The Tomorrow Key

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bentornati alla Stark Expo! ***
Capitolo 2: *** Lo sapevo che non potevi resistermi ***
Capitolo 3: *** Io sono Ironman ***
Capitolo 4: *** Questo è parlare come una vera Stark! ***
Capitolo 5: *** Ora mettiamo al mondo questa creatura, che dici? ***
Capitolo 6: *** Mi chiami, quando avrà bisogno di me ***
Capitolo 7: *** Ci sono cose che non sai ***
Capitolo 8: *** Te ne occupi tu, d'accordo? ***
Capitolo 9: *** Questa è la chiave del futuro ***
Capitolo 10: *** Me la sbrigo da solo ***
Capitolo 11: *** Pensavo fosse più facile fare l'eroe ***



Capitolo 1
*** Bentornati alla Stark Expo! ***


A te che sei giunto fin qui, devo fornire un avvertimento:
questa storia è il seguito di "I belong to you" che troverai pubblicata in questa sezione.
Guardando (e riguardando!) Iron Man 2, non ho potuto che mettermi a pensare a come il mio personaggio
(Victoria, la ragazza di New York che ha stregato il cuore di Tony, riuscendo perfino a mettergli l'anello al dito)
avrebbe agito se si fosse trovata lì.
É nato così questo piccolo lavoro che spero ti piacerà.
Se hai già visto il film, ne riconoscerai alcune scene, dialoghi compresi:
sono le mie scene preferite e le ho volute mantenere così come sono nel DVD.
Se ciò che leggerai ti sembrerà buono (ma accetterò qualsiasi parere: c'è sempre spazio per migliorare),
ti prego di farmelo sapere, lasciandomi una recensione.
Grazie e buona lettura!

 

Victoria sedeva con le gambe accavallate su una cassa vuota e, dal punto in cui stava, vedeva il palco deserto. Il brusio creato dal pubblico era notevole: in moltissimi erano accorsi alla cerimonia inaugurale della Stark Expo, l’ultima trovata di Tony, e tantissimi altri stavano ancora aspettando il proprio turno per entrare.
Pepper era in piedi, accanto a lei, e sembrava nervosa. Guardò l’orologio per l’ennesima volta e si voltò.
«Vorrei tanto sapere dove si è cacciato» sbottò.
«Come se non lo conoscessi, Pep» replicò Victoria.
«Spero sempre che cambi, man mano che passa il tempo con te».
Victoria rise. «Non sono in grado di guarire un ritardatario patologico. Se è con me, è obbligato a darsi una mossa, ma non posso rispondere per quando è autogestito!»
Pepper si abbandonò ad una risata. Poi alzò la testa, in ascolto.
«È lui» confermò Victoria, che avvertiva il leggero sibilo provenire dall’alto. Entrambe fissarono lo sguardo all’apertura nel soffitto, ma Tony fu una meteora. Piombò a velocità supersonica sulla pedana bianca che era stata preparata per lui, atterrando con un ginocchio a terra.
Mentre le luci del palco esplodevano in un caleidoscopio di colori, Ironman si alzò in piedi, sollevando le braccia, mentre la folla inneggiava in delirio davanti al suo idolo. Le ballerine che erano state ingaggiate per lo spettacolo si esibirono nel loro numero, ma gli occhi dei fan erano tutti per Ironman. Ad un suo gesto, la pedana circolare su cui era atterrato prese ad aprirsi e alcuni bracci robotici si sollevarono per aiutarlo a liberarsi dell’armatura.
Il primo elemento ad essere tolto fu il casco. Tony sorrise e la folla gridò ancora più forte, mentre Shoot to thrill degli AC/DC rimbombava nell’auditorium. In breve Tony fu liberato dall’armatura rosso e oro e apparve in doppiopetto nero gessato, camicia bianca e papillon.
Mentre la musica arrivava all’apice, le ballerine si avvicinarono a Tony facendogli corona intorno. L’uomo attese la fine della musica poi allargò le braccia, mentre le ragazze lasciavano il palco ancheggiando.
«Oh, è bello essere di nuovo qua» esclamò, mentre si voltava verso il pubblico. «Vi sono mancato» disse, come prendendo atto di una cosa ovvia.
«Fa saltare in aria qualcosa!» gridò una voce dal pubblico e Victoria scosse la testa, sorridendo.
«In aria qualcosa?» chiese Tony. «L’ho già fatto» disse con un mezzo sorriso.
Poi si fece serio. Il pubblico ora taceva, pronto a bersi le sue parole.
«Non voglio dire che il mondo goda del suo periodo più lungo di pace ininterrotta dopo anni grazie a me».
Grida e applausi echeggiarono nella sala. Victoria aggrottò le sopracciglia.
«Non voglio dire che dalle ceneri di una barbara prigionia non si sia mai personificata metafora più grande della fenice nella storia dell’uomo».
Tony fece un piccolo inchino con la testa, cosa che il pubblico salutò con un’ovazione. Victoria abbassò il capo e si coprì gli occhi con una mano, sospirando rassegnata.
«Gli hai scritto tu il discorso per oggi?» le chiese Pepper.
«Sì» rispose Victoria.
«Questo discorso?»
«No, ovviamente».
Dopo il matrimonio, Victoria aveva accolto l’invito di Tony a lasciare il mondo del teatro e dello spettacolo. In fondo, c’era un figlio in arrivo e dopo ciò che era successo con Christopher Roberts – ferita che era ancora abbastanza fresca da far male – non era più così sicura di voler stare tanto tempo lontana da Tony come la carriera di attrice richiedeva. C’era già lui che aveva abbastanza impegni per entrambi.
La decisione era maturata in viaggio di nozze – un mese trascorso in una paradisiaca isoletta delle Hawaii che Tony aveva affittato per intero – quando aveva cominciato a scrivere e ne era venuto fuori qualcosa di veramente buono. L’ispirazione aveva rotto gli argini e le parole turbinavano nella sua testa accavallandosi per uscire e trovare la loro destinazione sulla pagina virtuale del programma di videoscrittura. Aveva già messo la parola fine al suo primo lavoro, una storia per ragazzi sul genere fantasy che tanto piaceva ai giovani, e l’aveva inviato ad un paio di case editrici, nella speranza di trovare qualcuno che lo volesse pubblicare.
Tony non sapeva nulla, ovviamente. Sapeva che stava scrivendo un libro per ragazzi ma era convinto che ci stesse ancora lavorando. La donna non aveva voluto dirgli nulla per evitare che insistesse per intervenire, “sponsorizzando” il suo lavoro. Ormai, chiunque la conosceva come la moglie di Tony Stark, quindi non poteva impedire che la sua ombra la seguisse, ma voleva almeno provare a farcela da sola.
L’aveva inviato poco più di un mese prima ma sapeva che quelle cose erano piuttosto lunghe e non aveva ancora iniziato a disperare.
Quando Pepper aveva saputo che Victoria stava scrivendo, le aveva chiesto se voleva prendersi in carico di scrivere i discorsi per Tony, per le manifestazioni a cui era continuamente invitato. Era un lavoro che aveva sempre fatto lei, ma era più che disposta a cederlo a Victoria che aveva acconsentito, sebbene con un pizzico di trepidazione. Tuttavia, se l’era cavata egregiamente e Tony si affidava sempre a lei. Solitamente finiva per dare comunque una sua impostazione ai discorsi,  ma Victoria riusciva sempre a distinguere la propria impronta. Ma non stavolta: le parole che lui continuava a pronunciare le erano totalmente estranee.
«Non voglio dire» proseguì Tony sul palco «che lo zio Sam possa starsene sprofondato in una poltrona a sorseggiare un the freddo perché finora non ho incontrato qualcuno abbastanza uomo da competere con la mia forza e potermi sfidare!»
Victoria scosse la testa. «Avrei dovuto aspettarmelo: la Stark Expo è la sua creatura, era inevitabile che volesse dargli colore in questo modo. A volte è così teatrale».
«Beh, tu sei un’attrice di teatro. Dovresti apprezzare» disse Pepper.
«Io apprezzo il buon teatro, non…» indicò con un cenno del capo il palco «questo!»
Pepper rise.
«Non ero d’accordo né con l’entrata dal cielo né con…» indicò le ballerine mezze nude che gironzolavano nel retropalco «loro!» mormorò.
«Si tratta di ciò che noi scegliamo di lasciare alle generazioni future» stava dicendo Tony e Victoria riconobbe un passo del discorso che aveva scritto per lui.
«Ecco, questo è il mio discorso» disse, stiracchiando la schiena e posando una mano sulla pancia prominente. Era al settimo mese di gravidanza e le cose procedevano senza intoppi. Era tra il 40% di fortunate che non soffriva di nausee nei primi mesi e, a meno che non cambiasse qualcosa nei due mesi successivi, non aveva avuto alcun tipo di problema.
«Ecco perché, per il prossimo anno, per la prima volta dal 1974, gli uomini e le donne più in gamba di società e nazioni di tutto il mondo, metteranno insieme le loro risorse, condivideranno la loro visione, per gettare le basi di un futuro più roseo» disse Tony.
«Bel passaggio» la complimentò Pepper e Victoria accolse il commento con un sorriso.
«Quindi non si tratta di noi» proseguì Tony. «Se c’è una cosa che voglio dire, se proprio devo dire qualcosa, è bentornati… alla Stark Expo!»
Il pubblico esplose in un applauso. Le grida si moltiplicarono finché Tony chiese il silenzio, annunciando un importante messaggio dall’aldilà. Sullo schermo alle sue spalle apparve suo padre, Howard Stark, mentre presentava l’edizione della Expo del 1974.
Tony lasciò il palco.
«Ehi, ho le mie tre donne preferite qui» esclamò, raggiungendole dietro le quinte. «Pepper, le è piaciuta la mia entrata?»
«Di effetto, come sempre, Tony» replicò la sua assistente.
«Ciao, splendore» mormorò poi con voce morbida e calda, rivolto a Victoria, avvicinandosi per baciarla.
«E ciao anche a te, piccola» disse, chinandosi verso la pancia di Victoria.
Sapevano ormai da un po’ che di lì ad un paio di mesi sarebbe nata una bambina. Non lo sapeva nessuno, eccettuata Pepper, nonostante i tabloid si fossero scatenati nel cercare di indovinare il sesso del nascituro: come sempre, tutto ciò che riguardava Tony Stark creava un turbine di gossip e notizie.
«Bello il tuo discorso» mormorò Victoria.
«Vero? L’ha scritto mia moglie» replicò Tony con la massima tranquillità.
«Non mi sembra che la parte iniziale fosse nel suo stile» obiettò Victoria.
«Può darsi che io abbia fatto qualche cambiamento. Ma la parte finale era uguale alla virgola».
«La parte molto finale» evidenziò Victoria, sorridendo.
«Questo non significa che io non apprezzi quello che fai per me. È che a volte mi lascio trascinare».
«Sei impossibile!» ridacchiò Victoria, e Tony la baciò di nuovo. Poi si staccò.
«Vuoi scusarmi un attimo, dolcezza?» disse e si allontanò.
Victoria rimase ad osservarlo finché non scomparve alla vista e tornò a rivolgere l’attenzione allo spettacolo sul palco.
Tony si accertò che lei non lo vedesse ed estrasse dalla tasca della giacca un piccolo apparecchio. Era uno strumento più piccolo di un pacchetto di sigarette. Aveva un display e sulla parte alta era stampigliata una scritta: Stark Medical Scanner.
L’uomo si punse il dito con l’ago di cui era dotato l’apparecchio e sul display apparve la segnalazione che il livello di tossine nel suo sangue era salito al 19%.
Sbirciò di nuovo verso Victoria, ancora seduta sulla cassa, che guardava suo padre Howard sul maxischermo. Diavolo, quel problema proprio non ci voleva.
Si era accorto della cosa la settimana prima quando, uscendo dalla doccia, aveva notato nello specchio quella lieve ragnatela sottopelle. Quei segni partivano proprio dal piccolo reattore Arc installato al centro del suo petto.
Non che non se lo aspettasse. Sapeva che alla fine il palladio che alimentava il reattore avrebbe finito per avvelenargli il sangue, ma pensava che sarebbe successo molto più tardi. Aveva fatto calcoli e calcoli, ma fondamentalmente il problema era uno solo: l’applicazione del reattore Arc che aveva fatto su di sé era la prima in assoluto, quindi non aveva dati su cui basarsi.
A Victoria non aveva detto nulla, né lo avrebbe fatto in seguito. Che senso aveva farla preoccupare? Mancavano un paio di mesi al parto, non era il caso di farla agitare. Jarvis era al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro sulla questione e prima o poi avrebbe trovato qualcosa. Nel frattempo, Tony avrebbe mantenuto la sua facciata di normalità.
Perciò calò sul viso la maschera dell’invincibile Anthony Edward Stark, quello sicuro di sé e con il mondo in pugno, e tornò da Victoria.
Sul palco si stava esibendo la splendida Katy Perry, la prima di una lunga serie di star che avrebbero calcato il palco della Expo, e Victoria canticchiava sommessamente.
«Hai voglia di camminare un po’?» chiese Tony e lei annuì, tendendogli le braccia perché l’aiutasse a scendere dalla cassa su cui era seduta.
Si tese per baciarlo, ridacchiando perché il pancione la intralciava. Poi Tony la prese per mano e la trascinò in giro per l’Expo, mostrandole con orgoglio le novità e la disposizione dei padiglioni.
Victoria lo ascoltava rapita: la Expo era sua, lui l’aveva voluta, lui l’aveva fatta ricostruire a Flushing, facendola tornare a quell’antico splendore che non aveva più dal 1974. E ora ne parlava con gli occhi scintillanti, desideroso di condividerla con lei. Parlava talmente in fretta che la donna perdeva qualche parola qua e là, ma era contenta di stare al suo fianco con il dolce peso della creatura che portava in grembo.
I festeggiamenti per la cerimonia inaugurale sarebbero andati avanti per tutta la notte almeno, ma Tony non aveva intenzione di restare. Perciò, terminati gli impegni istituzionali, chiamò Happy e attese con Victoria che li raggiungesse presso una delle uscite secondarie. Happy arrivò dopo pochi secondi, seguito da Gary. Brian, l’altro bodyguard, aveva già parcheggiato la limousine all’esterno, in attesa.
«È uno zoo lì fuori» li avvertì Happy e fece cenno all’inserviente alla porta di aprirla.
Tony e Victoria uscirono e la piccola folla che era lì si scatenò. Con l’aiuto di Happy e Gary ci si gettarono in mezzo, mentre Tony distribuiva autografi e pacche sulle spalle, cingendo la vita della moglie e avanzando come uno squalo in un banco di sardine.
Victoria notò gli sguardi delle donne: erano sguardi famelici quando si posavano su Tony come se lui fosse ancora libero e non un uomo sposato e prossimo a diventare padre. E, quando per errore sfioravano lei, erano di invidia come minimo e al massimo di odio. Suo malgrado, nonostante l’aura che Tony emanava, rabbrividì.
Finalmente raggiunsero la seconda porta e furono fuori. Brian stazionava accanto alla portiera posteriore della Rolls e al suo fianco c’era una ragazza. Indossava una gonna nera lunga fino al ginocchio e una camicetta violacea. I capelli erano sciolti sulle spalle e incorniciavano un viso da ragazza della porta accanto.
«Salve» disse la giovane, porgendogli la mano. «Ho una citazione».
«Un’eccitazione?» domandò Tony con ironia. Poi si voltò verso Victoria. «Scusa, cara» disse con la faccia di un cherubino pentito. La donna non replicò, ma sorrise tra sé.
«Molto lieta, Tony» disse invece la ragazza con voce roca, ritirando la mano.
«Da dove viene?» chiese Tony.
«Bedford» rispose quella e il modo in cui osservava Tony irritò Victoria.
«E che ci fa qui?»
«Cerco lei» affermò la ragazza.
Tony sollevò un sopracciglio. «Accidenti. Temo che sia arrivata tardi, mia cara. Sono un uomo sposato ormai» disse e Victoria stentò a reprimere un sorriso.
«È un mandato di comparizione» disse, porgendogli una busta sigillata.
Tony rovesciò gli occhi nelle orbite. Ma che diavolo stava succedendo? Non era sufficiente quel maledetto problema al reattore Arc? Ora ci si metteva anche lo Stato?
«La prendo io» intervenne Victoria. «Lui odia che gli porgano le cose».
«Sì, lo trovo seccante» confermò.
«Dovrà comparire davanti alla commissione per i servizi armati del senato domani mattina alle ore nove» spiegò la ragazza.
«Mille grazie, signorina» rispose Tony. E senza attendere risposta aiutò Victoria a salire sulla Rolls e la seguì sul sedile posteriore. Happy salì con loro e Gary prese a posto a fianco di Brian, che era al volante.
Victoria aprì la busta e lesse.
«Non c’è scritto molto di più di quanto ti abbia detto la ragazza» disse, porgendogli la lettera.
Tony la scorse in velocità. «Vorranno darmi una medaglia al valor militare» scherzò lui, mantenendo volutamente un tono leggero.
«Non scherzare» lo rimproverò Victoria.
Lui le accarezzò la guancia. «Non sarà niente di che, vedrai. Non voglio che ti preoccupi».
«Partiamo subito?» chiese Victoria.
«Io e Happy partiamo. Tu no, amore. Ti riporto in albergo».
«Non credo proprio» obiettò Victoria. «Non ti lascio andare a Washington da solo».
L’uomo riconobbe il tono burrascoso e le scoccò uno dei suoi sorrisi assassini. «Tesoro, sei al settimo mese di gravidanza. Non vedo la necessità di strapazzarti con un viaggio del genere».
In realtà, il viaggio non sarebbe stato un problema. Aveva pensato di andare in auto, ma poteva sempre andare con il suo jet privato, cosa che lo rendeva immune da ritardi e check-in e garantiva a lui e a Victoria ogni comodità possibile. E Washington non era lontana.
La verità era che non voleva che lei ci fosse: sapeva che cosa volevano da lui. Volevano Ironman. E non sarebbe stato un bel momento. Non c’era altro motivo per cui potessero convocarlo, dato che da qualche mese aveva completamente rinunciato a qualsiasi contratto militare, facendo virare la sua compagnia verso l’innovazione tecnologica e la ricerca nel settore delle energie rinnovabili.
«Non ho intenzione di restarmene qui in albergo» disse risoluta. Poi addolcì il tono: «Queste cose vanno affrontate insieme. Quindi, vengo con te».
Tony sapeva per esperienza che non serviva a nulla farla ragionare. Perciò le posò un bacio sulla fronte. «Non credevo che avrei mai trovato una persona più testarda di me». Poi si rivolse a Happy: «Chiama Leonard, per favore. Digli di preparare il jet».
Nel frattempo Tony si mise in contatto con Pepper. Dato che con Victoria occupava una suite al Ritz Carlton lì a New York, le domandò di occuparsi di spostare la prenotazione su Washington e le chiese di raggiungerli all’aeroporto.
Quando vi arrivarono, il jet bianco delle Stark Industries era pronto sulla pista e Pepper era già lì. Il viaggio fu brevissimo e, poco più di due ore dopo aver ricevuto il mandato di comparizione, Tony e Victoria erano già sistemati in albergo.
L’indomani sarebbe stata una lunga giornata perciò si infilarono subito a letto. Victoria si addormentò in brevissimo tempo, ma Tony non fu così fortunato. Perciò rimase a guardarla dormire, cosa che calmava sempre la sua inquietudine.
Victoria dormiva sul fianco sinistro, voltata verso di lui. I capelli ramati erano sparsi sul cuscino e la donna respirava profondamente. Le scostò con delicatezza una ciocca dalla fronte, indugiando in una lieve carezza, e la donna sospirò sommessamente.
Poi aggrottò le sopracciglia, senza aprire però gli occhi. Senza svegliarsi portò una mano al ventre e la tenne posata lì. Tony sorrise: Victoria dormiva sempre di fianco, ma la bambina aveva già dimostrato di non apprezzarlo. Sicuramente stava scalciando, cercando di comunicare alla mamma che voleva che cambiasse posizione.
Tony mise la propria mano accanto a quella della moglie e sentì la bambina muoversi. Avvertì una possente stretta al cuore: non mancava mai di stupirsi di quel piccolo miracolo che cresceva ogni giorno e che tra poco avrebbe visto la luce.
Dio, come sono cambiato, pensò fra sé.
Se guardava indietro, al Tony Stark di due anni prima, vedeva un uomo completamente diverso. Quello di allora era un uomo viziato, legato ai suoi miliardi. Certo, i miliardi c’erano ancora e se voleva comprarsi un’auto da mezzo milione di dollari o regalare a Victoria una parure di diamanti non stava neanche a pensarci su. Ma adesso c’era qualcosa che veniva prima.
Quel Tony Stark usava le donne per il proprio piacere e le gettava via senza alcun rimorso. Tante di loro non aveva neanche avuto il coraggio di scaricarle, lasciando che fosse Pepper ad accollarsi quell’incombenza. E improvvisamente, tutto era cambiato.

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Capitolo 2
*** Lo sapevo che non potevi resistermi ***


Ecco il secondo capitolo della mia fanfiction.
Qui è narrato ciò che Tony prova e sente quando incontra la sua donna,
in antitesi a ciò che succede nel primo capitolo di "I belong to you"
dove è Victoria a narrare le stesse scene.
Un punto di vista diverso per la medesima storia d'amore.
Buona lettura!


