma se Argent avesse abbassato la mano, Liam sarebbe morto.
Stiles mi si affiancò e guardò Chris con rabbia. “Sei un licantropo, quindi significa che hai le nostre stesse debolezze” esclamò infilando una mano in tasca e tirando fuori una fiala di vetro contenente un liquido viola: aconito.
Argent spalancò le labbra, fece un cenno ai soldati e abbassò la mano. Loro fecero lo stesso con le armi.
“Questo era il mio AconiRAL. Scott l’ha sempre tenuto con sé da quando me l’ha rimosso” spiegò. “È quello che hai utilizzato per farmi uccidere Talia” rammentò e la voce gli si spezzò in gola. “Se solo il vetro si incrina, moriamo tutti e tre”.
“Sei disposto a sacrificare Derek pur di non farmi vincere?” lo interrogò cominciando ad emanare preoccupazione.
“E tu, sei disposto a morire per il potere?” chiese Stiles tenendo la fiala con due dita.
Se il vetro si fosse minimamente scalfito le esalazioni dello strozzalupo ci sarebbero entrate nei polmoni e, a quel punto, avremmo avuto novanta secondi di tempo prima di morire avvelenati. Stiles era davvero così disperato da uccidersi e portarmi con sé? Potevo solo immaginare il lupo dentro di lui, anche se debole, come stesse scalpitando all’idea di perdermi. Doveva essere una sensazione insopportabile se era la stessa che avevo provato io quando ci aveva fatto credere di essere morto, una tattica che non era servita a niente dato che eravamo ancora lì senza aver risolto nulla. Aveva solo dimostrato di essere un ottimo bugiardo.
Chris lo guardò con odio. “Va bene” disse avvicinandosi.
Scoprii le zanne, pronto ad attaccarlo.
“Moriamo tutti” decise sollevando una gamba per tirare un calcio in pieno petto a Stiles.
Lo bloccai e gli tenni la gamba sollevata, gli spezzai la rotula con una gomitata. Lui ruggì di dolore ma la gamba guarì quasi subito.
Combattemmo, di nuovo. Lo attaccai ferendolo in più punti ma a lui non importava: voleva arrivare a Stiles per prendere l’AconiRAL.
Mi prese per la gola e mi scagliò in avanti. Caddi ai piedi dei soldati e mi risollevai con uno slancio.
Argent cercò di graffiare Stiles ma lui indietreggiò e cercò di contrattaccare senza successo. Non aveva più né la velocità né la forza e per Chris fu facile bloccare il colpo e tirargli un manrovescio sulla guancia pallida ed emaciata. Lo schiocco della mano sul viso di Stiles mi rimbombò nelle orecchie.
Provò dolore e il lupo dentro di me reagì per difenderlo.
Mi tuffai verso Argent, afferrandolo per la vita. Ruzzolammo in terra ma lo osservai rialzarsi con agilità. Gli presi le caviglie e si divincolò, poi mi pestò la faccia con un piede rompendomi il naso. Altro sangue si aggiunse a tutto quello che avevo già versato. L’osso del setto nasale ci mise un po’ a guarire ma non diedi peso al dolore.
Argent balzò davanti a Stiles, che non fece in tempo ad allontanarsi: vidi che aveva entrambe le mani chiuse in un pugno talmente stretto che temevo che la fiala di vetro si rompesse.
“Pronto a rivedere tuo padre?” chiese Chris afferrando Stiles per la gola.
“No!” gridai d’istinto. Non poteva guarire senza i suoi poteri. Se gli spezzava il collo era finita e io non potevo permettermi di perderlo.
“Stavolta non morirai per finta”.
Stiles sollevò una mano chiusa a pugno.
Voleva rompere la fiala, pensai. Era arrivato il momento.
Scattai verso di loro per impedirgli di farlo. Nessuno sarebbe dovuto morire quella notte.
Stiles aprì la mano e la portò davanti al viso e, mentre Argent infilzava le punte degli artigli nel suo collo, inspirò e soffiò sul palmo.
Mi bloccai. Una polverina nera svolazzò in faccia a Chris Argent. Vidi i suoi occhi rossi lampeggiare ad intermittenza ritornando poi azzurri. Le zanne si ritirarono così come gli artigli.
Stiles si liberò dalla sua presa e, con la mano appena svuotata, trafisse la pancia di Chris Argent.
Lo udii gemere dal dolore. “Che succede?” domandò tentando di ritrasformarsi.
“La liquirizia ci rende più docili” spiegò Stiles senza celare la soddisfazione mentre si riprendeva il suo potere.
Liquirizia in polvere… non potevo crederci. Alla fine quella schifezza era davvero servita a qualcosa. Sorrisi e sentii Liam esultare. Gli uomini in nero non si mossero né per zittirlo, né per aiutare il loro capo. Emanavano rassegnazione e una punta di malsano piacere nel vederlo sottomesso da un ragazzino.
Chris non riusciva più a mutare e io sentivo l’energia di Stiles ritornare nel suo corpo. Vidi i graffi sul suo collo cominciare lentamente a guarire e le guance farsi più rosee.
