China Town

di finnicksahero
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fiori di pesco. ***
Capitolo 2: *** Rosso ***
Capitolo 3: *** Giorno. ***
Capitolo 4: *** Gabbia. ***
Capitolo 5: *** Toccarsi. ***
Capitolo 6: *** Fuggire. ***



Capitolo 1
*** Fiori di pesco. ***


Capitolo uno.
 
Il giorno arrivò lentamente quella mattina, il sole sembrava non volersi alzare, era pigro come molte persone di questa città. Mi affacciai alla finestra afflosciandomi sul davanzale, con altezzosità guardai il panorama, quella distesa di tetti grigi ai timidi raggi del sole coperti da nuvole come a volerlo proteggere da quella giornata. Faceva freddo nonostante fosse giugno, quindi, dopo essermi lavata indossati un maglioncino color fiore di pesco. Adoravo quella tonalità di rosa, mi faceva sentire cullata e coccolata come una bimba in fasce. 

Scesi in cucina dalla mia famiglia. Le loro facce grigie rappresentavano l’umore generale della nostra città. Riuscivo a percepire la tristezza, inondava la stanza come un velo da sposa, comprendo i loro veri volti e i loro cuori capaci di provare una felicità pura pari solo a quella di un bambino che sente per la prima volta la brezza del mare sulla propria pelle. 

Feci per aprire bocca ma il mio maglione parlò per me, i loro occhi vacui si impigliarono come ami nei miei, non seppi più cosa fare, ero in una gabbia che diventava minuto per minuto sempre più grigia e vuota. Non volevo sentirmi così. Io ero il colore in mezzo a questa nube senza anima che era la mia città. 

Odiavo sentirmi osservata e soprattutto giudicata. La mia famiglia composta da due sorelle e una madre sembrò animarsi alla vista di quel colore proibito, erano pronte a denunciarmi  alle autorità. 

-No vi prego- mormorai quando  vidi mia madre prendere il telefono e cominciare a comporre il numero della polizia. Tutto tacque si sentiva solo il telefono squillare. Piansi silenziosamente. Sapevo a cosa andavo incontro lo vedevo di continuo. Giovani come me che venivano denunciate e portate via per essere forgiate ed omologate al resto della città. 

Mia madre non parlò nemmeno, loro sapevano già cosa fare. 

Vennero a prendermi e mi trascinarono via di forza mentre con indifferenza i miei vicini mi guardavano dalle loro case. Sembrava che il sole si beffasse di quella scena perché un raggio mi illuminò e il rosa che indossavo risplendeva in quel grigiore. 

Sapevo di aver sbagliato ad indossare quel maglione colorato.

Le regole erano chiare a China Town. 

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Capitolo 2
*** Rosso ***


Capitolo due.
 
Mi portarono in una cella, grigia, spenta e buia; non si riusciva a vedere il sole da dove ero io. Intorno a me c’erano tutti i tipi di criminali. Da chi aveva rubato per sopravvivere, a chi come me aveva semplicemente provato a portare il colore in quella città.

Il motivo per cui erano proibiti, i colori, era complicato ed era estremamente segreto. Io avevo indagato e quasi non mi avevano arrestato. Risi fra me e me, tanto valeva andare infondo visto che il risultato non era cambiato poi tanto. Presi un respiro profondo mentre mi sedetti su quello che sarebbe stato il letto per le prossime due settimane, sentii l’odore di sudore misto ad altro che emanava quel posto.

Feci una smorfia e mi sdraiai pensando a tutte le cose belle e colorate della mia vita, ai fiori che nascevano nascosti da tutti in un prato lontano dalla città, ai miei maglioni proibiti che in quel momento molto probabilmente venivano bruciati o sequestrati. In tutti i casi distrutti.

Mi passai una mano tra i capelli erano stati fatti grigi alla nascita. Non sapevo qual’era il mio vero colore e forse non l’avrei mai saputo. Tirai fuori dalla tasca uno specchietto e mi guardai la faccia, il trucco leggero era colato per via delle mie lacrime, i miei occhi verdi erano l’unica cosa colorata che era permessa. Presi una coperta e mi coricai, dando le spalle alla porta, in un attimo, non sapendo che fare, mi appisolai.

Venni svegliata da un grido, mi tirai su quando aprirono la porta, la luce del tramonto mi coprii gli occhi. Da quanto tempo ero lì dentro e quanto avevo dormito? Sentii una morsa allo stomaco, sicuramente avevo perso il pranzo. Mi sedetti sul letto  e silenziosamente mi affacciai per vedere meglio cosa stava succedendo. La realtà si faceva strada nella mia mente, il giorno dopo avrebbero iniziato la formazione della mia mente, per eliminare i pensieri contro corrente. Mi avrebbero derubato della mia identità, una lacrima mi scivolò sulla guancia portando via un po’ di trucco.