Era una sera come tante, quella di due anni prima, nella quale aveva deciso di prendersi una pausa da presidente delle Stark Industries. Era a Los Angeles per una serie di importanti incontri di lavoro ed era solo. L’ultima, insipida bionda che era passata per le sue mani era già storia dimenticata.
Aveva così preso la sua Audi R8 per tornare a Malibu, ma poi aveva cambiato idea e, in compagnia di Happy, l’unica guardia del corpo che potesse tollerare, era andato in cerca di un bar. E alla fine si era fermato al Jack’s, uno di quei pub con la sala da biliardo e pochissime luci che servivano la miglior birra che si potesse trovare in zona.
Guidava lui e aveva parcheggiato l’auto con tutta la strafottenza che lo caratterizzava: senza preoccuparsi degli altri occupanti del parcheggio. All’interno del locale non c’era quasi nessuno, a parte un gruppo di una decina di persone ad un tavolo d’angolo. Le aveva degnate appena di uno sguardo, notando che alzavano le bottiglie di birra in un brindisi.
Si era seduto ad un tavolo seminascosto – l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di essere notato dall’ennesima stronzetta in cerca di un servizio sui tabloid scandalistici – e aveva ordinato una birra per sé e per Happy che si era accomodato di fronte.
Chiacchieravano del più e del meno, in tono amichevole e rilassato, ma Happy non allentava mai la vigilanza, pronto ad intervenire in caso di problemi. Quando l’aveva visto alzarsi, Tony aveva immaginato che qualcuno – una donna, sicuramente – lo avesse riconosciuto e volesse attaccare bottone.
«Mi dispiace, signorina. Il signor Stark non desidera visite».
Infatti, una donna. Tony rimase seduto, di spalle.
«Fuori è parcheggiata una R8 che blocca la mia auto».
Ah, allora non era interessata a lui. Improvvisamente, la donna era diventata il centro del suo interesse.
«Probabile. Ho la brutta abitudine di parcheggiare sempre dove mi pare».
Aveva atteso la risatina sciocca con cui di solito le ragazze accoglievano quelle sue sbruffonate, ma la risposta era stata ben diversa.
«Benissimo. Vuol dire che la prossima volta continuerà a parcheggiare la sua Audi ammaccata dove più le aggrada. Buona serata».
Non era ciò che si era aspettato. Il livello di interesse era salito ancora, spingendolo ad alzarsi. Doveva vederla.
«Ehi, ehi! Ferma lì» aveva intimato. Lei si era fermata e si era voltata verso di lui.
Era uno schianto, quello gli era stato subito chiaro. Eppure l’aveva colpito in modo diverso dalle altre donne che aveva incontrato. Il viso era perfetto, del tipo che si vede solo sui giornali di moda, incorniciato da una nuvola di capelli ramati, morbidi e vaporosi, tanto che gli ricordarono quelli di Jessica Rabbit.
Il naso era finemente cesellato, sopra due labbra carnose e rosse anche se aveva notato che non portava rossetto. Gli occhi erano di un verde prodigioso ed era pochissimo truccata, appena un velo di ombretto che evidenziava ancora di più quei suoi splendidi occhi.
Di solito le donne lo colpivano al basso ventre ma lei lo aveva preso al cuore, tanto che fissando lo sguardo nel suo avvertiva una strana sensazione al petto, come se l’aria si fosse improvvisamente rarefatta e faticasse a riempirgli i polmoni. Ma ovviamente lui non aveva capito subito di cosa si trattava.
Aveva fatto un paio di passi verso di lei che indossava dei jeans neri molto attillati e una camicetta fucsia, sotto la quale aveva visto la curva invitante e soda del seno.
«Non posso credere che una bella donna come lei sia capace di un atto così nefando come il danneggiamento del gioiellino parcheggiato qui fuori» aveva detto, caricando la frase con tutto il suo charme.
«Può continuare a credere a ciò che vuole, ma tra poco dovrà chiamare il carro attrezzi per la sua auto, signor Stark».
No, decisamente il solito approccio non funzionava con questa femmina, e la cosa aveva finito per irritarlo. Non gli era mai capitato di puntare una donna e che questa non reagisse. Socchiuse gli occhi: se mi stai sfidando hai trovato pane per i tuoi denti, piccola.
Aveva pescato le chiavi in tasca e le aveva lanciate a Happy.
«Happy, per favore, sposta l’auto. La signorina mi sembra proprio risoluta» aveva detto, ammorbidendo ancora di più il tono.
«La ringrazio, signor Stark».
«Non vuole permettermi di offrirle qualcosa, per rimediare a questa mia mancanza?»
 Aveva visto un lampo nei suoi occhi, non si era sbagliato. Lei voleva accettare, lo desiderava con tutta se stessa. Sapeva di essere vicino alla meta e sorrise, quasi inconsapevolmente. Dopotutto, quel viaggio a Los Angeles poteva essere più piacevole di quanto potesse aspettarsi.
Ma poi quel lampo si era spento e aveva visto la sua espressione mutare. «Grazie ma non è necessario». Una pietra tombale.
Lei si era girata – e il suo lato B era interessante quanto il resto – e se n’era andata, lasciandolo lì a chiedersi cosa fosse successo. Doveva essere precipitato in un mondo parallelo: da che Tony Stark era Tony Stark una cosa del genere non si era mai verificata.
Quando Happy era rientrato, l’aveva trovato ancora in piedi, che fissava imbambolato la porta da cui lei era uscita.
«Tutto bene, capo?» aveva chiesto e Tony si era riscosso.
«Sì, ok. Andiamo via, Happy».
Aveva rimuginato su quel rifiuto per tutto il viaggio fino a Malibu, rimanendo stranamente in silenzio. Una volta giunto a casa, si era convinto di una cosa: quella ragazza si era accorta che lui ci stava provando e aveva voluto fare la preziosa.
Peggio per te, aveva pensato. Non sai cosa ti perdi. Non sono io ad avere bisogno di te.
Ma neanche mezz’ora più tardi ordinava a Jarvis di cercare di rintracciarla. Jarvis aveva recuperato un’immagine da una telecamera stradale di fronte al Jack’s in cui si vedeva la targa della vecchia Ford Taurus della ragazza. Scoprire a chi apparteneva era stato affare di pochi istanti.
«Quest’auto appartiene alla signorina Victoria Johnson, signore» aveva detto poco dopo il computer, mostrandogli un’immagine della patente.
Nella foto era più giovane, ma era lei. Quello che era strabiliante era il fatto che l’immagine nella mente di Tony era più precisa della foto stessa, segno evidente di quanto l’avesse colpito.
«Victoria Johnson» aveva ripetuto Tony, assaporando quel nome sulla lingua.
Aveva sbirciato i suoi dati personali rilevando che aveva trentun anni e risiedeva a New York.
«E cosa ci fai a Los Angeles, signorina Johnson?» aveva mormorato sovrappensiero.
«Mi sono permesso di cercare su Google, signore, e c’è un riscontro» l’aveva avvisato Jarvis, facendo poi apparire la schermata di Internet.
«Ah» aveva esclamato Tony «è un’attrice».
Aveva scoperto così che Victoria aveva il ruolo di protagonista in uno spettacolo teatrale all’Orpheum Theatre. La mossa immediatamente successiva era stata quella di chiamare Pepper – buttandola giù dal letto – per chiederle di prenotargli un posto in prima fila alla prossima replica, richiesta a cui la donna aveva acconsentito, salvo poi guardare con perplessità la cornetta ormai muta.
Il resto della notte Tony l’aveva passata a sfogliare pagine su pagine che la riguardavano, immagini di lei, commenti sui suoi ruoli, irritandosi per le recensioni negative e provando un segreto compiacimento per quelle positive.
Poi, con la testa leggera per la mancanza di sonno, era andato direttamente in ufficio. Il pensiero di Victoria era scivolato in un angolo della mente, ma pronto ad affiorare in qualsiasi momento, come quando aveva visto che Bambi, la segretaria che piantonava l’ingresso del suo ufficio, indossava un tailleur verde e l’aveva paragonato al colore degli occhi di Victoria.
A metà mattina qualcuno aveva bussato alla porta. Era Pepper.
«Volevo avvisarla che le ho prenotato un posto in prima fila per il prossimo venerdì all’Orpheum».
Tony l’aveva ringraziata, sorvolando sulla sua espressione stupita. La donna stava uscendo quando lui l’aveva richiamata indietro. Aveva preso un biglietto dal cassetto, aveva scribacchiato qualcosa e l’aveva messo nella sua busta, porgendoglielo.
«Per favore, si assicuri che quella sera vengano recapitate ventiquattro rose rosse a stelo lungo alla signorina Victoria Johnson, al termine dello spettacolo».
«Certo, Tony». Pepper non aveva commentato, ma la cosa le sembrava parecchio strana. Tony Stark che mandava fiori ad una donna? E quando mai ne aveva avuto bisogno? Tony Stark schioccava le dita e le donne cadevano letteralmente ai suoi piedi. Comunque aveva preso il biglietto e aveva fatto quanto le aveva richiesto.
Nel frattempo Tony aveva sbirciato la sua agenda, chiedendo a Bambi di annullare tutti gli impegni per il pomeriggio e la serata di venerdì.
Lo spettacolo era una commedia brillante e piena di ironia in cui Victoria interpretava una giovane nuora alle prese con un’insopportabile suocera. Certo, non era nello stile di Tony, ma lui l’aveva apprezzata, gustandosi soprattutto la presenza di Victoria sul palco.
Terminato l’ultimo atto, sapeva che le sue rose erano state ormai recapitate e si era disposto ad attendere. E lei era arrivata: indossava ancora l’abito di scena ed era tenera come un pasticcino. Eppure il rossore sulle guance non era dovuto al trucco e lo scintillio degli occhi non era un effetto delle luci: sembrava veramente felice di vederlo, come se non se lo fosse aspettato, ma ci avesse sperato.
Le aveva fatto i complimenti, sinceri complimenti, per il suo lavoro e poi, improvvisamente, aveva lanciato l’amo.
«Le andrebbe di venire a cena con me?»
«Certo» aveva risposto. Insomma, aveva mandato giù esca, amo e un buon tratto di lenza. Era sua, ormai.
Mentre aspettava che si cambiasse aveva chiamato personalmente il Madeo. Alfio riusciva sempre a liberargli un posto quando era a Los Angeles e anche stavolta non l’aveva deluso.
Quando lei era tornata, indossava un corto abito di svolazzante chiffon, dallo scollo asimmetrico. Era stretto in vita ed evidenziava il suo bel fisico. Il colore era un bellissimo verde acerbo che s’intonava perfettamente con gli occhi e i capelli.
Lui la stava aspettando accanto alla Rolls. Le aveva aperto la portiera e l’aveva fatta salire.
«Happy, al Madeo, per favore», aveva ordinato.
Seduti sul sedile posteriore avevano discusso dello spettacolo e, arrivati al ristorante, Happy aveva aperto la portiera perché scendessero.
«Mio caro Tony, bentornato!» aveva esclamato Alfio in italiano appena entrati nel locale.
Tony l’aveva salutato e aveva chiesto un tavolo appartato, rifiutando poi i menu.
«Il meglio che hai, Alfio. Come sempre» aveva detto, sempre in italiano.
Non aveva prestato attenzione alla cena, più concentrato sulla donna che gli sedeva davanti. La voleva, ma vedeva che resisteva. Era timorosa come una cerbiatta che fiuta il cacciatore. Di certo lo conosceva e aveva ben chiara in mente la sua fama di dongiovanni e pensava di riuscire a resistergli.
Tony non aveva mai dovuto faticare per ottenere ciò che voleva dalle donne. Ma doveva ammettere che Victoria era stata interessante da subito proprio perché l’aveva respinto o quantomeno non aveva reagito come le altre.
E così Tony aveva scatenato tutte le sue armi con lei. Le donne le conosceva bene e sapeva che sotto sotto, anche Victoria non era differente dalle altre. L’aveva assediata come un agguerrito giocatore di scacchi, muovendosi con decisione sulla scacchiera di quell’incontro, abbattendo una ad una tutte le sue difese, notando che era affascinata da lui.
Mentre gustava il dolce, si era accorto che ormai poteva portarla ovunque volesse e aveva sogghignato dentro di sé. Lo sapevo che non potevi resistermi.
Una volta pagato il conto del ristorante, erano tornati a bordo della Rolls. Lui si era informato con garbo su dove abitasse e aveva dato a Happy le istruzioni necessarie. Victoria divideva un piccolo appartamento con una collega attrice che, come si era affrettata a specificare, non era in casa quella sera.
Arrivati davanti al suo palazzo, mentre Happy scendeva per aprirle la portiera, Tony le aveva baciato la mano. «Buonanotte, Victoria» aveva detto semplicemente.
Aveva visto perplessità e confusione dipingersi sul suo volto.
Eh no, tesoro, aveva pensato lui. Adesso si fa a modo mio.
Perché a quel punto lei si aspettava che lui le facesse capire che voleva salire e sarebbe stata ben lieta di accoglierlo nel suo appartamento. Ma in realtà non era pronta per lui e lui voleva che lo fosse. Voleva che stavolta fosse diverso.
Lei era quindi scesa dall’auto e lui se n’era andato. I vetri della Rolls erano oscurati perciò aveva potuto girarsi a guardarla e, a distanza di anni, Tony ricordava benissimo la delusione dipinta negli occhi verdi di Victoria.
Sospirò, ritornando al presente. Guardando dietro di sé si accorgeva che prima di Victoria non aveva avuto nulla. E proprio ora che si era sposato, che stava per diventare padre, ora che il suo futuro aveva una direzione, che era vicino ad avere tutto, ecco che quel futuro gli faceva paura. E per lui era una sensazione piuttosto nuova. L’aveva provata una volta soltanto in vita sua: quando era stato imprigionato in Afghanistan.
«Non riesci a dormire?» sussurrò a un tratto Victoria e lui sussultò. Non aveva notato che la donna si era svegliata. «Preoccupato per domani?» chiese, coprendo la sua mano, ancora appoggiata sul pancione, con la propria.
«No» mentì. Doveva allontanarsi da lei perché sapeva leggerlo come un libro aperto e lui non poteva permettere che capisse. «Torna a dormire» sussurrò. Si sollevò su un gomito, la baciò delicatamente sulle labbra e si alzò, diretto in bagno.
Si guardò nel grande specchio, cercando sul suo viso segni di quel corpo che lo stava tradendo. Non ne trovò e pensò che forse si era sbagliato, che magari la situazione non era così nera. Ma quando sollevò la maglietta che indossava, la verità lo colpì con la forza di un maglio. Non aveva bisogno dello scanner per capire che il livello di tossicità del suo sangue era aumentato ancora.
Abbassò la maglia e piantò i pugni sul piano del lavandino, abbassando la testa.
«L’ho già quasi persa una volta» mormorò. «Ti prego, non portarmela via di nuovo».
Non sapeva se esisteva un Dio, né se avesse tempo e voglia di ascoltare le preghiere di un miscredente come lui. Ma sentiva che era l’unico a cui potesse rivolgersi. Perché le stava provando tutte ma non trovava soluzione e se non ci riusciva lui, il genio a capo dell’impero Stark, nessun altro poteva aiutarlo.
«Almeno permettimi di vedere mia figlia, non chiedo altro. Poi potrai fare ciò che devi».
Nessuno gli rispose, sicché spense la luce e tornò a letto. Victoria, già in dormiveglia, gli si rannicchiò addosso non appena lui si fu coricato e Tony la strinse tra le braccia ascoltando il suo respiro farsi lento e profondo. Ma per lui, la benedizione del sonno non arrivò che diverse ore più tardi, quando già l’alba disegnava un grigio merletto nel cielo di Washington.

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Capitolo 3
*** Io sono Ironman ***


Ecco una delle scene più belle di Ironman2: Tony Stark davanti alla Commissione del Senato.
Nella mia versione, il tutto è filtrato attraverso gli occhi di sua moglie Victoria.
I dialoghi, come riconoscerete, sono presi dal film.
Buona lettura!


«Signor Stark! Possiamo riprendere da dove eravamo rimasti?»
Né la voce del senatore Stern né il suo continuo battere con il martelletto scalfirono Tony che stava girato verso Victoria discutendo con lei su dove voleva andare a cena quella sera.
«Tony, dovresti prestare attenzione al senatore» provò Victoria, ma lui la ignorò.
«Penso che potremmo andare al Palm Restaurant, che dici? Hanno le migliori aragoste della Nuova Scozia. O anche all’Acadiana, se preferisci».
«Signor Stark, la prego!»
«Tony, per favore» lo pregò Victoria. «Girati e rispondigli, ti stai comportando come un bambino».
Lui le strizzò l’occhio e ruotò sulla sedia.
«Sì, tesoro?» disse nel microfono, rivolto a Stern. A Victoria non sfuggì il tic nervoso all’angolo dell’occhio del senatore. Il comportamento che Tony aveva tenuto fino a quel momento doveva averlo irritato e la donna non faceva fatica a crederlo.
«Posso avere la sua attenzione?» sibilò tra i denti.
«Assolutamente» rispose Tony in tono affabile, come se non avesse passato gli ultimi cinque minuti a ignorarlo nel modo più assoluto.
«Lei è o non è in possesso di qualche arma particolare?» domandò Stern, andando dritto al nocciolo della questione.
«Non ce l’ho» rispose tranquillamente Tony.
«Non ce l’ha?»
«Non ce l’ho» ripeté Tony. «Beh, dipende dalla definizione della parola arma» aggiunse poi.
«L’arma Ironman» spiegò Stern.
«Il mio congegno non combacia con quella descrizione» ribatté Tony.
«Allora come lo descriverebbe lei questo congegno?» domandò Stern, sollevandosi un po’ dal suo scranno.
«Io lo descriverei definendolo per quello che è, senatore». La voce di Tony era calma e controllata ma il tono era quello di qualcuno che sta spiegando qualcosa di elementare ad un ragazzino un po’ stupido.
«Sarebbe?»
«Sarebbe… una protesi ad alta tecnologia». La folla che stava attorno a Victoria rise. «Questa è la descrizione più idonea che io le possa fornire» concluse, lanciando un veloce sguardo dietro di sé.
«È un’arma. È un’arma, signor Stark. Mi dispiace informarla di ciò, ma è un’arma».
«La prego, se la sua priorità fosse veramente il benessere dei cittadini americani» cominciò Tony, tendendosi sul tavolo, ma Stern non lo fece proseguire.
«No, la mia priorità è quella di far consegnare l’arma Ironman al popolo degli Stati Uniti d’America».
«Beh, se lo può scordare» disse deciso, raddrizzandosi. «Io sono Ironman». I fotografi appostati davanti al banco della commissione spararono una raffica di flash. «L’armatura e io siamo un tutt’uno. Consegnare l’armatura vorrebbe dire consegnare me stesso e questo equivarrebbe ad un contratto di schiavitù o di prostituzione, a seconda delle circostanze». Il pubblico intorno a Victoria ridacchiò divertito. «Non può averla» concluse Tony.
«Senta, io non sono un esperto…» cominciò Stern, ma stavolta fu Tony ad interromperlo.
«Di prostituzione no di certo. Lei è un senatore. Siamo seri!» esclamò, battendo la mano sul tavolo.
Il pubblico rise di nuovo e Tony si voltò, sollevando una mano e allargando le dita nel segno della vittoria. Pepper e Victoria scossero la testa all’unisono, disapprovando quel comportamento.
«No?» sussurrò Tony fissando lo sguardo su Victoria.
«Che cosa combini, Stark?» chiese la donna, infastidita da quel comportamento infantile.
«Non sono un esperto di armi» replicò Stern attirando nuovamente l’attenzione del pubblico, «però abbiamo qui una persona che sicuramente lo è. Vorrei chiamare Justin Hammer, il nostro principale produttore di armi militari».
Justin Hammer si avvicinò al tavolo posando su di esso una ventiquattr’ore nera. Era il presidente delle Hammer Industries, l’azienda che aveva rilevato il contratto della Stark per la fornitura degli armamenti allo Stato. In teoria, il contratto avrebbe dovuto passare alla Ascam Limited ma dopo il tracollo mentale di Christopher Roberts, la società navigava in acque non troppo tranquille e lo Stato si era rivolto proprio ad Hammer.
Indossava un completo grigio con tanto di panciotto, camicia bianca e cravatta Regimental blu. Mentre sedeva alla scrivania, Tony avvicinò la bocca al microfono.
«Chiedo che sia messo a verbale che, mentre osservavo il signor Hammer entrare in quest’aula, mi sono domandato se e quando un vero esperto sarebbe stato chiamato a deporre».
Il pubblico rumoreggiò, divertito dalla battuta. Ma Victoria la lesse per quello che era: un tentativo di difesa. Tony reagiva in quel modo quando si sentiva minacciato da qualcosa, nascondendosi dietro la propria naturale impertinenza e accentuando gli atteggiamenti insolenti.
Non che gli capitasse spesso, in verità. Ma per Victoria non era difficile scorgere la tensione di cui era preda nel modo in cui era seduto e nell’irrigidimento delle spalle e della schiena.
Hammer accolse la battuta con un sorriso tirato, sollevando il bicchiere che aveva davanti e prendendo un sorso d’acqua. Poi attirò verso di sé il microfono.
«Senz’altro» ridacchiò. «Io non sono un esperto, a differenza di te, Anthony. Il ragazzo delle meraviglie». Poi si rivolse al senatore. «Senatore, con permesso» disse e si alzò.
«Può anche darsi che io non sia un esperto, ma sa chi era il vero esperto? Tuo padre» disse rivolgendosi a Tony «Howard Stark. Un padre per tutti noi e per l’era industriale militare».
Victoria registrò il gesto di stizza di Tony quando Justin nominò suo padre.
«Ma lui non era un figlio dei fiori, sia ben chiaro» proseguì Hammer come se non l’avesse notato. «Lui era un leone».
Il senatore Stern posò lo sguardo su Tony e lasciò che Hammer proseguisse.
«Sappiamo perché siamo qui: negli ultimi sei mesi, Anthony Stark ha creato un’arma con incommensurabili possibilità. Eppure lui insiste che è solo uno scudo, e pretende la fiducia più completa mentre noi ci accucciamo dietro».
Tony si appoggiò allo schienale della sua poltrona, continuando a guardare Justin che proseguì.
«Vorrei che questo mi confortasse, Anthony, dico davvero. Vorrei non chiudere la porta a chiave quando esco da casa. Ma non siamo in Canada. Noi viviamo in un mondo di gravi minacce, minacce che il signor Stark non sarà sempre in grado di prevedere».
Tony scosse impercettibilmente il capo, fissando il senatore Stern.
Hammer ringraziò e fece per tornare al proprio posto. Poi, quasi per un ripensamento, alzò di nuovo il microfono.
«Dio benedica Ironman, Dio benedica l’America».
Ci furono applausi stentati e Victoria notò che i più entusiastici erano quelli del senatore Stern.
«Ho apprezzato il suo intervento, signor Hammer» commentò, mentre Tony continuava a fissarlo, immobile. «A questo punto la commissione invita il tenente colonnello James Rhodes ad entrare in aula» disse poi e Tony si rianimò.
«Rhodey? Davvero?» borbottò nel microfono, girandosi poi per osservare Rhodes che stava entrando, sfiorando Victoria con uno sguardo in cui lei vide sorpresa e fastidio.
Rhodes entrò, vestito con l’uniforme blu e Tony si alzò, andandogli incontro.
«Rhodey» esclamò, sorpreso. «Ehi, amico! Non mi aspettavo di vederti qui».
Victoria intuì che era contrariato. Lui e James erano amici da tempo, ma ora Tony non sapeva in che veste Rhodes era entrato in aula. Dove si sarebbe seduto? Al tavolo dell’accusa o a quello della difesa?
«Senti, sono io e sono qui. Fattene una ragione», rispose Rhodes. Una tale risposta non era da lui, ma forse era solo teso. Sicuramente non era felice di trovarsi lì.
Tony borbottò qualcosa e, insieme a Rhodes, tornò al tavolo, accomodandosi sulla poltrona imbottita. Rhodey sedette in mezzo tra lui e Hammer.
«Ho qui davanti a me un rapporto completo sull’arma Ironman redatto dal tenente colonnello Rhodes» disse Stern quando si furono accomodati. «Colonnello, perché sia messo a verbale, potrebbe leggere a pagina cinquantasette, paragrafo quattro?»
«Mi chiede di leggere specifici stralci del mio rapporto, senatore?» chiese Rhodes. Sembrava perplesso di fronte alla richiesta di Stern.
«Sì, signore» confermò l’altro.
«Avevo capito che avrei testimoniato in una maniera molto più ampia e dettagliata».
Tony assisteva allo scambio in silenzio, muovendo la testa tra l’uno e l’altro come se stesse seguendo una partita di tennis.
«Mi rendo conto» affermò Stern. «Ma sono cambiate molte cose oggi». Un sorriso strafottente gli increspava le labbra. Victoria non sapeva cosa ci fosse a pagina cinquantasette del rapporto di Rhodes, ma intuì che doveva essere l’asso nella manica del senatore.
«Lei capisce che leggere un paragrafo estratto dal contesto non riflette il riassunto delle mie conclusioni» provò ad obiettare Rhodes, in evidente disagio.
«Legga, colonnello» ordinò il senatore. «Io capisco. Grazie».
«Molto bene» borbottò Rhodes, anche se non sembrava convinto. Comunque aprì il suo rapporto alla pagina richiesta e lesse, mentre Tony lo scrutava con attenzione.
«Visto che non opera all’interno di alcun definibile settore di governo, Ironman rappresenta una potenziale minaccia alla sicurezza e agli interessi di questa nazione».
Fu evidente che Rhodes aveva fatto violenza a se stesso per leggere quella frase e Victoria poteva solo immaginare il tumulto che doveva agitare l’animo di Tony al sentire che il suo migliore amico lo aveva definito in quei termini.
Tony non mostrò tuttavia alcuna emozione e, prima che qualcuno potesse interromperlo, Rhodes proseguì: «Però continuo, ciononostante concludendo che i benefici di Ironman superano di gran lunga gli svantaggi». Stern cercò di imporgli silenzio, ma Rhodes proseguì imperterrito. «E che sarebbe nel nostro interesse includere il signor Stark nella nostra esistente linea gerarchica».
Tony si mosse e si avvicinò al microfono.
«Valuterò la carica di segretario della difesa a seguito di garbata richiesta». Il pubblico rise di nuovo e stavolta anche Victoria non poté trattenere un sorriso. «E modifica dell’orario di lavoro» concluse Tony.
Stern proseguì come se non avesse sentito, ma era palesemente seccato dal commento di Tony.
«Vorrei proseguire e mostrare, se possibile, le immagini che sono associate al suo rapporto».
Rhodes obiettò di nuovo. «Ritengo che sia alquanto prematuro rendere le immagini pubbliche in questo momento» ma il senatore lo interruppe.
«Con tutto il dovuto rispetto, colonnello, io la capisco. Le chiedo solo di raccontarcele. Noi gliene saremmo molto grati».
Rhodes si mosse inquieto sulla sedia. Poi sospirò e fece un cenno con la mano verso il maxischermo che era piazzato nell’angolo sinistro della sala. Nell’angolo destro c’era un secondo schermo gemello.
«Vediamo le immagini» mormorò.
Sugli schermi apparve una veduta satellitare di un complesso di edifici. Non c’era indicazione geografica ma ciò che Victoria notò subito era che una parte era stata evidenziata e ingrandita. Una piccola freccia gialla indicava quello che ad una prima occhiata le parve nient’altro che un piccolo puntino bicolore.
«L’intelligence suggerisce che i congegni rilevati nelle foto siano di fatto esperimenti per realizzare copie azionate dall’uomo dell’armatura del signor Stark».
Mentre parlava, le immagini cambiarono. Apparve un’altra immagine satellitare. Stavolta era più chiara e la freccia indicava una sagoma umanoide che, per quanto diversa da Ironman, sembrava proprio una qualche specie di armatura anche agli occhi poco tecnici di Victoria.
La donna lanciò un’occhiata a Tony. Stava guardando le immagini con interesse ma mentre lo osservava vide che prendeva il proprio cellulare – ma sarebbe stato più appropriato definirlo un potente microcomputer – dalla tasca interna della giacca. Si stravaccò sulla poltrona, gettando con noncuranza una gamba sul bracciolo e, mentre James proseguiva nel racconto, cominciò a digitare qualcosa sullo schermo touch dell’apparecchio. La donna diede di gomito a Pepper, seduta accanto a lei, e indicò il marito con un veloce cenno del capo.
«Questo è stato avvalorato» stava dicendo Rhodey «dai nostri alleati e dalle intelligence locali, le quali suppongono che le armature possano essere al momento, e con grande probabilità, operative».
Aveva appena finito di parlare che Tony si mosse, protendendosi verso lo schermo.
«Aspetta, fammi un po’ vedere» disse, alzando il computer in modo da tenerlo tra sé e il maxischermo di sinistra. Diede un paio di colpetti al suo smartphone con la punta del dito.
«C’è qualcosa qui» mormorò, mentre sullo schermo apparivano un paio di finestre nere piene di scritte. L’unica scritta che tutti riuscirono a cogliere era un “Welcome, Mr. Stark” a caratteri cubitali. «Accidenti, sono bravo» disse quasi fra sé, ma in modo che tutti potessero sentire.
«Sto comandando i vostri schermi» esclamò, girandosi per compiere la stessa operazione sullo schermo di destra che propose le stesse schermate. «Mi servono» concluse.
«Tony» mormorò James.
«No, è per avere un po’ di trasparenza».
«Non è il momento» incalzò l’amico, ma Tony lo ignorò.
«Vediamo che succede veramente» dichiarò, mentre il senatore Stern si raddrizzava sulla propria sedia, chiedendosi cosa stesse facendo Tony.
Tony posò il piccolo computer sul tavolo, davanti a sé.
«Vi chiedo» disse, rivolto più al pubblico che affollava l’aula che ai membri della commissione davanti a lui «di indirizzare la vostra attenzione verso lo schermo. Credo che quella sia la Corea del Nord» annunciò, digitando alcuni comandi.
Lo schermo rimandò un’immagine in bianco e nero di quella che era chiaramente un’armatura, anche se molto diversa da quella che Victoria era abituata a vedere addosso a Tony o nel garage di villa Stark.
L’armatura si mosse e uscì da quello che sembrava un hangar ma inciampò e cadde rovinosamente al suolo. Nella caduta le armi montate sulle braccia iniziarono a sparare.
Alcuni in sala si alzarono in piedi per osservare meglio ma Victoria stava osservando il senatore Stern il cui viso appariva livido di rabbia.
«È possibile spegnere, per favore?» sbraitò, mentre l’armatura nel filmato continuava a sparare fino a colpire qualcuno i cui schizzi di sangue finirono sull’obiettivo della telecamera. Victoria abbassò in fretta il capo, infastidita da quello spettacolo violento.
Stern si alzò in piedi. «Possiamo spegnere quell’affare?» domandò di nuovo e Hammer si alzò in piedi. «Spegniamolo» ordinò.
Tony intanto si voltò verso destra, imitato dal resto della sala.
«Iran» disse semplicemente, usando ancora il computer.
Hammer si piazzò davanti allo schermo armeggiando con gli apparecchi video per cercare di spegnerli mentre sui monitor passavano immagini di un’armatura volante che, fuori controllo, finiva per schiantarsi sull’operatore.
«Nessuna seria, immediata minaccia qui» rilevò Tony. «Quello è Justin Hammer?» proruppe poi, attirando l’attenzione sugli schermi che ancora funzionavano. «Che c’entra Hammer in questa storia?» si chiese retoricamente.
Il senatore Stern ora era davvero costernato.
«Justin, sei in TV, sta attento» mormorò Tony, assaporando quella che, ormai era chiaro, si stava tramutando in una vittoria.
Nell’aula, Justin stava ancora tentando di interrompere la trasmissione mentre sullo schermo era accanto ad un’armatura. Questa aveva fattezze più umane e ricordava abbastanza quella di Tony. Hammer stava impartendo dei comandi che l’armatura replicava finché ebbe uno scatto improvviso verso destra e rimase bloccata, mentre l’uomo all’interno di essa gridava di dolore.
Finalmente Justin trovò la spina di alimentazione e la staccò con rabbia, oscurando gli schermi.
«Wow» commentò Tony. «Sì, direi molti Paesi sono cinque o dieci anni indietro. Le Hammer Industries, venti!».
Il sarcasmo era evidente nel suo tono. Hammer tornò al proprio posto e afferrò il microfono.
«Vorrei sottolineare che quel collaudatore è sopravvissuto» disse velocemente, mentre Stern si alzava in piedi.
«Abbiamo concluso» strepitò rivolto a Tony «non capisco dove voglia arrivare, non credo che…» ma Tony non lo lasciò finire.
«Voglio arrivare a dire “prego”, immagino».
«Per cosa?» domandò il senatore, l’indignazione ora più evidente nel tono.
«Per essere il vostro deterrente nucleare» spiegò Tony. «Sta funzionando. Siamo al sicuro, l’America è al sicuro. Volete le mie attrezzature? Non potete averle, ma io vi ho fatto un grande favore» disse con enfasi.
Si mise in piedi, voltandosi verso il pubblico e allargando le braccia. «Ho privatizzato la pace nel mondo con successo» esclamò e il pubblico si alzò spontaneamente e iniziò ad applaudire.
«Che cosa volete di più, per adesso?» gridò Tony, mentre la gente continuava a battergli le mani. «Cerco di collaborare con questi pagliacci rintontiti» proseguì, girandosi e indicando Stern e il resto della commissione.
A quel punto, Stern non resistette più: «Lei è uno stronzo, signor Stark» sbottò. «Uno stronzo davvero, mi creda».
Tony fece un cenno noncurante con la mano, raccolse i suoi occhiali da sole dal piano del tavolo e li infilò, mentre il senatore annunciava che la seduta era sospesa.
Tony gli rivolse un ok con il pollice alzato e Stern lo guardò con astio. «Lei è stato una delizia» borbottò rivolto a Stark che lo salutò mandandogli due baci e si voltò di nuovo, prendendo per mano Victoria e avviandosi per uscire dalla sala, stringendo le mani che gli venivano tese.
«Vedete?» disse, rivolto alle telecamere che lo seguivano «La gente mi ama. E io servirò questa grande nazione completamente e interamente a mio piacere, perché se c’è una cosa che ho dimostrato è che si deve contare su di me, per appagare me stesso».
Trascinò delicatamente Victoria fuori di lì senza fermarsi né rivolgere più la parola ad alcuno. Happy e Gary aspettavano fuori dalla sala e li seguirono all’esterno dove Brian attendeva con la Rolls. Ignorando i microfoni dei giornalisti protesi verso di lui, Tony sospinse la moglie in macchina e salì con lei. Quando anche Pepper e le guardie del corpo furono a bordo, partirono e Tony diede ordine di portarli al Palm Restaurant.
«Mi è venuta una gran voglia di aragosta. Tu che dici, cara?» chiese a Victoria che scosse la testa sorridendo, incapace di proferire parola di fronte a tanta sfrontatezza.