Mi avvicinai da dietro e infilai con lentezza gli artigli nel suo fianco per riprendermi quel poco che mi aveva rubato. Argent inarcò la schiena e sollevò la testa.
“Ho ucciso tuo padre, Stiles” quasi ringhiò.
Stiles, che tentava in tutti i modi di non incrociare il suo sguardo, lo fissò con sgomento.
“Ho ucciso la donna che amavi come una madre” disse riferendosi a Talia.
“Non ascoltarlo” dissi. “Guardami” ordinai.
Obbedì e notai i suoi occhi giallo incandescente.
“Lo sai cosa accadrà, vero?” chiese lui.
“Sta’ zitto!” esclami ficcando le granfie più a fondo per cercare di non farlo parlare. Sentivo il suo sangue bollente sgorgarmi tra le dita.
“Appena avrai di nuovo i tuoi poteri, la luna piena ti farà perdere il controllo” previde. “Ucciderai qualcuno, Stiles” disse come se non aspettasse altro di vederlo compiere qualche atrocità. “E tu non sei un assassino, vero?”
Le zanne gli crebbero, i peli diventarono più folti e le orecchie incredibilmente lunghe. Chris gemette di dolore quando gli artigli si allungarono dentro la sua pancia.
Lo osservai con timore. Vidi il suo naso rimpicciolirsi e la fronte aggrottarsi. Stava assomigliando sempre di più ad un lupo vero e proprio.
“Lo sto per diventare!” tuonò. La voce era irriconoscibile e mi spaventò.
“Stiles?” lo chiamai preoccupato. Si stava trasformando come nel ricordo che avevamo rivissuto nell’incubatrice.
Le braccia gli si riempirono di peli, così come il volto fanciullesco e innocente. Le orecchie scattarono al suono della mia voce che pronunciò il suo nome ma non mi degnò neppure di uno sguardo.
In lontananza cominciai a sentire il suono delle sirene della polizia. Si stavano avvicinando a noi. Qualcuno li aveva chiamati ma fui l’unico a sentirlo. Dovevamo scappare prima che ci catturassero.
“Stiles?” chiamai di nuovo mentre vedevo i suoi occhi cambiare colore. “Ti prego” mormorai.
“Stiles!” urlò Scott e, come incentivati, anche Liam e Lydia cominciarono a gridare il suo nome.
Stiles, ora con gli occhi blu brillante (identici ai miei), ruggì in faccia a Chris schizzandolo di bava.
“Avanti, fallo” lo spronò Argent. “Ho ucciso tuo padre…”
Stiles ringhiò furibondo.
“… ho ucciso Talia”.
“Derek, fa’ qualcosa!” sbraitò Lydia.
“Non diventare il mostro che tutti credono che tu sia” implorai mentre lo sentivo rigirare gli artigli nella pancia di Chris.
“Mi implorava di non farlo” provocò. “Ha sofferto molto”.
Una lacrima solitaria scivolò sulla sua guancia al ricordo del padre.
“Ti amo, Stiles” confessai per la prima volta.
Finalmente mi guardò.
Sorrisi e annuii. “Ti amo davvero” ripetei.
Sbatté le palpebre un paio di volte e i suoi occhi ritornarono gialli.
“Avanti, uccidimi!” latrò Argent cercando di rispostare l’attenzione su di lui. “Diventa un assassino”.
Stiles non lo calcolò di striscio, continuò a fissarmi con sorpresa. Sentivo il suo cuore battere forsennato e non era di certo colpa dell’adrenalina. Il naso ritornò normale e le rughe sulla fronte si appiattirono. I canini si accorciarono di qualche millimetro, così come le orecchie. I peli diminuirono notevolmente.
Lentamente, rimosse le granfie piene di sangue dalla pancia di Chris e io feci lo stesso. Lui si premette le mani sulle ferite tentando di bloccare il flusso del sangue.
Mi si avvicinò e, con la mano pulita, mi accarezzò il volto sporco. Si alzò sulle punte dei piedi e premette la sua bocca contro la mia. I nostri canini si scontrarono e ci ferirono le labbra ma non importò a nessuno dei due.
Le sue orecchie scattarono: aveva sentito le sirene avvicinarsi e tra poco le avrebbero sentite anche gli altri. Dovevamo scappare, eravamo ricercati in tutta la California e non sarebbe bastata la nostra parola ad evitarci la prigione.
Argent afferrò il polso di Stiles, bucandolo con le granfie e gli forzò la mano ancora chiusa a pugno. Gli prese l’AconiRAL prima che potessi impedirglielo.
“Se non posso avere il potere, allora non lo avrete nemmeno voi!” esclamò gettando con forza la fiala per terra.
Mi lanciai cercando di prenderla prima che toccasse il suolo ma non feci in tempo. Il vetro si ruppe e il liquido viola si sparse sull’asfalto.
“Trattieni il fiato!” ordinai a Stiles allontanandomi di fretta. Lo presi per il polso già guarito e cercai di portarlo lontano dalle esalazioni. Non potevo credere di star rivivendo il mio incubo in cui vedevo morire Stiles per colpa di Chris Argent che gli gettava l’aconito addosso.
Lui si impuntò e non si mosse di un centimetro. Lo fissai sbigottito e lo vidi sorridere soddisfatto in direzione di Chris.