-Lasciatemi schifosi- urlò una voce maschile, in controluce riconobbi la forma di un ragazzo, aveva i capelli lunghi e un fisico atletico. Lo buttarono nella cella accanto alla mia dopo avergli tolto le manette . Riuscii a vedere la sua maglia rossa e mi venne da sorridere, quel colore era bellissimo. Sputò contro le guardie e loro impassibili chiusero la porta in faccia a lui. Le celle erano aperte quindi riuscivamo a vederci gli uni con gli altri.Si voltò verso di me e vidi il mio maglione rosa, mi fece un sorriso e poi si alzò.

-Piacere, Jordan- disse ad alta voce, dal letto annui e feci ciao con la mano, era un bel ragazzo nel complesso, aveva il naso grande e storto e la mascella squadrata, il corpo era atletico e asciutto. Lo squadrai e poi ricambiai il sorriso.

-Jules- dissi, il ragazzo dalla maglia rossa si sdraiò sul suo letto e sbuffò, ridendo, sembrava irrequieto, forse aveva paura ma non lo dava a vedere. Dopotutto sapevamo entrambi che stavamo per perdere la nostra personalità.

Rimanemmo delle ore in silenzio, si sentivano solo i singhiozzi dei carcerati, la maggior parte della stanza era al buio e non mi sentii al sicuro. Ero una donna e forse accanto a me c’erano decine di uomini. Mi strinsi nel mio maglione e mi coprii pure con la coperta, adesso capivo l’odore di sudore che avevo sentito. Era impossibile lavarsi in quel posto, soprattutto se eri una donna. Mi portarono la cena e la mangiai con gran gusto, dopotutto era un giorno intero che non toccavo cibo.

Mi misi a letto appena ebbi finito di mangiare, notai che Jordan mi guardava sorridendo. Nascosi il viso nella coperta e mi addormentai cadendo in un sonno profondo.

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Capitolo 3
*** Giorno. ***


 
Capitolo tre.


 
Venni svegliata dalle sirene, mi tirai su di scatto, quasi cacciai un urlo. Non sapevo che ore erano, quanto avevo dormito, puzzavo da fare schifo, e sicuramente il mio aspetto non era migliore avendo dormito male e dovevo essere completamente arruffata. Accesero le luci e vidi che la stanza era molto più grandi di quello che pensavo e che purtroppo avevo ragione: c’erano tantissimi uomini e da quel che vedevo ero l’unica donna. Non avrei potuto spogliarmi, non lì.

Arrivarono le guardie, come automi si fermarono davanti ad ogni cella e diedero a tutti una divisa, per alcuni era un cambio, per altri qualcosa di nuovo. Appoggiarono anche un vassoio con del pane e del latte. La colazione.

Arrivarono davanti alla mia cella, notai che Jordan mi fissava, presi la mia divisa e guardai in faccia il mio aguzzino, i suoi occhi erano vigili e costanti, di un nero quasi oscuro. Rimase ferma con quei vestiti tra le mani, aspettai che mi desse la colazione. Ma rimaneva fermo con in mano il mio vassoio.

-Si cambi e avrà la sua razione- commentò vedendo  il mio sguardo confuso. Diventai paonazza e mi sentii gli occhi di tutti addosso, forse perché era così. Tutti bramavano la mia carne, di avvistare un pezzetto di coscia, di spalla o addirittura, i più avidi, speravano di vedermi il seno.

-Non posso- dissi, lui puntò i suoi occhi nei miei, appoggiò a terra il mio vassoio ed entrò nella mia cella a grandi passi, indietreggiai spaventata, fino a trovarmi con le spalle al muro. Non vidi nemmeno la sua mano partire, sentii soltanto il dolore e il bruciore che aveva lasciato sul mio volto, mi si riempirono gli occhi di lacrime e il viso si arrossò in modo sospetto.

Jordan nella cella affianco rimase senza parole, sbiancò e poi diventò rosso, la sua rabbia esplose, come una bomba non disinnescata. Era pronto e fare cento vittime e non gli importava di altro.