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Capitolo 4
*** Questo è parlare come una vera Stark! ***


La nascita della piccola Stark si avvicina e Tony è ancora lontano dal risolvere i propri problemi.
Riuscirà a nasconderli a sua moglie ancora per molto?
Grazie a chi ha apprezzato il mio lavoro fin qui e a chi vorrà farmi sapere cosa pensa di questa storia.
Buona lettura!


Victoria era distesa supina sul tappetino, le ginocchia flesse e i piedi saldamente piantati per terra. Inarcò lentamente la schiena, sollevando il bacino. Mantenne la posizione per alcuni secondi poi, altrettanto lentamente, tornò nella posizione iniziale, espirando.
«Ancora due, tesoro» disse Jordan, il suo personal trainer.
La donna eseguì, poi si distese completamente, rilassando i muscoli.
«Abbiamo finito per oggi» annunciò Jordan e la aiutò ad alzarsi. La sostenne mentre recuperava l’equilibrio – il pancione cominciava ad essere piuttosto ingombrante – e quando lei annuì, la lasciò.
«Ci vediamo domani?» chiese lei e il ragazzo annuì.
Victoria fece una doccia veloce e indossò un corto abito premaman di colore rosa. Poi raggiunse il salotto, sedette sul divano con le gambe ripiegate sotto di sé e il PC portatile in equilibrio sul bracciolo e aprì il programma di videoscrittura, dedicandosi a scrivere.
Trascorse un’ora senza che lei se ne rendesse conto finché, ad un tratto, Pepper irruppe in salotto.
«Dov’è tuo marito?» sbottò e Victoria trasalì: Pepper sembrava davvero arrabbiata.
«Cos’ha combinato stavolta?» chiese, come se stesse parlando di un bambino che ha combinato qualche guaio.
«Ha dato la via l’intera collezione di arte moderna. Tutta! Ti rendi conto?»
Victoria non era appassionata di arte. Certo, apprezzava i quadri e le opere disseminate per la villa, ma l’arte moderna non era proprio il suo campo quindi non afferrava il disagio di Pepper.
«E sai qual è la cosa buffa?» proseguì l’amica e Victoria scosse la testa. «Che l’ha data ai Boyscout d’America!».
Victoria soffocò una risatina.
«Dov’è?» chiese di nuovo Pepper in tono bellicoso.
«Nel seminterrato, ad armeggiare con chissà che» rispose Victoria e Pepper girò sui tacchi e infilò la scala per scendere.
La donna ridacchiò divertita, lieta che il seminterrato fosse completamente insonorizzato: di certo lo scontro sarebbe stato acceso e rumoroso. E si rituffò nel proprio lavoro.
Rialzò la testa quando sentì qualcuno salire la scala. Pepper comparve sulla sommità e Victoria sorrise.
«Allora? Com’è andata?» domandò, ma Pepper parve non udirla.
«È impazzito» mormorò invece, talmente piano che Victoria pensò di aver capito male.
«Pep? Tutto bene?» chiese, notando in quel momento l’espressione assente dell’amica. Pepper non rispose e Victoria mise giù il portatile e si alzò, raggiungendola proprio mentre Tony saliva dal piano inferiore.
«Ma che è successo laggiù?» s’informò la donna, girando lo sguardo su di lui.
Per tutta risposta Tony l’affiancò e le cinse la vita con un braccio.
«Amore, ti presento il nuovo presidente e amministratore delegato delle Stark Industries» disse con un sorriso, facendo un cenno verso Pepper. Victoria inarcò le sopracciglia.
«Scusa, ma non sei tu il presidente?»
Lui scosse la testa. «Non più» esclamò allegramente. «Ho appena conferito entrambe le cariche a Pepper. Non è meraviglioso?»
Pepper alzò la testa e sembrò accorgersi di loro solo in quel momento. Sorrise.
Victoria era perplessa. Non capiva bene cosa fosse successo, ma c’era qualcosa di strano nell’aria. L’entusiasmo che stava dimostrando Tony aveva una nota falsa come un cattivo odore nascosto sotto un costoso Chanel N° 5. Non sapeva spiegarsi il perché di quella decisione: la società era la sua vita e non capiva perché avesse deciso di cederla a Pepper. In quel momento poi, con la Stark Expo appena avviata. Si ripromise di chiarire la cosa con Tony.
«Congratulazioni» esclamò Victoria, abbracciando Pepper che ricambiò timorosa. Era davvero scossa.
«Signora, una chiamata per lei» annunciò Jarvis.
«Chiunque sia, dì che richiami» ordinò Tony. «Siamo impegnati».
«Ma non se ne parla neanche!» insorse Victoria. «La telefonata è per me, tu non hai voce in capitolo» disse, rivolta a Tony. «Chi è Jarvis?» chiese poi.
«La signora Collins della Simon & Schuster» riferì Jarvis.
Il cuore della donna accelerò bruscamente.
«Simon & Schuster?» domandò incredulo Tony. «La casa editrice di New York? E cosa vogliono da te?»
«Sul mio cellulare, Jarvis, per favore» ordinò Victoria, recuperandolo dal tavolino su cui era posato.
«Subito, signora» rispose il maggiordomo virtuale, deviando la chiamata sul cellulare di Victoria.
«Pronto?»
«La signora Johnson?» domandò una voce dall’altro capo.
«Sì, sono io».
«Buongiorno, sono Ashley Collins, della casa editrice Simon & Schuster» si presentò. Dalla voce sembra piuttosto giovane, forse della sua stessa età. «Abbiamo ricevuto il suo romanzo e ne siamo rimasti positivamente colpiti. È molto buono, davvero».
Victoria arrossì, fenomeno raro per lei.
«Pensavamo di fare quattro chiacchiere di persona con lei a questo proposito» disse la Collins e Victoria storse la bocca in una smorfia. La sede dell’editore era a New York ed era spaventata all’idea di affrontare di nuovo la trasvolata degli Stati Uniti. Anche se non aveva detto nulla a Tony, il viaggio precedente verso la Expo l’aveva stancata parecchio e doveva pensare alla creatura che portava in grembo.
«Sarebbe interessante» replicò Victoria «ma io sono al settimo mese di gravidanza e mi risulterebbe scomodo venire a New York».
«Oh, mi scusi. Non le ho detto che in questo momento la sto contattando dal nostro ufficio di Los Angeles» la informò Ashley.
«Beh, questo cambia tutto».
«Se per lei è un problema venire a Los Angeles, posso tranquillamente raggiungerla a Malibu» si offrì la donna, ma Victoria declinò l’offerta.
«Non è necessario, ma la ringrazio. Quando pensa che potremmo incontrarci?»
«È libera domani pomeriggio?»
Victoria era tentata di chiedere a Tony di darle un pizzicotto: non poteva credere che tutto si stesse realizzando in così breve tempo.
«Assolutamente».
«Molto bene. La aspetto alla sede alle cinque del pomeriggio, ok?»
Victoria accettò l’appuntamento. Ashley le diede l’indirizzo dell’ufficio e la salutò. La donna riattaccò e posò il cellulare. Poi sedette lentamente sul divano, mentre Pepper e Tony la fissavano curiosi.
«Allora?» domandò alla fine suo marito. «Si può sapere cosa volevano da te?»
«Gli piace ciò che ho scritto» sussurrò Victoria.
Tony si inginocchiò davanti a lei. «È meglio se ci spieghi tutto dall’inizio».
Così Victoria raccontò che aveva inviato il suo romanzo ad un paio di editori, tra cui la Simon & Schuster, tanto per vedere se succedeva qualcosa.
«Ma quando l’hai finito? Non mi hai detto nulla» protestò Tony.
«Mi dispiace. Ma se te ne avessi parlato, avresti insistito per metterci il tuo zampino e io volevo fare tutto da sola. Non volevo approfittare del cognome Stark» confessò, abbassando lo sguardo.
«Tesoro, ma ormai tu sei una Stark» rilevò lui e la donna annuì.
«Sì, e sono fiera di esserlo. Ma volevo che quegli editori leggessero un romanzo scritto da Victoria Johnson, moglie di Tony Stark, non da Victoria Stark. Capisci?»
Lui sorrise, lo sguardo carico di tenerezza e ammirazione. «Sì, lo capisco» disse. «Ma non ho ancora deciso se perdonarti per averlo fatto leggere agli editori prima di me» borbottò poi, in tono fintamente indignato. Poi si volse verso Pepper: «Direi che abbiamo parecchio da festeggiare stasera» esclamò.
Pepper rimase a cena con loro, sicché Victoria non ebbe la possibilità di parlare con Tony. Ma quando si ritirò nel proprio appartamento, i due salirono in camera da letto. Scivolarono sotto le lenzuola e Victoria si avvicinò al marito che, al buio, la strinse a sé.
«Mi dispiace di non averti detto del romanzo» mormorò.
Lui le baciò la testa. «Non preoccuparti. Le tue motivazioni sono pienamente condivisibili. Capisco che il mio nome possa essere, come dire, ingombrante. Certo, mi sarebbe piaciuto che ne avessimo parlato insieme».
«Le motivazioni che ti hanno spinto a rinunciare alla presidenza della Stark, invece, sono piuttosto nebulose e anch’io avrei preferito che ne parlassimo, prima». Avvertì distintamente la sottile tensione che attraversava il suo corpo.
«Sono dieci anni che Pepper è la mia assistente personale, è qualificata quanto me per portare avanti le Stark Industries. Anzi, forse più di me» replicò, ma a Victoria non sfuggì che aveva evitato la questione.
«Francamente non capisco, Tony. Perché proprio ora, con la Expo appena avviata? Pensavo che la compagnia di tuo padre fosse la tua vita».
Lui si mosse, girandosi sul fianco e avvicinando il viso a quello di lei. «Sei tu la mia vita, Vicky» sussurrò, la voce morbida come una colata di miele. E la baciò.
La dolcezza di quel bacio le fece dimenticare all’istante ogni questione e rispose con trasporto, cercando di ricordarsi di respirare. Quando, dopo quella che le parve un’eternità, Tony interruppe quel momento di beatitudine, lei tenne gli occhi chiusi.
«È illegale, sai?»
«Che cosa?» chiese lui.
«Incantare una giovane donna, incinta tra l’altro, in questo modo».
Lui sogghignò e fece per scostarsi, ma Victoria lo trattenne contro di sé.
«Un po’ di luce, Jarvis» ordinò e il computer eseguì. Una tenue luce si diffuse nella stanza e Victoria guardò suo marito. Tony era uno degli uomini più belli che avesse visto. Le linee e i piani del suo viso, che lei conosceva così bene, erano puri e senza difetti ma l’impressione che se ne ricavava non era certo quella di una bellezza infantile. Tony era un uomo vero ed era questo che l’aveva affascinata sin dal primo momento.
Lo fissò negli occhi nocciola e lo desiderò esattamente come la prima volta. Lo attirò a sé, riprendendo a baciarlo, ma stavolta l’atmosfera si scaldò subito. Tony l’accarezzò, scendendo con la mano e infilandola sotto la camicia da notte, sfiorando il ventre e fermandosi sul seno che si era già ingrossato a causa della gravidanza.
«Fa l’amore con me, Tony» sussurrò lei e il desiderio gli inondò le vene, esplodendogli nel cervello come una supernova. Ma quando Victoria, desiderosa del contatto con la sua pelle, infilò le mani sotto la sua maglietta per togliergliela, si irrigidì e si scostò. Non si mostrava a torso nudo da quando aveva scoperto quei segni sul suo petto.
A causa della gravidanza, la loro vita intima si era modificata quindi, fino a quel momento, non aveva avuto difficoltà. Ma non poteva permettere che lei lo vedesse e chiedesse spiegazioni di quei segni violacei che si dipanavano a partire da quel piccolo cerchio di luce al centro del petto.
«Jarvis, spegni la luce» comandò e la stanza si oscurò. L’unica luce era quella della luna al di là della grande vetrata che inargentò i lineamenti rilassati di Victoria. Prima che potesse chiedere spiegazioni circa la luce spenta – sapeva bene quanto Tony preferisse la luce accesa per poterla guardare mentre facevano l’amore – si abbassò di nuovo a baciarla, permettendole ora di togliergli la maglia.
Victoria lo trovò effettivamente strano ma quando Tony abbassò il capo, arrivando a lambire con la lingua il seno diventato così sensibile, non pensò più a niente. Stordita dalla passione che lui sapeva scatenare si abbandonò alla sua bocca e alle sue mani.
Fecero l’amore in modo languido e lento, indugiando nelle carezze e nei baci. Victoria era completamente persa in quelle sensazioni, incapace di mantenere la lucidità di fronte al suo romantico assalto.
Molto più tardi, quando ormai la luna aveva fatto un bel tratto del suo percorso nel cielo, quando i respiri e i cuori si calmarono, rimasero abbracciati sotto il lenzuolo a chiacchierare nel buio.
«Vuoi che venga a Los Angeles con te domani?» domandò Tony. «Tanto ormai sono disoccupato» ridacchiò.
«Vuoi fare il paparino che mi accompagna al colloquio?»
«Certo che no! Hai voluto arrangiarti? Ora andrai fino in fondo da sola» borbottò lui. «Io ti aspetterò in un bar in compagnia di un Vodka Martini».
Victoria sospirò, appagata e soddisfatta. «Posso chiederti una cosa, Tony?»
«Tutto ciò che vuoi».
«Pensi che sarei piaciuta ai tuoi genitori?»
Non avevano mai affrontato la cosa e Tony non parlava mai dei suoi. Anche in quel momento l’uomo rimase in silenzio, tanto che lei pensò di aver toccato un tasto dolente.
«Se gli saresti piaciuta? Ti avrebbero adorato, come minimo».
«Com’erano?» chiese, quasi timorosa di portare il discorso su quei binari.
Eppure Tony iniziò a parlare, dapprima con mozziconi di parole e poi sempre più spedito, con la classica parlantina che lo contraddistingueva e Victoria rimase ad ascoltarlo, incoraggiandolo con qualche domanda.
Le raccontò della sua infanzia, della figura di sua madre che il tempo aveva sfocato come se la guardasse attraverso un vetro appannato e di quella dai contorni più definiti di suo padre. Erano morti entrambi vent’anni prima in un tragico incidente d’auto, ma Howard era stato un uomo duro e severo che aveva inciso profondamente l’animo del piccolo Tony, rendendolo il ragazzo problematico che era stato ma contribuendo a forgiare l’uomo d’acciaio che era diventato.
Quando Victoria smise di rispondergli, Tony capì che si era addormentata. Si districò con delicatezza dal suo abbraccio e recuperò la maglietta che aveva gettato sul pavimento. Poi tornò a coricarsi e si assopì.
 
«Allora?» chiese Tony con impazienza non appena la vide entrare nel bar. «Com’è andata?»
Victoria si lanciò nel cerchio delle sue braccia e lui la fece piroettare. Il resto delle persone presenti li guardò con curiosità.
«La Simon & Schuster è interessata al mio romanzo!» esultò Victoria mentre Tony la posava a terra.
«Ah, mia moglie è una scrittrice!» esclamò Tony e poi attirò l’attenzione del barman. «Un altro giro, amico mio. E offro io tutte le consumazioni dei presenti!»
Gli altri avventori ridacchiarono, qualcuno applaudì.
«Raccontami tutto» disse Tony, facendola sedere accanto a sé.
Victoria gli raccontò di come la signora Collins gli avesse manifestato il grande apprezzamento per il suo lavoro. La casa editrice che rappresentava era ben decisa a stipulare un contratto con lei per la pubblicazione della sua prima storia. Secondo loro poteva benissimo diventare una serie di romanzi per ragazzi.
«È fantastico, tesoro» disse Tony, baciandole la guancia.
In quei giorni era ancora più bella del solito. Tony aveva capito cosa intendeva la gente quando diceva che le donne incinte emanavano una particolare radiosità. Il piccolo successo appena ottenuto (il primo di una lunga serie, ne era certo) aveva solo contribuito ad accenderle le guance di eccitazione, ma la donna emanava qualcosa da dentro di sé, qualcosa che la illuminava dall’interno, facendola letteralmente risplendere.
«Ho avuto l’impressione» proseguì Victoria «che fosse prima di tutto interessata al mio lavoro, anche se, ovviamente, c’è la volontà di accaparrarsi la prima opera della moglie di Tony Stark. Ma, se l’istinto non mi inganna, non è la loro prima motivazione».
«È quello che volevi, no?» chiese lui e la donna annuì.
«Esatto. Anche se, quando inizieremo a parlare di soldi, sfrutterò senza pietà il fatto di essere tua moglie. Mi vogliono? Dovranno sudare per avermi!» esclamò e Tony batté la mano sul tavolino.
«Questo è parlare come una vera Stark!» convenne ridendo.
Passarono il resto del pomeriggio gironzolando per Los Angeles. Tony insistette per portarla in Rodeo Drive e spesero una fortuna in graziosi vestitini per la futura principessa Stark.
Quando rincasarono, nella quiete del loro nido sulla scogliera di Malibu, Victoria era esausta ma felice. Dopo cena si rannicchiò sul divano addosso a Tony, guardando senza vederlo uno stupido programma alla televisione e finendo per addormentarsi cullata dal quieto respiro di suo marito.

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Capitolo 5
*** Ora mettiamo al mondo questa creatura, che dici? ***


Dal titolo l'avrete già capito: l'attesa dell'erede è terminata!
Che è una bambina lo sappiamo già, ma non siete curiosi di sapere come si chiamerà
e come reagirà papà Tony quando la prenderà in braccio?
Buona lettura!