Quando Argent capì che la sua strategia non avrebbe funzionato ordinò agli uomini in nero di sparare. Loro, avendo sentito le sirene farsi sempre più vicine, non obbedirono.
Stiles aveva usato i suoi trucchi contro di lui: aveva modificato il suo odore e il battito del cuore per fargli credere che stesse dicendo la verità, proprio come aveva fatto Chris in tutti quegli anni nascondendo la sua natura mannara.
“Voglio darti una cosa” disse Stiles avvicinandosi. “Una cosa che non ho mai voluto e che appartiene a te”.
Argent fece scattare gli artigli e vidi i suoi occhi rossi baluginare: era già pronto a rubargli di nuovo il potere.
Una volta appurato che quel liquido non fosse aconito (forse era semplice acqua colorata), mi affiancai a lui velocemente e lo presi per le braccia. Gliele portai dietro la schiena per tenerlo fermo. Notai che le ferite al fianco e alla pancia avevano cominciato il processo di guarigione.
Cercò di dibattersi ma Stiles si era ripreso il suo potere e di forza non ne aveva più.
Stiles appoggiò una mano sulla sua spalla, spostò di poco lo scollo della maglietta per toccare la pelle sporca e sudata.
Percepii le macchine della polizia approssimarsi sempre di più, con loro anche qualche blindato e un elicottero in volo ci stava raggiungendo. Qualsiasi cosa voleva fare Stiles doveva spicciarsi perché dovevamo fuggire.
Le vene del suo braccio e della sua mano diventarono nere come quando assorbivamo il dolore alle persone, ma questa volta non glielo stava prendendo, glielo stava restituendo.
Gli stava dando tutto il dolore che aveva provato quando aveva creduto di essere l’assassino di suo padre e di aver sterminato una famiglia; tutto il dolore a causa della solitudine e scaturito dall’odio che l’intero mondo provava per lui.
Decisi anche io di darglielo. Le mie vene si scurirono e feci passare tutto il dolore e il patimento che avevo assorbito a Stiles in quei mesi, nel corpo di Christopher Argent; tutto il dolore che avevo provato io dalla morte di Talia, Laura e Cora.
Quando finimmo, crollò in ginocchio di nuovo umano. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi.
L’elicottero arrivò sopra le nostre teste e ci illuminò. Le macchine della polizia si fermarono a pochi metri da noi, così come un blindato della SWAT e un camion dell’esercito. Per ultima arrivò anche un’ambulanza.
“Dovete andare” esclamò Scott mentre la cavalleria scendeva dall’auto imbracciando i fucili.
“Ho un parente in Canada. Ci accoglierà” dissi ripensando al fratello di mia madre, lo zio Peter.
“Sono stanco di scappare” replicò Stiles fissandomi rassegnato con gli occhi dorati.
“Abbassate le armi e mettete le mani dietro la testa” ordinò il capo della polizia.
Obbedimmo. Gli uomini in nero depositarono le armi e ci imitarono. L’unico che non lo fece fu Argent, il quale si alzò in piedi, ancora dolorante, e ci indicò. Notai che non aveva più gli artigli e gli occhi erano tornati azzurri.
“Sono loro!” esclamò come se non fosse evidente dalle nostre zanne e dagli occhi fluorescenti. “Sono gli assassini” urlò.
“Non è vero” provò a difenderci Lydia.
Si avvicinarono in tre mentre l’esercito e la SWAT collaborarono tutti insieme per catturare i più famosi ricercati d’America. Tenevano tutti quanti sotto tiro, nessuno escluso.
I poliziotti si avvicinarono e uno di loro, la cui targhetta appuntata al petto recitava “vicesceriffo Parrish”, afferrò Argent per un braccio, glielo torse dietro la schiena e lo ammanettò. “Christopher Argent, la dichiaro in arresto” stupì tutti.
“Che cosa?” sbraitò.
“Ha il diritto di rimanere in silenzio” disse spingendolo verso la volante, le cui luci blu e rosse lampeggiavano senza far rumore.
“C’è un errore” blaterò cercando inutilmente di divincolarsi, troppo spossato e addolorato.
“Qualsiasi cosa dirà potrà essere e sarà usata contro di lei in tribunale” proseguì quello senza ascoltarlo.
Io e Stiles ci fissammo stupiti mentre il capo della polizia ci si avvicinava.
“Ha il diritto a un avvocato durante l’interrogatorio. Se non può permetterselo, gliene sarà assegnato uno d’ufficio”.
Ascoltammo l’agente elencare i diritti mentre Argent protestava. Gli uomini in nero vennero portati via dai veri soldati dell’esercito.
Lydia, Liam e Scott si guardavano attorno disorientati tanto quanto noi.
“Ma che succede?” domandò Stiles mentre Argent e i suoi scagnozzi venivano portati via.
Il capo della polizia si fermò di fronte a noi e ci fissò. Eravamo zuppi di sangue ed ancora trasformati. Facevamo paura.