-Non vi fate schifo?- chiese urlando, la guardia nemmeno si girò, continuava a fissarmi mentre io mi facevo sempre più piccola e strisciavo verso la divisa, senza fiatare, lo sguardo del mio aguzzino mi seguiva con  ferocia –Porci, avete picchiato una ragazza, fatevi schifo- gridò, ma il rumore di uno schiaffò mi fece voltare verso di lui, avevo gli occhi pieni di gratitudine. Lui sputò a terra e si mise seduto sul letto mentre la sua guardia usciva dalla cella.

Iniziai a togliermi il maglione, Jordan distolse lo sguardo e gliene fui grata, sentivo le lacrime pungermi il viso , gli schiamazzi e gli ululati degli uomini mi ferivano le orecchie. Continuai a togliermi i vestiti. Mi dissero di toglierei anche la biancheria, me l’avevano fornita loro. Me l’avrebbero fornita ogni giorno. Dovevo vivere quella sensazione ogni giorno. Singhiozzai e cercai di fare più velocemente possibile. Ma ogni movimento era motivo di agitazione per gli uomini.

Quando ebbi finito, feci un fischio e Jordan si voltò verso di me, vidi nel suo viso il mio, arrossato e gonfio.  Gli sorrisi amaramente e lui ricambiò, la bellezza che gli avevano donato non l’aveva abbandonato neanche adesso, sperai che anche a me fosse concesso questo privilegio.

-Grazie- gli dissi solamente, lui abbassò la testa sorridendo e scuotendola, quando si tirò su aveva gli occhi intrisi di lacrime. Entrambi ci mettemmo a letto guardandoci negli occhi. Quello era solo l’inizio.

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Capitolo 4
*** Gabbia. ***


Capitolo quattro.


Vennero a prendermi nel pomeriggio, mi feci piccola e cercai di aggrapparmi alle sbarre, ma non servii a nulla, mi presero di peso e mi portarono via.

Mi ritrovai in una stanza, bianca e candida c’era una finestra aperta, entrava l’aria calda di giugno, sentivo gli uccellini cinguettare. Non entrò nessuno per un po’, lasciandomi sola in quel posto così caldo e freddo allo stesso tempo. Avevo provato a muovermi ma ero immobilizzata, sia le braccia che le gambe. Non feci nulla, non gridai, non volli perdere la voce per nulla, avrei avuto motivo di utilizzarla dopo, lo sapevo e lo intuivo vedendo tutti quegli strumenti sul tavolino sterile accanto a me.
Sudavo freddo e il sudore mi si ghiacciava addosso per via del vento che entrava da quella maledetta finestra, qualunque fosse stato l’uccellino che cantava, aveva smesso. Lasciandomi da sola in quel silenzio così rumoroso, era così affollato per via dei miei pensieri che non mi lasciavano sola. Pensavo a cosa mi avrebbero fatto, se fosse stato doloroso oppure se semplicemente mi avrebbero fatto il lavaggio del cervello. Facendomi dimenticare tutti i colori, cambiando il mio modo di vedere il mondo, così bello, profumato e soprattutto colorato.

Partii una musica, era soltanto strumentale, un violino leggero accompagnava perfettamente l’ansia che metteva quella stanza. Il cuore aumentò i suoi battiti, la sudorazione riprese più forte di prima, puzzavo già da schifo, non potevo peggiorare la situazione.

Entrò un uomo vestito talmente tanto da non riuscire  a vedere nient’altro che  gli occhi, erano verdi come i miei. Quasi mi venne da sorridere, da quel minimo dettaglio mi sembrò giovane. Pensai che forse mi avrebbe risparmiato. Ma sicuramente mi sbagliavo. Nessuno di loro aveva un briciolo di empatia, o amore per il prossimo. Pensavano solo a rendere tutto perfetto e a far si che il nostro re fosse felice. Ingoiai la saliva, nervosamente.

-Stai tranquilla- sussurrò, accarezzandomi i capelli con i suoi guanti. Me li tirò e chiusi gli occhi dal dolore, non avrei mai versato un’altra lacrima dinanzi a loro. Non più. Prese a controllare gli attrezzi, dandomi le spalle, sollevò  una siringa piena di uno strano liquido bluastro la posò subito però. La gola mi diventò secca.  Non ebbi la possibilità di parlare perché lui si voltò verso di me, dai suoi occhi sembrava sorridere.

Si voltò nuovamente, questa volta guardai il tavolino, tanti attrezzi argentati luccicavo a quella luce fredda,  mi bagnai le labbra con la lingua. Alzò un una specie di trapano. Poi si voltò verso di me, iniziai a scuotere la testa. Serrando la bocca. Si avvicinò a me, piegandosi in avanti. Lo guardai dritto negli occhi e lo pregai in silenzio di non farlo. Lui mi accarezzò nuovamente i capelli. E prese a fare il suo lavoro, intagliò un pezzo del mio braccio.