Victoria sospirò e aggrottò la fronte, circondando il pancione con una mano.
«Va tutto bene, signora?» chiese la voce incorporea di Jarvis.
«Sì, Jay. È tutto a posto».
In realtà avvertiva dei dolori al basso ventre da qualche giorno. Mancavano ormai appena quindici giorni al termine fissato per il parto e, appena ne aveva parlato con Tony, avevano chiamato la ginecologa che aveva chiesto di vederla subito.
Dopo averla visitata, la dottoressa l’aveva tranquillizzata, spiegandole che non c’era nulla di grave.
«Vostra figlia ha solo un po’ di fretta ed è probabile che affretterà la nascita» aveva spiegato.
«Di certo non assomiglia a suo padre» aveva commentato Tony, facendola sorridere.
Victoria riportò di nuovo l’attenzione al suo lavoro. Aveva appena ricevuto le bozze della copertina del suo libro e le stava valutando. Ma non riusciva a concentrarsi. Quel giorno la pancia le pesava più del solito e le mancava terribilmente Tony.
L’uomo aveva ricevuto una chiamata improvvisa da Rhodey che aveva chiesto il suo aiuto. Nonostante la commissione servizi armati avesse espresso tutti i suoi dubbi su Ironman, Rhodey continuava ad agire per conto proprio, cercando di tanto in tanto l’aiuto di Tony, soprattutto quando era di fronte a situazioni veramente scottanti.
«Sai che ti dico, Jarvis?» esclamò all’improvviso. «Esco a fare due passi, non riesco a concentrarmi ora».
«D’accordo, signora. Avviso Gary».
Victoria si alzò e si stava stiracchiando quando percepì qualcosa strapparsi dentro di sé. Non ci fu dolore, ma Victoria avvertì un liquido caldo colarle lungo le gambe. Guardò in basso e, osservando quella piccola pozzanghera di liquido incolore, capì che le si erano rotte le acque.
«Jarvis?»
«Signora?»
«Penso che dovremo rimandare la passeggiata. Chiama Tony, credo che ci siamo» spiegò la donna.
Jarvis chiamò subito Tony. Quando rispose, la sua voce era attutita e distorta dalla distanza.
«Tony, dove sei?» chiese la donna.
«Che succede?» replicò lui, aggirando la domanda. Non poteva certo dirle che era a duemila chilometri da lei, alla periferia di Guadalajara, in Messico.
«Mi si sono rotte le acque. Devi rientrare, Tony».
Il cuore gli si strinse dolorosamente nel petto. Era infine successo ciò che temeva: sua figlia aveva deciso di venire al mondo mentre lui era lontano. Sapeva che per il primo figlio potevano servire ore di travaglio, ma lui era da tutt’altra parte e se non fosse tornato in tempo non se lo sarebbe mai perdonato.
«Tony, mi hai sentita?» proruppe la donna. «Tua figlia sta per nascere».
Mio Dio, pensò, mia figlia sta per nascere. L’emozione gli gonfiò il cuore e per un momento si perse nei propri pensieri, immaginando che di lì a poche ore avrebbe stretto fra le braccia sua figlia. Forse Dio esisteva davvero e aveva ascoltato la sua preghiera: contrariamente a quanto si era aspettato, le tossine nel suo sangue avevano rallentato la loro corsa e i segni sul petto, sebbene ancora presenti, non erano aumentati con lo stesso ritmo dimostrato all’inizio.
Senza pensarci, totalmente dimentico di dove si trovava, si alzò in piedi e i guerriglieri appostati fra i cespugli aprirono il fuoco, tempestandolo di colpi.
«Tony, sono spari quelli che sento?» chiese Victoria allarmata.
«No, assolutamente» replicò, abbassandosi di nuovo. «Ascoltami, tesoro. Io arrivo il più presto possibile. Tu chiama Pepper e fatti accompagnare in ospedale. Vi raggiungo là».
«Non mi hai detto dove sei, Tony» ripeté la donna. «Mi raggiungerai in tempo o mi lascerai a partorire da sola?». Sapeva che non era leale da parte sua comportarsi in quel modo: Tony aveva doveri e responsabilità nei confronti dell’umanità, ma si sentiva sola e spaventata e voleva averlo accanto in quel momento così importante.
«Ci sarò, tesoro. Non preoccuparti. Non mi perderei la nascita di mia figlia per nulla al mondo» promise in tono risoluto, anche se non era per nulla sicuro di poterla mantenere.
Nonostante la linea disturbata e crepitante di scariche, Victoria sentì nella sua voce l’incrollabile fiducia di Tony nelle proprie capacità, una delle qualità che glielo facevano amare. Sapeva che, a qualsiasi costo, lui sarebbe stato in sala parto con lei e si rincuorò.
«D’accordo. Ma fa presto, ti prego».
«Tranquilla. Arriverò prima delle doglie. Ti amo».
«Ti amo anche io, Tony» rispose la donna, ma la linea era già caduta.
«Jarvis, per favore, chiama Pepper».
Per un caso fortuito, quel giorno Pepper non era andata in ufficio e prese il controllo della situazione con l’abituale fermezza.
Ordinò a Jarvis di avvisare Brian e Gary e di far preparare la macchina. Raggiungere l’ospedale Good Samaritan di Los Angeles richiedeva solitamente una cinquantina di minuti. Ma la Rolls non doveva certo preoccuparsi di limiti di velocità e semafori rossi.
Poi gli chiese di chiamare anche la ginecologa di Victoria e di informarla che stavano raggiungendo l’ospedale.
Mentre stavano salendo in auto, Victoria fu colta dalla prima contrazione. Si concentrò sulla respirazione, così come le avevano insegnato al corso pre-parto che aveva frequentato con Tony. Quel corso aveva suscitato la curiosità dei tabloid tanto che i paparazzi si erano perfino appostati e avevano rubato scatti di loro due che entravano insieme nella clinica privata dove si teneva la serie di lezioni. Quando le foto erano apparse sui giornali, Tony aveva semplicemente commentato: «Sinceramente non capisco come questa cosa possa far notizia. Sto facendo un corso pre-parto con mia moglie per prepararci alla nascita, non è una scappatella con l’amante».
«Tutto bene, Vic?» chiese Pepper che l’aveva sostenuta.
«Sì, sto bene».
Si accomodò sul lussuoso sedile di pelle mentre Pepper controllava l’orologio per tenere d’occhio l’intervallo di tempo fra le contrazioni. La seconda arrivò quindici minuti più tardi, la terza dopo altri dieci minuti e fu piuttosto dolorosa.
«Pepper?»
«Sì, Victoria?»
«Tony ha un’assicurazione sulla vita, vero?»
«Sì, certo. Perché?» chiese l’altra perplessa.
«Niente, volevo solo essere sicura che nostra figlia avrà un futuro tranquillo quando lo ucciderò, dato che cominciò ad avere l’impressione che dovrò sbrigarmela da sola».
Pepper ridacchiò.
Trascorsero meno di dieci minuti e Victoria si tese di nuovo, cercando di respirare lentamente.
«Si fanno più ravvicinate e più dolorose» commentò quando il dolore cessò.
Fortunatamente davanti a loro apparve la facciata color sabbia dell’ospedale.
La dottoressa Smith la stava aspettando al pronto soccorso e Victoria fu subito ricoverata nel reparto di ostetricia, in una suite che non avrebbe sfigurato in nessun albergo. La Smith la visitò immediatamente.
«Mia cara, qui siamo già a buon punto. Penso che farai più in fretta del previsto».
Victoria fece una smorfia.
«Che c’è?» chiese la ginecologa.
«Tony sta rientrando da… beh, sta rientrando e spero che ce la faccia ad arrivare».
«Chiamalo e digli che si dia una mossa. Questa signorina ha fretta di conoscerlo».
La donna si congedò assicurando che sarebbe tornata di lì a poco e lasciò entrare Pepper che si avvicinò al letto.
«Arriverà, vero?» domandò speranzosa Victoria e l’amica sorrise.
«Metterà sottosopra il mondo intero pur di arrivare per la nascita di sua figlia, credimi. Ha lottato molto di più per molto meno». Le accarezzò la mano posata sul materasso. «Sta tranquilla, ok?»
Ma un’ora più tardi Tony non era ancora arrivato. La dottoressa Smith prese la decisione che aveva rimandato il più a lungo possibile e decise di portare Victoria in sala parto. Adducendo come scusa quella di una telefonata di lavoro, Pepper uscì dalla stanza e chiamò Tony.
Quando l’uomo rispose, Pepper sentì il sibilo provocato dal vento sull’armatura di Ironman, segno che era in volo.
«Ma si può sapere dov’è? Sua moglie sta andando in sala parto» inveì. «Quella donna ha bisogno di lei, se la lascia da sola in questo momento non so se potremo perdonarglielo».
«Tranquilla, Pep. Vedo la Library Tower, sono qui».
«Si sbrighi» sbottò e tolse la comunicazione.
Tony sorvolò la città e atterrò sul tetto della struttura, sul simbolo H dell’eliambulanza, creando un certo scompiglio.
«Apri, Jarvis» ordinò, e l’armatura si aprì, lasciandolo uscire.
Chiamò freneticamente l’ascensore, lasciando l’armatura aperta in un angolo del tetto. Si infilò dentro la cabina e premette il pulsante dell’ottavo piano.
Il volo a velocità supersonica dal Messico aveva letteralmente risucchiato le sue energie. Indossava l’aderente tuta di volo e quindi non poteva verificare, ma sentiva che, a dispetto del rallentamento di quelle ultime settimane, il problema con il palladio era drasticamente peggiorato. Vacillò e si appoggiò alla parete dell’elevatore deserto. Avrebbe dovuto trovare un modo per dirlo a Victoria. Non poteva nasconderglielo per sempre.
Le porte dell’ascensore si aprirono e lui si precipitò fuori, ricacciando in fondo alla mente quei pensieri oscuri. C’era un’altra missione da portare a termine ora.
«La signora Johnson, per favore» disse alla donna con il seno più prosperoso che gli fosse mai capitato di vedere.
La donna alzò su di lui lo sguardo e sussultò, riconoscendolo.
«Un momento, signor Stark. Controllo immediatamente» strillò, con voce acuta e penetrante.
«Tony!» esclamò qualcuno dietro di lui e lui ne riconobbe la voce.
«Lasci perdere» disse alla donna e si voltò verso Pepper. «Lei dov’è?» domandò frettolosamente.
«L’hanno appena portata in sala parto» disse lei, indicandogli la direzione. «Manca poco ormai».
Tony non aspettò che finisse ma si lanciò nella direzione che gli aveva indicato. Quando arrivò sulle porte della sala, l’infermiere non voleva lasciarlo passare. In effetti, Tony era vestito con una tuta tipo quelle da sub e aveva gli occhi iniettati di sangue per la stanchezza.
«La prego» supplicò infine. «Sono Tony Stark e mia moglie Victoria sta partorendo».
Tony vide la dottoressa Smith attraverso l’oblò sulla porta e si sbracciò. La donna si affacciò sulla soglia.
«Grazie a Dio è arrivato, Tony!» esclamò. «Venga, Victoria la sta aspettando».
Si lavò le mani, indossò un camice e una cuffietta e seguì la dottoressa.
Victoria era semidistesa sul lettino, coperta per metà di teli verdi. Aveva gli occhi chiusi sicché non lo vide entrare ma quando Tony si avvicinò vide le lacrime scenderle sulle guance.
«Amore, sono arrivato. Sono qui» sussurrò, prendendole la mano.
Victoria spalancò gli occhi al suono della sua voce.
«Quando riuscirò ad alzarmi di qui, ti strangolerò» mormorò.
«D’accordo. Ora mettiamo al mondo questa creatura, che dici?» replicò Tony in tutta serenità.
L’infermiera che stava controllando uno dei monitor dall’altra parte del letto non poté trattenere un sorriso.
«Victoria, adesso devi ascoltarmi bene, ok?» disse la Smith. «Quando ti dico di spingere, devi aiutare la bambina, ok? Tony ti assisterà».
Victoria annuì.
«Coraggio, Victoria. Spingi ora».
La donna si tese, stringendo i denti, mentre Tony le circondava le spalle con un braccio e la sosteneva, respirando con lei e incitandola.
«Ok, ora riposati» ordinò la ginecologa.
Victoria si appoggiò all’indietro.
«Sei stata bravissima» la vezzeggiò Tony baciandole la tempia e scostandole i capelli sudati dalla fronte.
«Dov’eri?» chiese lei con un filo di voce ma Tony si strinse nelle spalle.
«Adesso sono qui, ed è questo che conta. Ne parleremo quando sarai abbastanza in forze per sgridarmi come si deve».
«Dai, Victoria. Un’altra spinta» chiese la dottoressa e Victoria si sollevò di nuovo e spinse, mentre Tony le teneva la mano.
«Ora ferma, Victoria. Non spingere».
A Tony sembrava di essere lì dentro da una vita ma era trascorso solo qualche minuto.
«Victoria, ora non devi spingere. La bambina ha il cordone attorno al collo e devi aspettare che la liberiamo».
Victoria annuì e alzò lo sguardo verso Tony.
«Ho paura, Tony».
«Andrà tutto bene. Siamo nelle mani dei migliori medici e vedrai che la situazione si risolverà» mormorò, ma vedeva i dottori affaccendarsi intorno a loro e ai suoi occhi di quasi padre ansioso sembrava che le cose stessero precipitando. Ma si sbagliava.
«Ok, Victoria. È a posto. L’ultima spinta, tesoro».
«Dai, Vicky» la invitò Tony. «L’ultimo sforzo».
Victoria spinse e Tony si meravigliò ancora una volta della forza e del coraggio di quelle creature che sulla carta erano il cosiddetto “gentil sesso” ma che erano più toste e dure della maggior parte degli uomini.
La donna si accasciò fra le sue braccia, singhiozzando.
«Ah, eccola qui la signorina» esultò la dottoressa.
Tony cercò di sbirciare ma un muro di camici verdi glielo impedì, così si rivolse a Victoria.
«Ce l’abbiamo fatta, tesoro. È finita ora. Sei stata grandiosa».
La donna sorrise e gli prese il viso fra le mani, attirandolo a sé. Lo baciò sulle labbra.
«Ma non volevi strangolarmi?»
«Sì, ma quello era prima» singhiozzò di nuovo lei. Poi però la confusione si dipinse sul suo viso.
«Tony? Non senti?» chiese, voltandosi allarmata verso i medici.
«Cosa, tesoro? Io non…» e poi capì. Stava dicendo che lui non sentiva nulla ed era effettivamente così: in quel momento la bambina avrebbe dovuto piangere a squarciagola eppure non si sentiva nulla.
«Dottoressa?» chiese Tony, in allarme. «Va tutto bene?»
Un potente vagito risuonò all’improvviso, trafiggendo orecchie e cuore di entrambi.
«Oh sì, Tony. È tutto perfettamente a posto» rispose lei, girandosi con un fagotto fra le braccia.
Si avvicinò a Tony e tese le braccia. «Tony, le presento ufficialmente la signorina Stark».
Con estrema naturalezza prese fra le braccia sua figlia. Da quell’involto di teli blu spuntava solo il suo viso, ma Tony vide che era perfetta. Era quanto di più bello avesse mai visto e se ne innamorò ancora prima di quando era successo con Victoria. Nell’attimo esatto in cui le sue braccia si chiusero attorno alla bambina e ne sentì il peso contro il petto, era già pazzo di lei.
«Dio del cielo, Johnson» disse, girandosi verso di lei. «È spettacolare».
Victoria stava sorridendo con espressione sorniona.
«Che c’è?» chiese.
«Niente» rispose lei «solo che è la prima volta da che ti conosco che non protesti quando ti porgono qualcosa» spiegò, riferendosi a quando la Smith gli aveva messo fra le braccia la bambina.
«Non è qualcosa. È nostra figlia» replicò lui, abbassandosi e appoggiandola sul petto della madre.
Victoria sorrise felice, stringendo a sé la bambina.
«Ciao, amore» chiocciò Victoria, accarezzando il viso della piccola.
L’infermiera si avvicinò a loro che erano palesemente dimentichi del mondo intero.
«Signori Stark, avete già deciso il nome?» chiese con dolcezza.
«Elizabeth» rispose Tony. «Elizabeth Stark».
«Elizabeth Maria Stark» aggiunse Victoria aggiungendo, con una decisione improvvisa, il nome della madre di Tony.
L’uomo si voltò e Victoria vide i suoi occhi lucidi. «Grazie» mormorò semplicemente.
«Bene» esclamò la dottoressa Smith. «Tony, lei può tornare nella stanza di Victoria e aspettarla lì. Arriveremo con entrambe le sue ragazze non appena le avremo sistemate».
Tony annuì e si abbassò per baciare Victoria.
«Ci vediamo tra poco» mormorò e uscì.
Ciò che aveva vissuto gli sembrava incredibile e uscì dalla sala parto con la sensazione di fluttuare a mezz’aria. Sentiva ancora fra le braccia il dolce peso della bambina, come una parte di se stesso che avesse iniziato a formicolare per assenza di circolazione di sangue.
Raggiunse Pepper in sala d’attesa.
«Allora?» chiese impaziente, tormentando l’orlo della giacca. Tony notò solo in quel momento che non indossava il solito impeccabile tailleur ma una tuta sportiva e le scarpe da ginnastica.
«È nata Elizabeth Maria Stark. Lei e la madre stanno benissimo» disse con voce spezzata.
«Oh, Tony. Sono così felice per entrambi» esclamò Pepper e lo abbracciò. «Le ho fatto portare dei vestiti, così potrà cambiarsi» aggiunse, efficiente come sempre.
Lo accompagnò alla stanza di Victoria e Tony si chiuse in bagno per cambiarsi. Sfilò la tuta nera e trasalì quando si guardò allo specchio: attorno al piccolo cerchio di luce che lo teneva in vita i segni violacei si erano moltiplicati e ampliati.
Infilò in fretta la maglietta, felice che fosse a girocollo e nascondesse del tutto quei segni. Indossò i jeans e uscì.
Trascorsero un paio d’ore prima che Victoria fosse portata nella sua stanza insieme alla bambina. La donna era soffusa di un alone di serenità che agli occhi di Tony la faceva risplendere di una bellezza quasi ultraterrena.
Elizabeth era stata lavata e avvolta in una coperta rosa. Era ancora più bella di prima, con la pelle che si era schiarita e ora era come quella di sua madre e le manine minuscole strette a pugno. Tony tenne scostata la copertina perché Pepper la potesse vedere bene.
«Non è bellissima?» continuava a chiederle e Pepper si rese conto che non l’aveva mai visto in quel modo.
«Sì, Tony. E lei è un uomo fortunato».
Pepper rimase ancora un poco con loro, poi tornò alla villa. Tony disse che si sarebbe fermato fino a sera e che sarebbe rincasato con l’armatura. Sedette sul letto accanto a Victoria e la circondò con un braccio.
«Stai bene?» chiese e la donna annuì, stringendosi ancora un po’ a lui.
«Adesso mi dici dov’eri quando ti ho chiamato?» mormorò, e Tony le accarezzò i capelli. Capì che non aveva senso mentirle.
«Ero in Messico. Un pasticcio con alcuni ostaggi che Rhodey mi ha chiesto di aiutare a sistemare».
«Ed erano spari quelli che ho sentito al telefono?»
«Sì. Ma non devi preoccuparti. Quando sono dentro l’armatura ci sono ben poche cose che potrebbero ferirmi».
Tralasciò il fatto che proprio l’utilizzo continuativo dell’armatura stava accelerando le sue condizioni.
«Ma adesso abbiamo una figlia a cui pensare» rispose lei, accennando con il capo alla culla della bambina.
«Hai ragione. Adesso c’è anche Elizabeth» convenne Tony, abbracciandola più stretta.

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Capitolo 6
*** Mi chiami, quando avrà bisogno di me ***


Per Victoria è un momento importante: sta per dare una svolta alla sua carriera,
cercando di affermarsi come scrittrice.
Siamo alla presentazione del suo primo libro e Tony è ovviamente al suo fianco anche se...
ancora non le ha raccontato nulla dei suoi problemi.
Buona lettura!
E un grande grazie a chi mi ha seguito finora e mi ha regalato un pensiero.


Il pianto di Elizabeth arrivò attraverso il baby monitor. Era la terza volta, quella notte.
Victoria aprì lentamente gli occhi e guardò l’ora: erano le cinque di mattina.
«Tony?» chiamò. Non era possibile che avesse ancora fame, l’aveva allattata un’ora prima.
Lui rispose con un mugugno indistinto.
«Tua figlia chiama» borbottò.
«Pensavo avessimo stabilito che è mia figlia dalle otto del mattino alle otto di sera. Per le altre dodici ore è figlia tua».
«Dovevo essere ubriaca quando l’abbiamo stabilito» replicò. «Se poi consideri che tu ti rinchiudi nel seminterrato e finisce per essere mia per ventiquattr’ore».
«Non è colpa mia se sono un uomo molto impegnato».
Le luci di entrambi i comodini si accesero. Jarvis aveva preso molto sul serio il suo ruolo di babysitter e, oltre ai nuovi protocolli che Tony aveva caricato, ci metteva del suo per badare ad Elizabeth.
«Signora, Elizabeth sta piangendo».
«Sì, Jarvis. La sento. Ora vado» disse Victoria e fece per alzarsi, ma Tony la fermò.
«Resta a letto, vado io».
Entrò nella stanza di fianco alla loro. Le pareti erano dipinte di un tenue color panna con nuvolette rosa pesca appese al soffitto creando un gioco tridimensionale. Il letto ad una piazza e mezza era sistemato al centro della stanza, già corredato del suo trapuntino in tinta.
La stanza comprendeva anche una scrivania, già pronta per quando Elizabeth avesse iniziato a frequentare la scuola, e una montagna di peluche e giocattoli che era ancora troppo piccola per poter apprezzare.
In un angolo c’era un grande tappeto soffice su cui era posato il lettino in legno chiaro e, accanto, la sedia a dondolo che Victoria usava quando allattava la piccola.
«Cosa c’è, cucciola?» mormorò Tony prendendola in braccio. «Che cos’hai stanotte che non lasci dormire me e la mamma?»
Nell’altra stanza, Victoria ascoltava attraverso il baby monitor, meravigliandosi ancora una volta di come fosse cambiato Tony. Ripensava a cosa le era passato per la testa il giorno in cui aveva scoperto di essere incinta. Aveva creduto che, non appena l’avesse saputo, Tony sarebbe fuggito lasciando una sagoma con la sua forma sulla porta d’ingresso e invece ora lo sentiva fare la voce chioccia per cercare di calmare Elizabeth.
La bambina si acquietò quasi subito e, qualche minuto più tardi, Tony tornò in camera.
«Aveva solo voglia di un po’ di coccole dal suo straordinario papà» spiegò a Victoria tornando a coricarsi.
«Avrei voglia anche io di un po’ di coccole da quello straordinario papà» mormorò Victoria, facendosi più vicina.
Quello era un tasto dolente. Nonostante tutti gli sforzi di Tony, la percentuale di palladio nel suo sangue continuava a crescere e la bevanda a base di clorofilla di cui si imbottiva stentava ormai a tenere a bada i sintomi di quel progressivo avvelenamento, cosa che era abbastanza evidente negli orribili segni che gli coprivano ormai tutta la parte alta del petto.
I nuclei di palladio si esaurivano sempre più in fretta, creandogli non pochi problemi. Il giorno prima, mentre lavorava nel seminterrato per cercare una soluzione a quell’assillante problema, era stato colto da un malore e solo con l’aiuto di Ferrovecchio era riuscito a rialzarsi e a sostituire la piastrina da cui si alimentava il reattore Arc.
C’era un unico modo per tentare almeno di rallentare il processo ed era evitare di usare l’armatura. Purtroppo i suoi problemi coincidevano con una nuova impennata del terrorismo internazionale e non era il momento giusto per concedersi una vacanza.
Dall’altra parte c’era Victoria. La bambina aveva ormai un mese e mezzo ed era naturale che la donna desiderasse un po’ di intimità. Anche Tony la desiderava ardentemente e infatti, non appena lei gli sfiorò il petto con la mano liscia e calda, posando le labbra sulle sue, sentì il proprio corpo reagire.
Il problema era che Victoria ancora non sapeva nulla. Aveva cercato più volte di parlarle, spiegandole cosa gli stava succedendo e provando a prepararla al peggio che sarebbe probabilmente arrivato ma, quando non erano stati interrotti da Elizabeth o da una telefonata – per lei – di lavoro, a lui era mancato il coraggio.
E così taceva, rintanandosi ogni giorno nel suo laboratorio e cercando una soluzione che gli sfuggiva ormai da così tanto tempo da cominciare a convincerlo che forse, in realtà, soluzione non c’era.
In quei giorni frenetici prima dell’uscita del suo libro e con la bambina che richiedeva costanti cure, Victoria era distratta e spesso impegnata, cosa che a lui andava benissimo. Tuttavia, riconosceva in ogni istante che passava con le sue donne un momento rubato e cercava di esserci il più possibile. Ma in segreto, con il suo avvocato, stava predisponendo ogni cosa per il momento in cui il palladio avesse vinto.
«Forse sarebbe meglio che cercassi di dormire un po’» disse lui tra un bacio e l’altro. «La prossima sarà una giornata molto intensa e tu dovrai essere al massimo della forma».
Quel giorno, Victoria avrebbe presentato il suo primo libro. Durante le ultime fasi della gravidanza e quel primo mese, la Simon & Schuster aveva accelerato i tempi per poter uscire in fretta con Luna Blu, il primo lavoro a firma di Victoria Johnson.
Ovviamente, la casa editrice voleva cavalcare l’onda mediatica della nascita della piccola Elizabeth che era stata riportata da qualsiasi giornale. Victoria e Tony Stark erano due tra i personaggi più in vista del momento: quale lancio migliore per il libro?
«Non sono stanca» mormorò lei, prendendo fra i denti il lobo del suo orecchio.
«Sei una neomamma che sta allattando una creatura di un mese e mezzo e ti stai accingendo ad affermarti come scrittrice. Credimi, hai bisogno di molto riposo».
Victoria sbuffò e si coricò al suo fianco.
«Da quando in qua sei diventato così responsabile, Stark? Quasi noioso, direi» borbottò, soffocando uno sbadiglio.
Lui ridacchiò. «Lo sono sempre stato, milady. È che lo nascondevo bene».
 
«Come sto?» chiese Victoria, piroettando davanti a lui.
Indossava un paio di pantaloni neri molto aderenti e una maglia a tunica di colore verde che le copriva le forme ancora morbide della gravidanza e ben si intonava con la cascata di capelli ramati che aveva lasciato sciolti. Ai piedi calzava un paio di sandali bassi, neri anch’essi.
«Benissimo, come sempre» mormorò lui, afferrandola per i fianchi e attirandola a sé per baciarla. Gli dispiaceva averla respinta quella notte e non voleva che si sentisse meno desiderata. Certo, Victoria sembrava aver accettato la sua spiegazione sul bisogno di riposo, ma per quanto ancora avrebbe potuto resistere tacendole quella cosa senza farla insospettire?
La donna sorrise sulle sue labbra, scostandosi e guardandolo negli occhi.
«Sono emozionata, sai? Più di quanto lo sia mai stata per una prima in teatro» disse, sistemandogli il nodo della cravatta già impeccabile.
«Andrà tutto benissimo e Luna Blu sarà un grande successo, tradotto in tutte le lingue del mondo» asserì Tony, facendola ridere.
Zoey, la tata di Elizabeth, scese le scale reggendo il passeggino a guscio della bambina. Victoria si era in un primo tempo opposta all’idea di una tata, dichiarando che era perfettamente in grado di badare a sua figlia. Poi, quando Tony le aveva spiegato si sarebbe trattato solo di un aiuto in modo che lei potesse gestire il proprio lavoro con un po’ più di serenità e Zoey era stata da loro per un paio di giorni in prova, si era convinta.
Le due andavano d’amore e d’accordo. Zoey era una ragazza di origine hawaiana dai grandi occhi nerissimi che adorava Elizabeth e lasciava a Victoria tutto il suo spazio di madre, subentrando con discrezione quando la donna era troppo presa.
Nel suo guscio, Elizabeth dormiva beatamente. Se si eccettuava quella notte, in cui la piccola aveva fatto un po’ di capricci, in generale era sempre tranquilla.
«Credi sia stata una buona idea quella di non posticipare l’uscita del libro? Liz è così piccola, non vorrei che per lei fosse troppo traumatico» espresse Victoria.
«Smettila di preoccuparti. Io e Zoey baderemo a lei. Se avrà sonno e vorrà dormire in pace, comprerò un’intera ala della biblioteca e farò sloggiare chiunque. Va bene?»
Victoria tacque e rovesciò gli occhi delle orbite.
«Allora, signore» esclamò Tony rivolto a Victoria e Zoey, «vogliamo andare?»
La limousine era già pronta davanti all’ingresso e appena si furono accomodati, Brian partì. Ci misero poco meno di un’ora ad arrivare a Los Angeles.
La presentazione si teneva alla Central Library, che si stagliava tra i grattacieli di acciaio e vetro, contrastando la modernità con la sua facciata classica.
Davanti all’ingresso c’era una gran folla di persone e, quando scesero dalla Rolls, le guardie del corpo furono aiutate dalla sicurezza dell’edificio per creare un passaggio Tony e Victoria. Elizabeth, al sicuro nel suo nido di copertine rosa, non se ne accorse nemmeno, nonostante i flash dei fotografi appostati in giro che cercavano di carpire la prima immagine dell’erede Stark.
Ashley Collins, il contatto di Victoria presso la casa editrice, li stava aspettando. Salutò Tony e Victoria e accarezzò con la punta delle dita il viso addormentato della bambina.
«Si è fatta ancora più bella» commentò, facendo inorgoglire il cuore di Tony.
«C’è un sacco di confusione là fuori» commentò Victoria. «C’è qualcosa di particolare oggi?»
Ashley la guardò come se la donna la stesse prendendo in giro.
«Sei così rilassata da fare pure dello spirito?» domandò e Victoria aggrottò la fronte. «Quella gente è qui per te, Victoria» spiegò Ashley. «Vuole il tuo autografo sulla propria copia di Luna Blu».
«O mio Dio!» invocò Victoria, voltandosi verso l’ingresso e scrutando la marea di persone all’esterno.
Luna Blu era stato pubblicizzato per bene, su tv e giornali: la Simon & Schuster aveva voluto fare le cose in grande sfruttando al massimo il fatto che stavano per pubblicare un libro scritto dalla moglie di Ironman. Ma Victoria era comunque incredula.
«Non basteranno le copie che abbiamo fatto stampare per oggi, qualcuno rimarrà senza. Ma è giusto così: il tuo romanzo è una bomba e appena questi lo leggeranno, lo consiglieranno ad altri, fornendoci pubblicità gratuita. Diventerai un caso al pari di Stephanie Meyer».
Tony la guardò negli occhi e le fece un cenno con il capo, incoraggiandola. Lei fece un lungo sospiro e annuì.
«Pronta?» chiese Ashley e la guidò verso un lungo tavolo davanti al quale erano state ordinatamente sistemate una trentina di sedie. Alcune erano già occupate da giornalisti e altri stavano entrando in quel momento.
Su un lato della stanza c’era una sua sagoma a grandezza naturale. Victoria era appoggiata ad una copia di Luna Blu alta quasi quanto lei, con lo sguardo limpido e diretto.
«Ti aspetto dietro le quinte» disse Tony: quello doveva essere il suo momento. Ma Victoria si girò verso di lui, tesa e nervosa.
«Ti prego, resta con me. Non credo di poter gestire tutto questo da sola».
«Ce la farai, credimi» replicò lui, ma la donna scosse la testa.
«Ti prego» ripeté.
Tony non riuscì a trovare un valido motivo per rifiutare e la seguì. Victoria sedette al centro del tavolo su cui erano posate alcune copie del suo romanzo, con Tony alla sua destra e Ashley dall’altra parte.
Quando le sedie furono tutte occupate, Ashley si alzò in piedi. Salutò coloro che erano convenuti e diede il benvenuto a Victoria e Tony. Spiegò che la prima parte della giornata sarebbe stata una breve conferenza stampa dedicata al lancio di Luna Blu e che le domande dovevano essere pertinenti al romanzo – niente gossip, specificò – e dirette solo ed esclusivamente a Victoria, lasciando intendere che la presenza di Tony Stark doveva passare il più possibile inosservata.
«Come sapete» proseguì Ashley «Victoria è diventata mamma da poco perciò mi riservo di interrompere la conferenza in qualsiasi momento, se dovesse essere necessario».
Fu meno difficile di quanto si fosse aspettata. I giornalisti, come chiesto da Ashley, ignorarono quasi del tutto la presenza di Tony, anche se qualche domanda era palesemente rivolta a lui: «Cosa pensa suo marito di questo suo exploit letterario?»
Victoria sorrideva e lasciava che fosse lui a rispondere. Tony prendeva la parola, li faceva ridere con una battuta e poi cedeva di nuovo a lei la scena.
Un’ora e mezza trascorse in un lampo. Ashley comunicò che, dopo la pausa, Victoria si sarebbe dedicata a firmare autografi a quanti erano accorsi alla biblioteca e congedò tutti.
«Sei stata eccezionale» la complimentò Tony.
«Sì, perfetta direi» aggiunse Ashley.
Victoria sorrise felice e chiese di vedere la bambina. Elizabeth si era svegliata e quando sentì la voce della madre sputò il ciuccio e frignò.
«Mi sa che la cucciola ha fame» mormorò Tony. Ashley accompagnò Victoria in un piccolo ufficio che le era stato messo a disposizione proprio per quell’evenienza. La donna allattò la bambina mentre Ashley cercava di tenere buoni i fans accorsi lì.
Quando ebbe terminato la poppata, Elizabeth fu riaffidata alle cure di Zoey e Victoria si infilò in bagno. Ne era uscita e si stava lavando le mani quando la porta si aprì. Sul momento non ci fece caso, ma quando alzò gli occhi per osservarsi nello specchio, vide che era entrato un uomo.
Era un uomo di colore, alto e massiccio. Indossava un impermeabile di pelle nero, ma il dettaglio che la fece sobbalzare era la benda nera che gli copriva l’occhio sinistro.
«Credo che abbia sbagliato» disse Victoria, asciugandosi le mani. «Questo è il bagno delle signore».
«Non ho sbagliato. Cercavo proprio lei, signora Stark».
La situazione non le piaceva per nulla. Quell’uomo le sembrava particolarmente inquietante e lei era lontana dalla protezione delle sue guardie del corpo. Tuttavia, cercò di non sembrare impaurita.
«Può mettersi in fila come tutti gli altri. Sarò lieta di autografare la sua copia di Luna Blu quando sarà il suo turno» disse e fece per uscire. Doveva però passargli accanto e, quando gli fu vicino, lui sollevò una mano a bloccarla. Non la toccò, ma bastò quel gesto a farla indietreggiare.
«La prego, aspetti» disse, con un tono di voce stranamente sommesso, che contrastava con la sua figura massiccia. «Non abbia paura, signora. Non sono qui per farle del male». Vedendo che lei taceva, l’uomo proseguì: «Mi chiamo Nick Fury, direttore dello S.H.I.E.L.D.: Strategic Homeland Intervention Enforcement and Logistics Division».
«Cerca di far colpo con i paroloni?» chiese la donna.
«Come sta suo marito, signora Stark?» domandò, ignorando la sua battuta.
«Tony sta benissimo. È qui, se vuole salutarlo».
«Sicura che stia bene?» disse Fury, incrociando le braccia sul petto. «Non ha notato alcun cambiamento in lui?»
Le domande di Nick le suonavano strane e aliene. A dire il vero, tutta la situazione era paradossale. Era chiusa nel bagno delle donne a parlare con uno sconosciuto con una benda nera su un occhio.
«Senta» disse infine «io sinceramente non so chi lei sia, né perché si trovi qui. Quello che so è che devo tornare di là perché ci sono persone che mi stanno aspettando».
Stavolta non si lasciò fermare e gli passò accanto, raggiungendo la porta.
«Da quanto non fa l’amore con suo marito?»
La voce di Fury la bloccò prima che riuscisse a ruotare la maniglia e uscire. Si girò verso di lui che non si era voltato ma era rimasto immobile dove l’aveva lasciato.
«Ma come si permette?» sibilò Victoria.
«Sì, ammetto che la scelta dei termini è stata forse brutale. Posso esprimermi in altro modo: da quanto Tony non le permette di vederlo senza maglietta?»
Victoria stava per dirgli che non erano affari suoi e che avrebbe chiamato la sicurezza, quando un pensiero la colpì. Ricordò quella notte di qualche tempo prima, quando Tony aveva chiesto a Jarvis di spegnere la luce mentre facevano l’amore, cosa che lui non faceva mai, e alla notte prima, quando l’aveva convinta a dormire.
Poteva essere davvero sicura che la loro vita sessuale si fosse interrotta solo a causa della gravidanza o c’era qualcos’altro?
Non voleva credere che Tony le stesse nascondendo qualcosa, ma se guardava ai mesi precedenti c’erano stati dei comportamenti strani: la repentina rinuncia alla presidenza della Stark, le giornate passate rintanato nel suo laboratorio sotterraneo.
La voce di Fury, ora vicina al suo orecchio, la riscosse dai suoi pensieri. «Mi chiami, quando avrà bisogno di me» le sussurrò, spingendole in mano un biglietto da visita. Poi uscì, lasciandole la sensazione di non aver mai vissuto quei momenti. Eppure quel rettangolino di cartone era ancora nella sua mano e le bruciava le dita come un tizzone ardente.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato quando la porta del bagno si socchiuse e apparve il viso amato di Tony.
«Tesoro, tutto bene? Sei qui dentro da un po’ ormai».
Victoria nascose il biglietto nel palmo della mano e la propria perplessità dietro un sorriso.
«Scusami. Sta succedendo tutto così in fretta che avevo bisogno di ritrovare per un momento me stessa» disse, rendendosi conto che suonava esattamente per quello che era: una traballante scusa.
Tony inarcò un sopracciglio e lei notò in quel momento nuove rughe, che tre mesi prima di certo non c’erano. Era anche dimagrito e lei non se n’era accorta. E i suoi occhi erano diversi: possibile che non avesse notato prima quanto fossero infossati e cerchiati da leggere ombre violacee?
«Forza, andiamo. Tra poco credo che Ashley verrà sbranata da un’orda di fans che non sta aspettando altri che te».
E Victoria sedette al tavolo dell’autrice e autografò centinaia di libri. La fila di persone in attesa sembrava non finire mai e continuava inesorabile a farsi avanti. Lei sorrideva e lasciava dediche, ma la sua mente continuava a tornare alle parole di Nick Fury, il cui biglietto da visita aveva infilato frettolosamente nella borsetta.
Ci fu un’ulteriore sosta per allattare la piccola ma finalmente i libri da firmare finirono e Victoria si appoggiò allo schienale della sua poltrona, chiudendo gli occhi. Era stanca, ma felice del successo ottenuto.
Tony fu subito al suo fianco. Teneva Elizabeth in braccio, un dito racchiuso nel pugnetto della bambina.
«Io e Lizzy abbiamo già preso l’aperitivo perciò pensavamo di tornare alla villa. Tu che dici, mamma? Vieni con noi?»
«Assolutamente sì» esclamò la donna, alzandosi in piedi e tendendosi per baciarlo. «Grazie di essere stato con me oggi» sussurrò. «Ora voglio proprio tornare a casa».
Mentre Brian parcheggiava la limo davanti all’ingresso, Victoria prese gli ultimi accordi con Ashley e si congedò.
Elizabeth si addormentò dopo i primi cinque minuti di viaggio.
«È stata così brava, oggi» sussurrò.
«Che ti aspettavi?» replicò Tony. «È figlia di un’attrice di teatro e come tale è abituata ai riflettori. Ed è una Stark, quindi l’energia non le manca di certo».
Victoria si tolse i sandali e piegò le gambe sul sedile, rannicchiandosi addosso a lui. Cullata dalle morbide sospensioni della Rolls, si addormentò.