Allungò una mano e, nonostante la mia grondasse di sangue, gliela strinsi titubante. “Signori, siete richiesti in centrale per la vostra deposizione” disse porgendo la mano anche a Stiles. “Vi aspettiamo in macchina” si congedò allontanandosi. L’altro poliziotto ci guardò con ammirazione ma non ebbe il coraggio di dirci nulla.
Cosa diamine era appena accaduto?
La Stilinski Corporation pullulava di forze dell’ordine che circondarono la zona con un nastro giallo. Quelli che passavano accanto ci lanciavano occhiate di approvazione e stima.
Eravamo i criminali più pericolosi del mondo e adesso ci sfilavano accanto battendoci le mani sulle spalle e guardandoci come degli eroi.
“Cosa mi sono perso?” urlò una voce familiare.
Liam boccheggiò. Iniziò a ridere e a piangere nello stesso momento.
Lo vedemmo zoppicare verso di noi, con un cellulare in una mano.
“Theo!” esclamammo tutti insieme correndo verso di lui. La ferita alla gamba era bendata alla bell’e meglio ma stava bene, era vivo e probabilmente era grazie a lui se non ci avevano arrestati. Era l’artefice di tutto.
Pian piano sia io che Stiles ritornammo umani.
Liam gli saltò quasi in braccio per poi scusarsi quando gemette dal dolore per il troppo peso sulla gamba malconcia.
“Ho visto quel bastardo darti una gomitata” sussurrò preoccupato accarezzando la tempia di Liam, sulla quale stava spuntando un grosso livido. “Se fossi stato qui ti giuro che lo avrei –“.
“Ehi, calma” lo interruppe Liam. “Sto bene, mio eroe” lo derise bonariamente lasciandosi accarezzare e, per la prima volta, vidi Theo arrossire.
“Cos’hai fatto?” domandai battendogli una mano sulla spalla.
“Un video in diretta” disse mostrandoci il cellulare. “Vanto una certa popolarità sui social e ho chiesto di chiamare la polizia per far vedere quello che stavo filmando, cioè voi” spiegò circondando le spalle di Liam con un braccio sia per abbracciarlo che per appoggiarsi a lui per far sì che lo sostenesse. “E cioè la verità” esclamò allargando l’altro braccio.
“Avevi pianificato tutto?” domandò Stiles guardandolo con ammirazione.
“Non avevo certo pianificato di farmi quasi recidere l’arteria femorale da quell’idiota di Argent!” ribatté quasi oltraggiato. “A proposito, l’hanno già portato via?” chiese guardandosi attorno.
Quando annuimmo fece schioccare la lingua in disappunto. “Avrei tanto voluto filmarlo, ai miei followers sarebbe piaciuto”.
“Okay, ho sentito fin troppo” si intromise Lydia già annoiata. “Fatti abbracciare”.
“Dove ti nascondevi?” domandò Scott.
“Sul tetto. Ho filmato tutto dall’inizio, avrò avuto quasi trecentomila spettatori ad un certo punto!” si esaltò.
“Non abbiamo sentito il tuo odore” notai occhieggiando la ferita.
“Credo che sia merito dell’acqua ossigenata che ho utilizzato per disinfettarla: ha coperto l’odore del sangue”.
Liam sibilò, immaginandosi il dolore provato. “Devi andare in ospedale” consigliò. “È arrivata anche un’ambulanza, puoi fartici portare”.
“No, no. Voglio che mi raccontiate tutto, non sentivo bene da lassù” rifiutò, preso dalla foga del momento.
Scott e Liam iniziarono a parlare concitati, sovrapponendo le frasi e creando confusione, mentre Lydia li interrompeva ogni volta che sbagliavano un dialogo. Presi Stiles per una mano e ci allontanammo dal gruppo.
“Siamo ancora vivi” mi fece notare stringendosi nelle spalle.
Stetti un po’ in silenzio, ripensando a quello che era avvenuto. “Non ti azzardare mai più a fare una cosa del genere” lo rimproverai. “Non provare mai più a fingere la tua morte”.
Stiles spalancò le labbra. “Quella tattica stava funzionando alla perfezione, ma tu hai rovinato tutto!” esclamò.
“Io ho rovinato tutto? Mi hai fatto prendere un infarto!” mi difesi.
“Se non ti fossi sconvolto così tanto e non ti fossi quasi fatto soffiare via i poteri da Argent io avrei potuto attaccarlo alle spalle senza che se ne accorgesse” disse petulante.
Scott e Liam smisero di parlare e tutti e quattro si misero a fissarci scocciati dal nostro battibecco.
“Quindi la colpa sarebbe mia? Tu muori e se io mi sento morire a mia volta è colpa mia?” chiesi retorico. “Buono a sapersi”
“Sai, c’è una cosa che credo di non aver capito bene” mormorò Stiles mordicchiandosi le labbra.
Il suo odore era mutato. “Quale?”.
“Cosa mi hai detto quando stavo per perdere il controllo?” domandò e poi spalancò le labbra. “Il controllo!” gridò cambiando argomento. “C’è la luna piena e ho il controllo sul lupo” disse sorridendo emozionato. Sollevò il volto e guardò la luna che illuminava i suoi occhi castani.
“Ti ho detto che ti amo”.