Il dolore era lancinante perciò cominciai a gridare e da qualche parte, poco lontano, un uccellino riprese il suo canto.

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Capitolo 5
*** Toccarsi. ***


Capitolo cinque


I giorni passavano, debolmente. Tutte le mattine partivano con un allarme, un cambio di vestiti e occhi indiscreti, l’unica nota positiva era Jordan, quando tornavo dalle torture, mi parlava, mi raccontava storie di arcobaleni e giornate di pioggia. Ma quando toccava a lui il silenzio diventava pesante e quando faceva ritorno dovevo essere io a parlare. Il problema era che non avevo storie così belle da raccontare, quindi parlavo, di casa, delle mie sorelle. Sentivo il cuore strapparsi in mille pezzi  parlando di loro.

-Jules- chiamò una voce amica, un giorno non troppo lontano dalla prima tortura, era  un suono dolce e armonioso. Sdraiata nel mio letto, in quel luogo affollato e puzzolente, quella voce era quasi come sentire un l’odore di primavera nell’aria. Non mi voltai però, sapevo che se mi fossi voltata avrei visto il volto tumefatto di Jordan.
-Dimmi – sussurrai, sperando che potesse udire il suono fioco della mia voce, ma ci riuscii, ascoltai il suo strisciare piano verso di me, non potei fare a meno di voltarmi. Jordan con il viso ancora illeso sorrideva, riuscivo a scorgere il sudore sulla sua fronte, lo imperlava come una cornice. Mi concessi di pensare a lui come a un bel ragazzo. Ricambiai il sorriso, scesi dal letto piano e mi sedetti di fronte a Jordan.

Allungò una mano e mi toccò una guancia livida, facendomi sobbalzare per il dolore, la ritrasse immediatamente e senza ogni preavviso, rise, lo fece come se avessi detto la cosa più divertente del mondo. Sorprendentemente mi ritrovai a ridere, con le costole che mi dolevano e il viso contuso. Non avevo il coraggio di guardarmi allo specchio, perché vedermi così brutta mi faceva male.

-Parliamo- mormorò, appoggiando la sua fronte alle sbarre, riuscivo a leggere le sue emozioni: aveva paura di perdere la vita e la propria identità, era arrabbiato ma soprattutto sembrava disperato. Forse stava funzionando la terapia su di lui. Io non vedevo differenza.

Iniziammo a chiacchierare e ogni tanto scappava anche una risata, che riecheggiava in quell’ambiente cupo, dandogli un’aria ancora più spettrale.  Quando me ne accorsi, c’era un gran silenzio, tutti pendevano dalle nostre labbra, come se potessimo addolcirgli la pena, le nostri voci rauche erano le cose più belle che sentissero da mesi o forse da anni; erano come il canto di una madre, dolce e pieno di calore.

Continuai a parlare con un certo imbarazzo, essere ascoltati da chissà quante persone, non mi piaceva, soprattutto perché la conversazione stava prendendo una piega piuttosto personale, mi stava raccontando con estrema fiducia di casa sua, delle occhiatacce che mandavano vedendolo sorridente per strada, di come suo padre, scoprendo i suoi vestiti, l’aveva denunciato. Con questo particolare la sua voce si incrinò il sorriso prima acceso si spense piano, i suoi occhi si persero in un pensiero più profondo del mare.
Allungai una mano e toccai la sua guancia, il tocco di un altro essere umano dopo settimane mi fece sobbalzare, il calore di un uomo mi riempii di una felicità insana, sorrisi lasciando che le lacrime mi riempissero gli occhi. Quando lui afferrò la mia mano, mi venne da ridere, lui sorrideva vedendomi  così ingenua e felice.

Quando ritirai la mano la strinsi al petto, Jordan sembrava felice quanto me, d’un tratto si fece serio, vedendo quel suo cambiamento d’umore feci uno sguardo confuso, che lo fece sorridere in mezzo all’ira. Prese con entrambi le mani il mio viso e piantò i suoi occhi nei miei. Le lacrime raggiunsero anche i suoi occhi. Creando una patina tra lui e il mondo reale. Sorrise per poi bagnarsi le labbra con la lingua e pronunciò una frase che mi fece rizzare tutti i peli del corpo, risi come una matta per la follia di quello che mi aveva detto, scossi la testa. Disse nuovamente quella frase:

-Ti farò uscire da qui.