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Capitolo 7
*** Ci sono cose che non sai ***


 
Nick Fury ha ormai instillato il dubbio nella mente di Victoria
e la donna comincia a notare qualcosa di strano.
Cosa sta succedendo a Tony?
Buona lettura


Al sicuro nel suo nido sulla scogliera di Malibu, Victoria cercò di considerare le cose nell’ottica corretta. A distanza di sicurezza, le cose assumevano tutt’altra sfumatura.
Poteva davvero permettersi di credere a questo Nick Fury, uno sconosciuto che era entrato nel bagno delle donne e le aveva fatto domande impertinenti sulla propria vita privata? Magari era solo un tipo in cerca di gossip sulla famiglia Stark (non sarebbe stato certo il primo). Certo, l’abbigliamento era proprio strano e quasi le venne da ridere all’idea della benda nera sull’occhio, una cosa che le era capitata di vedere solo nei film dei pirati.
Avrebbe potuto chiedere a Tony, ma di certo lui si sarebbe infuriato nel venire a sapere che qualcuno aveva eluso i protocolli di sicurezza ed era arrivato così vicino a lei. In seguito a quanto era successo con Christopher Roberts, Tony era un po’ fissato con la sicurezza e a Victoria quelle attenzioni non dispiacevano poi così tanto.
No, chiedere a Tony non era un’opzione valida. Ma forse…
«Jarvis, mi serve un favore».
«Sì, signora».
«Ho bisogno che controlli l’identità di una persona» disse, sentendosi un po’ una Bond girl. «Nick Fury, Foxtrot-Uniform-Charlie-Yankee» disse, sillabando il nome a beneficio di Jarvis.
In quel momento si trovava in salotto e Jarvis accese il maxischermo per mostrarle le immagini. Apparve una foto dell’uomo che l’aveva fermata nel bagno della biblioteca.
«Nicholas Joseph Fury, detto Nick, è un agente segreto ed eroe pluridecorato dell’esercito degli Stati Uniti d’America» cominciò Jarvis. «Da almeno vent’anni è a capo dell’agenzia denominata S.H.I.E.L.D., organizzazione spionistica e militare internazionale».
Le immagini cambiarono, mostrando il logo dello S.H.I.E.L.D., un’aquila stilizzata nera inscritta in un cerchio bianco.
«Purtroppo» proseguì Jarvis, «non posso recuperare altre informazioni. Il file è secretato» spiegò.
«Difesa nazionale?» chiese la donna e la risposta aumentò ancor di più la sua inquietudine.
«No, signora. Solo il signor Stark ha accesso a queste informazioni».
Quindi Tony conosceva già lo S.H.I.E.L.D. e aveva addirittura fatto ricerche sul suo direttore. Ciò significava che lo conosceva, magari aveva avuto contatti con lui. E non gliene aveva parlato. La lista di cose non dette si allungava ancora.
«C’è altro, signora?» chiese Jarvis.
«No, Jay. A posto, grazie». Poi, per un ripensamento improvviso, aggiunse: «Non dire nulla a Tony».
«Come desidera, signora» rispose Jarvis, spegnendo il maxischermo.
Nelle ore seguenti cercò di non pensarci, ma il tarlo ormai s’era insinuato e non riusciva a fare a meno di chiedersi che cosa stesse pasticciando Tony nel seminterrato. Nel momento in cui si rese conto che da almeno mezz’ora stava fissando senza vederli la pagina bianca e il cursore intermittente del programma di videoscrittura, decise di scendere in laboratorio.
Scese la scala di marmo che portava al laboratorio di Tony ma, quando digitò il proprio codice sul tastierino, Jarvis le negò l’accesso. Pensando di aver digitato male riprovò, ma il sistema diede lo stesso responso.
«Jarvis, che succede? Perché non posso entrare?» domandò.
«Il signor Stark ha chiesto di non essere disturbato»
«Sono sua moglie. Il non essere disturbato può valere per gli altri, non per me» disse, un po’ seccata. Non ce l’aveva con Jarvis, ovviamente: lui eseguiva solo un ordine di Tony. Ce l’aveva piuttosto con lui e con il fatto che ciò che aveva insinuato Fury si stava rivelando vero.
«Mi dispiace, signora. Non posso andare contro un ordine del signor Stark» si scusò Jarvis e la donna non si stupì più di sentire una nota di vero dispiacere nella sua voce.
«Non è colpa tua, Jay» replicò lei, addolcendo il tono.
Victoria cercò di sbirciare attraverso i vetri, ma Tony non era in vista. Chissà cosa stava combinando. Stava pensando di chiedere a Jarvis di chiamarlo, ma lasciò perdere e tornò di sopra.
Quando Tony la raggiunse, lei stava suonando per Elizabeth. La bambina aveva dimostrato di gradire il suono del pianoforte e quando Tony aprì la porta del suo laboratorio sentì le note delicate riverberare nella tromba delle scale.
 
… I’m the lie living for you  /  … Sono la bugia che vive per te
so you can hide…  /  così che tu possa nasconderti…
Don’t cry…  /  Non piangere…
Suddenly I know I’m not sleeping  /  Improvvisamente so che non sto dormendo 
Hello, I’m still here,  /  Ciao, sono ancora qui,
all that’s left of yesterday…  /  tutto ciò che resta di ieri…

Mentre saliva, ascoltò le parole cantate dalla voce cristallina e perfetta di Victoria: era un vecchio successo degli Evanescence e lui si sentì subito in colpa. Sono la bugia che vive per te così che tu possa nasconderti. Anche lui si stava nascondendo dietro alle bugie, ma si diceva che era per il bene di Victoria.
Ascoltò la fine del brano dallo scalino più alto e quando l’ultima nota del pianoforte si spense nel silenzio, si avvicinò a Victoria.
«Una canzone malinconica» mormorò, posandole le mani sulle spalle e baciandole la sommità della testa, aspirando il profumo dei suoi capelli.
«Ad Elizabeth piace» replicò, guardando verso la carrozzina ferma a fianco dello strumento. La bambina era sveglia e stringeva fra le mani il bordo della copertina.
«Anche a me piace sentirti suonare, non lo facevi da un po’» disse lui, sedendosi sulla panchetta imbottita accanto a lei, ma voltando le spalle alla tastiera.
«Prima il pancione mi intralciava, ma da quando è nata la piccola suono tutti i giorni. Solo che tu sei sempre troppo occupato là sotto per accorgertene» replicò e Tony avvertì le prime avvisaglie di mare in burrasca.
«Sono scesa prima, volevo venire a salutarti» disse e, ancor prima che continuasse, Tony immaginò il seguito. «Jarvis però mi ha detto che non ho più l’accesso al tuo laboratorio» finì la donna, cavando dal piano due note dissonanti che infastidirono Elizabeth, facendola piagnucolare.
«Sì, gli ho detto io di non farti entrare» disse Tony, mentre lei si alzava, si chinava sulla culla e metteva il ciuccio in bocca alla bambina per farla stare tranquilla. «Sto lavorando ad un progetto nuovo» proseguì Tony, «e sto maneggiando del materiale diverso dalla solita lega di oro e titanio. Potrebbe essere pericoloso».
Era vero solo in parte. Dentro di sé sapeva che ci doveva essere un elemento chimico che avesse le stesse caratteristiche del palladio senza il suo livello di tossicità. Ma tra gli elementi noti non c’era nulla che facesse al caso suo. Perciò aveva cominciato a fare esperimenti, combinando gli elementi per crearne altri, ma i risultati non erano stati incoraggianti, mentre i nuclei di palladio che facevano funzionare il piccolo reattore Arc si consumavano sempre più in fretta e le tossine nel suo sangue lo indebolivano sempre di più.
«Tony, che sta succedendo?» chiese lei senza guardarlo.
Lui rimase zitto, costringendola ad alzare la testa e a fissarlo negli occhi. Poi sorrise, lanciandole quello che lei chiamava il sorriso assassino: non aveva modo di resistergli quando sorrideva così. Tony si alzò lentamente e si avvicinò a lei. Non la stava toccando eppure lei sentiva il calore del suo corpo e percepiva il leggero sentore del suo profumo.
La sua mano le accarezzò la guancia, sfiorando il collo e scendendo lungo il braccio. Tony non parlava e non sorrideva più, ma la fissava con tale intensità da mandare il suo cuore assolutamente fuori giri. Lo sentiva rimbombare nel petto mentre Tony faceva mezzo passo in avanti, avvicinandosi ancora di più.
L’unico punto di contatto erano le sue dita sul braccio nudo ma a Tony non bastava: le fece scivolare la mano sul fianco, circondandole la vita con un braccio e tirandola verso di sé. Victoria si ritrovò ad aderire all’uomo, sentendo contro il petto il reattore Arc.
Poi Tony la baciò e tutta l’ansia di quei giorni scomparve, sostituita da un senso di calore che si irradiò in tutto il suo corpo. Aprì le labbra, lasciando che la lingua di Tony si intrecciasse alla sua mentre le mani di lui l’accarezzavano come la prima volta, dolci eppure fameliche, delicate eppure decise.
Victoria si strinse ancor di più a lui, ignorando il dolore che le procurava il bordo esterno del piccolo reattore di Tony premuto contro il seno. Gli infilò una mano fra i capelli, inarcando la schiena per non perdere il contatto, ma lui si scostò.
«Mi dispiace se ti sono sembrato distante» sussurrò.
«Non importa» replicò lei, seguitando a baciarlo con passione.
Tony si abbassò leggermente, circondandola con le braccia e sollevandola, sempre senza interrompere il contatto delle labbra. Ma Elizabeth, stanca di essere fuori dall’attenzione generale, si mise a piangere. Contemporaneamente, il cellulare di Tony gli vibrò nella tasca.
«Che diavolo!» borbottò Tony. «È un attacco su due fronti».
Victoria sciolse l’abbraccio e prese in braccio la bambina, cullandola e vezzeggiandola, mentre Tony rispondeva alla chiamata.
«Ciao, Rhodey» esclamò.
«Ehi, Tony. Ho trovato una chiamata sul cellulare, scusami ma ero in riunione».
«Volevo augurarti buon compleanno, zucca vuota».
Quel giorno era il compleanno di Rhodes e Tony l’aveva cercato circa un’ora prima. «Tanti auguri Jim» si unì Victoria.
«La mia signora ti fa gli auguri, Rhodey. Anche Elizabeth».
«Vi ringrazio, ragazzi. Bacia Victoria e la piccola da parte mia» rispose Rhodes. «Già che siamo al telefono…» cominciò ma Tony lo bloccò subito.
«No, oggi no. Non ho nessuna voglia di indossare l’armatura, oggi sto con mia moglie» dichiarò e la donna sorrise.
«Come al solito, salti alle conclusioni. Volevo chiedervi di venire a bere qualcosa con alcuni amici stasera, per festeggiare».
Tony non ne aveva molta voglia, ma spiegò la cosa a Victoria e lei annuì. Le leggeva negli occhi che aveva voglia di uscire da sola con lui, come prima della gravidanza e Tony cedette.
«D’accordo, io e Victoria ci saremo».
Rhodes gli disse che si sarebbero incontrati al Moonshadows che era ad appena dieci minuti da Malibu Point.
«D’accordo, allora ci vediamo stasera».
 
Happy li accompagnò al pub con la limousine, cercando di parcheggiarla nell’angolo più nascosto del piazzale, in modo da non attirare fans.
Victoria aveva affidato la bambina a Zoey e indossava un paio di jeans slavati e una camicia country a righe azzurre e rosa, con un paio di sandali bassi color denim. Anche Tony aveva messo i jeans e una camicia sportiva bordeaux che teneva chiusa fino al penultimo bottone e con il colletto alzato per nascondere i segni dell’avvelenamento da palladio che ormai stavano risalendo lungo il collo.
Entrarono tenendosi per mano e raggiunsero il patio. La struttura di legno era stata costruita sulla scogliera sicché il panorama era mozzafiato e lo sguardo poteva spaziare senza interruzioni sull’orizzonte, in quel momento tinto dei colori del tramonto.
Rhodey e i suoi amici erano seduti sui divanetti, tranquilli e rilassati. Tony e Victoria fecero gli auguri al festeggiato che offrì loro una birra. L’atmosfera era talmente rilassata e piacevole che entrambi dimenticarono i loro tetri pensieri.
Tony sedeva accanto a Victoria, accarezzandole il braccio o la gamba di tanto in tanto, finché Rhodes non li guardò con un sogghigno.
«Ehi, piccioncini!»
«Scusa» mormorò Victoria, stringendosi nelle spalle. «È da tanto che non usciamo insieme e ne avevamo decisamente bisogno».
Tony le baciò la guancia. «Ho bisogno di uno scotch. Tu vuoi qualcosa, tesoro?»
«No, sto bene così, grazie» rispose lei.
«Resta qui, lo ordiniamo al cameriere» replicò Rhodey ma Tony si alzò in piedi.
«Faccio due passi. Torno subito».
Tony si allontanò. Provava una strana sensazione, come di soffocamento e grande stanchezza. Sperava che lo scotch gli avrebbe messo un po’ di fuoco nelle vene, ma la situazione non migliorò. Non voleva interrompere la serata perché Victoria si stava divertendo e non la vedeva così rilassata da parecchio tempo, ma cominciava a sospettare che la piastra di palladio si stesse esaurendo. Di nuovo. Doveva rientrare per cambiarla.
Tornò da Victoria ma, quando fu sulla soglia della portafinestra che dava sul patio, ebbe un capogiro e si aggrappò al telaio d’acciaio. La vide alzare gli occhi, ma il sorriso le morì sulle labbra quando lo vide pallido e smunto. Poi tutto divenne nero e lui crollò a terra, accasciandosi sull’assito di legno.
Victoria lanciò un grido e si gettò su di lui.
«Tony!»
Gli si inginocchiò accanto e lo girò supino. Era mortalmente pallido ma la pelle era calda e quando gli posò la mano sul petto sentì che respirava.
«Che cos’ha?» chiese Rhodes, inginocchiandosi dall’altro lato.
Intorno a loro si formò un capannello di curiosi che avevano visto Tony crollare.
«Non lo so» rispose Victoria, girando lo sguardo intorno. «Per favore, fammi un po’ di spazio e chiama Happy».
Rhodes fece indietreggiare la calca e incaricò un amico di andare a cercare il bodyguard di Tony. Poi tornò da Victoria. La donna sbottonò un paio di bottoni della camicia del marito e inorridì. Il suo petto era percorso da brutte linee bluastre che si dipartivano dal reattore Arc, come geroglifici alieni tatuati sulla pelle. I segni salivano anche sul collo, uscendo di poco dalla camicia.
Come aveva fatto a non accorgersene? Le tornarono in mente le parole di Fury: non ha notato alcun cambiamento in lui? Da quanto Tony non le permette di vederlo senza maglietta?
Erano parole che le erano sembrate stranissime, ma che ora acquistavano senso.
Il reattore, che di solito emanava un’intensa luce azzurrina, sembrava smorto quanto l’incarnato di Tony e, mentre osservavano, la luce tremolò e quasi si spense. Victoria non sapeva cosa voleva dire, ma di una cosa era certa: se il reattore si fosse spento, le schegge che Tony aveva nel petto dopo l’incidente in Afghanistan si sarebbero mosse verso il cuore.
«Che cosa sono?» chiese Rhodes, indicando le linee sulla pelle e, quando Victoria scosse la testa, la guardò incredulo. «Vuoi dire che non ne sapevi nulla?»
«No, si è guardato bene dal dirmelo» sibilò lei.
Happy era appena arrivato e si chinò su di loro.
«Non capisco cosa sia successo di preciso» gli disse Victoria, «ma ci dev’essere un problema con il minireattore. Dobbiamo riportalo a casa, al più presto».
Happy annuì e si chinò su Tony. Lo afferrò per un braccio e se lo caricò in spalla, come un pompiere che porti in salvo qualcuno.
«Mi dispiace, Rhodey» disse, ma lui scosse la testa.
«Non ci pensare, tesoro. Chiamami quando si riprende, ok?»
Victoria seguì Happy e gli tenne aperta la portiera mentre caricava il corpo inerte di Tony sul sedile posteriore. Poi salì anche lei, posandosi in grembo la testa del marito. Gli aprì di nuovo la camicia, tenendo d’occhio il comportamento del reattore mentre, con la sinistra, teneva controllato il polso che le pareva essersi indebolito.
Seguendo i suoi ordini, Happy scese direttamente nel sotterraneo con la Rolls.
«Jarvis, Tony è svenuto. Il reattore non funziona bene, credo» disse.
«Il palladio si è esaurito, deve sostituire la piastra». Il fatto che Jarvis non esprimesse emozioni contribuì a farle mantenere la calma.
Happy riuscì a far scendere Tony e lo coricò sul divano.
«Jarvis, dimmi che devo fare».
«Sulla scrivania del signor Stark c’è una scatola di sigari». Victoria la vide e la portò da Tony, posandola sul tavolino davanti al divano. Dentro era divisa in scomparti, ognuno occupato da una piastrina di qualcosa che sembrava metallo.
«Ora deve far uscire il reattore dal suo alloggiamento. Quando l’avrà fatto, esso si aprirà e potrà sostituire la piastra di palladio» spiegò Jarvis.
Victoria si inginocchiò davanti al divano. Ruotò il reattore in senso antiorario, finché non sentì un leggero scatto. Lo prese delicatamente e lo sollevò. Girò la mano e il reattore si aprì come la corolla di un fiore, mentre la piastrina di palladio veniva espulsa insieme ad un sottile filo di fumo
La donna la prese con due dita e la estrasse. La piastra di palladio era consumata e bucherellata. Victoria la sostituì con una presa dalla scatola. Il reattore accettò il nuovo nucleo e si richiuse, tornando a brillare nel modo consueto. Lo rimise a posto, infilandolo nella cavità sul petto di Tony.
Gli controllò di nuovo il polso: ora lo sentiva battere con più forza rispetto a prima, ma Tony continuava ad essere incosciente. Gli prese il viso fra le mani, girandogli la testa verso di sé.
«Tony! Mi senti, Tony?»
Tony non rispondeva, anche se le sembrava che avesse ripreso un po’ di colore sulle guance.
«Jarvis?» chiamò Victoria.
«Il signor Stark sta bene, signora. La pressione è tornata ai livelli consueti e anche il battito cardiaco si sta stabilizzando» chiarì.
«E quei segni sul petto? Cosa sono?»
«Mi dispiace, i miei protocolli di sicurezza non mi autorizzano a divulgare informazioni».
A volte Jarvis sapeva essere così irritante. Victoria si rivolse a Happy, che stazionava ancora accanto a Tony.
«Happy, puoi andare, grazie. Ci penso io qui» disse e l’uomo annuì e si dileguò.
«Jay, Tony è privo di conoscenza. È piombato giù alla festa del suo migliore amico. Io devo sapere cosa sta succedendo».
Jarvis tacque, come se stesse valutando la risposta.
«Vada al cassetto destro della scrivania del signor Stark». Victoria eseguì. «C’è un piccolo apparecchio argentato».
Victoria lo prese e tornò da Tony.
«Deve pungergli il dito con l’ago, signora».
La donna lo fece e sul display apparve la scritta “tossicità sangue: 62%”.
«Che significa, Jarvis?»
«Significa che il palladio che alimenta il reattore lo sta avvelenando» spiegò Jarvis con calma.
«Perché non me l’ha detto?» mormorò Victoria a se stessa.
«Perché non voleva preoccuparla» rispose Jarvis. «Il signor Stark combatte con questo problema da prima dell’inaugurazione della Expo e non voleva dirle nulla per via della gravidanza».
Chissà quanto aveva sofferto, e lei non si era accorta di nulla. Certo, era arrabbiata con lui perché non aveva condiviso i suoi problemi, ma capiva. Tony era un uomo complicato: con lei si era aperto molto, ma c’erano ancora lati oscuri del suo carattere. E l’aveva fatto per lei, per proteggerla, come tendeva sempre a fare.
Mi chiami, quando avrà bisogno di me. Fury non aveva detto se, aveva detto quando, come se avesse saputo perfettamente che quel momento sarebbe arrivato. Senza pensare, raccolse la borsetta e recuperò il biglietto da visita che le aveva lasciato Fury. Compose il numero sul cellulare e attese.
«Mi dica, signora Stark» disse Fury senza preamboli.
Lei rimase spiazzata: non si era aspettata che lui la riconoscesse subito. Poi pensò che non era così strano che il direttore di un’agenzia di intelligence conoscesse in anticipo il suo numero.
«Si tratta di Tony. Il palladio da cui è alimentato il reattore lo sta avvelenando. È svenuto e non riesco a farlo tornare in sé». Parlava velocemente e non era sicura che Fury capisse.
«Stia tranquilla. Sarò lì in dieci minuti».
Victoria rimase a fissare il cellulare muto. Sarà qui in dieci minuti? Cos’è, vola come Batman? si chiese. Non sapeva se aveva fatto bene a chiamare Fury, ma era impaurita e Tony non si svegliava.
Proprio in quel momento, Tony si mosse lentamente. Victoria si precipitò al suo fianco.
«Tony! Tony, stai bene?»
L’uomo aprì gli occhi e la mise a fuoco.
«Che è successo?» chiese con un filo di voce.
Victoria scoppiò a piangere e lo abbracciò.
«Mi hai fatta spaventare a morte» singhiozzò. «Ti ho visto cadere… e non rispondevi… e il reattore non funzionava bene… e poi ho visto quei segni sulla pelle… e…»
Tony si sollevò e la strinse a sé, accarezzandole i capelli e mormorandole parole dolci finché non si calmò e smise di piangere. Poi le mise una mano sotto il mento, facendole sollevare il viso: i suoi bellissimi occhi erano arrossati e traboccavano ancora di lacrime. Tony le asciugò con il pollice e le baciò le labbra con delicatezza, sentendo il sapore salato del suo pianto.
«Va tutto bene ora, è tutto a posto» mormorò, ma lei scosse il capo.
«Non è tutto a posto» disse, sfiorandogli il petto con la mano. «Jarvis mi ha spiegato che cosa sono questi segni. Che sta succedendo di preciso, Tony?»
«Avrei dovuto dirtelo, ma non sapevo come fare. Non volevo farti agitare mentre eri in attesa di Elizabeth. Poi lei è nata, tu eri così felice, io ero felice e non volevo rovinare quei momenti. Ho pensato di poterla gestire da solo, non credevo che trovare una soluzione sarebbe stato così complicato».
«È stato molto peggio venirne a conoscenza in questo modo» mormorò lei, abbassando lo sguardo.
«Lo so. A conti fatti, è evidente che ho sbagliato. Ma tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto in buona fede. Volevo solo proteggerti»
«E chi ha protetto te, in questi mesi? Non credo sia stata una passeggiata portare questo peso».
«No, non è stato facile» ammise Tony.
Victoria si tese e prese lo scanner dal tavolino: il display mostrava ancora l’ultima schermata.
«Mentre eri privo di conoscenza, Jarvis mi ha detto di usare questo. Che cosa significa quella scritta?»
Lui emise un lungo sospiro. «Il palladio che alimenta il mio reattore è tossico. La sua tossicità si sta progressivamente trasferendo nel mio sangue, creando questi segni sul petto. Inoltre, si consuma sempre più in fretta, arrivando a cogliermi impreparato, com’è successo alla festa di Rhodey. L’uso dell’armatura sta peggiorando le cose» spiegò.
«E allora smetti di usarla» disse lei.
Tony si alzò in piedi: sembrava completamente ristabilito. «Non è così semplice. Non posso smettere».
«Perché?» esplose Victoria. «Perché non puoi? La Mark V è più importante di me e di Elizabeth?»
Tony si voltò verso di lei. «Certo che no! Ci sono cose che non sai».
«Sì, molte cose che non so. Principalmente perché tu non me ne parli».
«Dio del cielo, Vicky! Tutto ciò che faccio, lo faccio per te e la bambina. Non posso smettere di essere Ironman perché il mio compito è proteggervi».
«Non a costo della tua vita, Tony. Non così».
Era così vicino a raccontarle tutto che dovette fare a violenza a se stesso per non proseguire. Lei non sapeva che il terrorismo internazionale si stava risvegliando, mostrando gli artigli all’America. Lei non sapeva che lui aveva già sventato due attentati e che stava lavorando in sinergia con Rhodes per cercare di arginare quella nuova ondata di terrore. Lei non sapeva che stava cercando di collaborare per creare un mondo più sicuro per lei ed Elizabeth.
Victoria si avvicinò, gli occhi di nuovo traboccanti di lacrime. Gli prese il viso tra le mani.
«Tony, cosa succederà quando la tossicità arriverà al cento percento?»
Lui cercò di girare la testa per non doverla guardare, ma lei glielo impedì. «Cosa succederà?» ripeté.
«Non accadrà. Troverò una soluzione»
«Cosa accadrebbe, Tony?» insisté Victoria.
«Non devi preoccuparti, Vicky. Se le cose dovessero mettersi al peggio, cosa che non accadrà» aggiunse frettolosamente «tu e Lizzy sarete al sicuro. Ho già pensato a tutto».
«Mi credi davvero così meschina da preoccuparmi di questo? Ho paura di perdere te, non mi importa altro»
Fu Jarvis a spezzare la tensione di quegli istanti.
«Signore, un elicottero dello S.H.I.E.L.D. chiede il permesso di usare il nostro eliporto»
«Lo S.H.I.E.L.D.?» domandò Tony incredulo. «Se non hanno un’avaria che rischia di farli precipitare nell’oceano, il permesso è negato».
«Li ho chiamati io» disse Victoria.