Lasciate traccia del vostro passaggio: una recensione, anche breve, è pane quotidiano per gli scrittori.
Cari lettori e lettrici, il prossimo capitolo sarà l’epilogo e verrà pubblicato lunedì 28 settembre. Spero che abbiate seguito con interesse questa storia e che vi abbia appassionato e tenuto un po’di compagnia in questo periodo difficile. Ci sentiremo nel prossimo capitolo per un ultimo saluto. A presto.

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Capitolo 18
*** Epilogo ***


EPILOGO

Dieci giorni erano trascorsi da quella notte di luna piena e da quando la verità si era diffusa in ogni parte del globo. Da quel giorno erano arrivati migliaia di messaggi di scuse e di apprezzamenti sui vari social network, i giornali avevano sempre le nostre foto in prima pagina e arrivavano richieste da parte delle emittenti TV per averci nei loro programmi. Beacon Hills era stata invasa da centinaia di turisti che speravano di imbattersi in noi per congratularsi e avere un autografo. Sostavano giorno e notte davanti alla Stilinski Corporation sventolando striscioni e bandiere.
Stavo uscendo dalla centrale di polizia. Da quella notte venivamo chiamati regolarmente per lasciare le nostre deposizioni e raccogliere denunce contro Christopher Argent che, in quel momento, si trovava in prigione in attesa di un processo la cui data non era ancora stata fissata.
Anche tutti i dipendenti e i vari lavoratori sarebbero stati processati.
Stiles, quel pomeriggio, avrebbe rilasciato la prima dichiarazione pubblica in presenza di un avvocato. Aveva deciso che avrebbe smantellato l’azienda di suo padre e che i soldi che ne avrebbe ricavato sarebbero stati utilizzati come risarcimento per i parenti delle vittime, Theo incluso.
Io mi ero messo in moto per avere accesso all’eredità di mia madre e avevo scoperto che nei due anni in cui aveva lavorato alla Stilinski Corporation aveva messo da parte una quantità di denaro che avrebbe potuto mantenermi tutta la vita senza lavorare.
Theo, che aspirava a diventare un giornalista, grazie al video girato quella notte aveva cominciato ad avere delle interessanti proposte lavorative. Non male per chi si occupava della sezione “gossip” per una rivista di moda.
Liam stava proseguendo gli studi, mentre Lydia aveva conosciuto il vicesceriffo alla centrale, dopo che aveva lasciato le sue deposizioni. Si chiamava Jordan Parrish ed era colui che aveva messo le manette ad Argent.
Scott aveva annunciato le sue nozze con Kira, fidanzata storica ma di cui nessuno sapeva nulla. Eravamo stati tutti invitati e Stiles era già andando in paranoia perché non si intendeva di queste situazioni e non sapeva come comportarsi né se doveva fargli un regalo.
E, per quanto riguardava Stiles, aveva deciso di dare una svolta alla sua vita: voleva tornare a scuola. Era da quando aveva otto anni, ovvero da quando sua madre si era ammalata, che non ci andava. Aveva preso lezioni da casa ma ovviamente poi non aveva più potuto.
Io lo appoggiavo in pieno: gli avrebbe fatto bene socializzare con ragazzi della sua età e avere degli amici. La scuola poteva avere il potere di risollevare il suo spirito e fargli ritornare la speranza di una vita normale.

 

 

Stavo correndo nel bosco, nel classico allenamento pomeridiano, intorno alla nostra nuova casa. Avevamo comprato e ristrutturato la catapecchia di Scott che ci aveva tenuti al sicuro dopo la mia fuga. Avevamo smantellato la cantina e distrutto le catene incastonate nel muro che Stiles utilizzava nelle notti di luna piena. Ormai non ne aveva più bisogno. Era il suo senso di colpa che gli faceva perdere il controllo ma adesso sapeva che non c’era nulla da temere: non aveva mai ucciso nessuno, il responsabile delle morti dei nostri famigliari era solo Argent. Non era certo una consolazione ma almeno Stiles aveva ripreso a vivere.
Mi arrampicai su un albero e saltai ramo per ramo, poi mi bloccai: c’era qualcosa sul terreno in mezzo alle foglie secche. Aguzzai la vista e lo riconobbi: era il koala, il peluche appartenuto a Stiles e regalatogli da sua madre prima che morisse. Il pupazzo che avevo utilizzato per adescarlo e che era stato testimone dei nostri baci e carezze e delle sessioni interminabili di sesso in ogni angolo della camera.
Mi lasciai cadere per terra e afferrai il peluche sporco. Il pelo bianco era diventato scuro mentre il fiocco sulla testa, una volta rosso, era marrone.
Corsi in casa e lo gettai in lavatrice. Quella sarebbe stata una bella sorpresa. Aspettai con impazienza e quando fu pulito e profumato lo adagiai, ancora umido, sul letto della nostra camera. Non era spoglia come prima, era stata arredata e personalizzata, sembrava viva ed era accogliente. Era perfetta e sentivo di meritarmela. Entrambi ci meritavamo quella felicità che stavamo vivendo e che sentivo traspirare prepotentemente da Stiles. Era un miracolo: lui era felice.
Ascoltai Stiles arrivare da lontano. Entrò in casa e lasciò lo zaino di scuola sulla sedia del salotto, pronto per svolgere i compiti. Prima però venne da me.
“Sei già tornato?” domandò dal corridoio. Varcò la soglia e vide, al centro del letto matrimoniale, il suo pupazzo. “Dove l’hai…?”. Si sedette sul letto e lo prese, lo contemplò con nostalgia per qualche secondo, poi tuffò il naso nel pelo finto e inspirò profondamente annusando solo l’odore del detersivo e della natura.
“Non c’è più” mormorò. “L’odore della mamma… non c’è più”.
Non era triste, solo… rassegnato. L’odore di sua madre, dopo tutti quei mesi nel bosco in mezzo ad altri animali e anche per colpa del lavaggio in lavatrice, era sparito e ora non avrebbe più avito niente per ricordarlo.
Presto o tardi anche io avrei perduto l’odore della mia famiglia ma il loro ricordo avrebbe continuato ad esistere.