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Capitolo 6
*** Fuggire. ***


Capitolo sei.


 
Giorni su giorni, settimane su settimane. Ma non cambiava niente, mi sentivo sempre me stessa. Guardando allo specchio, notavo le occhiaie che circondavano i miei occhi pesti.  La mia bellezza  basilare stava sparendo, diventavo smunta e i vestiti ogni giorni mi stavano più larghi. Mi ritrovavo a piangere, di notte, quando nessuno poteva vedermi, nessuno tranne Jordan, attraverso le lacrime scorgevo la sua figura, seduta sul suo letto, forse piangeva anche lui. La notte eravamo tutti più fragili. Avevo notato che molti in quell’oscurità  si toglievano la vita.

Molto spesso nel buio più totale, si riusciva a procurarsi della droga, mi era stata offerta da una delle poche donne incarcerate, che si trovava alla mia sinistra, nella cella accanto alla mia. Aveva detto che mi avrebbe aiutata a sopportare quello che mi faceva; avevo rifiutato. Qualsiasi cosa stavano facendo non funzionava e non volevo che fosse quello schifo a togliermi la mia identità, trasformandomi in un mostro senz’anima.

Dopo quasi due mesi di permanenza e percosse, successe l’incredibile. Avevo notato che Jordan era più irrequieto del solito, avevamo parlato, ma sembrava come fuori di testa. Pensai che avesse fatto uso di quella sostanza bianca che girava per la prigione, invece mi rassicurò, lo fece accarezzandomi i capelli, cosa che mi fece chiudere gli occhi e immaginare di essere fuori, sotto al sole, con l’estate che avanzava; anche lui era dimagrito molto, lo notai dalle sue mani e dalle sue braccia, molto più sottili dei primi giorni di reclusione.

Quando feci per riposare, quel giorno, scattò una sirena diversa dalle altre, la stanza si illuminò di un blu elettrico, la luce era intermittente, mi ero tirata su di scatto e raggomitolata in un angolo, la paura era tanta. Sentivo le grida di alcuni, e vidi i cadaveri di altri. Anche se era impossibile, sentivo l’odore della morte che si disperdeva nell’aria, gridai immaginando che si avvinasse a me, nella sua veste nera.

-Jules!- gridò Jordan, mi voltai verso di lui, era attaccato alle sbarre come se avesse voluto correre da me e stava quasi ridendo. Era forse impazzito? Non c’era niente di divertente in quella situazione. –Alzati! Sono venuti a prenderci- urlò, non riuscivo a comprendere  le sue parole, ma la speranza si insinuò in me e strisciando mi avvicinai a lui, alzandomi grazie all’aiuto di quei pali metallici che ci dividevano.

Mi prese fra le braccia, per quanto fosse possibile, riuscivo a scorgere, in quel bagliore blu, il suo sorriso e le lacrime che gli scivolavano lungo il viso. Quando entrarono degli uomini vestiti di nero lanciai u bn grido e Jordan si sbracciò, pensai che fosse pazzo. Ma non lo fermai, sperai che avesse ragione, avevo bisogno di sentire la natura sulla mia pelle e i venti che mi scompigliavano i capelli.

Corsero da noi e aprirono le nostre celle, Jordan venne prelevato per primo poi prendendomi per mano mi fece uscire, a piccoli passi, era la prima volta che riuscivamo a stare così vicini senza sbarre. Mi attaccai al suo braccio mentre corremmo, questi uomini ci coprivano dalla polizia. Andammo così veloci da non voltarci mai indietro, lasciandoci tutto alle spalle.

Quando fummo fuori ci caricarono in un furgone che partii velocemente, senza neanche lasciarmi il tempo di capire che ore erano.  Riconobbi su quel rimorchio gli occhi del mio aguzzino e gridai, lui si tolse il passamontagna dal viso e vidi che era preoccupato. Si presentò, si chiamava Kyle e si scusò di avermi fatto male, baciandomi la mano come un uomo di altri tempo.

Spiegò che ci avrebbero portati  alla loro base, che erano disertori del re, che come noi riuscivano a vedere i colori. Insieme avremmo fatto in modo che l’intera città li avrebbe rivisti. Senza rendermene conto mi ritrovai a ridere. Come non facevo da anni, fino alle lacrime, Jordan accanto a me mi diede corda e rise con me.

-Abbiamo bisogno di voi- aggiunse Kyle, guardandomi dritta negli occhi, il suo viso era molto bello e giovane, non poteva avere più di ventidue anni, -Voi siete la chiave-

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