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Capitolo 8
*** Te ne occupi tu, d'accordo? ***


Victoria ora sa tutta la verità:
ed ecco che torna il nostro Nick Fury.
Alcuni dialoghi, così come alcune scene descritte qui sotto, sono tratti dal film,
anche se leggermente modificati per adattarsi alla mia storia
(è un vero peccato che non ci sia stato posto per la splendida battuta
"Signorino! Devo pregarti di uscire dalla ciambella!" che sicuramente ricorderete!).
Buona lettura!

E grazie infinite a chi sta seguendo il mio lavoro lasciandomi i propri commenti.

 

«Tu hai fatto cosa?» chiese Tony, il tono di voce tagliente come un laser.
«Ho conosciuto il direttore Fury alla presentazione di Luna Blu. Lui sapeva di te, sapeva dei tuoi “problemi” e mi ha dato il suo biglietto da visita. Dopo che sei svenuto, non riuscivamo a svegliarti e ho deciso di chiamarlo».
«Non sono l’unico che ha dei segreti allora» mormorò.
«Ehi, io non ti ho nascosto che il palladio mi stava avvelenando il sangue» replicò, ma sapeva che come scusa era piuttosto labile.
«Signore, che devo fare con lo S.H.I.E.L.D.?» chiese di nuovo Jarvis.
«Falli atterrare» rispose Tony, tenendo lo sguardo fisso negli occhi di Victoria.
«Mi dispiace, Tony» disse lei quando non riuscì più a sostenerne lo sguardo.
Tony sospirò. «La colpa è solo mia. Avrei dovuto gestire tutto in maniera diversa». Le circondò le spalle con il braccio. «Andiamo di sopra».
Happy e Gary li avevano raggiunti in salotto e si posizionarono ai lati dei due, pronti ad intervenire in caso di bisogno.
Nick Fury entrò, seguito da altre due persone. Il primo era un uomo di mezza età, un po’ stempiato, vestito in pantaloni e giacca neri, camicia bianca e cravatta nera. Sembrava un impiegato di banca, ma lo sguardo diretto e la linea decisa della mascella lo classificavano come un agente dello S.H.I.E.L.D.
L’altra era una donna. Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi. Indossava un’aderente tuta nera che lasciava ben poco all’immaginazione, con un cinturone agganciato in vita. Sulla spalla sinistra Victoria vide lo stemma dell’organizzazione.
Fury indossava lo stesso lungo impermeabile di pelle nera che aveva alla biblioteca, le cui falde sbatterono come un vessillo quando si avvicinò a Tony.
«Cerca di non fare confusione, se mi svegli la bambina che dorme al piano di sopra, toccherà a te farla addormentare» attaccò Tony, ma l’altro non si scompose.
«Tony» disse a mo’ di saluto, girandosi poi verso Victoria. «Grazie per avermi chiamato».
«Già, si è trattato di un malinteso» intervenne Tony. «Ora è tutto a posto. Ci dispiace di avervi fatto venire fin qui, ma è tutto ok».
«Lasciate che vi presenti l’agente Phil Coulson» disse Fury senza badare minimamente a Tony e indicando l’uomo alla sua sinistra e ignorando del tutto la ragazza con i capelli rossi che si era avvicinata alla vetrata che dava sull’oceano e guardava fuori.
Tony si girò a guardare cosa stesse facendo e nel movimento scoprì il collo, mostrando i segni violacei che stavano risalendo fin sotto l’orecchio.
«Non promette nulla di buono» disse Fury, osservandoli.
«Sono stato peggio» replicò Tony.
La ragazza si avvicinò.
«Vi presento l’agente Romanoff» disse Fury.
«Sono un’ombra dello S.H.I.E.L.D.» disse con voce bassa e roca. «Quando si è ammalato, il direttore Fury mi ha assegnato a lei».
Tony girò lo sguardo verso Happy. Non proferì parola, ma quell’occhiata diceva: ne parliamo più tardi: se la ragazza gli era stata addosso tutto quel tempo e nessuno se n’era accorto, avevano un problema di sicurezza. Poi gli fece un cenno con il capo e congedò lui e Gary che uscirono dalla stanza.
Senza chiedere il permesso, Fury sedette sul divano mentre Coulson e la Romanoff rimasero in piedi. Tony e Victoria sedettero dall’altro lato rispetto a Fury.
«Sei stato molto impegnato» riprese Fury. «Hai nominato quella ragazza amministratore delegato, hai dato via tutte le tue cose. Se io non sapessi come stanno le cose…» ma Tony lo interruppe.
«Non sai come stanno».
Fury inarcò un sopracciglio e rimase zitto.
«Che cosa volete?» chiese Tony, lanciando un’occhiata verso Natasha che non si era mossa.
«Che cosa vogliamo noi?» domandò Fury in tono esasperato. «No, no, che cosa vuoi tu. Che cosa vuoi tu da me, visto che tu sei diventato un problema. Un problema che io, a questo punto, devo gestire. E ti vorrei ricordare che tu non sei il centro del mio universo, ho problemi ben più importanti da risolvere giù nel sudovest».
Tony era infastidito: non era abituato a sentirsi parlare in quel modo. All’improvviso Fury schioccò le dita. Né Tony né tantomeno Victoria avevano visto l’agente Romanoff muoversi ma ecco che la ragazza di materializzò a fianco di Tony e lo colpì al collo con qualcosa.
Tony sussultò lanciando un gemito, mentre Natasha sedeva al suo fianco.
«Oddio» imprecò «volete rubarmi un rene e venderlo?»
Natasha gli girò la testa verso di sé.
«Che cosa mi avete fatto?» domandò Tony e, sotto gli occhi stupefatti di Victoria, i segni sul collo regredirono fino a scomparire sotto la camicia.
«Abbiamo fatto qualcosa per te» spiegò Fury. «Ti placherà i sintomi, è biossido di litio. Vogliamo farti tornare al lavoro».
«Stai bene, Tony?» domandò Victoria e lui annuì. Poi si rivolse di nuovo a Fury: «Datemene un paio di confezioni e tornerò come nuovo».
«Non è una cura, riduce solo i sintomi» intervenne Natasha.
«Rimediare completamente non sarà facile» commentò Fury.
«Lo so, me ne intendo di queste cose» disse Tony con un mezzo sorriso sarcastico. «Sto cercando un elemento che possa rimpiazzare il palladio. Ho provato qualunque combinazione, ogni permutazione di tutti gli elementi noti».
«Beh, vorrei avvisarti che non le hai provate tutte» replicò Nick e schioccò le dita all’indirizzo di Coulson. L’uomo si voltò e uscì.
«Quella cosa che hai in mezzo al torace è basata su una tecnologia incompleta» affermò Fury, riportando su di sé l’attenzione.
«No, era completa. Era… non è stata molto efficace finché non l’ho miniaturizzata e installata nel mio…»
«No» lo interruppe Fury, cosa che a Tony dava fastidio ma che sopportò senza fiatare. «Howard disse che il reattore Arc era un trampolino per qualcosa di più grande, l’inizio di una corsa allo sviluppo di energie alternative che avrebbe offuscato quella agli armamenti». Victoria guardava il marito che sembrava perplesso di fronte alle parole di Fury e al suo sostenere di conoscere suo padre. «Si trattava di qualcosa di grosso» proseguì l’uomo «una cosa talmente enorme che a confronto il reattore nucleare sarebbe sembrato una pila ricaricabile».
Tony strinse la mano di Victoria; poi si alzò e raggiunse il mobile bar, versandosi uno scotch. «Qualcuno prende qualcosa?» domandò ma nessuno gli rispose. Con il bicchiere di liquore ambrato in mano tornò a sedere accanto alla moglie.
Bevve un sorso e guardò Fury negli occhi: «Hai detto che non le ho provate tutte. Che cosa intendevi dire? Che cosa non avrei provato?»
«Lui disse che tu eri l’unica persona con i mezzi e la conoscenza per portarlo a compimento» disse Fury, riferendosi di nuovo al padre di Tony.
«Ha detto così?» chiese Tony. Era piuttosto evidente che non credeva ad una sola parola che usciva dalla bocca del direttore dello S.H.I.E.L.D.
Fury mugugnò il suo assenso. «Sei tu quell’uomo? Sei tu? Perché, se fossi tu, saresti in grado di risolvere l’enigma del tuo cuore» concluse, tenendosi verso Tony.
Tony tacque, poi scosse la testa. «Non so come ti procuri le informazioni, ma lui non era un mio grande fan».
«Che ricordo hai di tuo padre?»
«Era freddo. Era calcolatore. Non mi ha mai detto ti voglio bene, non mi ha mai detto che mi stimava. Quindi per me non è facile digerire che lui abbia detto ad altri che il futuro dipende da me e che sono l’unico in grado. Tutto questo non mi quadra. Parliamo di un uomo il cui giorno più bello fu quando mi spedì in collegio». Tony bevve un altro sorso di whisky e si appoggiò allo schienale.
«Questo non è vero» obiettò Fury.
«È chiaro che conoscevi mio padre meglio di me, allora»
«In effetti è così. Era uno dei membri fondatori dello S.H.I.E.L.D.» disse, gettando uno sguardo all’orologio che aveva al polso.
In quel momento Coulson rientrò, reggendo una cassa. La posò accanto a Fury che si alzò.
«Che succede?» chiese Tony, alzandosi in piedi a sua volta.
«Ora devo andare».
«Fermo, fermo, fermo!» esclamò Tony. «Che cos’è?» domandò poi, indicando la cassetta.
«Va bene, è tutto a posto, ok?»
«No, non è a posto».
«Te ne occupi tu, d’accordo?»
«Occuparmi di cosa? Non lo so di cosa devo occuparmi».
Victoria seguiva quello scambio sentendo la tensione montare in suo marito. Gli sfiorò la mano con la propria, facendogli sentire che era vicina, che lo sosteneva. Le spalle persero un po’ di rigidità e lui le strinse la mano.
Fury si rivolse a Victoria. «Lei dovrebbe andarsene, allontanarsi da Tony. Per la sua sicurezza e per fare in modo che lui si concentri come dovrebbe». Ma non aveva ancora terminato di parlare che già Victoria scuoteva la testa.
«No. Io non me ne vado».
«Mi creda» disse Fury, «è meglio per tutti».
«Siamo già stati separati e non ci fa bene. Ed Elizabeth ha bisogno di suo padre» replicò Victoria, alzando la voce.
Tony fissava la cassetta. C’era stampigliato sopra “Proprietà di Howard Stark”.
«Tesoro, mi secca, ma credo che Fury abbia ragione». Lei aprì la bocca per protestare, ma Tony la bloccò. «Nemmeno io so spiegarti perché, ma sento che ho bisogno di stare da solo».
Lei ci pensò su un po’, poi sospirò. «Va bene. Se pensi che sia meglio».
«Tu devi fare la presentazione di Luna Blu a New York, giusto?» affermò Tony. «Sarai così impegnata che non ti accorgerai nemmeno della mia assenza e quando tornerai sarò tutto nuovo». Sorvolò sul fatto che, quando fosse tornata, avrebbe potuto essere troppo tardi. Allontanare Victoria non era una cattiva idea: non voleva che fosse presente nel caso in cui… non voleva pensarci.
Quando gli agenti dello S.H.I.E.L.D. si congedarono, Victoria disse che sarebbe andata a fare una doccia mentre Tony raccolse la cassetta e scese nel seminterrato. La posò sulla scrivania, accarezzando con le dita il nome di suo padre inciso sul coperchio.
La sua mano si fermò sulla cerniera di chiusura in modo quasi involontario.
«No, non oggi» disse a se stesso, ritirando la mano. Aveva bisogno di Victoria e, considerato anche che stavano per separarsi – solo temporaneamente, sperava – ne aveva bisogno subito.
Salì le scale fino in camera da letto. Sentiva l’acqua scrosciare nel bagno, dietro la porta chiusa. La camicia di Victoria era posata sul loro letto e lui la prese e l’avvicinò al viso. Era impregnata del profumo di lei, così intenso che avvertì un’acuta fitta di desiderio.
Lasciò cadere la camicetta della moglie ed entrò in bagno. I vetri della cabina doccia erano appannati dal vapore, ma riusciva a vederla in trasparenza. Gli voltava le spalle e non lo aveva sentito. Si passò le mani sui capelli bagnati, poi le appoggiò sul muro di fronte a sé e rimase sotto il doccione, immobile.
Tony gettò via scarpe e calze e aprì la porta della doccia. Victoria sussultò e si voltò di scatto.
«Tony, mi hai spaventata» sussurrò, portandosi una mano al petto come a voler rallentare il sobbalzo del suo cuore. L’uomo entrò nella doccia e la baciò.
L’acqua calda gli scorse lungo il corpo, inzuppando la camicia e i jeans, ma a Tony non importava di nulla che non fosse il corpo sodo e nudo a cui si stringeva. La spinse con irruenza contro la parete piastrellata, baciandola con tutta la passione accumulata in quei lunghi giorni di forzata astinenza.
Gli bastò sfiorarle le labbra con la lingua e lei aprì la bocca, lasciandolo entrare. La voleva più di qualsiasi altra cosa avesse mai desiderato in vita sua, ancor più della prima volta. Fu preso da una sorta di frenesia, come se quella fosse l’ultima volta che stavano insieme e cercò di non pensare a quanto fosse vicino alla verità quel pensiero appena formulato.
Victoria gli infilò le mani tra i capelli fradici, inarcandosi per appoggiarsi a lui e sentendo la sua eccitazione trattenuta dai jeans. L’uomo abbassò il capo e la baciò sul collo, sentendo sulla lingua il sapore di vaniglia e spezie del suo bagnodoccia.
«Tony!» sussurrò lei. «Rallenta, per favore» ansimò.
Lui alzò la testa, fissandola negli occhi. Aveva lo sguardo vacuo, le pupille dilatate dal desiderio. Victoria sentì l’eccitazione montare dal basso ventre e diffondersi come fuoco liquido nelle vene.
«Non parlare» disse con voce talmente arrochita da non sembrare nemmeno la sua. Le mise una mano sul collo, spingendola di nuovo contro il muro e impossessandosi della sua bocca.
Victoria fu contagiata dalla sua urgenza. Afferrò la camicia dallo scollo e tirò: i bottoni si strapparono, tintinnando contro i vetri della doccia e finendo a terra. Si incollò a lui, il seno nudo che scivolava sul suo petto mentre si baciavano o, per meglio dire, si divoravano a vicenda.
La donna, stordita da quell’assalto, non capì come avesse fatto lui a liberarsi dei jeans e dei boxer ma all’improvviso fu nudo anche Tony. Le circondò la vita con un braccio e la sollevò, bloccandola fra sé e il muro della doccia, mentre Victoria gli allacciava le caviglie dietro la schiena e si sosteneva aggrappandosi alle sue spalle.
L’atmosfera era talmente rovente che fu affare di poco, ma la passione li lasciò devastati come se fosse passato su di loro un uragano. Tony la mise giù con delicatezza, ma non lasciò che si spostasse. Posò il palmo della mano sulle piastrelle mentre con l’altro braccio le circondava ancora la vita e chinò la testa su di lei, depositandole una scia di delicati baci nell’incavo del collo e sulla spalla.
Entrambi ansimavano come dopo un allenamento intensivo in palestra. Victoria gli accarezzò i fianchi, risalendo lungo la schiena, sentendo sotto le dita le cicatrici che lui aveva sul dorso, danni riportati nelle battaglie sostenute nei panni di Ironman.
«Non so cosa mi sia preso» si scusò Tony.
«Vuoi un consiglio, Stark? Non scusarti quando fai sesso in questo modo con una donna» ridacchiò Victoria e anche lui si unì alla sua risata. Poi si fece serio e la guardò negli occhi.
«Ti amo, Vicky. Perdonami se non ti ho detto nulla della mia situazione».
Victoria lo baciò sulle labbra con delicatezza, bloccando le sue parole. «Ora basta, Tony. Non ha senso tormentarsi così. Ciò che è stato, è stato e non cambierà neanche se continuiamo a rivangarlo»
«Hai ragione» disse, cercando di nuovo la sua bocca per baciarla.
«Signora, Zoey ha bisogno di lei» la avvisò Jarvis.
«Vado subito, Jay».
La donna uscì dalla doccia e si avvolse in un soffice accappatoio. Sulla porta del bagno, si girò a guardarlo.
«Mi aspetti a letto?» chiese e quando lui annuì, Victoria uscì.
Una volta che ebbe finito di allattare la bambina e l’ebbe rimessa nel suo lettino, tornò in camera, ma Tony stava già dormendo. Indossava solo i boxer ed era supino, un braccio dietro la testa. Victoria gli spostò delicatamente il braccio e Tony non si mosse nemmeno.
Grazie al biossido di litio, i segni sul petto si erano attenuati ma non erano spariti del tutto, quasi per ricordare loro che la questione non era per nulla risolta.
Victoria aggirò il letto e si coricò al suo fianco. Tony solitamente aveva il sonno leggero eppure non diede cenno di averla sentita. Sicuramente erano mesi che non dormiva bene e ora l’aver condiviso con lei quel peso che gli gravava sull’anima l’aveva tranquillizzato, tanto che non si mosse nemmeno quando lei gli si raggomitolò addosso.
Gli appoggiò la testa sulla spalla e si addormentò.

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Capitolo 9
*** Questa è la chiave del futuro ***


Tony avrà bisogno di un aiuto speciale dall'aldilà
per risolvere il proprio problema.
I dialoghi e le scene, li riconoscerete, sono quelli del film,
leggermente riadattati per incastrarsi con la mia trama.
Buona lettura!

 

Tony era nel seminterrato, seduto sulla sua poltrona con davanti a sé la cassetta di suo padre, aperta. Ne aveva sparso il contenuto per terra: c’erano ritagli di giornale, quaderni di dati scritti nella grafia regolare di suo padre, il progetto del reattore Arc così com’era nella sua versione normale e fotografie di Howard da solo nel momento del ritiro di un premio o con alcuni personaggi famosi.
Il cellulare di Tony squillò.
«È sua moglie, signore» disse Jarvis, passandogli la comunicazione.
La donna era partita quel mattino con il jet privato di Tony: a New York dovevano essere le otto di sera, quindi doveva essere in albergo. Già gli mancava: quasi stentava a credere di essere lo stesso uomo che al mattino non ricordava nemmeno il nome della donna che aveva portato nel suo letto.
«Ciao, dolcezza» disse cercando di dare alla voce un tono leggero, per mascherare la mancanza che sentiva di lei.
«Manchi anche a me, Tony» disse lei.
«Colpito e affondato!» replicò lui. «Com’è andato il volo?»
«Schifosamente comodo, come sempre» rispose lei. «Elizabeth ha dormito tutto il tempo. Mi sento troppo fortunata ad aver messo al mondo una creatura così tranquilla. Probabilmente quando crescerà ci farà impazzire con richieste di tatuaggi e piercing».
«Per la legge del contrappasso è il minimo che ci possiamo aspettare» disse Tony, rabbrividendo al pensiero di sua figlia quindicenne che usciva con qualche ragazzo.
«Come sta Coulson?» chiese Tony.
Dato che lui era costretto a restare a Malibu, Tony aveva preteso che a Victoria fosse assegnata una scorta da parte dello S.H.I.E.L.D., oltre a Gary e Brian. Gli agenti che Fury aveva assegnato alla donna erano tre, con a capo proprio Phil Coulson.
«Phil è dovuto rientrare per assumere un altro incarico. Mi è stata assegnata l’agente Romanoff».
Chiacchierarono per un bel po’, finché Elizabeth reclamò sua madre e dovettero salutarsi.
Tony sospirò e si rimise al lavoro. La cassetta di suo padre conteneva anche delle vecchie bobine marcate Kodak.
«Jay, abbiamo ancora il vecchio proiettore?»
«Sì, signore» replicò il suo maggiordomo virtuale, aprendo una porta di acciaio su un lato del laboratorio.
Tony entrò nel piccolo magazzino. «Il proiettore è sullo scaffale alla sua destra, signore. Scatola C12» indicò Jarvis e l’uomo vide la scatola contrassegnata. La prese e stava per uscire quando, nell’angolo più lontano del magazzino vide qualcosa di voluminoso ricoperto da un telo scuro.
Posò a terra il suo fardello e raggiunse il fondo. Sollevò il telo: sotto di esso c’era il plastico della “città del futuro”. L’aveva costruito suo padre ed era stato per anni nel suo ufficio alla Stark Industries. Quando Pepper aveva preso possesso del trono di Presidente, lui se l’era fatto mandare e l’aveva fatto mettere temporaneamente lì.
Qualcosa gli stuzzicò la mente, ma fu una scintilla talmente evanescente che non riuscì a coglierla. Rimise a posto il telo e uscì.
Una volta montato il proiettore e sistemata la bobina, Tony fece partire la registrazione. Apparve suo padre: erano i provini del filmato che aveva fatto proiettare all’inaugurazione della Expo. Suo padre stava provando il suo discorso davanti allo stesso plastico che ora, smontato, era riposto nel suo magazzino.
Spaparanzato sulla poltrona, Tony ascoltava con un orecchio mentre esaminava il resto del contenuto della cassetta. All’improvviso si sentì chiamare e alzò lo sguardo. Suo padre non stava parlando con lui o meglio stava parlando con un Tony Stark che doveva avere sette o otto anni e che, spuntato dietro il plastico, stava armeggiando con i pezzi dello stesso. La voce irata di suo padre lo sgridò finché qualcuno entrò nell’inquadratura e lo prese in braccio, portandolo via.
Tony si sollevò, gettando nella cassetta il quaderno che stava esaminando. Bevve un sorso di coca ghiacciata, chiedendosi se Fury non gli avesse fornito quella cassetta solo per liberare un angolo del magazzino dello S.H.I.E.L.D.
Ma poi si sentì chiamare di nuovo. Stavolta il tono di suo padre era diverso, più personale.
«Tony, ora sei troppo piccolo perché tu possa capire, così ho pensato di lasciarti questo film». Ecco lì ciò che cercava: suo padre stava parlando direttamente a lui, come non aveva mai fatto quando era in vita.
«L’ho costruita per te» disse, indicando il plastico alle sue spalle. «E un giorno ti renderai conto che rappresenta molto più che una semplice invenzione. Rappresenta tutta la mia vita. Questa è la chiave del futuro». A quelle parole qualcosa gli solleticò di nuovo la mente, ma suo padre proseguì.
«Io sono limitato dalla tecnologia dei miei tempi. Ma un giorno tu risolverai questo rompicapo. E quando lo farai… potrai cambiare il mondo».
C’era una ferrea convinzione nelle parole di suo padre. Era sempre stato molto più avanti dei suoi tempi, una mente visionaria che aveva saputo attuare molti progetti che chiunque aveva ritenuto impossibili per l’epoca.
La telecamera strinse sul viso baffuto di suo padre. «Quello che ora è e resterà sempre la mia più grande creazione… sei tu».
Tony sentì gli occhi pizzicare per la commozione. Quell’uomo divergeva dall’immagine che lui ricordava di suo padre, l’uomo freddo e duro che lo sgridava se lo trovava a leggere i fumetti invece di qualche libro “impegnato” o che non comprendeva che lui volesse giocare con i suoi coetanei invece che stare in laboratorio a costruire cose e fare esperimenti.
Quella rivelazione lo colpì più di quanto fosse disposto ad ammettere. Forse l’immagine di suo padre si era distorta negli anni e non era vera. Forse il vero Howard Stark era quello del filmato, quello che parlava con dolcezza di quanto fosse fiero di suo figlio.
Aveva vissuto troppe emozioni in una sola giornata e si sentiva stanco e spossato. Decise di andare a letto. Avrebbe ripreso le sue ricerche il mattino seguente.
La camera gli sembrava troppo vuota senza Victoria, ma la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò. Sognò di essere nella “città del futuro” di suo padre. Si trovava sotto l’Unisfera e la osservava. Di colpo si ritrovò bambino e suo padre fu al suo fianco.
 «La chiave del futuro è qui» disse. «E un giorno tu risolverai questo rompicapo».
Tony si svegliò di soprassalto. Nel sogno suo padre non aveva usato le stesse parole del video. Non aveva detto questa è la chiave del futuro bensì la chiave del futuro è qui e lui sapeva a cosa si riferiva.
Corse nel seminterrato, ordinando a Jarvis di aprire di nuovo il magazzino. Tolse il telo che copriva il plastico smontato e appoggiato alla parete e la vide. C’era una targhetta dorata con stampigliate le stesse identiche parole di suo padre: la chiave del futuro è qui.
Erano le tre del mattino e ci vollero due ore per montare il plastico ma finalmente Tony ce l’aveva davanti. Si chinò su di esso, soffiando via lo strato di polvere che si era accumulato.
«Jarvis, ho bisogno di un reticolato digitale. Per favore, puoi farmi uno stampo in vacuform?» chiese.
Jarvis cominciò a scansionare il plastico riproducendone virtualmente ogni particolare. Tony attese che finisse.
«Scansione modello Stark Expo 1974 completato, signore» annunciò Jarvis. L’uomo tese le mani e sollevò il modello tridimensionale, rappresentato in linee virtuali azzurre. Si voltò e lo spinse davanti a sé. La scansione digitale rimase a fluttuare a mezz’aria.
«Quanti edifici ci sono?»
«Devo includere anche i chioschi di waffles belgi?» chiese Jarvis con la solita pedanteria.
«Era retorico» borbottò Tony. «Mostrameli» ordinò poi. Jarvis fece quanto richiesto.
Tony osservava il plastico digitale. Poi schioccò le dita, facendolo ruotare. Mentre l’uomo prendeva una sedia girevole e vi si accomodava, Jarvis mise il plastico in verticale. L’Unisfera centrale era al livello dei suoi occhi.
«Che cosa ti sembra quello, Jarvis?» domandò, proseguendo poi senza attendere risposta. «Non dissimile da un atomo. In tal caso il nucleo sarebbe qui» disse, toccando l’Unisfera virtuale. Il punto in cui il suo dito entrò in contatto con l’ologramma prodotto da Jarvis si illuminò.
«Evidenzia l’Unisfera» ordinò e quella specie di mappamondo – che era stato replicato fedelmente anche nella nuova Expo a New York – si illuminò del tutto. Tony fece un movimento con le dita, come a volerlo cerchiare. Il computer replicò i suoi movimenti e quando Tony allargò le mani, anche la sfera si ingrandì.
Tony rimase ad osservarla, la testa piegata da un lato. La soluzione era così vicina.
«Elimina i passaggi» disse a Jarvis. «Falli sparire» aggiunse e con un movimento della mano fece scomparire le strade e i sentieri della “città del futuro”.
«Cosa vuole ottenere, signore?» domandò Jarvis.
«Sto scoprendo… ah, mi correggo: sto riscoprendo un nuovo elemento, credo» replicò Tony, sollevando una mano a stuzzicarsi la barba, come faceva sempre quando rifletteva su qualcosa.
«Via l’architettura del paesaggio» continuò. «Cespugli, alberi, parcheggi, uscite, entrate» elencò, mentre ad ogni gesto delle sue dita il particolare nominato spariva dall’ologramma. Ora, attorno all’Unisfera, erano rimasti solo gli edifici principali.
Strinse gli occhi. «Struttura i protoni e i neutroni, utilizzando come intelaiatura i padiglioni» comandò e, mentre Jarvis eseguiva, ingrandì di nuovo la sfera, facendola ruotare. Jarvis stava elaborando quelle informazioni e Tony si scostò un poco, passandosi una mano sul viso. Non sapeva bene dove l’avrebbe portato ciò che stava facendo, ma lì c’era qualcosa, qualcosa che suo padre aveva lasciato per lui.
Jarvis concluse il compito assegnato: ora il plastico virtuale non c’era più. Al suo posto c’era una grande palla che sembrava un’enorme molecola. Tony batté le mani e le allargò.
La sfera seguì i suoi movimenti e si espanse, inglobandolo all’interno. Eccola lì, la soluzione. Tony rimase a guardarsi intorno mentre quelle proiezioni giravano intorno a lui. Le parole di suo padre gli riecheggiarono in testa: un giorno tu risolverai questo rompicapo. E quando lo farai… potrai cambiare il mondo.
«Morto da quasi vent’anni» disse fra sé. «Mi porti ancora a scuola» ridacchiò, come se Howard potesse sentirlo.
Batté di nuovo le mani e le proiezioni si ridussero ad un’unica piccola molecola che lui tenne fra due dita.
«L’elemento proposto dovrebbe servire come effettuabile rimpiazzo per il palladio» intervenne Jarvis.
«Grazie, papà» mormorò, sentendolo vicino come mai prima di allora.
«Sfortunatamente è impossibile da sintetizzare» concluse Jarvis.
Tony ne prese atto con un mugugno. Ma impossibile non esisteva nel suo vocabolario. Se suo padre si era dato tanto da fare per fargli trovare la chiave del futuro, lui avrebbe portato a termine il suo lavoro. Aveva l’intelligenza e i mezzi per farlo. E da quella piccola molecola luminosa che teneva fra le dita dipendeva la sua vita e la possibilità di tornare a godere di sua moglie e sua figlia.
Prese la sua decisione e si alzò. Doveva fare alcune telefonate, procurarsi del materiale e già mentre formulava quei pensieri il suo cervello era al lavoro e stilava liste di cose da fare e piani d’azione per raggiungere l’obiettivo.
«Preparati ad un super rinnovamento. Torniamo alla modalità hardware».
I vecchi metodi erano sempre i migliori.
 