 

 

Stiles arrivò in salotto e si sedette pesantemente sul divano affondando la schiena tra i cuscini. Osservai i suoi occhi gialli e posai una mano sul suo ginocchio, glielo strinsi delicatamente e salii per massaggiargli la coscia.
Era passato un mese dalla lotta, da quando aveva finto la sua morte e aveva ingannato Argent con una fiala di shampoo alla lavanda, allungato con l’acqua, che aveva spacciato per aconito. Scott aveva elaborato quel piano: lui gli aveva messo la fiala di vetro tra le mani quando si era risvegliato dalla finta morte, lui gli aveva messo in tasca della liquirizia in polvere. Era grazie a quel ragazzo se adesso eravamo ancora vivi ed era grazie a Theo se eravamo liberi.
Stiles aveva gli occhi gialli ma era sereno e controllato. Era semplicemente nel pieno delle proprie forze per via della luna piena che sarebbe sorta in meno di un’ora.
“Posso portarti da qualche parte?” mi domandò contemplando la mia mano massaggiargli la gamba.
“Dove?” domandai aggrottando le sopracciglia e osservandolo con interesse.
Mi sorrise ma non rispose. Strinse la mia mano, si alzò e mi trascinò in piedi. Sbuffai per finta cercando di nascondere la curiosità. Cosa voleva mostrarmi?
Ci incamminammo nel bosco mano nella mano senza correre, aspettando che il sole tramontasse per lasciare spazio alle stelle che pizzicarono il cielo indaco. Mi fece camminare fino ai margini della radura e passammo il tempo a far dondolare le mani unite, ad abbracciarci, a parlare della scuola e dei nostri amici che ci avevano invitato per una rimpatriata la sera successiva. Parlammo anche di Argent: aveva richiesto gli arresti domiciliari ma gli erano stati negati. Il processo era previsto per la fine dell’anno, avevamo ancora quasi tre mesi per raccogliere informazioni e testimonianze.
Al confine limitrofo del bosco stagliava un’enorme roccia che dava su una cascata e un burrone. Non mi ero mai spinto così oltre. Ai piedi della cascata scorreva il fiume che fendeva in due la conta di Beacon Hills.
La luna era sorta, grande e rotonda, e illuminava la roccia come un occhio di bue. Stiles si arrampicò e, con un paio di falcate e un balzo, raggiunse la cima. Mi guardò da lassù, aspettando che lo imitassi: mi piegai sulle ginocchia per prendere lo slancio e saltai in alto. Atterrai al suo fianco e lo vidi roteare gli occhi gialli.
“Spaccone” brontolò malcelando la nota divertita.
“Allora” iniziai “perché siamo qui?”.
Stiles annusò l’aria fresca priva di smog, sapeva di menta e rugiada. “Ti avevo fatto una promessa, ricordi?”.
Ci pensai su ma sinceramente non rammentavo nulla.
“Ti avevo detto che avremmo ululato insieme alla luna”.
E così mi trasformai e fissai la pallida luna con gli occhi blu elettrico. “Non so come si fa” ammisi.
“Devi solo lasciarti andare e far uscire l’aria dai polmoni” disse.
Presi fiato e provai ad ululare. Fallii miseramente.
“Quasi. Sembravi un gatto con la raucedine ma non era male” ironizzò dandomi una spallata. “Devi sentirlo” disse poggiandomi una mano sullo stomaco e premendo.
“Sentire cosa?” chiesi riempiendo i polmoni con quanta più aria potessi.
“Che sei libero” rispose. “E che ce l’hai nel sangue: sei un lupo”.
Aprii la bocca e ululai alla luna. Il fiato finì quasi subito ma quello era decisamente un ululato. Guardai Stiles esaltato. Lui mosse una mano in un gesto che significava “così così”.
“Fallo tu”.
Lui sorrise, si leccò i canini, allargò le braccia e aprì le mani con i lunghi artigli e, con il petto in fuori, si esibì in uno dei più lunghi e rumorosi ululati che avesse mai fatto. Il giorno seguente sarebbe persino apparto un trafiletto sul giornale locale che riguardava i rumori inconfondibili provenienti dal bosco.
Ammirai la potenza di quel richiamo che fece volar via qualche gufo impaurito. L’alito formava una nuvola di condensa ghiacciata fuori dalla bocca.
Imitai la sua posa e mi unii a lui. Ululammo insieme, come mi aveva promesso tanti mesi prima, alla luna piena che una volta era sua nemica e ora la sua più potente alleata.
Respirammo affannosamente, a corto di fiato, e ci fissammo sorridendo. I nostri occhi non avevano mai brillato così tanto. Feci rientrare i canini e lo afferrai per le guance. Lo baciai improvvisamente e mi punsi le labbra con le sue zanne.
La situazione si accese in fretta e divenne frenetica. Scesi dalla roccia con un balzo e lo guardai. Stiles mi saltò addosso. Lo presi al volo e lo adagiai a terra, a bordo del precipizio. Ci privammo dei vestiti quasi strappandoceli di dosso, lo feci voltare ed entrai in lui rudemente. Per la prima volta il lupo prese il sopravvento tra di noi. Eravamo trasformati e selvatici.
Stiles ringhiò e gemette, ululò e ansimò. I miei versi ferini si mischiavano ai suoi che via via divennero sempre più alti fino quasi a far svegliare l’intera foresta.
Lo amai per tutta la notte, pieni di energie grazie alla luna piena. Quando il sole fece capolino per scandire l’inizio di un nuovo giorno eravamo sdraiati di schiena sull’erba, lui con un braccio attorno alle mie spalle e una mano posata sulla pancia. Io tenevo la testa sul suo braccio e le mani incrociate sul petto, a contemplare la luce di Marte che scompariva man mano che il sole si alzava.