Quando Coulson entrò a Villa Stark, pensò di aver sbagliato casa. Solo che quella era l’unica villa sulla scogliera, l’unica servita da un maggiordomo virtuale, l’unica e sola casa di Tony Stark.
L’ingresso sembrava essere stato messo a soqquadro da un terremoto, con il magnifico pavimento in marmo completamente distrutto. Phil si avvicinò, calpestando cautamente pezzi di pietra e marmo: sembrava che qualcuno avesse usato un martello pneumatico in salotto, portando alla luce una centralina da cui ora partivano grossi cavi neri che si snodavano per tutta la casa.
I suoi uomini l’avevano avvertito delle “cose da fuori di testa”, così le avevano definite, che stava facendo Stark, ma non pensava che fosse arrivato a tanto.
Scese le scale che portavano al piano di sotto, quasi timoroso di ciò che avrebbe potuto trovare. La scansione delle sue impronte gli aprì la porta del laboratorio.
C’erano grandi casse di legno con il logo dell’azienda di Stark sparse ovunque e i due bracci robotici di Tony vi giravano intorno, quasi dotati di intelligenza propria. Un grosso tubo, sospeso a circa un metro da terra, percorreva tutta la stanza, formando un cerchio. Su uno dei lati era incassato nel muro, che era stato spaccato senza troppe cerimonie, forse con un maglio.
Coulson riconobbe in quella struttura un acceleratore di particelle, anche se si chiedeva come mai Tony Stark avesse sentito l’impellente bisogno di costruirne uno in casa sua – devastando, tra l’altro, quella meraviglia di casa.
Tony, vestito in jeans e maglietta neri, stava armeggiando in fondo alla stanza.
«Il suo incarico non era quello di proteggere mia moglie?» disse, quando lo sentì entrare.
«È tutto sotto controllo: c’è l’agente Romanoff con lei» rispose Coulson. «So che ha oltrepassato il perimetro» aggiunse poi.
Tony, che aveva in mano una livella, non alzò nemmeno la testa da ciò che stava facendo.
«Ah sì, è stato almeno tre secoli fa, lei dov’era?»
Da quell’esperimento dipendeva la sua vita e Tony non aveva voluto affidarsi ai ragazzi delle Stark Industries: era andato personalmente a recuperare la maggior parte dei materiali.
«Ho avuto da fare» commentò Coulson, facendo finta di non notare la nota di sarcasmo nella voce di Tony.
«Ah, sì? Beh, anch’io e ha funzionato».
Coulson avanzò nella stanza e l’occhio gli cadde dentro una delle casse. Qualcosa attirò immediatamente la sua attenzione.
«Ehi, io gioco per la squadra di casa, Coulson» disse Tony, posando la livella e chiedendosi come mai non riuscisse a mettere in orizzontale quel maledetto tubo. «Per lei e per tutti i suoi favolosi fricchettoni. Ora, mi lascia lavorare o mi rompe le palle?»
Coulson si raddrizzò con un oggetto tra le mani. L’aveva riconosciuto immediatamente: era lo scudo di un eroe leggendario, Captain America. O meglio, e se ne accorse quando lo prese in mano, era il supporto che probabilmente era servito a verniciare lo scudo originale.
«Che ci fa questo, qui?» chiese e Tony, che era voltato e stava togliendo da un sacchetto una grossa flangia, si voltò lentamente.
«Eccolo» disse, come se Coulson tenesse tra le mani il Graal. «Me lo porti» aggiunse poi, facendo cenno all’agente di avvicinarsi.
«Lei sa cos’è?» chiese, porgendoglielo.
«Mi serve per far funzionare quest’affare» disse e Coulson si chiese a che cosa potesse servire lo scudo di Captain America in un generatore di particelle.
«Alzi un po’» disse Tony e Coulson capì che si riferiva al tubo che stava fra loro. Si chinò e lo circondò con le braccia.
«Su» ordinò Tony. «Leva sulle ginocchia».
Phil sollevò il pesante tubo mentre Tony inseriva lo scudo tra quello e il supporto che lo sosteneva.
«Lasci» ordinò alla fine, girandosi per prendere la livella e posandola sul tubo.
«Perfettamente livellata» approvò infine. Poi alzò gli occhi: «Sono occupato, che vuole?»
«Niente. Addio» replicò Coulson con la stessa freddezza. «Sono stato riassegnato. Il direttore Fury mi vuole nel New Mexico».
«Fantastico» commentò Tony. «Terra d’incanto»
«È quello che mi dicono»
Tony non ci mise molto a capire che Coulson non sarebbe andato in New Mexico ad indagare sull’incidente di Roswell.
«Roba segreta» insinuò Tony.
«Qualcosa del genere» confermò l’altro con un mezzo sorriso. «Buona fortuna» concluse, tendendo la mano al di sopra dell’installazione dell’acceleratore.
«Addio» replicò Tony, stringendogli la mano che Coulson trattenne un po’ più del necessario.
«Ci è utile» disse.
«Sì» confermò Tony, «più di quanto crede».
«Non così tanto» frenò Coulson, allontanandosi per andarsene.
Tony rimase a guardarlo andare via; poi si dedicò al proprio lavoro. Era pomeriggio inoltrato quando finalmente l’acceleratore fu pronto.
Ok, Stark. Vediamo se sei davvero un genio come dicono.
Infilò un paio di occhiali protettivi e sistemò il prisma che sarebbe servito da catalizzatore nel proprio supporto, posando lì accanto una grossa chiave inglese. Accese il generatore supplementare che avrebbe dato energia all’apparecchio e, mentre le particelle, sotto forma di raggio luminoso, iniziavano a vorticare nel tubo, si tolse la maglietta. Fra poco avrebbe fatto molto caldo lì sotto.
«Avviamento acceleratore prismatico» annunciò Jarvis.
Il fascio luminoso era già velocissimo e Tony lasciò cadere la maglietta sul pavimento e afferrò la manopola che gli sarebbe servita per dirigere il flusso di energia sul supporto che aveva preparato sul tavolo da lavoro.
«Conseguimento massima energia» asserì Jarvis, mentre tutto il tubo veniva squassato dalla potente energia che esso stesso stava generando.
Aiutandosi con la chiave inglese, Tony iniziò a far ruotare il prisma che improvvisamente sparò la propria energia fuori dal tubo.
«Ops» borbottò Tony, mentre il potente raggio laser tagliava ogni cosa sul proprio cammino.
Con lentezza, l’uomo spostò il raggio, finché non riuscì a dirigerlo sul supporto triangolare. Lo tenne fermo in quella posizione, mentre il raggio di energia lo fece diventare luminoso in modo accecante.
Prima che esplodesse, Tony spense il generatore il cui sibilo si arrestò immediatamente.
«Era facile» disse a se stesso, chinandosi a passare sotto il tubo. Si avvicinò al tavolo su cui il nuovo elemento continuava a brillare e gettò sul piano di lavoro gli occhiali protettivi. Con una pinzetta prelevò l’elemento con estrema delicatezza.
«Congratulazioni, signore. Ha creato un nuovo elemento» annunciò Jarvis.
Tony rimase per un momento ad osservare quel punto di luce pura; poi lo adagiò nella sede di un nuovo reattore Arc che aveva creato appositamente. Il minireattore si richiuse e inizio subito a brillare.
«Signore, il reattore ha accettato il nucleo modificato. Eseguirò test diagnostici» affermò Jarvis.

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Capitolo 10
*** Me la sbrigo da solo ***


Con sgomento e costernazione,
mi sono accorta solo ora che a questa storia
mancava un capitolo;
non so cosa sia successo,
probabilmente ho dimenticato di
inserirlo al tempo della pubblicazione. 
Comunque, eccolo!

Tony era seduto alla propria scrivania. Accanto a lui, il nuovo reattore stazionava sul suo supporto: Jarvis stava facendo altri test perché Tony non voleva ritrovarsi nel petto qualcosa di ancor più letale del palladio, ma le premesse erano buone.
Il cellulare squillò e Tony rispose senza attendere che Jarvis gli annunciasse la chiamata.
«Stark».
«Tony, sono Rhodey» disse l’amico. «Abbiamo un problema». Rhodes iniziava in quel modo ogni telefonata con cui richiedeva l’intervento di Ironman. «La linea è sicura?» chiese.
«Jarvis?»
«Subito, signore».
Jarvis attivò in fretta tutti i protocolli di sicurezza per rendere quella telefonata al sicuro da intercettazioni.
«Signore» intervenne Jarvis, «la linea è sicura».
«Grazie, Jay. Senti, Rhodey, è un brutto momento».
Tony non era tipo da tirarsi indietro, ma la sua armatura lo spaventava ormai. Il biossido di litio stava cedendo e l’avvelenamento da palladio non si arrestava. Usare l’armatura avrebbe significato esporsi maggiormente proprio ora che, forse, era vicino alla soluzione. Lo spiegò brevemente all’amico.
«Tony, quand’è che Victoria deve andare a New York?»
Ne avevano parlato la sera del compleanno di Rhodey, prima che Tony svenisse sul patio.
«È là proprio in questi giorni. Senti un po’, razza di pervertito, hai voluto una linea sicura per parlare di mia moglie?»
«Tony, ascoltami bene». Il tono di gravità che usò mise Tony sull’attenti. «La nostra intelligence ci segnala che è in corso un altro attacco terroristico. Stavolta è una cosa grossa, Tony. Ci sono le premesse per un altro undici settembre».
Tony rabbrividì. Quel giorno terribile si era inciso a fuoco nei cuori e nella memoria di ogni americano e di ogni persona che quel giorno aveva visto due enormi aerei schiantarsi sulle Twin Towers. L’uomo si coprì gli occhi con la mano.
«Dove colpiranno stavolta?»
«L’obiettivo non è cambiato: New York».
Il cuore di Tony si fermò: Victoria ed Elizabeth erano a New York in quei giorni. L’ultimo pensiero di Tony era che potesse loro capitare qualcosa nella città che, dopo l’undici settembre, era considerata la più sicura al mondo.
«Vogliono farci vedere che possono colpirci al cuore, di nuovo. Attaccheranno in fretta, tra qualche ora» concluse Rhodes.
«Rhodey, mia moglie e mia figlia sono a New York» alzandosi in piedi. «Che cosa sappiamo?»
«Non molto, purtroppo. Saranno autobombe e saranno piazzate nei punti di maggior interesse, nei luoghi simbolo della città più famosa degli States. Vogliono colpire duro, come al World Trade Center».
«Tipo Central Park».
La Simon & Schuster aveva deciso di fare il lancio di Luna Blu al Delacorte Theathre, all’interno di Central Park, perché era uno dei luoghi citati nel romanzo di Victoria.
«Sì, è uno dei possibili obiettivi» disse Rhodes.
«Come cazzo hanno fatto a sfuggirci ancora?» domandò Tony.
«Non dirmi che tua moglie è proprio lì».
«Proprio al centro. Ti richiamo, Rhodey».
Tony tolse in fretta la comunicazione e chiamò Victoria. La donna non rispose.
«Jay, chiamami Fury» ordinò.
Tony tamburellava con le dita sul piano della scrivania, impaziente. Lanciava occhiate nervose al nuovo reattore Arc la cui luce era forte e ben definita.
«Hai finalmente finito di giocare con le carte di tuo padre?»
La voce di Fury rimbombò nel seminterrato.
«Nick, cosa sai dell’attacco su New York?»
Fury rimase in silenzio. «Che cosa ne sai tu, dell’attacco su New York?» sbottò poi.
«Non ha importanza. La mia famiglia è lì e deve essere fatta evacuare immediatamente» replicò Tony, ma il direttore dello S.H.I.E.L.D. non era disposto a cedere.
«Chi te l’ha detto, Tony?»
«Non è rilevante, Nick» gridò. «Vicky e Liz devono essere allontanate al più presto possibile. Chiama Natasha e falle portare via di lì».
«Non posso farlo».
«Credo di non aver capito, Nick»
«Stiamo collaborando con i federali e li stiamo tenendo d’occhio, Tony. Ma la situazione è delicatissima e non possiamo permetterci errori. Se facessi interrompere la presentazione di tua moglie, potrebbe essere peggio: i terroristi potrebbero pensare di essere stati scoperti e magari affretterebbero i tempi».
«Nick, se succederà qualcosa alla mia famiglia, ti riterrò personalmente responsabile. E non basterà tutto lo S.H.I.E.L.D. per proteggerti. Te lo giuro».
«Tony, non puoi…» cominciò Fury, ma l’altro non lo lasciò proseguire e ordinò a Jarvis di chiudere.
Si tolse la maglietta e fece ruotare il reattore, togliendolo dalla sua sede. Poi afferrò il nuovo reattore e lo posizionò al centro del petto, mettendolo a posto con un colpo secco.
«Signore…» Jarvis provò a fermarlo ma fu inutile.
«Vuoi fare un po’ di test? Ok, facciamoli». Avvertì subito l’energia racchiusa in quel piccolo cerchio di luce e ansimò. «E assembla l’armatura, già che ci sei. Montala» ordinò.
«Non conosciamo quali effetti possono…» tentò di nuovo Jarvis, ma Tony non voleva ascoltarlo.
«Falla finita, Jarvis!»
Il reattore cominciò a brillare con maggiore intensità, mentre Tony avvertiva la strana sensazione che il suo sangue fosse diventato frizzante e gli ribollisse nelle vene. Non poteva esserne certo, ma secondo lui il nuovo nucleo stava risucchiando i residui di palladio dalle sue vene, bruciandoli in una sorta di fusione nucleare. Almeno, era quello che sperava. In caso contrario, il reattore Arc stava per esplodere.
In bocca gli salì un sapore metallico e dolciastro. «Sa di noce di cocco! E di metallo!»
Così com’era iniziata, quell’esplosione di luce cessò. Tony si mise davanti alla webcam dei suoi monitor: i segni sul petto erano completamente spariti e lui si sentiva bene. Certo, era successo lo stesso quando aveva fatto su di sé la prima applicazione del minireattore, ma stavolta sentiva che era diverso: o almeno, sperava con tutto il cuore che lo fosse.
Mentre indossava la nuova armatura, la Mark VI, il telefono squillò di nuovo.
«Signore, il direttore Fury sta provando a chiamarla» annunciò Jarvis.
«Digli di andare a farsi fottere».
«Non credo che i miei protocolli mi permettano di esprimermi in questo modo, signore».
Tony sogghignò. «Bene, allora fai a meno di rispondergli. Ora, collegati ai server dello S.H.I.E.L.D. Fury mi ha detto che li stanno tenendo d’occhio: se è così, lo faremo anche noi».
«Signore, i protocolli di sicurezza dello S.H.I.E.L.D. sono di grado elevatissimo, mi ci vorrà tempo e non sono sicuro di riuscire a bypassare tutti i controlli».
«Oh, sono sicuro che ce la farai, Jay. Ti ho programmato io». Poi calò la maschera sul volto. «Tienimi aggiornato» disse a Jarvis e spiccò il volo.
Raggiunse in fretta il muro del suono e lo superò, avvertendo la possente spinta dei suoi repulsori. Erano quasi quattromila i chilometri che lo separavano da New York e, anche volando a Mach2 come stava facendo, non ci sarebbero volute meno di due ore. Rischiava di arrivare tardi.
Mentre era in volo, tentò di nuovo di mettersi in contatto con Victoria che però non rispose.
«Mi chiedo perché diavolo io le abbia regalato un cellulare se poi non mi considera neanche!» mormorò a se stesso.
Non si accorse di aver accelerato finché l’indicatore di Mach non passò da due a tre.
«Signore?»
«Sì, Jarvis. Ho visto» rispose, rallentando e rientrando nei limiti di Mach2. Finché non fossero stati certi del funzionamento del nuovo minireattore era il caso di andarci con calma.
Il volo era lungo e noioso e Tony aveva tutto il tempo di immaginare gli scenari peggiori. La sua inquietudine cresceva in maniera inversamente proporzionale alla diminuzione della distanza che lo separava da sua moglie e sua figlia.
Lo so che ti ho già chiesto molto e tu mi hai esaudito, disse rivolto a Dio. Ma se mi senti, e dovresti, visto che ti sono così vicino, fammi arrivare in tempo.
«Signore, ho le immagini dei satelliti S.H.I.E.L.D.» comunicò Jarvis, facendogliele apparire all’interno del casco.
«Hanno già evidenziato degli obiettivi?»
«Affermativo, signore» replicò Jarvis, mostrandogli i target contrassegnati da pallini rossi lampeggianti.
Tony ebbe un tuffo al cuore quando vide che uno degli obiettivi era proprio in prossimità di Central Park. Il satellite mostrava una serie di auto parcheggiate su Central Park West, di fronte al Museo di Storia Naturale.
«Proprio sul lato più vicino al Delacorte» mormorò Tony. «Qual è di quelle auto?»
Jarvis tacque, analizzando i dati. «Non lo so, signore. Mi sembra di capire che gli agenti dello S.H.I.E.L.D. sono sul pezzo perché stanno ricevendo rapporti regolari, ma non ci sono informazioni sull’obiettivo di Central Park».
«Maledizione!» imprecò Tony. «Jay, riesci a metterti in contatto con l’agente Romanoff?»
«Subito, signore».
Tony attese che Jarvis gli passasse la comunicazione. Mancava circa mezz’ora di volo per arrivare a Manhattan e i livelli di output del nuovo Arc erano ancora perfetti.
«Agente Romanoff in linea, signore».
«Natasha, sono Tony Stark» abbaiò nel microfono.
«Stark? Come ha fatto ad entrare?»
«Non importa» glissò l’uomo. «Dov’è mia moglie?» chiese, mentre Jarvis gli mostrava la posizione dell’agente dello S.H.I.E.L.D.
«È qui davanti a me, è impegnata. Ora, per favore, esca dal sistema. Deve liberare la linea». Natasha era seccata e irritata. Doveva tenere d’occhio Victoria, ma con un orecchio era impegnata ad ascoltare i rapporti dei colleghi.
All’insaputa di chiunque, New York stava subendo il secondo attacco terroristico nel giro di pochi anni. Ma Natasha era fiduciosa: gli agenti dello S.H.I.E.L.D. stavano cercando il punto d’origine da cui sarebbe partito l’impulso per far detonare gli ordigni che i terroristi avevano disseminato per la città. Doveva trattarsi di un’organizzazione davvero molto potente per essere riuscita a superare i controlli.
«Elizabeth dov’è?» chiese Tony, ignorando le parole della Romanoff.
«Victoria l’ha rimandata al Waldorf Astoria circa un’ora fa».
Tony si rivolse a Jarvis: «Ci sono obiettivi nelle vicinanze?» e quando l’altro comunicò che non c’era alcuna segnalazione sospirò di sollievo. «Jarvis, chiama il Waldorf e fatti passare Zoey. Dille di non muoversi da lì per nessuna ragione» ordinò Tony.
«Che cosa sta combinando, Stark?» intervenne Natasha che aveva ascoltato.
«Natasha, so che è in corso un attacco terroristico. Deve prendere Victoria e allontanarla da lì».
La donna rimase di sasso. «Come fa a saperlo lei? È entrato nei nostri server?»
«Senta, sono stufo di domande. Sì, sono entrato nei vostri server e sì, sto tenendo d’occhio gli obiettivi. C’è un’autobomba parcheggiata sulla West e non voglio che mia moglie sia nei paraggi, è chiaro?»
«Lei non capisce. La situazione è perfettamente sotto controllo. I nostri uomini…» ma Tony non ne poteva più.
«I vostri uomini si stanno limitando a guardare. Per me non è sufficiente». Tony ormai vedeva in lontananza la grande macchia verde di Central Park. «Sa che le dico? Non ha importanza, me la sbrigo da solo» disse e tolse la comunicazione.
L’uomo sorvolò l’Hudson e l’Upper West Side, gettando uno sguardo giù verso quelle auto parcheggiate tra cui si celava una minaccia mortale. Vide il teatro e vide anche una miriade di facce rivolte verso l’alto: l’avevano sentito arrivare e già i ragazzini si stavano alzando dalle gradinate.
Anche Victoria alzò il capo e si fece ombra agli occhi con la mano. Era perplessa e Tony non stentava a crederci: per non alimentare false speranze, Tony non le aveva detto di aver trovato una soluzione al problema del palladio, quindi di certo la donna non si aspettava di vederselo piombare sul palco dove atterrò.
Ironman alzò un braccio e salutò i ragazzi assiepati nell’anfiteatro che esplosero in un’ovazione. Mentre li salutava, girò lo sguardo su Victoria: la donna indossava scarpe da ginnastica, jeans e una camicetta nera, abbigliamento che la faceva sembrare ancora più giovane, perfettamente in linea con il suo nuovo pubblico.
«Tony?» chiese Victoria, coprendo il microfono con la mano, come si aspettasse che dentro l’armatura ci fosse qualcun altro.
«Ti spiego tutto tra un attimo, cerca di essere il più naturale possibile».
Victoria si riprese subito e, da brava attrice quale era, si girò verso il pubblico.
«Beh, ragazzi: spero siate contenti della sorpresa che ci ha voluto fare Ironman» disse, mentre lui salutava di nuovo e la cingeva con un braccio, e gli applausi facevano tremare il teatro. Il fatto di esserle così vicino lo faceva stare più tranquillo: se le cose fossero precipitate, l’avrebbe portata via in un baleno.
«Ho bisogno di parlarti. Subito!» mormorò Tony, in modo che sentisse solo lei. E non era difficile: dagli spalti si alzava un boato assordante.
«Ragazzi, come promesso ora ci sarà un po’ di tempo per le vostre domande. Ci sono degli inservienti fra di voi che vi daranno carta e penna: vi prego di scrivere i vostri quesiti su questi foglietti che poi raccoglieremo e vaglieremo. Nel frattempo faremo qualche minuto di pausa».
Tony e Victoria si allontanarono dal palco. Non appena furono fuori vista, Tony sollevò la maschera.
«Ottima performance» le disse, chinandosi per sfiorarle le labbra con un bacio leggero.
«Tony, che ci fai qui?» domandò la donna. «Cioè, sono felice che tu sia qui, ovvio. Ma…» non riuscì a proseguire e fissò il bagliore del reattore Arc al centro del petto di Tony.
«Le informazioni di mio padre sono servite a creare un nuovo reattore. Ora non funziono più a palladio» disse, sogghignando.
«Quindi adesso è tutto ok?» chiese Victoria accarezzandogli il viso, e lui annuì.
«Sì, sto bene. Non riuscirai a liberarti di me».
Natasha Romanoff si avvicinò alla coppia. Indossava pantaloni e giacca di pelle e sembrava appena scesa da una Harley.
«Non dovrebbe essere qui» sbottò la donna. «Sono ore che Fury sta cercando di contattarla. Perché non risponde?»
«Perché non avevo barzellette nuove da raccontargli».
Victoria aggrottò le sopracciglia: conosceva Tony troppo bene per lasciarsi sfuggire la sfumatura di esasperazione celata dalla battuta di poco prima.
«Tony, che sta succedendo?»
«Mi dispiace di averti rubato la scena prima, tesoro, ma ora devo portarti via di qui». La prese per le spalle e la fece girare verso di sé. «New York subirà un attacco terroristico» mormorò, abbassando la voce in modo da non farsi sentire. «Ci sono diverse autobombe piazzate in città».
Il pensiero di Victoria corse subito alla bambina, ma Tony la rassicurò: «Natasha mi aveva avvisato che era al Waldorf con Zoey. L’ho chiamata e le ho detto di restare lì, non ci sono problemi in quella zona».
«Tony, dobbiamo avvisare quei ragazzi e farli andare via».
«Non possiamo farlo» intervenne Natasha. «Se si accorgono che stiamo facendo sfollare la gente manderanno l’impulso e faranno detonare gli ordigni che hanno già piazzato»
«Natasha ha ragione» confermò Tony. «E dato che una delle autobombe è a pochi metri da qui, anche se non sappiamo esattamente dove, prima ce ne andiamo e meglio è».
«Aspetta» disse Victoria. «Io so qual è l’auto».
«Cosa?»
Victoria si passò una mano fra i capelli, tirando indietro quella cascata di rame. «Per quello ho mandato via la bambina. Stamattina presto, quando sono arrivata qui con Ashley ho visto qualcuno scendere da un pickup nero con i finestrini oscurati. L’uomo che guidava aveva il viso sfregiato ed era completamente sudato. Si vedeva che era preda di una forte emozione».
Natasha estrasse dalla tasca uno smartphone. Digitò alcuni comandi finché apparvero le immagini satellitari della zona di fronte al museo.
«La macchina è questa?» chiese, girando il cellulare verso Victoria che annuì.
«Sì, è quella». Incrociò lo sguardo di Tony. «La tua mania per la sicurezza deve avermi contagiata perché il pensiero di quell’uomo non mi ha lasciata in pace finché non ho chiesto a Zoey di allontanarsi con Elizabeth».
La Romanoff si defilò, parlando concitatamente nel suo auricolare e Tony si rivolse di nuovo alla moglie: «Ora lascia che ti porti via di qui» ma già lei scuoteva la testa.
«Tony, se le cose volgessero al peggio, qui sarà un massacro. Se la bomba esplodesse, sarebbe il caos e qualcuno potrebbe farsi molto male» disse Victoria. «Dobbiamo fare qualcosa».
Natasha tornò da loro: «Fury vuole parlare con lei» disse a Tony.
«Gli dica che non ho tempo ora».
«Tony, per favore» pregò la Romanoff. «È importante che lei ascolti ciò che il direttore ha da dirle» disse, ma Tony la ignorò.
«Tony, abbiamo bisogno di lei» supplicò infine Natasha e Tony finalmente si girò.
«Ah sì? Beh, sarei stato più che disposto ad aiutarvi» borbottò Tony, «ma Fury si è giocato tutti i bonus quando si è rifiutato di allontanare la mia famiglia».
Tony si girò verso la moglie, sogghignando, ma diventò immediatamente serio quando vide l’espressione della donna, che lo stava fissando con le mani sui fianchi.
«Tu e Fury la dovete piantare di litigare come bambini dell’asilo. C’è un attacco in corso e se puoi dare una mano, lo devi fare» lo rimproverò. «Hai detto che il tuo compito è proteggere me ed Elizabeth: bene, fallo!»
«Lo farò una volta che ti avrò messa al sicuro» replicò lui, ma Victoria non era disposta a cedere così facilmente.
«Non sono una bambola di porcellana che tu puoi mettere al sicuro. Prima senti cosa vuole Fury, poi ne riparliamo» ribatté.
«Wow!» commentò sottovoce Natasha. «Si vede chi comanda a casa Stark».
«Tenga per sé i suoi commenti, Romanoff» brontolò l’uomo, «e mi passi Fury».
La donna nascose un mezzo sorriso e deviò la chiamata a Tony.
«Secondo te, se continuo a chiamarti quasi ininterrottamente da due ore, lo faccio per sentire la tua voce?» esordì il direttore dello S.H.I.E.L.D.
«Pensavo che volessi la ricetta della torta di mele di mia madre ma ne sono piuttosto geloso e non sapevo se dartela o meno».
Victoria chiuse gli occhi e scosse la testa: come facesse Tony a mantenere quella spavalderia in qualsiasi situazione le era assolutamente incomprensibile.
«Te l’ha mai detto nessuno che sei insopportabile quando fai così, Stark?»
«Che cosa vuoi, Nick?» tagliò corto Tony.
«Dì a Natasha che ti mostri il video che le ho appena mandato».
Tony lo guardò sul cellulare della donna.
«È stato ripreso dai nostri agenti. Tony, quella cosa è sotto lo Yankee Stadium».
Le immagini erano molto scure e l’uomo non riusciva a vedere bene, ma riprendevano una specie di congegno ad alta tecnologia. C’erano antenne e cavi e quello che Tony riconobbe essere un piccolo reattore Arc. La rivelazione lo sconvolse: quello era un progetto di suo padre. Com’era possibile che qualcun altro ne fosse entrato in possesso?
Non era piccolo come quello che lui aveva al centro del petto, ma nemmeno gigantesco come quello che alimentava le sue fabbriche di Los Angeles. Significava che qualcuno aveva studiato i disegni originali di suo padre e ci aveva lavorato su.
Sulla macchina era applicato un timer con i numeri in cifre digitali rosse.
«Fury, quello è un reattore Arc. Quando salterà, farà un rogo notevole». Le cifre digitali indicavano che mancava un’ora e dieci. «In un’ora è impossibile fare qualcosa».
«Le immagini non sono in diretta, Tony. Restano quarantacinque minuti» disse Fury.
«Vuoi dirmi che fra tre quarti d’ora avremo un’esplosione simultanea di un tot di reattori Arc?»
Tony aveva alzato la voce e Natasha gli fece cenno di abbassarla.
«No, gli altri ordigni che abbiamo rinvenuto sono diversi. Questo è unico nel suo genere, l’unico provvisto di reattore Arc, cosa che ci fa pensare che sia quello che comanda gli altri».
«E cosa credi che io possa fare in così poco tempo?»
«Se avessi risposto subito ne avresti avuto un po’ di più!» replicò piccato Fury. «Tony, tu sei l’unico che capisce quella tecnologia, devi almeno provarci. Se non lo farai, il lavoro di tuo padre sarà associato per sempre al disastro che seguirà».
Fury aveva ragione. L’Arc non era stato pensato per diventare un’arma. Se Tony non l’avesse fermato, New York sarebbe stata nuovamente devastata come nel 2001 e il terrore avrebbe vinto di nuovo. Non poteva permettere che la devastazione e la morte rimanessero legate al nome della sua famiglia più di quanto già non lo fossero.
«Va bene» capitolò infine. «Dì ai tuoi uomini di non toccare nulla, sto arrivando» disse, e chiuse. Poi tornò a guardare Victoria: «C’è una possibilità di poterli fermare, ma devo andare subito».
«Va bene, ma sta attento» disse lei e si alzò in punta di piedi per baciarlo, ma lui si ritrasse.
«Tu però devi promettermi che seguirai l’agente Romanoff e te ne andrai di qui al più presto possibile. Ashley saprà inventarsi una scusa per la tua scomparsa. Io ho bisogno di saperti al sicuro e lontana da qui» disse.
«D’accordo» rispose lei, ma Tony non era convinto.
«Promettilo» insistette e lei sorrise.
«Te lo prometto» mormorò e lo baciò. «Ora va’» disse poi.
Tony calò la maschera sul viso.
«La porti via» disse a Natasha e spiccò il volo.
Victoria rimase ad osservare le scie luminose dei repulsori che sparivano al di sopra degli alberi di Central Park.
«Sappiamo entrambe che non manterrà quella promessa» disse l’agente Romanoff. «E per questo Tony mi ucciderà». Poi sogghignò: «O, almeno, ci proverà».

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Capitolo 11
*** Pensavo fosse più facile fare l'eroe ***


Eccoci qui all'ultimo capitolo di questa fanfiction.
Tony sta di nuovo giocando a scacchi con la Morte... 
ma non voglio anticiparvi nulla.
Voglio ringraziare chi mi ha seguita fin qui
sperando che anche questo capitolo si meriti gli stessi
entustiastici commenti.
Buona lettura!


PS: le due parti finali, una sorta di scene post titoli di coda in stile Marvel,
sono tratte (e riadattate) dal film Iron Man 2

 

Ironman atterrò appena fuori dello stadio: dall’alto vide diversi agenti dello S.H.I.E.L.D., tutti in abito scuro e assolutamente marziali nel portamento. Uno di loro si fece avanti quando fu a terra: «Signor Stark, sono l’agente Derek Mallory».
Tony sollevò la visiera e lo salutò. Poi chiese di essere portato alla bomba. Mentre scendevano nei sotterranei fino a raggiungere il livello più basso del complesso – quello di servizio – Derek gli spiegò che avevano fatto evacuare tutti con la scusa di una fuga di gas, ma che non si erano azzardati a far sloggiare la gente in superficie, per timore di allarmare i terroristi che sicuramente erano in zona.
«E il motivo per cui una fuga di gas dovrebbe essere seguita dai federali è parso chiaro a tutti?» chiese Tony con sarcasmo.
«Dall’undici settembre chiunque a New York non fa domande quando è il momento di sgomberare» replicò l’agente.
Finalmente arrivarono alla stanza che conteneva la bomba. Era più grossa di quanto gli era sembrata nel filmato. Il display segnava che mancavano quaranta minuti all’esplosione.
«Con permesso» disse a Derek, avvicinandosi all’ordigno e calando di nuovo la maschera sul volto. «Cos’abbiamo, Jay?»
I dati iniziarono a comparire all’interno della visiera, scorrendo davanti a lui.
«Signore, si tratta di un ordigno molto ben costruito. Da quel che posso vedere, il detonatore è alimentato dal reattore Arc. Le antenne che vede sulla parte alta serviranno per lanciare l’impulso per far detonare le altre sparse in città. Poi il meccanismo di autodistruzione dell’Arc farà detonare questa bomba».
«Riesci a verificare dove sono piazzate le bombe seguendo le radiofrequenze?»
«Verifico, signore» disse Jarvis, mentre Tony si chinava per osservare il reattore.
«Jay, credi che potremmo riuscire ad interrompere l’alimentazione dell’Arc?»
Jarvis effettuò una breve simulazione che però diede esito negativo. «No, signore. L’interruzione provocherebbe l’esplosione».
«Possiamo spostarla?» domandò Tony. Sembrava piuttosto pesante, ma Ironman non avrebbe avuto problemi. L’avrebbe scaricata in mezzo all’Oceano Atlantico e tanti saluti.
«Ha un sensore di movimento, signore. Se proviamo a spostarla, esploderà».
«Secondo te c’è modo di creare un bypass?» provò Tony. «Lavoriamo a valle del reattore e togliamo l’alimentazione ai sensori che lanceranno l’impulso, così eviteremo di far detonare gli ordigni sparsi per New York. Poi cercheremo una soluzione per questo».
Jarvis eseguì velocemente alcuni calcoli. «Potrebbe funzionare, signore».
«Potrebbe?» commentò Tony. «Tutto qui quello che sai fare?»
«Signore, sto verificando i segnali radio dei trasponder delle bombe, sto cercando una soluzione per evitare l’esplosione dell’intero isolato, sto ancora eseguendo dei test sul nuovo reattore Arc che lei porta addosso… se vuole che io sia più accurato o più veloce dovrebbe potenziarmi».
«Jay, passi troppo tempo con mia moglie: stai diventando indisciplinato quanto lei» mormorò Tony.
«Signore, ci sono altri sette ordigni sparsi per la città. Con questo sono otto in tutto» disse Jarvis.
«Dai, mettiamoci al lavoro» replicò Tony: mancavano trentotto minuti all’esplosione.
Gli uomini dello S.H.I.E.L.D. avevano a disposizione attrezzature e strumenti, ma senza uno schema elettrico, Tony doveva affidarsi quasi del tutto a Jarvis. Isolò il primo circuito, che Jarvis gli disse essere quello che comandava la bomba piazzata a Liberty Island, in otto minuti.
«Mancano trenta minuti, signore» gli ricordò Jarvis. «Temo che debba velocizzarsi o, con questo ritmo, non riusciremo a finire in tempo».
«Grazie, Jay» borbottò lui con sarcasmo, dedicandosi a proseguire nel suo lavoro. I due circuiti successivi gli portarono via dieci minuti in tutto, segno che si stava velocizzando.
«Sì, signore. Ma ora mancano solo venti minuti».
«Senti, Jay: piantala di dirmelo, mi fai stare in ansia. Mettilo sul monitor e limitati ad avvisarmi quando mancheranno cinque minuti». Le cifre gli apparvero su un lato della visiera, prendendo a scorrere in un inesorabile countdown.
 Tony aveva già bypassato tre comandi, togliendo loro l’alimentazione del reattore Arc: ne restavano altri quattro e vi si dedicò con impegno, neutralizzandoli uno dopo l’altro. Quando ebbe finito, si raddrizzò. Il conto alla rovescia sulla visiera gli disse che gli restavano otto minuti per agire sul principale.
«Bene, Jarvis: spero che tu abbia fatto i compiti per casa».
«Signore, con i dati a mia disposizione, c’è solo uno scenario possibile: possiamo tentare di collegare il reattore della bomba al suo nuovo Arc. Allo scadere del tempo, l’impulso partirà ma invece di trasmettersi al detonatore, verrà assorbito e neutralizzato».
«Ehi, frena bello! Non mi piace il verbo che hai usato: tentare» obiettò Tony.
«Signore, questo è un vecchio reattore a palladio. Il nuovo pezzo toracico dovrebbe essere perfettamente in grado di assorbirne la forza».
Tony sbirciò l’indicatore dell’energia residua: nonostante il volo a velocità supersonica che gli aveva fatto attraversare gli Stati Uniti, era ancora ben al di sopra dell’80%, segno che il nuovo nucleo si consumava molto più lentamente del palladio. Era più stabile e meno imprevedibile e forse Jarvis aveva ragione: ma se così non fosse stato, di lui sarebbe rimasto ben poco.
Ma non aveva alternative. C’erano vite umane in ballo, vite che lui sapeva di dover proteggere. Anche se questo significava rischiare la propria.
Ogni giorno riceveva centinaia di messaggi, disegni di bambini che lo ritraevano nell’atto di sconfiggere orde di nemici, e tutte quelle manifestazioni gli dicevano una cosa soltanto: Tony, sei un eroe.
Bene, è il momento di meritarsi questo appellativo. Se le cose andranno male, mia figlia di certo sarà orgogliosa di me, quando glielo racconteranno.
Chiamò Fury: «Nick, le bombe sparse in città non sono più un problema. Ho bypassato il comando di innesco, quindi al momento sono innocue. Ma dì ai tuoi uomini di andarci cauti comunque quando le rimuoveranno».
«Sapevo che ci saresti riuscito, Tony». Il sollievo era evidente nella sua voce.
«Risparmiati le sviolinate, non sono tutte buone notizie» borbottò. «L’ordigno che ho davanti non è ancora disattivato e devi far allontanare i tuoi uomini».
«I miei uomini qui stimano che lo stadio potrà assorbire la maggior parte dell’esplosione: Tony, per me la missione è compiuta, quindi te ne devi andare anche tu».
«I tuoi uomini non hanno mai visto un’esplosione di questo tipo, Nick» confutò Tony. «Se esplode, qui sarà un macello, fidati». Tony fissò il countdown. «Mancano meno di sette minuti, non faremo in tempo ad evacuare tutti. Moriranno persone».
«Non puoi esserne certo. E comunque non c’è alternativa, Tony».
«No, l’alternativa c’è. Ma devi mandare via i tuoi e lasciarmi lavorare. Se tutto va secondo i miei calcoli, riuscirò a fermarla. Io non sono disposto a lasciare che quei bastardi vincano, e tu?» disse, lasciando in sospeso la domanda.
«Va bene. Tanto non riuscirei a farti cambiare idea qualsiasi cosa dicessi. Do ordine ai miei di andarsene».
«Grazie, Nick».
«Ehi, Tony» lo chiamò prima di riagganciare «fa’ attenzione, ok?»
«Non credere di potermi baciare, quando questa storia sarà finita» esclamò in tono gioviale e chiuse.
«Va bene, Jarvis. Diamoci una mossa».
I repulsori che aveva sui guanti funzionavano grazie al minireattore perciò tolse il sinistro e ne staccò l’alimentazione: avrebbe usato i cavi per collegarsi al reattore della bomba. Procedeva lentamente, attento a non interferire brutalmente con l’Arc.
«Signore, mancano tre minuti» lo informò Jarvis.
«Sto facendo più in fretta che posso, ma non è così semplice: non ho costruito io questo mostro».
«Settantacinque secondi» avvisò di nuovo Jarvis.
«E sia, più pronti di così non lo saremo mai» mormorò Tony, ordinando a Jarvis di chiudere di nuovo il guanto. La parte da cui usciva il cavo rimase aperta, mostrando la pelle dell’avambraccio.
«Quaranta secondi».
«Jay, sono quasi sicuro che ce la faremo, ma se le cose non andassero come abbiamo previsto, tu sai cosa fare con Victoria ed Elizabeth, vero?».
«Sì, signore» replicò la voce del computer, dopo una leggera esitazione.
Mancavano trenta secondi all’esplosione. Tony sapeva di aver fatto tutto ciò che poteva, ma non aveva avuto abbastanza tempo per testare il nuovo minireattore quindi c’era incertezza e lui non era abituato a quella sensazione.
Aveva rischiato di morire proprio nel momento in cui la sua vita aveva assunto un significato: c’era Victoria che lo amava in un modo che lui era certo di non meritare. E c’era Elizabeth: quando aveva preso in braccio sua figlia aveva capito di avere uno scopo, una direzione. Per lei valeva davvero la pena di continuare a lottare, per creare un mondo più sicuro dove lei potesse crescere.
L’aveva fatto senza risparmiarsi, mettendo ancor più a repentaglio la sua vita. E senza quel messaggio dall’aldilà, senza l’eredità di suo padre, non avrebbe mai potuto scoprire quel nuovo elemento che ora brillava al centro del suo petto e che gli stava ridando la vita.
Vita che ora stava di nuovo rimettendo in gioco.
«Quindici secondi, signore».
«Chi l’avrebbe mai detto, eh Jarvis?» mormorò Tony. «Il mercante di morte che salva New York da una nuova ondata di terrore».
«Dieci secondi, signore»
Jarvis iniziò il conto alla rovescia e Tony chiuse gli occhi e chinò il capo. Le immagini presero a scorrere disordinatamente davanti ai suoi occhi.
Sua madre che gli accarezzava il viso il giorno in cui poi era rimasta uccisa nell’incidente, Pepper il giorno del colloquio con cui lui aveva deciso di assumerla come sua assistente, Rhodey che si arrabbiava con lui perché non si era presentato a ritirare il premio Apogeo.
«Tre».
Sempre ad occhi chiusi, sollevò il capo. Ed eccoli, il viso amato di Victoria e quello di sua figlia, che gli strapparono un mezzo sorriso.
«Due».
E infine, per ultimo, suo padre che lo guardava con tenerezza: «Quello che ora è e resterà sempre la mia più grande creazione… sei tu».
«Uno».
Tony spalancò gli occhi e il tempo parve rallentare. Vide il reattore che aveva scollegato dall’ordigno diventare brillante e iniziare la sua cataclismica reazione. L’energia che doveva servire da impulso all’esplosione saettò lungo il cavo teso fra sé e quella macchina di morte come un grottesco cordone ombelicale.
E poi l’avvertì, al centro del petto, possente come un colpo d’ariete, tanto che indietreggiò di mezzo passo. Immediata, sentì la reazione del nuovo Arc. Così come aveva bruciato ogni residuo di veleno nel suo sangue quando l’aveva posizionato la prima volta, il nuovo elemento bruciò l’energia repulsor generata dal palladio.
La luce che scaturiva dal minireattore che aveva addosso divenne accecante, mentre Tony sentiva che diveniva sempre più caldo. Pensò che fosse la fine perché non era possibile contrastare a lungo quella fonte di potenza.
Poi, improvvisamente, una scarica di energia partì dal minireattore, respingendo senza sforzo quella ben più debole del palladio. Non credeva possibile che la temperatura che leggeva sul display potesse essere veritiera, ma quando sentì la pelle lasciata esposta sul braccio sinistro ustionarsi, capì che lo era.
Non lo credeva possibile ma la luce e il calore aumentarono ancora.
Ci fu un boato e l’onda d’urto lo mandò a sbattere contro il muro di cemento alle sue spalle, strappando i cavi e sgravandolo da quel feto indesiderato.
Pensavo fosse più facile fare l’eroe, fu il suo ultimo pensiero, prima che un ovattato oblio scendesse su di lui.

* * *

Tony sedeva davanti ad una scrivania con il piano di acciaio. Attorno a lui degli schermi virtuali mostravano le immagini del giorno: l’attacco a New York sventato dal grande Ironman stava riempiendo tutti i telegiornali.
I giornalisti parlavano di un solo ordigno, quello dello Yankee Stadium. Non avrebbero mai saputo che ce n’erano altri sette disseminati per la città perché lo S.H.I.E.L.D. era intervenuto, facendo un’accurata pulizia.
Tony si era preso la sua parte di gloria che aveva quasi pagato con la vita. Il suo minireattore aveva vinto e lui se l’era cavata con un’ustione sul braccio che sarebbe guarita perfettamente e qualche livido. Ma era vivo e stava benissimo.
Il momento in cui aveva potuto riabbracciare la sua famiglia era stato impagabile, forse il momento più bello della sua vita. Meno bello era stato il dover spiegare a Victoria la devastazione della Villa, ma ormai anche quello era acqua passata. In fondo era molto più grave il fatto che lei non si fosse allontanata da Central Park quando lui gliel’aveva ordinato. Avevano deciso insieme di mettere una pietra su tutto, ritornando pian piano alla loro vita normale, se di vita normale si poteva parlare.
Era stato convocato da Fury in quel magazzino semiabbandonato quella mattina, con un semplice sms. Aveva pensato di non andare – non corro a riprendergli il bastoncino ogni volta che lui me lo lancia, aveva commentato del messaggio di Fury – ma poi la curiosità aveva vinto.
Sul tavolo c’erano due dossier. Ne prese uno e lo girò verso di sé. La copertina recava il titolo “Progetto Vendicatori – Rapporto Preliminare”. Fury gliene aveva già parlato una volta, accennando al fatto che lui non era l’unico supereroe in circolazione.
Stava per aprire la cartellina per sbirciarne il contenuto quando Nick apparve dal nulla e lo bloccò.
«Non c’è bisogno che tu lo legga» disse, sedendosi sulla poltrona davanti a lui, dall’altro lato del tavolo. «Credo che non sia più di tua pertinenza».
Se non è di pertinenza di chi ha appena salvato New York, di chi dovrebbe esserlo? pensò, ma ebbe il buonsenso di tacere.
Fury afferrò la seconda cartellina. «D’altronde vedi, questa è la valutazione che l’agente Romanoff ha redatto su di te» disse, porgendogliela. «Leggila» ordinò e Tony aprì il dossier.
«Scheda della personalità» iniziò. «Il signor Stark rivela una condotta compulsiva».
Alzò gli occhi verso Fury che lo stava osservando.
«Dai però: questo accadeva la settimana scorsa» commentò.
Fury non mostrò reazioni, sicché proseguì: «Presenta forti tendenze autodistruttive!?» lesse in tono meravigliato. «Stavo morendo!» commentò. «Dai, per favore. E poi, chi non ne ha?»
Di nuovo Fury non replicò e Tony abbassò di nuovo gli occhi per leggere: «Autocompiacimento… da manuale!?».
Alzò lo sguardo come a voler obiettare qualcosa e vide la faccia di Fury.
«Concordo» esclamò.
Era finalmente arrivato alla fine del dossier: «Va bene, eccolo qui. Valutazione reclutamento Progetto Vendicatori: Ironman sì. Ci voglio pensare un po’» concluse frettolosamente chiudendo la cartelletta, ma Fury non era disposto a cedere così facilmente.
«Continua a leggere» comandò.
Ed eccola lì, l’ultima frase che lui aveva volutamente fatto finta di non vedere: «Tony Stark non… non consigliato­!?»
Fury non disse nulla.
«Ma non ha nessun senso» protestò Tony. «Come fate ad approvare me, senza approvare me?»
Nick si appoggiò allo schienale, guardando in su per evitare di incrociare il suo sguardo.
«Ho anche un nuovo cuore» aggiunse Tony, riferendosi al nuovo reattore Arc. Fury si alzò, aggirò il tavolo e si fermò davanti a Tony, appoggiandosi alla scrivania.
«Sto cercando di essere un buon marito e… un buon padre per Lizzy» disse, con voce sempre più spezzata. L’espressione di Fury non era un grande incentivo a proseguire.
Finalmente, l’uomo parlò: «Il che ci fa ritenere che sarà meglio utilizzarti solo come consulente, in questa circostanza» disse.
Tony rimase un attimo in silenzio. Poi si alzò lentamente in piedi e gli tese la mano. Fury gliela strinse e lui la coprì con l’altra: «Sono troppo caro» mormorò con un sorrisetto.
Girò sui tacchi e fece per andarsene ma fatti un paio di passi si bloccò.
«Ah, pensandoci bene, posso rinunciare al mio acconto sull’ingaggio in cambio di un piccolo favore».
Fury lo guardava come se avesse paura di ciò che avrebbe chiesto sicché Tony si sentì in dovere di proseguire: «Riceverò un’onorificenza a Washington e vorrei un presentatore».
L’altro capì immediatamente. «Vedo che posso fare» disse. Poi si alzò e se ne andò.

 * * *
 
Il senatore Stern indossava un completo blu e se ne stava impettito sul podio, di fronte ad una foresta di microfoni.
«È un mio grande onore essere qui oggi per offrire questa illustre onorificenza al signor Tony Stark che è naturalmente un patrimonio nazionale» disse e Victoria, in mezzo al pubblico con la bambina in braccio, ebbe l’impressione che avrebbe preferito strozzarsi piuttosto che pronunciare quelle parole.
L’espressione di Tony rimase celata dagli occhiali da sole, ma lei vide un sogghigno incurvargli le labbra.
Stern lasciò il podio e afferrò la medaglia che un graduato gli porgeva. Si avvicinò a Tony che se ne stava ritto e impeccabile nel suo completo grigio.
«Signor Stark, la ringrazio per la sua impresa eccezionalmente epica. Se l’è meritata» disse. Infilò la spilla sul bavero della giacca di Tony fissandolo negli occhi e affondando volutamente l’ago. Tony trasalì quando avvertì la puntura.
«Oh» fece il senatore con finta costernazione, «una misera spilletta». La sistemò sulla giacca di Tony: «Il male si nasconde in ciò che è misero, vero?»
«Facciamo una foto» disse poi, affiancandolo e mettendogli un braccio intorno alle spalle.
Tony, assolutamente a proprio agio, sorrise ai fotografi, alzando il braccio destro con le dita allargate nel segno della vittoria.
Victoria lo guardava: era praticamente impossibile non restare affascinati dalla sua personalità e dal suo modo di fare ed era così facile credere che lui fosse invincibile e avesse il mondo in mano. Ma era solo un uomo e all’improvviso la donna avvertì un brivido lungo la schiena: non era ancora finita. C’era qualcos’altro in agguato e, d’istinto, strinse di più la bambina.
Poi il momento passò e lei tornò a guardare suo marito che le sorrise e soffiò un bacio invisibile nella sua direzione.
Qualsiasi cosa sia, quella che ci minaccia, non riuscirà a prevalere su di lui.

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