Poco più tardi, a cena a casa di Lydia, ci aspettarono tante novità: la donna era incinta. Non ebbe bisogno dirlo, sia io che Stiles percepimmo la presenza dell’embrione dentro di lei. Probabilmente lei non lo aveva ancora scoperto dato che non disse nulla e noi non le rovinammo la sorpresa.
Scott, prendendo la parola dopo il dessert, annunciò il suo trasferimento a Seattle assieme a Kira. Aveva già firmato un contratto di lavoro. La fama, ottenuta grazie alla Stilinski Corporation, non aveva influito sulla sua assunzione. Scott era una specie di genio della scienza.
Theo e Liam ammisero finalmente di non essere dei semplici amici. C’era dell’altro tra loro, ma annusandoli riuscivo a capire che la loro relazione non era mai stata di tipo sessuale: uno dei due (o forse entrambi) era asessuale.
“Comunque lo avevamo capito da un pezzo” li prese in giro Stiles.
Liam arrossì mente Theo sollevò il dito medio in sua direzione.
“E voi, cos’avete intenzione di fare del vostro futuro?” domandò Lydia ravvivandosi i capelli rossi con una mano.
Osservai Stiles con interesse e attesi una sua risposta.
“Voglio sperimentare tutto. Voglio viaggiare e scoprire il mondo” rispose sognante, poi si girò a guardarmi.
Ci pensai su qualche secondo, poi sorrisi. “Mi piacerebbe aprire un orfanotrofio” svelai. “Un rifugio per ragazzi e ragazze in difficoltà. Che non hanno più nessuno o che sono stati cacciati di casa. Qualcosa del genere”.
“È una bella cosa” mormorò Kira addolcendo gli occhi a mandorla che la rendevano simile a una volpe.
“Ma qui a Beacon Hills o da qualche altra parte?” chiese Jordan Parrish bevendo un sorso d’acqua e rinunciando all’alcol perché in meno di un’ora sarebbe tornato in servizio.
“Ovunque” risposi. “Potremmo girare il mondo insieme e costruire queste case di accoglienza. Nessuno oserà rifiutarcelo” riflettei.
“La Stilinski and Hale Foundation” scherzò Stiles ridacchiando.
Io però non risi. Ero serio. Eravamo entrambi orfani e sarebbe stata la svolta alla mia vita: migliorare quella delle altre persone.
Stiles smise di ridere, comprendendo che quell’idea stava crescendo nella mia testa.
“E per te stesso… cosa vuoi?” chiese Liam, le guance erano finalmente tornate al loro colore naturale.
Strinsi le labbra. Cosa volevo? Avevo tutto ora. “Oh, ma certo” esclamai fingendo sbadataggine. “Mi piacerebbe sposare l’uomo che amo”.
Theo spalancò gli occhi, subito imitato dagli altri presenti. Un innaturale silenzio calò nel salotto interrotto dai loro respiri e dai battiti impazienti dei loro cuori.
Stiles si dondolò sulla sedia gongolando lusingato, poi aggrottò le sopracciglia e mi fissò stupito. “Mi stai facendo una proposta?” domandò con la voce stranamente acuta.
Non riuscii a decifrare il suo stato d’animo. Il suo corpo stava emanando calore e una miriade di sensazioni.
“Ehm, solo se la risposta è positiva” risposi insicuro, temendo di aver appena rovinato qualcosa. Non sapevo se avrebbe accettato e, francamente, non avevo nemmeno in programma di fargli quella proposta, non avevo neppure un anello! Ma la domanda di Liam mi aveva fatto pensare che c’era qualcosa che effettivamente mancava nella mia vita: era la promessa di un’eternità insieme.
“Mi hai sentito?”. Stiles mi fissò con un sopracciglio sollevato e annusandomi in attesa di una mia reazione alla risposta che non avevo ascoltato, troppo impegnato a rimuginare.
Mi accorsi che tutti mi fissavano. Scott, di fronte a me, mi diede un calcio sulla tibia e occhieggiò Stiles. Si portò le mani alla bocca e in un colpo di tosse, falsissimo e ridicolo, pronunciò: “bacialo!”
“Hai detto sì?” chiesi confuso.
Stiles mi tirò uno schiaffo sul braccio. “Certo che ho detto sì, stupido”.
Gli presi il mento con due dita e avvicinai la sua bocca alla mia.


Quella fu l’ultima volta in cui ci ritrovammo tutti insieme, prima del matrimonio. Scott andò a Seattle, Lydia in Virginia con in grembo Cora, la futura figlia. Liam e Theo si trasferirono più a nord, il primo era stato convocato in un’importante squadra di lacrosse, mentre Theo aveva iniziato la sua carriera come giornalista. Lo vedevamo spesso in TV.
La Stilinski and Hale Foundation divenne la “Claudia and Talia Foundation”, dedicata in onore delle nostre mamme. Il simbolo? Un koala bianco con un fiocco rosso sulla testa.
Spedimmo gli inviti per il nostro matrimonio alle sole persone di cui ci interessava. Stiles voleva sposarsi di notte, sotto la luna piena, e a me sembrava perfetto.
Christopher Argent aveva preso l’ergastolo. Dal carcere di massima sicurezza chiedeva di noi. I nostri avvocati dicevano che voleva incontrarci ma né io né il mio compagno sentivamo il bisogno di parlare con lui.

 


Stiles indossava uno smoking blu con una camicia bianca e un papillon rosso che mi ricordava tanto il fiocco sulla testa del koala. Aveva gli occhi gialli che splendevano come stelle nella notte e aveva, finalmente, un anello al dito. Era radioso.
Scott si avvicinò e porse un pacchetto a Stiles.
“Avevamo detto niente regali” lo ammonì.
“Non è da parte mia” rispose. “Quando sono andato a trovare mia madre a Beacon Hills ho incontrato il signor Ross che mi ha chiesto di darti questo” si giustificò.
“Chi è il signor Ross?” domandò confuso. Mi guardò, sperando che io lo sapessi ma mi strinsi nelle spalle, ignorando completamente la risposta alla sua domanda.
Stiles aprì la busta che accompagnava il pacchetto. Appoggiai il mento sulla sua spalla e lessi anche io: “Non sono mai riuscito a ringraziarti per l’assegno che mi hai lasciato sotto la saracinesca. Sono riuscito a mandare al college mio figlio grazie a te. Il furto nella mia erboristeria è stata la migliore cosa che mi sia mai successa: la clientela è triplicata dopo la rapina.
Nella speranza che tu possa vivere una vita di pura gioia, ti dono questo piccolo pensiero.
Con affetto e amicizia,
Signor Edward Jacob Ross
.”.
Stiles aveva gli occhi gialli lucenti e le guance rosse a causa dell’imbarazzo che quel ricordo gli aveva provocato. Schioccai un bacio sul suo zigomo e lui si girò, mi afferrò per la cravatta e mi baciò.
“Avanti, aprilo” lo incoraggiai.
Aprì il regalo con curiosità e lo vidi ridacchiare: tra le sue mani aveva una tisana alla liquirizia.
“Sei felice?” domandai, anche se non ebbi bisogno di una risposta: lo percepivo.
“Come non lo sono mai stato”.
Rinunciai a sorridere per poterlo baciare ancora.
Mi osservai attorno. Theo e Liam bisticciavano per decidere quale dolce fosse più buono. Scott stava mostrando a Kira una pessima imitazione di quando io e Stiles ci trasformavamo. Il vicesceriffo presentava orgoglioso la bambina, che sarebbe nata tra sei settimane, nel grembo di Lydia. Il fatto che le avrebbe dato il nome di mia sorella, Cora, mi scaldava il cuore.
Stiles girovagò tra i tavoli parlando con alcuni compagni di scuola, che aveva invitato, della Claudia and Talia Foundation e di quello che ancora si diceva di noi al telegiornale, perlopiù pettegolezzi ma che facevano arrivare un sacco di sponsor che pagavano per la costruzione delle case di accoglienza.
Presi un bicchiere di champagne per proporre un brindisi e vidi i miei occhi nel vetro scintillante del cristallo: erano blu a causa della troppa energia che stavano irradiando i raggi lunari.
Sollevai lo sguardo e ammirai la luna piena. Sorrisi, sentendomi in pace con il mondo. Riabbassai gli occhi e osservai la mia mano decorata da una fede d’oro.
Aspettai che Stiles si voltasse, poi alzai il bicchiere nella sua direzione. “Ti amo” brindai a lui sussurrando, sapendo che le sue orecchie lupesche avrebbero sentito tutto.
Annusai il suo odore a distanza e me ne inebriai.
“Più della mia esistenza” rispose lui sempre bisbigliando. “Ti appartengo da quando non sapevo neppure cosa volesse dire”.

 

Consumammo la prima notte di nozze in albergo. Mi spogliai dello smoking mentre Stiles era in bagno. Quando uscì mi fissò ammaliato ma non c’era malizia nei suoi occhi, solo pura adorazione.
“Che c’è? Mi hai visto nudo centinaia di volte” gli feci notare divertito.
“Ho visto anche il tramonto centinaia di volte, ma non stanca mai” rispose.
La nostra storia, iniziata dalla mia malsana idea di vendetta, era cresciuta e cambiata insieme a noi. Ero stato il primo amore di Stiles. Mi amava da quando neppure mi conosceva mentre io lo avevo odiato e desiderato la sua morte. Ora, la sua sola assenza mi faceva mancare il respiro. Vivevo in sua funzione ed ero felice solo se lo era anche lui.
La nostra storia era un grido di speranza per tutte le persone che ci avevano conosciuto e avevano lottato per noi e con noi per farci avere una vita degna di questo nome, e per tutte quelle persone che avevano letto di noi tramite i giornali e magari ci avevano detestati o avevano desiderato qualcosa di meglio che una vita da fuggiaschi.
La nostra storia era strana, non convenzionale, eravamo uomini ma con sangue di lupo nelle vene.
La nostra storia era appena cominciata.

 

 

La storia di  Derek e Stiles è appena cominciata, ma per Bad Wolf, purtroppo, finisce qui. Spero che abbiate apprezzato la trama e che vi siate almeno un po’ affezionati ai personaggi (soprattutto a Derek, dato che è tutto narrato dal suo punto di vista).
In un periodo difficile come questo, tornare a scrivere dopo tre anni è stata una boccata d’aria fresca (e mi auguro che per voi sia stato un piacere leggere). Mi erano mancati questi due, davvero.
Un grazie a tutti voi che avete seguito la storia e che, con una recensione, mi avete mostrato il vostro apprezzamento.
Per il momento è tutto, ma forse non è la fine… magari ci saranno altre occasioni per scrivere qualcosa sugli Sterek.
A presto e un grandissimo abbraccio virtuale a tutti!
DrarrySylinson

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